Lo svizzero Hans Bernoulli (1876-1959) - architetto, urbanista, docente, politico, umanista e poeta - è stato un maestro indiscusso per quanti tra gli anni 50 e i 70 si confrontavano con i problemi della città. Nel suo “La città e il suolo urbano” (a suo tempo famoso e oggi riedito), ripercorre le alterne vicende della proprietà dei terreni dal primo Medio Evo ai suoi tempi. Edoardo Salzano nella prefazione alla nuova edizione riprende il tema, lo porta avanti fino a oggi e lo proietta verso il domani. Ne parlo perché condivido con loro la convinzione che stia ancora lì uno dei nostri maggiori problemi.
Bernoulli ricorda che la proprietà delle terre apparteneva in origine al signore feudale, che dava in concessione i singoli appezzamenti ai suoi sudditi perché le coltivassero e ci si costruissero sopra le case, e che decideva il disegno originario dei nuovi abitati da cui ebbe poi origine l’“Europa dei Comuni”. Attraverso i secoli le situazioni si sono ovviamente differenziate. Il punto di svolta arrivò con la rivoluzione francese che - nell’abolire la proprietà fondiaria insieme agli altri privilegi di nobili e clero - non si curò di riportare i terreni a forme di proprietà comunale ma ne fece beni da dare in possesso diretto ai singoli cittadini.
Da questa privatizzazione frazionata dei suoli sono derivati via via quei processi di speculazione venale che hanno così negativamente influenzato le nuove espansioni urbane, ostacolandone tra l’altro disegni ispirati a concezioni unitarie. Da lì le reazioni sporadiche intese a orientare le nuove edificazioni verso terreni di proprietà comunale per recuperarne il controllo (vedi l’esperienza delle città-giardino agli inizi del XX Secolo). Ma sono state eccezioni. Di norma - e nelle condizioni italiane in particolare, e soprattutto dagli anni 50 del secolo scorso in avanti - è stata in larga misura la speculazione sulle aree a determinare gli sviluppi caotici di tante città.
Il liberal-socialista Bernoulli era un convinto sostenitore della necessità che la proprietà dei terreni tornasse in mano pubblica così da poter mantenere il controllo sugli sviluppi urbani futuri, e che essi dovessero poi esser ceduti in uso ai cittadini (suo lo slogan «il suolo alla collettività, le case ai privati») attraverso il “diritto di superficie”: forma di concessione che riserva al Comune il diritto di rientrare in possesso dei suoli a scadenze prestabilite (99 anni secondo la prassi britannica) incluse le costruzioni tirate su nel frattempo dai concessionari, da indennizzare tenendo conto del relativo degrado.
Posizioni, a rifletterci, più avanzate rispetto alle sinistre attuali... E venendo all’Italia: la nostra Costituzione (art.42) prevede l’esproprio dei terreni «per motivi di interesse generale» e «salvo indennizzo»: ma le interpretazioni della Corte Costituzionale hanno poi portato a far coincidere gli indennizzi con i valori di mercato continuamente crescenti dei suoli, rendendo così le espropriazioni su vasta scala proibitive per i Comuni. Ne è seguita una sempre maggiore difficoltà di disciplinare attraverso i Piani Regolatori crescite e trasformazioni urbane, lasciate in balìa della speculazione fondiaria da un lato e dall’abusivismo edilizio dall’altro. Situazione dalla quale è poi conseguita una sorta di svolta-a-destra attraverso il ricorso all’“urbanistica contrattata”: lasciare cioè che sia la proprietà fondiaria stessa a fare i progetti e a “contrattarne” poi con il Comune la realizzazione. Non più dunque la collettività che si dà il piano secondo i bisogni dei cittadini, ma lo sviluppo urbano deciso dai proprietari dei suoli secondo i propri interessi.
Questo il “rito ambrosiano” adottato dal Sindaco Albertini a Milano. Da lì il tentativo berlusconiano (fortunatamente bloccato dalla fine della legislatura) di varare una “legge Lupi” espressamente basata sulla contrattazione. E da lì la proposta di segno opposto degli “amici di Eddyburg” di cui parla Salzano nella sua prefazione a Bernoulli (www. eddyburg. it è il sito internet) di una legge urbanistica basata invece sulla concezione del territorio come “bene comune” e sull’assunzione del suo governo da parte delle collettività locali di cittadini attraverso gli strumenti della “democrazia partecipata” (di cui parla Massimiliano Smeriglio nel suo saggio recente sulla “Città comune”, ed. DeriveApprodi).
Vedete che siamo di fronte a problemi coi quali le sinistre non potranno fare a meno di confrontarsi nell’immediato futuro. Bisognerà riparlarne... Mi limito qui ad anticiparne due aspetti.
Il primo è quello dei “limiti”. Dello smetterla una volta per tutte di costruire sulle aree rimaste ancora libere. Valga il vero: dalla seconda guerra mondiale la superficie coltivabile del nostro paese s’è ridotta a meno della metà proprio a causa delle espansioni edilizie, che da gran tempo non sono più motivate da aumenti di popolazione né dal bisogno di case (ce ne sono anche troppe, sono i quattrini per andarci a abitare che mancano a tanti). Ma è anche per quel che s’è detto e ridetto degli equilibri idrogeologici da salvaguardare - e in vista dei rischi di inaridimento crescenti, e per la necessità di sopperire ai bisogni primari nel caso le cose volgessero al peggio - che non possiamo assolutamente permetterci di occupare altri spazi con le costruzioni. Il che vuol dire arrivare a metterci in testa - e darci come regola invalicabile, salvo eccezioni rarissime - che d’ora in avanti le trasformazioni urbane andranno fatte soltanto “ricostruendo sul già costruito”. Cosa non solo possibile ma conveniente, oltreché necessaria per fronteggiare il degrado delle città e per adeguarne spazi e strutture alle sempre nuove esigenze.
Il secondo aspetto ha a che fare con l’estetica urbana. E prende le mosse dalla domanda: ma com’è che lungo tutta la storia re e imperatori, papi e boiardi assortiti hanno lasciato ai posteri memoria di sé attraverso splendide architetture, abbellimenti spettacolari di paesi e città (e oggi ancora c’è chi maschera le proprie speculazioni immobiliari dietro le prestigiose architetture di un Renzo Piano) mentre storicamente è tanto più raro il caso che siano le comunità popolari a creare bellezza? Questione di soldi, d’accordo, e di diversa cultura, e di chi sta sopra e chi sotto... Ma è mai possibile che oggi ancora non ci sia modo, a livello di amministrazioni democratiche locali, di darsi come obiettivo primario l’armonia degli spazi di vita?
Mi piacerebbe, ripeto, che una qualche risposta a queste domande potesse venire da una riflessione della sinistra sui temi proposti da Bernoulli, Salzano e gli “amici di Eddyburg”. Anche perché - tra i modi possibili per uscire dal vicolo cieco della logica economicistica dalla quale per due secoli e passa ci siamo lasciati così sciaguratamente coinvolgere - questo del darci la dimensione umana e l’estetica cittadina come obiettivi primari per il governo municipale-diretto di cui parla Smeriglio potrà essere tra i più gratificanti. Certo è tra quelli meno esplorati finora.
Vedete che per il dopo-vacanze problemi non ce ne mancano.