Secondo Giovanni Valentini (“Non si muore di referendum”, la Repubblica, 11 giugno 2005, pag.18) “tutti sanno che in Italia, senza i referendum, non avremmo ottenuto grandi conquiste civili come il divorzio o l’aborto”.
Sorprende che un giornalista con la storia professionale e l’autorevolezza di Valentini non sappia, o si sia dimenticato, che, tutt’al contrario, sia l’istituto del divorzio che la regolamentata liceità dell’aborto sono state ottenute a seguito di dure, lunghe, defatiganti battaglie parlamentari, e che i referendum tendenti all’abrogazione delle relative leggi sono stati promossi, in entrambi i casi, dalle forze dell’oscurantismo clericale e integralista (e, nel secondo caso, dal fondamentalismo radical-pannellato, insoddisfatto degli esiti parlamentari raggiunti). Fortunatamente, in entrambi i casi, si manifestò e si pronunciò la maggioranza laica (di credenti e non credenti) del Paese, che prevalse in entrambi i casi (nel secondo ancora più clamorosamente che nel primo). E le “grandi conquiste civili” (ottenute in Parlamento) furono confermate, fatte salve, preservate.
Vero è che l’istituto del referendum abrogativo degli atti aventi forza di legge ordinaria, previsto dalla Costituzione repubblicana del 1948, non era stato attivato, né reso attivabile in assenza di una legge che ne disciplinasse puntualmente le procedure, sino a quando, nel corso delle vicende parlamentari di formazione della legge sul divorzio, non si concordò, tra forze “divorziste” e forze “antidivorziste”, di definire tale legge procedimentale (che dava alle forze “antidivorziste” l’arma dell’appello alla “volontà popolare”), in cambio di un’attenuazione delle manovre ostruzionistiche dell’iter della legge di regolamentazione del divorzio. Ma ciò conferma, se mai ve ne fosse bisogno, che, nella concreta storia politico-istituzionale italiana, l’istituto del referendum non nasce sul versante laico e progressista (o vogliamo dimenticare anche che perfino il confronto referendario tra Repubblica e Monarchia nasce da un compromesso con le sinistre, che originariamente avrebbero voluto demandare all’Assemblea costituente la scelta della forma istituzionale dello Stato?).
Dopodichè, alcuni referendum sono stati promossi dalle forze “di sinistra” e/o “ambientaliste”, in genere con risultati nulli, per mancato raggiungimento del quorum, e talvolta a seguito di sonora sconfitta (penso a quelli sulla riforma della “scala mobile”, e a quelli sul sistema televisivo). Fidandomi soltanto della mia memoria, e senza compulsare i miei archivi, né testi di storia contemporanea, oserei dire che l’unico esito “positivo” sia stato quello che ha inibito la prosecuzione della produzione energetica nucleare. Personalmente, non riesco a rinnegare del tutto l’appoggio che diedi al prevalere della risposta positiva ai questi referendari “elettorali” tra la fine degli ’80 e l’inizio dei ’90 del secolo scorso, che pure ritengo facciano “storia a sé”, e che, in conseguenza dell’arroganza di parte dei promotori, e della inimmaginabile pochezza degli altri, e dell’inqualificabile disorientamento del complesso delle forze politiche democratiche, hanno posto le premesse dell’”iper-personalizzazione” del sistema politico italiano, e dello sfacelo dei meccanismi e degli istituti della partecipazione democratica di massa.
Quanto a tutti gli altri referendum promossi negli ultimi decenni, con particolare riferimento alle loro carrettate volute dai soliti radical-pannellati, possono essere tranquillamente ricondotti, come i primi due, alle “forze oscure dalla reazione in agguato”, non più di tipo “clericale”, ma di tipo “neo-liberista”, o “neo-conservatore” che dire si voglia (presi nel loro insieme, configuravano il più compiuto smantellamento dello “Stato sociale” di modello europeo che forza politica novecentesca si fosse mai sognata di prospettare).
In conclusione: il raggiungimento del quorum, e la vittoria del “sì”, nel referendum, in corso, per modificare sostanzialmente la vigente legge sulla fecondazione medicalmente assistita, sarebbero il primo episodio di vittoria in un’iniziativa referendaria promossa dalle forze laiche (non credenti e credenti) contro le forze dell’oscurantismo clericale e integralista relativamente a una problematica riguardante i “diritti umani”.
Per questo, per qualche ora ancora, sino al pomeriggio di domani, continuo a nutrire spem contra spem.
Il Consiglio dei Ministri avrebbe approvato, il 18 novembre 2005, uno “schema di decreto legislativo recante disposizioni correttive e integrative del Codice dei beni culturali e del paesaggio […], in relazione al paesaggio” (d’ora in poi chiamato semplicemente “nuovo schema di decreto”), come comunicato e precisato nella lettera di trasmissione di tale provvedimento al fine di acquisire il prescritto parere della cosiddetta “Conferenza unificata” Stato, Regioni, enti locali. Ciò sulla base dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n.137, con cui si è emanato il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42 (“Codice dei beni culturali e del paesaggio”, d’ora in poi denominato semplicemente come il Codice). Infatti Il medesimo articolo 10 conferisce al Governo la delega ad adottare disposizioni correttive e integrative dei decreti emanati, dovendosi tale delega esercitare entro due anni dall’entrata in vigore dei predetti atti legislativi, e quindi, per quanto riguarda il “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, entro il 1° maggio 2006
Le modifiche e le integrazioni che il “nuovo schema di decreto” prevede di introdurre nel Codice sono, a mio parere, nel complesso e singolarmente considerate, migliorative del provvedimento legislativo sul quale intervengono: talvolta rilevantemente migliorative, talaltra volta più apparentemente che sostanzialmente tali, più spesso appena correttive, quasi mai peggiorative, e in tali casi in termini marginali e agevolmente correggibili.
Ho recentemente avuto l’occasione di esporre e motivare dettagliatamente la mia opinione in una comunicazione intitolata “Contenuti, efficacia e possibili conseguenze della pianificazione paesaggistica”, tenuta a un seminario organizzato dall’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali e dalla Regione Emilia-Romagna, e conseguentemente di confrontarmi sul merito della medesima opinione con gli autorevoli partecipanti allo stesso seminario. In ogni caso, qualsiasi frequentatore di eddyburg.it potrà formarsi i propri specifici e complessivi pareri esaminando partitamente, e valutando, le innovazioni proposte, ed evidenziate in quanto tali, nel “confronto sinottico tra Codice originario e modificato”.
In questo intervento mi limiterò pertanto a fare presenti, a grandi linee e con qualche ineluttabile apoditticità valutativa, le più consistenti modifiche e integrazioni che il “nuovo schema di decreto” prevede di introdurre nel Codice.
Correzione di errori materiali
Si propone, innanzitutto, di correggere alcuni veri e propri errori materiali, presenti nel Codice, e derivanti da sciatteria, imprecisione, difetti di coordinamento finale tra i diversi passaggi del testo. Errori largamente e abbastanza facilmente ovviabili in sede interpretativa, ma che ciononostante avevano suscitato gravi equivoci, e corrispondentemente accese polemiche.
Vale la pena di citare, quale esempio particolarmente significativo, l’infelicissima espressione del comma 1 dell’articolo 142 del Codice per cui i beni enumerati nel medesimo comma sarebbero stati sottoposti ope legis alle disposizioni del Titolo del Codice recante “Tutela e valorizzazione” dei “beni paesaggistici” soltanto “fino all'approvazione del piano paesaggistico ai sensi dell'articolo 156”. Anche esponenti di organizzazioni e movimenti aventi quale ragione sociale la tutela del patrimonio culturale hanno, autolesionisticamente, sospettato, o dato addirittura per scontato, che l’espressione appena sopra riportata implicasse la possibilità, per il piano paesaggistico, di abrogare tout court la qualità di “beni paesaggistici” di taluni degli elementi territoriali enumerati, o di loro parti. Con ciò privilegiando l’interpretazione maggiormente capace di stimolare lo sdegno verso gli atti e le intenzioni vandaliche e criminogene del Governo in carica (come se per ciò mancassero ben più solidi argomenti!), anziché quella, argomentabile senza soverchie cavillosità, più suscettibile di garantire la tutela dei beni per cui si faceva mostra di battersi. A ogni buon conto, il “nuovo schema di decreto” propone, puramente e semplicemente, la soppressione dell’espressione dianzi riportata, con ciò risolvendo drasticamente equivoci e polemiche. Ometto di citare altri esempi, pur aventi con quello fatto consistenti analogie, per rispettare i caratteri dichiarati di questo intervento.
Ritocchi integrativi
Si prevedono, in secondo luogo, un certo numero di “ritocchi” integrativi al Codice.
Tale è, a mio parere, quello che il “nuovo schema di decreto” propone di operare all’articolo 136 del Codice, nel quale vengono delineate (in termini pressoché letteralmente riproducenti quelle di cui all’articolo 1 della legge 29 giugno 1939, n.1497) le categorie di beni che possono essere qualificati “beni paesaggistici” attraverso specifici provvedimenti e atti amministrativi singolarmente afferenti a ognuno di essi. Il “nuovo schema di decreto” prevede di inserire espressamente tra “gli immobili e le aree” definibili “beni paesaggistici” i “centri storici” e le “zone di interesse archeologico”.
Quest’ultima categoria è stata indicata, essenzialmente, per sovvenire a (veri o supposti) problemi individuativi, e non rileva granché darne conto. Mentre può dare la sensazione di una forte innovazione l’esplicita citazione del “centri storici”: la quale invece, a un’appena più attenta riflessione, finisce con il doversi considerare assai modesta (la stessa relazione illustrativa del “nuovo schema di decreto” riconosce trattarsi nulla più che del chiarimento di una possibilità già suggerita, nientepopodimeno, dall’articolo 9 del Regio Decreto 3 giugno 1940. n.1357, recante il regolamento di attuazione della legge 1497/1939, e comunque “già ampiamente praticata dalla prassi amministrativa degli ultimi decenni”) e forse addirittura foriera di rischi. Mi riferisco al fatto che la sottolineatura della prospettiva di definizione dei “centri storici” quali “beni paesaggistici” può stimolare una concezione della tutela dei medesimi “centri storici”, e delle unità di spazio (unità edilizie e unità di spazio scoperto) che li compongono, limitata alla preservazione dell’”aspetto esteriore”, ignorando le elaborazioni, e le centinaia (almeno) di discipline pianificatorie e regolamentari definite in Italia negli ultimi quattro o cinque decenni, volte a garantire la conservazione delle caratteristiche tipologiche strutturali delle unità di spazio, con particolare riferimento, tra l’altro, agli assetti distributivi interni delle unità edilizie.
Miglioramenti sui contenuti della pianificazione paesaggistica
Più rilevanti e positive ritengo siano le correzioni che il “nuovo schema di decreto” prevede di apportare agli articoli 135 e 143 del Codice, i quali, nel loro insieme, definiscono innanzitutto i contenuti della pianificazione paesaggistica. Tali correzioni possono infatti sortire l’effetto di attutire, e di rendere evitabili (pur senza escluderli del tutto) i rischi di dare luogo a una pianificazione paesaggistica del tutto priva di reale pregnanza e incisività precettiva, insiti nelle norme dell’originaria, e vigente, stesura del Codice.
Queste ultime norme, infatti, pretendono la costruzione di astratte categorie di “trasformabilità”, relazionate a presumibilmente assai soggettivi “gradi di valore”, attribuiti a “ambiti omogenei”: la qual cosa porterebbe quasi inevitabilmente, se non attraverso scappatoie sostanzialmente elusive del dettato legislativo, a dettare disposizioni assai poco, o per nulla, relazionate alle specifiche e peculiari caratteristiche conformative, meritevoli di tutela conservativa, delle concrete componenti territoriali considerate. Altrimenti detto, laddove, in sede di redazione di uno strumento di pianificazione paesaggistica si sia individuato un “ambito” di “elevatissimo pregio paesaggistico” racchiudente (ipotizzando a casaccio) un’area boscata, una prateria montana sommitale, qualche corso d’acqua torrentizio, un’area di interesse archeologico, si potrebbe sfidare chiunque a dettare precetti pregnanti circa le trasformazioni, le attività, le utilizzazioni ammissibili, anziché vaghi e vacui auspici, con riferimento all’”ambito” in quanto tale. Mentre, per converso, da un lato sarebbe estremamente agevole stabilire prescrizioni conformative precise per ognuno degli elementi territoriali presenti, dall’altro sarebbe certamente auspicabile, e da perseguire, quand’anche più complesso, modulare tali prescrizioni conformative sia in relazione agli intrinseci gradi di valore di ognuno di tali elementi territoriali, sia in relazione alle reciproche interrelazioni degli specifici elementi territoriali presenti.
Mi permetto di soggiungere che quanto ora asserito risulta confermato dall’unico, formidabile, provvedimento pianificatorio di efficace tutela dell’identità culturale di un intero (tendenzialmente) territorio regionale, varato negli ultimi tre lustri: il piano paesaggistico regionale della Sardegna recentissimamente adottato dalla Giunta regionale presieduta da Renato Soru. Non essendo, a mio parere, dubitabile che se gli straordinari valori connotanti tuttora la grandissima parte dell’isola in cui affondano metà delle mie radici (mi si passi l’allusione personalistica e la debolezza sentimentaloide) saranno preservati per il godimento delle generazioni presenti e future dell’umanità tutta, lo si dovrà a quelle parti del piano che disciplinano partitamente e puntigliosamente concrete componenti territoriali, e specifiche categorie di elementi.
Il controllo e la gestione dei beni tutelati
Ma le modifiche e integrazioni più consistentemente innovative riguardano, per il vero, il controllo e la gestione dei beni (paesaggistici) soggetti a tutela.
Si prevede, infatti, di stabilire la vincolatività del parere del competente soprintendente in merito al rilascio, o meno, delle speciali autorizzazioni alle quali è subordinata l’effettuabilità di trasformazioni dei beni soggetti a tutela (modifiche e integrazioni proposte dal “nuovo schema di decreto” all’articolo 146 e passim).
Si badi bene che non è minimamente intaccata la previsione del Codice (articolo 143) per cui la pianificazione paesaggistica, qualora sia formata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti, può sottrarre taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, all’ordinario regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in esse operabili all’ottenimento di speciali autorizzazioni, venendo queste ultime, per così dire, “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata.
Ciò, peraltro, viene considerato ammissibile solamente con riferimento ai “beni paesaggistici” così qualificati ope legis (e, a mio parere, con riferimento ai “beni paesaggistici” qualificati come tali dalla stessa pianificazione paesaggistica). Essendo esplicitamente esclusi da tale possibilità i “beni paesaggistici” definiti come tali con specifici provvedimenti amministrativi, evidentemente ritenendosi (per quanto opinabile e discutibile possa essere tale convinzione) che il pregio intrinseco posseduto da questi ultimi beni esiga un controllo puntuale e discrezionale della coerenza con esso delle trasformazioni via via proposte, non bastando alla bisogna la verifica della conformità di tali trasformazioni alle regole definite dalla pianificazione.
E si badi altresì che la vincolatività del parere del competente soprintendente in merito al rilascio, o meno, delle speciali autorizzazioni, è esclusa (comma 4 dell’articolo 143 come risulterebbe dalle modifiche e integrazioni proposte dal “nuovo schema di decreto”) in tutti i casi in cui la pianificazione paesaggistica sia formata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti. Quantomeno laddove le regioni stabiliscano di esercitare direttamente la funzione autorizzatoria, o di delegarne l’esercizio alle province, essendo stabilito (comma 3 dell’articolo 146 come risulterebbe dalle modifiche e integrazioni proposte dal “nuovo schema di decreto”) che, ove invece intendano delegare tale esercizio ai comuni, da un lato possono farlo soltanto ove sia stata approvata la pianificazione paesaggistica formata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti e i comuni vi abbiano adeguato i propri strumenti urbanistici (il che ritengo assolutamente sensato e condivisibile), da un altro lato permarrebbe comunque la vincolatività del parere della competente soprintendenza relativamente al merito della rilasciabilità delle autorizzazioni (il che, invece, propendo a ritenere scarsamente giustificato).
In buona sostanza, e in estrema sintesi, l’assunto concettuale fondamentale della più rilevante innovazione proposta dal “nuovo schema di decreto”, è quello per cui, ove e fino a quando i beni (paesaggistici) soggetti a tutela non siano disciplinati da regole conformative, immediatamente precettive e direttamente operative, definite d’intesa tra tutti i soggetti istituzionali che costituiscono la Repubblica, ivi compreso lo Stato, e per esso la sua amministrazione specialisticamente competente, non può essere escluso un ruolo decisionale di quest’ultima amministrazione nell’apprezzamento discrezionale, caso per caso, delle trasformazioni ammissibili dei predetti beni soggetti a tutela.
Proteste delle regioni e degli enti locali
Non si vuole minimamente negare che l’ora sunteggiato assunto concettuale sia stato tradotto, dal “nuovo schema di decreto”, in concrete disposizioni, e in combinati disposti precettivi, tutt’altro che privi di sbavature, di particolari discutibili, di eccessi scarsamente giustificati di cautele: criticabili, ovviabili, correggibili.
Così come l’intero “nuovo schema di decreto” avrebbe potuto dar luogo, in primis proprio nella sede deputata a esprimere il primo parere in merito a esso, cioè nell’ambito della cosiddetta “Conferenza unificata” Stato, Regioni, enti locali, a un approfondito confronto rivolto a perfezionarne i contenuti, e quindi a ottimizzare il modello giuridico e operativo della concorrenza dei soggetti che costituiscono la Repubblica (comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato) in quella tutela del paesaggio che della Repubblica è un compito indeclinabile secondo il relativo “principio fondamentale“ proclamato dall’articolo 9 della Costituzione. Avendo ben chiaro che, in questa come in consimili fattispeci, il termine concorrenza (purtroppo di non univoco significato anche nel nostro dovizioso lessico italiano) significa collaborazione compartecipativa con altri soggetti alla realizzazione di un fine comune, e non, come (sacrosantamente) in altri contesti, confronto competitivo con altri soggetti nell’acquisizione, produzione e vendita di beni.
Risulta invece che, una volta approdato il “nuovo schema di decreto” nella cosiddetta “Conferenza unificata” Stato, Regioni, enti locali, esso sia stato dichiarato, dal “fronte” delle regioni e degli enti locali, con prontezza scarsamente ricorrente, e con raramente tanto piena convergenza trasversale (rispetto alle formazioni e alle coalizioni politiche di appartenenza dei rappresentanti dei soggetti istituzionali partecipanti), assolutamente inaccettabile e inemendabile.
E risulta altresì che, a fronte di tale atteggiamento, il Ministro per i beni e le attività culturali, Rocco Buttiglione, abbia operato, nei confronti del povero “nuovo schema di decreto”, un veloce e disinvoltissimo (quanto scarsamente avvalorabile: ma parimenti pacificamente accettato) “disconoscimento di paternità”.
Per cui si dice (senza nulla precisare) che ci si accingerebbe a riformulare un nuovo testo, muovendo dai (non meglio indicati) desiderata del “fronte” delle regioni e degli enti locali, senza la benché minima garanzia (anzi, nell’assoluta improbabilità) di riuscire a completare l’iter definitorio del provvedimento legislativo delegato entro il termine stabilito dalla legge di delegazione (1° maggio 2006).
Assieme ad altri collaboratori di eddyburg.it, e ad altri ancora, ho veementemente e severamente condannato il tentativo, portato avanti dall’attuale maggioranza parlamentare in sede di formazione della cosiddetta “legge Lupi”, di estromettere il sistema regionale e degli enti locali dalla compartecipazione all’attività sia legislativa che amministrativa (pianificatoria, innanzitutto) in argomento di tutela dei beni culturali e paesaggistici. Così come ho veementemente e severamente condannato i concreti atti con cui l’attuale Governo ha deferito alla Corte costituzionale provvedimenti legislativi regionali che pretendevano (nientepopodimeno) di includere la tutela dell’identità culturale del territorio tra i contenuti necessari della pianificazione d’ogni livello: beccandosi dalla Corte, in risposta, sentenze paragonabili a ceffoni sul grugno, se è lecito usare metafore così popolane per temi tanto aulici.
Altrettanto veementemente e severamente ritengo vada oggi condannato l’atteggiamento del “fronte” delle regioni e degli enti locali, il quale, proprio per il suo rifiuto a entrare dettagliatamente nel merito di ogni singolo punto, si appalesa come uno “sgomitare” rivolto a ridurre entro termini irrisori, se non ad azzerare, il ruolo dello Stato nella tutela dei “beni paesaggistici”.
Con ciò mostrandosi altrettanto (pur se su posizioni simmetriche) estraneo allo spirito e alla lettera di quel, già ricordato, “principio fondamentale” di cui all’articolo 9 della Costituzione del 1948 per cui la tutela del paesaggio (e del patrimonio storico e artistico) compete alla Repubblica, e quindi alla totalità delle sue articolazioni, nessuna potendo esserne esclusa.
Per questo, cioè per la profonda aspirazione a una riscoperta della “forza propulsiva” della Costituzione del 1948 che penso animi, magari quasi inconsciamente, la stragrande parte del “popolo progressista” (o “riformista”, o “democratico”, fate voi) di questo Paese, oltre che per i profili più strettamente di merito, ritengo altresì, e per concludere, che i problemi posti dalle vicende qui sommariamente esposte e raccontate, esigerebbero l’assunzione di chiare prese di posizione da parte del gruppo dirigente dell’Unione (delle calate di calzoni del ministro attualmente in carica, francamente, mi importa assai meno che di un fico secco).
Candidato premier Romano Prodi, batterai un colpo?
Qui allegati i file in formato Adobe .pdf contenenti:
- Il testo dello schema di nuovo decreto
- Un quadro sinottico di confronto tra il decreto vigente e il nuovo proposto
- Il testo della lezione tenuta da Luigi Scano all'IBC Emilia-Romagna
Da qualche giorno (il 12 maggio scorso) sono entrate in vigore le modificazioni e integrazioni apportate al “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, dal decreto legislativo 24 marzo 2006, n.157, emanato a norma della legge 6 luglio 2002, n.137, che dava delega al governo per l’adozione di disposizioni correttive e integrative dei decreti antecedentemente emanati, quale appunto il Dlgs 42/2004, di approvazione del “Codice dei beni culturali e del paesaggio”.
Già prima della definitiva approvazione e pubblicazione del Dlgs 157/2006, si è trattato di vari suoi aspetti in eddyburg. In tale scritto, tuttavia, non si è fatto cenno ai contenuti del nuovo provvedimento legislativo che hanno inciso sul sistema sanzionatorio delle violazioni delle disposizioni di tutela del paesaggio, e sulle previsioni di condonabilità delle medesime violazioni, definite dal “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, e dalle sue precedentemente apportate integrazioni e modificazioni.
La deplorevole legge 15 dicembre 2004, n.308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione) conteneva anche, per l’appunto, alcune “misure di diretta applicazione”, immediatamente integrative e modificative del “Codice dei beni culturali e del paesaggio”. Con esse, dopo avere disposto un aggravamento delle sanzioni penali stabilite per le violazioni delle disposizioni di tutela del paesaggio ritenute (discutibilmente) “più gravi”, si prevedeva l’esenzione dall’applicazione delle sanzioni penali le violazioni predefinite (altrettanto discutibilmente) come “meno gravi”, a condizione che le violazioni medesime ottenessero un accertamento della loro “compatibilità paesaggistica” da parte dell'autorità amministrativa competente, previo parere vincolante della soprintendenza.
E, quel che è peggio, si prevedeva che violazioni (potenzialmente) di qualsiasi genere ed entità fossero esentate dall’applicazione delle sanzioni penali, sempre che ottenessero “l'accertamento di compatibilità paesaggistica” da parte dell'autorità amministrativa competente, previo parere (in questo caso non definito vincolante) della soprintendenza, e che fossero corrisposte sia la sanzione amministrativa pecuniaria ordinariamente prevista dal “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, maggiorata, sia un’ulteriore sanzione pecuniaria. In buona sostanza, si riproponeva la consueta, ormai, purtroppo, simoniaca vendita delle indulgenze.
Il Dlgs 157/2006, opera, relativamente alle disposizioni della legge 308/2004 che si sono ora ricordate, poco più che un’azione razionalizzatrice. Con essa, sostanzialmente, rende possibile la conclusione sia delle pratiche di “condono edilizio”, disciplinate dai pregressi specifici provvedimenti legislativi in argomento, laddove la sua concedibilità sia stata sottoposta (tra l’altro) al conforme parere favorevole delle autorità preposte alla gestione dei “vincoli paesaggistici”, sia delle pratiche di “condono paesaggistico” di tipo “straordinario”, previsto e disciplinato dalla legge 308/2004, di cui appena sopra s’è detto (e peraltro chiarendo che, in questi ultimi casi, il parere della soprintendenza“si intende vincolante”.
Assai più incisive sono state le modificazioni e integrazioni apportate dal Dlgs 157/2006 in tema di sanzioni amministrative previste per le violazioni delle disposizioni di tutela del paesaggio. E’ necessario rammentare che fin dalla legge 29 giugno 1939, n.1497, la sanzione ripristinatoria (cioè la rimessione in pristino dello stato dei luoghi a spese dei responsabili delle trasformazioni illegittime) era stata prevista in alternativa, in ogni caso discrezionalmente optabile dall’autorità competente, con la sanzione pecuniaria quantificata nel maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. Secondo le nuove norme del “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, come modificate e integrate per effetto del Dlgs 157/2006, invece, in caso di violazione delle disposizioni di tutela dei beni paesaggistici “il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese”.
Per converso, non essendosi,ritenuto di eliminare la distinzione, introdotta ai fini dell’applicazione delle sanzioni penali dalla legge 308/2004, tra violazioni “più gravi” e violazioni “meno gravi”, ci si è, conseguentemente, posti il problema della contraddizione concettuale che sarebbe insorta laddove si fosse prevista l’irrogazione della sanzione amministrativa ripristinatoria a casi di violazione dei cui effetti fosse stata accertata la “compatibilità paesaggistica” da parte dell’autorità competente, previo parere vincolante della soprintendenza. Per cui relativamente soltanto a tali casi si è riproposta la sanzione amministrativa pecuniaria. Per la prima volta nell’evoluzione della legislazione di tutela del paesaggio, quindi, le norme presentemente vigenti circoscrivono a priori i casi in cui l’autorità competente (con il parere vincolante della soprintendenza) può, accertata la “compatibilità paesaggistica” del risultato delle trasformazioni illegittime, applicare la sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria, configurata come ordinariamente prevalente nella generalità delle fattispeci.
In conclusione, l’insieme del sistema sanzionatorio delle violazioni delle disposizioni di tutela del paesaggio (e delle previsioni di condonabilità delle medesime violazioni), quale risulta dalle relative disposizioni del “Codice dei beni culturali e del paesaggio” come modificate e integrate per effetto della legge 308/2004 e del Dlgs 157/2006, presenta un panorama di luci e ombre. Ed è comprensibile che un approccio rigoroso e severo al tema della repressione dei comportamenti contrastanti con le regole stabilite concluda con il giudicare che le ombre sopravanzino le luci.
Non è, invece, né comprensibile né accettabile che riprenda a serpeggiare, come già avvenne immediatamente dopo l’entrata in vigore della legge 308/2004, nei discorsi anche di esponenti di associazioni ambientaliste, la confusione tra “condono paesaggistico” e “condono edilizio”. Ed è da rammaricarsi che tale confusione non sia espressamente e puntualmente denegata, nei testi, e anzi quasi stimolata dall’enfasi delle titolazioni, dalla più diffusa e seguita pubblicazione di settore (“Edilizia e territorio”, tabloid, 8-13 maggio 2006, pag.3, Bianca Lucia Mazzei, “Possibile regolarizzare mini abusi realizzati su beni soggetti a tutela – Paesaggio, sanatoria permanente – Ammessi gli interventi che non hanno comportato aumenti di volumetria o di superficie”).
Il primo, cioè il cosiddetto “condono paesaggistico”, riguarda infatti soltanto la “sanabilità” delle trasformazioni effettuate in assenza delle speciali “autorizzazioni paesaggistiche” o in difformità da esse, ovvero su immobili comunque sottoposti a “vincoli paesaggistici” (e, in questo secondo caso, limitatamente ai profili attinenti la tutela del paesaggio), e attiene soltanto l’irrogabilità (e la tipologia, e la misura) delle sanzioni, penali e amministrative, disciplinate dalla speciale legislazione di tutela del paesaggio. Il secondo, cioè il cosiddetto “condono edilizio”, riguarda invece la “sanabilità” delle trasformazioni effettuate in contrasto con le norme (nell’accezione più vasta del termine) urbanistiche ed edilizie, e/o in assenza degli ordinari provvedimenti abilitativi a operare le trasformazioni medesime, e/o in difformità da tali provvedimenti abilitativi, e attiene l’irrogabilità (e la tipologia, e la misura) delle sanzioni, penali e amministrative, disciplinate dalla legislazione urbanistica ed edilizia.
Le disposizioni attinenti la “sanabilità” delle trasformazioni illegittimamente effettuate riguardano esclusivamente il “condono paesaggistico”, e possono interferire con il “condono edilizio” solamente laddove le specifiche (e sciagurate) leggi che hanno previsto quest’ultimo facciano espresso riferimento alla necessità di ottenere anche il primo. Il che significa che l’ottenere un’”autorizzazione paesaggistica in sanatoria”, con la conseguente esenzione dalle relative sanzioni penali, e l’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria, non comporta affatto che le trasformazioni effettuate non siano perseguite, con le diverse peculiari sanzioni, amministrative e penali, previste, qualora abbiano violato la disciplina urbanistica ed edilizia (a meno che non si rientri in uno dei casi di concedibilità del “condono edilizio” previsti dalle altre leggi che lo hanno puntualmente, e malauguratamente, ammesso e regolato).
Il governo Berlusconi, e la maggioranza parlamentare che nell’ultimo quinquennio l’ha espresso e sorretto, hanno fatto tali e tanti danni al territorio e all’ambiente del nostro Paese che non si sente per nulla il bisogno di attribuire loro, infondatamente, la responsabilità di provocarne degli altri.
D’altro canto, troppi amministratori locali (non necessariamente coincidenti con quelli di centrodestra) sono già piuttosto restii a impegnarsi nel perseguire e reprimere efficientemente ed efficacemente l’abusivismo edilizio, per cui occorre evitare di instillare in loro l’equivoco convincimento che viga un combinato disposto legislativo per cui si sarebbe instaurata una sorta di condonabilità edilizia permanente, riferita a tutt’altro che trascurabili tipi di intervento, fondata sul rilascio di attestazioni di “compatibilità paesaggistica”, per di più a valere nelle zone presumibilmente più pregiate, in quanto sottoposte alla disciplina di tutela del paesaggio!
La Corte costituzionale era stata chiamata a pronunciarsi da un ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri sulla legittimità costituzionale di due disposizioni della legge urbanistica della Toscana (legge 1/2005), per contrasto con il “Codice dei beni culturali e del paesaggio” (Dlgs 42/2004). La Corte si è pronunciata con la sentenza 20 aprile – 5 maggio 2006, n.182, con la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di entrambe le disposizioni legislative regionali.
La prima delle suddette disposizioni legislative regionali (il comma 3 dell’articolo 32 della legge toscana 1/2005) prevede che dalla definizione della disciplina dei “beni paesaggistici” operata dagli strumenti di pianificazione regionali, provinciali e comunali, possa derivare la sottrazione di taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in esse operabili all’ottenimento di speciali autorizzazioni, venendo queste ultime “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata. Tale possibilità è ammessa dal “Codice”, che però la subordina all’essere la pianificazione paesaggistica (ovvero la disciplina paesaggistica dettata dalla pianificazione ordinaria) determinata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti (il Ministero per i beni e le attività culturali e il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio). Questa condizione non è riportata espressamente dalla legge toscana.
Per il vero, la legge toscana omette anche di chiarire che la possibilità di cui si è detto è prevista, dal “Codice”, solamente con riferimento ai “beni paesaggistici” così qualificati ope legis (e, a mio parere, con riferimento ai “beni paesaggistici” qualificati come tali dalla stessa pianificazione paesaggistica), mentre sono esplicitamente esclusi da tale possibilità i “beni paesaggistici” definiti come tali con specifici provvedimenti amministrativi, evidentemente ritenendosi (per quanto opinabile e discutibile possa essere tale convinzione) che il pregio intrinseco posseduto da questi ultimi beni esiga un controllo puntuale e discrezionale della coerenza con esso delle trasformazioni via via proposte, non bastando alla bisogna la verifica della conformità di tali trasformazioni alle regole definite dalla pianificazione.
Stante la valenza generale che l’opinione della Corte può (deve) assumere, va sottolineato che, nello sviluppare le proprie considerazioni in diritto, la medesima Corte ha assunto che il “Codice” contenga, contestualmente, disposizioni riconducibili sia alla “materia” denominata “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato (comma secondo, lettera s., del novellato articolo 117 della Costituzione), sia alle “materie” denominate “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, appartenenti alla legislazione concorrente, in cui “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” (commi terzo e quarto del medesimo articolo).
Per cui, ha affermato la Corte, relativamente all’insieme delle disposizioni del “Codice”, le regioni “devono sottostare nell'esercizio delle proprie competenze, cooperando eventualmente a una maggior tutela del paesaggio, ma sempre nel rispetto dei principi fondamentali fissati dallo Stato”. Giacché “la tutela tanto dell'ambiente quanto dei beni culturali è riservata allo Stato […], mentre la valorizzazione dei secondi è di competenza legislativa concorrente […]: da un lato, spetta allo Stato il potere di fissare principi di tutela uniformi sull'intero territorio nazionale, e, dall'altro, le leggi regionali, emanate nell'esercizio di potestà concorrenti, possono assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale, purché siano rispettate le regole uniformi fissate dallo Stato”. Cosicché, ha concluso sul punto la Corte, “appare, in sostanza, legittimo, di volta in volta, l'intervento normativo (statale o regionale) di maggior protezione dell'interesse ambientale”.
E ha ulteriormente specificato che “in relazione alla pianificazione paesaggistica, lo Stato, nella Parte III del Codice dei beni culturali e del paesaggio, pone una disciplina dettagliata, cui le regioni devono conformarsi, provvedendo o attraverso tipici piani paesaggistici, o attraverso piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici […]. L'opzione per questo secondo strumento […] comporta che, nella disciplina delle trasformazioni – com'è negli scopi del piano urbanistico –, la tutela del paesaggio assurga a valore primario, cui deve sottostare qualsiasi altro interesse interferente […]”.
La seconda delle disposizioni legislative regionali delle quali è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale (il comma 3 dell’articolo 34 della legge toscana 1/2005) prevede semplicemente che l’operazione di cui dianzi si è trattato, di sottrazione di taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in esse operabili all’ottenimento di speciali autorizzazioni, venendo queste ultime “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi delle trasformazioni, trovi la sua sede puntualmente individuativa e precettiva nella componente denominata (nella legge toscana 1/2005) “statuto del territorio” dei piani definiti “strutturali” dei comuni (seppure in conformità a quanto previsto dal “piano di indirizzo territoriale” regionale e dal “piano territoriale di coordinamento” provinciale). Ha sostenuto la Corte che, ciò facendo, la disposizione legislativa regionale sottrae “la disciplina paesaggistica dal contenuto del piano, sia esso tipicamente paesaggistico, o anche urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici, che deve essere unitario, globale, e quindi regionale, e al quale deve sottostare la pianificazione urbanistica ai livelli inferiori”.
Ha argomentato infatti la Corte che l’articolo 135 del “Codice” è “tassativo, relativamente al piano paesaggistico, nell'affidarne la competenza alla regione”, che il successivo articolo 143 elenca dettagliatamente i contenuti dello stesso piano e che l'articolo 145 definisce i rapporti con gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province “secondo un modello rigidamente gerarchico (immediata prevalenza del primo, obbligo di adeguamento dei secondi con la sola possibilità di introdurre ulteriori previsioni conformative che risultino utili ad assicurare l'ottimale salvaguardia dei valori paesaggistici individuati dai piani)”.
E ha concluso che la legislazione regionale non può porsi “in contraddizione con il sistema di organizzazione delle competenze delineato dalla legge statale a tutela del paesaggio, che costituisce un livello uniforme di tutela non derogabile”, stante che, come già si è fatto presente, secondo la dottrina della Corte il “Codice” contiene, contestualmente, disposizioni riconducibili sia alla “materia” denominata “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato, sia alle “materie” denominate “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, appartenenti alla legislazione concorrente, in cui “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”. Infatti, ha precisato, pur avendo la giurisprudenza costituzionale “ammesso che le funzioni amministrative, inizialmente conferite alla Regione, possano essere attribuite agli enti locali, […] è l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica che è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull'intero territorio nazionale: il paesaggio va, cioè, rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali”.
Vorrei soggiungere che le argomentazioni della Corte costituzionale hanno una valenza che va ben oltre la specifica disposizione, dianzi puntualmente citata, della legge toscana, dichiarata costituzionalmente illegittima. Quantomeno, la collocazione delle disposizioni del “Codice” nell’assetto delle competenze legislative definito dal novellato articolo 117 della Costituzione, e la ricostruzione dei contenuti fondamentali di tali disposizioni (dei quali implicitamente, e talvolta esplicitamente, si riconosce la perfetta aderenza al dettato costituzionale), fanno da un lato giustizia di ogni tesi sulla “equiordinazione” degli strumenti di pianificazione di competenza dei diversi livelli istituzionali, e mettono da un altro lato in crisi gravissima tutte quelle legislazioni regionali che hanno escluso, del tutto o quasi, la possibilità di avere anche efficacie immediatamente vincolanti, e direttamente operative, sia per gli strumenti di pianificazione sovraccomunali che (come per l’appunto nel caso della Regione Toscana) per la “figura pianificatoria” comunale “di primo livello”, di norma denominata “piano strutturale”.
Più generalmente, il “Codice” (soprattutto come novellato per effetto del Dlgs 157/2006) e la dottrina della Corte costituzionale ormai consolidatasi circa lo stesso, pongono a tutte le regioni l’esigenza di una vasta riconsiderazione della propria legislazione afferente alla pianificazione territoriale e urbanistica e di quella (ove e per quanto sia distinta dalla prima) afferente alla tutela dei “beni paesaggistici” (e, in senso lato, dei “beni culturali”), nonché di una profonda (e presumibilmente immediata) rimodulazione di molti propri regolamenti, atti, comportamenti amministrativi riguardanti la gestione delle misure di tutela.
Premessa
Il dibattito dipanatosi negli ultimi mesi a partire dal “caso Monticchiello”, meritoriamente denunciato da Alberto Asor Rosa, e proseguito con le altrettanto meritorie denunce, provenienti dai più diversi soggetti, di numerosissimi altri scempi paesaggistici intervenuti, o paventati e incombenti, e, quasi in parallelo, alimentato dalle notizie circa gli sforzi e i (provvisori? permanenti?) successi del Presidente della Regione Sardegna, Renato Soru, e dei suoi alleati e collaboratori, istituzionali, politici e tecnici, nel tutelare almeno (per ora) gli strepitosi valori culturali della fascia costiera dell’isola, ha concorso a riportare all’attenzione dell’opinione pubblica del Paese (anche in un’accezione vasta, a giudicare dalla tiratura, o dell’audience, rispettivamente degli organi di stampa e dei programmi radiofonici e televisivi che vi si sono dedicati) il tema della pianificazione paesaggistica, ovvero, più latamente, di un’attività pianificatoria che assuma come sua finalità centrale la tutela dell’”identità culturale” del territorio.
Per contro, era agevole riscontrare, in larga parte degli interventi che si succedevano, il ricorrere di svariate, e numerose, imprecisioni, nei riferimenti al quadro legislativo, dottrinario e giurisprudenziale che regola, e supporta, la politica di tutela del paesaggio, e in genere dell’”identità culturale” del territorio, e ciò anche, talvolta, anzi spesso, nelle prese di posizione e nelle proposte dei fautori della “tutela”, i quali invece, a mio parere, data la delicatezza dei temi trattati, e la tendenzialmente soverchiante potenza degli “avversari”, non si possono in alcun caso permettere di indulgere a formulare affermazioni imprecise.
Era altrettanto agevole riscontrare, compulsando le elaborazioni, e verificando gli intendimenti, della più gran parte delle regioni italiane (di norma rintracciabili nei relativi “siti”), e frequentando convegni e confronti promossi dai più svariati soggetti, un’orientamento diffuso volto a procedere, ancora una volta (anzi, ancor più che in precedenti similari occasioni), eludendo, in termini sostanziali, se non addirittura formali, l’obbligo di ottemperare ai dettati del “Codice dei beni culturali e del paesaggio", approvato con decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, e successivamente modificato e integrato, per quanto di interesse di questo scritto, con decreto legislativo 24 marzo 2006, n.157 (in prosieguio per brevità denominato semplicemente “Codice”).
Mi ero di conseguenza accinto a redigere un elaborato che, simultaneamente, puntualizzasse (in termini adeguatamente precisi, quand’anche non totalmente esaustivi) il quadro normativo nazionale vigente in “materia” di tutela dei “beni paesaggistici”, e richiamasse l’attenzione su quelli che oggi sono, presumibilmente, i più incombenti rischi di sviamento della ripresa di una seria, efficace ed efficiente politica di tutela del paesaggio, e in genere dell’”identità culturale” del territorio.
Sono stato indotto ad accelerare il mio lavoro, e a (provvisoriamente, magari) concluderlo, dalla lettura dell’articolo di Salvatore Settis intitolato Un patto per la tutela del paesaggio su la Repubblica del 18 novembre 2006, e della postilla (di cui condivido pienamente i contenuti) che eddyburg ha fatto seguire alla sua riproduzione (entrambi qui). Persino nel citato articolo di Settis, infatti, ho riscontrato (come del resto già aveva fatto la predetta postilla) un certo numero di imprecisioni, che ritengo debbano essere chiosate (e corrette) con maggiore dovizia di particolari. Non nascondo di provare un certo imbarazzo nell’accingermi (anche) a “fare le bucce”, per usare un’espressione popolaresca, a un “gigante” come Salvatore Settis, del quale da anni leggo con ammirazione, e gratitudine per gli arricchimenti conoscitivi che ne ricavo, i libri, e gli interventi giornalistici, dapprima in il Manifesto e quindi in la Repubblica. Ma da quand’ero giovanissimo non ho mai saputo frenare l’audacia che mi portava, quand’ero certo delle mie cognizioni, e/o della bontà dei miei argomenti, a “correggere”, e se del caso a contestare, sommi “maestri”, e insigni leader. Dopo parecchi decenni, da un lato non posso certo dismettere tale viziaccio, da un altro lato constato che esso mi ha fruttato sempre il rispetto, spesso la stima, talvolta l’affetto, di coloro, tra quei personaggi, che il tempo abbia confermato essere stati, o essere, davvero “grandi”. Confido che il prosieguio di questo mio scritto non impedisca a Settis di rivolgermi anche soltanto il primo dei suddetti sentimenti.
La legge del 1939…
Non è fondato asserire che secondo la legge 29 giugno 1939, n.1497, “la tutela si esprime con atti generici che vincolano sì un determinato paesaggio, ma non specificano che cosa, in ciascun caso, non può essere a nessun costo modificato”.
Nella relazione svolta dal Ministro dell'educazione nazionale, Giuseppe Bottai, per presentare alla Camera il disegno di legge recante “Protezione delle bellezze naturali” [1], si asserisce infatti che “i piani territoriali paesistici […] si collegano alla protezione delle bellezze d’insieme (paesistiche o panoramiche) e valgono a rivelare che cosa s'intenda per conservazione d'una bellezza panoramica o paesistica”. Infatti, si specifica, mentre “la conservazione d'una bellezza individua quasi si identifica con la sua invariabilità”, non si può né si deve pretendere “l'invariabilità d'una bellezza d'insieme, la quale è composta di molteplici elementi che reciprocamente si influenzano”, per cui “possono alcuni di questi elementi cangiare d'aspetto anche radicalmente senza che la bellezza del quadro naturale sia offuscata o deturpata”. Ma, si afferma, “quello che è essenziale alla conservazione d'una bellezza d'insieme è che le variazioni [...] siano in armonia con un piano preventivo concepito con un'unità di criteri razionali ed estetici. E questo preventivo piano […] è appunto il piano territoriale paesistico [...]; esso, sottraendo le modificazioni al capriccio del singolo che se anche voglia prestare omaggio alle esigenze estetiche non può ispirarsi a una veduta d’insieme soverchiatrice delle sue possibilità, fa sì che una bellezza paesistica o panoramica si conservi come essere vivente, ossia trasferendo nel mutabile o mutato suo volto i segni suoi caratteristici e cioè i lineamenti costitutivi della sua bellezza”.
Pare a me che il Ministro Bottai colga, e voglia esplicitare, l'assunto per cui può aversi efficace tutela dei valori riconoscibili in determinati elementi (o contesti di elementi) territoriali, solamente attraverso una pianificata definizione dei modi d'uso e delle trasformazioni in essi ammissibili, le une e gli altri dovendo essere coerenti con le loro specifiche caratteristiche essenziali e intrinseche, cioè con le "regole" dedotte da tali caratteristiche, al fine di non eccedere le capacità di fruizione e di modificazione tipiche e peculiari dell'elemento, o contesto di elementi, territoriale (o di omogenee loro categorie). Definizione pianificata, per l'appunto, cioè sottratta alla causale successione nel tempo di progetti di intervento ineluttabilmente angusti, in quanto parziali, nonché di altrettanto anguste, in quanto frammentarie, loro autorizzazioni.
Il fatto che, in tutto il periodo di tempo in cui le competenze relative alla formazione dei “piani territoriali paesistici” rimangono esclusivamente statali (dal 1939 al 1972), giungano a vigenza soltanto 14 piani, è certamente deplorevole, ma non inficia la ricchezza, la compiutezza e la bontà delle intenzioni e delle previsioni della legge 1497/1939.
Semmai, facendo un salto temporale, è il caso di rammentare un’innovazione sostanziale introdotta dal “Codice” [2]: quella per cui, relativamente ai beni paesaggistici individuati e “vincolati” con specifici provvedimenti amministrativi [3], sia le “proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico” che le “dichiarazioni di notevole interesse pubblico” devono contenere “una specifica disciplina di tutela, nonché l'eventuale indicazione di interventi di valorizzazione degli immobili e delle aree cui si riferiscono, che vanno a costituire parte integrante del piano paesaggistico da approvare o modificare”.
…e gli eventi successivi
Negli esiti dei lavori delle Commissioni (parlamentari miste, o ministeriali e tecniche) che, nel corso degli anni ’60 del secolo scorso, si succedono nell’impegno di proporre una riforma delle leggi di tutela della fine dei precedenti anni ’30, si può agevolmente rintracciare un indubbio ed esplicito orientamento a ricondurre gli obiettivi della tutela dei beni culturali (comprensivi di quelli paesaggistici) nell'ambito dell'ordinaria pianificazione territoriale e urbanistica, ma è altrettanto certo e palese il tentativo di disegnare dei percorsi logici, metodologici e procedimentali che rispettino, pur puntando a ricondurla all'unitarietà e alle coerenze del processo di piano, la concorrenza dei poteri locali e statuali in vista della finalità della tutela dei predetti beni, sulla base dell'assunto per cui, essendo essi patrimonio dell'intera collettività nazionale, non sono attribuibili alla piena ed esclusiva disponibilità di istituzioni rappresentative soltanto di parti di tale collettività.
I formulatori e proponenti di tale impostazione non avrebbero mai accettato che essa fosse disarticolata delle sue due essenziali componenti. Ciò invece avviene nell’evoluzione successiva dell’ordinamento legislativo in argomento, per essere ripresa soltanto in parte dal decreto legge 27 giugno 1985, n. 312, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1985, n. 431, e quindi più pienamente recuperata dal “Codice”. Quest’ ultimo peraltro sollecita le regioni a provvedere alla formazione della pianificazione regionale e subregionale, per quanto attinente alla tutela dell’”identità culturale” del territorio, d’intesa con le amministrazioni statali specialisticamente competenti, ma sanziona l’eventuale opzione regionale di procedere in assenza di tale intesa soltanto con il mantenimento in essere di forti limitazioni alla possibilità regionale di sub-delegare agli enti locali la “gestione” dei beni “vincolati” (cioè, sostanzialmente, il rilascio delle speciali autorizzazioni a operare modificazioni, fisiche e funzionali, interessanti tali beni), nonché con la preclusione della possibilità di sottrarre taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in essi operabili all’ottenimento delle predette speciali autorizzazioni, venendo queste ultime, per così dire, “assorbite” negli ordinari provvedimenti (comunali) abilitativi delle trasformazioni.
Il “progressivo slittamento delle competenze dallo Stato alle regioni” che lamenta Settis, infatti, non inizia nel 1977, ma cinque anni prima, quando il decreto del Presidente della Repubblica 15 gennaio 1972, n.8, con il primo comma dell'articolo 1 trasferisce alle Regioni a statuto ordinario “le funzioni amministrative esercitate dagli organi centrali e periferici dello Stato in materia di urbanistica”, e, con il successivo quarto comma, precisa che “il trasferimento predetto riguarda altresì la redazione e la approvazione dei piani territoriali paesistici”.
Il terzo comma dello stesso articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 8/1972 precisa che “il trasferimento delle funzioni amministrative [...] riguarda anche le attribuzioni esercitate dagli organi centrali e periferici del Ministero della pubblica istruzione ai sensi della legge 6 agosto 1967, n.765”. Col che vengono soppresse le disposizioni che prevedevano l'attiva partecipazione dell'amministrazione statale preposta alla tutela dei valori culturali e paesaggistici nelle procedure di definizione degli strumenti di pianificazione.
Il successivo decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n.616, detta che “sono delegate alle regioni le funzioni amministrative esercitate dagli organi centrali e periferici dello Stato per la protezione delle bellezze naturali per quanto attiene alla loro individuazione, alla loro tutela e alle relative sanzioni” [4], con particolare riferimento al rilascio delle speciali autorizzazioni di cui s’è detto, e con facoltà, piena e incondizionata, delle stesse regioni, di sub-delegare l’esercizio di tali funzioni ai soggetti che esse ritenessero più opportuni.
E non è esatto asserire, come fa Settis, che viene mantenuto “un finale giudizio di conformità da parte delle soprintendenze”. Nel 1977, infatti, viene piuttosto mantenuto “il potere del Ministro per i beni culturali e ambientali, sentito il Consiglio nazionale per i beni culturali e ambientali, di integrare gli elenchi delle bellezze naturali approvati dalle regioni” [5], mentre soltanto con la legge 431/1985 si introduce la possibilità, per il Ministro per i beni culturali e ambientali, di “annullare, con provvedimento motivato, l'autorizzazione regionale [o subregionale, nei casi di sub-delega] entro i sessanta giorni successivi alla ricezione della relativa comunicazione” [6]. La giurisprudenza, negli anni successivi, si attesta sull’ammissibilità di tali “annullamenti” soltanto per regioni di legittimità, e solamente la riformulazione della disposizione operata dal “Codice” [7] si deve ritenere li renda possibili anche per ragioni di merito.
I prescritti connotati della pianificazione paesaggistica…
Secondo il "Codice”, la dottrina interpretativa in merito sinora conosciuta, e le pronunce della Corte costituzionale, il "piano paesaggistico" (per esso intendendosi sia la figura pianificatoria così denominata e tipizzata che il "piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici") deve essere formato dalla regione e riguardare “l'intero territorio regionale” [8]. Esso, conseguentemente, deve disciplinare sia gli immobili "vincolati" (a seguito di specifici provvedimenti amministrativi, ovvero ope legis) che ogni altro immobile, ivi compresi quelli ricadenti nelle aree gravemente compromesse o degradate [9].
Il piano deve riferire le sue disposizioni sia a elementi territoriali, individuati in base ai loro caratteri identitari distintivi (boschi, praterie, spiagge, dune, falesie, alvei fluviali, golene, paludi, ecc. ecc.) [10] che ad ambiti (definiti con criteri olistici, in relazione ai profili fisiografici, vegetazionali, di sistemazione colturale, di modello insediativo, e simili, valutati anche in relazione alle dinamiche pregresse e previste, e soprattutto in relazione all'intensità specifica delle interrelazioni tra gli elementi territoriali in essi ricadenti) [11]. Tutte le categorie di elementi territoriali, nonché tutti gli ambiti, sono disciplinati in ragione delle loro caratteristiche intrinseche, non in ragione di inesistenti "scale di valori".
Le disposizioni del piano possono avere efficacia sia immediatamente precettiva e direttamente operativa (presumibilmente, buona parte di quelle riferite agli elementi territoriali) che efficacia di direttive necessitanti, per trovare applicazione, della mediazione di uno strumento di pianificazione sottordinato (presumibilmente, la più gran parte di quelle riferite agli ambiti) [12]. In ogni caso, tutte le disposizioni del piano sono tassativamente vincolanti per la pianificazione sottordinata (provinciale e comunale, nonché di qualsiasi altro soggetto, ivi compresi gli enti di gestione dei parchi e delle altre aree protette) [13].
Ai sensi del “Codice” le regioni che abbiano provveduto a definire la pianificazione paesaggistica a norma della legislazione in argomento previgente sono tenute a verificarne, entro il 1° maggio 2008, la conformità alle pertinenti disposizioni del medesimo “Codice”, e a provvedere agli adeguamenti eventualmente necessari [14].
Ed è stabilito che, decorso inutilmente il predetto termine, il Ministero per i beni e le attività culturali provveda in via sostitutiva [15]. Ma non è specificato se, e attraverso quali modi e procedimenti, il suddetto Ministero possa verificare la conformità degli atti regionali di formazione degli strumenti di pianificazione paesaggistica, ovvero del loro adeguamento, ai relativi precetti del “Codice”.
E’ invece inconfutabile la piena discrezionalità, sacrosantamente lamentata da Salvatore Settis, di ogni regione circa il procedere, nella formazione del "piano paesaggistico", ovvero nel loro adeguamento, in base a un’intesa di “copianificazione” con il Ministero per i beni e le attività culturali e con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, oppure del tutto autonomamente [16].
Per contro, alla definizione del "piano paesaggistico" d’intesa con gli appena sopra citati ministeri è subordinata la possibilità che il medesimo "piano paesaggistico" possa decidere, in buona sostanza, la già accennata sottrazione di taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici” [17], o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in essi operabili all’ottenimento di speciali autorizzazioni, venendo queste ultime, per così dire, “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi (comunali) delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata, fermo restando che tale decisione può iniziare ad avere effetto soltanto a decorrere dall’adeguamento alla pianificazione paesaggistica di quella comunale [18].
Analogamente, alla definizione del "piano paesaggistico" d’intesa con i citati ministeri è subordinata la possibilità che le regioni sub-deleghino le funzioni relative alle speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici” anche ai comuni (anziché soltanto, eventualmente, alle province o “a forme associative e di cooperazione degli enti locali in ambiti sovracomunali all’uopo definite”), fermo restando che, in tale caso, il parere (endoprocedimentale) della competente soprintendenza resterebbe vincolante (nelle fattispeci, si deve ritenere, in cui l’ottenimento delle speciali autorizzazioni non sia stato dichiarato del tutto non richiesto) [19].
Infatti, a norma del “Codice”, fino al dianzi ricordato termine del 1° maggio 2008, ovvero, qualora sia precedente, alla data di approvazione, o di adeguamento ai dettami dello stesso “Codice”, del “piano paesaggistico” regionale, l’ottenimento di speciali autorizzazioni permane necessario per l’effettuazione di tutte le trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici”, restando il relativo procedimento sostanzialmente analogo a quello definito dalla legislazione previgente, cioè, in estrema sintesi, essendo il rilascio competenza della regione, ovvero del soggetto istituzionale al quale la regione l’abbia sub-delegato, ferma restando la facoltà della competente soprintendenza di “annullare” l’autorizzazione rilasciata, per ragioni, come si è già sostenuto, non soltanto di legittimità, ma anche di merito [20].
Successivamente al termine temporale, ovvero alle date di accadimento degli eventi, appena sopra indicati, le speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici”, sono, sempre in estrema sintesi, parimenti rilasciate dalla regione, ovvero dal soggetto istituzionale al quale la regione abbia sub-delegata la relativa competenza, previa acquisizione del parere della competente soprintendenza, il quale è, ordinariamente, vincolante.
Come già s’è detto, la regione può sub-delegare ai comuni le funzioni relative alle speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici” soltanto qualora abbia definito il "piano paesaggistico" d’intesa con il Ministero per i beni e le attività culturali e con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, fermo restando che, comunque, in tale caso, il parere della competente soprintendenza resterebbe vincolante (ma soltanto, a mio parere, nelle fattispeci in cui l’ottenimento delle speciali autorizzazioni non sia stato dichiarato del tutto non richiesto dal "piano paesaggistico" formato attraverso la suddetta intesa) [21].
Non è quindi vero che in forza del “Codice”, come afferma Settis, “le soprintendenze perdono il potere di annullare a valle le autorizzazioni”, e “possono solo partecipare, a monte, alla redazione dei piani paesaggistici”. Com’è stato puntualmente ricostruito ed esposto, infatti, le soprintendenze mantengono il potere di annullare le speciali autorizzazioni, potendo finalmente farlo anche per ragioni di merito, fino al 1° maggio 2008, ovvero, qualora sia precedente, alla data di approvazione, o di adeguamento ai dettami del “Codice”, del “piano paesaggistico” regionale, dopodichè acquisiscono il potere di esprimere un parere vincolante relativamente al rilascio, o meno, di tali speciali autorizzazioni, salvo che per quegli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici” ope legis (ovvero, a mio parere, dalla stessa pianificazione paesaggistica) relativamente ai quali la pianificazione paesaggistica regionale, formata d’intesa con il Ministero per i beni e le attività culturali e con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, abbia deciso che la tutela sia adeguatamente garantita dal rispetto delle regole fissate dalla stessa pianificazione paesaggistica, e comunque non prima che a essa si sia adeguata l’ordinaria pianificazione provinciale, e quella comunale.
Resta da approfondire il problema se la disposizione del “Codice” relativa ai limiti della sub-delegabilità, da parte delle regioni, delle funzioni relative alle speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici”, sia immediatamente precettiva, e abrogativa delle previgenti disposizioni legislative statali in argomento, in base al principio della successione delle disposizioni di legge nel tempo. Si dovrebbe propendere per la risposta affermativa riflettendo sulla natura della disposizione, suscettibile di immediata applicabilità, nei limiti del ripristino della competenza al rilascio delle predette speciali autorizzazioni in capo alle regioni, e ascrivibile (secondo gli insegnamenti ricavabili dalla giurisprudenza della Corte costituzionale) alla categoria dei precetti dettati dal “Codice” con riferimento alla “materia” denominata “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato (comma secondo, lettera s., dell’articolo 117 della Costituzione come riscritto per effetto della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3), e non alla categoria dei precetti dettati dal medesimo “Codice” con riferimento alle “materie” denominate “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, appartenenti alla legislazione concorrente, in cui “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” (commi terzo e quarto del novellato articolo 117 della Costituzione). Si dovrebbe, invece, propendere per la risposta negativa ponendo mente alla perentorietà dell’affermazione per cui fino al termine del 1° maggio 2008, ovvero, qualora sia precedente, alla data di approvazione, o di adeguamento ai dettami dello stesso “Codice”, del “piano paesaggistico” regionale, trova applicazione la disciplina dettata “in via transitoria” dianzi sunteggiata [22].
Va considerato che, qualora la risposta al suindicato quesito fosse affermativa, ne conseguirebbe l’illegittimità di tutte le speciali autorizzazioni rilasciate dai comuni dopo l’entrata in vigore della predetta disposizione del “Codice” [23].
Venendo alla Toscana…
Trattando di tutela del paesaggio, ben comprensibilmente Salvatore Settis finisce con il rammentare, nel suo intervento giornalistico, il “caso Monticchiello” e il dibattito sulla tutela paesaggistica in Toscana. Dibattito che, per potere “volare alto” (si è in molti a pensarlo), senza precludere a qualsiasi soggetto a cui spetti istituzionalmente, o vi abbia interesse, di approfondire ogni aspetto dello specifico “caso”, deve affrontare il nodo dei contenuti e dell’efficacia della futura definenda pianificazione (regionale e subregionale) toscana, e della sua funzionalità all’obiettivo della tutela dell’”identità culturale” del territorio regionale (quanto alla tutela dell’”integrità fisica” se ne parla, magari, un’altra volta, presumibilmente in termini, al di là degli specialismi, non troppo dissimili).
Va detto innanzitutto che il dianzi sunteggiato insieme di precetti del “Codice” (i quali, secondo la Corte costituzionale, costituiscono inderogabili “principi fondamentali” della legislazione dello Stato, in materia – concorrente di Stato e regioni – di “governo del territorio”) relativo ai contenuti e alle efficacie del piano non avrebbe potuto, né potrebbe, trovare traduzione operativa nell’attività pianificatoria della Regione Toscana, e, susseguentemente, in quella, di adeguamento alla prima, degli enti locali subregionali, in assenza di una rivisitazione, magari non estesa, ma certamente profonda, della vigente legge regionale per il governo del territorio, la legge regionale 3 gennaio 2005, n.1.
Tale legge regionale, innanzitutto, definisce in termini alquanto diversi da quelli desumibili dagli obiettivi e dalle intenzionalità del “Codice” i contenuti dello strumento di pianificazione di competenza regionale, il Piano di indirizzo territoriale (e ciò al di là di talune stucchevoli trascrizioni letterali di parti di norme dello stesso [24]). E soprattutto ne determina in modo tutt’affatto diverso le efficacie. Secondo la suddetta legge regionale, infatti, gli strumenti di pianificazione sovraccomunali (nonché il piano strutturale comunale) non hanno, sostanzialmente, mai efficacia immediatamente precettiva, e direttamente operativa. Né tampoco efficacia realmente cogente nei confronti della pianificazione sottordinata, secondo quel “modello rigidamente gerarchico” che, secondo la Corte costituzionale, costituisce un “principio fondamentale” in materia di “governo del territorio”, quantomeno per quanto afferisce ai contenuti della pianificazione riguardanti la tutela dell’”identità culturale” del territorio stesso. Ciò in quanto la legge regionale toscana 1/2005 è interamente e rigidamente improntata all’assunto per cui, a seguito dell’entrata in vigore del novellato Titolo V della Costituzione, comuni, province, città metropolitane, regioni, e Stato sarebbero soggetti “equiordinati”, e altrettanto “equiordinati” sarebbero gli strumenti di pianificazione di competenza di tali livelli e soggetti istituzionali. Con la conseguenza che il rimedio esperibile nei casi di strumenti di pianificazione comunali difformi (anche clamorosamente) dalla pianificazione della provincia territorialmente competente (o dalla pianificazione regionale), ovvero di strumenti di pianificazione provinciali difformi (anche clamorosamente) dalla pianificazione regionale, consiste nel rivolgersi a una “conferenza paritetica interistituzionale”, alle cui pronunce il soggetto pianificatore responsabile della formazione degli strumenti difformi può peraltro non adeguarsi, residuando al soggetto responsabile dello strumento di pianificazione contraddetto la potestà di approvare “specifiche misure di salvaguardia” che comportano la “nullità di qualsiasi atto con esse contrastanti”.
A ogni buon conto, fattualmente, né il documento preliminare al Piano di indirizzo territoriale, divulgato dall’assessore regionale competente, né gli elaborati, in corso di perfezionamento, destinati a costituire tale piano, per quanto attendibilmente oggi li si conosca, configurano uno strumento regionale di pianificazione che, per quanto attiene, quantomeno, i suoi contenuti di tutela dell’”identità culturale” del territorio, abbia una sia pur vaga parentela con il "piano paesaggistico" il cui profilo si è dianzi voluto desumere dai precetti del “Codice”. Essi configurano, piuttosto, per usare la splendida espressione della postilla che eddyburg ha fatto seguire alla riproduzione dell’articolo di Salvatore Settis, un piano di chiacchiere.
La cosa è, del resto, sostanzialmente, seppur nebulosamente, ammessa e riconosciuta da uno degli elaborati fondamentali del medesimo Piano di indirizzo territoriale, laddove, all’articolo 37 delle norme, si afferma che “la Regione provvede a implementare la disciplina paesaggistica contenuta nel presente statuto, attraverso accordi di pianificazione e relative intese con il Ministero per i beni e le attività culturali e il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, con i contenuti di maggior dettaglio propri degli strumenti di pianificazione provinciali e comunali” [25].
Poiché dianzi si sono trattati anche i profili “gestionali” della “tutela” dei “beni paesaggistici”, non si può mancare di segnalare che la Regione Toscana ha preteso di definire il procedimento di rilascio delle speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati”, e di attribuire la relativa competenza ai comuni, oltre che agli enti-parco, totalmente a prescindere dalle condizioni alle quali il “Codice” subordina tali scelte [26]. La cosa non ha costituito, a suo tempo, e nei termini, oggetto di ricorso governativo presso la Corte costituzionale, così come altri profili della legge regionale toscana 1/2005 che sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi. Il che non toglie che la questione possa essere sollevata, in via incidentale, da chiunque vi abbia interesse.
…e a qualche altra regione
La Regione Friuli – Venezia Giulia, che già, con la legge 13 dicembre 2005, n.30, recante “norme in materia di Piano Territoriale Regionale”, aveva prefigurato, in termini addirittura eversivi del proprio precedente ordinamento in materia di “governo del territorio”, la formazione di un piano di chiacchiere, si sta accingendo a trasfondere, sostanzialmente, gli stessi precetti in una nuova legge organica, trasmessa dalla Giunta all’esame del Consiglio, pomposamente denominata “Riforma dell’urbanistica e disciplina dell’attività edilizia e del paesaggio”.
Si tenga presente che, pur rientrando la Regione Friuli – Venezia Giulia tra quelle “a statuto speciale”, a norma del suo specifico statuto, in materia di “tutela del paesaggio” essa ha soltanto “facoltà di adeguare alle sue particolari esigenze le disposizioni delle leggi della Repubblica, emanando norme di integrazione e di attuazione” [27] (mentre in materia di urbanistica “ha potestà legislativa […] in armonia con la Costituzione, con i principi generali dell’ordinamento giuridico della Repubblica, con le norme fondamentali delle riforme economico-sociali e con gli obblighi internazionali dello Stato” [28]). Ciononostante il disegno di legge, sottoposto al Consiglio regionale, dianzi indicato, non si esime dal proclamare, a ogni pie’ sospinto, e del tutto infondatamente (eccettuate forse, in parte, le disposizioni afferenti alla “gestione” delle “tutele”, meno clamorosamente difformi di quelle toscane) la sua perfetta aderenza ai dettati del “Codice”.
Su questi bei fondamenti, direbbe il Manzoni, la Regione Friuli – Venezia Giulia ha predisposto, e sta facendo circolare, un documento preliminare al Piano Territoriale Regionale, zeppo di previsioni di linee viarie e ferroviarie, di porti, interporti e altre “pesanti” attrezzature, di elettrodotti, e via infrastrutturando, e che, per quel che riguarda il paesaggio e la sua tutela, non contiene molto più che l’intenzione di “offrire sostegno alla zootecnia e al pascolo (con reintroduzione di cavalli, mucche, ovini, che a livello di coscienza collettiva contribuiscono a fare paesaggio)”. Ed è con riferimento a un siffatto documento preliminare che la Regione Friuli – Venezia Giulia ha proposto al Ministero per i beni e le attività culturali e al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio di stipulare un’ intesa interistituzionale per “l’elaborazione congiunta del piano territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici” [29].
Nella Regione Emilia – Romagna, che a seguito dell’entrata in vigore della legge 431/1985 aveva formato uno dei due (in tutta l’Italia) strumenti di pianificazione paesaggistica regionali pregnanti, incisivi, e, in una parola, degni dell’appena usata denominazione, e ciò a norma della legislazione regionale della fine degli anni ’70 del secolo scorso [30], e che successivamente (secondo una prassi ricorrente nell’empirismo politico-amministrativo emiliano-romagnolo) aveva modellato i profili attinenti alla tutela paesaggistica nella pianificazione (innanzitutto regionale) della nuova legge organica in materia di “governo del territorio” [31] sull’esperienza pianificatoria compiuta e (si doveva supporre) consolidata, è stato avviato ai primi di ottobre l’esame di un disegno di legge di revisione della legislazione regionale che, per quel che riguarda la pianificazione regionale in genere, e quella volta alla tutela paesaggistica in particolare, configura anch’esso piani di chiacchiere.
Si potrebbe proseguire esaminando, più o meno dettagliatamente, sia le normative regionali, vigenti e/o in esame, afferenti la pianificata definizione delle tutele dell’”identità culturale” del territorio, nonché la gestione della tutela dei “beni paesaggistici”, sia le concrete attività pianificatorie pregresse o in essere, con riferimento a molte altre regioni italiane, o a tutte. Ma questo scritto ha già superato di molto i limiti quantitativi propri di un elaborato del suo tipo. Mi si passi, quindi, l’apoditticità dell’asserzione (peraltro agevolmente verificabile, e, se ne si rinvengono i presupposti, falsificabile) con cui termino l’esposizione su questo tema: nessuna regione italiana dispone di un apparato legislativo pienamente aderente ai dettami del “Codice”, né con riferimento alla pianificazione paesaggistica, né con riferimento alla gestione della tutela dei “beni paesaggistici”; molti di tali apparati legislativi presentano, soprattutto sotto il primo profilo, distonie impressionanti; tali distonie verrebbero, spesso, rilevantissimamente accentuate dalle proposte, presentemente all’esame, di integrazione e modificazione degli apparati legislativi precedentemente, o tuttora, vigenti; le non numerose iniziative, in essere, di pianificazione regionale, o di aggiornamento di tale pianificazione, non manifestano, ictu oculi, pressoché alcuna parentela con la configurazione della pianificazione paesaggistica regionale ricavabile dalla lettera e dallo spirito del “Codice”.
Conclusione provvisoria ma preoccupata
Essendo, come credo, il quadro complessivo che ho appena delineato del tutto rispondente alla situazione reale in essere, se ne deve dedurre che non v’è alcuna prospettiva che entro il termine del 1° maggio 2008, e meno che mai antecedentemente a esso, si completi anche soltanto una operazione di pianificazione paesaggistica regionale conforme ai dettati del “Codice”, e cioè efficacemente capace di avviare una pianificata definizione delle misure di tutela dell’”identità culturale” dell’intero territorio regionale.
E si rammenti che fino a quando ogni regione non abbia definito un “piano paesistico” conforme ai dettami del “Codice”, e per di più formato d’intesa con il Ministero per i beni e le attività culturali e con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, la medesima regione non potrà né sub-delegare ai comuni (ove lo voglia fare) le funzioni relative alle speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici”, né tantomeno decidere la sottrazione di larga parte degli elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in esse operabili all’ottenimento di speciali autorizzazioni, venendo queste ultime “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata (realizzando così una straordinaria, colossale semplificazione, consistente anche in un rilevantissimo snellimento temporale, dei procedimenti ai quali debbono, giustamente, sottostare i cittadini promotori di trasformazioni di immobili).
Sarà sgradevole, magari drammatico, ma certamente non tragico: non sarebbe, infatti, spazzata via la ragionevole speranza che si addivenga, in un futuro ancora una volta un po’ differito, a porre in essere un generalizzato sistema di efficace ed efficiente tutela dell’”identità culturale” dell’intero territorio nazionale.
Ciò che preoccupa, veramente, è l’orientamento, formalizzato da una sola regione (pare, per ora), ma presente in molte altre (e, ove alle prime andasse a buon fine, di certo, un domani, in tutte), a proporre (pretendere?) la sottoscrizione di “intese interistituzionali” al Ministero per i beni e le attività culturali e al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, per la formazione congiunta di piani di chiacchiere.
E ciò che angoscia è il pensare ( male, certamente, con il che si fa peccato, ma come diceva quel politico italiano “di lungo corso”, ci s’azzecca) sia possibile che i suddetti ministeri si acconcino a tali sottoscrizioni, vuoi perché consapevoli dello stato disastrato dei propri apparati tecnici, oggi del tutto inadeguati alla prospettiva di partecipare attivamente e incisivamente a una grandiosa operazione di ripianificazione dell’intero territorio nazionale, e dell’infame esiguità delle risorse messe a disposizione, vuoi perché incapaci di resistere alle lusinghe, o alle pressioni, dei vertici delle regioni, nella stragrande maggioranza appartenenti allo stesso schieramento politico che esprime l’attuale esecutivo centrale (e non potendo di certo, poi, negare l’identica acquiescenza alle eventuali pretese dei pochi vertici regionali appartenenti allo schieramento avverso).
In quest’ultimo caso sarebbe definitivamente uccisa anche la speranza, che ha animato per più di un settantennio alcune delle migliori menti (e dei più generosi cuori) di questo Paese, di vedere, un giorno, tutelata la sua bellezza.
Allora si moltiplicherebbero gli “schifi” di Monticchiello, e le colate di cemento sulla riva del lago Inferiore di Mantova, e si riprodurrebbero i “mostri” di Fuenti, per non dire dell’ auditorium di Ravello, e resterebbero e si riproporrebbero i complessi di Punta Perotti e i “Villaggi Coppola”, e via enumerando teratologie varie.
Ma consoliamoci: in qualche quadrato residuo di prato, tra un capannone e l’altro, pascolerebbero ancora parecchie carinissime vaciutis furlanis.
[1] Camera dei fasci e delle corporazioni - Documenti - Disegni di legge e Relazioni -XXX legislatura – I° della Camera dei fasci e delle corporazioni - disegno di legge n. 221.
Il dibattito alla Camera è riportato in: Camera dei fasci e delle corporazioni -Commissioni legislative - XXX legislatura – I° della Camera dei fasci e delle corporazioni - Seduta del 22 maggio 1939 – XVII. Il dibattito al Senato è riportato in: Senato del Regno - Commissione educazione nazionale e cultura popolare - XXX legislatura – I° della Camera dei fasci e delle corporazioni - Seduta del 5 giugno 1939 - XVII.
[2] Con il comma 2 dell’articolo 138, e con il comma 2 dell’articolo 140.
[3] Secondo i procedimenti di cui agli articoli da 136 a 141.
[4] Articolo 82, primo comma.
[5] Articolo 82, primo comma, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 616/1977.
[6] Con il nono comma dell’articolo 82 del decreto del Presidente della Repubblica 616/1977, aggiunto per effetto dell’articolo 1 della legge 431/1985.
[7] Con il comma 3 dell’articolo 159, ai sensi del quale “la soprintendenza, se ritiene l'autorizzazione non conforme alle prescrizioni di tutela del paesaggio […] può annullarla, con provvedimento motivato, entro i sessanta giorni successivi alla ricezione della relativa, completa documentazione”.
[8] Articolo 135, comma 1, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".
[9] Articolo 143, comma 1, lettera g), del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".
[10] Articolo 135, comma 3, lettera a), articolo 143, comma 1, passim, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".
[11] Articolo 135, comma 2 e passim, articolo 143, comma 1, passim, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".
[12] Articolo 142, comma 2, articolo 145, commi 3, 4 e 5, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".
[13] Articolo 145, comma 3, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".
[14] Articolo 156, comma 1, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio". Nulla peraltro è detto relativamente alle regioni che non abbiano affatto adempiuto agli obblighi pianificatori con finalità di tutela del paesaggio posti dalla previgente legislazione.
[15]Ibidem.
[16] Articolo 143, comma 3, articolo 156, comma 4, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".
[17]Per essere precisi, limitatamente ai “beni paesaggistici” così qualificati ope legis (e, a mio parere, con riferimento ai “beni paesaggistici” qualificati come tali dalla stessa pianificazione paesaggistica). Essendo esplicitamente esclusi da tale possibilità i “beni paesaggistici” definiti come tali con specifici provvedimenti amministrativi.
[18] Articolo 143, commi 5 e 6, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".
[19] Articolo 146, comma 3, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".
[20] Articolo 159 del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".
[21] Articolo 146, con particolare riferimento ai commi 3 e 8, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".
[22] Articolo 159 del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".
[23] Per il vero, introdotta per effetto dell’articolo 16 del decreto legislativo 24 marzo 2006, n.157.
[24] Si veda, per esempio, il comma 3 dell’articolo 33 della legge regionale 1/2005.
[25] Il riferimento è agli elaborati sottoposti dall’assessorato regionale competente al cosiddetto “tavolo di concertazione”, ed è quindi suscettibile di successive modificazioni.
[26] Articoli 87, 88 e 89 della legge regionale toscana 1/2005.
[27] Articolo 6.
[28] Articolo 4.
[29] Deliberazione della Giunta regionale del Friuli – Venezia Giulia del 28 luglio 2006, n.1873.
[30] Per la precisione, della legge regionale 7 dicembre 1978, n.47.
[31] Legge regionale 24 marzo 2000, n.20.
Ho letto con grandissima attenzione, sentendomene fortemente interrogato, l’opinione di Maria Pia Guermandi intitolata “La libertà dei valori e la democrazia dei diritti”, pubblicata in eddyburg del 15 maggio ultimo scorso: si tratta di una riflessione densa di interrogativi intriganti, spesso spiazzanti, mai banali e liquidabili con una più o meno frettolosa scrollata di spalle.
La sua portata, le sue valenze, gli ineludibili quesiti che pone vanno sempre e comunque ben oltre la casistica bolognese, pure frequentemente ed efficacemente evocata. Così come sono stringentemente contemporanee, eppure non hanno tempo, le aporie implicite in talune sue affermazioni. Quella tra legalità e legittimità, ovvero tra legge della società organizzata e diritti irrinunciabili degli umani, che rinvia, almeno, al mito eterno di Antigone. Quella tra legalità che sigilla le ineguaglianze e legalità che fornisce l’unico potere dei senza potere. E altro ancora potrei dire di uno scritto che forse non condividerei in ogni sua, possibile o forse necessaria, estrema conseguenza, ma che certamente, in tali casi, impegna ineludibilmente a controargomentare mettendosi pienamente in gioco.
Proprio per tutti i motivi che ho sinora esposto, non ho potuto che rammaricarmi di vedere riproposta, in un siffatto intervento, la terribile semplificazione per cui “la democrazia è un’ideologia di eguaglianza e il liberalismo della differenza”, dichiaratamente ripresa da Carl Schmitt, cioè da un rozzo supporter giuridico-politologico del nazionalsocialismo, estraneo sia alla democrazia che al liberalismo, e nemico dell’una e dell’altro.
Eppure il più importante teorico del liberalismo inglese della metà dell’800, John Stuart Mill, scriveva che “i mezzi per il proprio sviluppo, che l’individuo perde quando gli è impedito di soddisfare le sue inclinazioni a danno di altri, sono generalmente ottenuti a spese dello sviluppo altrui. Anche per l’individuo stesso vi è una completa compensazione sotto forma di un migliore sviluppo dell’aspetto sociale della sua natura, reso possibile dai vincoli imposti a quello egoistico” (On Liberty, 1859; ed.it. Sulla libertà, Milano, 1990, pag.109). Su questi fondamenti, non poteva che dare per scontato che il liberalismo dovesse inverarsi nella forma democratica di organizzazione istituzionale, giacché quei diritti e doveri di tutti che sono garantiti dallo Stato di diritto e dall’eguaglianza davanti alla legge divengono significativi, per la più parte dei cittadini, soltanto grazie alla titolarità dei diritti politici, di eguali chances di partecipazione, e quindi grazie al suffragio universale (compreso quello femminile) e uguale. Ma anche i diritti politici rimangono solamente formali, se non è assicurato a tutti un adeguato status sociale ed economico. E, anche anticipando le attualissime riflessioni sui limiti della crescita, asseriva perentoriamente che “nei paesi più avanzati, ciò che economicamente è necessario è una migliore distribuzione della ricchezza […] per coltivare liberamente le grazie della vita [to coltivate freely the graces of life]” (Principles of Political Economy, London, 1911, pag.454). Tant’è che potè concludere che “il nostro ideale andò molto al di là della democrazia e ci avrebbe meritato decisamente la designazione di socialisti” (Autobiography, London, 1873, London , 1969, pag.196).
Vennero poi, e ripresero, e di molto svilupparono, gli assunti ora sommarissimamente ricordati del pensiero di Stuart Mill, i cosiddetti “liberali vittoriani”. E quindi John Maynard Keynes (relativamente al quale penso più a taluni scritti occasionali e “minori” che alla formidabile The General Theory of Employment, Interest and Money, London, 1936, trad. it. Occupazione, interesse e moneta, Torino, 1963) e William Beveridge, il teorico e il costruttore del Welfare State (Full Employment in a Free Society, London, 1944).
Al di là dell’Atlantico, negli anni di Keynes e di Beveridge, si affermava, si sviluppava, creava strutture istituzionali, economiche, sociali, il New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Ometto di citare anche uno solo dei teorici new dealer, eccetto quello che fece allora le sue prime prove, e che recentissimamente ci ha lasciati: John Kenneth Galbraith. Quanto facile sia incasellarne il pensiero nella formuletta schmittiana, lo lascio giudicare a coloro che hanno letto, o che avranno voglia di leggere, o di rileggere, quanto di lui pubblicato in eddyburg, nelle ultime settimane, a firma di Giorgio Ruffolo, di Carla Ravaioli e di Augusto Graziani, nonché gli stralci “straordinariamente anticipatori” tratti dal suo scritto “La Libertà, la Felicità…e anche l’Economia” (Liberty, Happiness…and the Economy, da The Altlantic Monthly, giugno 1967).
Per venire ai tempi nostri, potrei ricordare John Rawls, per il quale ogni ineguaglianza sociale è arbitraria e inaccettabile, salvo che non sia ragionevole presumere che essa si traduca in un vantaggio per la collettività e in particolare per i più svantaggiati (A Theory of Justice, Oxford – London, 1972, trad. it. Una teoria della giustizia, Milano, 1986).
E nella nostra povera Italia? è vero che un pensiero liberale omologo a quello al quale sinora ho fatto riferimento non superò mai, nelle competizioni elettorali (quando ci si cimentò) percentuali “da prefisso telefonico”, ma ciò non legittima l’ignorare che vissero, scrissero, operarono, Piero Gobetti, Guido De Ruggiero, Guido Calogero, Mario Pannunzio e tutto (o quasi) il gruppo di “Il Mondo”, nel contesto del quale quell’Antonio Cederna così spesso, e meritatamente, e doverosamente, ricordato in eddyburg, del cui pensiero non è dato capire un beneamato nulla se non lo si inquadra nel filone che da Carlo Cattaneo, passando per Gaetano Salvemini, arriva a quella famosa (e fumosa, beati loro!) redazione di Campo Marzio prima e di via Colonna Antonina poi.
Ho affastellato nomi e brevissime e apodittiche citazioni. Ma non credo che altro mi potessi permettere di fare.
Se poi volessi indulgere anch’io al vizio delle ipersemplificazioni, potrei fare presente che “la democrazia” è quella che ammannisce a Socrate una bella tisana di cicuta. E anche, seppure in termini meno strutturati e formalizzati, quella che invoca ed esige “crucifige” (da cui le splendide riflessioni di Gustavo Zagrebelsky, in Il “crucifige” e la democrazia, Torino, 1995).
Sorgendo dalla tomba, e alzando il ditino ammonitore, Benjamin Constant mi rimprovererebbe: “Quella era la libertà (la democrazia) degli antichi”. Infatti: quella dei moderni in tanto è altra cosa in quanto è liberal-democrazia. E in quanto tale ci sentiamo impegnati a difenderla, nei paesi dove s’è, più o meno bene, instaurata, dalle derive plebiscitarie, leaderistiche, mass-mediatiche, autoritarie se non totalitarie (qualche volta persino vincendo, magari per una manciata di voti, e avendo ramazzato il ramazzabile).
E, a proposito: è proprio sicura Maria Pia Guermandi che le sue posizioni circa il rifiuto della circoscrizione, della espulsione, della rimozione, della “società marginalizzata”, in quanto vivente fuori della legalità formale, o ai suoi margini (mi scuso se pure io, adesso, sintetizzo intollerabilmente il suo pensiero), troverebbero, illic et nunc, un largo appoggio nelle espressioni democratiche (rappresentative e/o referendarie) della comunità bolognese, ovvero il consenso maggioritario (comunque sondato) della locale “opinione pubblica”?
Vedi caso, trova invece forte “simpateticità” (quantomeno) in un vecchio liberale quale continua, caparbiamente e orgogliosamente, a considerarsi (totalmente a prescindere dai simboli che contrassegna sulle schede elettorali) l’autore di queste modeste noterelle.
Venezia, 21 maggio 2006
Antonio Cederna fu eletto alla Camera dei Deputati, nelle liste del Partito comunista italiano, come indipendente di sinistra, nella X legislatura, iniziata il 2 luglio 1987 e terminata il 22 aprile 1992. Con questo scritto non si può certamente proporsi di ricostruire ed esporre analiticamente la sua attività di parlamentare, che fu (dati i suoi convincimenti e il suo carattere, non poteva essere altrimenti) impegnata, assidua, oserei quasi dire “diligente”: ci si prefigge quindi soltanto di esporre i lineamenti essenziali, nonché la sorte immediata e gli esiti a più lungo termine, delle proposte di legge di cui fu “autore”, in quanto ne volle e ne curò, o ne coordinò, la redazione, ne fu primo firmatario e presentatore, e ne seguì appassionatamente e ostinatamente l’iter parlamentare (quando questo ci fu). Si tratta della proposta di legge contenente Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo, di quella relativa a Interventi per la riqualificazione di Roma Capitale della Repubblica e infine di quella recante Integrazione e coordinamento della legislazione speciale per Venezia.
Cederna svolse invece un ruolo assai meno da protagonista nella formazione della legge che si denominò Legge quadro sulle aree protette, e che fu definitivamente approvata proprio nel corso della X legislatura (nel 1991). Anche se sottoscrisse la proposta di legge che aveva come primo firmatario Gianluigi Ceruti, il quale era stato vicepresidente nazionale di “Italia Nostra” edera allora deputato eletto nelle liste dei Verdi. E anche se sostenne lealmente il testo unificato, rifiutandosi di prestare troppo l’orecchio (salvo talvolta reagire con manifestazioni di sconcerto e rimbrotti) alle critiche che a quel testo muoveva l’autore di queste righe, e a quelle, ancora più drastiche, che gli rivolgeva Antonio Iannello: l’uomo che, secondo Cederna, “pensava male [essendo, e più proclamandosi, un idealista crociano, distantissimo quindi dall’empirismo pragmatista di Cederna, erede del filone cattaneano della cultura politica italiana] ma razzolava bene”.
La difesa del suolo
Negli ultimi mesi della IX legislatura, presso la commissione per i lavori pubblici della Camera, ma a seguito anche dell’espressione di un parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici, e grazie a riunioni concertative informali tra il ministro dei Lavori pubblici, rappresentanti delle regioni e rappresentanti del predetto organo parlamentare, era stata formulata la proposta di un testo unificato recante disposizioni per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo, che pareva raccogliere un quasi unanime consenso delle formazioni politiche, e altresì quello, la cui mancanza sin’allora era stata ostativa del procedere del processo decisionale di formazione di una nuova legge sul predetto argomento, delle regioni.
Nel suddetto testo unificato il sistema organizzativo e programmatico finalizzato alla difesa del suolo trovava il suo fondamento nell’individuazione dei bacini idrografi ci, e nella previsione della formazione dei piani di bacino. I bacini erano riconosciuti appartenere a (soltanto) due categorie: bacini regionali e bacini interregionali. Nell’ambito di questi ultimi erano individuati quelli che erano denominati bacini interregionali a regime speciale, i cui piani si prevedeva fossero formati sotto la direzione di comitati istituzionali composti da non meno di quattro rappresentanti del Governo statale e da un rappresentante per ciascuna delle regioni interessate, e fossero definitivamenteapprovati dal ministro dei Lavori pubblici. Si prevedeva inoltre l’istituzione ex novo di un Comitato nazionale per la difesa del suolo, composto da esperti nelle materie attinenti, presieduto dal ministro dei Lavori pubblici e con sede presso il Ministero, la trasformazione della Direzione generale delle acque e degli impianti elettrici del medesimo Ministero in Direzione generale della difesa del suolo e la riorganizzazione dei servizi idrografico, mereografico, dighe, sismico e geologico, attribuendo loro autonomia funzionale nell’ambito dell’organizzazione del dicastero dei lavori pubblici.
Il testo unificato non riuscì a completare il suo iter, con la definitiva approvazione di una legge, prima dello scadere della legislatura.
Alla fine del 1987 Cederna si convinse dell’opportunità di concorrere alla formazione della legge per la difesa del suolo mediante la presentazione di un’autonoma proposta. Per la sua messa a punto chiamò a collaborare Giuliano Cannata, Filippo Ciccone e l’autore di queste righe. Il testo che ne scaturì, e di cui Cederna fu, ovviamente, primo firmatario e presentatore, fu sottoscritto anche dai deputati Franco Bassanini e Stefano Rodotà, entrambi della Sinistra indipendente, nonché da Enrico Testa, del Partito comunista italiano.
Rispetto al testo unificato scaturito dai lavori e dai confronti intercorsi nella precedente legislatura, la proposta di legge di Cederna, assuntone l’impianto strutturale, interveniva con una ingente quantità di modificazioni e integrazioni, anche minute, le più rilevanti e incisive delle quali riguardavano la definizione dei contenuti dei piani di bacino e le espressioni centrali dello Stato che si reputava dovessero assumere dei ruoli nelle attività volte alla difesa del suolo. Quanto al primo profilo, basti dire che si puntava a renderne più ricca la latitudine e più incisiva l’efficacia. Quanto al secondo profilo, si proponeva la costituzione, anziché di un Comitato nazionale per la difesa del suolo composto da tecnici, di un Comitato interministeriale per la difesa del suolo composto dal ministro dei Lavori pubblici, dal ministro dell’Agricoltura e foreste, dal ministro per i Beni culturali e ambientali, dal ministro dell’Ambiente, dal ministro della Marina mercantile, dal ministro per il Coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e tecnologica, dal ministro per il Coordinamento della protezione civile. Gli stessi ministri, o loro delegati, era previsto facessero parte dei comitati istituzionali dei bacini a regime speciale, assieme a un rappresentante per ciascuna delle regioni interessate, per cui tali comitati sarebbero stati composti da non meno di sette rappresentanti del Governo statale, e da un numero variabile, ma comunque inferiore (salvo il caso del bacino del Po), di rappresentanti delle regioni. Per l’assolvimento delle funzioni tecnico-consultive si proponeva la trasformazione del Consiglio superiore dei lavori pubblici in Consiglio superiore del territorio e dell’ambiente, ampliandone consistentemente la composizione. E si proponeva che i servizi idrografico, mereografico, dighe, sismico e geologico fossero riorganizzati nell’ambito dell’istituendo Consiglio superiore del territorio e dell’ambiente.
Meno di un paio d’anni dopo la presentazione della proposta di legge ora sommariamente illustrata, il confronto parlamentare ebbe esito nell’approvazione della legge 18 maggio 1989, n. 183. In essa i bacini idrografi ci erano suddivisi non più in due, ma in tre categorie: bacini di rilievo nazionale, bacini di rilievo interregionale, bacini di rilievo regionale. Quantomeno ai bacini di rilievo nazionale erano preposte autorità di bacino, i cui organi decisionali erano denominati comitati istituzionali. Dei comitati istituzionali dei bacini di rilievo nazionale si disponeva facessero parte il ministro dei Lavori pubblici, il ministro dell’Ambiente, il ministro dell’Agricoltura e foreste, il ministro per i Beni culturali e ambientali, o loro delegati, assieme a un rappresentante per ciascuna delle regioni interessate, per cui tali comitati sarebbero stati composti da non più di quattro rappresentanti del Governo statale, e da un numero variabile, ma comunque sempre inferiore (salvi i casi del bacino del Po e di quello dal Tevere), di rappresentanti delle regioni. La definizione dei contenuti dei piani di bacino faceva proprie le indicazioni della proposta di legge di Cederna, e anzi operava ulteriori arricchimenti. Veniva decisa laistituzione non già del Comitato interministeriale per la difesa del suolo proposto dal testo presentato da Cederna, ma, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, di un Comitato dei ministri per i servizi tecnici nazionali e gli interventi nel settore della difesa del suolo, presieduto dal Presidente del Consiglio dei ministri e composto dal ministro dei Lavori pubblici, dal ministro dell’Ambiente, dal ministro dell’Agricoltura e foreste, dal ministro per il Coordinamento della protezione civile e dal ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno. Non veniva accolta l’ipotesi di riformare il Consiglio superiore dei lavori pubblici, trasformandolo in Consiglio superiore del territorio e dell’ambiente, e veniva riproposta e decisa l’istituzione ex novo di un Comitato nazionale per la difesa del suolo, composto da esperti nelle materie attinenti. Infine, era stabilito che i servizi tecnici nazionali (e innanzitutto quelli già esistenti: idrografico, mereografico, dighe, sismico e geologico) fossero riorganizzati presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, assicurando loro autonomia scientifica, tecnica, organizzativa e operativa.
Una generale quanto puntuale verifica dell’attuazione della legge 183/1989, e del conseguente stato di tutela dell’integrità fi sica del territorio, sarebbe stata, già parecchi anni addietro, e sarebbe tuttora, non essendo mai stata condotta, una delle più essenziali incombenze del Governo statale di un Paese appena appena civile. Il sospetto è che, non già nonostante i ripetuti interventi di modificazione, integrazione, sovrapposizione di dettati legislativi rispetto a quelli della legge 183/1989, ma anche in conseguenza di tali interventi, tale legge sia stata disattesa, soprattutto elusa nelle sue autentiche finalità.
Senza che fosse stata effettuata alcuna seria verifica dell’attuazione della legge 183/1989 e senza che fosse intercorso alcun trasparente dibattito sui suoi elementi di forza e di debolezza, sui risultati raggiunti e su quelli mancati, i contenuti della previgente legislazione per la difesa del suolo sono stati trasfusi, con alcune rilevanti modificazioni, nella Sezione I della Parte III del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, emanato sulla base della legge 15 dicembre 2004, n. 308, recante delega al Governo peril riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale, fortemente voluta, come il decreto legislativo derivatone, dalla maggioranza di centrodestra dominante nella trascorsa XIV legislatura.
La più incisiva innovazione rispetto al precedente assetto normativo (e organizzativo) è consistita nell’accorpare tutti i bacini idrografi ci, di rilievo nazionale, di rilievo interregionale e di rilievo regionale, definiti dalla legislazione previgente, in otto distretti idrografi ci, a ognuno dei quali era previsto fosse preposta un’autorità di bacino, del cui organo decisionale massimo, denominato conferenza istituzionale, era disposto facessero parte il ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio, il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, il ministro delle Attività produttive, il ministro delle Politiche agricole e forestali, il ministro per la Funzione pubblica, il ministro per i Beni e le attività culturali, o i sottosegretari da loro delegati, assieme ai presidenti delle Regioni e delle Province autonome interessate, o agli assessori da questi ultimi delegati, nonché il delegato del Dipartimento della Protezione civile. Nelle conferenze istituzionali di quattro autorità di bacino sarebbero prevalsi i rappresentanti dello Stato, in quelle di tre altre autorità di bacino sarebbero prevalsi i rappresentanti delle Regioni, nell’ottava i rappresentanti dello Stato e delle Regioni sarebbero stati in parità. In ogni caso, era previsto che i piani di bacino fossero approvati dal presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentita la Conferenza Stato-Regioni.
Ben lungi dal deplorare che si persegua un assetto legislativo e organizzativo finalizzato alla pianificata tutela dell’integrità fisica del territorio, nel quale siano coinvolti sia il sistema regionale e degli enti locali che lo Stato, e anzi quest’ultimo sia decisore d’ultima istanza, e ciò a prescindere dai caratteri dei bacini idrografi ci considerati, si ha ben più di un motivo per ritenere che la soluzione concreta perciò definita dal decreto legislativo 152/2006 sarebbe destinata a mancare clamorosamente gli obiettivi. Innanzitutto perché, sulla base delle esperienze compiute, che hanno mostrato come sia arduo pervenire in circa trelustri alla definizione di piani afferenti singoli bacini idrografi ci (o tutt’al più alcuni, pochi, bacini di ridotte dimensioni), si può agevolmente prevedere che piani relativi a un quinto, o un sesto, del territorio nazionale, riuscirebbero a vedere la luce (forse) nel prossimo secolo. E ancora più agevolmente si può prevedere un succedersi di “piani stralcio”, approssimativi nell’apparato conoscitivo, grotteschi in quello precettivo, e dalle disposizioni ampiamente “negoziabili” in fase gestionale.
La riqualificazione della città di Roma, capitale della Repubblica
Il 6 febbraio 1985 la Camera dei Deputati aveva approvato, a larga maggioranza, una solenne mozione volta a impegnare ogni competente articolazione della Repubblica a operare per conferire a Roma un assetto degno della “capitale europea dello Stato alle soglie del 2000”.
Cederna aveva salutato l’evento correlandogli molte positive attese, e i migliori auspici. Poco meno di due anni appresso, aveva dovuto constatare che quasi nulla era stato attuato. In particolare, lo Stato si era limitato a un’“affannosa rincorsa dell’emergenza”, con il varo, nel 1987, di un primo decreto legge, e con l’emanazione, alla fine del 1988, di un secondo decreto legge, poi reiterato due volte per mancata conversione in legge nei termini, che nella primavera del 1989 non aveva ancora completato il suo iter. Entrambi i provvedimenti, riteneva Cederna, non rispondevano minimamente all’“esigenza di organicità” della redigenda legislazione per Roma che era sottesa alla mozione parlamentare di cui s’è detto, e che, comunque, era imperiosamente posta dall’obiettivo di riqualificare la città.
Decise quindi di presentare una propria proposta di legge. Per la sua messa a punto chiamò anche questa volta a collaborare Filippo Ciccone e l’autore di queste righe, ma, più ancora che nella precedente esperienza, fu l’autentico ispiratore dell’impianto generale, e attentissimo verificatore d’ogni elemento, e diretto redattore di ampie parti degli elaborati, soprattutto di quella relazione illustrativa che Vezio De Lucia ha più volte citato come “una delle più convincenti pagine dell’urbanistica moderna”.1
La proposta di legge, presentata il 26 aprile 1989, si articola in quattro capi:
- il capo I raggruppa e specifica con il massimo dettaglio possibile i concreti obiettivi del provvedimento;
- il capo II identifica gli organismi che dovranno attuare la legge e ne prescrive articolatamente la composizione e i compiti;
- il capo III è dedicato alla descrizione delle procedure;
- il capo IV contiene le norme per l’acquisizione pubblica dei beni immobili oggetto degli interventi previsti. Assunto che l’interesse dello Stato per “Roma capitale” si debba sostanziare nel deciso avvio della “riqualificazione” della città, Cederna afferma perentoriamente che
tale riqualificazione si potrà ottenere solo attraverso l’avvio simultaneo di tre operazioni:
- decongestionando e valorizzando l’area centrale insieme con il suo enorme patrimonio archeologico e storico-artistico;
- avviando, a partire dalla nuova localizzazione dei ministeri, la riqualificazione della periferia orientale della città;
- ristrutturando complessivamente il sistema di mobilità dell’area romana e basandolo sulla costituzione di una rete pubblica integrata, su ferro e in sede propria.
La prima operazione coincide con la realizzazione del parco storico- archeologico dei Fori e dell’Appia antica: un’operazione, anzi, scrive Cederna, “un’impresa”, i cui precedenti risalgono a più di un secolo prima, e che egli ricostruisce puntigliosamente e sinteticamente espone. Per concludere che il progetto che si propone
configura uno straordinario parco urbano-metropolitano da piazza Venezia ai piedi dei Castelli Romani, una struttura fatta di spazi liberi, di vuoti, di verde, che si presenta come complementare a quella complessa struttura edilizia, stradale e di servizi che sarà il Sistema direzionale orientale (SDO). L’archeologia, la natura e il paesaggio diventano l’asse portante dell’immagine di Roma, per una sostanziale riqualificazione urbanistica.
La seconda operazione consiste, per l’appunto, nella costruzione del cosiddetto Sistema direzionale orientale (SDO), nelle aree della prima periferia romana, trasferendovi innanzitutto i ministeri allora (come ancora, larghissimamente, oggi) installati nel centro della città.
Un’operazione che, per Cederna, doveva avvenire “a saldo zero”. Così egli proclama nella più volte citata relazione illustrativa:
gli uffici ministeriali (e di altra natura) trasferiti ad oriente non devono in alcun modo essere sostituiti da funzioni che comportino un analogo carico urbanistico sulle aree centrali. Di quelle sedi e di quei siti va fatto un uso leggero, finalizzato alla più ampia valorizzazione del sistema dei Fori e dell’Appia antica. […] Fin d’ora può […] dirsi che l’obiettivo di formare vuoti urbani attrezzati, parchi verdi e archeologici, ampie zone pedonali, eccetera, richiede la demolizione di alcuni degli edifici ex ministeriali, operazione essenziale, tra l’altro, per la più corretta valorizzazione di alcune aree di interesse archeologico oltre che opportuna per motivi di qualità urbanistica dell’intervento.
In secondo luogo, fa presente Cederna ripetendo sue precedenti lezioni impartite almeno sei lustri prima,
la qualificazione della città non può essere perseguita operando solo sul centro storico. Anzi, è ormai noto che la stessa salvaguardia del centro storico si può ottenere solo se si dota la città di altri luoghi destinati ad ospitare funzioni di prestigio. È allora essenziale il controllo della qualità delle funzioni che si trasferiscono, e perciò nel sistema direzionale orientale devono essere collocati gli uffi ci ministeriali principali e rappresentativi. Se il trasferimento fosse limitato a uffici pubblici secondari e a funzioni private di tipo marginale, verrebbero immediatamente meno non solo l’obiettivo della riqualificazione della periferia orientale, ma gli stessi più generali obiettivi della riqualificazione del centro storico e progressivamente dell’intera città.
In terzo luogo, specifica Cederna, è stato necessario “affrontare la questione della proprietà delle aree che formano il Sistema direzionale orientale”, giacché “l’esperienza italiana ed europea insegna che obiettivi ambiziosi come quello appena illustrato sonoincompatibili con la proprietà privata delle aree”, poiché “quando […] si perseguono finalità generali di riequilibrio funzionale e di trasformazione qualitativa, è indispensabile la preventiva acquisizione dei suoli da parte dell’amministrazione pubblica”. E non è stato possibile limitarsi soltanto a prevedere l’obbligo dell’acquisizione pubblica della totalità degli immobili interessati dalla creazione del Sistema direzionale orientale, sottolinea Cederna, ma è stato giocoforza necessario impegnarsi a delineare e a proporre un sistema di determinazione delle indennità espropriative, stante che, in argomento, presentemente (cioè al momento della presentazione della proposta di legge), l’ordinamento legislativo italiano presenta una vistosa lacuna. Per sopperire alla quale, viene precisato, è stato studiato, e viene proposto, un metodo di determinazione delle indennità di espropriazione che “tiene conto delle lecite ed effettive utilizzazioni degli immobili (suoli ed edifici), ma non delle trasformazioni urbanistiche potenziali, e cioè previste dai piani”. Vale la pena di soggiungere, incidentalmente, che se tale metodo fosse stato assunto (eventualmente affinandolo) dal legislatore, e traslato nel diritto positivo generale vigente, sarebbero stati, da ormai parecchi anni, perseguiti assai più efficacemente ed efficientemente, tutt’assieme, obiettivi equitativi e di drastico contenimento del peso della rendita immobiliare nelle trasformazioni urbane (a tutto vantaggio della loro qualità complessiva), nonché nell’economia nazionale.
“È evidente”, afferma infine Cederna concludendo l’esposizione dei capisaldi della riqualificazione della città di Roma da lui proposta, che il programma sostenuto
non può non essere accompagnato da una profonda trasformazione dei sistemi di circolazione, finalizzata a dotare la città di una rete su ferro in sede propria, che integri reti sotterranee, ferrovie di superficie e collegamenti di tipo più leggero. Tale rete deve avere un respiro metropolitano e servire gradualmente l’intera città a partire dal settore orientale. Solo in questo modo si avrà un rimedio effettivo e duraturo al grave inquinamento atmosferico e ai suoi nefasti effetti sulla salute pubblica e sul patrimonio storico-archeologico più volte denunciati.
L’esame della proposta di legge di Cederna e altri, e delle svariate diverse proposte presentate sul medesimo argomento, sortì infine l’approvazione parlamentare, e l’entrata in vigore, della legge 15 dicembre 1990, n. 396, recante “Interventi per Roma, capitale della Repubblica”.
Essa non aveva la nettezza, e la solidità d’impianto della proposta di legge di Cederna e altri, ma indubbiamente assumeva, seppure “annacquandoli” nel contesto dell’elencazione di altri obiettivi, i tre capisaldi strategici della riqualificazione della città di Roma additati da Antonio Cederna.
Recita, infatti, il comma 1 dell’articolo 1 della legge 396/1990, che
sono di preminente interesse nazionale gli interventi funzionali all’assolvimento da parte della città di Roma del ruolo di capitale della Repubblica e diretti a:
a) realizzare il sistema direzionale orientale e le connesse infrastrutture, anche attraverso una riqualificazione del tessuto urbano e sociale del quadrante Est della città, nonché definire organicamente il piano di localizzazione delle sedi del Parlamento, del Governo, delle amministrazioni e degli uffici pubblici anche attraverso il conseguente programma di riutilizzazione dei beni pubblici;
b) […] creare parchi archeologici e in particolare quello dell’area centrale, dei Fori e dell’Appia Antica […]; […]
d) adeguare la dotazione dei servizi e delle infrastrutture per la mobilità urbana e metropolitana anche attraverso […] il potenziamento del trasporto pubblico su ferro con sistemi integrati e in sede propria, sotterranea e di superficie; […].
Tutti e tre gli obiettivi sono stati, nella concreta attività delle istituzioni statali, regionali e locali, disattesi, contraddetti, esplicitamente negati, quand’anche le surriportate disposizioni di legge siano sempre vigenti.2
Infine, è il caso di fare presente che la dianzi ripetutamente citata legge 396/1990 affermava, con l’articolo 8:
Per la realizzazione del sistema direzionale orientale […], il comune di Roma delibera un programma pluriennale contenente l’indicazione degli ambiti da acquisire tramite espropriazione e dei termini temporali al decorrere dei quali si intende procedere ad acquisirli, restando l’esecuzione delle espropriazioni subordinata solamente al decorrere dei predetti termini temporali.
Gli immobili acquisiti […], eccettuati quelli destinati ad utilizzazioni da parte del comune di Roma o comunque interessati alla localizzazione delle sedi pubbliche, sono dal comune medesimo ceduti, anche tramite asta pubblica, in proprietà o in diritto di superficie a soggetti pubblici o privati che si impegnano mediante apposite convenzioni ad effettuare le previste trasformazioni ed utilizzazioni. I prezzi di cessione sono determinati sulla base dei costi di acquisizione maggiorati delle quote, proporzionali ai volumi o alle superfici degli immobili risultanti dalle previste trasformazioni, dei costi delle opere, di competenza del comune, per la sistemazione e le organizzazioni degli ambiti in cui ricadono gli immobili interessati.
Per la realizzazione del sistema direzionale orientale […] è applicabile l’articolo 27 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, anche per insediamenti per attività terziarie e direzionali.
La Corte costituzionale, con sentenza 5-8 maggio 1995, n. 155, aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni di legge ora riportate, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 42, terzo comma, della Costituzione.
Senonché, al momento di definire il decreto del presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità”, il legislatore delegato (Governo Amato), pensò bene di abrogare, con l’articolo 58 di tale provvedimento, non soltanto, com’era del tutto coerente, l’articolo 7 della legge 396/1990, che stabiliva i termini di determinazione delle indennità di espropriazione, ma anche l’articolo 8 della medesima legge, sopra riportato, il quale, invece, con una disposizione tutt’affatto “di merito” e “provvedimentale” (piaccia o meno questa tipologia di norme legislative), stabiliva che una determinata operazione urbanistica dovesse realizzarsi previa acquisizione pubblica, tramite espropriazione, della totalità degli immobili interessati. “Eccesso di delega”? è difficile dubitarne.
La salvaguardia di Venezia e della sua laguna
Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, e a decorrere dall’inizio dei precedenti anni Settanta, quando il Parlamento italiano aveva voluto trarre, in qualche modo, le conclusioni del grande dibattito sviluppatosi a scala locale, nazionale e internazionale, sulla situazione e sulle prospettive della laguna veneziana e dei suoi insediamenti umani, anche e soprattutto in conseguenza della disastrosa “acqua alta” eccezionale del 4 novembre 1966, la legislazione speciale “per Venezia” si era arricchita di numerosi provvedimenti.3
Antonio Cederna, che fin dagli esordi della sua attività di polemista aveva rivolto anche a Venezia e alla sua laguna particolarissime attenzioni, dopo averne ragionato con varie persone, con le quali si sentiva, sull’argomento e non soltanto, in sintonia culturale,4 si convinse della necessità di un forte intervento di integrazione e di coordinamento della legislazione speciale per Venezia, e decise di presentare una propria proposta di legge rivolta a tal fine. Fui ancora una volta chiamato a collaborare per la messa a punto della proposta, che, avendo Cederna ottenuto la sottoscrizione anche di Ada Becchi e di Franco Bassanini (entrambi appartenenti, come lui, al gruppo della Sinistra indipendente), fu presentata il 2 aprile 1991.
La proposta di legge, esordisce la relazione illustrativa,
si propone, in buona sostanza e in sintesi, i seguenti obiettivi, da perseguirsi congiuntamente:
a) correggere le prescrizioni della vigente legislazione speciale per Venezia che la riflessione, e soprattutto la prassi attuativa, abbia negli anni mostrato errate e/o di impossibile o difficile praticabilità;
b) integrare la medesima legislazione speciale con le disposizioni la cui necessità, o almeno utilità, si sia appalesata a seguito, anche in questo caso, di maturazioni teoriche scaturenti dalla verifica nella prassi;
c) risolvere le incongruenze, al limite della contraddittorietà, sedimentatesi in conseguenza del succedersi per accumulo di disposizioni legislative speciali (e ordinarie);
d) ricondurre le discipline speciali valevoli per Venezia nel l’alveo delle discipline ordinarie, nella misura in cui ciò sia reputabile utile e congruo, anche alla luce dell’essersi il complesso normativo ordinario arricchito di disposizioni attinenti tematiche che, precedentemente, erano state disciplinate con riferimento alla sola area veneziana;
e) porre le premesse e i presupposti per il coordinamento e la unificazione in un testo di agevole interpretabilità e praticabilità delle disposizioni legislative concernenti Venezia.
Così delineato il complesso degli obiettivi perseguiti, la relazione illustrativa procede a esporre le ragioni e i contenuti di una delle più incisive previsioni innovative della proposta di legge.
Premesso che
il faticato procedere delle azioni e degli interventi che, secondo la volontà del legislatore, avrebbero dovuto assicurare la salvaguardia di Venezia e della sua laguna […] è stato largamente insoddisfacente […], sicuramente e marcatamente, per quanto attiene alla tutela dell’integrità fisica […] del territorio lagunare,
si sostiene che
la ragione prima ed essenziale del procedere inceppato e sussultorio delle azioni e degli interventi dianzi detti […] risiede nel non compiutamente risolto confronto tra due approcci, due modelli, due logiche. Semplificando al massimo: tra una logica sostanzialmente meccanicistica, che tende a isolare i problemi (o tutt’al più a riconoscere tra essi nessi estremamente semplificati) e a dar loro soluzioni indipendenti e fortemente ingegneristiche, e una logica, per così dire, sistemica, che chiede di evidenziare le correlazioni tra tutte le dinamiche in atto, e quindi tra tutti i problemi da affrontare, e pertanto pretende una predefinizione globale, e costantemente ricalibrabile, di tutti gli interventi e le azioni da prevedersi, per collocarle in sequenze temporali che ne garantiscano ed esaltino le sinergie positive.
Occorre quindi, prosegue la relazione,
chiarire quale sia il vero nodo da sciogliere: non procedimentale, ma di merito. Il che non nega affatto che sia necessario ridisegnare l’attuale meccanismo decisionale e operativo degliinterventi e delle azioni per Venezia […]. Piuttosto, evidenzia come tale ridisegno, per essere efficace, non possa essere neutro, ma, al contrario, debba essere, finalmente, coerente e funzionale al pieno e incontrovertibile affermarsi dell’approccio sistemico ai problemi del territorio veneziano.
Inoltre, soggiunge, non si ritiene opportuno “inventare nuovi e straordinari soggetti (che tendono, di norma, a dare pessime prove)”, ma invece si reputa doversi “assumere come riferimento il modello ordinariamente configurato, per le autorità di bacino di rilievo nazionale, dalla legge 18 maggio 1989, n. 183”. Che è quello che fa la proposta di legge, istituendo l’autorità di bacino di rilievo nazionale della laguna di Venezia, indicandone l’ambito territoriale di competenza, e dettando, per essa, alcune disposizioni particolari, parzialmente discostantisi da quelle di cui alla legge 183/1989.
Particolarmente rilevante risulta il fatto che, precisato di non ritenere
né opportuno né necessario negare radicalmente una scelta già affermatasi […], si prevede […] che sia le amministrazioni dello Stato che la Regione Veneto, che gli altri enti pubblici interessati, possano fare ricorso per la realizzazione di quanto rientri nelle rispettive competenze a concessioni a soggetti idonei sotto il profilo tecnico e imprenditoriale, anche individuando uno o più soggetti quali concessionari unici di più enti pubblici.
Ma, per converso, si afferma perentoriamente,
l’ambito del concedibile viene […] ristretto alla realizzazione di opere ed eventualmente alla loro gestione nonché alla redazione dei relativi progetti esecutivi, nella ferma convinzione che non possa né debba essere concessa (soprattutto dal momento in cui si costituisce un nuovo soggetto istituzionale dotato di propri robusti supporti scientifici, tecnici e operativi), in blocco e per di più allo stesso soggetto concessionario della realizzazione delle opere, l’effettuazione degli studi e delle ricerche preliminari e la progettazione generale e di massima (cioè, di fatto, la pianificazione e la programmazione degli interventi e delle azioni).
La previsione, palesemente non disarticolabile nei suoi elementi (i quali, si dirà in un dibattito pubblico organizzato a Venezia per illustrare la proposta di legge, simul stabunt aut simul cadent), di istituire l’autorità di bacino di rilievo nazionale della laguna di Venezia, e di riservare a essa la redazione e la definizione decisionale degli studi, delle ricerche, delle sperimentazioni, della pianificazione e della programmazione generale, della progettazione di massima degli interventi e delle opere, fu frontalmente respinta dai soggetti (istituzionali, politici ed economici) che avevano ottenuto, e sono riusciti fino ai giorni nostri a preservare, con le unghie e con i denti, la scelta, sancita legislativamente dai commi terzo e quarto dell’articolo 3 della legge 29 novembre 1984, n. 798, dell’affidamento in “concessione unica”, al Consorzio “Venezia Nuova”, di ogni competenza afferente agli studi, alle ricerche, alle sperimentazioni, alla progettazione degli interventi, alla realizzazione delle opere, riguardanti il riequilibrio idrogeologico della laguna di Venezia, l’arresto e l’inversione dei processi di degrado del bacino lagunare, la difesa degli insediamenti urbani lagunari dalle “acque alte” eccezionali. “Concessione unica” in virtù della quale un consorzio di imprese di diritto privato è divenuto, grazie alle enormi risorse (erogategli dallo Stato) di cui poteva disporre, dominus pressoché incontrastato degli studi attinenti la laguna veneziana, della progettazione delle opere da effettuarsi in essa, del controllo della validità dei primi e della seconda, asservendo ai propri obiettivi e ai propri interessi gli organi decentrati (il Magistrato alle acque di Venezia) e quelli centrali delle amministrazioni statali.
Ma la previsione di istituire l’autorità di bacino di rilievo nazionale della laguna di Venezia fu, al momento della sua presentazione, fortemente criticata anche da molti esponenti e settori della sinistra, in particolare di quella radicale a ambientalista (nemica acerrima del Consorzio “Venezia Nuova”), in quanto “centralista”.
Per il vero, anche se la proposta di legge di Cederna per la salvaguardia di Venezia e della sua laguna non riuscì neppure a iniziare il suo iter parlamentare, il Parlamento nazionale, pochianni appresso, decise di superare radicalmente il sistema della “concessione unica”, dello Stato al Consorzio “Venezia Nuova”, stabilendo, con il comma 11 dell’articolo 12 della legge 24 dicembre 1993, n. 527, che
il Governo è delegato ad emanare, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi, diretti a razionalizzare l’attuazione degli interventi per la salvaguardia della laguna di Venezia con l’osservanza dei seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) separare i soggetti incaricati della progettazione dai soggetti cui è affidata la realizzazione delle opere;
b) costituire, d’intesa tra lo Stato e la regione Veneto, ai fini della attività di studio, progettazione, coordinamento e controllo, una società per azioni con la partecipazione maggioritaria dello Stato nonché della regione Veneto, della provincia di Venezia ovvero della città metropolitana se costituita, dei comuni di Venezia e di Chioggia e di altri soggetti pubblici utilizzando a tal fine i finanziamenti recati da leggi speciali inerenti allo scopo;
c) conferire alla costituenda società i beni da individuare con provvedimenti delle competenti Amministrazioni, e ridefinire le concessioni di cui all’articolo 3 della legge 29 novembre 1984, n. 798.
Nell’immediato il Governo (Ciampi) ottemperava alla volontà e al mandato del Parlamento, ed emanava il decreto legislativo 13 gennaio 1994, n. 62. Alle cui disposizioni più di un ministro avrebbe dovuto, conseguentemente, dare concreta attuazione, con propri atti. Cosa che i ministri interessati, facenti parte del Governo (Berlusconi) nel frattempo subentrato, si guardavano bene dal fare: senza, se vogliamo dirla tutta, essere richiamati a compiere il proprio dovere né dalla Regione Veneto (governata dal centrodestra), né dalla Provincia di Venezia (governata dal centrosinistra), né dal Comune di Venezia (governato dal centrosinistra), né dal Comune di Chioggia (governato prima dal centrodestra e poi dal centrosinistra).
Nel frattempo, peraltro, lo stesso Parlamento nazionale aveva espressamente abrogato, con il comma 1 dell’articolo 6-bis (aggiunto dalla legge di conversione) del decreto legge 29 marzo 1995, n. 96, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 31 maggio 1995, n. 206, il terzo e il quarto comma dell’articolo 3 della legge 798/1984, vale a dire le basi giuridiche legittimanti la stipula, dello Stato con il Consorzio “Venezia Nuova”, della “concessione unica”. Malauguratamente la solita lobby dei “concessionisti” era riuscita a ottenere che fosse contestualmente votato un comma 2 del medesimo succitato articolo, secondo il quale “restano validi gli atti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base delle disposizioni” abrogate. Emerse che la convenzione generale stipulata, per conto dello Stato, dal Magistrato alle acque di Venezia, con il Consorzio “Venezia Nuova”, aveva latitudine tale da ricomprendere, praticamente, ogni e qualsiasi studio, ricerca, sperimentazione, intervento fosse ipotizzabile nella laguna di Venezia nei prossimi secoli. Anche se la cosa non è mai stata puntualmente verificata, e men che mai sottoposta al giudizio di un soggetto dotato dell’opportuna indipendenza e “terzietà”, è “su questi bei fondamenti” (come direbbe il Manzoni) che da quasi quattro anni, ormai, si sta realizzando, con ritmi di lavoro forsennato, l’insieme delle opere costituenti il cosiddetto Modello sperimentale elettromeccanico (Mo.S.E.), alterando gli equilibri idraulici lagunari, facendo scempio dei valori paesaggistici della laguna e dei litorali, distruggendo siti naturalistici di primaria importanza europea e mondiale, e via massacrando.5
Nel frattempo, pare che nell’ambito del comitato di studio per la revisione del decreto legislativo 152/2006, di cui s’è detto in conclusione del primo paragrafo di questo scritto, si stia facendo strada l’ipotesi di ricomprendere in un unico bacino idrografico, governato da un’unica autorità di bacino, l’intero bacino scolante nella laguna veneziana, nonché, ovviamente, la laguna medesima, i suoi litorali e il mare a essi latistante, affidando a tale autorità ogni funzione afferente agli studi, alle ricerche, alle sperimentazioni preliminari, alla pianificazione generale del territorio attinente tutto quanto concerna la sua integrità fi sica, alla programmazione temporalizzata dei necessari interventi,alla progettazione di questi ultimi. A condizione, ovviamente, che fossero nel frattempo sospesi i lavori di realizzazione del Mo.S.E., sarebbe uno splendido omaggio alla lungimiranza di Antonio Cederna, nel decennale della sua morte.
Una seconda incisiva previsione innovativa della proposta di legge di Cederna per l’integrazione e il coordinamento della legislazione speciale per Venezia riguardava la pianificazione territoriale unitaria dell’entroterra e della laguna di Venezia. Tale pianificazione unitaria era stata già prevista dalla legge 16 aprile 1973, n. 171, e disciplinata dalla conseguente legge regionale 8 settembre 1974, n. 49, le quali, come si è dianzi accennato, avevano affidato la redazione e l’adozione di un “piano comprensoriale” (che avrebbe dovuto essere formato, e trovare vigenza, una tantum) a uno speciale Comprensorio dei comuni della laguna e dell’entroterra di Venezia, vale a dire a un soggetto pubblico “di secondo grado”, il cui organo decisionale, cioè, si prevedeva formato dall’assemblaggio dei rappresentanti degli enti territoriali (Comuni e Regione) interessati.
La relazione illustrativa della proposta di legge di Cederna rileva che
la debolezza intrinseca dell’organismo comprensoriale e il crollo verticale della cultura della pianificazione, avvenuto in tutto il Paese alla fine degli anni settanta, concorsero, assieme a irrisolte dinamiche di confronto politico, a non consentire che il piano comprensoriale (che comunque era stato redatto, e aveva notevolissimo valore culturale e tecnico), dopo aver conseguito un primo voto favorevole dell’organo competente, completasse il suo iter formativo.
La relazione prosegue:
occorre oggi prendere atto della mancata definizione dello speciale piano comprensoriale previsto dalla legge 171/1973, quasi tre lustri dopo la scadenza del termine previsto per tale adempimento. Ma anche del fatto che, nel frattempo, la legislazione urbanistica regionale ha definito ricche e articolate previsioni di strumenti di pianificazione territoriale sovracomunale (sia regionale che provinciale). E del fatto chela Regione Veneto è andata concretamente predisponendo strumenti di pianificazione territoriale, relativi sia all’intero territorio regionale che, specificamente, all’area veneziana. E soprattutto del fatto che la legge 8 giugno 1990, n. 142, ha sia attribuito funzioni proprie di pianificazione territoriale alle province, che previsto la costituzione, tra le città metropolitane, di quella di Venezia.
E conclude che
nella convinzione che sarà la città metropolitana di Venezia a rispondere, compiutamente, all’istanza […] di un governo unitario delle trasformazioni territoriali del sistema lagunare veneziano, ma anche nella consapevolezza dei tempi non brevi necessari all’avvio dell’operatività pianificatoria del nuovo ente territoriale, […] la presente proposta di legge stabilisce […] che il primo strumento di pianificazione territoriale, regionale, provinciale o metropolitano, che consideri unitariamente il territorio della laguna di Venezia e del suo entroterra e che giunga a vigenza, tenga luogo, a tutti gli effetti previsti, del piano comprensoriale di cui alla legge 171/1973.
La scarsa fiducia nel sollecito “avvio dell’operatività pianificatoria” dell’istituenda “città metropolitana” di Venezia doveva rivelarsi ben fondata, quand’anche eccessivamente ottimistica: la “città metropolitana” di Venezia, infatti, non soltanto non è mai divenuta operativa ma non è neppure stata costituita, come del resto tutte la altre previste “città metropolitane” d’Italia, e ciò a più di tre lustri dalla loro prima previsione, in una legge, quale la legge 142/1990, di rango immediatamente sub-costituzionale. A dimostrazione del fatto che nel Paese dell’incessante chiacchiericcio sulle “riforme istituzionali” e sulla “modernizzazione”, semmai accade che una legge delinei un’autentica riforma istituzionale modernizzatrice, semplicemente non le si dà attuazione, per non urtare la suscettibilità dei cacicchi, ovvero dei “nuovi sindaci” e dei “governatori regionali”.
Accadde peraltro che la Regione Veneto, in ottemperanza della sua allora vigente legge urbanistica regionale, la legge regionale 27 giugno 1985, n. 61, e successive modificazioni e integrazioni,formò, tra la fine del 1986 e quella del 1999, sia il Piano territoriale regionale di coordinamento (PTRC) che tre “piani di area”, tra i quali il “Piano di area della Laguna e dell’area veneziana” (P.A.L.A.V.), il cui ambito di applicazione era fi n dall’inizio del relativo iter formativo portato a coincidere con il territorio per il quale avrebbe dovuto essere definito il “piano comprensoriale” di cui si è trattato precedentemente. Per di più, nel corso di tale iter, veniva approvata la legge regionale 27 febbraio 1990, n. 17, la quale, così come modificata dall’articolo 2 della legge regionale 24 gennaio 1992, n. 8, con l’articolo 8, abrogava espressamente la legge regionale 49/1974, e, con il comma 4 dell’articolo 3, stabiliva che il “piano comprensoriale relativo al territorio di Venezia e al suo entroterra”, richiesto dalla legge 171/1973, fosse costituito dal “Piano di area della Laguna e dell’area veneziana”, integrato dal “Piano per la prevenzione dell’inquinamento e il risanamento delle acque del bacino idrografico immediatamente sversante nella Laguna di Venezia”. Le efficacie dei “piani di area vigenti”, quali “parte integrante del piano territoriale regionale di coordinamento (PTRC)”, sono state poi confermate dal comma 2 dell’articolo 48, recante le “Disposizioni transitorie”, della nuova legge urbanistica regionale veneta 23 aprile 2004, n. 11.
Si può quindi asserire che, seppure per vie impreviste, e un po’ tortuose, un’ipotesi avanzata da Antonio Cederna nella sua proposta di legge sia stata attuata.
Una terza incisiva previsione innovativa della proposta di legge di Cederna che si sta qui illustrando riguarda la pianificazione degli interventi negli insediamenti urbani storici.
La relazione illustrativa rammenta che la legge 171/1973 e il conseguente decreto del Presidente della Repubblica 20 settembre 1973, n. 791
hanno ribadito la subordinazione di quasi ogni intervento negli insediamenti storici lagunari ai piani particolareggiati, e, per molti versi, assunto l’impianto complesso e farraginoso di disciplina delle trasformazioni (e di attuazione velleitariamente pubblicistica e dirigistica delle stesse) configurato dallo strumentario urbanistico allora in corso di formazione,
e che, peraltro,
il sistema pianificatorio definito si rivela impercorribile […], paralizzante rispetto alla generalizzazione degli interventi sul patrimonio edilizio storico, suscitatore di spinte a interpretazioni disinvolte delle norme in assenza di una pertinente disciplina. Tant’è che, con l’inizio degli anni ottanta, lo stesso Comune di Venezia avvia un lavoro di integrale ripianificazione (di tipo generale) di Venezia insulare. In tale lavoro, viene assunta la metodologia che sinteticamente può essere denominata di analisi morfologica dell’insediamento urbano e tipologica delle unità di spazio (edifici e scoperti) che lo compongono. [E] occorre sottolineare che lo strumento relativo alla città storica di Venezia, finalmente in corso di completamento in questi mesi, si presenta ricco di affinamenti e innovazioni di grande valore, anche rispetto alle precedenti esperienze pianificatorie fondate sulla stessa metodologia.
Conseguentemente, conclude la relazione,
si reputa necessario che la nuova metodologia pianificatoria assunta dal Comune di Venezia trovi supporto anche nella legislazione speciale statuale, e comunque indispensabile che non possa in nessun caso trovare in essa ostacolo.
Occorre fare presente che la variante generale al piano regolatore per la città storica di Venezia, a cui Cederna alludeva nella relazione alla sua proposta di legge, e che aveva appassionatamente illustrato, come in seguito appassionatamente difenderà, in molteplici articoli su diversi organi di stampa, era stata in effetti messa a punto all’inizio del 1990 (all’epoca della “giunta rossoverde” diretta da Antonio Casellati, con assessore all’urbanistica Stefano Boato), essendo quasi al termine il mandato del consiglio comunale in carica. Lo strumento fu peraltro adottato alla fine del 1992 (all’epoca della giunta, che oggi definiremmo di centrodestra, diretta da Ugo Bergamo, con assessore all’urbanistica Vittorio Salvagno). Per essere successivamente “disadottato”, e quindi riadottato, in una versione pesantemente manipolatrice non tanto dei suoi aspetti quantitativi, cioè dell’ingentissima mole delle sue cartografi e analitiche e classificatorie, e delle suepuntualissime prescrizioni normative, quanto in alcuni elementi cardine della sua ingegneria ed efficacia precettiva, alla fine del 1996 (all’epoca della giunta “progressista” diretta da Massimo Cacciari, con assessore all’urbanistica Roberto D’Agostino). L’esito di quest’ultimo strumento urbanistico, e della sua alquanto disinvolta gestione, è sotto gli occhi di chiunque voglia realmente “vedere” la città storica di Venezia: una squallida, degradata, volgare, tragica maschera imbellettata di sé stessa, con la residenza stabile dilagantemente ed enormemente erosa dal proliferare non soltanto di alberghi, quanto, soprattutto, di affittacamere e di (sedicenti) bed & breakfast, tutt’altro che una “città-museo” (espressione che, se usata per indicare un destino da combattere, faceva inferocire Cederna, e ben a ragione: il “museo”, alla fin fine, è “il luogo delle Muse”!) ma, piuttosto, una Disneyland di quart’ordine.
Come non è stato possibile neppure accennare alle disposizioni di dettaglio della proposta di legge afferenti alla pianificazione degli interventi negli insediamenti urbani storici e al controllo delle trasformazioni dei relativi immobili, così non è possibile neppure accennare a tutte le altre puntuali disposizioni, meno innovative di quelle che, in quanto tali, sono state sinora, seppure sinteticamente, esposte, ma non per questo di scarso rilievo, con le quali la proposta di legge si prefiggeva di perseguire il complesso degli obiettivi indicati all’inizio della relazione illustrativa, e riportati all’inizio di questo paragrafo. Si confida, ciononostante, di avere raggiunto almeno lo scopo di arricchire, di un po’, la conoscenza del pensiero e dell’azione di Antonio Cederna nell’assolvimento di uno dei non pochi ruoli che ricoprì nel corso di una vita tutta improntata dall’essere una “persona civile” per la quale con “i vandali odierni nessun compromesso è possibile”, dall’intransigenza (innanzitutto con sé stessi) praticata come serietà, rigore, precisione, rifiuto della superficialità e della sciatteria, ma anche come “forte posizione moralistica” (sono ancora parole sue): perché, aggiungeva con amara ironia, “in un Paese di molli e di conformisti, la rivolta morale può essere almeno un elemento di varietà”.
Note
1 Si veda, da ultimo, il contributo di Vezio De Lucia in questo stesso volume, con relativa bibliografia.
2 Per quel che riguarda la realizzazione del parco storico-archeologico dei Fori e dell’Appia antica, oltre al contributo di Vezio De Lucia in questo stesso volume, si veda anche V. De Lucia, Antonio Cederna, le sue idee contro l’urbanistica fascista, in “Liberazione”, 21 settembre 2006 (e in http://eddyburg. it/article/articleview/7357/0/250/), e soprattutto Mauro Baioni, “Mussolini urbanista” e il pensiero di Cederna, postfazione al libro di A. Cederna, Mussolini urbanista, Venezia, Corte del Fontego, 2006. In estrema sintesi, si può concludere con le parole di De Lucia: “abbiamo verificato che l’idea di Cederna è sparita dall’orizzonte della città”. Per quel che riguarda “il potenziamento del trasporto pubblico su ferro con sistemi integrati e in sede propria, sotterranea e di superficie”, si possono ricordare le parole di Filippo Ciccone, Quale medico propose la Cura del ferro? (intervento pubblicato in http://eddyburg.it/article/ articleview/7226/0/39/): “l’esperienza romana di cura del ferro è ben poca cosa: ferma l’evoluzione del Nodo Fs, ferme nella sostanza le metropolitane (ci si avvia a realizzare record al contrario già noti alla città: 25 anni per fare quattro miseri e brutti chilometri di linea A). E, con la copertura del ‘pianificar facendo’, qualche altro milione di metri cubi è stato realizzato ben distante da qualsiasi linea su ferro”.
Quanto al Sistema direzionale orientale, esso, come afferma De Lucia nel suo articolo sopra citato, “è stato silenziosamente cancellato” e, soggiunge, “non sono riuscito a capire che cosa lo ha sostituito”.
3 Si trattava di: la legge 16 aprile 1973, n. 171, recante “Interventi per la salvaguardia di Venezia”; il decreto del Presidente della Repubblica 20 settembre 1973, n. 791, relativo a “Interventi di restauro e risanamento conservativo in Venezia insulare, nelle isole della laguna e nel centro storico di Chioggia” (emanato in base alla delega conferita al Governo dalla succitata legge 171/1973); il decreto del Presidente della Repubblica 20 settembre 1973, n. 962, recante “Tutela della città di Venezia e del suo territorio dagli inquinamenti delle acque” (anch’esso emanato in base alla delega conferita al Governo dalla succitata legge 171/1973); il decreto del Presidente della Repubblica 20 settembre 1973, n. 1186, recante “Adeguamento dell’organico del Magistrato alle acque di Venezia e delle soprintendenze alle antichità e belle arti delle province venete” (parimenti emanato in base alla delega conferita al Governo dalla succitata legge 171/1973); la legge 5 agosto 1975, n. 404, recante “Norme per l’indizione del bando dell’appalto concorso internazionale per la conservazione dell’equilibrio idro-geologico della laguna di Venezia e per l’abbattimento delle acque alte nei centri storici”; il decreto legge 11 gennaio 1980, n. 4, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 10 marzo 1980, n. 56, recante “Studio delle soluzioni tecniche da adottare per la riduzione delle acque alte nella laguna veneta”; la legge 29 novembre 1984, n. 798, recante “Nuovi interventi per la salvaguardia di Venezia”.
4 Per citarne alcuni, oltre all’autore di queste righe: Antonio Casellati, primo assessore all’ecologia del Comune di Venezia (e d’Italia), tra il 1971 e il 1973, poi presidente della sezione veneziana di “Italia Nostra” e successivamente, dimessosi da quest’ultima carica, del Comprensorio dei comuni della laguna e dell’entroterra di Venezia, soggetto deputato a redigere e ad adottare la “ripianificazione” dell’area, e, dall’inizio del 1988 ai primi mesi del 1990, Sindaco di Venezia, con la cosiddetta Giunta “rosso-verde”; Edoardo Salzano, dal 1975 al 1985 assessore all’urbanistica del Comune di Venezia, e poi, per un ulteriore quinquennio, consigliere comunale di Venezia e regionale del Veneto; Vezio De Lucia, dal 1977 al 1980 Segretario del Comprensorio dei comuni della laguna e dell’entroterra di Venezia.
5 Per un’ampia rassegna in merito al progetto del Mo.S.E. si può consultare la sezione del sito eddyburg all’indirizzo: http://eddyburg.it/article/archive/ 178/.
Inseriamo in calce un ampio testo di Luigi Scano che costituisce una critica puntuale alla legge urbanistica della Regione Friuli – Venezia Giulia, nei confronti della quale fin dalle prime battute aveva tentato di mobilitare l’attenzione di chi avrebbe potuto modificarla. La particolare attenzione di Gigi per questa legge era determinata dal concorrere di tre ragioni. La prima del tutto personale: l’affetto che nutriva per quella regione, nella quale la sua famiglia affondava parte delle sue radici e alla quale lo legavano amicizie maturate anche nei lavori svolti. La seconda e la terza hanno a che fare con i suoi interessi culturali permanenti: quello per una corretta tutela delle qualità culturali del territorio (l’ambiente, il paesaggio, la bellezza, la funzionalità), e quella per la migliore, più compiuta e completa e chiara stesura delle componenti di quel sistema normativo che è l’indispensabile cornice di ogni civile convivenza, ed uno dei fondamenti della democrazia.
Ciò che quindi soprattutto lo scandalizzava nella legge di Illy e Sonego, e sollevava la sua più feroce e veemente critica, erano le violazioni – molteplici e grossolane – del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Riteneva quest’ultimo il prodotto più maturo di un’evoluzione legislativa che (dall’antico testo di Benedetto Croce fino alle ultime modifiche del Codice) aveva studiato come pochi altri, commentandola sia nei testi normativi e nella cultura che era alla loro base sia nelle loro applicazioni pratiche. Speriamo che le sue indicazioni critiche, se non sono state recepite dal legislatore regionale, lo siano da chi ha la responsabilità di valutarne la correttezza giuridica.
1. IL PIANO DEL 1992
Il 14 dicembre 1992 il Consiglio comunale di Venezia aveva adottato una variante generale al piano regolatore, relativa alla città storica insulare. Lo strumento, la cui redazione era stata faticosamente avviata nel 1982, per essere sospesa nel 1985, ripresa alla fine del 1987, ed infine conclusa all'inizio del 1990, al momento della sua presentazione aveva suscitato grande interesse, e larghi e talvolta entusiastici consensi: basti pensare ai giudizi espressi da Antonio Cederna, Vezio De Lucia, Antonio Iannello, Felicia Bottino, Teresa Cannarozzo, Vittoria Calzolari, Raffaele Panella, Paolo Maretto, Tommaso Giura Longo, per citarne alcuni soltanto.
1.1. Il rigore analitico e la precisione prescrittiva: eliminate le discrezionalità
In particolare, si era ritenuto che il nuovo strumento costituisse un coerente sviluppo, ed un soddisfacente perfezionamento, delle esperienze sin'allora effettuate di disciplina dei centri storici in base al metodo cosiddetto dell'analisi e della classificazione tipologica delle unità edilizie.
Infatti, nelle precedenti applicazioni di tale metodo si aveva avuto modo di riscontrare un duplice ordine di carenze.
Sotto il profilo più propriamente "analitico" (delle unità edilizie) si aveva potuto rilevare frequentemente, anzi in termini pressoché generalizzati, nella costruzione delle "classi tipologiche", una certa indebita commistione tra valenze squisitamente strutturali e valenze più propriamente funzionali.
Per fare degli esempi, era facile trovare indicate come "classi tipologiche" quella delle "chiese", e quella dei "conventi". Ma tali denominazioni comunicano un "uso" (magari originario e consolidato), non un "tipo". La "classe tipologica" alla quale appartengono le unità edilizie comunemente adibite all'esercizio dei culti può piuttosto denominarsi delle "unità edilizie speciali a struttura unitaria", e ad essa appartengono altresì unità edilizie comunemente adibite a luoghi di incontro, di ritrovo, di spettacolo, e simili. La "classe tipologica" alla quale appartengono le unità edilizie comunemente adibite a convivenza conventuale può piuttosto denominarsi delle "unità edilizie speciali a struttura modulare", e ad essa appartengono altresì unità edilizie comunemente adibite ad altre forme di convivenza collettiva, anche temporanea: come collegi, caserme, reclusori, complessi di uffici, e simili.
Vale la pena di sottolineare subito che (soltanto) un approccio analitico rigorosamente strutturale consente, in sede precettiva, cioè nel dettare le disposizioni pianificatorie, di definire la gamma di "utilizzazioni compatibili" di ogni "classe tipologica" (cioè di tutte le concrete unità di spazio che sia stato riscontrato appartenervi), concependo come "compatibili" tutte le utilizzazioni la cui efficiente esplicazione non sia necessariamente tale da contraddire, o da "forzare", le caratteristiche (anche solo di organizzazione spaziale) del "tipo".
Sotto il profilo, per l'appunto, "precettivo", si era poi rilevato che, nella più gran parte delle esperienze pianificatorie precedentemente condotte, le disposizioni relative alle "trasformazioni fisiche ammissibili" non erano affatto, od assai scarsamente, relazionate alle individuate "classi tipologiche" (cioè ai connotati distintivi di ognuna di esse), ma riferite a "categorie d'intervento" (restauro, risanamento conservativo, ristrutturazione, ecc.).
Così, sempre per fare un esempio, nell'ambito del "risanamento conservativo" venivano previsti "il consolidamento, il ripristino ed il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio" nel "rispetto degli elementi tipologici". Demandando pressoché totalmente il riconoscimento degli "elementi costitutivi" e degli "elementi tipologici" alla discrezionalità del progettista, o del soggetto pubblico competente a rilasciare il provvedimento abilitativo all'intervento.
Per la prima volta, invece, nel nuovo strumento per la città storica lagunare di Venezia, erano definite e descritte precisamente le caratteristiche ritenute identificative e distintive di ognuna delle individuate "classi tipologiche" (costruite sulla base di considerazioni esclusivamente strutturali), ed erano riferite puntualmente ad esse le disposizioni relative alle "trasformazioni fisiche ammissibili" ed alle "utilizzazioni compatibili". Cosicché tali disposizioni potevano (quindi) assumere (anche) il carattere di "linee guida" alla progettazione degli interventi, di indicazione della, o delle, corrette possibilità di intervento: ma in assenza, o con la massima riduzione, d'ogni apprezzamento discrezionale e "caso per caso".
Si noti che questo modo di procedere non ha prodotto affatto un generalizzato irrigidimento delle possibilità trasformative dell'edilizia esistente nella città storica lagunare di Venezia, ma esattamente il suo contrario. L'avere valorizzato, indicandole come (pressoché uniche) caratteristiche meritevoli di mantenimento (o di ripristino) le caratteristiche strutturali connotanti le diverse "classi tipologiche" ha infatti consentito di giudicare ammissibili (indicandone le corrette modalità) trasformazioni ritenute (e di fatto stabilite) precluse in una diversa ottica "conservazionistica": quella del mantenimento di "tutto com'é".
Basti pensare alle possibilità, che sono state date, di articolare, nel rispetto di precise regole, unità edilizie in più unità immobiliari funzionalmente autonome: compresi i sottotetti, e compresi i piani cosiddetti "nobili" delle unità edilizie comunemente chiamate "palazzi", cioè dotati di grandi saloni passanti. Basti pensare alle possibilità, che sono state date, di modificare l'assetto interno della più gran parte dei vani. Basti pensare alle possibilità, che sono state date, di inserire servizi igienici e tecnologici, secondo plurime soluzioni.
E basti pensare, sotto un altro profilo, alla vasta gamma di utilizzazioni che, come s'é già detto, il nuovo strumento aveva potuto definire "compatibili" con le unità edilizie appartenenti alle diverse "classi tipologiche".
E' il caso di far presente che lo stesso approccio culturale, e quindi sia analitico che prescrittivo, era stato unitariamente assunto con riferimento sia alle unità edilizie "preottocentesche" che a quelle "ottocentesche" che a quelle "novecentesche", sia alle unità edilizie "di base residenziali" che a quelle "di base non residenziali" (a capannone) che a quelle "speciali".
Relativamente alle unità edilizie novecentesche, peraltro, si era ritenuto di esprimere altresì un giudizio puntuale circa la loro "qualità", e di individuare quelle unità edilizie le cui caratteristiche strutturali, distributive e compositive, ed i cui elementi costitutivi, non presentassero alcun interesse storico e/o artistico, nemmeno di carattere testimoniale. Tali unità edilizie erano state poi distinte tra quelle "coerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", in quanto il loro impianto fondiario e le loro caratteristiche dimensionali risultavano in ogni modo coerenti con le regole conformative che hanno presieduto la vicenda storica dell'insediamento, e comunque con l'assetto urbano risultante da tale vicenda, e quelle "incoerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", in quanto risultavano invece contrastanti con le predette regole conformative, o tali da configurare un assetto urbano contraddittorio con esse, e comunque incongruo. Delle prime era stabilita possibile anche la demolizione integrale e la ricostruzione, ma sul medesimo sedime, delle seconde era prevista la sostituzione con unità edilizie tali da configurare un assetto urbano riproponente le suddette regole conformative storiche, e comunque più congruo.
Tali scelte discendevano da un rigoroso convincimento in ordine alla produzione edilizia. Secondo il quale, nel corso della vicenda storica, fino ad un (relativamente recente) "momento" di "rottura", al costruire hanno presieduto regole conformative, estrinsecantisi nelle caratteristiche tipologiche strutturali dei manufatti edilizi, e da esse ricostruibili, capaci di consentire anche una crescita organica del manufatto, ed il mutamento della sua forma, del suo aspetto (espressione degli "stili" succedutisi nel tempo, od anche sincronicamente confrontantisi), talvolta delle sue funzioni, senza negarsi né contraddirsi. Regole tali da rendere possibile la riconoscibilità di precisi "tipi" edilizi, quali modalità peculiari di portare a sintesi struttura, forma e funzione, e quindi la costruzione di "classi tipologiche", ma al contempo tali da produrre il costituirsi di ogni manufatto come individuo irriducibile ad ogni altro, non fungibile con gli altri.
A partire da un determinato "momento" che costituisce, per l'appunto, una riconoscibile "rottura" nella continuità della vicenda storica delle dinamiche urbane (quand'anche le relative datazioni variino considerevolmente da luogo a luogo), il costruire manufatti edilizi inizia a rispondere a regole sostanzialmente indifferenziate, con l'applicazione di tecniche costruttive e di sistemi tecnologici e materiali largamente standardizzati, e, tutt'al più, a diversi "stili". Ne consegue la legittimazione del prescrivere la conservazione solamente di quegli specifici manufatti che siano giudicati costituire esemplari di rilevante pregio artistico-architettonico, od almeno testimonianze particolarmente significative di un particolare "stile".
Per il vero, l'operazione valutativa che si é appena sopra descritta (ed argomentatamente motivata), nello strumento urbanistico adottato nel 1992 si presentava compiutamente effettuata relativamente alle unità edilizie "di base", assai insufficientemente, o meglio discontinuativamente, rispetto alle unità edilizie "speciali", un certo numero delle quali, ove "novecentesche", avrebbero dovuto essere coerentemente classificate (anche e soprattutto), in base ai criteri dianzi indicati, come unità edilizie soltanto "coerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", od addirittura "incoerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", mentre si ritrovavano classificate con esclusivo riferimento alle loro caratteristiche tipologiche strutturali.
Ma la carenza era rimediabile (senza stravolgere l'unitarietà di impianto concettuale dello strumento urbanistico, anzi rafforzandola) con un supplemento di analisi, e con conseguenti decisioni riclassificatorie correttive: operazioni entrambe successivamente effettuate dagli uffici competenti dell'urbanistica comunale nel predisporre le controdeduzioni alle osservazione presentate allo strumento adottato.
1.2. Il programmato governo delle utilizzazioni
In secondo luogo, al momento della presentazione del nuovo strumento, e nei mesi successivi, si era apprezzata la distinzione tra "utilizzazioni compatibili", con le caratteristiche degli spazi fisici, e "destinazioni d'uso", cioè utilizzazioni rese vincolanti in vista del perseguimento di interessi generali. E si era apprezzata la previsione per cui le prime erano valide a tempo indeterminato, mentre le seconde dovevano essere riviste, aggiornate, eventualmente variate ogni quinquennio, così da tener conto delle dinamiche sociali ed economiche, e delle esigenze collettive.
E' opportuno sottolineare che il nuovo strumento non imprimeva destinazioni d'uso vincolanti a tutte le unità di spazio (unità edilizie ed unità di spazio scoperto) disciplinate (nelle unità di spazio non interessate da destinazioni d'uso specifiche potendo quindi essere attivate tutte le utilizzazioni compatibili), né si preoccupava di rendere vincolanti più o meno vaste congerie di destinazioni d'uso.
Erano resi vincolanti, infatti, soltanto cinque tipi di destinazioni d'uso:
- quella per strutture pubbliche e/o per attività collettive,
- quella per attività ricettive,
- quella abitativa,
- quella manifatturiera,
- quella per strutture culturali private.
Destinare una congrua quantità di spazi, in ogni insediamento urbano, o parte di insediamento urbano, a strutture pubbliche e/o per attività collettive, in rapporto alla popolazione insediata, é, oltre che primario dovere culturale e politico di ogni operazione di pianificazione appena appena decente, un preciso obbligo giuridico, stabilito dalla legislazione statale italiana sino dal 1967, e (ovviamente) ribadito dalla legislazione regionale. Vale caso mai la pena di far presente come il nuovo strumento urbanistico per la città storica di Venezia rendesse flessibilmente governabili le destinazioni d'uso per strutture pubbliche e/o per attività collettive, consentendo che l'attribuzione della specifica destinazione (a scuola, o ad ufficio pubblico, o ad attrezzatura sociale, e così via) potesse essere definita, nel rispetto di taluni criteri di equilibrio, ma in relazione alle esigenze di volta in volta emergenti, con semplice deliberazione del Consiglio comunale, senza seguire complesse procedure di variante allo strumento urbanistico.
Parimenti obbligatorio é imporre vincoli di destinazione d'uso relativamente alle attività ricettive, stanti i chiari disposti in materia della legislazione sia statale che regionale.
Relativamente poi alle altre destinazioni d'uso vincolanti impresse dallo strumento urbanistico adottato nel 1992, quella abitativa, quella manifatturiera e quella per strutture culturali private, occorre rammentare come esse fossero rivolte a preservare, sulla base di una scelta culturale e politica e mediante un atto amministrativo, nella competizione economica per l'uso degli spazi che si svolge nel cosiddetto "mercato" degli immobili, quote adeguate di spazi per funzioni che risultano, presentemente, tutte "deboli" in tale competizione, ma essenziali nel primo caso per conservare alla città storica i suoi stessi connotati urbani, nel secondo caso per mantenervi attività tradizionali componenti della sua identità, nel terzo caso per promuovere lo sviluppo di quelle attività che unanimemente o quasi sono ritenute suscettibili di ricostituire una nuova "base economica urbana" a Venezia: le produzioni di "beni immateriali".
In ogni caso, non si può dire che queste tre destinazioni d'uso "ingessassero" le dinamiche di trasformazione funzionale, o addirittura la vitalità economica e sociale della città.
Le ultime due, quella manifatturiera e quella per strutture culturali private, erano assai "sobriamente" impresse a pochissime unità di spazio, ritenute eccezionalmente idonee per i predetti usi.
La destinazione abitativa era attribuita soltanto a quelle parti delle unità edilizie che avessero utilizzazione abitativa in atto alla data di adozione dello strumento urbanistico.
Per le singole preesistenti unità immobiliari, o le parti delle stesse, site ai piani terreni delle unità edilizie destinate ad abitazioni, che non fossero componenti integranti, anche sotto il profilo funzionale, dell'unità edilizia e/o immobiliare cui appartenessero, e per le quali fossero definite ammissibili utilizzazioni diverse da quella abitativa, erano ammessi i mutamenti:
a) da qualsiasi utilizzazione in atto ad utilizzazioni per servizi di pertinenza agli alloggi, servizi di pertinenza degli esercizi commerciali al minuto, servizi di pertinenza dei pubblici esercizi, qualora le unità immobiliari, o le loro parti, interessate, non fossero, o potessero essere rese, neppure a seguito dell'effettuazione delle trasformazioni fisiche ammissibili, abitabili nel rispetto di ogni altra vigente disposizione legislativa e/o regolamentare;
b) dall'utilizzazione abitativa in atto ad utilizzazioni per artigianato di produzione di beni artistici o connessi con le persone e le abitazioni, artigianato di servizio, esercizi commerciali al minuto, pubblici esercizi, uffici aperti al pubblico, uffici privati, studi professionali, sedi espositive, strutture associative, a condizione che le unità immobiliari, o le loro parti, interessate, non fossero, o potessero essere rese, anche a seguito delle trasformazioni fisiche ammissibili, abitabili nel rispetto di ogni altra vigente disposizione legislativa e/o regolamentare, ed invece fossero, o potessero essere rese, nel rispetto di tali disposizioni, utilizzabili per le utilizzazioni non abitative predette.
Nelle unità edilizie di tipo C, cioè nei cosiddetti "palazzi", anche se destinati ad abitazioni, per ciascuno dei piani superiori a quello terreno, ove avesse una superficie utile superiore a 400 metri quadrati, e le trasformazioni fisiche ammissibili non consentissero di ricavarne almeno due unità immobiliari ad utilizzazione abitativa, erano ammessi i mutamenti dell'utilizzazione da quella in atto, ivi compresa quella abitativa, a qualsiasi utilizzazione definita compatibile.
Infine, nelle unità edilizie destinate, in tutto od in parte, ad abitazioni, ove almeno i 2/3 dell'unità edilizia interessata avessero, alla data di adozione dello strumento urbanistico, un'unica utilizzazione, diversa da quella abitativa, ovvero ove fosse ammissibile il mutamento dell'utilizzazione di almeno i 2/3 dell'unità edilizia interessata per adibirli ad un'unica utilizzazione non abitativa, si prevedeva potesse essere concesso od autorizzato, su conforme deliberazione del Consiglio comunale, il mutamento dell'utilizzazione in atto delle restanti parti dell'unità edilizia, per adibirle alla medesima predetta utilizzazione, purché ricorressero i seguenti presupposti:
a) l'utilizzazione prevista delle restanti parti dell'unità edilizia fosse compatibile;
b) l'utilizzazione degli spazi interessati fosse condizione per l'efficiente svolgimento di funzioni particolarmente coerenti con le caratteristiche della città storica di Venezia, quali attività direzionali pubbliche e private, culturali, di istruzione superiore, e quindi per il mantenimento nella città storica di Venezia di dette funzioni;
c) i soggetti interessati si impegnassero con il Comune, mediante convenzione, a provvedere a propria cura e spese alla riallocazione degli utilizzatori delle parti dell'unità edilizia, che avessero un'utilizzazione abitativa in atto e delle quali venisse concesso od autorizzato il mutamento dell'utilizzazione, in altri congrui immobili, siti nell'ambito della città storica di Venezia e che non avessero un'effettiva utilizzazione abitativa in atto;
d) fossero date dai soggetti interessati idonee garanzie reali o finanziarie per l'adempimento degli obblighi assunti con la convenzione.
In ogni caso, si stabiliva che non fosse considerata utilizzazione difforme dalla destinazione l'utilizzazione parziale delle singole unità immobiliari, destinate ad abitazioni, per artigianato di produzione di beni artistici o connessi con le persone e le abitazioni, per artigianato di servizio, per studi professionali, qualora tale utilizzazione riguardasse non più del quaranta per cento della superficie utile dell'unità immobiliare interessata, e fosse effettuata da un residente nella medesima unità immobiliare.
Era quindi amplissimamente prevista la possibilità non soltanto di utilizzare per vaste gamme di funzioni non abitative (se del caso variando l'utilizzazione specifica) unità edilizie, od immobiliari, originariamente adibite ad uso abitativo, e che avessero legittimamente in atto utilizzazioni non abitative, ma anche di attivare utilizzazioni non abitative di unità edilizie, od immobiliari, o di loro parti, che avessero in atto utilizzazioni abitative. Fermo restando che ad utilizzazioni non abitative era adibita la grande quantità di "unità edilizie di base non residenziali a capannone" e di "unità edilizie speciali", nonché (virtualmente tutte) le unità edilizie realizzabili in conseguenza della (eventuale o prescritta) ricostruzione delle "unità edilizie coerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano" e delle "unità edilizie incoerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano".
Insomma: non si sarebbe potuto in alcun modo sostenere (argomentatamente) che la nuova disciplina avrebbe bloccato le dinamiche insediative delle attività produttive. Perfino ove si fosse voluto ripetere la sesquipedale sciocchezza per cui l'"esodo" degli abitanti dalla città storica di Venezia sarebbe dovuto soprattutto, od almeno anche, ad una carenza di posti di lavoro, e quindi di attività produttive insediate, in tale ambito.
Mentre é necessario riconoscere che "si commette un errore quando si vede nell'esodo della popolazione anche il sintomo di una decadenza economica della città. Anzi, poiché esso si accompagna ad una crescita dei prezzi immobiliari, va visto al contrario come la conseguenza della crescente appetibilità di Venezia, e del suo centro storico in particolare, come effetto della localizzazione in esso di famiglie ricche e di attività remunerative, in grado di competere con successo con quelle già insediate, provocandone l'espulsione. Al limite, si può dire addirittura che l'esodo sia la conseguenza indesiderata del successo di Venezia come città" [1] .
Infatti, pur in presenza, negli ultimi due decenni, di una vivace (ed assolutamente positiva) dinamica di incremento della domanda di lavoro nella terraferma veneziana, e soprattutto nei comuni dell'area veneziana diversi dal capoluogo, ha continuato a crescere, rilevantemente, in termini assoluti, il numero dei lavoratori pendolari che trovano lavoro nel Comune di Venezia, ed in particolare proprio nella città storica, gli spostamenti pendolari per motivi di lavoro con origine dalla quale, e verso ogni destinazione, si sono invece fortemente ridotti. Così, al 1991, a fronte di circa 28 mila pendolari in entrata nella città storica, si avevano circa 7 mila pendolari in uscita dalla stessa città storica.
I trasferimenti di attività produttive dalla città storica di Venezia non sono, ad ogni buon conto, mai avvenuti in conseguenza di una impossibilità di reperire spazi attribuibile ad una disciplina urbanistica denegante la sottrazione di spazi alla funzione abitativa. Sono avvenuti per incompatibilità tra le modalità di esercizio contemporaneo (o degli ultimi trascorsi decenni) di tali attività, o di parti di esse, e gli assetti tipologici e morfologici degli spazi veneziani. Sono avvenuti per dinamiche afferenti strategie aziendali, o riassetti del capitale finanziario, o ristrutturazioni dei settori di appartenenza, comunque estranee alle discipline urbanistiche, e rispetto alle quali le discipline urbanistiche, ed in genere le politiche degli enti territoriali, sono (giustamente, secondo l'opinione prevalente ed ormai quasi unanime nel nostro Paese come nel resto del mondo) del tutto ininfluenti.
La "mortalità" delle "unità locali", cioè la cessazione di attività economiche, ha riguardato essenzialmente quelle strettamente legate (in termini di produzione e vendita di beni e servizi) alla funzione abitativa, cioè all'entità (ed in qualche misura alla composizione) della popolazione residente (panetterie, drogherie, lavanderie, per fare qualche esempio). La "natalità" di "unità locali" ha invece riguardato essenzialmente quelle legate all'uso temporaneo, soprattutto turistico, della città: non tanto, anzi per nulla affatto, la ricettività, quanto la produzione e vendita di beni e servizi rivolti ai turisti.
E' vero che nell'ultimo decennio intercensuario i posti di lavoro nella città storica di Venezia risultano diminuiti di un po' meno di 4 mila unità, ma di più di 5 mila, nello stesso decennio, sono diminuiti gli attivi residenti nella stessa città storica che in essa lavorano (la qual cosa ha ovviamente prodotto un ulteriore incremento dei pendolari in entrata). Per cui si può ritenere che anche tale fenomeno sia effetto delle dinamiche intercorse nell'entità e nella composizione della popolazione residente.
In conclusione, si può ben dire che il problema prioritario non è quello di facilitare, nella città storica di Venezia, l'insediarsi di qualsivoglia attività produttiva (in concreto, stanti le inerzie degli operatori, le dinamiche delle rendite, non solo immobiliari, le capacità "pervasive" e "totalizzanti" di certi settori economici, sempre quelle legate all'uso turistico della città). Ma é piuttosto quello di mantenere nella medesima città storica una qualche ricchezza di funzioni, e soprattutto una popolazione stabile di congrua entità e fisiologicamente articolata per ceti e classi d'età.
Per la qual cosa non basta certamente riservare spazi alla funzione abitativa, mediante una disciplina urbanistica che ne vincoli la destinazione d'uso. Non basta, ma é necessario.
1.3. Gli ambiti di trasformazione della morfologia urbana
Mentre, come dianzi si é ricordato, per la più gran parte della città storica il nuovo strumento urbanistico dettava disposizioni immediatamente precettive e direttamente operative (nel senso che nel loro rispetto potevano essere richieste ed abilitate le trasformazioni, fisiche e funzionali, delle singole unità di spazio), per 50 "ambiti" il medesimo strumento stabiliva che le più radicali trasformazioni in essi previste (non tutte le trasformazioni ammissibili, quindi) fossero subordinate alla preventiva formazione di strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio. Ciò in quanto per gli stessi ambiti (tranne che per uno di essi, l'Arsenale, assoggettato alla stessa disciplina per garantirne l'unitarietà di concezione e gestione fisico-funzionale) lo stesso strumento urbanistico disponeva fossero oggetto di trasformazioni riconducibili alla nozione di "ristrutturazione urbanistica".
Si trattava, in buona sostanza, delle aree oggetto di interventi edificatori in epoca successiva a quella che si può considerare la conclusione di una vicenda storica insediativa veneziana presieduta da regole precise e costanti: vuoi interventi di nuovo impianto, vuoi interventi di estesa riedificazione, vuoi ad elevato specialismo morfologico e funzionale (il Mulino Stucky, l'area della ex Junghans, la Marittima, Piazzale Roma, l'Isola nuova del Tronchetto, i cantieri ex CNOMV, tanto per fare qualche esempio), vuoi di tipo tradizionalmente residenziale (i quartieri di edilizia pubblica economica e popolare).
Tali scelte discendevano da una precisa nozione di insediamento urbano storico (in senso proprio, e stretto). Secondo tale nozione l'insediamento storico é inteso come l'area urbana che conserva, nelle caratteristiche dell'organizzazione territoriale, dell'assetto urbano, dell'impianto fondiario, nonché nelle caratteristiche strutturali, tipologiche e formali sia dei manufatti edilizi che degli spazi scoperti, i segni delle regole che hanno presieduto alla vicenda storica della sua conformazione.
Con tale definizione non si vuole affatto aderire ad una (banale ed infondata) lettura degli insediamenti storici quali prodotti (necessariamente) "armoniosi" di una unitaria (sincronicamente e diacronicamente) "visione" dell'organismo urbano. Si é al contrario ben consapevoli dell'essere gli insediamenti storici frutto e risultante di "conflitti": di conflitti degli uomini con i supporti fisico-ambientali del loro insediarsi, e di conflitti (di interessi materiali, religiosi, culturali) tra gli uomini, cioè tra individui, famiglie, gruppi, ceti, classi.
Il fatto é che la dinamica di tali conflitti si é dipanata, foggiando e trasformando gli insediamenti storici, nel rispetto di alcune regole di fondo, di alcune costanti dei rapporti tra l'attività trasformativa antropica ed il suo supporto fisico-ambientale (quello specifico supporto fisico-ambientale), tra le caratteristiche del sito (di quello specifico sito) e le esigenze umane (funzionali e di rappresentazione), tra i materiali disponibili e le tecniche costruttive.
Queste regole, queste costanti, sono identificabili, e danno ragione di quel che la vicenda storica degli insediamenti ha prodotto, e consentono l'autentica conservazione di quanto é essenziale degli elementi e degli aspetti in cui esse si sono inverate, conferendo ai relativi oggetti qualità di componenti del "patrimonio culturale" della comunità insediata, e dell'intera umanità, presente e futura, in quanto in essi sono sedimentate le memorie della loro vicenda.
Inoltre, come s'é già detto, esse sono specifiche di ogni singolo insediamento storico, la cui identità é pertanto irriducibile a quella di qualsiasi altro.
Questa é la ragione per la quale si assume che dell'assieme di ogni insediamento storico debba essere prescritta:
- la conservazione delle individuate caratteristiche, mediante la manutenzione, il restauro ed il risanamento conservativo degli elementi fisici in cui, e per quanto, esse siano riconoscibili e significative;
- il ripristino delle predette caratteristiche, mediante trasformazioni degli elementi fisici, in cui, e per quanto, esse siano state alterate.
E per la quale, concretamente, si assume che di ogni insediamento storico nel suo insieme si debbano prescrivere il mantenimento, ovvero la ricostituzione negli aspetti alterati in termini incompatibili od incongrui rispetto alle identificate caratteristiche e regole conformative:
- della maglia insediativa e dell'impianto fondiario storici;
- della giacitura e della larghezza degli elementi viari, nonché dei relativi arredi,
- del sistema degli spazi scoperti, nonché dei rapporti tra spazi scoperti, spazi coperti e volumi edificati.
Con ciò non si esclude affatto che di altre aree urbane, diverse dall'insediamento storico, non si prescriva, parimenti, la conservazione dei connotati concreti dell'esistente organizzazione morfologica, con il mantenimento finanche delle essenziali caratteristiche dimensionali e formali delle unità di spazio (unità edilizie e spazi scoperti) che le compongono.
Ma, in tali casi, la prescrizione discende da un giudizio positivo puntuale circa la "qualità" dell'organizzazione morfologica della specifica area urbana considerata. La qual cosa é legittimata dal fatto che, in epoca relativamente recente, a partire da quel determinato "momento" di "rottura" di cui precedentemente s'é detto a proposito delle unità edilizie, nella conformazione delle aree urbane le regole di fondo, le costanti, che avevano presieduto alle fasi precedenti della vicenda (raramente e comunque scarsamente formalizzate, ed in ogni caso, come s'é detto, con caratteri di specifica ed irriducibile individualità), sono state soppiantate da nuove regole (di norma formalizzate, anche se in termini assai differenziati), scarsamente, o per nulla, correlate alla specificità dei supporti fisico-ambientali e dei siti: regole largamente "riproducibili", cioè riproponibili (e di fatto riproposte) in luoghi diversi, e largamente, quindi, "fungibili". Per cui della loro applicazione é concettualmente legittimo prevedere di conservare non ogni esito (perché irripetibile), ma soltanto gli esiti giudicati più significativi e "riusciti" (in termini di "qualità").
Ad ogni buon conto, per gli "ambiti" che il nuovo strumento urbanistico disponeva fossero oggetto di trasformazioni riconducibili alla nozione di "ristrutturazione urbanistica" il medesimo strumento urbanistico dettava:
- precise direttive per la formazione dei prescritti relativi strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio;
- disposizioni circa le trasformazioni, fisiche e/o funzionali, effettuabili prima dell'entrata in vigore di tali strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio.
La componente del nuovo strumento urbanistico ora sommariamente esposta fu la prima (e per un po' l'unica) ad incontrare obiezioni critiche, nell'approssimarsi dell'adozione dello strumento stesso, e nel periodo immediatamente successivo, da parte di tre esponenti della cultura urbanistica: il prof. arch. Leonardo Benevolo, il prof. arch. Pierluigi Cervellati, l'arch. Roberto D'Agostino.
Essi affermarono [2] che il nuovo strumento era "del tutto indeterminato nelle scelte sulle grandi aree strategiche di accesso e di frangia sul cui uso si giocheranno i destini di Venezia".
Si replicò che così non era. Riferendosi ad una delle aree da essi citate, quella dello Stucky, si fece presente che per essa erano indicate dal nuovo strumento urbanistico, con puntuale riferimento a sue specifiche parti, destinazioni per archivi pubblici, per centro congressuale polivalente privato, per alberghi, per abitazioni, e che soltanto per una specifica parte si consentiva la successiva scelta (da parte del consiglio comunale, non della proprietà) tra destinazioni per alberghi e destinazioni per attività direzionali, uffici privati, sedi espositive, comunque funzionalmente integrate con il centro congressuale. Riferendosi ad un'altra delle aree da essi citate, quella della Marittima, si fece presente che per essa il nuovo strumento urbanistico disponeva di "destinare ad impianti portuali marittimi [...] la parte dell'ambito che risulti necessaria nel contesto di una riorganizzazione delle funzioni portuali nell'area lagunare veneziana, la quale comunque mantenga in Venezia insulare gli scali del traffico passeggeri, di linea e crocieristico", nonché di "destinare a spazi d'ormeggio attrezzati ed a ricovero, manutenzione, riparazione e noleggio di piccole imbarcazioni la totalità, o comunque una congrua quota, della parte dell'ambito che non risulti necessaria per le utilizzazioni [predette]", essendo possibile destinare una quota di tale seconda parte dell'ambito a strutture turistico-ricettive, purché di livello medio (pressoché mancanti in Venezia).
Gli stessi critici affermarono allora di ritenere inammissibile che il nuovo strumento urbanistico si permettesse di decidere in merito ad "aree strategiche" di rilievo addirittura sovracomunale, pur trattando soltanto la città storica insulare.
Si replicò che tale affermazione (oltretutto contraddittoria con la prima) era infondata, giacché, come il già fatto esempio di Marittima stava a dimostrare, in tali casi il nuovo strumento urbanistico subordinava esplicitamente la propria operatività, prima che ai redigendi strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio, a scelte da operarsi da parte della pianificazione sovraordinata (neppure generale comunale, ma provinciale o metropolitana o regionale). E che comunque le scelte indicate per le "aree strategiche" erano conformi, se non a determinazioni di strumenti di pianificazione territoriali vigenti (all'epoca, come per il vero tuttora, tale requisito non era posseduto neppure dal piano regionale per l'area della laguna di Venezia), agli orientamenti di quei disegni pianificatori a scala d'area vasta (in primis il piano comprensoriale dei primi anni '80) che avevano ricevuto i più vasti consensi culturali e politici, nonché ai più condivisi e più precisamente formulati orientamenti delle forze politiche localmente maggioritarie ed egemoni.
2. LA NUOVA GIUNTA, IL SUO OPERATO ED I SUOI ESITI
Il programma sulla cui base era stato eletto il sindaco Cacciari aveva previsto di procedere sollecitamente a definire la pianificazione attuativa di alcuni degli "ambiti" ad essa assoggettati dallo strumento generale adottato nel 1992, dando quindi per scontato il perfezionamento dell'iter formativo di quest'ultimo.
Per quasi due anni, invece, la nuova giunta non si è preoccupata di programmare la predisposizione, da parte degli uffici competenti, delle controdeduzioni alle osservazioni (non molte, anzi straordinariamente ed inconsuetamente poche) presentate allo strumento adottato.
Dopodiché, nell'estate del 1995, ha varato quattro proposte di deliberazioni consiliari, redatte dal consulente generale prof. arch. Leonardo Benevolo, che avrebbero modificato profondamente lo strumento adottato, intaccandone le caratteristiche salienti, snaturandolo e smantellandone l'impianto precettivo, per la qual cosa hanno ricevuto pesantissime critiche, tra le altre, da una quindicina di illustri urbanisti di tutta Italia, da Antonio Cederna a Tommaso Giura Longo, da Paolo Maretto a Bernardo Rossi Doria, da Antonio Iannello a Sandro Dal Piaz a Lucio Barbera, tanto per ricordare qualche nome.
Successivamente, tali proposte di deliberazioni consiliari, già sottoposte all'esame della competente commissione consiliare, sono state accantonate in quanto l'assessore all'urbanistica ha maturato la convinzione di doversi procedere non a controdedurre alle osservazioni presentate allo strumento adottato nel 1992 (pur essendo stato consegnato, nel ottobre del 1995, il progetto di controdeduzioni elaborato dall'ufficio comunale competente) e neppure a modificarlo per quanto necessario od opportuno, ma piuttosto a redigere, in qualche mese, un nuovo strumento urbanistico, e quindi "ricominciare da capo", con adozione, pubblicazione, osservazioni, ecc. ecc. A tale scelta operativa si sono espressamente dichiarate contrarie tre delle quattro componenti della originaria maggioranza (Verdi, Rifondazione Comunista ed Alleanza Democratica) ed una forza politica, come il PPI, con la quale, stante le nuove dinamiche nazionali, si punterebbe a trovare ampie intese. Ma l'assessore all'urbanistica non ne ha tenuto alcun conto, ed ha fatto conoscere (con un documento, redatto dal consulente generale prof. arch. Leonardo Benevolo, del 29 novembre 1955) le fondamentali caratteristiche innovative (rispetto allo strumento adottato nel 1992) dell'impostazione del nuovo strumento (che ricalca largamente quella espressa nelle quattro proposte di deliberazioni di cui dianzi s'è detto). Le medesime caratteristiche innovative sono state poi rienunciate, più sinteticamente, nel "progetto preliminare al piano regolatore generale", presentato alla fine di marzo del 1996.
Nel frattempo l'assessore comunale all'urbanistica faceva produrre ed esibire ponderose riflessioni in merito alle disposizioni che dovessero ritenersi ancora vigenti dei "piani particolareggiati" per la città storica degli anni '70, il cui periodo di tempo di piena efficacia, dopo un paio di proroghe, era definitivamente scaduto. Le conclusioni di tali riflessioni erano, in estrema sintesi, che dovessero ritenersi sempre vigenti soltanto le disposizioni relative alle trasformazioni fisiche effettuabili sui singoli edifici nelle cosiddette "zone di conservazione", e null'altro. In particolare, che non dovessero ritenersi più vigenti le cosiddette "destinazioni d'uso", neppure se riferite ad intere aree urbane.
Il fatto è che tutte quelle riflessioni, e le relative conclusioni , muovevano dal presupposto che quelli degli anni '70 fossero tipici "piani particolareggiati", e cioè strumenti urbanistici di specificazione del piano regolatore generale.
Così non era, e la cosa era stata puntualmente chiarita nei pareri della Commissione tecnica regionale fatti propri dalla Giunta regionale nelle deliberazioni di approvazione di quei piani.
Infatti, per ammettere la legittimità dei piani adottati dal Comune, si precisò che essi, correttamente ai sensi di molteplici disposizioni di leggi speciali per Venezia, "hanno assunto non solo la forma, ma anche il contenuto di piani di ricostruzione, ai quali può riconoscersi la duplice funzione di Piano regolatore generale e di piano particolareggiato, e, conseguentemente, l'attitudine autonoma a variare un Piano regolatore generale". E si aggiunse che "la funzione reale di piano particolareggiato" era invece riservata ai cosiddetti "piani di coordinamento".
Ne deriva che i piani per la città storica di Venezia formati negli anni '70 hanno da considerarsi "decaduti" quanto ad una parte dei loro contenuti tipici di "piani particolareggiati", ma vigenti a tempo indeterminato quanto ai loro contenuti di variante, modificativa ed integrativa, del Piano regolatore generale del 1962.
Ma, stanti le caratteristiche proprie sia di quei piani che del Piano regolatore generale del 1962, distinguere le due speci di contenuti appare impresa improba, e probabilmente impossibile. Cosicché si può tranquillamente asserire che vigono a tempo indeterminato tutte le disposizioni dei "piani particolareggiati" degli anni '70, con l'eccezione dei "vincoli" di destinazione per usi pubblici e/o collettivi che implichino l'espropriazione dei relativi immobili, in quanto essi "decadono" dopo cinque anni dall'entrata in vigore del Piano regolatore generale, o della sua variante, che li abbia posti.
Tra l'altro, deve ritenersi vigere a tempo indeterminato, in quanto in variante (integrativa) del Piano regolatore generale, la disposizione per cui quei "piani particolareggiati" dovevano essere specificati e dettagliati da "piani di coordinamento": disposizione, tra l'altro, rafforzata da una legge regionale [3]. 55/1977. E parimenti l'altra disposizione, derivante dalla prima, per cui, in assenza di vigenti "piani di coordinamento", e di successivi "progetti di comparto", erano ammissibili soltanto le opere di manutenzione ordinaria ed una parte di quelle di manutenzione straordinaria.
Insomma: deve ritenersi vigente a tempo indeterminato quell'infernale meccanismo di pianificazione "a scatole cinesi" che ha, o avrebbe, ove non fosse stato sovente disinvoltamente aggirato (ma tali disinvolture non sono di certo apprezzabili), davvero "ingessato" totalmente la città storica, per di più senza garantire affatto la qualità culturale delle trasformazioni, e cioè la preservazione dei valori dell'edilizia storica.
Quell'infernale meccanismo che si voleva correttamente superare con la variante generale per la città storica finalmente completata alla fine degli anni '80, ed adottata nel 1992: quella variante che sarebbe stato necessario fare rapidamente entrare in vigore, indirizzando gli uffici competenti ad attribuire la massima priorità alla formulazione delle controdeduzioni alle osservazioni pervenute, sottoponendo al consiglio comunale le medesime controdeduzioni non appena formulate, inoltrando lo strumento alla Regione per l'approvazione.
Mentre ricominciando da capo (a decorrere da non si sa quando) con l'adozione di un nuovo strumento, la pubblicazione dello stesso, il ricevimento delle osservazioni, la formulazione e la deliberazione delle controdeduzioni, nemmeno con la massima buona volontà si può supporre che tale nuovo strumento, capace di superare la situazione dianzi descritta, entri in vigore prima della fine del 1998.
E c'è dell'altro. All'inizio del mese di febbraio del 1996 è entrato in vigore il "Piano di area della laguna e dell'area veneziana" (PALAV), finalmente approvato dalla Regione. L'articolo 35 delle sue norme stabilisce che siano considerati "centri storici" quelli come tali perimetrati negli "atlanti provinciali" pubblicati a cura della stessa Regione: nel caso di Venezia, tra l'altro, l'intera città insulare, compresi Piazzale Roma, la Marittima, l'Isola Nuova del Tronchetto, e simili. Sono quindi dettate alcune direttive per l'adeguamento degli strumenti urbanistici generali comunali, e si stabilisce che, fino a quando non si sia provveduto a tale adeguamento, nei "centri storici" sono consentiti soltanto, oltre alle opere manutentorie, o gli interventi disciplinati da vigenti strumenti urbanistici attuativi (piani particolareggiati o strumenti equivalenti), o quelli disciplinati da Piani regolatori generali redatti in conformità alla legge regionale 31 maggio 1980, n.80 (la quale, in estrema sintesi, prescrive, per la disciplina urbanistica dei centri storici, l'uso del metodo dell'analisi e della classificazione tipologica).
Ebbene: i "piani particolareggiati" formati negli anni '70 sono indubbiamente "decaduti" in quanto strumenti urbanistici attuativi; vigono invece, come s'è visto, in quanto varianti del Piano regolatore generale, ma in quanto tali non sono conformi ai dettati della legge regionale 80/80. Per cui, o per una ragione, o per l'altra, non possono essere consentiti gli interventi da essi disciplinati. Alla predetta legge regionale 80/80 era invece conforme la variante generale per la città storica adottata nel 1992, ma non si è voluto farla entrare rapidamente in vigore. Con la conseguenza, ancora una volta, che in tutta Venezia insulare sono presentemente consentibili soltanto gli interventi manutentori, nonché qualche intervento disciplinato da alcuni strumenti urbanistici attuativi, relativi a pochissime e circoscritte aree, formati negli ultimi anni.
E non basta: la situazione è quella sommariamente descritta, ma che così sia non si è voluto riconoscere. Per cui, presumibilmente, sono state rilasciate quantità non irrilevanti di provvedimenti abilitativi (concessioni ed autorizzazioni) eccedenti i limiti strettissimi di quel che era consentibile, e quindi illegittimi.
(segue)
[1] Mariolina Toniolo, La formazione dell'area metropolitana letta attraverso il mercato immobiliare, I.R.S.E.V., riprodotto in proprio, Venezia, 1991.
[2] "Tre grandi urbanisti italiani bocciano il piano regolatore", in Il Gazzettino di Venezia del 29 novembre 1992.
[3] La legge regionale 9 settembre 1977, n.55, recante "Attuazione dei piani particolareggiati nell'ambito del Comune di Venezia".
3. IL NUOVO PIANO
Alle metà di giugno del 1996 l'attuale Giunta comunale ha varato, e sottoposto al Consiglio, una nuova variante generale al piano regolatore di Venezia, relativa alla città storica insulare, che, in buona sostanza, assorbe i lavori compiuti, e gli elaborati prodotti, in funzione di quella adottata alla fine del 1992, snaturando peraltro le caratteristiche essenziali di quest'ultimo strumento con alcune ben mirate modificazioni.
Tali modificazioni corrispondono, sostanzialmente (con qualche correzione rivolta ad ovviare alle più sfacciate violazioni di legittimità, od ai più evidenti "svarioni" culturali, messi in luce dal dibattito dei mesi precedenti), a quelle indicate, circa un anno prima, dalle quattro proposte di deliberazione di cui s'è detto.
Per effetto di tali modificazioni un complesso sistematico di "regole", discendenti dalle caratteristiche in essere del territorio, dotato di interni meccanismi di correzione e di adeguamento che ne garantivano sia la flessibilità che la coerenza, definito nella trasparenza del processo democratico, qual'era la variante adottata nel 1992, verrebbe sostituito da un catalogo di "suggerimenti", che tutti (e soprattutto i detentori di "poteri forti", e quelli che avessero "santi in paradiso", e meglio sapessero "contrattare") potrebbero seguire o non seguire, scegliendo à la carte in funzione dei propri interessi, e concordando caso per caso i propri obblighi, in uno scenario di opaca discrezionalità che corromperebbe profondamente i titolari dei pubblici poteri, sia politici che amministrativi, ed i loro rapporti con i cittadini.
Ma non sarebbe soltanto snaturato un piano: concretamente, e di conseguenza, sarebbe snaturata la città storica di Venezia, nelle sue essenziali caratteristiche sia fisiche che sociali.
3.1. Trasformazioni fisiche valutabili discrezionalmente, caso per caso
Una prima modificazione muove dal falso presupposto che nel classificare (nello strumento adottato nel 1992) le unità edilizie preottocentesche non si sia tenuto adeguato conto delle intervenute alterazioni delle caratteristiche tipologiche originarie. Falso in quanto, proprio a questo fine, erano state identificate le due classi delle "unità edilizie di base residenziali preottocentesche parzialmente trasformate" e delle "unità edilizie di base residenziali preottocentesche oggetto di fusioni od addizioni".
In base al predetto presupposto si vorrebbe prevedere (articolo 4 delle Norme del nuovo strumento) che, al momento della domanda dell'abilitazione ad operare trasformazioni, si effettui un "procedimento di accertamento e di definizione dello stato di alterazione del manufatto".
Secondo tale "procedimento" il proprietario dell'unità edilizia dichiarerebbe l'unità edilizia stessa "integra", oppure "ristrutturata in modo reversibile", oppure "trasformata in modo irreversibile". Per suffragare tale dichiarazione sarebbe tenuto a produrre nulla più che i medesimi elaborati relativi alla documentazione dello stato di fatto dell'unità edilizia che lo strumento adottato nel 1992 prescriveva in tutti i casi di richieste di provvedimenti abilitativi ad operare trasformazioni. La dichiarazione sarebbe esaminata da una "commissione scientifica comunale" (non si specifica né cosa sia né da chi sia composta), che avrebbe tempo non più di venti giorni per dire la sua, e sarebbe accettata o respinta dal "responsabile del procedimento" (cioè da un funzionario comunale dell'edilizia privata) entro novanta giorni, trascorsi i quali, con il meccanismo del "silenzio assenso", sarebbe automaticamente confermata la dichiarazione del proprietario.
Soltanto ove lo stato dell'edificio fosse, con questa procedura, definito "integro", varrebbero le precise disposizioni relative alle "trasformazioni fisiche ammissibili" dettate dallo strumento del 1992, puntualmente riferite alle caratteristiche identificative e distintive di ognuno dei "tipi" edilizi, dallo stesso strumento definite e descritte.
Mentre per le unità edilizie dichiarate "ristrutturate in modo reversibile" sarebbero ammissibili, alternativamente, le medesime "trasformazioni fisiche ammissibili" dettate dallo strumento del 1992 (chiamate, chissà perché, di "restauro"), "combinate" con quelle di "ripristino" delle situazioni originarie, "in modo da avvicinarsi il più possibile al modello descritto" (dallo strumento del 1992), oppure, a discrezione, "altri interventi volti a conservare o a modificare ulteriormente la situazione presente, purché il nuovo assetto non risulti incompatibile, o maggiormente incompatibile, col recupero del modello originario".
E per le unità edilizie dichiarate "trasformate in modo irreversibile" sarebbero ammissibili, alternativamente, le trasformazioni "volte a salvaguardare gli elementi antichi superstiti, e a conservare o modificare ulteriormente la situazioni presente, che comunque non vadano ad alterare i rapporti col contesto, ad accrescere il volume, la superficie lorda, il numero dei piani, né a modificare l'inviluppo complessivo", oppure, a discrezione "la ricostruzione dell'organismo originario mediante il ripristino filologico o tipologico".
Secondo le definizioni delle "tipologie di intervento" (articolo 3 delle Norme del nuovo strumento), che si vorrebbe ad ogni costo introdurre, il "ripristino filologico" si effettuerebbe "quando è disponibile una documentazione individuale del manufatto, attraverso i resti superstiti e/o i disegni e le descrizioni dell'edificio", ed il "ripristino tipologico" si effettuerebbe "quando si conosce solo il modello tipologico del manufatto, desunto dal sedime, dall'appartenenza a una serie di edifici circostanti, e/o dalle rappresentazioni storiche in pianta e in alzato", nel qual caso "è possibile edificare un nuovo manufatto, che sia la replica del modello tipologico": cioè realizzare un bel falso architettonico !.
Non occorre, si ritiene, sottolineare l'estrema genericità e vaghezza delle disposizioni alle quali dovrebbe sottostare la progettazione, e l'attuazione, delle trasformazioni, ogniqualvolta l'unità edilizia fosse dichiarata, con il procedimento discrezionale e "caso per caso" dianzi descritto, "ristrutturata in modo reversibile" o "trasformata in modo irreversibile".
Si noti inoltre che in ogni caso (cioè in qualsivoglia stato siano dichiarate le unità edilizie) si vorrebbe precisare che sono ammissibili comunque (quindi a prescindere dal rispetto delle disposizioni replicate o introdotte ex novo) le trasformazioni di manutenzione sia ordinaria che straordinaria. Palesemente non essendo riusciti a comprendere la logica dello strumento adottato nel 1992, che assoggettava alle stesse disposizioni, puntualmente riferite alle caratteristiche riconosciute di ogni unità edilizia, tutte le trasformazioni fisiche, in qualsivoglia delle (famigerate, verrebbe da dire, per gli usi che si è preteso e si continua a pretendere di farne) "categorie d'intervento" esse rientrassero.
3.2. Pressappochismi e sciatterie
Il "procedimento di accertamento e di definizione dello stato di alterazione del manufatto", e quanto ne consegue in termini di disposizioni da osservare, è dalla sistematica dell'apparato normativo del nuovo strumento (si veda l'articolo 4 delle Norme), riferito a tutte le "unità di spazio", quindi, secondo l'impostazione dello strumento adottato nel 1992, e confermata da quello nuovo, sia alle "unità edilizie" che alle "unità di spazio scoperto". Ma, sia per la terminologia usata che per le concrete indicazioni date (e largamente citate nel precedente paragrafo 3.1.), appare smaccatamente pertinente alle sole unità edilizie.
Non basta: riferendosi alle unità edilizie, i predetti dispositivi dovrebbero valere per tutte quelle classificate dagli elaborati grafici e dall'apparato normativo, od almeno da uno dei suoi elaborati, e quindi anche, ad esempio, per le "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto" e per le "unità edilizie novecentesche non integrate nel contesto" (le uniche categorie, come si dirà in prosieguo, introdotte dal nuovo strumento, non comparenti nelle Norme, ma comparenti nell'Appendice 1, che ne costituisce parte integrante). Per le prime, le "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto", la Scheda 28 dell'Appendice 1 dispone che siano ammissibili sia la "ristrutturazione con vincolo parziale, di conservazione delle murature esterne e del volume", sia, a determinate condizioni, la demolizione e ricostruzione. Per le seconde, le "unità edilizie novecentesche non integrate nel contesto", la Scheda 29 dell'Appendice 1 dispone che in assenza di uno "strumento urbanistico esecutivo" siano ammissibili, oltre alle trasformazioni manutentorie, soltanto la demolizione senza ricostruzione, e che lo "strumento urbanistico esecutivo" possa prevedere anche la riedificazione. In entrambi i casi, quale applicabilità può aversi dei succitati dispositivi?
Dalle Norme del nuovo strumento non sono trattate le categorie di unità edilizie che, come si è detto nel precedente paragrafo 3.1., lo strumento del 1992 denominava "unità edilizie di base residenziali preottocentesche parzialmente trasformate" e "unità edilizie di base residenziali preottocentesche oggetto di fusioni od addizioni". La cosa potrebbe essere considerata coerente conseguenza del previsto "procedimento di accertamento e di definizione dello stato di alterazione del manufatto", per cui qualsiasi unità edilizia potrebbe essere definita "ristrutturata in modo reversibile" o "trasformata in modo irreversibile" (per usare la terminologia del nuovo strumento), e quindi, anche, "parzialmente trasformata" o "oggetto di fusioni od addizioni" (per usare la terminologia di quello del 1992). Ma, invece, le categorie delle "unità edilizie di base residenziali preottocentesche parzialmente trasformate" e delle "unità edilizie di base residenziali preottocentesche oggetto di fusioni od addizioni" continuano a comparire negli elaborati grafici e nell'Appendice 1 (che delle Norme costituisce parte integrante): col che ogni coerenza va a farsi benedire. Ed assieme alla coerenza va a farsi benedire anche l'applicabilità dello strumento: sia perché le disposizioni dettate nelle Schede 8 e 9 dell'Appendice 1 non trovano inquadramento, e fondamento, nelle Norme, sia perché le medesime disposizioni non sono registrate (né registrabili) con quelle date dall'articolo 4 delle Norme per le unità edilizie che siano dichiarate "ristrutturate in modo reversibile" o "trasformate in modo irreversibile".
Parimenti, dalle Norme del nuovo strumento non é trattata la categoria di unità edilizie che lo strumento del 1992 denominava "unità edilizie di base residenziali ottocentesche di ristrutturazione", che però continua a comparire negli elaborati grafici e nell'Appendice 1: anche in questo caso, le disposizioni dettate nella Scheda 11 non trovano inquadramento, né fondamento, nelle Norme, con conseguente ardua applicabilità.
Le Norme del nuovo strumento trattano con un unico complesso di disposizioni (dettato dall'articolo 12) le "unità edilizie di pregio architettonico" sia "complessivo" che "limitato all'assetto esterno", laddove le Norme dello strumento del 1992 trattavano separatamente le due categorie delle "unità edilizie di complessivo pregio architettonico" e delle "unità edilizie di pregio architettonico limitato all'assetto esterno". Le due categorie ora citate sono peraltro, nel nuovo strumento, distintamente individuate negli elaborati grafici, e distintamente trattate nell'Appendice 1: ma, essendo le disposizioni dettate dall'articolo 12 delle Norme rimaste quelle che lo strumento del 1992 aveva definito specificamente, ed unicamente, per le "unità edilizie di complessivo pregio architettonico", vi è piena ed insanabile contradditorietà con quelle dettate dalla Scheda 13 per le "unità edilizie di pregio architettonico limitato all'assetto esterno", parimenti trascritte dallo strumento del 1992.
Nelle Norme del nuovo strumento non compaiono le "unità edilizie di base a tipologia mista", disciplinate dallo strumento del 1992. In questo caso, in coerenza con gli altri elaborati: infatti, negli elaborati grafici del nuovo strumento, le indicazioni di appartenenza di talune unità edilizie, o, meglio, di loro parti, a diverse categorie, sono state sostituite dalla riconduzione di tali unità edilizie ad un'unica categoria. Con il risultato che unità edilizie derivanti dall'addizione di uno o più piani, configurati come "residenziali", ad un "capannone", sono incluse nelle categorie delle "unità edilizie di base a capannone", e che anche tali piani aggiuntivi dovrebbero sottostare alle puntuali disposizioni dettate, in considerazione delle loro specifiche caratteristiche, già dallo strumento del 1992, per le "unità edilizie di base a capannone".
Il nuovo strumento riconduce tutte le unità edilizie novecentesche in sei sole categorie (contro le dieci dello strumento del 1992):
- le "unità edilizie novecentesche di complessivo pregio architettonico" e le "unità edilizie novecentesche di pregio architettonico limitato all'assetto esterno", delle quali già si è detto;
- le "unità edilizie di base non residenziali novecentesche a capannone a fronte acqueo" e le "unità edilizie di base non residenziali novecentesche a capannone senza fronte acqueo";
- le "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto" e le "unità edilizie non integrate nel contesto".
E' arduo intendere le ragioni per le quali l'assoluta non pertinenza delle classificazioni riferite alle caratteristiche "tipologico-strutturali" con l'edilizia novecentesca, sostenuta dagli estensori del nuovo strumento, non valga per le "unità edilizie di base non residenziali novecentesche a capannone a fronte acqueo" e le "unità edilizie di base non residenziali novecentesche a capannone senza fronte acqueo", considerate anche dal medesimo nuovo strumento, e valga invece per le "unità edilizie speciali novecentesche originarie o di ristrutturazione a struttura unitaria", per le "unità edilizie speciali novecentesche originarie o di ristrutturazione a struttura modulare", per le "unità edilizie speciali novecentesche originarie o di ristrutturazione a struttura modulare complessa", per le "unità edilizie speciali novecentesche ad impianto singolare o non ripetuto", che, invece, erano considerate dallo strumento del 1992, e non lo sono dal nuovo strumento.
E' da verificare se, ed in quale misura, le "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto" e le "unità edilizie non integrate nel contesto" coincidano, in termini individuativi, cioè negli elaborati grafici, con le unità edilizie classificate, dallo strumento del 1992, "coerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", oppure "incoerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano". Tale ultima classificazione è stata contestata dagli estensori del nuovo strumento in quanto si è negato (in contrasto con i fondamentali studi di Saverio Muratori, Paolo Maretto, Gianfranco Caniggia) che siano esistite, e siano riconoscibili, delle "regole conformative che hanno presieduto alla vicenda storica dell'insediamento umano" veneziano. In proposito, si potrebbe chiedersi perché l'articolo 1 delle Norme del nuovo strumento dichiari che "la disciplina urbanistica riconosce le regole conformative che hanno presieduto alla vicenda storica dell'insediamento".
Ad ogni buon conto, le "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto" e le "unità edilizie non integrate nel contesto" non sono trattate dalle Norme del nuovo strumento, per cui, anche in questo caso, le disposizioni dettate nelle Schede 28 e 29 dell'Appendice 1 non trovano inquadramento, né fondamento, nelle Norme, con conseguente ardua applicabilità.
Delle "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto" la Scheda 28 dispone che siano ammissibili, in base a provvedimento abilitativo in diretta applicazione dello strumento generale, la "ristrutturazione con vincolo parziale, di conservazione delle murature esterne e del volume", con "possibilità di limitate correzioni del partito architettonico esterno, motivate dalle trasformazioni interne". E' invece richiesta la vigenza di uno "strumento urbanistico esecutivo" per effettuare trasformazioni di "demolizione e ricostruzione sullo stesso sedime o su sedime diverso, con le limitazioni di volume e di altezza stabilite dallo strumento stesso". Non si vede per quale ragione la demolizione e ricostruzione, ove avvenga sull'identico sedime, e sia disposto avvenga con l'identico volume e l'identica altezza, di un edificio, debba essere subordinata ad un "piano urbanistico esecutivo", tipico strumento di specificazione di assetti morfologici diversi da quelli in essere
Delle "unità edilizie novecentesche non integrate nel contesto" la Scheda 29 dispone che "in assenza di indicazioni date da uno strumento urbanistico esecutivo, l'unico intervento ammesso, oltre la manutenzione ordinaria e straordinaria, è la demolizione senza ricostruzione, assimilando il suo sedime all'unità di spazio scoperto in cui è collocata", mentre "all'interno di uno strumento urbanistico esecutivo può essere indicata l'utilizzazione alternativa del sedime, come spazio scoperto o per una nuova edificazione non commisurata alle caratteristiche del manufatto edilizio". A prescindere dalla chiarezza espressiva, le disposizioni non sono sostanzialmente diverse da quelle dettate dallo strumento del 1992 per le "unità edilizie incoerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", se non perché in quest'ultimo strumento non si prescriveva mai la demolizione senza ricostruzione.
La cura, l'attenzione e l'intelligenza con cui si è proceduto a "manomettere" gli elaborati dello strumento del 1992 sono, infine, ottimamente esemplificate dall'articolo 13 delle Norme del nuovo strumento, recante "prescrizioni comuni alle unità edilizie". Il comma 1 di tale articolo detta disposizioni da osservarsi nelle "trasformazioni fisiche consentite o prescritte nelle unità edilizie di cui ai precedenti articoli". Il comma 2 del medesimo articolo, "sforbiciato" per renderlo coerente con il fatto che nelle Norme non compaiono (come s'è già detto, ma non se ne intende la ragione) riferimenti a categorie di unità edilizie comparenti, invece, sia negli elaborati grafici che nell'Appendice 1, dispone che "il rispetto delle prescrizioni di cui al comma precedente può essere richiesto anche nei casi di effettuazione di trasformazioni fisiche consentite o prescritte nelle unità edilizie di cui ai precedenti articoli": cioè nelle stesse unità edilizie per le quali il rispetto delle medesime prescrizioni era, dal comma precedente, tassativamente richiesto!
Quanto agli spazi scoperti, non si intende la ragione per la quale nelle Norme del nuovo strumento, rispetto a quelle dello strumento del 1992, siano state soppresse le disposizioni generali relative ai "percorsi carrabili" ed ai "percorsi ferroviari", pur presenti, sebbene in termini assai limitati, in Venezia insulare.
3.3. Libertà di mutamenti d'uso
Una ulteriore modificazione essenziale riguarda la disciplina delle "destinazioni d'uso".
Una delle proposte di deliberazione di cui dianzi s'è detto prevedeva la totale eliminazione d'ogni vincolo di destinazione d'uso.
Il nuovo strumento, negando la distinzione, operata dallo strumento adottato nel 1992, tra momento "strutturale", valido a tempo indeterminato, che definisce le gamme di "utilizzazioni compatibili", e momento "programmatico", da aggiornare con periodicità quadriennale, che fissa (soltanto per quanto ritenuto necessario od opportuno) le "destinazioni d'uso", prevede l'"assorbimento" della determinazione delle "destinazioni d'uso" nella determinazione delle "utilizzazioni compatibili" (articolo 21 delle Norme del nuovo strumento).
Per cui le utilizzazioni in atto potrebbero essere generalmente modificate attivando una delle altre utilizzazioni già definite "compatibili" dallo strumento del 1992. Salvo che siano in atto utilizzazioni per "abitazioni", "industrie", "impianti per la cantieristica minore" od "impianti per la cantieristica minore", nel qual caso il mutamento sarebbe ammesso soltanto ove si pronunciasse favorevolmente la solita fantomatica "commissione scientifica comunale" e la commissione consiliare per l'urbanistica.
Di nuovo, quindi, un complesso di "regole", certe ed uguali per tutti quelli che ricadessero in predeterminate situazioni, quale quello definito dallo strumento del 1992 (e dettagliatamente descritto al precedente paragrafo 1.2.) sarebbe sostituito da un procedimento discrezionale, nel quale deciderebbero, caso per caso, un organo tecnico ed addirittura un organo politico, chiamato il primo non all'interpretazione ed all'applicazione tecnica di una norma, ma a concorrere ad una decisione, ed il secondo non a stabilire regole, ma a decidere, di volta in volta, sui singoli casi concreti, senza predefiniti criteri di valutazione.
Nei fatti, si può agevolmente prevedere che chiunque si vedesse, eventualmente, su tali basi negata la facoltà di attivare un'utilizzazione diversa da quella in atto (abitativa, poniamo), e ricorresse al TAR avverso il diniego, otterrebbe ragione, proprio in conseguenza dell'inammissibile discrezionalità del procedimento. E conseguentemente la difesa delle funzioni "deboli" (di quella abitativa in primo luogo) si tradurrebbe in una mera finzione, in una drammatica burla.
Ci si deve ad ogni modo compiacere del fatto che, grazie alle polemiche suscitate dalla predetta precedente proposta di deliberazione, ci si è resi conto del fatto che eliminare (come quella proposta di deliberazione voleva) ogni vincolo d'uso relativamente alle destinazioni per strutture pubbliche e/o per attività collettive, così come alle destinazioni per attività ricettive, sarebbe stato illegittimo, in quanto non avrebbe rispettato le norme statali e regionali in argomento.
Così compare tra gli elaborati grafici del nuovo strumento (si veda il punto 2.4.3 dell'articolo 2 delle Norme) la "tavola contrassegnata dalla sigla B2, in scala 1:3.550 [perché questa scala anomala proprio per l'indicazione del "vincoli urbanistici"?] recante l'individuazione delle aree [...] pubbliche o riservate alle attività collettive a servizio della città antica [...] e l'individuazione delle strutture ricettive alberghiere".
Per il vero, in tele tavola compaiono, oltre alla voce "strutture ricettive alberghiere", le voci:
- aree per servizi esistenti
a. aree per l'istruzione
pubbliche
private
b. aree per attrezzature di interesse comune
pubbliche
private
c. aree per attrezzature per il gioco e lo sport
pubbliche
private
d. aree per parcheggi
pubbliche
private
- aree per servizi di progetto
L'elaborato grafico, pertanto, imprime specifiche, vincolanti destinazioni d'uso (per l'istruzione, per attrezzature d'interesse comune, per parcheggi), ad immobili privati, i quali già hanno la relativa utilizzazione in atto, precludendone il mutamento, in casi diversi da quelli normati dal dianzi citato articolo 21 delle Norme del nuovo strumento. Ma tale vincolo non trova alcun riferimento nelle Norme.
Si pretenderebbe, anche con tali "vincoli", di avere adempiuto agli obblighi di dotazione di spazi per strutture pubbliche e/o per attività collettive posti dalle vigenti leggi, ma tali spazi, per potere soddisfare i predetti obblighi, devono essere pubblici, o deve essere prescritto lo divengano (si veda, in particolare, l'articolo 25 della legge regionale 27 giugno 1985, n.61, al comma dodicesimo e passim: soltanto per i parcheggi è ammesso, al quarto comma, il "vincolo convenzionale d'uso pubblico").
Vero è che le Norme dello strumento del 1992 prevedevano espressamente che ove i soggetti pubblici istituzionalmente competenti all'utilizzazione delle unità di spazio destinate a specifiche utilizzazioni per strutture pubbliche e/o per attività collettive (teatri, cinematografi, locali di spettacolo, impianti scoperti per la pratica sportiva, impianti coperti per la pratica sportiva, impianti per lo spettacolo sportivo, parcheggi attrezzati scoperti, autorimesse, strutture per l'istruzione) non intendessero procedere all'acquisizione delle medesime unità di spazio, avrebbero potuto lasciarne temporaneamente la gestione a soggetti privati, ma in base ad idonee convenzioni, le quali stabilissero tra l'altro: "l'eventuale corrispettivo della concessione", nonché "i modi, le forme ed i limiti dell'utilizzazione e/o delle attività di gestione", e soprattutto "i modi ed i limiti della fruizione da parte dei terzi dell'unità di spazio [...], secondo le finalità d'ordine collettivo connaturate alla specifica destinazione d'uso". Ma, per l'appunto, una tale possibilità era considerata eccezionale, temporanea, circoscritta a peculiari funzioni, prevista da precise disposizioni, vincolata all'ottenimento di garanzie da stabilirsi in termini predeterminati. Nulla di tutto ciò nel nuovo strumento, giacché le sue Norme dell'argomento non fanno nemmeno menzione.
L'elaborato grafico, inoltre, vincola immobili, genericamente, a "servizi di progetto", senza articolarne tale generica destinazione neppure nelle quattro grandi categorie di cui al DM 1444/1968 (riprese dalla legislazione regionale).
Vero è, anche in questo caso, che le Norme dello strumento del 1992 prevedevano che la specifica destinazione d'uso, delle unità di spazio alle quali era attribuita la destinazione per strutture pubbliche e/o per attività collettive, potesse essere determinata, ovvero variata qualora già indicata, con semplice deliberazione del Consiglio comunale, ma ciò solamente all'interno delle destinazioni riconducibili alle due grandi categorie delle "aree per l'istruzione" e delle "aree per attrezzature d'interesse comune", ed a condizione che fosse dimostrato e garantito il rispetto delle vigenti disposizioni in merito alle dotazioni minime di spazi per servizi pubblici e/o d'uso collettivo, con riferimento alle predette "aree per l'istruzione" ed "aree per attrezzature di interesse comune". Anche in questo caso, nulla di tutto ciò nel nuovo strumento.
Per tutte le ragioni suesposte, è assai da dubitare che il nuovo strumento rispetti le vigenti disposizioni in ordine ai rapporti tra capacità insediativa e quantità (determinate distintamente per l'istruzione, le altre attrezzature, il verde ed i parcheggi) di dotazioni pro capite di spazi per strutture pubbliche e/o per attività collettive.
3.4. Gli "ambiti"
Una quarta modificazione essenziale consiste nella revisione delle disposizioni relative ai 50 "ambiti" per i quali lo strumento del 1992 prevedeva che le più radicali trasformazioni in essi previste fossero subordinate alla preventiva formazione di strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio (piani particolareggiati). Essa comporta innovazioni di approccio e procedimentali, ed innovazioni di merito.
Giova ricordare (se ne è parlato al precedente paragrafo 1.3.) che tale previsione dello strumento del 1992 fu la prima ad incontrare obiezioni critiche da parte del prof. arch. Leonardo Benevolo, del prof. arch. Pierluigi Cervellati e dell'arch. Roberto D'Agostino.
La severa critica per cui lo strumento urbanistico adottato nel 1992 sarebbe stato "del tutto indeterminato nelle scelte sulle grandi aree strategiche", oppure (basta mettersi d'accordo: con sé stessi, si vuole dire) si sarebbe permesso di decidere sulle stesse, pur avendo ambito di competenza subcomunale, ha continuato incessantemente ad essere reiterata, sempre con riferimento a quello strumento urbanistico.
Mentre, successivamente, si è affermato[1], il "micidiale dispositivo è [stato] disinnescato". Da che cosa? che cosa è cambiato? semplice: degli autori di quella critica uno é divenuto assessore all'urbanistica e l'altro suo consulente.
Uno dei due, il prof. arch. Leonardo Benevolo, contestando lo strumento adottato nel 1992, aveva scritto che il "percorso dal piano [...] del centro storico ai 50 piani particolareggiati [degli "ambiti"] é inaccettabile e rovinoso: offre lo strumento tecnico per dribblare un ragionamento di pianificazione generale ancora mancante, e per andare direttamente al fatto compiuto, area per area. Le norme registrano alcuni patteggiamenti già avvenuti come le localizzazioni universitarie alla Giudecca [2], le residenze e gli uffici un po' dovunque [3], e aprono la strada ad altri patteggiamenti [...]. Questo piano si arrende alla logica dominante e offre agli interessi forti l'occasione per restare defilati, di non affrontare il giudizio globale e democratico implicito nella procedura di un vero piano regolatore in scala adeguata".
Naturalmente, invece, definire in termini esecutivi le trasformazioni della sventagliata di aree (Stucky, ex Scalera, Junghans, tra le altre) interessate dal cosiddetto "Progetto Giudecca", al di fuori di uno strumento unitario riguardante almeno la città storica lagunare, era ed é accettabilissimo e benefico. Soprattutto se lo si fosse fatto senza definire (in molti casi) neppure un piano particolareggiato unitario per ognuno degli ambiti coinvolti, ed attendendo che scadesse il regime di salvaguardia delle previsioni dello strumento adottato nel 1992 per disattenderle ove dessero fastidio, spostando di sito alberghi, residence, abitazioni e quant'altro.
Com'era accettabilissimo e benefico proporre, già nell'estate del 1994, una deliberazione (poi fortunatamente, o fortunosamente, insabbiatasi presso la competente commissione consiliare) relativa all'Isola Nuova del Tronchetto, che avrebbe disatteso e contraddetto le scelte operate circa l'Isola, da atti di pianificazione e da altri atti amministrativi di istituzioni veneziane, da e per quasi quindici anni.
Che avrebbe negato, ridicolizzandola, l'esigenza di garantire prioritariamente, nell'Isola Nuova del Tronchetto, il soddisfacimento di tutte le esigenze di approvvigionamento, di magazzinaggio, di deposito, esprimibili dalle attività economiche operanti nella città storica. Che non avrebbe consentito di ovviare alle irrazionalità ed alle diseconomie del sistema degli approvvigionamenti della città storica di Venezia, così da potere, tra l'altro, regolamentare il trasporto delle merci nei canali e nei rii in termini sostenibili dal tessuto urbano ed edilizio veneziano. Che avrebbe riproposto, oltre un trentennio dopo la cancellazione dal Piano regolatore generale comunale del "centro direzionale" accanto alla "testa di ponte", la medesima scelta, esaltando lo squilibrio complessivo della città lagunare, e condannando all'impoverimento funzionale i suoi quartieri meno prossimi alla "testa di ponte".
In proposito, allora, il prof. arch. Leonardo Benevolo ammannì pubblicamente, al colto ed all'inclita, la fantasiosa fola per cui il piano comprensoriale, nella versione del 1979, da lui avallata come componente del comitato scientifico del Comprensorio, avrebbe precluso ogni e qualsiasi trasformazione ed utilizzazione dell'Isola Nuova del Tronchetto, al fine di indurre la SVIT a regalarne la proprietà al Comune, od a demolire l'isola con un gesto di titanica disperazione, mentre, tramando nell'ombra, l'allora assessore comunale all'urbanistica si inventava la destinazione ad "interscambio merci", cosi da rilanciare, con una scelta da allora (chissà perché) irreversibile, l'edificabilità dell'isola.
Fantasiosa fola: anzi, spudorata menzogna. Giacché nella versione del 1979 del piano comprensoriale, consegnata dal Segretario del Comprensorio arch. Vezio E. De Lucia al Presidente avv. Antonio Casellati, ed avallata dal prof. arch. Leonardo Benevolo come componente del comitato scientifico del Comprensorio, l'Isola Nuova del Tronchetto era inequivocabilmente destinata (tutta e soltanto, ma non é di questo che si discute) alla funzione di "interscambio urbano merci", con edificazione di strutture le cui superfici ed i cui volumi avrebbero dovuto essere determinati in riferimento all'integrale soddisfacimento delle esigenze di approvvigionamento della città storica veneziana. Anche i grandi urbanisti dicono le bugie (talvolta?).
Dell'Isola Nuova del Tronchetto, ad ogni buon conto, si tratterà di nuovo, diffusamente, in prosieguo.
3.4.1. Piani particolareggiati, progetti unitari e piani di recupero
Il nuovo strumento manterrebbe la prescrizione dell'obbligatoria formazione di piani particolareggiati (articolo 23, commi 1, 2, 3 e 4, delle Norme del nuovo strumento) soltanto per 16 "ambiti":
- Tronchetto (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- Marittima (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- Stazione F. S. di S. Lucia (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- Piazzale Roma (corrispondente ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, al quale viene peraltro sottratto il complesso detto dei "Magazzini Parisi");
- Ex piazza d'armi (corrispondente all'unione di due "ambiti" individuati dallo strumento del 1992, e da esso denominati "Italgas" ed "Area Scomenzera");
- S. Marta/S. Basilio (corrispondente all'unione di due "ambiti" individuati dallo strumento del 1992);
- Ex orto botanico (corrispondente, con qualche incomprensibile modifica della perimetrazione, ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, e da esso denominato "ENEL");
- Arsenale (corrispondente all'unione di due "ambiti" individuati dallo strumento del 1992, e da esso denominati "Arsenale" e "Cantieri C.N.O.M.V.");
- S. Pietro di Castello (introdotto dal nuovo strumento, salva una parte, inclusa dallo strumento del 1992 in un "ambito" denominato "I.A.C.P. Quintavalle");
- Ex cantieri A.C.T.V. (coincidente con metà di un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, e da esso denominato "Cantieri A.C.T.V./Cantieri Celli");
- Giardini della Biennale (corrispondente, con una limitata modifica della perimetrazione, ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- Ex cantieri Celli (coincidente con l'altra metà dell'"ambito" individuato dallo strumento del 1992, e da esso denominato "Cantieri A.C.T.V./Cantieri Celli");
- Area Muner (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- Molino Stucky/Scalera/Trevisan (corrispondente all'unione di due "ambiti", individuati dallo strumento del 1992 e da esso denominati "Mulino Stucky" e "Scalera Film", nonché di una vasta area alle spalle, verso la laguna, del complesso del Mulino Stucky);
- Tappetificio Gaggio (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- Area Junghans (corrispondente all'unione di due "ambiti" individuati dallo strumento del 1992, e da esso denominati "Junghans 1" e "Junghans 2").
I piani particolareggiati relativi ai predetti "ambiti" dovrebbero rispettare le direttive (sempre, anche se in diversa misura, assai più generiche di quelle stabilite dallo strumento adottato nel 1992) dettate da un'apposita appendice alle Norme. E, per il vero (ma lo si deduce soltanto dal punto 2.4.4.2 dell'articolo 2 delle Norme del nuovo strumento), anche le indicazioni di tre tavole, in scala 1:2.000, "indicative dell'assetto urbanistico risultante".
Peraltro, è precisato (al punto 1.3.2 dell'articolo 1 delle Norme del nuovo strumento), "le trasformazioni fisiche e funzionali e la configurazione dell'assetto territoriale degli ambiti [...] possono - motivatamente e su conforme parere della Commissione scientifica comunale - essere rispettivamente definite e organizzate in termini diversi da quelli previsti negli elaborati costituenti l'Appendice". La formulazione è tale da non precludere (quali che fossero le intenzioni degli estensori e dei proponenti del nuovo strumento) alcuna difformità, foss'anche la più radicale, dei contenuti dei piani particolareggiati dalle direttive per essi dettate dallo strumento generale.
Con ciò, le decisioni pianificatorie generali, capaci di considerare unitariamente l'intera città, attribuendo, in una visione unitaria d'insieme, pesi (cioè quantità di spazi, edificati e non edificati) e funzioni alle sue diverse parti, sarebbero svuotate di significato, potendo successivamente essere contraddette "a pezzi e bocconi".
Oltretutto, la cosa sarebbe patentemente in contrasto con la vigente legislazione regionale, che prevede che gli strumenti urbanistici particolareggiati siano autonomamente definiti dai comuni, proprio in quanto esige che essi siano conformi a strumenti urbanistici generali, i quali, invece, devono essere controllati da un'istituzione sovraordinata (la regione o, in prospettiva, la provincia), per garantirne al rispondenza ad interessi più complessivi. E come potrebbe essere effettuata tale verifica, ove uno strumento urbanistico generale non dettasse disposizioni vincolanti neppure relativamente agli elementi essenziali, quali le quantità e le dimensioni dell'edificabile, e le funzioni prevalenti, ed i loro rapporti, che potrebbero essere decise a discrezione da piani sottratti a qualsiasi controllo?
Si stabilisce poi (articolo 23, comma 4, delle Norme del nuovo strumento) che prima dell'approvazione dei piani particolareggiati siano ammissibili non soltanto le trasformazioni specificamente definite tali, ambito per ambito, dalle relative schede (come nello strumento del 1992), ma anche, generalizzatamente, gli interventi di manutenzione (ordinaria e straordinaria, si suppone) e quelli di restauro. E che c'azzecca (direbbe l'attuale titolare del dicastero dei lavori pubblici) il restauro con i manufatti edilizi, peculiarmente e massicciamente presenti negli "ambiti", per i quali le disposizioni generali consentono sinanco la demolizione? Ma questo non è che un altro episodio della ricorrente sciatteria.
Per altri 11 "ambiti" sarebbe invece disposto (articolo 23, commi 5, 6 e 7, delle Norme del nuovo strumento) che "gli interventi eccedenti la manutenzione ordinaria e straordinaria, volti a modificare i servizi pubblici insediati [...], ovvero a sostituirli con altri servizi pubblici, sono autorizzati [????] mediante semplice progetto edilizio - nelle forme e con gli atti previsti per le opere pubbliche dalle disposizioni vigenti in materia - a condizione che tale progetto sia esteso a tutta l'area perimetrata". Mentre si dovrebbe ricorrere alla preventiva formazione di un piano particolareggiato per "gli interventi volti a destinare il compendio immobiliare o parte dello stesso ad insediamenti privati, ovvero volti a por fine - frazionandola - all'unità funzionale e/o dominicale del compendio medesimo".
Gli "ambiti" in questione sarebbero i seguenti:
- Area ASPIV (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992 e da esso denominato "S. Andrea");
- Tabacchificio (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- Carcere (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992 e da esso denominato "Santa Maria Maggiore");
- Ospedale S. Giustinian [4] (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992 e da esso denominato "G.B. Giustinian");
- Macello (corrispondente all'unione di due "ambiti" individuati dallo strumento del 1992, e da esso denominati "Macello/Cantiere Oscar" e "Mulino Passuelo");
- Sacca S. Biagio /Genio Civile (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- Area Umberto I (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- Ospedale SS. Giovanni e Paolo (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- Caserma S. Daniele (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- Sacca Inceneritore (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- Sacca S. Biagio/AMAV (corrispondente a circa metà di un "ambito" individuato dallo strumento del 1992).
Non si intende per quale ragione l'essere gli "ambiti" suelencati appartenenti al patrimonio di soggetti pubblici (enti pubblici territoriali, ma anche enti pubblici strumentali, ed altri enti pubblici), e l'essere destinati alla produzione di servizi pubblici, dovrebbe esentare dal definire gli assetti urbani (ché di questo si tratta) di intere zone attraverso gli ordinari strumenti, e procedimenti, della pianificazione urbanistica.
Tale esenzione comporterebbe, essenzialmente, che i "progetti" relativi agli "ambiti" suindicati sarebbero definitivamente approvati senza obbligo di preventiva pubblicazione, di raccolta delle osservazioni della "società civile", di assunzione motivata di determinazioni in ordine a tali osservazioni.
Ma comporterebbe anche, a legislazione invariata, che solamente l'approvazione dei "progetti preliminari" (che [5] consistono soltanto in una "relazione illustrativa" ed in "schemi grafici"), relativi ai predetti "ambiti", competerebbe [6] al consiglio comunale, mentre l'approvazione dei "progetti definitivi" (che [7] contengono "tutti gli elementi necessari ai fini del rilascio delle prescritte autorizzazioni ed approvazioni") competerebbe alla giunta municipale.
E ciò, ovviamente, soltanto laddove si trattasse di opere pubbliche di competenza comunale. Mentre non v'é nessun presupposto giuridico per imporre che i progetti di soggetti diversi dal Comune debbano essere approvati (con la correlativa discrezionalità tecnica, politica ed amministrativa) da un organo decisionale del Comune, anziché abilitati, dal medesimo Comune, ma a seguito di mero riscontro di conformità con la disciplina urbanistica.
Si noti infine che la Corte costituzionale, con sentenza 7/19 ottobre 1992, n.393, ha dichiarato l'illegittimità di una norma di legge statale (della legge 17 febbraio 1992, n.179) perché nella figura del "programma integrato d'intervento" unificava strumento urbanistico attuativo e progetto delle trasformazioni, e sopprimeva la distinzione tra approvazione dello strumento urbanistico attuativo e successivo rilascio del provvedimento abilitativo.
Anche i "progetti" relativi agli "ambiti" da ultimo elencati dovrebbero rispettare le direttive dettate dall'apposita appendice alle Norme (ed alle indicazioni delle tre tavole, in scala 1:2.000, "indicative dell'assetto urbanistico risultante").
Ma, anche in questo caso, è precisato (al comma 6 dell'articolo 23 delle Norme del nuovo strumento, e con rinvio al punto 1.3.2 dell'articolo 1 delle stesse Norme) che i "progetti [...] possono discostarsi" da tali direttive "su conforme parere della Commissione scientifica". Anche in questo caso, la formulazione è tale da non precludere (quali che fossero le intenzioni degli estensori e dei proponenti del nuovo strumento) alcuna difformità, foss'anche la più radicale, dei contenuti dei "progetti" dalle direttive per essi dettate dallo strumento generale. E valgono quindi tutte le obiezioni dianzi fatte alla medesima disposizione riferita ai previsti piani particolareggiati.
Relativamente all'"ambito" denominato "Ospedale SS. Giovanni e Paolo" si stabilisce (al comma 7 dell'articolo 23 delle Norme del nuovo strumento) che "il progetto può riguardare una parte soltanto dell'ambito [...] purché sia accompagnato da un progetto di massima riguardante l'assetto di tutta l'area". Evidentemente, si ignora che, secondo "le forme e gli atti previsti per le opere pubbliche dalle disposizioni vigenti in materia" [8], la "figura" del "progetto di massima" non è contemplata, e si intende comunemente sostituita da quella del "progetto preliminare", che, come già s'è detto, consiste soltanto in una "relazione illustrativa" ed in "schemi grafici".
Per altri 14 "ambiti" sarebbe invece disposto (articolo 23, commi 8 e 9, delle Norme del nuovo strumento) che "gli interventi di manutenzione, restauro e ristrutturazione che non modificano gli assetti esterni e le sistemazioni a terra sono immediatamente autorizzabili [???] mediante semplice progetto", mentre "gli interventi di modifica alle facciate degli edifici e alle sistemazioni a terra, quelli di demolizione e ricostruzione e di nuova costruzione sono [...] soggetti alla preventiva approvazione di uno o più piani di recupero di iniziativa pubblica o privata".
Gli "ambiti" in questione sarebbero i seguenti:
- I.A.C.P. S. Marta (corrispondente ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, con limitate modifiche di perimetrazione);
- I.A.C.P. Sacca S. Biagio (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- I.A.C.P. S. Girolamo (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- I.A.C.P. S. Alvise (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- I.A.C.P. Madonna dell'Orto (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- I.A.C.P. Gesuiti (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- I.A.C.P. Celestia (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- I.A.C.P. Quintavalle (corrispondente ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, salva una parte, inclusa dal nuovo strumento nell'"ambito" denominato "S. Pietro di Castello");
- Quartiere S. Elena (introdotto dal nuovo strumento);
- Sacca Fisola (introdotto dal nuovo strumento);
- I.A.C.P. Campo della Rotonda (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- I.A.C.P. S. Giacomo (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);
- Campo di Marte (corrispondente ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, con una incomprensibile modifica della perimetrazione);
- I.A.C.P. Campo di Marte (corrispondente ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, con una incomprensibile modifica della perimetrazione).
Non si intende per quale ragione le trasformazioni che comportino modificazione delle facciate degli edifici, ovvero delle semplici "sistemazioni a terra", ed anche quelle di demolizione e ricostruzione, ove avvengano sul medesimo sedime, debbano essere subordinate alla formazione di uno strumento urbanistico, qual'è, o dovrebbe essere, un piano di recupero. Per converso, non si intende come trasformazioni di demolizione e ricostruzione, ove avvengano su diverso sedime, e addirittura di nuova costruzione, possano essere accettabilmente disciplinate da piani di recupero non obbligatoriamente riferiti, ciascuno, in termini unitari, ad un perimetrato "ambito", ma invece, potenzialmente, plurimi, cioè riguardanti anche un solo edificio, od un solo lotto. Di certo, si rinuncerebbe a prevedere e promuovere operazioni di ridisegno, anche morfologico, e di riqualificazione, complessivamente riguardanti "ambiti" di bassa, o bassissima, qualità complessiva, largamente degradati, e profondamente "estranei" all'organizzazione morfologica del tessuto urbano insulare veneziano.
Inoltre, relativamente a tali ultimi "ambiti", non è dettata alcuna direttiva, neppure riferita alle ammesse trasformazioni di demolizione e ricostruzione, e di nuova costruzione, nemmeno meramente quantitativa. Per cui, ancora una volta, sarebbe (illegittimamente) eluso l'obbligo di decidere nello strumento urbanistico generale, in una visione unitaria d'insieme, in ordine ai pesi, cioè alle quantità di spazi, edificati e non edificati, oltre che alle funzioni, da assegnare alle diverse parti del territorio considerato (e di consentire il controllo di tali decisioni da parte della competente istituzione sovraordinata).
Resta da aggiungere che, rispetto allo strumento adottato nel 1992, non sarebbe più necessario formare strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio relativamente ai seguenti "ambiti":
- Fatebenefratelli;
- I.A.C.P. San Giobbe;
- I.A.C.P. San Leonardo;
- I.A.C.P. Campo della Lana;
- Cotonificio Olcese Veneziano;
- I.A.C.P. Corte Colonne;
- I.A.C.P. Sant'Anna.
Le ragioni sono del tutto imperscrutabili. Documenti prodotti dall'assessorato all'urbanistica, prodromici al nuovo strumento pianificatorio, avevano affermato che si potevano riconoscere "integrati al contesto", e quindi non richiedenti la formazione di strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio, i seguenti "ambiti": I.A.C.P. San Giobbe; I.A.C.P. San Leonardo; I.A.C.P. Campo della Lana; Cotonificio Olcese Veneziano.
E' francamente arduo comprendere in cosa e perché I.A.C.P. San Giobbe, I.A.C.P. San Leonardo e I.A.C.P. Campo della Lana (almeno per la più gran parte) si differenzino da altre aree, interessate da edificazioni pubbliche, per le quali si detterebbe la disciplina da ultimo ed appena sopra esposta.
In ogni caso, ci si compiace che non sia riproposta l'ipotesi, avanzata in un suo precedente scritto dal prof. arch. Leonardo Benevolo, di ripristinare, nell'area detta I.A.C.P. San Leonardo, il "tessuto storico precedentemente esistente", ignorando il fatto che immediatamente prima della realizzazione degli edifici attuali sulla più gran parte della predetta area insistevano una raffineria di zolfo ed una fabbrica di conterie, e prima ancora (all'epoca del cosiddetto "Catasto napoleonico") la stessa area risultava in gran parte inedificata.
Ancora, è arduo comprendere come si possa riconoscere "integrato al contesto" il Cotonificio Olcese Veneziano. Ed il complesso del Fatebenefratelli? e gli "ambiti" I.A.C.P. Corte Colonne e I.A.C.P. Sant'Anna? si attendono, almeno, motivazioni (non necessariamente condivisibili).
3.4.2. Contenuti delle direttive
Si è già segnalata l'estrema "povertà" delle direttive dettate dal nuovo strumento relativamente agli "ambiti" per i quali sia prescritta la formazione di piani particolareggiati, o di "progetti unitari", rispetto a quelle dettate dallo strumento del 1992.
Tale "povertà" è particolarmente acuta, con riferimento sia agli assetti morfologici da perseguire sia (perfino) alle quantità di spazi edificati da mantenere, o da realizzare, di spazi scoperti da sistemare, nonché di spazi (edificati o scoperti) da destinare alle diverse funzioni, laddove si tratti di "ambiti" di pertinenza di soggetti pubblici di qualsivoglia genere. Così per l'"ambito" della Marittima (relativamente al quale l'Autorità portuale ha competenze anche pianificatorie [9] , che peraltro devono esplicarsi "previa intesa con il comune" e non potendo "contrastare con gli strumenti urbanistici vigenti"), per l'"ambito" denominato "area ASPIV" (di pertinenza di un'azienda speciale municipale), per l'"ambito" del Tabacchificio, per l'"ambito" del Carcere, per l'"ambito" dell'Ospedale S. Giustinian [10] , per l'"ambito" del Macello, per l'"ambito" di Sacca S. Biagio/Genio Civile, per l'"ambito" dell'Ospedale Umberto I, per l'"ambito" dell'Ospedale SS. Giovanni e Paolo, per l'"ambito" della Caserma S. Daniele, per l'"ambito" della Sacca dell'Inceneritore (di pertinenza di un'altra azienda speciale municipale), per l'"ambito" di Sacca S. Biagio (di pertinenza, anch'esso, di quest'ultima azienda speciale municipale).
Di poco più "ricche" sono le direttive dettate per l'"ambito" della Stazione F. S., tra le quali, ad ogni buon conto, non ricompare quella, dettata dallo strumento del 1992, di "prevedere una riorganizzazione delle attrezzature ferroviarie che contempli una fermata di parte dei vettori, con connesse strutture per il carico/scarico degli utenti, verso l'estremità settentrionale dell'ambito, dove deve essere previsto un collegamento pedonale diretto, mediante ponte sul Rio della Crea, con l'ambito del Macello". Tra le nuove previsioni per tale ambito si può segnalare quella del mantenimento degli edifici adiacenti a quello del vero e proprio terminale ferroviario, dei quali lo strumento del 1992 prevedeva invece la demolizione, per fare luogo ad edificazioni di più spiccato rilievo formale, secondo un'organizzazione territoriale di più elevato livello qualitativo.
Del resto, una spiccata predilezione per il mantenimento di manufatti recenti di bassissima qualità emerge da buona parte delle nuove direttive: così, per fare soltanto qualche esempio, nell'espansione otto-novecentesca dell'Arsenale meglio nota come ex Cantieri C.N.O.M.V., nell'"ambito" denominato "Molino Stucky - Scalera - Trevisan" (laddove invece non ci si preoccupa di preservare gli edifici otto-novecenteschi, di altissimo valore storico-testimoniale, prospicienti il Rio di S. Biagio, da utilizzazioni, quale quella alberghiera, la cui efficiente esplicazione non potrebbe che comportare trasformazioni fisiche gravemente alteranti quantomeno il sistema delle aperture nei prospetti), nell'"ambito" della Junghans, nell'"ambito" dell'Ospedale G. B. Giustinian, nell'"ambito" dell'Ospedale SS. Giovanni e Paolo, e perfino nell'"ambito" della Sacca dell'Inceneritore.
L'altra predilezione che emerge è quella per i "falsi".
Nell'"ambito" che il nuovo strumento denomina "Ex piazza d'armi" (cioè nell'area meglio nota come ex Italgas), si prevede la "realizzazione di un nuovo canale in prosecuzione del rio di S. Maria Maggiore fino al canale della Scomenzera", secondo un tracciato che non ripropone alcuna storica via d'acqua, mentre giace parallelo a quello secondo il quale scorreva il poi interrato Rio dei Secchi.
Nell'"ambito" della Junghans si prevede la realizzazione di un nuovo rio con un percorso ad angolo (o ad "L"), perpendicolare per un tratto al fronte lagunare e per l'altro tratto al Rio del Ponte Longo: una previsione assolutamente gratuita, secondo un tracciato che non ripropone alcuna precedentemente esistente via d'acqua, né alcuna regola conformativa della morfologia storica veneziana. Una previsione utile soltanto a configurare uno stucchevole mini-insediamento residenziale "di prestigio" (per bas bleu), con casettine in linea, affacci sul nuovo rio e giardinini privati. Mentre, nello stesso "ambito", non si prevede né di ripristinare le due fondamente storicamente esistenti sia lungo il Rio del Ponte Piccolo che lungo il Rio del Ponte Longo, né di riproporre un ampio spazio scoperto sistemato a verde (da destinare, oggi, alla fruizione collettiva) verso la laguna.
Un ampio spazio scoperto sistemato a verde, anzi "organizzato in forma di parco pubblico", è invece previsto nell'"ambito" degli Scali di S. Marta e di S. Basilio, lungo "la riva del canale della Giudecca dal rio di S. Basilio al canale della Scomenzera". Ciò per "ricordare la presenza dell'antica spiaggia di S. Marta", che era tutt'un'altra cosa, ovvero per "concludere degnamente la riva delle Zattere, come i giardini napoleonici concludono la riva degli Schiavoni", come recita il recentemente divulgato "progetto preliminare al piano regolatore generale". Tralasciando l'insopportabile formalismo del proposito, si può agevolmente prevedere che la simmetria di tale nuovo "parco" non si istituirebbe con i giardini "selviani", ma piuttosto (anche e soprattutto in termini di immagine "spelacchiata" e miserella) con quelli della riva di S. Elena. E non si intende come la "inclusione" (anche in termini morfologici e formali) nel tessuto urbano veneziano di ambiti strutturati, or'è quasi un secolo, in termini tali da renderli ad esso profondamente estranei (come quelli degli Scali portuali di S. Marta e di S. Basilio) possa avvenire mediante la realizzazione di un "parco" lungo l'affaccio acqueo, cioè mediante una sistemazione da sempre estranea alle caratteristiche del medesimo tessuto urbano veneziano, in quanto mai ricorsa negli assetti prodotti dalle sue dinamiche storiche in epoca preottocentesca. Ma già: i nuovi protagonisti dell'attività pianificatoria veneziana non credono all'esistenza ed alla riconoscibilità delle "regole conformative che hanno presieduto alla vicenda storica dell'insediamento umano" veneziano!
Del resto, non si intende neppure come la predetta "inclusione" degli ambiti di cui si tratta nel tessuto urbano possa avvenire destinandone gli spazi edificati esclusivamente ad attività direzionali, ad attrezzature per l'istruzione, ad attrezzature culturali, ad attrezzature associative, ad attrezzature ricreative (lo strumento adottato nel 1992 sceglieva, tra le attrezzature per l'istruzione, quella universitaria, e, tra le attrezzature culturali, quella consistente in centri di ricerca, ma, soprattutto, prevedeva consistenti spazi per abitazioni collettive, intese come collegi, convitti studentati, ed anche per abitazioni ordinarie, con presenza di uffici privati, di studi professionali, di artigianato, di commercio al minuto, di pubblici esercizi)
Nell'"ambito" degli Scali di S. Marta e di S. Basilio si prevede anche un bel falso architettonico, ovvero la "riedificazione della fabbrica di tabacchi documentata nel catasto Napoleonico [...] secondo le modalità del ripristino tipologico o volumetrico, secondo la documentazione disponibile".
Come nell'"ambito" del Carcere si prevede "dismessa la destinazione carceraria, il ripristino tipologico o volumetrico dell'antico convento di S. Maria Maggiore".
Come nell'"ambito" di S. Pietro di Castello si adombra "la possibilità del ripristino filologico o tipologico del corpo di fabbrica conventuale relativo al secondo chiostro". Nel medesimo "ambito", per converso, si prevede la demolizione di buona parte degli edifici esistenti nell'"area retrostante la chiesa", da sistemare a "parco pubblico". Le demolizione riguarderebbe, tra l'altro, circa la metà del quartiere I.A.C.P. Quintavalle: niente di male, stante che "percorrendo tutto il grande complesso si rileva lo stesso sciatto disegno, la ripetitività ossessiva dei moduli, la medesima artificiosità dei giardinetti che impediscono all'edificio di stabilire un contatto diretto con la strada e negano l'inserimento di attività commerciali e artigianali ai piani terreni" [11]. E poi non si prevede la demolizione degli edifici prospicienti la laguna, forse valutando che "l'effetto alla distanza dell'affaccio lagunare appare non sgradevole e complessivamente accettabile" [12]. Però si prevede la demolizione di tre edifici che lo strumento del 1992 aveva classificato "preottocenteschi": è stata appurata, ed adeguatamente documentata, un'errata attribuzione?
Quello da ultimo citato non è l'unico caso di "discrasia", per così dire, tra le indicazioni (cartografiche) relative agli "ambiti" e le puntuali classificazioni delle unità edilizie. Si deve sempre pensare alla ricorrente sciatteria? Anche quando le indicazioni cartografiche relative all'"ambito" denominato "area Molino Stucky - Scalera - Trevisan" prevedono la demolizione senza ricostruzione di una "unità edilizia di base non residenziale a capannone senza fronte acqueo", magari giustificabilissima ed opportunissima, ma senza che nessuna norma esplicita ammetta, negli "ambiti", la derogabilità delle disposizioni generali che, di tali unità edilizie, prescrivono il mantenimento?
Di due ambiti, infine, è bene trattare separatamente, e specificamente: dell'Isola Nuova del Tronchetto e dell'Arsenale.
3.4.3. L'Isola del Tronchetto
Vale la pena di rammentare che proprio a proposito dell'Isola del Tronchetto la nuova giunta aveva mostrato, a meno di un anno dal suo insediamento, il gran conto in cui intendeva tenere il programma per realizzare il quale il sindaco Cacciari aveva chiesto il consenso degli elettori, ed ottenuto quello della maggioranza di essi.
Aveva infatti proposto al consiglio comunale di controdedurre, in termini radicalmente difformi da quanto in argomento puntualmente specificato nel programma, alle osservazioni presentate ad una variante al Prg relativa alla sola Isola del Tronchetto.[13]
Occorre ricordare che per qualche decennio, in questo dopoguerra, le componenti più consapevoli e mature della cultura nazionale e le forze politiche della sinistra si erano battute per evitare che l'ambito veneziano della Marittima, di Piazzale Roma e del Tronchetto divenisse un unico, grande, insensato, devastante "centro direzionale", che avrebbe esaltato lo squilibrio complessivo della città lagunare, accentuando le sue gravitazioni verso la "testa di ponte", e condannando all'impoverimento funzionale i suoi quartieri ad essa meno prossimi, e che avrebbe aggravato il peso dei mezzi di trasporto su gomma nel sistema della mobilità a servizio della stessa città lagunare, determinando addirittura più consistenti penetrazioni di tali mezzi nel suo stesso contesto. E che le stesse componenti e forze si erano battute per ottenere che l'Isola Nuova del Tronchetto, sorta dalle acque, per iniziativa privata (e privata è tuttora la più gran parte dell'isola), negli anni '50, in un contesto di torbide manovre, fosse almeno destinata a funzioni di generale interesse della città di Venezia e dei suoi abitanti.
Finalmente, il "piano comprensoriale" veneziano, adottato all'inizio del 1980 ma mai entrato in vigore, aveva assegnato, come già si è ricordato, all'Isola del Tronchetto innanzitutto funzioni di "interscambio urbano di merci", e, soltanto in via residuale, di ricovero delle auto degli abitanti della città storica.
Un bel po' di anni appresso, la variante generale per Venezia insulare adottata nel 1992 aveva prescritto la formazione di un nuovo piano particolareggiato per l'Isola del Tronchetto, aveva ridotto drasticamente la volumetria complessiva prevista nell'isola, aveva precisato che gli spazi destinati alla funzione di "interscambio merci" dovevano essere tali da soddisfare la relativa domanda globale esprimibile dalla città storica, ed aveva ammesso attività di tipo direzionale soltanto negli spazi eventualmente residui, purché tali attività avessero raggio d'influenza almeno regionale e non fossero insediabili in unità edilizie esistenti nel tessuto urbano storico.
Irridentemente dichiarando di volere sostanzialmente accogliere una osservazione (presentata da Stefano Boato, Pierluigi Cervellati, ed altri) che chiedeva di escludere a priori ogni attività di tipo direzionale, nonché commerciale e legata alle funzioni turistiche, il nuovo assessore all'urbanistica, arch. Roberto D'Agostino, aveva proposto di modificare le scelte adottate in senso diametralmente opposto a quello auspicato, e cioè di assegnare alle volumetrie ancora edificabili nell'isola in via principale la generica destinazione di "strutture di servizio alla città", e, soltanto secondariamente, una volta quantificata la relativa domanda, la funzione di "interscambio merci".
Quanto correttamente poi si intendesse procedere alla quantificazione della domanda per funzioni di "interscambio merci" era stato fatto intravedere da uno studio, del quale erano anticipatamente divulgate le conclusioni, in base al quale gli spazi necessari sarebbero risultati di risibile entità, per l'ottima ragione che erano state valutate non le esigenze di mercati all'ingrosso, depositi, magazzini, e simili, di tutti gli operatori economici insediati e insediabili nella città storica, ma soltanto quelle di movimentazione delle merci di una parte dei trasportatori in conto terzi presentemente operanti.
L'impegno, solennemente assunto con i cittadini nel programma per realizzare il quale il sindaco Cacciari era stato eletto, di "realizzare al Tronchetto solo l'interscambio merci e i servizi per la mobilità non turistica", era stato perentoriamente rammentato alla giunta non soltanto da qualche voce isolata, ma anche da componenti della maggioranza consiliare (i Verdi, Rifondazione comunista, esponenti del PDS). Nel competente consiglio di quartiere una proposta di parere favorevole non era riuscita ad ottenere un solo voto positivo.
Alla fine, la proposta di deliberazione era scomparsa dall'ordine del giorno del consiglio comunale.
Sembra però che si vogliano ora ottenere gli stessi risultati per altra via. Alcuni accenni testuali del recentemente divulgato "progetto preliminare al piano regolatore generale" già avevano indotto, infatti, a ritenere che l'Isola Nuova del Tronchetto dovesse costituire, assieme agli scali di Santa Marta e San Basilio all'area ex Italgas, a Santa Maria Maggiore, al Tabacchificio, il nucleo essenziale di quel "centro della città bipolare" la cui creazione costituisce la (sola) "idea forza" del predetto documento.
Si veda la perentorietà con cui si asserisce [14]
Intervengo sul progetto Fori. Dico sempre le stesse cose. Almeno da questo punto di vista, non ci sono dubbi che sono un allievo esemplare di Antonio Cederna. Il quale – come sanno tutti coloro che lo hanno frequentato – continuava a ripetere che non solo non bisogna vergognarsi di ripetere gli argomenti di cui si è convinti, ma anzi si ha l’obbligo morale di farlo, fino a convincere tutti della loro bontà.
Solo due parole per ricordare ai più giovani – stasera non sono pochi – che cos’è il progetto Fori. All’inizio degli anni Trenta Benito Mussolini, per consentire che da Piazza Venezia si vedesse il Colosseo, e per formare uno scenario grandiosamente falsificato per la sfilata delle truppe (cerimonia che l’Italia repubblicana ha impunemente ripreso), aveva fatto radere al suolo gli antichi quartieri, le chiese e i monumenti costruiti sopra i Fori e spianare un’intera collina, la Velia, uno dei colli di Roma, che si trovava dove oggi la via dei Fori corre in trincea (e dove sono esposte le mappe in marmo delle fasi di espansione dell’impero romano). A seguito dello sventramento, migliaia di sventurati cittadini furono deportati in lontanissime borgate, dando inizio alla tragedia della periferia di Roma.
Cinquant’anni dopo, alla fine degli anni Settanta, il soprintendente archeologico Adriano La Regina, per sottrarre le rovine romane ai danni dell’inquinamento e del traffico, propose di eliminare la via dei Fori Imperiali, ripristinando la continuità del tessuto archeologico sottostante, suturando la lacerazione prodotta dallo sventramento degli anni Trenta. La proposta del soprintendente fu fatta propria da Luigi Petroselli, che per solo due anni (dal 1979 al 1981) fu insuperato sindaco di Roma. Egli mise mano fattivamente all’attuazione del progetto ordinando la demolizione della via del Foro Romano (che da un secolo divideva il Campidoglio dal Foro repubblicano), unendo poi il Colosseo (sottratto all’indecorosa funzione di spartitraffico) all’Arco di Costantino e al tempio di Venere e Roma. Si realizzò così la continuità dell’area archeologica liberamente percorribile, dal Colosseo al Campidoglio. Il progetto Fori divenne il capitolo più importante della strategia politica di Petroselli per l’unificazione sociale e culturale della città. Il sindaco voleva che non solo gli studiosi, ma tutto il popolo di Roma, anche quello delle più remote periferie, fosse coinvolto nel rispetto e nell’amore per il patrimonio storico della capitale.
Terzo grande protagonista del progetto Fori fu Antonio Cederna. Non fu solo il geniale propagandista dell’operazione, ma contribuì alla sua definizione da vero e proprio urbanista (qualità riconosciuta da più di un autore del libro curato da Maria Pia Guermandi e Valeria Cicala). Secondo Cederna, il progetto Fori doveva diventare il vertice intra moenia del grande parco dell’Appia Antica, dal Campidoglio ai Castelli Romani. Ma anche l’asse intorno al quale costruire una nuova immagine della città, attraverso l’allontanamento dal centro storico dei ministeri (da trasferire nel cosiddetto Sdo – Sistema direzionale orientale), proponendo, tra l’altro, un radicale potenziamento del trasporto su ferro. Il futuro di Roma disegnato da Cederna è oggetto della sua proposta di legge per Roma capitale. La relazione che illustra la proposta è una delle più belle pagine dell’urbanistica contemporanea e dovrebbe essere materia di insegnamento accademico.
All’inizio degli anni Ottanta, il progetto Fori raccolse in tutto il mondo vasti e qualificati consensi. Ma favorevoli furono soprattutto i cittadini di Roma, che parteciparono in massa alla chiusura domenicale della via dei Fori e alle visite guidate ai monumenti archeologici. Fu forse il momento più alto per l’urbanistica romana contemporanea. Ma durò poco. Il 7 ottobre del 1981 morì improvvisamente Luigi Petroselli. Antonio Cederna scrisse su Rinascita dello scandalo Petroselli, lo scandalo di un sindaca comunista che aveva capito l’importanza della storia nel futuro di Roma e non voleva lasciare a nostalgici e reazionari il tema della romanità.
Con la morte di Petroselli cominciò a morire anche il progetto Fori, gradualmente accantonato, messo in crisi da successive manifestazioni di prudenza, di opportunismo, di viltà. In verità, per venti anni del progetto Fori si è continuato a parlare – e ancora se ne parla – sono andati avanti, stentatamente, gli scavi ai lati della via ed è stata ripetuta l’esperienza delle domeniche pedonali, continuamente rinviando però la promessa chiusura definitiva della strada alle automobili (l’ultimo alibi dovrebbe cadere con la realizzazione della linea C della metropolitana).
Ma nel 2001, a venti anni dalla morte di Petroselli, è stata posta la pietra tombale sul progetto Fori con un decreto di vincolo monumentale che congela lo stato di fatto e rende addirittura illegale il disseppellimento degli invasi dei Fori di Cesare, Augusto, Vespasiano, Nerva e Traiano. E così, l’idea di Antonio Cederna, come ha scritto Francesco Erbani presentando la nuova edizione di I vandali in casa, “è sparita dall’orizzonte della città”. L’immagine ufficiale di Roma moderna resta quella definita negli anni Trenta, quella di Benito Mussolini. Sta scritto in un decreto della Repubblica italiana. È una tristissima operazione di revisionismo, di ammiccamento alla destra neofascista, che non ha suscitato proteste né indignazioni, che io sappia, a eccezione di Leonardo Benevolo.
Ed eccomi a un’indispensabile riflessione conclusiva. È ovviamente fuori discussione che si possa cambiare idea e che l’amministrazione capitolina e quella dei Beni culturali (anche se governate dal centro sinistra) possano confermare l’impianto urbano degli anni Trenta, quello voluto da Benito Mussolini. Nessuno può pretendere il rispetto di un progetto alternativo (quello di Adriano La Regina, Luigi Petroselli, Antonio Cederna, Italo Insolera) se non è più condiviso. Non di questo si discute. Ma non si può non discutere del modo in cui è avvenuto il ribaltamento del fronte, senza aver mai formalmente dichiarato che il progetto Fori era stato archiviato. Si continua invece a evocarlo abusivamente, e ad abbinarlo al nome di Antonio Cederna. Solo che, con la medesima denominazione, si indicano oggi soluzioni ben diverse da quella che sosteneva Cederna. Il quale, della via dei Fori voleva cancellare la memoria (“operazione antistorica, antiurbanistica, antisociale, antiarcheologica per eccellenza”).
Per non cedere alla costernazione, ricordo infine che, nel dicembre 2006, è stata insediata un’autorevolissima commissione mista Stato – SPQR incaricata di procedere a “un ridisegno urbano” dell’area archeologica centrale “che si configuri come una nuova ricerca progettuale”. Dum spiro spero.
L'intervento, nel quale l’attuale Presidente di Italia Nostra rivendica, con grande determinazione e lucida analisi, la necessità di proseguire la battaglia contro le distorsioni “storicistiche “ di ieri e di oggi, è stato tenuto in occasione del convegno: “Politiche culturali e tutela: dieci anni dopo Antonio Cederna”. Sull'iniziativa, che si è svolta a Roma, nella sede del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme, il 6 giugno 2007, occasione di ricordo di Antonio Cederna, ma anche di discussione sugli attuali problemi della difesa del patrimonio culturale e paesaggistico e sulla situazione dell'urbanistica italiana ed in particolare romana, v. su eddyburg (m.p.g.)
E’ certamente presente alla intelligenza di chi ha progettato e curato questo originalissimo libro la consapevolezza che anche la più appassionata e insieme lucida commemorazione può nascondere qualche insidia. Nel momento in cui si rivendica la persistente attualità e fecondità del patrimonio ideale che resta documentato nella pagina scritta (oggi riletta con i più raffinati strumenti di analisi testuale) può accadere di non resistere alla tentazione di storicizzare anche talune delle fondamentali proposizioni della riflessione di Cederna. E farle figlie della suggestione di quei tempi duri (ci si misurava allora con la folle proposta di sventramento nel cuore di Roma per un rettifilo da via Margutta a piazza Augusto Imperatore). Se dunque la fermezza e il rigore di certi principi erano imposti dalla necessità di fermare la violenza distruttiva minacciata negli anni cinquanta del novecento alla integrità delle nostre città storiche, anche il diktat della Carta di Gubbio (figlia diretta della riflessione di Cederna) con la sua assolutezza non sarebbe più lo strumento adeguato ad affrontare le forme nuove che l’aggressione alla città e al territorio storici è venuta assumendo nei dieci lustri da quel tempo. Insomma storicizzare Cederna per liberarlo dalle occasioni di allora, meglio comprenderlo e renderlo perciò maestro anche dell’oggi. E anzi c’è chi si è sforzato di cogliere nello sviluppo della sua stessa riflessione i segni di un progressivo adeguamento al nuovo. (Anche il sindaco Veltroni ha storicizzato Cederna e in una recente manifestazione commemorativa in Campidoglio ha detto compatibile con la sua memoria lo sventramento del Pincio per farne il sottile involucro di una autorimessa multipiano).
Ma se è certamente vero che il prontuario dettato dalla Carta di Gubbio è di per sé insufficiente ad assicurare una efficace tutela di quella realtà composita e assai complessa che era, è ancora, vogliamo che sia, il centro storico, perché, si dice, anche del risanamento conservativo si è impossessata la speculazione edilizia e alla preservazione del tessuto edile fisico può non corrispondere quella altrettanto e forse più decisiva del tessuto sociale, è all’urbanistica allora e alla politica della città che spetta di apprestare i più adeguati strumenti di intervento perché i principi cui la Carta si ispira non ne risultino travolti. La fermezza di quei principi Cederna non vide ragione di attenuare e anzi li riaffermò con la consueta acribia in uno dei suoi ultimissimi scritti, quello letto a Napoli nel dicembre del 1995 al convegno di Italia Nostra sui centri storici. Volle riprendere alla lettera il pronunciamento di una ventina di giovani (allora, 1957) architetti pubblicato nel primo numero del bollettino di Italia Nostra. Il pronunciamento era stato provocato da una proposizione di Roberto Pane ancora fondata su una attitudine selettiva dei tessuti antichi e su una concezione tutta esteriore dei centri storici, la cui tutela poteva essere affidata alla mera conservazione del rapporto volumetrico, con divieto di superare, in caso di ricostruzione, cubature e altezze degli edifici preesistenti. Il pronunciamento dunque “enunciava alcune inoppugnabili verità:
I. L’epoca attuale per la prima volta nella storia ci pone in grado di accostarci con eguale capacità di comprensione alle opere e agli ambienti di tutte le epoche passate: e questo ha fatto sorgere l’esigenza tutta moderna della loro conservazione integrale.
II. Di qui l’obbligo tassativo della rinuncia a introdurre nuovi edifici nei centri storici, limitando gli interventi al risanamento conservativo, al restauro, alla dotazione dei servizi essenziali.
III. Non è questione di progetti più o meno belli: uno dei presupposti della modernità è quello di sapersi adeguare alle scelte urbanistiche e quindi di rinunciare, ove occorra, a costruire.
IV. Il vero problema non è architettonico, ma urbanistico: il piano regolatore deve assicurare ai centri storici destinazioni compatibili con il loro tessuto antico, sistemando altrove le strutture moderne che hanno esigenze. scala e funzioni del tutto diverse”.
E’ una sintetica parafrasi, si riconoscerà, degli articoli che Cederna andava scrivendo sul Mondo dai primi anni cinquanta del novecento e in particolare di quello del febbraio 1954 (che avrei visto con piacere scelto da uno degli autori di questo nostro libro) dove indicava le ragioni di cultura della tutela che si opponevano alla operazione Wright in Canal Grande (la “laguna organica” ironizzava in un occhiello sul titolo) e che valgono, tali e quali ancor oggi, per resistere alla forza intimidatrice delle archistars internazionali.
Questi sono i principi, disse, che “considero indiscutibili, immutabili, perenni da qui all’eternità. Da riaffermare con forza, da diffondere, da acquisire in questo paese in cui nulla è dato per acquisito e dove anche le cose ovvie che dovrebbero essere patrimonio comune vengono rimesse in discussione. E da riaffermare con forza oggi che tante cose vanno cambiando nelle nostre città e nuove minacce si addensano sui centri storici”. Forse è dir troppo, francamente, “immutabili indiscutibili perenni” e converrà – fuor dalla consueta iperbole cederniana- relativizzare l’affermazione; ma certo diremo principi fermissimi fino a persuasivi argomenti che abbiano dignità concettuale e l’efficacia di contrastarli e ancora non abbiamo udito, perché continuano a venir opposti, e pure da chi altrimenti benemerita della cultura, quelli vecchi di allora, dell’antistorico storicismo per intenderci, come li irrideva Cederna, e cioè che non si può fermare la storia, che sempre si è fatto così, che il linguaggio autentico dell’architettura di oggi deve potersi esprimere pure nei contesti antichi e dunque è solo questione di controllo della qualità, garantita, se il caso lo richiede, da autorevoli giurie internazionali. In ogni caso sono lì pronti a intervenire pure una apposita direzione generale e un comitato tecnico scientifico per la qualità architettonica e urbana e per l’arte contemporanea, costituiti, forse proprio a questo scopo, presso il ministero per i beni e le attività culturali. E appunto un concorso internazionale, promosso e gestito dalle stesse istituzioni della tutela, ha prescelto Arata Isozaki per la inutile pensilina a proteggere l’uscita dagli Uffizi (moderna loggia dei Lanzi, secondo l’assicurazione del progettista) voluta per arricchire il disadorno posteriore prospetto sulla piazza Castellani della fabbrica del Vasari. Insomma all’antistoricostoricismo si è adeguata l’amministrazione della tutela, approvando pure lo scatolone dell’Ara Pacis che completa il quadrilatero littorio della piazza Augusto Imperatore e schiaccia le chiese di San Rocco (facciata del Valadier) e di San Girolamo degli Illirici (facciata tardocinquecentesca rinfrescata dai getti della fontana sul sagrato). E approvando la nuova Scala Botta-Piermarini con la vertiginosa moltiplicazione dei volumi, che neppure rispetta non solo il piano regolatore milanese (capovolto il principio cederniano della subordinazione dell’architettura all’urbanistica), ma pure la regola aurea che Pane aveva suggerito per l’architettura minore.
A contrastare la cultura ufficiale e ormai pervasiva dell’antistorico storicismo ci manca la lucida contestazione di Cederna che aveva, con ragioni rimaste inconfutate, negato anche al sommo Wright il diritto sul Canalgrande. E si era rifiutato di discutere il suo progetto (certamente di qualità), perché opponeva ragioni di principio e di metodo che neppure la più alta qualità formale dell’architettura può valere a superare. Sono i principi nei quali Cederna aveva espressamente indicato, nel suo intervento di Napoli del 1995, “le radici di Italia Nostra”. Pure con il rischio (accettato) dell’isolamento Italia Nostra rimane fedele a quei principi.
Si è spento domenica Michele Sernini. Ha affrontato la malattia col consueto piglio ironico, con quel tratto personale che gli conferiva a volte un che di altero, di scostante.
Nelle aule dello Iuav di Venezia ci sconcertava col suo comportamento. Quando non reagivamo alle sollecitazioni ci guardava come preso da un'improvvisa malinconia, poi appoggiava la fronte contro il muro o giocherellava col gesso in attesa che qualcuno parlasse.
Sapeva far nascere curiosità, stimolare interessi: dalla sua borsa magica uscivano libri a noi sconosciuti, nelle sue lezioni toccava anche discipline diverse dai saperi del territorio che costituivano il nostro riferimento: sapeva di filosofia, di sociologia, di diritto.
Era giunto all'insegnamento universitario nel 1972, chiamatovi dopo un articolo in cui analizzava criticamente i sociologi urbani francesi. Divenuto professore, fu collaboratore della rivista di studi urbani vicina a il manifesto, Città/classe, che vide riuniti alcuni degli studiosi più brillanti di quella generazione. Non fu mai un accademico. Orgoglioso della propria indipendenza intellettuale, sprezzante di cordate e di lobbies, sempre tagliente nei giudizi, era costretto a giocare per lo più la parte dell'ospite scomodo. Era coraggioso: dopo gli arresti del 7 aprile 1979, inserì nei suoi seminari alcuni libri di Antonio Negri, che stimava come studioso, pur non condividendone le posizioni. La cosa attirò l'attenzione degli inquisitori, e fu sottoposto a un paio di perquisizioni.
Un carattere poco incline ai compromessi e spigoloso non poteva permettergli una carriera lineare: promosso e rimosso si ritrovò ad insegnare a Reggio Calabria, dove rimase fino al pensionamento. Il suo libro più importante, La città disfatta, vide la luce sul finire degli anni '80 ed è uno dei testi fondamentali per capire le trasformazioni urbane dell'epoca. Si tratta di una difesa della città e della dimensione di vita metropolitana nei confronti dei teorici della fine dell'urbano e del trionfo della «città diffusa».
Convinto assertore della centralità dell'urbano, polemizzò tanto con i fautori del liberismo in campo urbano che con il localismo dei primi anni '90. Capì presto che la partita decisiva per le città europee si sarebbe giocata sul terreno delle loro capacità di rinnovarsi e di integrare la presenza di nuovi venuti, di accettare i migranti e di riuscire a garantire un minimo di urbanità per tutti. Negli ultimi anni, preoccupato per la piega che assumeva il clima politico-culturale, era incline al pessimismo, temeva un uso improprio dei suoi lavori; si sarebbe accontentato di lasciare in eredità istanze riformiste anche minime, di cui non gli pareva di vedere traccia. Diffidava delle enunciazioni dogmatiche e nutriva un'avversione per chi pontificava, eppure insegnò molto, con il suo modo colloquiale, sempre attento e disponibile.
Mi sono laureato con lui. Col tempo il rapporto divenne più paritetico, anche se il suo giudizio rimaneva per me importantissimo. Per oltre dieci anni è stato tra i primi lettori e critici dei miei scritti. Se il parere era positivo mi sentivo sollevato: un testo che andava bene per Michele andava bene per il mondo. Non era ipercritico, come alcuni pensavano: era rigoroso. In un mondo accademico dalla produzione scientifica sempre più approssimativa figure come la sua divengono rare. Fino all'ultimo è rimasto uomo di libri: al capezzale del suo letto d'ospedale tra gli altri, gli scritti di Paul Ricoeur sulla morte.
Qui il sobrio sito di Michele Sernini
Si svolgerà domani nella sala Piero da Cortona dei Musei Capitolini, il «Convegno sulla legge per Roma Capitale», organizzato da Italia Nostra in occasione del decennale della scomparsa di Antonio Cederna. Un legge della quale l'ambientalista fu promotore e primo firmatario. L'obiettivo è quello di esaltare «il valore assoluto della tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico di
Roma». Ad aprire i lavori sarà il sindaco Walter Veltroni, fra i relatori il presidente del parco dell'appia Adriano La Regina e l'urbanista Italo Insolera. Pubblichiamo una sintesi del saluto dell'assessore all'urbanistica Roberto Morassut.
La grande preoccupazione di Antonio Cederna era che l'Italia «finisse», ossia fosse consumata dalla speculazione, sino, un giorno, a veder «scomparire» i propri beni culturali e ambientali. Denunciò questo rischio in un articolo del 1983, in cui rammentava anche le cifre di questa lenta dissipazione. In un trentennio, diceva, abbiamo distratto più di un milione di ettari di suolo.
Prevedeva, di conseguenza, che nel giro di uno/due secoli, a quel ritmo, la consumazione sarebbe stata totale o quasi, e un'immensa «crosta edilizia» (così si esprimeva) avrebbe coperto il Bel Paese per sempre. La «lezione» di Antonio Cederna è oggi consegnata anche al nuovo Piano Regolatore di Roma. In particolare, dove si frena l'espansione indiscriminata e il consumo senza regole del suolo dell'agro. E, soprattutto, dove si avvia con decisione la riqualificazione della città storica e, parallelamente, del tessuto periferico. Penso alla riqualificazione e al moderno recupero di grandi complessi edilizi storici come i Mercati Generali e il Mattatoio: nuove Città dei giovani, del tempo libero, della cultura. Penso anche alla sottoscrizione del protocollo che rilancia la struttura del S. Maria della Pietà per assegnarle nuove funzioni: cultura, sanità, servizi, residenze per i giovani che studiano o che viaggiano. Esemplare anche il «caso» di viale Giustiniano Imperatore, dove la «conservazione» (e, dunque, la qualità urbana) passa anche attraverso la demolizione dei vecchi edifici e la loro ricostruzione a più alti livelli di standard architettonico. Riguardo agli aspetti legati alla sostenibilità ambientale, oggi Roma dispone di un'open area ineguagliata, grande cinque volte Milano: 88.000 ettari, la metà di essa costituita da parchi. I fondi per Roma Capitale, da parte loro, hanno contribuito a curvare lo sviluppo della città, orientandolo alla «conservazione», come direbbe Cederna, (noi diremmo anche: alla salvaguardia e allo sviluppo) dei beni culturali e del tesoro che essi rappresentano, e non alla loro consumazione o «mercificazione». Cito esemplarmente il progetto per la realizzazione del parco archeologico di Gabi, sulla via Prenestina, nella periferia sud-est. Anche la rete museale di Roma si è potenziata e si sono moltiplicate le occasioni di cultura e di alta formazione. È di questi giorni la notizia che, negli immediati dintorni del colle capitolino, sorgerà un nuovo polo museale di oltre 61.000 metri quadrati, all'interno degli edifici pubblici liberati dagli uffici, che si trasferiranno nell'area di Ostiense nell'ambito di «Campidoglio 2». In uno scritto su «Micromega» del 1990, Cederna spiegava quale fosse, a suo avviso, il compito degli amministratori e degli urbanisti: mettere fine alla crescita quantitativa e puntare sulla riqualificazione - trasformazione della città, sul recupero-risanamento dei centri storici, sulla ristrutturazione delle periferie e sulla rigorosa salvaguardia del territorio non ancor urbanizzato. Una lezione che Antonio Cederna, intellettuale che ha dedicato la propria vita a migliorare la vita degli altri, ci consegna e della quale continuare a fare tesoro nel governo delle nostre città.
L'autore è Assessore all'Urbanistica del Comune di Roma
Il testo dell'assessore Morassut ci sembra esemplare di quel fenomeno di “appropriazione indebita” del pensiero di Antonio Cederna che, soprattutto in questo anno di commemorazioni, si è riaffacciato spesso a garantire con una patente di credibilità culturale progetti e metodi urbanistici di tutt'altra radice e sostanza. Su eddyburg sono stati segnalati altri casi analoghi, e basta ripercorrere gli scritti di Cederna, nella sezione a lui dedicata, confrontandoli con gli assunti degli odierni epigoni perchè la distanza che li separa, risulti palese.
Quanto all'articolo sopra riportato, senza entrare nel dettaglio dei contenuti urbanistici e della loro affettuosa distorsione (chi ne scrive è uno dei principali responsabili, al quale quindi va concessa, comunque, la scusante dell'“ogni scarraffone..."), ci limitiamo a segnalarne le aporie logiche (conservazione attraverso la demolizione!) e le approssimazioni linguistiche (“open” area, consumazione) - indubitabili sintomi di aporie e approssimazioni culturali - sulle quali Cederna non avrebbe mancato di esercitare la sua ironia.
Lo scritto era destinato a chiudere il convegno capitolino dedicato al progetto di legge per Roma Capitale elaborato da Cederna e da un gruppo di urbanisti e intellettuali e da lui presentato nel 1989, durante la sua attività di parlamentare: non una sola riga rimanda a quel progetto e non poteva essere altrimenti; nell'odierno Piano Regolatore di Roma esso è scomparso e insieme a lui la visione di Cederna del centro storico della capitale.(m.p.g.)
Ha lavorato nelle aule dei consigli comunali e provinciali, negli uffici legislativi delle regioni e del Parlamento, nelle stanze dove gli urbanisti dei comuni, delle province e delle regioni tentano di adoperare gli strumenti della pianificazione per garantire, alle generazioni presenti e a quelle future, un governo pubblico democratico del territorio.
Come ha ricordato Massimo Cacciari nella seduta del consiglio comunale di Venezia una virtù rara che in Gigi splendeva in modo eccezionale era il disinteresse. Il giorno in cui è scomparso avevamo inserito come “pensiero del giorno” una frase di Montesquieu che esprime pienamente questa qualità. “La virtù politica è una rinuncia a se stessi, ciò che è sempre molto faticoso da sopportare. Questa virtù consiste nella preferenza continua dell'interesse pubblico agli interessi propri.”
I giornali, nel ricordarlo, hanno accennato ai piani comunali, provinciali e regionali ai quali ha collaborato, alle iniziative legislative di cui è stato promotore o intelligente estensore, e le numerose battaglie per la difesa del territorio che ha promosso o appoggiato in ogni parte d’Italia. I due versanti tra loro strettamente connessi sui quali si concentrava tutta la sua attenzione sono stati: la tutela accorta di tutte le qualità del territorio, considerato come un insieme di beni destinati a soddisfare le esigenze della società di oggi e di quella di domani; il liberalismo che deve inverarsi nella forma democratica di organizzazione istituzionale e nella garanzia per tutti di un adeguato status sociale ed economico.
Non ha sbagliato chi ha detto che Gigi Scano è stato colui che ha raccolto nel modo più coerente e pieno l’eredità di Antonio Cederna. Di Tonino era, del resto, collaboratore nel lavoro legislativo e guida nei misteri di Venezia e della sua Laguna, oltre che interlocutore in una disciplina, l’urbanistica, alla quale entrambi pervenivano da percorsi diversi e che entrambi ritenevano essenziale per il futuro del nostro paese.
Ho conosciuto Gigi trent’anni fa, quando cominciammo a lavorare per il Comprensorio della legge speciale di Venezia. Insieme a lui conobbi i principali esponenti della vita politica e culturale di allora a Venezia, alcuni ancora protagonisti, come il sindaco Massimo Cacciari, che ringrazio, se posso permettermi, a nome di Gigi, per le parole generose e appropriate con le quali lo ha ricordato.
Insieme ad Antonio Cederna, Michele Martuscelli e ad altri non veneziani, trent’anni fa scoprii che nessuno conosceva Venezia come Luigi Scano, dalla storia all’idraulica, dall’arte all’economia
Sono stati ricordati in queste ore i suoi meriti, le sue virtù, la sua prepotente passione politica, la grande cultura, la tenacia, la competenza, l’amore per il bello e per il diritto, per Venezia, e soprattutto l’essere assolutamente privo di interessi personali e materiali. Viveva occupandosi di urbanistica, dotato di un’attitudine insuperata in materia, che ne faceva una risorsa alla quale molti attingevano, a partire da Gianni Pellicani, a tanti parlamentari, giornalisti, studiosi. Da qui, anche il suo ruolo di pilastro del sito eddyburg per gli aspetti legati al diritto e a Venezia. E poi va ricordata la collaborazione alle associazioni culturali, ai movimenti, a Italia nostra, al No Mose, al comitato di Fiesole, dovunque apprezzato, amato, insostituibile, generoso, pronto all’indignazione, disposto a ogni rinuncia, sacrificando all’interesse pubblico le proprie più elementari necessità. È morto povero.
Per trenta anni, dopo l’esperienza del Comprensorio, un piano sgradito al potere di allora e finito in un cassetto, abbiamo sempre lavorato insieme. Nel 1988 è opera sua un’eccellente proposta di riforma urbanistica curata per incarico dell’inetto governo del tempo, che archiviò tutto. Ha collaborato attivamente al piano paesistico dell’Emilia Romagna, ai piani regolatori di Venezia, Napoli, Pisa, Positano, Eboli, Carpi, Duino Aurisina, Imola, Sesto Fiorentino, e Lastra a Signa, di cui era particolarmente fiero, e ai piani provinciali di Lucca, Pisa, La Spezia, Foggia. Gigi è sempre stato un riferimento prezioso, un urbanista completo, una sicurezza. I suoi amici e chi ha collaborato con lui non osano pensare a come sarà il futuro senza di lui.
Non ha avuto il tempo di dare sistemazione al suo sapere. E neppure al suo preziosissimo archivio di documenti sull’urbanistica veneziana. Lascia pochi libri, rispetto a tanti che poteva scrivere. Ma Venezia terra e acqua è il più bel testo su Venezia che io conosco. Purtroppo introvabile, spero che possa essere ristampato.
Gigi, la terra ti sia lieve.
La virtù politica è una rinuncia a se stessi, ciò che è sempre molto faticoso da sopportare. Questa virtù consiste nella preferenza continua dell'interesse pubblico agli interessi propri
la Nuova Venezia
«Scano, una vita per la polis»
«Gigi Scano, una vita per la politica intesa nel suo significato più puro, dedicata disinteressatamente alla polis come servizio laico alla comunità civile». Così, non senza commozione, l’ex sindaco Antonio Casellati ricorda l’amico e compagno di tante battaglie scomparso domenica sera nella sua casa di Cannaregio. Aveva 61 anni, Scano, ed era una delle figure più autorevoli dell’urbanistica italiana. «I suoi interessi ideali», dice Casellati, «furono incentrati soprattutto sulla tutela e sul rispetto della città». Scano contribuì alla scrittura della prima Legge Speciale. Rendendo obbligatorio l’uso del gas metano, meno inquinante della nafta. Scano consigliere comunale e assessore all’Ecologia alla fine degli anni Settanta. Fondatore dei repubblicani veneziani, che con Visentini, Casellati, Zitelli e Ugo La Malfa furono protagonisti di tante battaglie per Venezia. Scano che a un certo punto se ne va dalla città, e comincia a collaborare con grandi urbanisti come Vezio De Lucia. La sera prima di essere colto da infarto, Luigi Scano era stato a cena proprio con l’ex sindaco. «Insieme a lui», ricorda commosso Casellati, «avevamo portato l’ultimo saluto a Gianni Pellicani. Che forse ha lasciato maggior orma di sè. E un simile rimpianto di elevatezza intellettuale e limpida onestà».
Numerose ieri le testimonianze di affetto. «Esprimo il mio dolore per la scomparsa di Gigi Scano», ha detto ieri il sindaco Massimo Cacciari, «sicuro di interpretare i sentimenti di tutta la città. Venezia perde uno dei protagonisti fondamentali della lunga battaglia per la sua difesa e il suo sviluppo». Un grande convegno sulla figura di Scano sarà presto organizzato dal Comune, insieme a Benevolo, Cervellati, Salzano e Vezio De Lucia. E l’amministrazione si è impegnata a recuperare lo sterminato archivio di Gigi. Una parte preziosa della storia recente di Venezia. «Dopo i decenni di manomissione e sconvolgimento della laguna a opera del partito del fare», lo ricorda il verde Gianfranco Bettin, «Scano aveva agito in favore di una Venezia restituita a se stessa. Non sempre le istituzioni ne hanno valorizzato le qualità. Speriamo ci serva di lezione per il futuro».
«Alla fine del suo viaggio attraverso l’acqua e la terra dell’urbanistica veneziana, Scano lascia un segno importante alle associazioni che continueranno a battersi per un modello delle attività umane compatibili con le persone e l’ambiente», è l’epitaffio di Luciano Mazzolin a nome delle associazioni e dei comitati No Mose.
(Alberto Vitucci)
Corriere del Veneto
« Una fondazione per ricordare l'urbanista Gigi Scano »
VENEZIA — « La virtù politica è una rinuncia a se stessi, ciò che è sempre molto faticoso da sopportare. Questa virtù consiste nella preferenza continua dell'interesse pubblico agli interessi propri » . Le parole sono di Montesquieu e a pronunciarle è l'urbanista Edoardo Salzano che ricorda così l'amico Luigi Scano scomparso domenica sera all'età di sessant'anni nella sua abitazione di Cannaregio a causa di un infarto. In molti ieri hanno voluto omaggiarlo, dal sindaco Massimo Cacciari, a Gianfranco Bettin, Andreina Zitelli, Michele Mognato, e tutti quegli ambientalisti che sin dagli anni Settanta hanno condiviso con Scano la stessa passione per la salvaguardia di Venezia.
« Abbiamo trascorso la giovinezza insieme — dice Andreina Zitelli, docente Iuav — ricordo grandi e lunghissime discussioni con lui sin dai tempi del partito repubblicano. facevamo parte della sezione di San Samuele ed eravamo una fucina ambientalista ante litteram. Molti gli episodi che in questo momento si affollano nella mia memoria. A Bressanone, giovanissimi entrambi, stilammo i limiti di accettabilità degli scarichi, era la prima normativa nazionale a tutela delle acque, prima della legge Merli » .
Ricordi e una punta polemica: « La città di Venezia alla quale era profondamente legato — aggiunge Zitelli — non lo ha mai riconosciuto pubblicamente come invece avrebbe meritato. Speriamo che questo riconoscimento arrivi postumo » . Cacciari dichiara che con la scomparsa di Scano « Venezia perde uno dei protagonisti fondamentali della lunga battaglia per la sua difesa e per il suo sviluppo. L'Amministrazione comunale organizzerà al più presto un convegno sulla figura di questo grande urbanista, insieme a tutti coloro che hanno con lui lavorato negli ultimi decenni » . Un convegno ma non solo.
Edoardo Salzano va oltre: « Propongo che venga creata una fondazione a suo nome. Gigi aveva una gigantesca documentazione urbanistica di Venezia che non può andare persa, dagli atti dei vari Consigli a piante e ritagli di giornale. Potrebbe trovare posto allo Iuav » . Tra i numerosi ricordi della sua attività per la salvaguardia anche quello di Gianfranco Bettin: « Dopo i decenni delle manomissioni e dello sconvolgimento della laguna aveva agito ed elaborato in favore di una Venezia restituita a se stessa. Non sempre la politica e le istituzioni hanno saputo valorizzarne le qualità. Speriamo sia possibile, almeno ora e in futuro, capirne pienamente la lezione e utilizzarla fecondamente » .
Ma. Co.
Lutto in città per la improvvisa scomparsa di Gigi Scano, uno dei più grandi urbanisti veneziani, già consigliere comunale per i repubblicani di Bruno Visentini.
Luigi Scano è morto a casa sua, in Rio Terà, colto da un infarto, il secondo dopo quello che aveva sofferto, e superato, quattro anni fa. Viveva da solo ed è stato ritrovato dai Vigili del Fuoco - ieri sera intorno alle ore 20 -, ormai privo di vita, riverso sul lavandino col rubinetto aperto, nel bagno di casa sua.
Ad avvertire i Vigili del Fuoco sono stati i vicini di Luigi Scano, allarmati dall’acqua che vedevano uscire senza sosta da sotto la porta della sua abitazione.
Luigi Scano aveva sessant’anni e nonostante il suo lavoro di urbanista lo portasse spesso in giro per l’Italia e all’estero, tornava sempre nella sua Venezia.
L’amore per la città e la sua professione, lo hanno portato ad essere uno dei protagonisti della vita politica e dei grandi piani di trasformazione urbanistica di Venezia e della Terraferma.
E’ stato uno degli artefici del Piano regolatore generale del centro storico e ha dato un importante apporto alla stesura delle Legge Speciale per Venezia.
Alla fine degli anni Settanta, ha lavorato anche alla pianificazione territoriale per «comprensori», anticipazione di quello che sarebbe poi diventata la città metropolitana.
E’ stato consigliere comunale (per il Partito repubblicano di Visentini) durante la giunta rossoverde di Casellati e convinto promotore del Comitato del No al primo referendum per la separazione di Mestre e Venezia.
Dopo la morte di Bruno Visentini ha continuato a militare nel Pri, ma ne è poi uscito quando, Giorgio La Malfa, ha deciso di schierarsi con il centrodestra di Berlusoni.
Ultimamente si era avvicinato ai Democratici di sinistra veneziani.
La sua lunga esperienza di urbanista in una città complessa e fragile come Venezia, lo ha portato a schierarsi decisamente contro le grandi opere: a cominciare dal Mose fino alla Sublagunare.
L’estate scorsa, durante una mobilitazione contro il Mose, Luigi Scano aveva pubblicamente ricordato che il decreto legge 62 del gennaio 1994 (tuttora vigente) prevede la costituzione di una società pubblica partecipata da Stato, Regione ed enti locali con lo scopo di studiare, progettare e controllare le opere di salvaguardia in laguna, sottraendole così al monopolio progettazione-esecuzione del Consorzio Venezia Nuova. «Sono passati dodici anni dalla firma di questo decreto - diceva - ma il Consorzio agisce ancora indisturbato, progetta e realizza, con continue forzature interpretative».
Senza Licinio Ferretti, senza la sua capacità di applicare l’intelligenza imprenditoriale all’amore per la conoscenza del territorio, senza la generosità e la costanza del suo impegno nell’utilizzare tutte le risorse della tecnologia e dell’impresa nella documentazione geografica del territorio, né noi né i nostri posteri conoscerebbero, con la precisione delle più evolute tecniche volta per volta disponibili, le configurazioni assunte dal suolo dell’Italia negli ultimi cinquant’anni. Questa è una prima ragione per cui è necessario essere grati a Licinio Ferretti.
La pianificazione territoriale e urbana e, più in generale, il governo del territorio hanno sempre avuto la necessità di poggiare le scelte su un sistema di conoscenze puntualmente riferite alla realtà fisica del suolo.
Lo aveva compreso la veneziana Repubblica Serenissima quando, nel 1460, disponeva che si provvedesse “perché nella nostra Cancelleria e nella sede del nostro Consiglio di Dieci vi sia, veridicamente disegnata, l'immagine di tutte le nostre città, terre, castelli, provincie e luoghi, talché chiunque voglia decidere e provvedere in merito ad essi ne abbia davanti agli occhi reale e precisa cognizione, e non debba affidarsi all'opinione di chicchessia”.
Lo ha compreso l’urbanistica moderna, da Patrick Geddes a Giovanni Astengo, quando ha posto l’analisi territoriale quale base necessaria della pianificazione urbanistica.
Lo hanno compreso, in Italia, le Regioni, quando nella prima fase della loro attività hanno costituito il Centro Interregionale di Coordinamento e Documentazione per le Informazioni Territoriali, in margine alla prima Conferenza Nazionale di Cartografia del 1979, e quando, più recentemente, hanno posto a cardine dei nuovi sistemi di pianificazione la “descrizione fondativa” del territorio come esplicito fondamento delle scelte di conservazione e di trasformazione.
Se oggi, in Italia, le amministrazioni pubbliche e gli altri soggetti impegnati nel governo del territorio hanno a loro disposizione strumenti di conoscenza adeguati (in molti casi all’avanguardia nel mondo) il merito è in gran parte di Licinio Ferretti, e questa è un’ulteriore ragione per essergli grati.
Licinio Ferretti ricorda quegli imprenditori del XIX secolo per i quali l’attività del capitalista era in primo luogo esplorazione delle strade del progresso scientifico come condizione per una evoluzione tecnologica capace di migliorare la produzione, e l’accumulazione era finalizzata a rendere possibile l’applicazione sempre più larga delle scoperte della scienza e della tecnica ai processi produttivi.
Ed egli può essere accostato a quei pochi, tra gli imprenditori dei secoli trascorsi, per i quali l’efficacia della propria azione non era misurata solo dal mercato, ma anche (e forse in primo luogo) dall’utilità sociale dei prodotti che erano capaci di inventare e di diffondere, dal contributo che essi davano all’accrescimento della conoscenza, della sicurezza e del benessere.
Al di là dei rischi impliciti nell’attività imprenditoriale, Licinio Ferretti ha saputo assumere quelli derivanti dall’incertezza del ritorno economico di talune iniziative che egli sapeva necessarie e (per quanto riguarda le capacità tecniche di cui si era fornito) possibili: come la realizzazione della monumentale impresa costituita dall’ortofotocarta digitale a colori in scala 1:10.000 dell’intero territorio nazionale, nota con la denominazione Programma “IT2000”™. In questa e altre circostanze Licinio Ferretti ha sostituito la sua azione a quella che – in più evoluti assetti politici e istituzionali – sarebbe stata propria dello Stato, esercitando nei confronti di questo una supplenza che solo tardivamente è stata riconosciuta.
Nei rapporti tra pubblico e privato Licinio Ferretti ha saputo testimoniare che il privato, quando la sua azione è alimentata da una tensione per la ricerca di un progresso finalizzato all’utilità sociale, può svolgere un ruolo di stimolo e finanche di guida dell’azione pubblica, invece di considerare questa la mansueta riparatrice e compensatrice dei propri errori e dei propri egoismi. E il cospicuo investimento dei profitti nell’attività di ricerca, orientata a un miglioramento non solo aziendale della qualità della produzione, testimonia della possibilità dell’impresa, anche in Italia, di svolgere un’attività di ricerca volta sia all’applicazione economica che all’evoluzione generale delle tecniche e delle conoscenze.
E’ per merito di Licinio Ferretti e dell’attività di produzione e di ricerca della sua Compagnia Generale Ripreseaeree che l’Italia è all’avanguardia nei campi dell’aereofotogrammetria, della cartografia ortofotografica a colori e del suo sviluppo ai fini della pianificazione e gestione territoriale. Lo testimoniano molte delle iniziative che ha sviluppato.
Con Licinio Ferretti, sembrano rivivere i tempi eroici dei pionieri italiani della fotogrammetria, ingegneri honoris causa Ermenegildo Santoni ed Umberto Nistri, che esponendo nei vari congressi internazionali le loro innovazioni ed apparecchiature fotogrammetriche avanzate, ottenevano allora attenzione e ammirazione dalle diverse assemblee di studiosi e specialisti dello stesso settore disciplinare. Proprio come avviene ancor oggi con la sua produzione fotocartografica innovativa ed accurata!
Ma c’è ancora di più, poiché trascorso il tempo degli sviluppi e dell’affermazione della metodologia fotogrammetrica, il suo attuale impegno imprenditoriale costituisce ormai un tangibile e concreto esempio di come l’innovazione tecnologica e metodologica possa garantire al lavoro italiano una competitività operativa senza confronti, in campo nazionale ed internazionale, suscettibile inoltre di prevenire e soddisfare sempre ogni nuova necessità o domanda del mercato dell’informazione territoriale.
Essenziale è risultato, a questo proposito, il suo contributo alla realizzazione negli anni 1982-85 del fotopiano degli insediamenti storici di Venezia alla scala 1:500, che ha costituito per l’epoca della sua formazione una completa innovazione nella descrizione degli edificati urbani e nell’analisi dei fenomeni di degrado ambientale della Laguna di Venezia, oltre a fornire affidabili elementi per lo studio dell’evoluzione urbanistica del centro storico.
Così come è risultato determinate il suo impegno scientifico ed imprenditoriale per lo sviluppo, in prosieguo di tempo, delle ortofoto digitali a colori del territorio italiano, con la possibilità di viste prospettiche tridimensionali, ottenute dalla combinazione delle stesse ortofoto digitali a colori col modello digitale del terreno (DTM), finalizzate sempre verso la protezione del paesaggio, verso la difesa civile e la salvaguardia ambientale.
Di grande interesse scientifico e sociale è poi risultato anche il suo impegno per la formazione di una regolare copertura aerofotografica del territorio nazionale mediante riprese ad alta quota relativa come: il Volo Italia 1988-89 ed il Volo Italia 1994, realizzati entrambi alla scala 1:75.000 con una risoluzione al suolo di 1 m, ed il Volo “it2000” 1998-99 alla scala 1:40.000, sviluppato nell’ambito del Programma “IT2000” inerente appunto la formazione di ortofoto digitali a colori di tutto il territorio italiano.
Notevole importanza ha avuto anche l’intenso e costante impegno delle Società del Gruppo CGR nel campo informatico e dei controlli agricoli integrati della comunità europea; in questo settore le Società hanno realizzato gli schedari oleicolo e viticolo del territorio nazionale e, successivamente, sviluppato un sistema integrato per la gestione e il controllo delle coltivazioni (seminativi) nell’ambito delle Politiche Agricole Comunitarie, applicando metodologie aerofotogrammetriche ed elaborazioni informatiche digitali. Questo sistema è stato proficuamente applicato con continuità dalla CGR non solo sin Italia per conto dell’AIMA, ma anche in Irlanda, Portogallo, Albania e Grecia per conto della Comunità Europea
Meritevoli di segnalazione risultano infine i suoi più recenti impegni professionali per sviluppare l’impiego di altri sensori tesi al monitoraggio delle Lagune di Orbetello; al rilevamento del fondale del Lago di Garda; al rilevamento e monitoraggio della frana del Corniglio; alla formazione dell’Ortofoto digitale della grande Genova alla scala 1:10.000, realizzata in occasione del G8 2002; all’applicazione del Laser Scanner e alle riprese aeree con Camera metrica digitale a colori associata a GPS, ecc.
Lodevole e benemerita è risultata comunque tutta la sua azione imprenditoriale per rendere sempre più aggiornate, efficienti e competitive le Imprese del Gruppo da lui formato e diretto, grazie anche all’adesione ad un Consorzio scientifico col CNR e l’Università di Parma, nell’intento di migliorare sempre più la qualità dei prodotti fotografici, ortofotografici e cartografici delle sue Imprese e di innovare i processi relativi alla loro formazione, mediante un armonico sviluppo eperfezionamento continuo, secondo gli intendimenti del “sistema qualità” e le specifiche di standardizzazione internazionale ISO TC 211, individuanti il reference model richiesto per l’interscambio dei dati geografici spaziali di interesse generale comune.
La consapevolezza della qualità della sua produzione e la sua volontà di svolgere un servizio a vantaggio della collettività sono infine testimoniati dalla organizzazione e gestione di un Archivio fotografico aereo di interesse scientifico e storico, che complessivamente annovera circa tre milioni di negativi relativi alle riprese eseguite sul territorio nazionale a varie scale e con diversi tipi di emulsione, dall’organizzazione di una esposizione museale di una raccolta personale di strumenti geodetici, topografici, fotogrammetrici e camere metriche dei secoli XIX e XX presso il Palazzo Ducale di Colorno (Parma), nonché dalle numerose pubblicazioni scientifiche.
Un complesso di iniziative dunque, che oltre a promuovere l’imprenditore Licinio Ferretti al ruolo di grande esperto delle scienze geotopocartografiche, proiettato verso le problematiche contingenti dell’informazione territoriale contemporanea, lo segnalano anche come un grande maestro preoccupato di assicurare il trasferimento culturale di cognizioni scientifiche, geografiche e storiche, alle nuove generazioni di tecnici ed esperti della pianificazione territoriale.
La degradazione delle città e del territorio può essere combattuta solo rifondando il piano, ciò che impone un radicale ripensamento nella sinistra. Alcune idee per il risanamento conservativo dei centri storici e per impedire l’ennesimo sacco di Roma
Gli anni Ottanta sono stati i peggiori per le nostre città, per il territorio e l’urbanistica in generale. Sono stati gli anni in cui si è smantellato quel tanto di strumentazione urbanistica che ci aveva dato il periodo della solidarietà nazionale (legge Bucalossi sul regime dei suoli, legge 457 sul piano decennale per la casa, equo canone): gli anni dell’abusivismo condonato, delle leggi per emergenze artificiose (mondiali di calcio) e per cementificare alla cieca le regioni colpite da calamità naturali, terremoti e alluvioni; gli anni della rinuncia a pianificare, della deregulation, dell’urbanistica «contrattata», quella cioè imposta dai privati ai comuni in nome della mappa catastale e della rendita fondiaria. Il caso più clamoroso è stato la variante Fiat-Fondiaria a Firenze, dove i due colossi pretendevano di costruire, a dispetto del piano regolatore, quattro milioni di metri cubi (tre volte la piramide di Cheope) nella piana a nord-ovest della città: operazione fortunatamente fallita per l’intervento della segreteria nazionale del Pci, con grave imbarazzo per la giunta comunale di sinistra che l’aveva approvata. Anni, infine, in cui è continuato il consumo del suolo e, nonostante l’arresto della crescita demografica, lo spreco edilizio, che ha ormai raggiunto dimensioni paradossali. Ci sono in Italia circa 100 milioni di stanze per 57 milioni di abitanti, per una media teorica di quasi 2 stanze per abitante, la più alta d’Europa: uno stock edilizio che si è triplicato nell’ultimo mezzo secolo (nel ‘36 le stanze erano 34 milioni per 42 milioni di abitanti). Solo che si è costruito per lo più l’inutile e il superfluo, seconde e terze case invece della prima per chi ne aveva bisogno: tra i censimenti del 1971 e del 1981 le stanze sono aumentate di 22 milioni mentre gli italiani sono aumentati solo di due (dal 1951 a oggi le seconde e terze case sono aumentate di sette volte, da 655 mila a 4 milioni e 750 mila). E questo, insieme al proliferare di strade e autostrade, zone industriali eccetera, ha contribuito in modo determinante a quell’altro fenomeno rovinoso che è lo spreco di territorio: nell’ultimo trentennio più di tre milioni di ettari (un decimo cioè dell’Italia) sono andati distrutti, da far temere che entro poche generazioni tutta l’Italia sarà consumata e finita, ricoperta da un’ininterrotta crosta di cemento e asfalto.
Perché la degradazione di città e territorio non diventi irreversibile è dunque necessaria, in quest’ultimo decennio del secolo, un’autentica rifondazione della pianificazione: che metta fine alla crescita quantitativa e punti invece sulla riqualificazione-trasformazione delle città, sul ricupero-risanamento dei centri storici, sulla ristrutturazione delle periferie e sulla rigorosa salvaguardia del territorio non ancora urbanizzato (e tutto questo presuppone, da parte della sinistra, un radicale ripensamento delle proprie posizioni).
Anni di esperienze, riflessioni e studi ci hanno insegnato che i centri storici (forse 15 milioni di stanze) sono un patrimonio che va conservato nella sua integrità e nel suo assetto unitario, e che ogni intervento basato su giudizi discrezionali va bandito: “Uno dei presupposti della modernità è appunto quello di sapersi adeguare alle scelte urbanistiche e quindi di rinunciare, ove occorra, a costruire”, questo era scritto in un documento pubblicato sul primo numero del bollettino di Italia Nostra, dell’aprile 1957, a firma di una ventina di architetti (assai giovani allora), tra cui Leonardo Benevolo, Italo Insolera, Vittoria Calzolari, Carlo Melograni eccetera, che poi da illustri studiosi ed urbanisti si sarebbero sempre battuti per le giuste ragioni della pianificazione. L’unico trattamento legittimo per i centri storici è dunque il recupero, il restauro, il risanamento, basato sulla conoscenza scientifica delle antiche compagini edilizie.
Risanamento conservativo significa rigoroso rispetto del tessuto edilizio, mantenimento della residenza e delle attività tradizionali, allontanamento delle funzioni intollerabili. L’esempio nei primi anni Settanta fu Bologna (assessore Pier Luigi Cervellati), che nel 1974 ebbe il diploma del Consiglio d’Europa per il risanamento di alcuni complessi edilizi degradati usando i fondi di solito impiegati per la costruzione di quartieri-ghetto periferici: ma poi la stessa amministrazione rossa, spaventata dal dover attuare i necessari espropri, come racconta Vezio De Lucia nel suo lucido compendio del quarantennale fallimento urbanistico italiano (V. De Lucia, 1989), fece marcia indietro. E da allora quello che era il vero contributo italiano alla cultura urbanistica europea ha segnato il passo, anche se qualche altra operazione è stata poi avviata (centro storico di Taranto, inizio dopo decenni di contrasti del risanamento dei Sassi di Matera). Ma intanto a Napoli sono tornati alla carica gli sventratori di sempre: un progetto redatto dai costruttori prevede infatti di radere al suolo un terzo del centro storico (unico fatto positivo il piano particolareggiato del centro storico di Palermo redatto, per incarico della giunta “anomala” di Palermo, da Leonardo Benevolo, Pier Luigi Cervellati, Italo Insolera).
Risanare i centri storici significa rimuovere le cause della loro inabitabilità, soffocamento e congestione, mettendo fine alla terziarizzazione selvaggia che elimina le residenze e le sostituisce con uffici pubblici e privati. Per questo a Roma (dove gli abitanti del centro storico negli ultimi decenni sono stati ridotti da 420 mila a 130 mila), si impone la realizzazione del Sistema direzionale orientale – il famoso Sdo – quella complessa struttura viaria, edilizia e di servizi nel settore est, dove trasferire alcuni milioni di metri cubi di attività direzionali e terziarie, a cominciare dai ministeri: allo scopo di decongestionare il centro, nel quale ogni giorno entrano, per ragioni di lavoro, più persone di quante ancora ci abitano, e insieme arricchire di attività e quindi riqualificare la derelitta periferia.
Al recupero del centro storico deve accompagnarsi la ristrutturazione delle periferie, la trasformazione qualitativa di tutto quanto è stato edificato dal dopoguerra in poi, e che non ha il minimo interesse storico. L’intervento di ristrutturazione riguarderà quanto è stato edificato negli anni Cinquanta e Sessanta dall’edilizia legale di tipo speculativo col massimo sfruttamento dei suoli; l’edilizia economica e popolare costruita su aree pubbliche, dove verde e attrezzature sono rimaste in gran parte solo sulla carta; e nel Centro-Sud quanto è stato costruito dall’abusivismo (Roma in testa, con le sue ottanta borgate fuori legge e condonate). Essenziale, nelle periferie come nei centri storici, il rispetto rigoroso dei vuoti superstiti, e l’utilizzazione a fini pubblici degli impianti militari e industriali che non servono più e vengono dismessi. Terzo impegno della rinnovata politica di pianificazione dovrà essere l’arresto della crescita urbana indiscriminata, e la rigorosa salvaguardia del territorio non ancora urbanizzato: che corre il rischio di essere occupato e privatizzato da una disseminazione edilizia a bassa densità, trasformato in un sistema urbanizzato continuo, quello che viene detto “rur-urbanesimo”. A Roma negli ultimi vent’anni, oltre 20 mila ettari sono così andati perduti (circa 2-3 ettari al giorno), con l’irreparabile compromissione di territorio agricolo, oltre che di grande valore paesistico, storico, archeologico. Ora si tratta di creare sistemi e cinture di verde, indispensabili per impedire l’ulteriore soffocamento della città, per la salvaguardia dei valori culturali della campagna, per la pubblica ricreazione e quindi per la stessa salute pubblica: Roma è ancora ricca (ancora è l’avverbio su cui si regge la provvisoria topografia dell’Italia) di comprensori verdi che penetrano nelle maglie del costruito (campagne di Veio, Appia Antica, Litorale eccetera). Se venisse attuata la legge 431 del 1985, detta legge Galasso (unica legge di pianificazione in quarant’anni di Repubblica), potrebbe essere salvaguardata l’integrità fisica e l’identità culturale del nostro territorio.
Se questi sono, in breve, i criteri che dovrebbero ispirare nell’ultimo decennio del secolo la rinnovata urbanistica italiana, di tutt’altro genere è la strada su cui il nostro governo intende marciare: in direzione, ora e sempre, dell'ulteriore cementificazione delle città, dell’ulteriore violazione dei vincoli di piano regolatore, paesístici e culturali, della crescita insensata, della deroga da ogni principio ragionevole che assicuri un minimo di qualità abitativa. Il ministro dei Lavori pubblici Prandini ha presentato un disegno di legge che stanzia 8 mila miliardi per la costruzione di 53 mila alloggi nelle aree “ad alta tensione abítativa”: case nuove, dunque, e niente recupero né risanamento del patrimonio esistente degradato e sottoutilizzato, e niente riqualificazione, ma case nuove da immettere sul mercato in massima parte in vendita, quando l’Italia ha già la più alta percentuale di case in proprietà (oltre il 70 per cento rispetto alla media europea del 50 per cento).
Non pago di questo, il ministro ha presentato un altro provvedimento, uno schema dì disegno di legge, un “pacchetto” per 1’edilizia residenzìale ancora peggiore. Riduce gli spazi pubblici previsti dai piani regolatori, aumenta le cubature, “liberalizza” le destinazioni d’uso per cui ad esempio, senza bisogno di autorizzazioni o concessione, un convento può essere trasformato in albergo, un quartiere residenziale in un quartiere di uffici eccetera. Nelle zone vincolate, se le soprintendenze non si pronunciano entro quaranta giorni, il progetto è approvato (si sancisce così il deleterio principio del silenzio-assenso), e comunque ogni decisione finale è demandata al presidente della giunta regionale e al ministro dei Lavori pubblici. Si opera così (osserva Edoardo Salzano, presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica) il definitivo scardinamento della pianificazione: il potere passa dal pubblico al privato e si riporta in onore l’urbanistica “contrattata”.
Altro siluro contro le città italiane è il disegno di legge n. 1897 del governo che prevede l’alienazione, ossia la svendita al miglior offerente, delle proprietà demaniali dello Stato. Può anche darsi che, quando questo articolo sarà pubblicato, questo insano provvedimento, collegato alla legge finanziaria, sia stato accantonato, viste le proteste che ha suscitato. Ma, in fatto di provvedimenti che riguardano il territorio, quel che conta sono le intenzioni, e ad esse va fatto il processo: perché sono l’espressione di propensioni viziose ben radicate, pronte a rifarsi vive alla prossima occasione.
Questo disegno di legge dice che tutto il demanio e il patrimonio pubblico può essere alienato, ad eccezione (meno male) del demanio idrico (lido e spiaggia, rade e porti, laghi, fiumi e torrenti): per il resto, lo Stato è autorizzato a dìsfarsì di terreni e immobili, foreste demaniali, miniere e cave, beni del demanio militare, immobili destinati a pubblico servizio, e persino (poiché non è detto niente in contrario) dei beni culturali: se non del Colosseo o della Torre di Pisa, certo di ampie porzioni di musei e collezioni archeologiche, come da anni vanno proponendo le teste fine che giudicano esorbitante il patrimonio storico-artistico che la storia ha avuto il torto di lasciarci in eredità.
Una commissione istituita dal governo Craxi nel 1984 ha perfino calcolato quanto renderebbe allo Stato la svendita di quelli che con allegra metafora vengono chiamati “i gioielli di famiglia”. Comprendendo tutto, beni di Stato, comuni e regioni, l’introito sarebbe di 600 mila-2 milioni di miliardi, coi quali ridurre il debito pubblico. La mala intenzione è ricorrente: nel 1972 un altro governo Andreotti (ministro del Tesoro era Malagodi) propose di mettere all’asta 351 immobili del demanio militare, e poi sono seguite altre proposte di legge, anch’esse felicemente naufragate. Oggi il governo ci riprova, sempre in vista dell’ulteriore cementificazione e soffocamento delle città.
I primi ad essere sacrificati alla speculazione sarebbero gli immobili militari (circa 4 mila ettari), caserme, vecchi aeroporti, batterie, forti, magazzini, depositi, poligoni di tiro, terreni eccetera: immobili che spesso (come i forti e le batterie costiere) sorgono in zone di grande valore paesistico, oppure, come le caserme, sono situati nei centri urbani, il tutto finora scampato alla distruzione-ricostruzione speculativa proprio in virtù della loro appartenenza al demanio. Ebbene, sono proprio questi immobili che, quando vengono dismessi, non devono essere alienati, ma ceduti ai poteri locali per essere destinati a usi di esclusivo interesse pubblico.
Un’analoga destinazione va riservata agli impianti industriali che vengono abbandonati, che vanno strappati ai privati che vorrebbero trarne il massimo profitto utilizzandoli per destinazioni lucrose: si tratta di milioni e milioni di metri quadrati (3 milioni a Genova, 3,3 a Torino, 700 mila a La Spezia, 4 milioni a Milano, pari a 170 piazze del Duomo). Le nostre città congestionate hanno un disperato bisogno di spazi pubblici, quindi gli impianti militari e industriali devono essere trasformati in centri sociali e culturali, piazze, attrezzature, servizi collettivi, giardini, scuole, musei e via dicendo, e così gli spazi ancora esistenti. Perché la difesa dei vuoti, delle pause urbane, l’utilizzazione nell’interesse generale di quanto non serve più agli scopi per cui fu costruito dev’essere l’impegno di fondo di una pianificazione urbanistica che renda meno invivibili le nostre città.
Perché l’urbanistica possa essere rifondata nell’interesse generale, una cosa soprattutto è necessaria: che finalmente sia varata la legge sul regime dei suoli e degli immobili di cui l’Italia, unico paese in Europa, è ancora vergognosamente priva; la legge che consenta ai comuni di espropriare, senza svenarsi, terreni e immobili per fini di pubblica utilità. Ne siamo ancora privi per l'opposizione delle forze politiche reazionarie, per un esasperato culto della proprietà privata di cui si è fatta interprete anche la Corte costituzionale, che ha così contribuito in modo decisivo all'affondamento della pianificazione. “Un giorno maledirete la Corte costituzionale”, esclamò una volta (sarebbe bene sapere quando e dove) Francesco Saverio Nitti.
Delle sue numerose, micidiali sentenze ricordiamo la n. 55 del 1968, che ha definito illegittimi i vincoli espropriativi a tempo indeterminato(facendo quindi un passo indietro rispetto alla legge urbanistica fascista del 1942), e ha sostenuto che il diritto di edificare è “connaturale”, ovvero insito, inerente, connaturato col diritto di proprietà (come se la terra, fu osservato, producesse “naturalmente” cemento armato, oltre a ortaggi e piante); la sentenza n. 5 del 1980, che negava che la legge Bucalossi del 1977 avesse separato (com’era giusto) il diritto di proprietà dal diritto di edificare, e considerava illegittimo il criterio dell’esproprio che quella legge aveva basato sul prezzo agricolo aumentato di determinati coefficienti; la sentenza n. 223 del 1983, la quale annullava un’altra legge varata nel frattempo dal parlamento, che dava ai proprietari espropriati un acconto da assoggettare in seguito a conguaglio. Il risultato è che oggi tutti i vincoli espropriativi di destinazione pubblica sono decaduti, e le aree destinate a esproprio dai piani regolatori sono relegate in una specie di limbo, da considerarsi prive di qualunque destinazione urbanistica. Di qui la completa paralisi dei comuni e un inestricabile contenzioso che si risolve di regola a vantaggio dei privati. Va ricordato il caso di Modena, che aveva pagato un esproprio 90 milioni e, dopo anni di contenzioso, ha dovuto liquidare, per scandalosa sentenza della Cassazione, un prezzo quattordici volte superiore a quello richiesto dall’espropriato.
Il nostro paese non è dunque in grado di praticare la via maestra dell'urbanistica moderna, quella politica fondiaria che consiste nell’acquisizione pubblica preventiva dei terreni da destinare sia ai nuovi insediamenti sia alla realizzazione di parchi, e degli immobili da destinare ad attrezzature e usi pubblici: ponendosi così fuori del consorzio civile. La politica fondiaria è infatti pratica costante di ogni altra nazione avanzata. La Gran Bretagna nel ‘46, subito all’indomani della guerra, demanializzò oltre centomila ettari per la costruzione di una trentina di new towns, e quella che allora venne giudicata una socialist madnessè oggi una splendida realtà (due milioni di abitanti insediati, 400 mila alloggi costruiti, 3.500 industrie, 700 scuole). Il costo dei terreni (un sesto dell'investimento pubblico globale), nonostante inflazione eccetera, è stato mediamente di 2-300 lire al metro quadrato. I fondi prestati dallo Stato sono stati tutti rimborsati, le nuove città si sono autofinanziate, il loro bilancio è in pareggio.
In Olanda, Rotterdam rinasce dalle ceneri della guerra grazie agli espropri decisi dai suoi amministratori riuniti nelle cantine mentre cadono le bombe tedesche. Sono demaniali le terre prosciugate dell’ex Zuidersee, ad Amsterdam l’ottanta per cento del territorio comunale è demanio pubblico, in parte concesso in diritto di superficie ai costruttori, in parte trasformato in parco. L’esproprio avviene a valore di mercato, ma agricolo.
Stupefacente il caso della Svezia: a Stoccolma (che è grande come Milano, 18.000 ettari) oltre diecimila ettari sono di proprietà comunale. La lungimiranza è stata tale che si è man mano provveduto all’acquisizione di estensioni di terreno nei comuni vicini, così che oggi Stoccolma possiede un demanio di 55 mila ettari: il prezzo di acquisizione è stato mediamente di poche centinaia di lire al metro quadrato. E la politica fondiaria cominciò nel 1904 quando la maggioranza al comune era dei conservatori (!).
L’esempio più recente è la Francia dove, nel quarto di secolo tra de Gaulle e Mitterrand, sono stati espropriati o acquisiti 30 mila ettari, di cui 20 mila nella regione di Parigi (a un costo medio di cinque-dieci franchi il metro quadrato), dove sono state costruite cinque villes nouvelles, grazie a un ammirevole meccanismo amministrativo. Protagonisti gli Etablissements publiques d’aménagement (Epa), composti pariteticamente di rappresentanti dello Stato e dei comuni, che hanno provveduto all’urbanizzazione dei terreni e alla dotazione dei servizi essenziali: e hanno poi riceduto i terreni così urbanizzati agli operatori a prezzi maggiorati delle spese sostenute, e differenziati a seconda delle destinazioni urbanistiche. Così, il plusvalore creato dagli investimenti pubblici torna alle casse pubbliche anziché, come da noi, finire nelle tasche dei privati. E sono città completamente funzionanti (già costruiti 200 mila alloggi, aree industriali per 1.800 ettari, 170 mila i posti di lavoro): superfluo, qui, come negli esempi inglesi, olandesi, scandinavi, dilungarsi sull’eccelsa qualità urbanistica e ambientale (aree pedonali, dotazione di centri culturali, biblioteche, teatri all’aperto, impianti sportivi, parchi e verde in generale eccetera). La proprietà pubblica del suolo ha consentito una pianificazione ispirata finalmente ed esclusivamente alla cultura urbanistica e quindi all'interesse pubblico. E se errori sono stati fatti saranno quelli inseparabili dall’agire umano, non certo quelli imposti dalla taglia della rendita fondiaria. Qualcosa va pur detto, anche sommariamente, sull’aspetto che più colpisce chi visita queste realizzazioni straniere, la dotazione, la qualità, la distribuzione del verde pubblico e poi fa un confronto con i quartieri costruiti nelle nostre città, che sono, come è noto, le più povere di verde pubblico d’Europa. Nonostante i servizi giardini calcolino anche le aiole spartitraffico, Roma e Milano non superano, ad essere generosi, i 5-6 metri quadrati per abitante, con Palermo e Napoli si precipita a 1-2: mentre, ad esempio, Monaco di Baviera supera i 40, Amsterdam i 50, Stoccolma i 100. Ma quel che più conta è che il verde a Roma, essendo composto in buona parte da ville storiche, decresce man mano che si procede verso la periferia, costruita negli ultimi decenni con particolare sadismo urbanistico, dove il verde pubblico pro capiteassume spesso le dimensioni di una foglia d’insalata o di prezzemolo: al contrario di quanto succede ad Amsterdam o a Stoccolma o dovunque gli sviluppi urbani sono stati preceduti dall’acquisizione pubblica del suolo.
A Roma, non un solo metro quadrato di campagna dell’Appia Antica è stato ancora espropriato, nonostante che per 2.500 ettari sia vincolato da un quarto di secolo a verde pubblico (quanto alle aree archeologiche del resto d'Italia, solo un terzo dell’antica Paestum è demaniale, mentre l’abusivismo invade la Valle dei Templi di Agrigento). E nei quartieri romani di edilizia popolare, pur costruiti su terreno pubblico, gli spazi destinati a verde superano gli 800 ettari, ma solo un decimo è sistemato dal comune, il resto è sterpaglia abbandonata: a dimostrazione dell’inettitudine, dell’incapacità, da noi, anche semplicemente di gestire l’ordinario.
Ma a Roma capita anche dell’altro, che cioè un privato si comperi pezzi di parco pubblico. È successo con Villa Ada ex Savoia, lo splendido parco di 150 ettari di cui solo una parte (64 ettari) sono passati allo Stato e quindi al comune: il resto è andato agli eredi di Vittorio Emanuele III, che due anni fa l'hanno venduto a un intraprendente imprenditore, per quanto Villa Ada sia vincolata a parco fin dal piano regolatore del 1962. Chi si compra per svariati miliardi un pezzo di parco pubblico, non lo fa certo per destinarlo alla ricreazione all'aria aperta di bambini, ragazzi e anziani: lo fa sperando in qualche variante di piano a proprio favore o per ottenere dal comune lucrose contropartite, sempre in danno dell’interesse generale. E per quel che riguarda i beni culturali è pure capitato che un privato, Alessandro Torlonia, abbia trasformato in novantatre miniappartamenti le settantasette sale del museo che i suoi avi avevano costruito un secolo fa, accatastando 600 sculture greche e romane, ossia la più importante collezione privata d'arte antica del mondo, negli scantinati, come rifiuti di magazzino (e amnistia e prescrizione lo hanno benignamente mandato assolto).
Questi i misteri, gli scandali di Roma. Eppure, un apporto decisivo alla sua riqualificazione può venire proprio dalla valorizzazione del suo più illustre patrimonio storico e paesistico. Una proposta di legge (n. 3858) della Sinistra indipendente prevede la realizzazione del parco storico-archeologico dei Fori Imperiali e dell’Appia Antica: smantellamento graduale dell’ex via dell'Impero per riportare integralmente in luce le antiche piazze di Cesare, Traiano, Augusto, Nerva (ricavando così il maggior vantaggio possibile dagli sciagurati sventramenti degli anni Trenta) e quindi creazione di un parco unitario Fori Imperiali-Foro Romano; riassetto ambientale e pedonalizzazione di gran parte della zona prestigiosa tra il Colosseo e le Mura (Celio, Circo Massimo, Terme di Caracalla eccetera, zona salvata con l’esproprio di una quarantina di ettari dall'Italia giolittiana); fino alla realizzazione extra moenia del gran parco della campagna romana lungo la via Appia Antica. Questa la grande prospettiva urbanistica per il Duemila: il patrimonio storico, culturale, paesistico, che diventa la struttura portante (complementare allo Sdo) della nuova Roma, da piazza Venezia ai piedi dei Castelli. Il progetto è stato commissionato a un’équipe di esperti coordinata da Leonardo Benevolo dalla Soprintendenza archeologica di Roma, ed è stato pubblicato (cfr. L. Benevolo e F. Scoppola, a cura di, 1988).
Sia per le aree del Sistema direzionale orientale che per una buona parte del parco dell’Appia Antica si impone ovviamente l’esproprio (e testi di legge sul regime dei suoli e l’indennità di espropriazione sono stati predisposti dal governo e dal Senato), cioè quella politica fondiaria che è stata finora ignorata. Ignorata a tal punto che solo ora, grazie a un’accurata indagine di tre giovani architetti, conosciamo chi sono i proprietari del più grande comune d'Italia (R. Persieri, G. De Vito, G. L. Goletta, 1989). Due o tre cifre sono sufficienti: dei 120 mila ettari esaminati, circa 93 mila sono di proprietà privata, persone fisiche e giuridiche, e di questi 63 mila sono in mano al 2,9 per cento dei proprietari; mentre il comune possiede solo 4 mila ettari. Un abisso dunque ci separa dai paesi stranieri che abbiamo citato. E quel che è peggio, da qualche anno i terreni e gli immobili di Roma sono oggetto di uno spietato accaparramento da parte dei più noti speculatori d’Italia e dei più grossi gruppi finanziari pubblici e privati, coi prezzi che vanno alle stelle (l’Italstat si è comprata terreni della periferia sud-orientale a circa 200 mila lire il metro quadrato!). Se le cose non cambiano radicalmente, e tutto sta a dimostrare che non cambieranno, un nuovo Sacco è in vista, e sulla Roma del Duemila cala la tela.
OPERE CITATE:
L. Benevolo e F. Scoppola (a cura di), (1988), Roma, l’area archeologica centrale e la città moderna, Roma: De Luca.
V. De Lucia, (1989), Se questa è una città, Roma, Editori Riuniti.
R. Persieri, G. De Vito, G. L. Coletta, (1989), La proprietaria fondiaria a Roma, “Urbanistica informazioni”, n. 106.
Nel suo Pensiero meridiano, Franco Cassano scrive: «Ci si è modernizzati rendendo tutto vendibile e rendendo sistematico l'osceno, prostituendo il territorio e l'ambiente, i luoghi pubblici e le istituzioni». Si pensa che questa vendita all'incanto sia il prezzo da pagare per l'ingresso nel flusso della ricchezza mondiale. Esperti di marketing, piazzisti del commercio della città girano nel mondo con foto di strade, paesaggi e territori in offerta speciale, in analogia con l'organizzazione della prostituzione ed il catalogo di corpi esibiti. Di fronte ad un'economia che ha ripudiato i legami sociali (se mai li ha avuti), abbacinati dalla cosiddetta modernità, si è abbracciato il mito della competizione tra città, che offrono il possibile e l'impossibile per la transnazionale o l'immobiliare di turno, tendendo in tal modo a rapportarsi fra loro come imprese private in concorrenza. Ma l'innescare una competitività fra aree urbane ha determinato che l'istituzione locale sia cooptata nell'intensificazione dello sfruttamento del territorio. Così l'ente locale, mentre diventa sempre più liberista sul terreno sociale, è fervente interventista sul piano dell 'economia e dei mercati, anche attraverso nuovi piani regolatori o piani strutturali, vere e proprie «offerte» al mercato di aree edificabili. Di fronte all'assalto cementizio che procede senza sosta, il soggetto è confinato in zona periferica rispetto alla rendita e alle immobiliari con una profonda ferita alla democrazia perché si nega l'eguale condivisione dei poteri fra tutti i membri di una comunità. La capacità di escludere gli altri era una volta il privilegio di quelli veramente ricchi. Poi la nostra sola libertà è diventata la rincorsa di quel modello che «ha prodotto la strage degli incontri e delle solidarietà collettive, la trasformazione del pubblico in un'entità residuale». Non abbiamo certo raggiunto coloro che hanno sempre più potere escludente ma si è «imparato a pensare come loro, perdendo anche l'orgoglio di non essere come loro» (Cassano). Questa corruzione / deculturazione alimenta la distruzione del paesaggio, del territorio, delle città: in tal modo si distrugge la storia non solo con negazionismi e neo-revisionismi, ma anche devastando il territorio, le città che sono carne e memoria. Le scelte in materia di governo del territorio fanno capire con quali settori della società l'ente locale preferisce dialogare (Erbani): tutto questo ha un rilievo non solo nel disegno futuro di una città, ma anche nel tipo di democrazia che circola nelle nostre strade. Antonio Cederna insisteva sull'urbanistica come tutore degli interessi collettivi, sostenendo che il suo compito è di impedire che il vantaggio di pochi si trasformi in danno di molti. Queste parole cinquant'anni dopo, recuperano senso se messe in relazione con l'assalto cementizio. Di fronte a questo, nel chiedersi se è possibile che le istituzioni s'impegnino a contrastare la rendita invece che auspicare un suo tariffario, la Libera Università «Ipazia», il Giardino dei Ciliegi, i Comitati dei cittadini e Italia Nostra hanno organizzato a Firenze per questo martedì 6 febbraio, presso il Giardino dei Ciliegi in via dell'Agnolo 5 (ore 21) la presentazione della nuova edizione del libro di Cederna I vandali in casa, a cura di Francesco Erbani.
Ipazia (nell'immagine è ritratta da Raffaello Sanzio nella Scuola di Atene) fu filosofa, astronoma e matematica ad Alessandria d'Egitto (370-415). Uccisa da monaci cristiani in seguito all'editto di Teodosio contro il paganesimo.
Il pensiero corre spesso ad Antonio Cederna quando le cronache registrano che a Monticchiello una società immobiliare costruisce una novantina di appartamenti ai piedi del borgo medievale o quando a Mantova si propone di edificare su trenta ettari di fronte alla sagoma rinascimentale della città. Corre a lui, archeologo di formazione, giornalista sulle pagine del Mondo, del Corriere della Sera, dell´Espresso e di Repubblica.
Corre a lui, urbanista onorario, perché fin dagli anni Cinquanta, quando raccoglie i suoi articoli in I vandali in casa, prova a rispondere al quesito sul perché in Italia si costruisca tanto e male e perché lo si faccia dove e come fa comodo a qualcuno e non dove e come serva.
Cederna, di cui è da poco ricorso il decennale della morte, è stato spesso rinchiuso in una definizione "conservazionista", come se la sua attitudine esclusiva fosse quella di tutelare l´antico e la storia a qualunque costo. In un paese come l´Italia un atteggiamento del genere ha una dignità che difficilmente può essere discussa. E infatti Cederna è stato questo, ma non è stato solo questo. La conservazione dell´antico è una conquista della modernità, scrive, e soltanto conservando l´antico si può costruire una città che funzioni e una città bella. Le due questioni gli appaiono indissolubilmente intrecciate. La logica che gli sembra domini negli anni Cinquanta è un´altra: si distrugge un centro storico perché la città si sviluppi seguendo una direttrice tutta privata e tutta speculativa.
Il meccanismo che ai suoi occhi regola questa disfunzione è di diversa natura. Culturale, intanto: l´Italia è un paese in cui la consapevolezza della qualità del proprio patrimonio non è adeguata all´entità e alle valenze di esso. Economica, in secondo luogo: in Italia la rendita pesa moltissimo, e la rendita fondiaria e immobiliare, in particolare, assorbono tante risorse che altrimenti sarebbero destinate a un più corretto sviluppo (non è difficile leggere le denunce di Cederna sul Mondo contro la Società Generale Immobiliare, che a Roma possiede milioni di metri quadrati, incrociandole con gli interventi che sullo stesso settimanale pubblica Ernesto Rossi contro i monopoli). Politica, infine: una buona parte della politica negli anni Cinquanta non intende né progettare né regolare l´assetto di un territorio, è come inibita dalla forza che esprimono il mondo dell´edilizia e della rendita e si adegua ai suoi desideri, convinta che nel possesso di un suolo sia in qualche modo iscritta la possibilità di una sua trasformazione in senso cementizio e che questa possibilità vada al massimo contrattata, mitigata, ma non condizionata dalla tutela di interessi generali.
Negli anni Cinquanta, scrive Cederna, si costruisce dove e come si vuole purché lo esiga chi possiede un suolo. Non si costruisce perché c´è bisogno, o almeno non solo per questo, ma perché c´è qualcuno che ha la forza di imporlo (una quota consistente di senzacasa continuerà a restare in questa condizione, perché le case che si costruiscono sono in gran parte al di fuori della loro portata e l´edilizia pubblica in Italia resterà sempre marginale). Si spiega così l´andamento prima parallelo e simmetrico e poi sempre più squinternato fra la crescita demografica e la crescita delle abitazioni. Nel 1931, 41 milioni di persone abitavano e lavoravano in 31 milioni di stanze. E si stava indubbiamente strettissimi. Vent´anni dopo, nel 1951, quando Cederna comincia a scrivere sul Mondo, gli italiani sono diventati 47 milioni e le stanze sono arrivate a 37 milioni. E si stava ancora stretti. Ma nel 2001 gli italiani sono cresciuti di appena 10 milioni e sono arrivati a essere 57 milioni: le stanze, però, sono quasi triplicate e sono schizzate a 121 milioni. Venendo a dati più prossimi, nel 1991 c´erano in Italia 23 milioni di ettari di superficie agricola. Nel 2001 questa porzione di territorio si è ridotta a poco più di 19 milioni 700 mila ettari. Tre milioni in meno, un´estensione pari al Piemonte e alla Liguria messi insieme.
Questo incessante procedere del cemento, che ha le dimensioni di uno spreco, a giudizio di molti osservatori rappresenta un´anomalia italiana rispetto al resto d´Europa, dove ai fenomeni di consumo di suolo si tenta da tempo di porre un qualche rimedio. A Londra, per esempio, invertendo la deregulation thatcheriana, sono stati rinnovati i fasti della pianificazione urbanistica: per ospitare i settecentomila abitanti che si prevede arriveranno entro il 2016 non verrà edificato neanche un centimetro quadrato della green belt, la cintura verde che avvolge la città. In Italia, invece, il settore delle nuove costruzioni galoppa: nel primo semestre del 2006 c´è stato un incremento del 3,2 per cento rispetto all´anno precedente. Si calcola che ci sia una produzione di 800 kg di cemento ogni abitante, contro i 350 della Germania. Le cave si espandono e le cronache raccontano di quanto siano vulnerabili territori fino ad alcuni anni fa molto tutelati, come la Toscana, l´Emilia Romagna o l´Umbria. Sotto il peso del cemento cadono territori di pregio, per i quali la tutela paesistica viene esercitata sempre più debolmente, a causa dello smantellameneto delle Soprintendenze e delle norme che limitano i loro poteri di intervento.
I nodi culturali, politici ed economici che rendono possibile questo fenomeno sono modificati e si sono aggrovigliati nel corso dei decenni. Ma nella loro natura essenziale li troviamo descritti negli articoli che Cederna raccolse in I vandali in casa, un libro che sembra suoni il controcanto della storia italiana di questi cinquant´anni e che viene presentato oggi alle 17 da Vezio De Lucia, Antonio di Gennaro e Giuseppe Galasso nella sede dell´Istituto italiano per gli studi filosofici in via Monte di Dio, 15; e domani a Caserta sempre alle 17 nella sala consiliare della Provincia in corso Trieste 133.
Relazione ufficiale preparata per il ciclo di seminari Verso il Piano di indirizzo territoriale 2005-2010 , organizzati dalla Regione Toscana e dalla Sezione toscana dell’Inu. Primo incontro su “La buona urbanistica”, Capalbio 15 settembre 2006.
Non esiste l’urbanistica buona, esistono i buoni amministratori.
Se alla Toscana è stato riconosciuto qualche merito negli assetti e negli usi del territorio, si deve agli uomini e alle donne che fin dalla Ricostruzione seppero governare con capacità e lungimiranza prima le trasformazioni dello sviluppo economico e sociale, poi il consolidamento di una struttura territoriale che è ancora il patrimonio più prezioso su cui contare.
E’ a questo progetto politico e culturale, a cui contribuirono partiti, intellettuali, settori professionali, funzionari pubblici, sindacati, che ci si dovrebbe riferire quando si parla di modello toscano di pianificazione territoriale: non uno schema da riprodurre meccanicamente.
Ci chiediamo ancora se il cosiddetto modello toscano di pianificazione territoriale possa ambire a divenire riferimento per l’intero Paese, quanto meno utile indirizzo di riforma nazionale.
Ci dobbiamo confrontare con altre domande.
La prima: questo modello, che ha fatto della Toscana un territorio di eccellenza, può contare su capacità politiche, culturali, amministrative e tecniche – malgrado la proliferazione degli strumenti e delle procedure, la pervasività burocratica, il continuo mutamento di disposizioni e indirizzi – per contrastare – se contrastare si deve! – le iniziative di un’economia nuova che proprio su quella eccellenza fa aggio per piazzare sul mercato mondiale insediamenti ricadenti in zone dichiarate patrimonio culturale dell’umanità?
Si deve prendere atto della divaricazione tra gli strumenti che pretendono essere di governo del territorio – tuttavia mi chiedevo nel librino dello scorso anno: Chi governa, cosa? Chi effettivamente governa? – e il valore che il nuovo capitalismo (appunto globale) annette a territori (a luoghi, a città) come quello toscano, per strategie che non possono essere definite (unicamente) rendita immobiliare, tanto meno speculazione edilizia – quella che la politica urbanistica combatteva 50/40 anni fa – e che si avvalgono di progetti di qualità (anche su questo fronte la battaglia risulta persa)?
Il territorio deve costituire una vertenza nazionale per la nuova compagine governativa che fino ad oggi ha dimostrato scarso interesse per questo fronte di scontro economico e sociale?
Sussistono le condizioni e le capacità politiche, amministrative, economiche e sociali generatrici di quel modello? Quali suoi fondamenti risultano “esportabili”, se non è un fenomeno “locale” prodotto da quelle particolari condizioni? Se la pianificazione territoriale non è separabile dalla conquista e dalla gestione del potere, a seguito delle trasformazioni politiche e culturali il modello è destinato al collasso (ma non lo riteniamo un esito scontato)?
Pretendere di innovare e di progredire senza cambiamenti radicali è illusorio: per quanto possa dispiacerci, dobbiamo congedarci dal modello toscano di pianificazione territoriale?
Nondimeno l’operatività della pianificazione non è mai stata pre-stabilita, imposta, calata dall’alto; si è fatta nell’esperienza politica, amministrativa e tecnica, da cui scaturiva la condivisione di criteri, indirizzi, convinzioni, regole, che nel tempo hanno dato luogo a una riconoscibile figura di piano.
E’ emersa da questo piano la forma del territorio toscano: la Toscana dell’odierno immaginario collettivo, la Toscana come è percepita universalmente, non solo dal turista ma anche dalla popolazione autoctona.
Se il successo di un’operazione si giudica dai risultati, si può definire urbanistica buona il risultato di una parte consistente della storia del territorio che copre i 50 anni dal 1945 al 1995, durante i quali l’urbanistica pretende la propria autonomia dalla programmazione economica, in quanto tesa a realizzare il disegno del territorio regionale.
La separazione della pianificazione territoriale dall’urbanistica, già presente nella legge regionale del 1995, sancita definitivamente dalla 1/2005, se da un lato ha dato luogo ad un proficuo chiarimento, ben individuando le finalità e i contenuti degli strumenti di pianificazione, ha contemporaneamente disperso l’urbanistica, annullando il piano come forma, figura del territorio, come disegno, strumento compositivo dello spazio che ha rappresentato la grande tradizione degli architetti-urbanisti italiani: Giovannoni, Piacentini, Piccinato, Quaroni.
Edoardo Detti soleva dire che un piano bello è necessariamente un piano buono.
La crisi è anche di una figura professionale, divaricando il solco tra architettura, sempre più autoreferenziale e l’urbanistica che ne era il presupposto (nel 1935, Piccinato sosteneva la “netta subordinazione dell’architettura al fatto urbanistico”).
Quando si immagina la Toscana – il grande porto, la piattaforma logistica, le fasce infrastrutturali nord-sud, est-ovest, gli interporti, le ferrovie metropolitane, le città –, si sta disegnando il territorio regionale, si propone una forma territoriale, si rilancia sul tavolo l’assetto urbanistico.
Ma nella 1/2005 gli atti conformativi – che danno luogo all’assetto, al disegno, alla forma –, sono presenti solo a livello comunale (regolamento urbanistico, piani attuativi, piani complessi di intervento).
Quanto tempo c’è voluto per creare la cultura, inscindibilmente urbana e rurale, del territorio toscano? Un artefatto prezioso da conservare, pur senza pretesa di verità.
Quando può dirsi conclusa l’evoluzione del territorio toscano? Quando la cultura del territorio toscano si stabilizza in un patrimonio indisponibile? Quando la società regionale, nel suo insieme, trascurando aspetti e situazioni pur rilevanti, assume la conservazione integrale come riferimento stabile della politica territoriale?
La rottura del secolare legame città/campagna, dopo il termine della mezzadria e l’esodo dalla campagna, per un momento profila un collasso territoriale e sociale che la stabilizzazione della cultura del territorio, pur privata dei suoi motivi strutturali, per cause fortuite ma soprattutto per la scelta responsabile della classe dirigente toscana, in breve evita.
Più che in termini economici e sociali, quanto accade e si consolida attiene a una coscienza collettiva diffusa, trasfusa in un patrimonio politico e culturale che caratterizzerà da allora in poi la società toscana, delineandone una figura riconoscibile nel complessivo panorama italiano, le cui trasformazioni territoriali avrebbero allontanato il resto del Paese dalla Toscana.
Ricorrerà da allora l’immagine di isola, inevitabilmente felice in contrapposizione alle vicende cariche di traumatismi e di costi che investono le altre regioni italiane.
Tanto più la situazione è eccezionale o almeno tale la si giudica, tanto più viene difesa con l’energia che a volte sfiora l’arroganza, pur necessaria a fronte di interventi di puro sfruttamento dell’eccellenza ambientale; l’allarme di documenti recenti di varia provenienza, in merito ai mutamenti economici, sociali e territoriali che vengono avvertiti come una minaccia alla quiete e al benessere finora assicurati, provano quanto si fosse convinti di vivere in un isolamento dei cui vantaggi possono godere i toscani ma anche coloro che provengono da altrove, confidenti di una felicità territoriale in gran parte reale ma in qualche misura dovuta anche a un mito astutamente creato.
Le reazioni, a volte scomposte, di chi ha perso un progetto, invece di insistere sulle peculiarità regionali e di affermare l’eccezionalità di una cultura, sembrano rivolgersi verso prospettive estranee, lasciando in un contenzioso diretto, senza pervasive mediazioni politiche, coloro – in primo luogo gli amministratori locali –, che si trovano a dover decidere in merito all’irruzione sui propri territori di iniziative nei cui confronti possono avvertire di essere privi di tale progetto; per altro verso non indifferenti sia per migliorare i magri bilanci comunali sia per affidarsi a una speranza di sviluppo. Dover contare esclusivamente sulle proprie capacità negoziali, concentrate necessariamente sulla contingenza, può aprire brecce nelle condizioni di minore avvertenza e comunque distrae dalla necessità di un progetto politico complessivo di cui si avverte l’insufficienza se non la mancanza.
Appunto un modello: per questo motivo, il riferimento al dialogo.
Il dialogo non è praticabile in presenza di una pretesa di verità assoluta; è altrettanto necessario che gli interlocutori riconoscano un patrimonio comune di diritti e di valori, pur nella convinzione che ciascun individuo è responsabile del suo progetto di vita.
Esiste tuttavia un limite oltre il quale comprensione e tolleranza decadono in rinuncia (ai diritti) e dispersione (dei valori).
Distratti dagli aspetti procedurali, non abbiamo colto la innovazione contenuta nella legge regionale del 2005 sul governo del territorio: la netta separazione tra pianificazione territoriale e urbanistica, tra piano e progetti, l’abbandono del modello di piano suddiviso tra parte strutturale e parte operativa, presente nella legge regionale del 1995, che nel passaggio in corso tra piani strutturali e regolamenti urbanistici, sta identificando il regolamento urbanistico con un piano, se non con il piano regolatore generale di cui ripete contenuti e fisionomia.
Un’ambiguità rintracciabile nella legge del 2005, vuoi perché ripropone il regolamento urbanistico come piano, vuoi perché non libera il piano strutturale dalla parte strategica, dando modo di confondere ancora una volta piano e progetti.
I tre strumenti di pianificazione territoriale (regionale, provinciale, comunale) sono inoltre simili: nei tre compaiono una parte statutaria e una strategica e nei tre lo statuto del territorio ha gli stessi contenuti, come matriosche.
Cosa si propone? Di togliere dagli strumenti di pianificazione territoriale (piano di indirizzo territoriale regionale, piano territoriale di coordinamento provinciale, piano strutturale comunale) il contenuto strategico, spogliando inoltre il regolamento urbanistico dalla connotazione di piano, assimilato a un testo di regole urbanistiche e edilizie.
Lo strumento di pianificazione territoriale si riconosce esclusivamente nello statuto del territorio: quel qualcosa di immutabile, identificabile con la cultura del territorio toscano, nella consapevolezza della sua storicità.
Malgrado la complessità, non sempre evidente, della definizione e dei contenuti dello statuto del territorio negli articoli della legge regionale, lo statuto del territorio risulta essere compiutamente uno strumento di pianificazione territoriale.
Lo statuto contiene le invarianti strutturali che sono elementi cardine della identità dei luoghi, di cui lo statuto stabilisce le regole d’uso, i livelli di qualità e le relative prestazioni; persegue la tutela del territorio ai fini dello sviluppo sostenibile e a questo fine si compone di un nucleo di regole, vincoli e prescrizioni.
Individua inoltre i sistemi territoriali e funzionali che definiscono la struttura del territorio, e ha valore di piano paesaggistico.
Lo statuto del territorio è il contenuto della pianificazione territoriale regionale, provinciale, comunale; l’urbanistica opera esclusivamente in ambito comunale. Come è noto, negli strumenti di pianificazione territoriale non risultano localizzazioni edificatorie, non si conoscono le aree ma nemmeno gli intorni (le utoe) di edificazione; determinate aree divengono edificabili solo al momento del progetto (indifferentemente d’iniziativa pubblica o privata): è il progetto che rende edificabile un’area e quindi soggetta a regime fiscale (Dl 223/2006, art. 36, comma 2).
Le strategie degli strumenti di pianificazione sono confutabili, controvertibili, soggette a mutamenti anche in tempi brevi, non lo statuto del territorio.
Solo lo statuto del territorio è pubblico, attiene alla totalità sociale.
Lo statuto del territorio (il piano pubblico) è per così dire, bendato nei confronti delle iniziative, dei programmi, dei progetti, degli usi delle risorse a fini di sviluppo e delle prestazioni che da esse si attendono: in generale dei propositi e delle azioni dei soggetti pubblici e privati che operano sul territorio (è qualcosa di simile alla “posizione originaria” di Rawls, nella quale gli individui, all’oscuro della loro posizione nella società), stabiliscono le regole.
I progetti (programmi d’impresa, pubblica o privata) non sono predisposti, non fanno parte del piano: rispondono alle esigenze e agli interessi (alle strategie) di coloro (indifferentemente soggetti pubblici o privati) che li promuovono, in modi anche concorrenziali. Essi fanno i conti non tanto con la disponibilità di beni e risorse, quanto con la capacità (Amartya Sen), con le funzioni che si è in grado (si è capaci di) esercitare effettivamente con quei beni e quelle risorse.
I progetti presuppongono la fiducia nei confronti di coloro che li attivano e la loro responsabilità personale: questo indirizzo limita la pervasività burocratica, ostacolo all’innovazione, fonte di formalismi e moltiplicatrice di strumenti e procedure.
Queste conclusioni non pretendono una terza legge regionale dopo che due leggi si sono succedute in breve tempo sottoponendo amministratori, tecnici, operatori a un notevole impegno di risorse, scelte e decisioni; nondimeno non acquietano la domanda essenziale: quanto l’apparato di strumenti di pianificazione territoriale e di atti di governo del territorio, oltre che di procedure, risponde, è adeguato alla nuova tipologia di sviluppo?
Si avverte che la legge dello scorso anno non ha determinato quel sussulto politico e culturale che seguì la precedente legge.
Indubbiamente non ci si poteva attendere una reazione paragonabile a quella di dieci anni fa: la stagione dei nuovi strumenti urbanistici avviata dalla 5, non è affatto conclusa (è noto che mancano ancora alcuni piani strutturali e molti regolamenti urbanistici, mentre viene dato fondo alle previsioni dei precedenti piani regolatori). Inoltre la 1 è stata considerata modifica e integrazione della precedente legge: per questo motivo non è considerata il riferimento per le nuove linee di sviluppo (i contenuti del PIT in circolazione profilano – o no? - un congedo dalla 1, malgrado le affermazioni di coerenza).
La pianificazione ha tempi lunghi: c’è voluto mezzo secolo per sostituire la 1150 con le leggi regionali di riforma della pianificazione; gli assetti e gli usi del territorio toscano sono stati governati per 50 anni con utensili poveri: la legge del 1942, le zone omogenee e gli standard del Dm. 1444.
Di nuovo, gli strumenti di pianificazione definiti dalla legge vigente sono adeguati alla governance della città globale? Sono capaci di governarne le contraddizioni? Rispondono alle esigenze del cittadino-produttore (produttore politico, economico, culturale)? Sono utilizzabili da parte della società del rischio?
La domanda è tanto più plausibile se si “visiona” l’intera regione come città globale - non una sua parte -, in cui urbano e rurale sono connessi, inscindibili, ovunque presenti contemporaneamente. L’urbano storico – le città, i borghi, i nuclei, persino i casolari sparsi - non sopravvivrebbe se non fosse emergenza di un contesto rurale, della campagna: Anghiari è, insieme, l’edificato entro le mura e la collina di cui fa parte, fino a comprendere la piana della famosa battaglia: la collina è indisponibile.
La piana di Bagno a Ripoli è altrettanto indisponibile della collina di Anghiari!
La collina a sé stante, non esiste; separarla dal territorio e sottoporla come tale, a tutela, a salvaguardia – tutt’altra cosa dalla conservazione –, non ne garantisce l’incolumità; la salvaguardia può essere disattesa (accade, e questa non è buona urbanistica), anche in nome di un’equivoca architettura di qualità.
Il metaobiettivo della collina è la metafora (l’allusione) del territorio (della cultura del territorio toscano): la norma di PIT che lo riguarda darebbe corpo al divieto di ulteriore impegno di suolo per insediamenti, contenuto già nella 5, ma rimasto inascoltato.
Un criterio di pianificazione che per altro prende atto dell’assenza di una grande capitale regionale, di un forte baricentro urbano, dovuta alla costante, a mio giudizio voluta ma anche per motivi storici, estraneità di Firenze nei confronti del territorio regionale.
I comuni toscani sono molto più di centri politico-amministrativi: per un verso sono un patrimonio di democrazia, di appartenenza civica, per altro verso i depositari della cultura urbana, di formazione storica, costituenti con le loro identità la fisionomia della città globale toscana, definibile come un insieme piuttosto che un sistema.
Già Foscolo aveva paragonato la Toscana tutta a un giardino: è pacifico che nessuno vuole morire giardiniere, ma l’immagine illumina uno stato di eccellenza, oggi piazzato sul mercato mondiale, a volte con risultati insoddisfacenti. La conservazione del territorio è un dovere per la società toscana: la premessa dell’innovazione e della creatività del nuovo corso di sviluppo.
Il modello toscano di pianificazione territoriale che qui si ripropone in quanto espressione di un’irrinunciabile cultura del territorio, non è il procedimento unico o il quadro conoscitivo, la valutazione integrata o la perequazione: è anche questo certo, ma è oltre. È ancora un progetto politico e culturale per una possibile classe dirigente.
In ricordo di Romano Viviani
di Giuseppe De Luca
«Fare Urbanistica? Prima di tutto cultura e poi politica». E’ con queste parole che Romano chiudeva una lunga lettera di risposta ad alcuni miei rilievi epistolari fatti in occasione dell’uscita di uno dei suoi numerosi asciutti e densi “libricini” (Postposturbanistica della casa editrice Alinea) nell’inverno del 1997. In queste poche parole può racchiudersi l’esperienza di vita e di lavoro accademico, professionale e politico di Romano Viviani. Scomparso improvvisamente, martedì 21 novembre all’età di 79 anni, nel pieno di una intensa attività di lavoro come pianificatore. Aveva appena visto adottare il Piano strutturale e relativo Regolamento edilizio e urbanistico di Gioia Tauro, era occupato all’aggiornamento del Piano territoriale di coordinamento della Provincia di Siena, alla redazione dei Piani strutturali e relativi Regolamenti Urbanistici di Sassetta, Capoliveri, Monteverdi, del Regolamento Urbanistico di Signa, all’avvio del Quadro conoscitivo di Palmi; ma anche di una selezionata attività di progettista, l’ultimo in ordine di tempo l’ampliamento della Fiera di Massa Carrara (inaugurata qualche settimana addietro); nonché di una altrettanto intensa attività di esploratore “sul campo” – come amava definirla – sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo.
Non frequentava più le aule universitarie da molti anni, un po’ le mancavano, ma continuava a dare assistenza a studenti e giovani laureati, convinto com’era che il sapere tecnico oltre ai percorsi formativi accademici trovasse ninfa rigenerante soprattutto nell’incrocio con le pratiche del reale quando, ponendo interrogativi e prospettando soluzioni, si libera dall’aureola elitaria, per miscelarsi, contaminandosi fino a mettersi in discussione, nelle comunità e nei territori della quotidianità. Di questo sua attività di indagatore amava parlare e discutere a lungo, quasi a voler testare la sua capacità di interpretazione, condividendola, e confrontandola con l’altrui pensiero. Non ho avuto mai l’occasione di lavorare direttamente con lui professionalmente. Ho lavorato molto, moltissimo intellettualmente e su diverse ricerche, facilitato in questo dall’aver diviso e condiviso da molti anni lo spazio di lavoro e il desinare giornaliero. Questo suo “giovanile” spirito irrequieto emergeva in maniera istintiva, nel commento di letture o documenti di piano, nello scambio di numerose lettere (pur avendo le stanze attigue), negli schizzi e schemi che affidava alla provvisorietà del tovagliolo di carta, ma soprattutto dalla consuetudine di trasferire le sue riflessioni in documenti, molti dei quali destinati alla stampa.
«Urbanistica è politica» continuava a ripetermi; e «il piano lo strumento per darle senso». Concepiva il piano come un processo cooperativo interistituzionale che tramite azioni specifiche doveva tendere a correggere il tessuto economico e sociale esistente, più che la forma della città e del territorio. Rivendicando, in tal modo, una sorta di “politicità” essenziale nell’operare tecnico, di “olivettiana” memoria. Se urbanistica è politica, di conseguenza, il piano non può che essere pubblico. Questo il suo più forte messaggio che lo accosta ai grandi pensatori del Novecento, proiettandolo al futuro. Solo il piano pubblico, infatti, può affrontare le questioni dell’equità distributiva e della regolamentazione del mercato, di quello edilizio prima di tutto. Il piano pubblico, nella visione di Romano, non era altro che un progetto implicito di governo del territorio, non solo di urbanistica. Un piano atto a indicare i solchi da seguire e al contempo la matrice con la quale controllare quanto avviene nella quotidianità, lasciando alla libera estrinsecazione dell’azione privata la trasposizione del progetto implicito in progetto di trasformazione esplicito.
Proprio per questo, continuava a dire, l’attenzione deve essere rivolta verso «la cultura politica e l’apparato amministrativo», sono loro infatti che svolgono un ruolo essenziale nella costruzione del progetto implicito, che danno cittadinanza alle idee di trasformazione, che «conservano attivamente» e «costruiscono» i paesaggi e il territorio. La disciplina, gli strumenti, il sapere tecnico stratificato hanno certo un peso e un ruolo significativo nella definizione delle politiche pubbliche e nel loro trasferimento in piani, programmi e progetti. Ma è la sensibilità della cultura delle classi dirigenti, dei politici e degli amministratori che dà vibrazione e gambe al governo pubblico delle città e dei territori.
Questo è il percorso che Romano ha praticato e che lascia a noi, alla maniera dei grandi maestri, come insegnamento.