loader
menu
© 2024 Eddyburg

ETS, 2016, pp. 15-21. 4 maggio 2016

La figura di Antonio Cederna, del quale si celebra quest’anno il ventennale della scomparsa, assume sempre più la statura di un grande protagonista della cultura e della vita civile dell’Italia del Novecento. Inoltre il progressivo abbandono delle politiche di tutela del patrimonio e dell’ambiente, derivante tanto dal declino economico strutturale che affligge l’Italia quanto dall’impostazione ferocemente e ottusamente neoliberista dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni alla guida del paese, a sentire in modo pungente l’assenza di una voce rigorosa e robustamente indignata come quella del grande giornalista milanese.
Negli anni recenti ci sono stati diversi buoni tentativi di ricostruire il profilo biografico e quello politico e intellettuale di Cederna, tra cui vale certamente la pena di ricordare il piccolo volume di Francesco Erbani uscito nel 2012, ’ampio e prezioso volume collettivo curato nel 2007 da Maria Pia Guermandi e Valeria Cicala dal bel titolo Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna e le numerose testimonianze sparse tra le opere di Vezio De Lucia, il sito di Edoardo Salzano e altri luoghi ancora. Ancor più importante è stato il lavoro svolto attorno all’archivio personale di Cederna dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma con la collaborazione dell’Istituto per i Beni Artistici Culturali e Ambientali della Regione Emilia Romagna, che ha permesso non solo il riordino, l’inventariazione e la messa a disposizione del ricco patrimonio di carte personali del giornalista ma anche l’approntamento di un sito web ricco e ben organizzato.
Ciò che colpisce, tuttavia, è che l’eredità cederniana viene oggi studiata e rivendicata soprattutto riguardo ai temi dell’urbanistica, dei beni culturali e in parte del paesaggio, lasciando piuttosto in ombra il suo fondamentale contributo nel campo della tutela ambientale. Così il Cederna celebrato e ripubblicato resta ancora e sempre quello di Mussolini urbanista, di Storia moderna dell’Appia Antica, di I vandali in casa e se un ministero e la fondazione intitolata al suo nome approntano un’antologia di suoi scritti essa riguarda appunto “beni culturali, urbanistica e paesaggio”. Tra le poche eccezioni recenti stanno la bella relazione di Rita Paris e Bartolomeo Mazzotta a un convegno svoltosi nel 2013 a Santa Maria Capua Vetere dal titolo “L’archivio Cederna come fonte di studio per la tutela dell’ambiente”, scaricabile ora dal sito in forma digitale e arricchita da uno straordinario apparato iconografico, e il breve ma serrato profilo biografico contenuto nei Pionieri della protezione della natura in Italia di Franco Pedrotti

Può ben darsi che questo rimanere sullo sfondo del Cederna ambientalista dipenda dal fatto che gran parte delle persone che gli sono state maggiormente legate sono attive soprattutto nei campi dell’urbanistica, dei beni culturali e del paesaggio, nei quali è sempre molto vivace l’attività pubblicistica ed editoriale nello spirito della denuncia e della proposta cederniana, mentre questo tipo di intervento si è un po’ offuscato negli anni più recenti sul versante della protezione della natura. Il ricordo personale e le carte ci dicono però che l’interesse di Cederna per l’ambiente e il suo contributo alla battaglia ambientalista non sono stati né episodici né estemporanei né tantomeno ininfluenti. Essi sono stati al contrario il frutto di una conquista lenta e tenace, ottenuta - come nel suo stile - ediante un ammirevole sforzo di documentazione e di riflessione.

A dispetto della sua identità di giornalista, peraltro autore soprattutto di articoli incisivamente brevi, tanto le testimonianze di parenti, amici e collaboratori quanto le carte rimandano l’immagine di un uomo che è rimasto per tutta la vita uno studioso, per quanto sin da subito la vocazione civile ha finito col prevalere in lui su quella alla ricerca. La parabola del Cederna scrittore inizia non a caso con un’ampia relazione di scavo negli “Atti dell’Accademia nazionale dei Lincei” e termina con una severa polemica contro una deriva giornalistica che predilige il colore e la sensazione rispetto all’indagine accurata e al ragionamento approfondito. E se in molti rivendicano oggi a Cederna, come ricorda non a caso Edoardo Salzano, la qualifica di urbanista tout court le sue competenze e il suo livello di elaborazione in campo ambientale non furono da meno.

A testimonianza di ciò sta anzitutto il modo in cui Cederna si avvicinò alla protezione della natura. La quasi totalità dei suoi articoli degli anni Cinquanta, pubblicati invariabilmente su “Il mondo”, riguardano i beni culturali, l’urbanistica e - in qualche misura - il paesaggio. La questione ambientale comincia timidamente ad apparire soltanto nel 1960, cioè dopo quasi dodici anni di attività giornalistica, sotto la veste ancora tutta urbana del “verde”, come ancora in gran parte urbano è il taglio del primo convegno di Italia Nostra sull’argomento, del dicembre dello stesso anno e del quale Cederna riferisce puntualmente sul settimanale. L’imprinting del ricercatore si manifesta però molto presto: mentre l’associazione si muove con disagio e piuttosto timidamente sul “nuovo” terreno della protezione della natura, Cederna capisce subito che lì c’è un ampio terreno di impegno civile, di nuovi diritti e insomma di questioni politiche che travalica una impostazione limitata alla dimensione del verde urbano o del semplice paesaggio. Come mostra la sua corrispondenza privata degli inizi del 1962, oltre a documentarsi sulle attività del National Trust inglese egli si è procurata quella che all’epoca è una delle bibbie del protezionismo internazionale, cioè il volume Derniers refuges. Atlas commenté des Réserves Naturelles dans le monde pubblicato nel 1956 dall’Union internationale pour la conservation de la nature, l’Uicn, ma non bastando certamente questo tutto questo si rivolge con estrema umiltà a uno dei pochissimi grandi esperti italiani del settore: il direttore del Parco nazionale del Gran Paradiso, Renzo Videsott. Nella lettera che Cederna gli indirizza il 12 febbraio 1964 due cose colpiscono.

La prima è appunto l’umiltà, la fattiva serietà:
«Occorre che io mi istruisca sulla storia della protezione della natura nel mondo, metodi, istituti, mezzi, esempi stranieri, eccetera. Questo volevo chiederLe: Lei può consigliarmi in proposito, magari indicandomi una prima bibliografia sommaria e orientativa?»

La seconda è un brevissimo accenno che però anticipa una visione e una posizione che Cederna terrà fino alla fine:
«In Italia, come Lei ben sa, bisogna battersi accanitamente per la difesa della natura in tutti i suoi aspetti. Ma per fare questo occorre liberare la gente dall’imparaticcio della filosofia idealista che ha insegnato che la natura e il bello di natura non esiste, che è cosa soggettiva.»

Qui Cederna mostra anzitutto di aver compreso che la difesa della natura ha molti aspetti, alcuni dei quali sicuramente già conosce mentre altri gli sfuggono ancora, anche se non sono meno importanti. Qui credo che stia uno degli elementi che rende più gravosa l’“assenza” di Cederna e meno raccolta la sua eredità: il fatto cioè che Cederna era pervenuto a “vedere insieme”, in modo saldamente unitario, beni culturali, questione urbana e territoriale, paesaggio e protezione della natura nelle sue varie accezioni. Uno sguardo olistico che - mi pare di vedere - non ha avuto finora in Italia eredi alla sua altezza. In secondo luogo Cederna sembra comprendere sin da ora, anche se in modo ancora embrionale, che la questione della protezione della natura, del paesaggio e del territorio non si può definire soltanto o prioritariamente in termini di valori morali o estetici, con tutto il carico di preferenze squisitamente soggettive che uno sguardo di questo tipo comporta. Cederna sembra comprendere al contrario che proprio dal protezionismo viene la richiesta di fondamenta ulteriori e più salde per la battaglia in difesa di beni universali, sia che si tratti di beni patrimoniali sia che si tratti di beni ambientali: fondamenta che stanno anzitutto nel sapere tecnico-scientifico e nel riconoscimento dell’utilità collettiva di un modello di sviluppo moderno ma razionale. In questo Cederna si ritrova sintonia sia col “vecchio” protezionismo italiano rappresentato da Videsott e da Alessandro Ghigi sia coi giovani del “gruppo verde” di Italia Nostra che hanno iniziato a operare da pochi mesi in seno all’associazione: Arturo sio, i fratelli Carlo Alberto e Pier Dionigi Pinelli, Paola Onelli e il più maturo Bonaldo Stringher jr.

Nel corso degli anni Cederna affinerà progressivamente questa visione sia convertendo una parte cospicua della propria attività pubblicistica a questioni di protezione della natura e in particolare alla questione delle aree protette, sia ribadendo la necessità di un approccio nutrito, si, di una salda passione morale e civile e di una imprescindibile sensibilità estetica ma anche e soprattutto di solide valutazioni tecnico-scientifiche e di obiettivi chiari.

Ciò fa in modo che quando, verso la fine degli anni Sessanta, la questione dell’ecologia intesa ormai in senso planetario viene all’ordine del giorno anche in Italia Cederna può ritrovarsi in in pieno all’interno del piccolo drappello di giornalisti che si sforzano di illustrarla all’opinione pubblica e di approfondirla, accanto in particolare ad Alfredo Todisco e Giorgio Nebbia. Proprio con Nebbia, ad esempio, con Vi rginio Bettini e con una giovane GraziaFrancescato Cederna è a Stoccolma per raccontare il vertice globale sull’ambiente del giugno 1972 mentre assieme a Todisco coordina e anima l’anno successivo un convegno organizzato dal suo giornale, il “Corriere della Sera”, volto all’elaborazione di “80 proposte per salvare l’ambiente” che vede la partecipazione tra gli altri di Aurelio Peccei, Leonardo Benevolo, Giorgio Ruffolo, Alberto Predieri, Franco Tassi e Giuseppe Montalenti.

Ma Cederna ha modo di ribadire più volte nel corso degli anni, in pratica fino alla fine, il suo approccio olistico, anti-aristocratico e anti-idealista alle questioni del patrimonio, del territorio e dell’ambiente abbozzato nella lettera del 1962 a Renzo Videsott, in questo mostrando di essere un autentico erede della tradizione lombarda che discende da Carlo Cattaneo. Lo farà infatti ancora nel 1975 nell’ampio saggio che introduce il fortunato volume einaudiano La distruzione della natura in Italia nel quale mette sotto accusa - in modo persino ingeneroso - la legge sulla bellezze naturali del 1939 a causa del suo impianto essenzialmente visuale e lo farà nuovamente nel settembre 1991 in un articolo per “la repubblica” nel quale appoggerà l’integrazione dell’articolo 9 della Costituzione con un riferimento alla natura.

In ogni caso il Cederna ambientalista, in ciò effettivamente coerente con le sue origini di fondatore e animatore di “Italia Nostra”, i spenderà soprattutto per la difesa dei parchi naturali esistenti e per la creazione di nuovi lasciando così un poco più sullo sfondo le grandi questioni sollevate, ad esempio, dal Club di Roma. E l’impegno per l’istituzione della riserva di Migliarino-San Rossore - una delle campagne più antiche e vivaci del movimento protezionista italiano del dopoguerra - è solo uno dei tanti terreni su cui Cederna si cimenta a partire dal 1962-63. Una ricognizione complessiva di questo suo impegno per le aree protette è tutta da effettuare ma è possibile qui ricordare almeno come il legame personale con Renzo Videsott prima e con Franco Tassi poi lo renderà per anni testimone diretto e costante delle vicende dei primi due parchi nazionali italiani e come l’iter e l’approvazione della legge quadro del 1991 sarà una delle iniziative parlamentari che lo impegnerà di più nel suo mandato a Montecitorio.

bianchibandinelli.it (m.b.)

“Ringrazio la presidente Laura Boldrini che dà prestigio alla nostra associazione con la cortesia della sua presenza. Ringrazio Walter Tocci che ha accettato di ricordare con noi Antonio Cederna, a vent’anni dalla scomparsa. Ringrazio quanti partecipano stasera alla nostra iniziativa. Ringrazio in particolare Desideria Pasolini dall’Onda che più di sessant’anni fece parte – con Giorgio Bassani, Elena Croce, Umberto Zanotti Bianco, Antonio Cederna e altri – del gruppo di benemeriti che fondarono Italia Nostra, per lunghi anni la più importante associazione ambientalista del nostro paese. (In verità Cederna, schivo come sempre, si tenne in disparte, e formalmente non figura fra i fondatori di Italia Nostra anche se ne è sempre stato l’ispiratore più importante).
Un mese fa, sabato 16 febbraio, abbiamo dedicato a Cederna un’indimenticabile passeggiata sull’Appia Antica, accompagnati da Rita Paris, Vittorio Emiliani e Giuseppe Cederna. Se i cittadini, non solo di Roma ma di tutto il mondo, possono godere di quello spazio sublime lo devono a Cederna che spese ogni sua energia per la salvezza dell’Appia. Uno spazio senza confronti, anzi l’unico confronto è con l’Acropoli di Atene, come ha scritto lo stesso Cederna.
In autunno, una terza iniziativa – curata da Giulio Cederna – riguarderà la presentazione di uno strumento navigabile e “interoperabile”, all’interno di una story-map dinamica dedicata alla ricostruzione delle principali tappe del lavoro e della vita del grande ambientalista. Come molti sanno, la splendida sede della soprintendenza archeologica di Capo di Bove ospita l’archivio di Antonio Cederna che la famiglia ha ceduto allo Stato. I circa tremila articoli disponibili presso l’archivio sono ormai tutti consultabili on line e, con il nuovo strumento che si sta mettendo a punto, consentiranno anche di costruire la carta dei luoghi di cui si è occupato Cederna e con che frequenza.
Stasera Walter Tocci ci ricorda Le politiche per Roma di Antonio Cederna (che era stato consigliere comunale e deputato di Roma). Mi pare evidente che ci interessa l’attualità del pensiero e dell’azione di Antonio Cederna. Cederna era un combattente, non subiva il fascino dell’Aventino, non si compiaceva di condannare e di esecrare, non amava isolarsi nello studio. Era invece attratto dall’agire collettivo, nelle associazioni, nei comitati, nella vita politica. Alla contundente efficacia di denuncia del suo giornalismo sapeva aggiungere, da militante ambientalista, una mirabile e concreta attitudine alla proposta, fino al disegno degli spazi (vedi l’Auditorium al Flaminio, o l’area archeologica centrale).
In questo sta l’attualità di Antonio Cederna. In una città come Roma che vive, ogni giorno di più, rassegnata e disincantata un terribile declino morale e culturale, conseguenza del malaffare e del malgoverno che hanno devastato la città, ricordare Antonio Cederna dovrebbe agire come una salutare scossa per restituire il senso dell’azione critica e dell’impegno, il gusto di partecipare alla costruzione del futuro. Di tutto ciò, che è la ragione della nostra iniziativa, parlerà Walter Tocci.
Mi fermo brevemente solo su un argomento. Chi mi conosce sa che sto per menzionare il Progetto Fori. Sono incapace infatti di pensare a Cederna senza abbinare la sua figura al Progetto Fori, e viceversa. D’altra parte, il più importante insegnamento che ho avuto da Cederna, è di non vergognarsi mai di ripetere le cose in cui si crede e che crediamo importanti, di sentirsi anzi obbligati a ripeterle senza preoccuparsi di apparire monotoni o noiosi. Non era solo una civetteria quando diceva che in tutta la vita aveva scritto sempre lo stesso articolo.
E in forza di quest’insegnamento ripeto anche stasera che il Progetto Fori è stata, in un secolo e mezzo di vita della capitale, la più straordinaria proposta di rinnovamento di Roma, non solo dal punto di vista dell’assetto fisico, ma anche dal punto di vista sociale e culturale. Del Progetto Fori – che da 35 anni è su un binario morto – vi dirà Walter Tocci che racconterà le vicende e ricorderà i protagonisti: Adriano La Regina, Giulio Carlo Argan, Leonardo Benevolo, Italo Insolera, Renato Nicolini. E soprattutto ricorderà la profonda, straordinaria, sorprendente intesa fra Cederna e il sindaco Luigi Petroselli.
Nel 1981, quando morì Petroselli, Cederna scrisse dello scandalo Petroselli, lo scandalo di un sindaco che credeva nell’importanza della storia nella costruzione del futuro. Ma non entro nel merito, il Progetto Fori lo ricordo per una ragione di stringente attualità. Mi riferisco al vivace dibattito in corso sulla valorizzazione del patrimonio archeologico. Valorizzazione che, negli ultimi tempi, è rivolta in maniera quasi esclusiva alla capacità dei beni culturali di rendere un utile economico. Anche le idee di Cederna e di Petroselli e dei protagonisti del Progetto Fori erano volte alla valorizzazione. Ma si trattava di un’altra valorizzazione, che rispondeva ai dettami di un’altra politica, una politica, aggiungo, concordemente condotta dallo Stato e dal Comune, anche se appartenevano a schieramenti politici contrapposti. Una politica che non si poneva il problema delle presenze turistiche e dell’utile economico, ma dell’utile culturale, dell’importanza dei beni culturali nella formazione di cittadini consapevoli. Una politica che voleva accorciare la distanza fra i cittadini romani, fra i borghesi del centro e i proletari e sottoproletari delle periferie. Una politica che voleva accorciare non solo i tempi di percorrenza, ma voleva anche – collocando i Fori Imperiali al centro della città moderna – ridurre la distanza fra i tempi della storia.
I meno giovani ricordano, nell’inverno 1980 – 1981, le domeniche pedonali lungo la via dei Fori Imperiali, una specie di estate romana in anticipo. Allora, per la prima volta, i cittadini, tutti i cittadini, ricchi e poveri, si sentirono eredi e custodi della loro storia.
Mi fermo. Da vent’anni ci manca Antonio Cederna. Ci manca il suo insistere che non esiste la civiltà moderna senza un rapporto vitale, non retorico, con la storia. E ci sentiamo obbligati a impegnarci perché Roma non dimentichi il suo esempio e le sue idee.
Walter Tocci è conosciuto da tutti e non devo presentarlo. Mi piace solo ricordare un stagione della nostra vita, a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta. Allora Antonio Cederna e io facevamo parte di un gruppo – posso dirlo? – di compagni (fra i quali, Piero Della Seta, Paolo Berdini, Giovanni Caudo, Paolo Grassi, Giancarlo Storto) che si incontrava per discutere ed elaborare proposte per Roma. Il nostro giovane leader era Walter che noi – anime innocenti – volevamo sindaco di Roma.”
Vogliamo ricordarlo oggi, nell’anniversario della sua scomparsa. (m.b.)

Nel 1989, Antonio Cederna presenta come primo firmatario una proposta di legge per Roma Capitale. Il futuro della città è immaginato attorno a tre linee fondamentali, riguardanti la direzionalità pubblica, il sistema dei trasporti e il parco storico-archeologico dei Fori e dell’Appia, vero e proprio elemento unificatore della città intera, dall’area centrale fino ai piedi dei Castelli Romani. Come ha scritto, su eddyburg, Vezio De Lucia “la relazione alla proposta di legge è una delle più suggestive e convincenti pagine dell’urbanistica moderna, una vera e propria lezione che dovrebbe essere diffusa nelle scuole e nell'università”.

In calce al testo, i presentatori della proposta di legge ringraziano Luigi Scano. Gigi era così, sempre disponibile a lavorare dietro le quinte, con generosità e competenza senza pari. A noi che l’abbiamo conosciuto piace ricordarlo così, mentre - tra una sigaretta e l’altra - contribuisce a scrivere alcune delle rare pagine belle dell’urbanistica italiana.

Riferimenti
La relazione e la proposta di legge sono consultabili nell’archivio della Camera dei Deputati. Nell’archivio di eddyburg, una cartella intera è dedicata a Gigi. Un suo ricordo, qui.

Oasis, I, 3 mag.-giu. 1985

Le ultime vicende ddl sul consumo di suolo (si veda http://www.eddyburg.ithttps://eddyburg.it/archivio/consumo-di-suolo-rallenta-la-legge/ mi hanno richiamato alla memoria un articolo di Antonio Cederna del 1985. Anche se il tema è trattato largamente altrove, mi pare che meriti di essere tenuto presente, sia per la data, sia perché non è elencato fra gli scritti esistenti nell'Archivio Cederna e accessibili online. (G.P.)

TERRITORIO SPAZIO DI VITA

ra che i giochi politici sono fatti vedremo se le promesse e le parole spese durante la campagna elettorale si tradurranno in programmi e azioni concrete: se cioè verrà affrontato il problema di fondo dell’ambiente italiano, il problema delle risorse scarse e del loro utilizzo ragionevole e parsimonioso.

La risorsa scarsa, limitata, irriproducibile per eccellenza è il suolo, il territorio: ogni sforzo dunque va fatto per porre fine al consumo irresponsabile che ne è stato fatto in decenni di sprechi, leggerezze e saccheggi.

Se si continuasse col passo attuale della cieca espansione edilizia, stradale, industriale eccetera, tra poco più di un secolo tutta l’Italia sarebbe ricoperta da una continua, ininterrotta, repellente crosta edilizia e di asfalto, tale da distruggere ogni produttività agricola e cancellare la stessa fisionomia paesistica, naturale, culturale di quello che fu chiamato il Bel Paese. Bisogna dunque che con l’aiuto di urbanisti ambientalisti ecologi, le pubbliche amministrazioni (comuni, province, comunità montane, regioni, eccetera) si decidano a fare sistematicamente i conti, a fornire le cifre relative al consumo di suolo e territorio perché tutti possano rendersi conto del disastroso traguardo che ci sta davanti se non si cambia rotta: un’Italia a termine, destinata ad essere tutta consumata e finita nelle prossime tre o quattro generazioni.

Gli amministratori sono restii a fare calcoli e a fornire le cifre, perché sono un essenziale strumento di conoscenza che può mettere in crisi il partito dei saccheggiatori: ma qualcuno ha cominciato a informare la pubblica opinione. I dati sono ancora parziali: ma come le “proiezioni” fatte alla televisione dopo la chiusura dei seggi elettorali esaminando un numero assai limitato di schede, già possono dare attendibili indicazioni su quello che sarà il risultato finale. Dunque, dai calcoli del CENSIS coi dati dell’ISTAT, risulta quanto segue.

Il suolo agricolo utilizzabile nell’ultimo decennio è diminuito del 9,4 per cento, perché distrutto dall’avanzare dell’urbanizzazione o perché abbandonato.

Regione per regione, è diminuito dell’8 per cento in Veneto e Lombardia, dell’11 per cento in Calabria, del 12 per cento in Liguria, Piemonte e Sicilia, del 16 per cento in Sardegna, del 17 per cento nel Friuli-Venezia Giulia. Nell’ultimo trentennio le aree non più classificabili come utilizzabili a fini produttivi hanno raggiunto la dimensione di circa 5 milioni di ettari (una superficie pari a Piemonte più Lombardia): il consumo è proceduto a un ritmo medio di 150.000 ettari all’anno.

In particolare, le aree antropizzate, cioè urbanizzate, sono raddoppiate: l’espansione delle città ha divorato la campagna al ritmo di 25-35.000 ettari all’anno. In sintesi, come ha calcolato Giuliano Cannata della Lega Ambiente, dal ’70 all’81 i terreni perduti perché abbandonati o occupati da edifici, strade, industrie, cave, discariche eccetera, sono passati dal 12,5 al 20,6 per cento del totale, pari a un consumo medio dello 0,7-0,5 per cento all’anno: nell’ultimo ventennio circa 3 milioni di ettari di terreni agricoli sono andati distrutti (e sono un decimo dell’Italia). Come a dire che se si continuasse ad andare avanti così, “tutto il territorio italiano, dal Cervino a Capo Passero, sarebbe finito in poco più di cento anni”.

Questa prospettiva suicida è il risultato di quella distorsione mentale che il CENSIS chiama “rimozione del territorio”. Con incoscienza l’abbiamo considerato come un vuoto da riempire, una res nullius, un oggetto di baratto e una fonte di lucro: i comuni hanno confezionato strumenti urbanistici grottescamente sovradimensionati, senza alcun rapporto coi reali fabbisogni, praticamente considerandolo tutto edificabile. Qualcuno ha calcolato che se si sommassero le cubature previste da piani regolatori e programmi di fabbricazione, l’Italia risulterebbe capace di ospitare, sulla carta, una popolazione superiore a quella degli Stati Uniti o dell’Unione Sovietica. Costruire il superfluo e l’inutile, questa la regola, e basta osservare quel che risulta dal censimento: in dieci anni la popolazione è aumentata di due milioni di abitanti, mentre sono state costruite 22 milioni di stanze, in buona parte seconde, terze, quarte case (per non parlare dell’enorme massa dell’abusivo): per cui oggi per 56 milioni di italiani ci sono più di 80 milioni di stanze.

Il deprimente spettacolo che offre il nostro Paese è sotto gli occhi di tutti. Un inverecondo sparpagliamento edilizio sommerge pianure e colline, abolendo ogni distinzione tra città e campagna e sommergendo le aree agricole, nell’ignoranza completa delle caratteristiche del suolo, nel disprezzo per gli aspetti paesistici, per l’ambiente naturale. L’edilizia dilaga a nastro lungo le strade, a ragnatela nelle periferie urbane: al costruito si accompagna l’asfalto, le discariche di rifiuti, in terreni vaghi, degradati, l’abbandono (a ogni ettaro costruito ne corrisponde mediamente un altro in attesa di essere liquidato).

È il “deserto abitato” che avanza nel disordine totale, rendendo a poco a poco irriconoscibile l’Italia: una clamorosa smentita alle regole elementari del vivere associato, un’incolta irrisione a ogni norma elementare di pianificazione urbanistica, una crescita dissennata che aumenta paradossalmente proprio mentre cala l’incremento demografico.

Una documentazione fotografica di questo dissesto territoriale, nella sua varia tipologia, sarebbe quanto mai utile in una rivista come questa.

Due sono le indagini recenti che danno un’idea drammatica della situazione: una riguarda l’area metropolitana milanese e la Lombardia in generale, l’altra la provincia di Roma. Come è stato documentato recentemente dal “Centro documentazione e ricerche” della regione Lombardia, nell’area metropolitana milanese (oltre un centinaio di comuni, 180.000 ettari) il consumo di territorio ha ormai raggiunto il 33 per cento, in nove anni (1963-1972) ne è stato distrutto più che nel secolo precedente, e si procede al ritmo dell’1 per cento all’anno, anche se è finita la grande espansione economica e demografica.

Il piano territoriale comprensoriale ha posto dei limiti alle previsioni comunali, e si propone di contenere l’espansione complessiva entro il 50 per cento, entro il duemila, che è già una “soglia di allarme”: se invece le cose continuassero ad andare per il verso sbagliato, osserva Gianni Beltrame, direttore del comprensorio, tutto il suolo verde e agricolo dell’area metropolitana milanese sarebbe finito entro 67 anni.

Al consumo di territorio per incontrollato avanzare di urbanizzazione, si aggiunge quello dovuto al degrado (brutta parola diventata ormai di uso comune), cioè a quell’insieme di interventi in vario modo offensivi e distruttivi, che vanno dall’attività selvaggia delle cave alle discariche di rifiuti all’isterilimento del suolo nelle sudice frange periurbane. Come ha osservato l’economista Mercedes Bresso al citato convegno, in Lombardia le cave, “vera e propria industria del dissesto”, compromettono circa 20.000 ettari, pari al 2 per cento della superficie regionale. Ad essi va aggiunto un 1-2 per cento di discariche e depositi di rifiuti, più un 8 per cento di “degrado diffuso” (spazi compromessi da utilizzazioni precarie, fasce di rispetto stradale, variamente occupate, depositi di materiali industriali, fabbricati in stato di abbandono eccetera): si arriva così all’11 per cento di territorio degradato, pari a circa 100.000 ettari, quasi il 10 per cento del suolo utile lombardo. Disordine, spreco, inquinamento delle falde idriche, erosione del suolo, distruzione di terreno agricolo: quanto costa il risanamento, il ripristino, il recupero di un terreno così devastato? Si valuta che il costo sarebbe di 35-40 milioni ad ettaro, quindi in Lombardia occorrerebbe spendere 3.500-4.000 miliardi, che diventano almeno 10.000 se l’operazione venisse estesa ai casi che richiedono interventi complessi (sgomberi, abbattimenti eccetera). Ecco quali sono i costi sociali scaricati sulla collettività dal saccheggio del territorio.

Altri dati allarmanti vengono forniti dall’indagine condotta dall’Assessorato al bilancio e programmazione della provincia di Roma, circa le destinazioni d’uso previste dagli strumenti urbanistici dei 118 comuni che la compongono. Il risultato è che, senza contare Roma, è prevista l’edificazione (tra zone di espansione, di completamento e turistiche) di 2.300 stanze per altrettanti abitanti: se si aggiungono i 7-800.000 vani residui previsti dal piano regolatore di Roma (tra edilizia privata e pubblica) si arriva a più di 3 milioni di stanze: come costruire ex novo un’altra Roma accanto all’esistente. A tanto può giungere il sonno della ragione, l’allegra incoscienza urbanistica (intanto, da anni, il territorio della provincia romana viene consumato al ritmo di tre ettari al giorno).

La prospettiva è dunque catastrofica: il “giardino d’Europa” corre alla rovina, e rischia di essere consumato entro poco più di un secolo, a meno che mentalità, cultura e politica non cambino radicalmente. Che fare? Occorre mettere finalmente da parte il mito anacronistico, folle e rovinoso della crescita illimitata fatta solo di sprechi, e decidersi a considerare il territorio come il bene più prezioso perché scarso e limitato, quindi come bene collettivo da conservare gelosamente. Non si salva ciò che non si conosce: è urgente impegnarsi alla conoscenza scientifica del territorio e del suolo nei loro aspetti produttivi, fisici, geomorfologici, ambientali, paesistici, naturalistici (uno studio del genere è stato fatto dal comune di Padova), e imparare a rispettarli.

Dobbiamo rovesciare il nostro modo di agire: non più urbanizzare alla cieca risparmiando eccezionalmente (quando pure a fatica ci si riesca) qualche area eminente, ma trattare tutto il territorio come un parco in linea di principio inedificabile, alla cui rigorosa salvaguardia subordinare ogni eventuale intervento. Altrimenti assisteremo alla distruzione del nostro stesso spazio di vita, e poco a poco la terra ci sarà strappata materialmente di sotto i piedi.

Ieri, nella sua serafica casa senese, ci ha lasciato Mario Cusmano, protagonista fondante della cultura urbanistica italiana dalla metà del secolo scorso in poi. Ma anche Maestro di generazioni di studenti e laureati in Architettura a Genova, per poco tempo, e a Firenze per moltissimo e fruttuosissimo tempo, nella Facoltà di cui è stato anche equilibrato Preside.

In tale ruolo Mario fu capace di riportare la Facoltà, dopo anni difficili, ad un livello innovativo di forte dignità culturale e di chiarezza disciplinare e metodologica, estendendola dall'Urbanistica anche molti degli altri settori di ricerca e di studio.

La sua caratteristica principale come professore, sviluppata in decenni di impegno e sulla base di una cultura urbanistica e storico-architettonica "fatta a mano", su documentazioni molto più che su ipotesi, è stata una fortissima e appassionata impronta maieutica nei confronti degli allievi a lui più vicini, che Mario aveva il vezzo di vantare che fossero in genere di quantità non eccessiva.

Ma essa raggiungeva livelli superlativi nella infusione di capacità scientifiche che il suo metodo raggiungeva al momento della preparazione delle tesi di laurea, fino a far nascere il mito delle tesi del tipo Cusmano. Che era, e dovrebbe rimanere il tipo "ordinario" in quanto pretende ed ottiene di transitare dalle fondamenta conoscitive le più rigorose, alla investigazione critica la più ampia, alla ricerca delle categorizzazioni di volta in volta idonee, senza gli eccessi accademici (contro cui si ebbe modo di scontrarsi spessissimo), alla proposizione la più coerente delle trasformazioni ammissibili da proporre.

Infatti, per Mario Cusmano, l'ammissibilità deve dipendere da correttezze e coerenze proprie e interne alla elaborazione del pensiero urbanistico fortemente applicato ai luoghi specifici e alla dimensioni precipue delle città "proporzionate", opportunamente trasferite in regole intrinseche, che non costituiscono affatto dettagli valicabili a piacere ovvero sulla base di leggi e norma di comodo o ad hoc.
Da una tale impostazione discende che il ruolo del professionista urbanista, dell'autore del piano, al di là della forma transeunte in cui possa esercitarsi, non è eliminabile. Come deriva una concezione della ricerca scientifica applicata ai campi dell'Urbanistica nettissimamente caratterizzata dalla subordinazione agli interessi pubblici istituzionalmente sovraordinati, matrice di qualsivoglia tipo o sottotipo di metodica pianificatoria.

Tutto ciò ha consentito al Professor Cusmano di avviare programmi di ricerca applicata o applicabile sempre ben concepiti e pubblicamente ben orientati , concordati con Enti Pubblici ed , in genere, a chiaro scopo pianificatorio. Ciò soprattutto nel difficile campo degli studi su cui possono fondarsi le pianificazioni provinciali o di area vasta, fra cui quello relativo al territorio vasto fiorentino, le cui categorizzazioni rimangono esemplari quantomeno nella elaborazione concettuale, che, naturalmente, deve subire, per Mario, aggiornamenti costanti mai streotipizzate, nelle fasi operative.

Di Mario Cusmano, che fu per me il Maestro fondamentale a conclusione dei miei studi universitari, ho sentito già da quando ha voluto dedicarsi solo allo studio individuale e sento fortemente ora che ci ha lasciato il bisogno di avere a fianco la sua grande sua capacità di sinteticità critico-propositiva, che infondeva sicurezza e conforto, specie nell'ambito di questo nostro mestriere complesso e oggi, purtroppo, anche imbrattato da comportamenti che Mario, spesso con ben pochi altri, ha sempre avuto il coraggio di denunciare anche a costo di rimanere, ma solo apparentemente, isolato.

A Mario da tutti noi con affetto e nostalgia.



Trenta giorni sono passati dalla scomparsa di Vincenzo (Cenzi) Cabianca: un urbanista che non ha mai avuto i riconoscimenti che oggi si attribuiscano alle “star”, ma che ha svolto un ruolo di assoluta avanguardia per un aspetto del governo del territorio che oggi ci sembra più che mai decisivo: il rapporto tra organizzazione dello spazio della vita delle persone e preesistenze storiche e naturali. Cabianca ha insegnato ai suoi numerosi studenti che i beni culturali, dal paesaggio ai lasciti della storia più antica, , non sono come isolati da proteggere in una bacheca (né tanto meno spazi residui di un oceano di cemento e asfalto da completare, ma devono essere adoperati come lematrici di un nuovo modo di organizzare l’habitat dell’uomo.

Questo impegno culturale non è stato per Cabianca solo l’espressione di una teoria - di un pensiero - ma la premessa di un’azione da sviluppare e rendere concreta adoperando il mestiere dell’urbanista: un mestiere che ha esercitato non solo negli ambiti delle aule universitarie e degli studi professionali, ma anche nel campo politico e sociale della battaglia culturale. Cabianca è stato infatti vicepresidente dell’Istituto nazionale di urbanistica (INU) in anni decisivi della storia dell’istituto e della politica italiana: nel cuore di quel ventennio della speranza che separa gli anni della ricostruzione postbellica da quelli dell’avvio e dell’affermazione, in Italia e nel mondo, del neoliberismo.

Per ricordare Vincenzo Cabianca pubblichiamo di seguito due testi, che lo ricordano in due significativi momenti del suo contributo: il piano regolatore di Siracusa e la ricostruzione dell’Inu dopo la sua crisi del 1969. L’uno e l’altro sono tratti dai materiali di un convegno organizzato dall’associazione Fratelli Rosselli, di cui alleghiamo la locandina. Per una più completa conoscenza rinviamo al volume Vincenzo Cabianca, Documenti su vent'anni di utopia urbanistica a Siracusa. Tra neoilluminismo e neoromanticismo, curato da Giuseppe Palermo e pubblicato da La casa del nespolo, Roma 2013: qui di potete leggere, su questo sito, l'introduzione di Cabianca al suo libro.

VINCENZO CABIANCA E IL PIANO DI SIRACUSA
di Umberto De Martino

Stralci dalla relazione introduttiva all’incontro organizzato dal Circolo Fratelli Rosselli, Roma

Il Circolo Fratelli Rosselli di Roma ha avviato quest’anno un ciclo di incontri, unificati dal titolo “Dal pensiero all’azione”. […] Oggi abbiamo preso a campione il lavoro di un urbanista, Vincenzo Cabianca, mettendo a confronto il suo pensiero, che gli deriva dalla sua formazione culturale, ed il risultato raggiunto su un particolare campione dove ha operato per decenni, la città di Siracusa e il suo Piano Regolatore.

Va premesso che, se è vero che il prodotto che si ottiene come applicazione di un pensiero originale viene via via modificato dall’operare in un contesto esterno, con altri interlocutori dialoganti e con l’influenza che ne deriva, ciò è ancor più evidente nel caso dell’urbanistica dove il risultato finale, in questo caso l’assetto e lo sviluppo di una città, è frutto della concorrenza di soggetti che in modo più o meno palese interloquiscono intensamente con il progettista: operatori economici, cittadini, politici, e così via.

[…]
La pianificazione urbanistica di Siracusa nasce da un concorso nazionale bandito nel 1952, vinto dagli ingegneri Cabianca, Lacava e Roscioli. Dopo quattro anni , nel 1956, venne formalizzato l’incarico e adottato dal Comune il progetto di piano. Prima di illustrarlo brevemente dobbiamo rifarci al clima culturale che permeava la produzione urbanistica nei primi anni ’50, a poca distanza dall’entrata in vigore della legge urbanistica del 1942 (entrata in vigore, peraltro, di fatto rinviata dalle vicende belliche e dall’imperversare dei piani di ricostruzione che per anni sostituirono la pianificazione urbanistica vera e propria). La prassi era quella dei piani di ampliamento di tipo planovolumetrico, con il tracciamento del minuto tessuto stradale e la visualizzazione delle volumetrie realizzabili. Su questi modelli di piano l’innovazione del razionalismo e della “Carta d’Atene” non avevano ancora prodotto applicazioni significative.

I nostri “tre eroi”, invece, avevano culturalmente ben assimilato le novità più importanti in campo urbanistico, novità tra le quali primeggiava l’esperienza della pianificazione olandese, e di Amsterdam in particolare, diffusa in Italia da Astengo attraverso la rivista “Urbanistica” (e i cui principi erano stati, peraltro, anche trasferiti nello spirito della legge urbanistica italiana del 1942, poi purtroppo del tutto travisati): piani non più planovolumetrici ma di destinazione d’uso dei suoli, rinvio della realizzazione dei quartieri di espansione a piani esecutivi di iniziativa pubblica da progettare di volta in volta a seconda della necessità, dotazione programmata di servizi pubblici e di aree verdi sia a livello urbano che di quartiere.

Ma, e questo è il particolare più importante, i progettisti si sono trovati ad operare su un territorio di straordinario valore storico-archeologico, valore che l’opinione degli “addetti ai lavori” (proprietari terrieri, tecnici anche pubblici, operatori economici, perfino gran parte dei cittadini) riteneva un intralcio alla modernità dello sviluppo urbano e non una risorsa da esaltare e mettere a frutto. (Peraltro questa è stata una carenza della cultura italiana ancora per molti anni, dove nei piani regolatori – come quello di Roma del 1962 – ci si limitava a coprire i centri storici con una coloritura unitaria, rinviando a successive, ma anche astratte, pianificazioni specifiche: come se i centri storici non fossero parte integrante della città complessiva. Anche qui dovremo aspettare l’esempio progettuale di Astengo per Assisi e le teorizzazioni dell’ANCSA).
Ciò non è stato nel caso del Piano di Siracusa, dove all’assetto dell’espansione si è accompagnato simultaneamente quello della valorizzazione dei beni archeologici e dell’ambiente. Il piano del 1952-’56 nasce così da una cultura moderna, europea di governo dell’assetto urbano e da una specifica sensibilità dei progettisti, e di Cabianca in particolare; sensibilità che lo ha caratterizzato come “tra i primi che hanno dato vita ai Piani Urbanistici basati sul primato dei beni Culturali, sulla salvaguardia e valorizzazione dei Centri Storici, e sull’armatura culturale del territorio”.

Proverò ad illustrare sinteticamente i punti salienti di questo Piano, peraltro ampiamente descritto nel n. 20 (settembre 1956) della rivista Urbanistica.

Espansione di progetto articolata in quartieri da realizzare per iniziativa pubblica, dotati di servizi e circondati dal verde.

Per le zone di espansione veniva decisamente superato il metodo della previsione astrattamente precostituita per singoli lotti edificabili minuziosamente disegnati, utilizzato nella precedente pianificazione. Veniva invece previsto un sistema di aree a destinazione d’uso residenziale con integrato un mix di edilizia sovvenzionata, dimensionate in modo conforme rispetto alla dotazione di servizi necessari per i singoli quartieri, circondato da un sistema di aree verdi, dotato altresì di aree per attrezzature generali e servito tangenzialmente dalla grande viabilità di attraversamento e connessione sovra comunale. Di tali quartieri non veniva prefigurato il sistema edilizio e la loro progettazione attuativa veniva rinviata all’insorgere delle necessità insediative. Oltre alla corretta previsione delle zone di nuova espansione, nel Piano veniva particolarmente curata l’integrazione e la razionalizzazione delle zone residenziali già esistenti al di là dell’Ortigia.

Viabilità comunale di progetto, allontanata dalla costa per salvaguardarne le caratteristiche e ”di margine” rispetto all’Epipoli.


Il precedente piano regolatore del 1933 aveva sovrapposto sul territorio una fitta ragnatela viaria, senza gerarchie funzionali finalizzata all’urbanizzazione diretta e senza alcun controllo nei riguardi delle priorità. Nel nuovo PRG il sistema viario assume invece un respiro sovra comunale, modificando il tracciato della viabilità statale, non più compromesso col tessuto urbano, servito a sua volta da strade di penetrazione e di servizio, e prevedendo un ragionato sistema di strade panoramiche rispetto alla costa ed all’altopiano dell’Epipolai.

Area industriale unitaria e protesa verso il polo petrolchimico di Augusta.


Il territorio di Siracusa era stato investito dalla realizzazione disordinata di piccole/medie aree industriali localizzate in modo casuale nel territorio a seconda della convenienza dei singoli imprenditori e, spesso, in contrasto con le qualità ambientali dell’area. Più correttamente il Piano ha invece previsto un’area industriale unitaria, protesa a nord verso il polo petrolchimico di Augusta, al quale è connessa con uno specifico sistema infrastrutturale.

Salvaguardia delle zone archeologiche (Neapolis, latomie, castello di Eurialo, mura dionigiane); piano della Neapolis non isolato dalla città ma strettamente integrato con la pianificazione della città stessa.
L’intervento progettuale più importante, che ha rappresentato una vera novità in campo urbanistico, è stato mosso da un atteggiamento culturale del tutto innovativo rispetto ai beni archeologici e alle qualità ambientali. Il sistema storico-ambientale, singolarmente rappresentato da elementi di inestimabile valore (Neapolis, Latomie, Castello di Eurialo, Teatro greco, Mura dionigiane, ecc.) è stato affrontato non come salvaguardia di singoli elementi ma come un tutt’uno da affrontare e valorizzare nella sua unità storica. Inoltre la progettazione dei vari elementi componenti il sistema non è stata rinviata a un ipotetico futuro ma è stata ideata e proposta insieme al progetto di Piano Generale come parte integrante se non addirittura principale del Piano urbanistico complessivo.[…]

VINCENZO CABIANCA E L'INU
di Vezio De Lucia

Ringrazio Umberto De Martino e il Circolo Fratelli Rosselli per avermi invitato ma soprattutto per aver organizzato questa manifestazione in onore di Vincenzo Cabianca, urbanista indomito, intellettuale raffinato, dalla rara sensibilità per la storia, l’archeologia, il mondo mediterraneo.

Il XII congresso dell’INU, dedicato a L’iniziativa urbanistica delle regioni, doveva svolgersi a Napoli, nel teatro della mostra d’Oltremare, il 14 e 15 novembre del 1968. L’INU era allora un’associazione molto accademica, che operava come importante snodo fra l’università, le professioni e la pubblica amministrazione, in particolare con la direzione generale dell’Urbanistica del ministero dei Lavori pubblici. Si tenga conto che ancora non erano state istituite le regioni (lo furono nel 1970) e l’urbanistica di tutti i comuni d’Italia faceva capo a Roma.

Il congresso cominciò regolarmente alla presenza delle autorità – ministro, sindaco, vescovo e prefetto – ma fu subito interrotto dalla contestazione, perfettamente organizzata, di studenti di architettura che ricoprirono le pareti con tazebao, poi iniziarono il lancio di rotoli di carta igienica, mentre le autorità cominciavano a svignarsela. Invano Giuseppe Campos Venuti, balzato sul palco, urlando al microfono, cercava di fermare la polizia intervenuta a sgomberare la sala. Si chiuse così una fase della vita dell’Inu, quella caratterizzata dalla prevalenza dei grandi interessi accademici e professionali e dai rapporti sostanzialmente subalterni alle politiche di governo. Ma, al tempo stesso, l’INU godeva allora, nel mondo politico e sulla stampa, di un prestigio indiscusso e mai più recuperato.

I reduci di Napoli s’incontrarono alla fine di maggio dell’anno dopo ad Arezzo, dove si confrontarono due schieramenti: chi, come Bruno Zevi, proponeva di restare legati alla tradizione fondamentalmente culturale dell’Inu e chi, invece, auspicava un ruolo pienamente politico, cercando nuovi interlocutori. Prevalse a maggioranza questa seconda posizione, rappresentata da Vincenzo Cabianca, Edoardo Detti, Marco Romano e Alessandro Tutino che avviarono la costruzione di una proposta politica e culturale radicalmente nuova, spostando l’interesse verso le organizzazione sociali, a cominciare dai sindacati, che proprio in quegli anni erano attivamente presenti nella vita pubblica.

Ad Arezzo fu eletto presidente l’insigne costituzionalista Paolo Barile, vicepresidente Cabianca, che ressero l’istituto per un anno, avviandone la ripresa dopo la contestazione di Napoli. Qualche protagonista della precedente gestione lasciò l’istituto, fra questi Bruno Zevi, che ne era stato prestigioso segretario generale.

L’apertura ufficiale della nuova fase dell’INU fu il convegno di Bologna del 1970. Il tema era Il controllo pubblico del territorio per una politica della casa e dei servizi. Edoardo Detti sostituì alla presidenza Paolo Barile, Cabianca fu confermato alla vicepresidenza fino al congresso di Ariccia del 1972.

Mi limito qui a ricordare soltanto il ruolo da protagonista che Cenzi Cabianca svolse nei primi anni della svolta, nella nuova fase della vita dell’INU di affiancamento ai movimenti di lotta e alle organizzazioni sindacali, in particolare sul problema della casa. L’istituto assunse allora come obiettivo prioritario quello dell’“opposizione culturale”. In un documento del consiglio direttivo nazionale del 1972 si legge che l’INU “rinuncia definitivamente a caratterizzarsi come gruppo di «specialisti in urbanistica» che in quanto tali scelgono di far politica; tende invece e soprattutto a divenire un punto di raccolta di informazione e di attivazione per forze politiche, sindacali e di base (nell’intero arco della sinistra) che intendano dedicarsi ai problemi della città e del territorio e che ricerchino nell’istituto i necessari supporti tecnici e culturali”. Prendemmo le distanze dal mondo accademico e professionale, sostenemmo con puntiglio l’obiettivo che la formazione degli strumenti urbanistici dovesse essere condotta direttamente dagli enti locali, utilizzando le risorse professionali interne, adeguatamente preparate.

Ricordo gli incontri con i sindacalisti che ascoltavano affascinati – non sto esagerando – il parlare colto e forbito di Cenzi. E il suo entusiasmo nell’impadronirsi dei temi giuridici, avendo stabilito un’intesa particolare con Guido Cervati, che abbinava a un’indiscussa competenza in materia di diritto urbanistico, un’insuperata sensibilità sociale che lo induceva a orientare sapientemente le interpretazioni delle norme a favore degli interessi popolari (diritto evolutivo).

Cabianca restò nel CDN fino al 1990 – per ventuno anni – quando per l’INU ebbe inizio l’interminata stagione del revisionismo e del trasformismo con l’abbandono della linea dell’intransigenza e dell’autonomia che Cabianca aveva sempre difeso con determinazione.

Prima di finire, ancora un minuto per denunciare un documento recentemente adottato dalla Giunta Comunale di Siracusa e da sottoporre al Consiglio per la revisione del PRG del 2007. Devo la segnalazione a Giuseppe Palermo, il benemerito studioso che ha curato la pubblicazione del volume su Cabianca che presentiamo oggi.

Si tratta di un testo che ripresenta pedissequamente e integralmente la filosofia, e la nomenclatura dell’urbanistica contrattata di rito ambrosiano e, peggio ancora, del “modello Roma”. Non manca nulla:
· perequazione e compensazione
· nuove centralità

· appositi meccanismi premiali per incentivare l’edilizia sostenibile

· espansioni a bassa densità con il pretesto del turismo e dell’agriturismo

· social housing come cavallo di Troia per nuove edificazioni

· ammissibilità imprecisata di modificazione delle destinazioni d’uso

· sviluppo indiscriminato della viabilità.

Penso che verremmo meno alle ragioni che ci hanno indotto oggi a rendere omaggio all’impegno urbanistico di Cenzi Cabianca per Siracusa se ci astenessimo dalle necessarie azioni di vigilanza, di denuncia e di mobilitazione per evitare che, ancora una volta, a Siracusa prevalgano gli energumeni del cemento armato.


Conobbi Luigi Cogòdi tanti anni fa. Ero allora presidente dell’INU e Luigi assessore all’urbanistica della Regione Sardegna. Erano gli anni della prima applicazione della legge Galasso: Cogòdi e i suoi collaboratori ci aiutarono a organizzare un’iniziativa sull’argomento. Ammirammo e condividemmo subito il lavoro coraggioso e intelligente nel quale si erano impegnati per la difesa delle coste e della legalità.

Molti anni dopo Corte del fòntego editore propose a Sandro Roggio e a me di comporre un libro sull’esperienza del piano paesaggistico della Giunta di Renato Soru (Lezione di piano, Venezia, 2013).Nel documentare attraverso una molteplicità di voci il piano e il suo contesto ci sembrava indispensabile inserire una testimonianza di Luigi. Era malato, e ci fu impossibile raggiungerlo se non per telefono. Inserimmo allora nel libro una sua intervista, rilasciata a Filippo Peretti e pubblicata da La Nuova Sardegna il 18 novembre 2002.

La ripresento oggi, perché mi sembra che non solo esprima compiutamente la qualità e le ragioni dell’impegno di Cogodi, ma rechi testimonianza di una persona (un “politico”) e un’epoca che non devono essere dimenticati. (e.s.)

18 novembre 2002
LUIGI COGÒDI, "PADRE DEIVINCOLI"
dall'intervista di Filippo Peretti

Labattaglia in consiglio regionale sull’insediamento turistico a Palau ha fattotornare in auge il personaggio Luigi Cogodi come «padre» e «tutore» dei vincolidi inedificabilità sulle coste. Col Pci Cogodi fu assessore regionale all’urbanisticadal 1984 al 1987 (nelle prime due giunte Melis) e assessore al lavoro dal 1987al 1989, di nuovo assessore all’urbanistica (ma con Rifondazione) dal 1998 al1999 con l’ultima giunta Palomba.
(…)
Lei è diventato un personaggiosoprattutto occupandosi di coste. Quando e perché ha iniziato?
Comeinteresse culturale, da sempre. Non concepivo che la Sardegna accettasse didiventare una prigione recintata dal cemento e dai muraglioni eretti da pochiingordi.
E come politico?
Daassessore all’urbanistica, nel 1984. Ricordo che quasi tutti quelli che sioccupavano di urbanistica, esercitavano il potere di costruire, inteso in sensoedilizio.
E lei?
Ame venne invece una gran voglia di costruire un progetto di salvaguardia della“Sardegna Isola”.
Ma molti pensavano, e pensano,che i “suoi” vincoli fossero un’esagerazione.
Nonun’esagerazione, la verità: proponevo che sulle coste venissero riqualificatisolo gli abitati esistenti e si evitassero per lungo tempo altre costruzioni ameno di due chilometri dal mare, salvo i servizi e le strutture collettive.
Perché un irriducibilecomunista si occupava di ambiente?
Unirriducibile comunista non può che essere un irriducibile ambientalista.
E viceversa?
Sesi intende che l’ambiente naturale è lo spazio vitale per tutti. E poil’ambiente è un valore culturale, e la cultura deve essere di tutti.
Ma l’ambiente è un potenzialeeconomico o no?
Sì,è quello che fa la differenza.
Anche altri, ma che non lapensano come lei, dicono che l’ambiente è una gallina dalle uova d’oro.
Mainvece di investire sulle uova preferiscono mangiarsi la gallina.
Chi erano gli avversari?Imprenditori e politici?
No,gli imprenditori no. Semmai i “prenditori”: abituati male, a prendere per sé ibeni di tutti. Quelli erano i nemici. E oggi sono gli stessi.
Furonodurissimi gli scontri con la Dc ma venne ostacolato anche nel Pci. Da chi?
Dachi confondeva il consenso popolare coi voti comunque acquisiti, da chi credevadi essere più moderno perché civettava coi “benpensanti”. Finivano col pensar maledelle cose fatte bene.
Puòfare i nomi?
Èmeglio non ricordarli. Di molti però sono noti i soprannomi.
Le dicevano che aveva ragionema che avreste perso voti?
Peròaccadde il contrario: persero i voti perché non sostennero le cose ragionevoli.
Renato Soru dice che laSardegna, se non si fosse costruito malamente nelle zone costiere più belle,oggi varrebbe di più anche sotto il profilo economico.
Soru,almeno in questo, ha ragione. È sicuramente così.
Non è più rimediabile?
Impedendol’ulteriore devastazione, abbiamo salvato i più grandi valori, anche economici,della nostra terra.
Non sembra, però, una battagliaancora di moda.
Forsei più giovani non lo sanno, ma senza la lotta, le leggi e le ruspeantiabusivismo degli anni ’80, oggi l’Isola varrebbe molto di meno. Ragione dipiù per difenderla ancora.
(…)

Le ragioni della tutela

Mi piace ricordare, come ho fatto altre volte, un’affermazione di Cederna della fine del 1964, contenuta in uno scritto per Il Mondo, poi riprodotto per volontà dello stesso Cederna, in Brandelli d'Italia, nel 1991. Scriveva Cederna, invocando la definizione di una "nuova legge urbanistica", ed auspicandola prossima, che essa avrebbe dovuto "garantire un'effettiva tutela dei centri storici e dei comprensori naturali", segnando "la fine, finalmente, della sporadica, occasionale, tardiva e fallita politica dei vincoli apposti dal Ministero dell'Istruzione: la tutela dell'ambiente urbano e naturale viene finalmente inclusa nella pianificazione, ne diventa una sua parte integrante e essenziale, centri storici e paesaggio e complessi naturali, da semplici apparenze che erano, diventano destinazioni di zona, con funzioni previste, nell'ambito di tutti gli sviluppi urbanistici".

A ben vedere, la stessa impostazione era presente nei lavori delle commissioni istituzionali che hanno operato, lungo quasi tutto l'arco degli anni '60, al fine di proporre una riforma dei sistemi di tutela dei beni culturali. La prima di esse, nota come "Commissione Franceschini", nelle sue proposte finali precisava, ad esempio, relativamente ai centri storici, che "ai fini operativi, la tutela dei centri storici si dovrà attuare mediante misure cautelari (quali la temporanea sospensione di attività edilizie ad essi inerenti), e definitivamente mediante piani regolatori", e che i "piani regolatori relativi ai centri storici dovranno avere riguardo ai centri medesimi nella loro interezza, e si ispireranno ai criteri di conservazione degli edifici nonché delle strutture viarie e delle caratteristiche costruttive, di consolidamento e restauro, di risanamento interno igienico-sanitario".
Nel complesso, è indubbio ed esplicito, e non limitato all'argomento dei centri storici, l'orientamento della Commissione volto a ricondurre gli obiettivi della tutela dei beni e dei valori culturali nell'ambito dell'ordinaria pianificazione urbanistica. Per converso, è altrettanto certo e palese il suo tentativo di disegnare dei percorsi logici, metodologici e procedimentali che rispettino, pure puntando a ricondurla all'unitarietà ed alle coerenze del processo di piano, la concorrenza dei poteri locali e statali in vista della finalità della tutela dei predetti beni e valori, sulla base dell'assunto per cui, essendo essi patrimonio dell'intera collettività nazionale, non sono attribuibili alla piena ed esclusiva disponibilità di istituzioni rappresentative soltanto di parti di tale collettività.
Vale la pena di rammentare che la seconda commissione, nota come "Commissione Papaldo", proponeva, tra l'altro, che alcuni beni culturali fossero dichiarati tali dalla legge, ed altri, descritti dalla stessa legge, fossero "beni culturali presunti" e come tali "assoggettati [...] al regime dei beni culturali proprio della loro categoria" finché non sia emessa una "dichiarazione negativa". Tra questi "beni culturali presunti" proponeva che fossero inclusi "i centri storici e i nuclei insediativi di carattere storico o artistico".
Ritengo che i principi e gli assunti fondativi delle elaborazioni delle commissioni "Franceschini" e "Papaldo" (e se volgiamo aggiungerle, le opinioni di Cederna) avessero, e conservino intatta, grande validità. Purtroppo se ne è fatto scarso, insufficiente, parziale e quindi distorto e distorcente, tesoro.
Soltanto alla metà degli anni '80, con la legge 431/1985, si introducono rilevanti innovazioni in materia di tutela del "paesaggio”, inteso come la ”forma del Paese”. Sotto due profili vengono ripresi assunti delle elaborazioni delle commissioni "Franceschini" e "Papaldo". Si vincolano beni ope legis, e almeno per alcune loro categorie si può parlare di "beni culturali presunti", in quanto per essi può essere emessa una sorta di "dichiarazione negativa". E si prende coscienza del fatto che può aversi efficace tutela di tali beni solamente attraverso la definizione, mediante strumenti di pianificazione, delle trasformazioni fisiche ammissibili e delle utilizzazioni compatibili, stabilendo che almeno relativamente ai beni "vincolati", ope legis o con specifici provvedimenti amministrativi, le Regioni devono dettare una disciplina "mediante la redazione di piani paesistici o di piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali". Purtroppo, è assai malamente risolta la questione della necessaria concorrenza dei poteri locali e statali in vista della finalità di tutela dei beni “vincolati”.

È bensì previsto l'esercizio di poteri statali che, seppure censurando l'improprietà delle formulazioni di legge, la Corte costituzionale ha stabilito possano interpretarsi come “sostitutivi”, nella formazione dei "piani paesistici", in caso di inadempienza regionale. Ma l'esercizio di tali poteri può conseguire soltanto dalla totale inattività regionale, ovvero, con qualche forzatura, da un adempimento regionale che sia, incontrovertibilmente, “elusivo” dell'obbligo posto in capo alle Regioni, cioè tale da non rispondere affatto alla finalità di tutela, se non da contraddirle. In altri termini, la concorrenza dei poteri non è definita nella forma piena dell'obbligo dell'intesa, tra i poteri medesimi, sui concreti contenuti dei previsti strumenti di pianificazione. Di fatto, ad oltre tredici anni dall'entrata in vigore della legge, delle regioni a "statuto ordinario", sei non hanno adempiuto affatto, due hanno adempiuto in termini assolutamente “elusivi”, cinque in termini parziali, lacunosi, comunque assai discutibili, e soltanto due in termini pieni. Lo Stato ha esercitato i poteri sostitutivi soltanto nei riguardi di una delle regionali totalmente inadempienti.

Nel disegno di legge recante "Norme per le città storiche", del quale ha parlato il senatore Chiarante, si prevede, tra l'altro, che i "centri, quartieri e siti storici", perimetrati dai comuni con l'assenso vincolante del competente Soprintendente per i beni ambientali e architettonici (oppure su proposta del Soprintendente in caso di inattività comunale), siano sottoposti alle disposizioni di cui alla legge 1 giugno 1939, n. 1089.

I "centri, quartieri e siti storici" verrebbero, insomma, unitariamente considerati "beni culturali" come proposto dalle commissioni per la riforma dei sistemi di tutela dei beni culturali degli anni '60. Rispetto a quelle elaborazioni, peraltro, manca pressoché totalmente la consapevolezza della necessità di ricondurre gli obiettivi della tutela dei beni e valori culturali nell'ambito dell'ordinaria pianificazione urbanistica, ma stabilendo per quest'ultima percorsi procedimentali che garantiscano la concorrenza dei poteri locali e statali. Nello schema del disegno di legge, infatti, manca ogni riferimento alla pianificazione dei "centri, quartieri e siti storici", nel contesto della più generale pianificazione del territorio, ma si tratta soltanto di non meglio identificabili "programmi per interventi a salvaguardia del patrimonio storico urbano", che dovrebbero essere approvati dai comuni, soltanto "sentiti" i competenti Soprintendenti. Ai quali ultimi competerebbe, invece, di autorizzare, caso per caso, le trasformazioni proposte su qualsiasi immobile ricadente nei "centri, quartieri e siti storici".
Credo, invece, fermamente, che sarebbe il caso di rilanciare con forza la “cultura” (e la pratica) della pianificazione, ed al contempo di sancire che, limitatamente ai beni e valori culturali, la vigenza degli strumenti di pianificazione urbanistica sia subordinata all'intesa dei poteri locali con i poteri statali preposti alla tutela dei medesimi beni e valori, rappresentativi degli interessi dell'intera collettività nazionale, dei quali i predetti beni e valori sono patrimonio (correttamente applicando il "principio della sussidiarietà", nei termini in cui è definito dalla "costituzione" europea, non nella sua mistificata versione italiota). Così facendo, tra l'altro, si risponderebbe positivamente ad alcune argomentazioni, di inconfutabile validità culturale, che hanno supportato il largo fronte di coloro che, all'apparire dello schema di legge recante "Norme per le città storiche", l'hanno aspramente criticato, e si lascerebbe coloro che volessero continuare a stracciarsi le vesti del tutto ignudi nel loro ruolo di vestali di quella bizzarria, anch'essa italiota, che è il "federalismo municipalistico".
Ad ogni buon conto, il principio per cui gli strumenti di pianificazione per quanto disciplinino beni (in senso patrimoniale-economico) dello Stato, in termini tali da incidere sulla loro finalizzazione, possano diventare efficaci soltanto previa "intesa" con lo stesso Stato, è stato da tempo chiarito dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, ed è presente nel diritto positivo sia statale, con riferimento a specifici "oggetti", che di talune regioni, in termini più generali. Non pare quindi dovrebbe esservi alcun ostacolo concettuale, né di diritto costituzionale, stante anche l'articolo 9 della Costituzione, a estendere tale principio a quel ben più rilevante "patrimonio nazionale" che è costituito dai "beni culturali", ed in genere dai beni in cui si incarna e si manifesta l'”identità culturale” del Paese.
Ancora: negli strumenti di pianificazione, formati attraverso le “intese” di cui ho detto, potrebbe essere stabilito quali "oggetti", o per quali tipi di interventi, fosse ancor necessaria l'acquisizione dello speciale provvedimento abilitativo dell'autorità statale, o il mantenimento all'autorità statale del potere di annullamento dei provvedimenti abilitativi dell'autorità locale, e per quali “oggetti”, o per quali tipi di interventi, i provvedimenti abilitativi dell'autorità locale, verificando la conformità delle trasformazioni e utilizzazioni agli strumenti di pianificazione, possano assolvere pienamente le finalità di tutela. Propendo a ritenere che la prima fattispecie potrebbe risultare percentualmente minima. Ed ancora: anche la questione, recentemente riesplosa, dell'alienabilità di beni immobili degli enti locali, "beni culturali presunti" secondo la vecchia e tuttora vigente legislazione, potrebbe essere affrontata e risolta, assai meglio che con vaghi "regolamenti ministeriali", sulla base di strumenti di pianificazione formati attraverso le "intese" di cui ho detto, e pertanto in grado sia di emettere, per specifici immobili, delle "dichiarazioni negative", sia, eventualmente, di giudicare altri specifici immobili, pure considerabili "beni culturali", adeguatamente tutelati dalla stabilita disciplina delle trasformazioni fisiche ammissibili e delle utilizzazioni compatibili, anche nel venir meno della loro appartenenza al patrimonio (in senso economico) pubblico.
Peccato che, delle nuove proposte di legge organica in materia di urbanistica che sono state presentate o predisposte negli ultimi tempi, non una affronti il problema della concorrenza dei poteri statali e di quelli locali in vista delle finalità di tutela. Varrebbe la pena di richiamare con forza l'attenzione, su questo nodo, o snodo, problematico, delle forze politiche, dei gruppi parlamentari, dei ministri per i beni culturali e dell'ambiente. Confidando che la recente, e fortunata relativa "messa in sordina" dello smaniare "federalista", non comporti il perpetuarsi di un pluridecennale procedere frammentario, disordinato, a stop and go, complessivamente assai poco efficace, e di sicuro generalizzatamente deresponsabilizzante.
Luigi Scano,
Segretario dell'associazione Polis
1998

Sette anni fa ci ha lasciati Gigi Scano. È stata una perdita grave, per ciascuno dei suoi amici e per eddyburg. eddyburg ha perso un collaboratore prezioso per l'intelligente attenzione con cui informava e orientava sistematicamente non solo sulle questioni de jure relative all'urbanistica, ma anche sui più rilevanti eventi della cultura e della politica.

Le sue scelte e i suoi commenti (e cosí i consigli che generosamente offriva a chiunque glieli chiedesse) erano sempre, dichiaratamente, di parte: era un giacobino, un uomo per il quale, secondo l’aurea definizione di Lucio Villari, "il buon governo consiste nella soggezione dell'interesse privato a quello pubblico". La politica, nel significato più alto di quel termine oggi tanto sputtanato, era il suo humus. Forse non a caso scomparve quando la politica cominciava a diventare cosa radicalmente diversa, e anzi antitetica, rispetto a quella che lui aveva conosciuto e praticato. Sempre in ombra, sempre al servizio degli altri.

Luigi Scano ha lasciato una grandissima eredità di scritti, suoi e altrui, e di documenti. L’insieme delle carte e dei materiali digitali è stato raccolto dai suoi amici. Non aveva una casa di sua proprietà (Gigi è morto povero, come aveva vissuto) nel quale si potesse custodirlo. Il materiale cartaceo è stato ospitato prima in un locale del Comune di Venezia, grazie a Enzo Castelli, oggi a Villa Hériot, sede dell’Istituto veneziano per la storia della Resistenza, grazie al suo direttore Marco Borghi.

Crediamo che il lascito di Gigi sia un patrimonio prezioso, la cui conoscenza potrebbe aiutare oggi tutte le persone di buona volontà che volessero attingervi. Per conto nostro cominceremo col riprendere dal nostro archivio digitale, o da testi ancora cartacei scanditi per l’occasione, alcuni scritti che ci sembrano ancor oggi di grande attualità.

Ci piacerebbe festeggiare, fra tre anni, il decimo anniversario della sua morte con l’avvio di un lavoro più sistematico sul patrimonio che ci ha lasciato. Ma è un’impresa per la quale eddyburg non ha neppure le risorse per cominciare. Per ora, vi ricordiamo che alcuni scritti di Gigi sono raggiungibili nel vecchio archivio di eddyburg e altri via via ne inseriremo, nelle cartelle “Scritti di Gigi Scano” e “Per la sua Venezia”, mentre altri materiali raccolti alla sua scomparsa sono riuniti in altre cartelle qui.

Il manifesto, 28 gennaio 2015

Sono pas­sati molti lustri da quando il filo­sofo fran­cese Henri Lefeb­vre mandò alle stampe una rifles­sione sulla città - Le droit à la ville - cri­tica nei con­fronti di una visione della metro­poli allora domi­nante. A distanza di decenni, quell’analisi cono­sce un ine­dito e a tratti con­di­vi­si­bile revi­val, gra­zia a un lavoro di risco­perta che fa leva sui movi­menti sociali che pun­tano alla riap­pro­pria­zione della metro­poli dopo una cor­ro­siva pri­va­tiz­za­zione dello spa­zio pub­blico. Molte le dif­fe­renza tra l’ordine del discorso allora domi­nante e quello attuale. Nei tur­bo­lenti anni Ses­santa, infatti, gli urba­ni­sti, affa­sci­nati dalle oscure decla­ma­zioni di Tal­cott Par­son sulla realtà come un «sistema chiuso», soste­ne­vano che la città era da con­si­de­rare appunto un sistema auto­re­fe­ren­ziale che sta­bi­liva cor­ro­sivi rap­porti di feed­back con l’ambiente cir­co­stante al fine di ripro­durre una forma del vivere sociale che non ammet­teva alter­na­tiva al suo dive­nire.

La prima edi­zione del sag­gio di Lefeb­vre è del 1970, ma fu pre­sto archi­viato per­ché rite­nuto un mano­scritto incom­pleto. Da alcuni anni, però, il geo­grafo David Har­vey ha attinto a Il diritto alla città come una miniera di sug­ge­stioni per ana­liz­zare il ruolo della metro­poli come un hub delle dina­mi­che eco­no­mi­che e sociali della con­tem­po­ra­neità. Ha dun­que fatto bene la casa edi­trice ombre corte a ripub­bli­carlo, cor­re­dan­dolo di una utile pre­fa­zione di Anna Casa­glia, che inqua­dra sto­ri­ca­mente il sag­gio del filo­sofo fran­cese (Il diritto alla città, pp. 138, euro 14).

I monu­menti del potere

Il fun­zio­na­li­smo rap­pre­sen­tava per Lefeb­vre un maci­gno che impe­diva un’adeguata ana­lisi della città, anche se invi­tava comun­que a pren­dere ciò che di buono ave­vano pro­dotto gli emuli euro­pei di Par­son: l’idea cioè che la città è la forma del vivere asso­ciato che meglio di altre con­sente a defi­nire il luogo, meglio i luo­ghi della pro­du­zione della ric­chezza. È su que­sto cri­nale che Lefeb­vre usa una famosa frase di Marx lad­dove scri­veva che se il mulino sta al capi­ta­li­smo mer­can­tile, la mac­china al vapore sta al capi­ta­li­smo indu­striale. Lefeb­vre la evoca per sin­te­tiz­zare la suc­ces­sione delle diverse forme di città che hanno accom­pa­gnato lo svi­luppo eco­no­mico. Così la città orien­tale è con­na­tu­rata al modo di pro­du­zione asia­tico, men­tre la città antica è fun­zio­nale all’economia schia­vi­stica, così come la città medie­vale ha potuto imporsi solo in pre­senza del feudalesimo.

Al di là di que­sta tas­so­no­mia, tanto la città orien­tale che quella medie­vale erano i luo­ghi dove re, impe­ra­tori, ari­sto­cra­tici e mer­canti osten­ta­vano il loro potere e sta­tus. La città è imma­gi­nata come un’opera che rispec­chi una con­ce­zione domi­nante delle rela­zioni e gerar­chie sociali. Ma in quanto «opera», non può rima­nere indif­fe­rente al dive­nire sto­rico e sociale. Deve cioè mutare. La città, dopo il Rinan­sci­mento, diventa così il luogo dove il reale deve mani­fe­stare una intima coe­renza, un’armonia monu­men­tale che occulti la dimen­sione sociale, con­flit­tuale che è insita a que­sta forma del vivere. Una coe­renza del reale che non verrà mai rag­giunta. I monu­menti, le opere archi­tet­to­ni­che, i dipinti e dise­gni rina­sci­men­tali sono cioè da con­si­de­rare la rap­pre­sen­ta­zione ico­no­gra­fica di una città ideale che non è mai esi­stita, né che esi­sterà mai.

Nel diritto alla città ci sono pagine piene di sar­ca­stica cri­tica di tutte le meta­fore «natu­ra­li­sti­che» della città (il tes­suto urbano, l’habitat urbano), segna­lando che la nostal­gia per un pas­sato mitico sulla città rap­pre­senta l’incapacità del potere costi­tuito di pro­spet­tare una ricon­ci­lia­zione della società urbana con il ter­ri­to­rio. E se per la mag­gio­ranza della popo­la­zione diviene è al tempo stesso il luogo di un pos­si­bile riscatto da una con­di­zione di indi­genza e povertà e lo spa­zio dove i legami sociali pri­mari - la fami­glia, la paren­tela, per­sino le cor­po­ra­zioni - sono stra­volti dallo ormai inar­re­sta­bile svi­luppo capi­ta­li­stico, per gli urba­ni­sti è lo spa­zio dove imma­gi­nare una ricon­ci­lia­zione tra l’«ordine pros­simo» (le rela­zioni sociali deter­mi­nate dal regime della pro­prietà pri­vata) e l’«ordine remoto» (lo stato). Per que­sto, secondo Lefeb­vre, gli urba­ni­sti sono gli ideo­logi per eccel­lenza del capi­ta­li­smo, per­ché con i loro pro­getti e inter­venti fanno sì che la città diventi la «media­zione delle media­zioni», cioè lo spa­zio dove il potere costi­tuito ha la sua legittimazione.

L’impossibile sin­tesi

Non sem­bri però una nota sto­nata che in que­sto pic­colo, ma denso sag­gio non com­pa­iano mai rife­ri­menti ai filo­sofi, socio­logi che tra gli anni Venti e Qua­ranta del Nove­cento hanno scritto pagine impor­tan­tis­sime sulla città. Georg Sim­mel è infatti igno­rato, così come il Wal­ter Ben­ja­min della Parigi capi­tale del XX secolo. E nulla viene detto sulle rifles­sioni di un moder­ni­sta con­vinto come lo sta­tu­ni­tense Lewis Mun­ford. Un solo pas­sag­gio liqui­da­to­rio è dedi­cato a Le Cour­bu­sier, rite­nuto un fun­zio­na­li­sta che ambi­sce a diven­tare l’«uomo di sin­tesi» di quella che viene iro­ni­ca­mente chia­mata la società urbana. L’obiettivo di Lefeb­vre, infatti, non attiene allo sve­la­mento di come si è for­mata la metro­poli, bensì di regi­strare un’altra «grande tra­sfor­ma­zione» in corso tra gli anni Ses­santa e gli anni Set­tanta del Nove­cento. Il pro­getto razio­na­li­sta di ripor­tare ordine nelle metro­poli è stato scon­fitto da un’alleanza tra urba­ni­sti, ammi­ni­stra­tori e immo­bi­lia­ri­sti tesa a tra­sfor­mare la città in una «infra­strut­tura» del governo poli­tico della società e della pro­du­zione di merci. La metro­poli non è cioè un luogo pas­sivo che riflette ciò che avviene nel mondo della pro­du­zione, ma è il con­te­sto dove l’urbano inter­viene diret­ta­mente nella produzione.

Il diritto alla città auspi­cato da Lefeb­vre è così un anti­doto a una tota­lità dove pro­du­zione, con­sumo e cir­co­la­zione della merci sono ormai tre momenti non distinti, ma com­ple­men­tari l’uno all’altro nel tempo e nello spa­zio. Per que­sto la città diventa a tutti gli effetti il luogo del desi­de­rio, dei biso­gni sociali, della dimen­sione ludica, tra­sgres­siva ine­rente i rap­porti sociali, ma anche lo spa­zio dove il potere punta ad eser­ci­tare una fun­zione di con­trollo a distanza attra­verso incen­tivi alla pro­du­zione di segni che rispec­chino sì la dimen­sione mul­ti­forme dei rap­porti sociali, ma per pie­garla alla ripro­du­zione dei rap­porti sociali.

Può sem­brare un’ironia della sto­ria, ma Lefeb­vre scrive del con­flitto sem­pre più evi­dente tra un 99 per cento della popo­la­zione e un 1 per cento che si appro­pria di tutta la ric­chezza pro­dotta. Lo scrive due anni dopo che nel quar­tiere latino di Parigi oltre a bru­ciare le auto­mo­bili è stato archi­viato il sogno razio­na­li­sta di una città ordi­nata e facil­mente con­trol­la­bile attra­verso le forze pre­po­ste all’ordine pub­blico. Ma all’orizzonte non c’era nes­sun Occupy Wall Street, né movi­mento sociale teso alla riap­pro­pria­zione dello spa­zio urbano tra­sfor­mato in un ate­lier pro­dut­tivo. Lefeb­vre annota sola­mente che la tota­lità costi­tuita dalla città ha biso­gno di stru­menti sofi­sti­cati per essere destrut­tu­rata. La filo­so­fia e la socio­lo­gia, certo, ma anche la lin­gui­stica, l’antropologia, la teo­ria dell’informazione. Le ultime pagine del libro indi­cano solo un pro­gramma di lavoro che Lefeb­vre con­ti­nuò a svol­gere, inter­se­can­dolo con altri libri anche’essi assenti da molti anni nelle libre­rie, come la monu­men­tale cri­tica della vita quo­ti­diana e l’altrettanto ambi­zioso stu­dio sullo Stato.

Le comu­nità recintate

Il diritto alla città potrebbe essere dun­que con­si­de­rato un libro anti­ci­pa­tore di quanto sarebbe acca­duto una man­ciata di anni dopo la sua pub­bli­ca­zione. Da allora molto cemento è pas­sato sotto i ponti. Le metro­poli sono diven­tate un ate­lier pro­dut­tivo che ingloba il ter­ri­to­rio all’interno di un pro­cesso che vede la com­pre­senza di finanza, pro­du­zione e coo­pe­ra­zione sociale, dove la città deve con­ti­nuare ad essere la media­zione delle media­zioni.

C’è chi ha scritto (Mike Davis) di metro­poli che vedono quar­tieri recin­tati dove la sovra­nità dello stato si ferma ai can­celli delle gated com­mu­nity, spin­gen­dosi a decre­tare la morte della città, ridotta ormai a una som­ma­to­ria di slums dove il 99 per cento della popo­la­zione è sus­sunta den­tro logi­che pro­dut­tive che asse­gnano all’economia infor­male di sus­si­stenza una fun­zione di soft gover­nance della coo­pe­ra­zione sociale.
C’è inol­tre da regi­strare la pre­gnante ana­lisi di Saskia Sas­sen, che ha fatto delle «città glo­bali» il punto di par­tenza per un’analisi della glo­ba­liz­za­zione libe­ri­sta che vede nelle metro­poli mani­fe­starsi una sovra­nità sovra­na­zio­nale che pla­sma a sua imma­gine e somi­glianza il rap­porto tra potere ese­cu­tivo, legi­sla­tivo e giu­ri­dico. Segnali di una rap­pre­sen­ta­zione disto­pica della città sono venuti dalla nar­ra­tiva di genere (Wil­liam Gib­son, Bruce Ster­ling) che guarda alla metro­poli come un immane depo­sito di segni e infor­ma­zioni pie­gate a una logica del con­trollo sociale che non con­sente nes­suna via di fuga.

I nuovi comunardi

Si deve però a David Har­vey la ripresa delle tesi di Henri Lefeb­vre. Anzi si può dire che il filo­sofo fran­cese ha fun­zio­nato come un invi­si­bile filo rosso che tiene insieme l’analisi cri­tica del capi­ta­li­smo svolta da Har­vey sul capi­ta­li­smo del nuovo mil­len­nio, lad­dove indi­vi­dua nella città il luogo dove l’intreccio ormai ine­stri­ca­bile tra finanza e pro­du­zione sono fun­zio­nali a un uso capi­ta­li­stico del ter­ri­to­rio.

Ciò che per il filo­sofo fran­cese era una esile ten­denza, la tra­sfor­ma­zione della metro­poli in un ate­lier pro­dut­tivo è diven­tata una realtà acqui­sita. Per que­sto sulla città si adden­sano, tanto nel Sud che nel Nord del pia­neta, stra­te­gie di gover­nance e pro­getti di par­chi tec­no­lo­gici, di distretti uni­ver­si­tari che favo­ri­scano pro­cessi di inno­va­zione sociale e pro­dut­tiva. La metro­poli deve essere cioè uno spa­zio dove il sapere sans phrase è forza pro­dut­tiva. E che per que­sto, devono essere defi­niti mec­ca­ni­smi di inclu­sione sociale dif­fe­ren­ziata in base al lavoro svolto, il colore della pelle e il genere ses­suale di appar­te­nenza.
La città diviene così il luogo dove agi­sce una com­po­si­zione sociale che eccede la figura dell’operaio di fab­brica, come invece soste­neva Lefeb­vre. E se per il filo­sofo fran­cese il diritto alla città era una con­di­zione neces­sa­ria per non soc­com­bere a una per­va­siva e alie­nante pro­du­zione di segni, per il pre­sente è da con­si­de­rare un vet­tore per l’azione poli­tica di figure pro­dut­tive sem­pre sul con­fine che separa il lavoro dal non lavoro, tra tempo di lavoro e tempo di vita, sia che si tratti di pre­cari dei fast-food, di kno­w­ledge wor­kers, di migranti o «indi­geni». Ciò che per Lefeb­vre era solo un mirag­gio, il diritto alla città, è da con­si­de­rare l’orizzonte ine­lu­di­bile di un’attitudine «comu­narda» per la riap­pro­pria­zione della ric­chezza prodotta.

eddyburg riprendo un intervento che scrissi per un'iniziativa dell'Università di Reggio Calabria, e fu pubblicato sul numero monografico della rivista trimestrale del Laboratorio Cinema-Città dedicato a Francesco Rosi. In calce una scheda e l’audio della scena principale del film.

E’ facile dire che Le mani sulla città è una lezione di urbanistica. Lo è in modo così evidente!
Certo, non è una lezione sulla tecnica dell’urbanistica, non spiega la cultura del piano regolatore né il procedimento della sua formazione, non affronta il tema delle analisi né quello del disegno del piano, non svela gli arcani della disciplina. E’ una lezione che molti professori d’oggi criticherebbero senza perdere troppo tempo nelle argomentazioni.

Ma è una lezione essenziale: perché racconta la sostanza del piano. Svela “di che lagrime grondi e di che sangue” il tentativo, che nella pianificazione perennemente si compie, di “temprare lo scettro ai reggitori”, di ridurre il peso dei padroni della città, di far sì che la città non sia una macchina per accumulare ricchezze private di un pugno di proprietari immobiliari, ma la casa di una società di uomini, donne, bambini.

E dimostra come il piano urbanistico sia il risultato di una scelta politica. Non a caso, il protagonista del film, l’antagonista dello speculatore Nottola (splendidamente interpretato da Rod Steiger), è il consigliere comunale comunista che, esprimendo i bisogni e gli interessi, magari inconsapevoli, dei cittadini si oppone all’intreccio, sempre perverso, tra la proprietà immobiliare e i governanti servizievoli verso i poteri economici forti.

È una lezione anche per oggi. E fa riflettere il fatto che il protagonista, l’eroe positivo del film, Rosi lo abbia potuto scegliere in una persona che ha svolto nella realtà il medesimo ruolo che svolge sullo schermo. Era un comunista del PCI, Carlo Fermariello. È stato facile allora, per Rosi, scegliere come attore un uomo che poteva essere assunto a simbolo: non solo per la sua persona, ma per la forza politica che rappresentava. E ripensare al film di Rosi fa nascere il desiderio di ricordare e ringraziare, per la realtà che quel film esprime, il Partito comunista italiano di quegli anni.

Molti anni sono passati. Grazie anche agli uomini e ai partiti che allora combattevano contro chi metteva “le mani sulla città” oggi le cose sono un po’ migliori. Ma è segno dei tempi che oggi non ci siano forze politiche come quelle che allora si adoperavano per un’urbanistica riformata e, nel frattempo, là dove potevano amministrare, applicavano le regole del buongoverno.

Venezia, 8 novembre 2003

Appendice
dal sito www.filosofia.unina.it

La questione meridionale è un argomento che affonda le sue radici nella storia del paese, ma è anche una materia profondamente attuale dal cui nucleo continuano a sorgere nuove e vecchie problematiche. Per il progetto è stato selezionato uno spezzone audio tratto da "le mani sulla città", come esempio cinematografico in cui la realtà del meridione viene rappresentata nella sua integrità, senza mistificazioni.

"I personaggi e i fatti sono immaginari, autentica è invece la realtà che li produce". Con questa didascalia (che accompagna le immagini iniziali del film) la sapiente regia di F.Rosi ci introduce nella Napoli della fine degli anni '50 descrivendo, sullo sfondo di una città da ricostruire, le vicende immaginarie ma verosimili di un consigliere comunale di ideologia comunista (De Vita) e di uno spietato impresario edile (Nottola), in lizza per diventare assessore e bramoso di grandi speculazioni.

L'ambientazione riproduce il clima di quegli anni, le tensioni e le lotte politiche tra una classe dirigente, irrimediabilmente compromessa con il potere economico, i cui interessi sono in contrasto con il bene pubblico, e l'opposizione, animata da passione politica e civile, la quale denuncia i crimini compiuti ai danni della collettività.

Nello spezzone selezionato abbiamo l'incontro-scontro tra le due figure centrali del film, il cui pensiero e la cui individualità vengono obiettivamente colte dalla camera. Da una parte, abbiamo il costruttore Nottola che, sullo sfondo di una città ridotta in macerie, vanta l'ambizione di un ammodernamento della città e dice che costruire nuovi palazzi porterà una speranza alle persone che vivono in condizioni di indigenza e miseria, ma in realtà nasconde solo la brama di successo e ricchezza personali. Dall'altra, abbiamo la figura del consigliere De Vita che si staglia nella sua purezza, sullo sfondo di una candida parete bianca e lancia il suo grido di condanna contro l'ipocrisia di Nottola e di chi come lui rappresenta la parte marcia della politica e auspica l'avvento di un cambiamento rigeneratore per le sorti della città.

Audio
Scarica il plug in

Scheda tecnica del film:
Francesco Rosi "
Le mani sulla città" (Italia, 1963, b/n - 105')
Sceneggiatura: F. Rosi, R. La Capria, Enzo Provenzale, ed E. Forcella.
Con Rod Steiger, Salvo Randone, Guido Alberti, Angelo d'Alessandro, Carlo Fermariello, Marcello Cannavale

Tratto da http://www.filosofia.unina.it/corsoperf/corsoperf01/qmfad/QPol_eco/lemani.html

Artribune, 16 settembre 2014, con postilla
Era un privilegio assistere ad una lezione di BernardoSecchi (1934-2014). Secchi scolpiva le sue lezioni e poi lesmerigliava con una pasta fatta di deduzioni logiche e per ultimo lelevigava con dosatissimi ammiccamenti che non scendevano mai nellaconfidenzialità a ribasso. Secchi possedeva anche quella leggerasprezzatura vanitosa senza la quale non può esistere il granderetore. Le sue argomentazioni erano un sapiente bilanciamento tra lasequenza logica dell’illuminismo padano e le iperboli ellittichedei filosofi francesi.

Sentendolo con attenzione si capiva la sua duttile retorica:quando la concatenazione logica illuminista diventava troppo serratae quindi sul punto di gripparsi, Secchi la ribaltava con ilrelativismo dei vari Foucault o Deleuze, e quando questo relativismoera sul punto di evaporare nelle sue stesse circonvoluzioni, allorafluidamente tornava al razionalismo riduzionista. Non si poteva nonrimanere affascinati da come Secchi gestiva questo pendolo retoricoche ipnotizzava.

La vera seduzione si attua nei confronti di coloro i quali lapensano diversamente. Per quel che mi riguarda, non amo il pensierorelativista dei francesi e considero il principio secondo il qualeesistono solo interpretazioni persino pernicioso. Per di più detestoquella città diffusa su cui si è fondata da decenni la peraltroacuta analisi di Bernardo Secchi e considero i cosiddetti “pianidi terza generazione”, propagandati dagli Anni Ottanta daSecchi nei suoi editoriali su Casabella, molto menoacuti di quanto si sarebbe potuto supporre. In definitiva consideroche il pensiero debole alla Vattimo di cui si è nutrital’urbanistica di Secchi abbia prodotto un’urbanistica un po’troppo debole, troppo in libertà vigilata rispetto allafenomenologia.

Eppure le lezioni di Bernardo Secchi erano uno spettacolocatturante: tornivano anche chi come me afferiva a un altro mondo e ti tornivano perché raccontavano di una cultura alta e chiara,persino accessibile: una cultura alla quale dagli Anni Settanta erasubentrata una cultura di segno opposto: bassa e confusa, pop mainaccessibile nelle sue finalità.

Secchi aveva stile. Non credo che avrebbe amato questa miaaffermazione idealista, ma per me Bernardo Secchi era un magisterelegantiarum. Il suo stile era sobrio, velatamente scettico,intriso da un senso del decoro mai ostentato ma mai celato, qualitàqueste che gli permettevano di vedere le cose a volo d’uccello. Edè proprio questa capacità di vedere le cose a volo d’uccello, divedere l’architettura come parte di un contesto sempre più ampio,ciò che Secchi lascia all’architettura italiana.

Penso che Secchi e con lui Paola Viganò abbianoinfluenzato notevolmente lo stile dell’architettura italiana degliultimi anni. Sono stati artefici di un processo di avvicinamentodell’architettura all’urbanistica e dell’urbanisticaall’architettura senza il quale oggi non avremmo le architetturedi Cino Zucchi o di Stefano Boeri o l’azionecritica di Mirko Zardini o di studicome +Arch, Metrogramma e Barreca e Lavarra.Nonè poco per un urbanista influenzare l’architettura. Forse è ilmassimo a cui egli possa aspirare.

postilla

L’intelligenza di Bernardo Secchi e il ruolo che ha svoltonell’urbanistica e nella società italiane non consentono, nelricordarlo, di limitarsi all’agiografia. Significherebbe tradireuna parte rilevante del suo lascito, che è lo stimolo continuo aesercitare lo spirito critico. Un ritratto di un personaggio tale dameritare un ritratto non può essere fatto solo di luci: anche leombre devono essere tracciate. Questo di Mosco è il primo scritto(tra quelli che ho letto) che comincia a lavorare su un ritratto chesi avvicina al vero. Personalmente ne condivido la maggior parte,sebbene nel loro insieme mi sembra che manchino molte delle luci chenel suo lavoro mi sembrano balenare.
Il punto sul quale nonconcordo con Mosco è sulla questione del rapporto tra urbanistica earchitettura. Mosco scrive «non è poco per un urbanista influenzarel’architettura. Forse è il massimo a cui egli possa aspirare». Iopenso che ciò al quale l’urbanista deve aspirare è influenzare lasocietà. E penso che se l’urbanista deve porsi (come deve) anche l’aspirazione a “influenzare l’architettura” devefarlo assumendo un compito riassumibile nel titolo delle lezioni diCarlo Melograni: “progettare per chi va in tram”. (e.s.)




Agenparl, 16 settembre 2014
Scompare un grande analista della realtà urbana contemporanea
di Giovanni Caudo


La scomparsa di Bernardo Secchici porta via un grande analista e conoscitore della condizione urbanacontemporanea. Un docente che ha saputo costruire una scuola e che ha ottenutoimportanti riconoscimenti nel mondo. Secchi è stato l’unico italiano inseritonella prestigiosa commissione internazionale costituita dal presidente Sarkozy per il progetto Grand Paris 2050”. E’ quanto dichiara l’Assessore allaTrasformazione Urbana di Roma Capitale Giovanni Caudo. “Recentissime eranole sue ricerche che parlano di piani per le città a basso consumo energetico inscenari “no car” (Bruxelles 2040) – ha aggiunto Caudo – con areemetropolitane sempre più attraversate dal trasporto pubblico, da piste ciclabili,percorsi pedonali piuttosto che da automobili”. L’Assessore allaTrasformazione Urbana di Roma Capitale, Giovanni Caudo lo ricorda, inoltre,nella sua veste di docente di urbanistica “per il suo saper narrare ai giovanistudenti la condizione urbana contemporanea e per la sua eredità, dicinquant’anni di lavoro, che resterà nei suoi scritti e nell’impronta che seppedare alla direzione di Urbanistica”.

Abitare, 16 settembre 2014
Addio a Bernardo Secchi
di Stefano Boeri

Ho saputo che poche ore fa è morto Bernardo Secchi dopo una brevemalattia.
 Sono passate solo alcune settimane da quando tutti insieme loabbiamo festeggiato in Triennale per il suo 80° compleanno. È stata una serataspeciale, un momento di confronto attraverso una conversazione che ha tenutocon Arnaldo Bagnasco e Salvatore Veca su La città dei ricchi e la città deipoveri, il suo ultimo libro. Ma è stata anche un’occasione di riflessioneosservando i tanti allievi che si erano radunati intorno al vecchio maestro;allievi diversi per età e soprattutto per cultura, per formazione, per sceltedi vita. 
Mi sono chiesto più volte le ragioni di questa diversità.

La risposta è semplice: i veri Maestri non costruiscono repliche di séstessi; insegnano un metodo – del tutto particolare – per aiutare ciascuno avalorizzare le proprie propensioni e le proprie passioni intellettuali.
 Questoha fatto con tutti noi Bernardo Secchi. Ci ha trasmesso una rete di concetti,una serie di strumenti per costruirci la nostra prospettiva sul mondo. Non ciha dato soluzioni, non ha costruito teorie chiuse. Ci ha lasciato dubbi eaperto nuovi scorci sul mondo. È il regalo più grande che poteva farci. Unpatrimonio che ora in tanti condividiamo e continuiamo a trasmettere ad altri.Anche per questo, grazie Bernardo.

Il Corriere della Sera, 16 settembre 2014
Bernardo Secchi, la città come territorio di integrazioni
di Pierluigi Panza

«Io sostengo che l’urbanistica abbia forti e precise responsabilità nell’aggravarsi delle disuguaglianze e che il progetto della città debba essere uno dei punti di partenza di ogni politica tesa alla loro eliminazione o contrasto». Questo ultimo messaggio, contenuto in La citta dei ricchi e la città dei poveri, è un po’ l’eredità dell’urbanista Bernardo Secchi, scomparso ieri. «Le disuguaglianze sociali - diceva - sono uno dei più rilevanti aspetti della nuova questione urbana e questa è una causa non secondaria della crisi che oggi attraversano le principali economie del pianeta».
Professore emerito di Urbanistica allo Iuav di Venezia, Secchi si era laureato a Milano dove era stato preside della Facoltà di Architettura del Politecnico dal 1976 al 1982. Aveva insegnato anche nell’École d’Architecture di Ginevra, nell’Università di Lovanio, Rennes, di Zurigo e nell’Institut d’Urbanisme di Parigi.
Architetto colto e studioso anche di filosofia, negli anni Ottanta formò con Vittorio Gregotti e Manfredo Tafuri una triade che segnò l’insegnamento a Venezia. Partecipò alla redazione del nuovo piano regolatore generale di Madrid e a quelli di alcune città italiane, da quello della Bicocca a Milano a quello di Civitanova Marche. Progettò la piazza del teatro e il parco di Spoor Noord ad Anversa, gli spazi pubblici nel centro di Mechelen e il centro educativo di Hoge Rielen. Nel 2008 divenne capogruppo, insieme a Paola Viganò, di una delle dieci équipe selezionate dal Ministero della cultura francese (gli era stata conferita anche la Légion d’honneur) per studiare il futuro di Parigi, incarico al quale seguirono quelli per Bruxelles 2040 e per la Nuova Mosca. Fondatore di «Archivio di Studi Urbani e Regionali», Secchi collaborò con «Casabella» e diresse «Urbanistica».
Città diffusa e architettura come somma di differenze erano sue parole chiave. La tesi di fondo di Secchi era che ogni volta che la struttura dell’economia e della società cambiava anche la questione urbana andava riformulata. E oggi l’idea di città andava riformulata a partire dalle forme di ingiustizia spaziale causate dalle disuguaglianze sociali, dai temi connessi al cambiamento climatico e dai problemi legati alla mobilità. Sostenitore, a tratti ideologico, del multiculturalismo, insegnava che nelle culture occidentali la città era sempre stata spazio dell’integrazione sociale, luogo dove i diversi entravano in contatto e si conoscevano.
Anche a causa dell’estremizzarsi di queste posizioni, alcune sue dichiarazioni suscitarono polemiche, come quando a Prato sostenne la validità della trasformazione socio-urbanistica avviata dalle comunità cinesi. O come quando sostenne la bontà di collocare nel territorio altissime pale eoliche perché non solo non rovinano un paesaggio, ma sono stilisticamente perfette.
Fondatore del primo dottorato di urbanistica a Venezia, è stato «maestro» di molti attuali docenti e di diversi assessori. A Milano l’ultimo intervento pubblico è stato nell’aprile scorso, alla Triennale, con Arnaldo Bagnasco e Salvatore Veca per suoi 80 anni.

Fra le sue pubblicazioni (anche tradotte) ricordiamo Squilibri regionali e sviluppo economico (Marsilio, 1974), Il racconto urbanistico (Einaudi, 1984), Un progetto per l’urbanistica (Einaudi, 1988) e Prima lezione di urbanistica (Laterza, 2000).

La Repubblica, 17 settembre 2014
Bernardo Secchi l’urbanistica come letteratura
di Francesco Erbani

Qualche tempo fa – l’ha raccontato lui stesso durante una conferenza – Bernardo Secchi ha tenuto un breve corso di urbanistica a Venezia. Cinque i libri in bibliografia («libri di urbanistica», specificava): L’isola del tesoro, «perché le carte dicono sempre le bugie», Moby Dick, «perché la nostra è una ricerca continua di cui possiamo anche restar vittime», I viaggi di Gulliver , «perché dobbiamo sempre aver chiaro il senso delle scale alle quali lavoriamo», Robinson Crusoe , «perché il futuro lo costruiamo quotidianamente», e Don Chisciotte, «perché oltre al buonsenso e al realismo di Sancho Panza, c’è la ricerca dell’utopia, la sola cosa che nella vita ci può motivare».
Bernardo Secchi è morto lunedì a 80 anni. Era uno dei maestri dell’urbanistica italiana, maestro nel dialogo fra discipline – fra le quali la letteratura, la filosofia – che convergevano a riflettere sul modo migliore di disegnare, in tutto o in parte, l’assetto di una città e di un territorio. Uomo profondamente colto, Secchi era maestro anche nel senso proprio, avendo costruito negli anni una scuola e impresso una specie di segno di riconoscimento ai suoi allievi. Era laureato in ingegneria, aveva insegnato a Milano e a Venezia e poi a Ginevra, a Lovanio, a Zurigo e tenuto corsi ad Harvard. Ha realizzato piani regolatori in molte città italiane (Prato, Siena, Ascoli, Bergamo, Pescara...). Ha lavorato ad Anversa. Nel 2008, insieme a Paola Viganò, ha fatto parte del gruppo di professionisti chiamati da Sarkozy per la “Grande Parigi”: la sua idea era condensata nel titolo del progetto, “La città porosa”, che richiamava l’immagine di un luogo permeabile e accessibile a tutti, la principale condizione – diceva – perché si possa garantire a ognuno il diritto di cittadinanza.
L’esperienza parigina aveva prodotto una carta in cui si individuavano i tanti dispositivi infrastrutturali o architettonici che accentuavano le disuguaglianze. L’urbanistica, spiegava Secchi, non può sconfiggere la povertà, ma può evitare di accrescerla, scongiurando il formarsi di enclave dove questa si concentra e rendendo la città, appunto, accessibile a tutti. Lo scorso anno Secchi ha scritto La città dei ricchi e la città dei poveri ( Laterza), un libro in cui si dicono molte cose di sinistra. La città, si legge, è stata dagli albori della civiltà urbana, lo spazio dell’integrazione sociale e culturale.
Negli ultimi decenni del ventesimo secolo, però, è sorta una nuova, insidiosa questione urbana: la città è diventata «potente macchina di sospensione dei diritti dei singoli e dei loro insiemi». Una potente macchina che si immaginava regolata dal mercato e che ha invece aumentato le disuguaglianze. Fattore d’integrazione è un buon sistema di trasporti, ma non quello che è nella mente di molta ingegneria e di molta politica – le Grandi Opere: autostrade, autostrade urbane, metropolitane, treni veloci – bensì le “spugne”, una rete capillare che irriga la città e consente davvero a chiunque di muoversi in tutte le direzioni.
Fattore d’integrazione, insisteva Secchi, è lo spazio aperto che è prodotto di buona architettura e non d’ingegneria stradale. Le sue esperienze culturali e di insegnamento (curato negli ultimi anni con singolare generosità) sono troppo vaste per essere anche solo brevemente sintetizzate. Molti evidenzieranno la lettura attenta, analitica dei processi che investono la città contemporanea. Altri i suoi studi, anche controversi e fonte di discussioni, sui tessuti urbani da ricucire, sulla città diffusa, sulla dispersione abitativa o sui limiti di un’architettura che cerca esasperatamente le differenze, il brand e che esalta la frammentazione della città. E appena si può accennare alla lista dei suoi compagni di lavoro e di università – Vittorio Gregotti, Francesco Indovina, Paolo Ceccarelli...

Il manifesto, 30 marzo 2014

I com­pleanni di Pie­tro Ingrao sono sem­pre occa­sione di rifles­sione sulla sua bio­gra­fia e sul suo pen­siero poli­tico. Quest’anno, com­pleanno numero 99 il 30 marzo, si è deciso di pro­muo­vere alcune ini­zia­tive nei luo­ghi della for­ma­zione del gio­vane Pie­tro: Lenola, città nativa; For­mia, dove fre­quentò il Liceo clas­sico Vitru­vio e sco­prì l’antifascismo degli inse­gnanti Gioac­chino Gesmundo e Pilo Arbe­telli uccisi alle Fosse Ardea­tine; Fondi (i primi rap­porti con alcuni intel­let­tuali); Roc­ca­gorga (si occupò della costru­zione di una Casa del popolo negli anni cin­quanta); Gaeta (le vacanze al mare, i ricordi di gio­ventù). Su que­sti luo­ghi molto amati dal festeg­giato scrive lo stesso Ingrao nei primi capi­toli dell’autobiografia (Volevo la luna, Einaudi, 2006) ricor­dando radici mai recise.

In qual­che occa­sione l’ex pre­si­dente della Camera, scher­nen­dosi, ci ha tenuto a sot­to­li­neare la sua for­ma­zione “pro­vin­ciale” indi­can­dola come un limite. In effetti, è arduo dire cosa sia l’«ingraismo» e a quali rife­ri­menti cul­tu­rali fac­cia rife­ri­mento (i con­ve­gni di que­ste set­ti­mane potreb­bero aggiun­gere ele­menti utili a capire).

Il fascino della per­so­na­lità di Ingrao – altro che pro­vin­cia­li­smo – sta nella sete di cono­scere, capire, appro­fon­dire senza arren­dersi a una visione acco­mo­dante e tec­ni­ci­stica della poli­tica. Per lui, quest’ultima non può pri­varsi di una dose di crea­ti­vità e uto­pia per ridi­se­gnare assetti sociali e ine­diti valori (basti ricor­dare la rifles­sione ingra­iana sui «nuovi beni» che pre­cede la vul­gata sui «beni comuni»). Da qui prende le mosse l’ingraismo, spe­ci­fica variante del comu­ni­smo italiano.

L’Ingrao poli­tico è stato spesso defi­nito uto­pi­sta e visio­na­rio per­ché la poli­tica resta per lui ten­sione morale e pro­getto, oltre che comu­ni­ca­zione con gli altri e un po’ pro­fe­zia del tempo futuro: non solo tec­nica o ammi­ni­stra­zione dell’esistente. Que­ste pecu­lia­rità ingra­iane non pia­ce­vano ai suoi «nemici» nel par­tito, a ini­ziare da Gior­gio Amen­dola fino ai «miglio­ri­sti» della cor­rente di Gior­gio Napo­li­tano. Resta tut­ta­via un mistero spie­garsi le ori­gini del pen­sare l’agire poli­tico così par­ti­co­lare da parte di un intel­let­tuale di Lenola, pro­fonda pro­vin­cia ita­liana, con scarsa cono­scenza della realtà inter­na­zio­nale, che in gio­ventù aveva una forte voca­zione per cinema e poe­sia.

Lo stesso Ingrao ha più volte ricor­dato come siano stati gli eventi tra­gici del Nove­cento (il fasci­smo, la guerra civile spa­gnola, la seconda guerra mon­diale) a sospin­gerlo oltre l’intimismo intel­let­tuale che avrebbe pre­fe­rito rispetto a un eccesso di vita pub­blica. Ingrao appar­tiene alla gene­ra­zione che è stata “costretta” a fare poli­tica. Del fascino gio­va­nile per la parola faranno fede pun­ti­glio­sità e per­fe­zio­ni­smo che sono restati al poli­tico negli scritti e nelle interviste.

Dopo la morte di Pal­miro Togliatti nel 1964, Ingrao ini­zia a par­lare insieme ad altri di «nuovo modello di svi­luppo» per supe­rare l’orizzonte della «demo­cra­zia pro­gres­siva» che non poteva por­tare il Pci al governo causa con­ven­tio ad exclu­den­dum. A spin­gerlo in quella dire­zione può essere stata la pro­fonda cono­scenza della società agri­cola (tor­nano le radici di Lenola e din­torni) che si andava tra­sfor­mando in realtà mar­gi­nale nell’Italia che diven­tava società pre­va­len­te­mente indu­striale. Il nome di Ingrao – inno­va­tore per eccel­lenza, con­ser­va­tore solo quando si trattò di scio­gliere il Pci – è spesso legato all’analisi pun­tuale delle tra­sfor­ma­zioni del capi­ta­li­smo ita­liano, alla sol­le­ci­ta­zione della demo­cra­zia par­te­ci­pa­tiva, allo stu­dio siste­ma­tico del potere decen­trato degli enti locali, alla riforma delle isti­tu­zioni e – negli anni Ottanta – alla crisi degli stati nazione e all’affacciarsi sulla scena dell’Europa poli­tica come ipo­tesi (Masse e potere del 1977, la con­ver­sa­zione con Romano Ledda Crisi e terza via del 1978, Tra­di­zione e pro­getto del 1982 sono libri che trac­ciano un per­corso). Il Crs da lui pre­sie­duto prima e dopo l’incarico di pre­si­dente della camera (1976–1979) è stato inol­tre fucina di discus­sioni, ricer­che e for­ma­zione di varie gene­ra­zioni di studiosi.

Chi ha amato da gio­vane cinema e poe­sia prima di diven­tare uno dei mas­simi diri­genti del Pci, deve aver guar­dato al fare poli­tica in modo tota­liz­zante come un limite, pur accen­tan­done la disci­plina (la «ragione di par­tito»). E deve aver con­ser­vato la curio­sità intel­let­tuale per altre forme di pen­siero e di lin­guaggi che non fos­sero la poli­tica. Nono­stante la lau­rea in giu­ri­spru­denza, che gli tor­nerà utile quando diri­gerà il Cen­tro riforma dello Stato (Crs) a ini­ziare dal 1975 e si occu­perà di decen­tra­mento e forme della demo­cra­zia, nel pen­siero di Ingrao è più il pro­getto che la norma la prin­ci­pale preoccupazione.

Con la forza delle idee, ha lasciato un’impronta sulle discus­sioni più vitali degli ultimi cinquant’anni della sini­stra ita­liana. Forse è stata la for­ma­zione cul­tu­rale fatta di approcci plu­rali e non orto­dos­sa­mente mar­xi­sta a favo­rire la ricerca imper­niata sul moni­to­rag­gio di cul­ture – com­presa quella cat­to­lica – e movi­menti che chie­de­vano al Pci di rin­no­varsi e di stare al passo coi tempi. È stato ad esem­pio pro­prio Ingrao, con il Crs, a pro­muo­vere i primi con­ve­gni sulla sini­stra euro­pea e il pos­si­bile destino dell’Europa. Ne sono la riprova gli Annali di poli­tica euro­pea pub­bli­cati dal Crs dal 1988 al 1993 insieme al con­ve­gno sul «caso sve­dese» pro­mosso addi­rit­tura nel 1983 in cui si discusse delle con­qui­ste social­de­mo­cra­ti­che del wel­fare di Stoccolma.

L’Ingrao stu­dioso e inno­va­tore non può quindi essere sepa­rato dall’Ingrao diri­gente di primo piano del Pci. Quello che ha diretto l’Unità per dieci anni (1947–1957), che nel 1966, all’XI Con­gresso del Pci (il primo dopo la morte di Togliatti), pose il pro­blema del plu­ra­li­smo interno e della liceità del dis­senso legan­dolo a un’altra let­tura delle moder­niz­za­zioni che attra­ver­sa­vano l’Italia (il suo applau­di­tis­simo inter­vento è pas­sato alla sto­ria per quel «non mi avete con­vinto», con­tiene però una vera e pro­pria ana­lisi alter­na­tiva a quella impe­rante in que­gli anni nel par­tito e andrebbe riletto in quella chiave). È stato pre­si­dente del Gruppo del Pci per due legi­sla­ture (1964–1972), prima di salire sullo scranno più alto di Montecitorio.

Nac­quero a ini­ziare dagli anni Ses­santa varie gene­ra­zioni di «ingra­iani», alcuni della prima die­dero vita a il mani­fe­sto e si sepa­ra­rono dall’antico mae­stro rima­sto fedele al par­tito (il «gorgo», dirà oltre trent’anni dopo in un semi­na­rio ad Arco della sini­stra comu­ni­sta interna ed esterna al Pci che si poneva il pro­blema di cosa fare dopo la «svolta» di Achille Occhetto). Una fedeltà riba­dita al par­tito fino al 1993, quando decise di abban­do­nare il Pds. Prima ancora c’era stato il rifiuto a ripe­tere l’esperienza di pre­si­dente della camera (Ingrao disse no alla pro­po­sta fat­ta­gli da Enrico Ber­lin­guer) per­ché aveva voglia di tor­nare a stu­diare immer­gen­dosi nell’attività di ricerca del Crs. I limiti dell’Ingrao poli­tico sono l’altra fac­cia delle spe­ci­fi­cità dell’Ingrao intel­let­tuale che abbiamo ricor­dato fin qui. Non è mai stato un poli­tico puro, forse ha perso alcune occa­sioni per ren­dere più inci­siva la sua azione nel Pci.

Nell’ultimo ven­ten­nio Ingrao non ha mai smesso di pen­sare, scri­vere, par­lare, par­te­ci­pare alle mani­fe­sta­zioni con­tro la guerra in Kosovo, Afgha­ni­stan, Iraq. È sem­pre stato un punto di rife­ri­mento per la sini­stra critica.

Negli anni Novanta ha pro­vato a ricon­giun­gersi con il mani­fe­sto, par­te­ci­pando prima all’esperienza del Cer­chio qua­drato (inserto set­ti­ma­nale curato da Ida Domi­ni­janni) e poi alla seconda serie della rivi­sta men­sile diretta da Lucio Magri. Del resto, tra le sue auto­cri­ti­che c’è sem­pre stata quella di non essersi oppo­sto nel 1969 alle radia­zioni dal Pci di Luigi Pin­tor, Ros­sana Ros­sanda, Aldo Natoli, Luciana Castel­lina, Valen­tino Par­lato, Lucio Magri, Eli­seo Milani, Filippo Maone e tanti altri. Con Ros­sanda ha scritto nel 1995 il libro Appun­ta­menti di fine secolo segna­lando la quan­tità di pro­blemi irri­solti che il Nove­cento con­se­gnava al secolo nuovo.

A ini­ziare dal 1986, sen­ten­dosi chissà libero dal ruolo di diri­gente di par­tito, Ingrao pub­blica final­mente i suoi libri in versi. Si ripe­terà quando la scom­parsa del Pci gli porrà il pro­blema di usare un altro lin­guag­gio – più com­plesso e meno certo di quello della poli­tica – per capire le novità legate al crollo del Muro di Ber­lino. Il dub­bio dei vin­ci­tori (1986), L’alta feb­bre del fare (1994) e Varia­zioni serali (2000) sono le sue anto­lo­gie poe­ti­che. Nel primo volume Ingrao fa i conti con uto­pia, scon­fitta, e dub­bio. Nel secondo, le domande riguar­dano il «fare» come limite. Le poe­sie di Varia­zioni serali sono infine elo­gio dell’esi­tare. Se c’è un filo che lega que­sta ideale tri­lo­gia, va ricer­cato nella sot­to­li­nea­tura delle emo­zioni indi­vi­duali alla ricerca di senso: un’attenzione a temi che pur­troppo la poli­tica ignora. Il vec­chio Pie­tro ritorna attento come in gio­ventù ai segni seman­tici delle parole, ad ambi­guità e incom­piuto. Con que­sta scelta ci stu­piva ancora una volta come quando in una inter­vi­sta – già ultraot­tan­tenne – svelò l’interesse per la video­mu­sic che lega forme e ritmi diversi della comunicazione.

C’è un dolore in que­ste gior­nate di festa per il com­pleanno numero 99. È l’assenza di Laura Lom­bardo Radice (quest’anno avrebbe com­piuto 101 anni), la sua amata com­pa­gna, che un libro curato da Chiara Ingrao (Sol­tanto una vita, 2005) ci ha resti­tuito nella sua com­ples­sità bio­gra­fica. A fare com­pa­gnia a Pie­tro ci sono i figli Chiara, Renata, Guido, Bruna e Cele­ste, i nipoti e i pro­ni­poti. E ci sono i tanti che vogliono bene a Ingrao e pro­vano a ispi­rarsi a quel sin­go­lare metodo del pen­sare e fare che è l’«ingraismo».

eddyburg il 13 ottobre 2008

Carla Ravaioli, Ambiente e pace una sola rivoluzione. Disarmare l’Europa per salvare il futuro. Edizioni Punto Rosso, Milano 2008, p. 192, € 12

Forse è il momento, questo il titolo di un capitolo nell’ultima parte (la quinta) del libro (pp.170-172). Che è uscito a maggio, dunque è stato scritto nei mesi precedenti l’incontenibile crisi strutturale e non solo finanziaria in cui sarebbe precipitato il “sistema mondiale dell’economia moderna” (per dirla col titolo di un famoso testo di Immanuel Wallerstein di oltre trent’anni fa), ossia il capitalismo liberistico duro e irragionevole, il whirl capitalismstrangolatore del mondo. Sembrava già allora il momento “più propizio a un mutamento della politica mondiale” quando “a parlare di crisi… sono oramai i giornali di tutto il mondo” (p. 170).

La premonizione era presente da molti anni nel pensiero e nell’attività di Carla Ravaioli e degli studiosi che con lei guidano scientificamente e politicamente l’analisi critica del capitalismo individuando i punti d’attacco per ragionare di avvio a un possibile cambiamento. In un articolo dell’aprile 2005, Il giocattolo rotto (denominazione anche di un capitolo del saggio) Ravaioli smuoveva l’aria ferma e inquinata della politica riproponendo il wallersteiniano “bisogno di esplorare possibilità alternative” al mondo attuale. Non ci si può accontentare di aggiustare il giocattolo, invece si può credere, con Walden Bello, che una nuova economia mondiale deglobalizzata possa costituire il punto di partenza verso una trasformazione del mondo, una – pensavo e penso dinnanzi alla continuità della crisi e al fallimento del libero mercato – pura e semplice rivoluzione. Addirittura del 1966 è questa stupefacente intuizione di Kenneth Boulding (altro riferimento costante di Carla): “chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo oppure un economista”. C’è come un filo rosso che unisce i critici dello sviluppismo, una concezione cui soggiace anche il centrosinistra in Italia condividendo lo stupido ossimoro sviluppo sostenibile. Il biologo fisiologo biogeografo Jared Diamond avvisava che il nostro habitat è minacciato di distruzione ravvicinata, che stiamo perdendo irreversibilmente le nostre limitate risorse, che noi abitanti dei paesi ricchi siamo diventati sconsiderati e ignoranti consumatori, devastatori di beni. Nel suo libro dal titolo ben chiaro, Collasso. Come le società scelgono di morire o di vivere (orig. 2004), mostrava che è la decrescita a essere sostenibile, non lo sviluppo economico capitalistico visto in chiave di Pil, prodotto interno lordo onnicomprensivo, tra l’altro pena di morte per i popoli vittime dello scambio ineguale. E in un’intervista Diamond, al consueto avvertimento di economisti e politici d’ogni specie di non cadere nell’effetto Cassandra rivolgendosi alla gente, sbottava “ma vedete, in primo luogo Cassandra aveva ragione…”.

Il famoso rapporto di trentasei anni fa del System Dynamic Group MIT per il Club di Roma, ci ricorda Carla Ravaioli, con la titolazione italiana “I limiti dello sviluppo”, infedele traduzione probabilmente in… buona fede di “Limits to Growth” (crescita), avrebbe generato nel corso del tempo l’identificazione del termine “sviluppo”, originariamente pensato di certo come rafforzativo, con “crescita” e la “naturale interscambiabilità dei due vocaboli” (p.116). “Crescita” riguarda merci e reddito, “sviluppo” invece deve concernere beni sociali, diritti civili, alta scolarità e buona salute, libera informazione, parità dei sessi, rispetto e conservazione dell’ambiente naturale e antropico storico, insomma tutto quanto provvede a una vita personale e sociale volta alla umanizzazione delle risorse e, perché non dirlo, alla felicità. Nel lontano 1996 l’Onu stessa, attraverso l’Human Development Report si scagliava contro l’aberrazione del Pil calcolato mediante la crescita di prodotti insensati come l’inquinamento e i congegni per mitigarlo, la criminalità e la polizia per combatterla, gli incidenti d’auto e le relative riparazioni e nuovi acquisti, gli armamenti e, aggiungo con Carla, le relative guerre, lo scambio ineguale e la ricchezza come reddito dei già ricchi (cfr. p.117). Di qui la rivendicazione della decrescita da parte di numerosi studiosi fra i quali Ravaioli è protagonista della lotta culturale guidata da Serge Latouche, l’economista filosofo antropologo francese avversario dell’occidentalizzazione del pianeta e fautore della “decrescita conviviale”, che, non coincidente semplicemente con crescita negativa, vorrebbe chiamarsi a-crescita, anzi acrescita, ugualmente a come si definisce ateismo la scelta di chi è libero totalmente da fedi religiose. Così, diciamo, è vero e proprio teismo oscurantista il culto del dio Pil intriso di fanatismo, il calcolo falsificato del prodotto da accrescere ad ogni costo oltre i limiti della sopportabilità per la terra, la natura e noi stessi che apparteniamo a due storie interrelate, storia naturale e storia sociale.

Ecco, tutto il libro è percorso da una straordinaria tensione politica e morale che da una parte rende assai efficace il sentimento di “ rifiuto della società così come l’abbiamo fabbricata” (p.13), da un’altra parte, proponendo fonti cristalline anche da altri autori oltre quelli citati (Karl Polanyi, Marcel Maus, Ivan Illich…) costruisce una potente macchina da battaglia contro il neoliberismo e i suoi feticci, vorrei dire tout court contro il modello capitalistico mondiale, storico e attuale, distruttore della natura e dell’uomo stesso in mille maniere, per prima quella di promuovere ad arte contrapposizioni insanabili e infine le guerre come folle metodo risolutore. Di qui l’”idea shock”, enunciata all’inizio del libro e argomentata a fondo nell’ultima parte: collegare la necessità di fermare la crescita, di cominciare a ridurre il Pil mondiale (giacché “sviluppo” è da convertire in esclusivi termini sociali) alla smilitarizzazione unilaterale dell’Unione europea siccome la produzione di armi è una componente rilevante del prodotto.

Per rispondere alla domanda “da dove cominciare” per istituire un nuovo modello economico sociale pacifista e, dinnanzi alla rovina naturale e artificiale della terra, ambientalista, all’idea della smilitarizzazione si deve associare l’affermazione di una politica ecologica effettiva. Bisogna, per Carla Ravaioli, riconoscere due verità: la prima, la crisi ecologica è connessa alla forma-capitale, la seconda, la guerra è inseparabile dall’obbligo di crescita produttiva. Lo “sviluppo sostenibile” è fallito, idem il preteso ordine mondiale fondato sulla diseguaglianza e sulla guerra. In definitiva, “fallimento del capitalismo tutto intero, macchine e idee”.

Ambiente e pace una sola rivoluzione, non poteva essere più chiaro il titolo. Un futuro felice dell’uomo nega la forma capitalistica perché responsabile della devastazione del pianeta e della violenza che lo sovrasta. Allora, “la dimensione potenzialmente eversiva della crisi ecologica non potrebbe non emergere e farsi attiva quando fosse avviata, mediante una scelta di disarmo, un’opzione di non violenza: a indicare la necessità non solo di un diverso ordine economico-sociale, ma di un ethos culturale e morale diverso” (cfr. pp. 179-171).

mani­fe­sto del 4 feb­braio 2007 e ivi ripubblicato il 18 gennaio 2014. con postilla

Carla e Valen­tino, un’ecologista e un eco­no­mi­sta, hanno dispu­tato per anni sui pro­blemi cen­trali della vita. Discu­tendo anche molto ani­ma­ta­mente, come dimo­stra anche que­sto arti­colo. Dal quale emerge che è pos­si­bile agire, evi­tando di pro­durre merci inu­tili, tanto per comin­ciare. Poi sce­gliendo un piano che sap­pia unire gli sforzi di eco­no­mia ed eco­lo­gia sal­vando forse così l’ambiente.

[..]Valen­tino.. D’accordo, avete ragione. Però tra voi ambien­ta­li­sti c’è una com­po­nente di fon­da­men­ta­li­smo, che nuoce.
Carla. Con quello che sta suc­ce­dendo, ti sem­bra il caso di par­lare di fon­da­men­ta­li­smo?
V. Mi rife­ri­sco a quelli che mi annun­ciano di con­ti­nuo la fine del mondo. E se domando quando acca­drà, mi rispon­dono: tra 5.000 anni. E io dico: chi se ne frega.
C. Oggi nes­suno ti dirà nulla del genere. Il Wwf ha par­lato del 2050, data da cui comin­ce­remo a con­su­mare il Pia­neta, non più i suoi frutti. La Com­mis­sione Euro­pea pone i pros­simi cinquant’anni come lo spa­zio entro cui dovremo darci molto da fare per con­te­nere l’effetto serra, se no saranno guai tre­mendi…
V. Ma voglio insi­stere sui lati deboli dell’ecologismo. Anche tu, in un libro, scrivi di una mer­ci­fi­ca­zione dell’ecologia, attra­verso la pub­bli­cità o che altro…
C. Ma non vedo come que­sto possa appa­rire un lato debole dell’ecologismo. E’ invece la denun­cia di un feno­meno tipico dello stesso sistema che, facendo merce di ogni cosa, e mol­ti­pli­can­done all’infinito la pro­du­zione, crea lo squi­li­brio eco­lo­gico.
V. Cioè, l’economia capi­ta­li­stica rie­sce a inte­grare, a tra­sfor­mare in merce anche le vostre posi­zioni?
C. Accade, sì. Pensa al busi­ness verde che oggi tutti inse­guono furio­sa­mente… ti pare un fatto posi­tivo? Che riduca il rischio ambien­tale?
V. No.
C. Appunto. Io cito que­sto fatto per sot­to­li­neare la per­va­si­vità, l’onnipresenza, la capa­cità di rag­giun­gere ogni espres­sione della realtà che sono tipi­che del neo­li­be­ri­smo. Il con­su­mi­smo, una delle cause prime della crisi eco­lo­gica, nasce così, con una mani­po­la­zione con­ti­nua dei cervelli.
V. Avete un atteg­gia­mento strano. Lo trovo anche scor­rendo i tuoi scritti… L’economia, che era la radice del pro­gresso e del benes­sere, è diven­tata cat­tiva.
C. L’economia capi­ta­li­stica…
V. Voi enfa­tiz­zate in modo fon­da­men­ta­li­stico l’ idea che la distru­zione dell’ambiente dipende dal capi­ta­li­smo, dai mec­ca­ni­smi di accu­mu­la­zione.
C. Non c’è pro­prio biso­gno di enfa­tiz­zare. E’ l’accumulazione in sé che con­trad­dice la realtà natu­rale. Insomma, se vogliamo farci capire da chi ci legge, devi lasciarmi riba­dire i punti fon­da­men­tali del pro­blema. 1) Il nostro pia­neta è una quan­tità finita e non dila­ta­bile, inca­pace quindi di ali­men­tare un’economia in con­ti­nua cre­scita (ricor­dando che tutto quanto si pro­duce è «fatto» di natura, mine­rale, vege­tale, ani­male); 2) Ana­lo­ga­mente, il pia­neta non è in grado di assor­bire, meta­bo­liz­zare e neu­tra­liz­zare i rifiuti, solidi, liquidi, gas­sosi, deri­vanti da ogni tipo di pro­du­zione. I quali inqui­nano terra, acque, aria, cau­sando lo squi­li­brio dell’ecosfera.
V. Rifiuti che diven­tano un’altra base di spe­cu­la­zione capi­ta­li­stica…
C. Sì, ma è un aspetto minore, un «danno col­la­te­rale».
V. Sei tu che ne parli.
C. Certo, ma ne parlo in poche righe su un intero libro, nean­che tanto pic­colo. A me pare che tu, da sem­pre noto­ria­mente in posi­zione di dra­stico rifiuto verso l’ambientalismo, oggi che è ormai impos­si­bile negare l’esistenza del pro­blema, tendi a cogliere gli aspetti più discu­ti­bili della mili­tanza verde. Che esi­stono, come no, ma che inse­riti innan­zi­tutto nel discorso gene­rale acqui­stano un altro valore… Non è così che potrai negare o smi­nuire la gra­vità della crisi ecologica.

V. Secondo me l’ambientalismo attuale è roman­tico. Se dite che i gua­sti dell’ambiente sono cau­sati dal capi­ta­li­smo, dovete dire di con­se­guenza: il nemico prin­ci­pale da abbat­tere è il capitalismo.

C. Io lo dico. Anche in que­sti pochi scritti miei che hai scorso. Ma non solo io. Gran parte degli autori più qua­li­fi­cati che si occu­pano della mate­ria, da Gorz a Daly, a Martinez-Allier, a Gio­ve­nale, a Pas­set, a Foster, a Beck, a Cini, (per limi­tarmi a pochi nomi) accu­sano il capi­ta­li­smo. Ma anche chi non lo nomina diret­ta­mente, lo dice quando indica la cre­scita illi­mi­tata come respon­sa­bile del dis­se­sto eco­lo­gico. Certo, c’è anche un bel po’ di ambien­ta­li­sti che evi­tano con cura di accu­sare il capitalismo.
V. Io sono un vete­ro­co­mu­ni­sta, e quindi penso che per bloc­care il disa­stro del mondo ci vuole un potere.
C. Fac­cio fatica a seguirti su que­sta strada…
V. Insomma come lo bloc­chi il disa­stro del mondo?
C. Io credo che occorra una rot­tura cul­tu­rale, una discon­ti­nuità sto­rica. Il mondo cam­bia senza sosta. Le vec­chie rivo­lu­zioni non ser­vono più. Oggi biso­gne­rebbe libe­rare i cer­velli: il con­su­mi­smo è una delle peg­giori forme di cor­ru­zione men­tale, anzi esi­sten­ziale, oltre che una delle prime cause del gua­sto eco­lo­gico.
V. Il con­su­mi­smo non è colpa dei con­su­ma­tori, ma dei pro­dut­tori che spin­gono i con­su­ma­tori a con­su­mare.
C. Ma è quello che ho appena detto. E lo dico da una vita.
V. Allora, sic­come i pro­dut­tori sono forti, come ne abbatti il potere?
C. Prima di dare le rispo­ste (che io ovvia­mente non ho, che credo nes­suno oggi abbia) forse si dovrebbe cer­care di porre le domande giu­ste. Temo che quella che tu poni non lo sia. Il fatto è che fa rife­ri­mento ai modelli sto­rici delle sini­stre, che non ser­vono più. La sto­ria è una lunga serie di fatti che prima non c’erano stati. La Rivo­lu­zione Fran­cese, la Rivo­lu­zione Sovie­tica, sono stati eventi mai acca­duti prima. E se oggi l’intera comu­nità scien­ti­fica mon­diale chiede il taglio del 60% dei gas serra, que­sta è una rivo­lu­zione.
V. Allora anche Kyoto è stata una rivo­lu­zione …
C. Avrebbe potuto esserlo, ma la timi­dezza delle pro­po­ste, e soprat­tutto l’ostilità dei grandi poten­tati eco­no­mici, e la man­cata firma di nume­rosi stati, Usa in testa, l’hanno di fatto vani­fi­cata. E’ rima­sta però un pre­ciso ante­fatto per tutte le diret­tive a seguire. Ma, per­met­timi, provo a girare a te la domanda. Tu chi attac­che­re­sti? Dato e non con­cesso che in difesa dell’ambiente tu voglia abbat­tere que­sto potere, da dove comin­ce­re­sti?
V. Comin­ce­rei dagli oppressi. Un’organizzazione forte e anche vio­lenta degli oppressi, tale da imporre il suo potere. Per­ché com­bat­tere il con­su­mi­smo, signi­fica fron­teg­giare inte­ressi for­tis­simi, e ci vuole un forza enorme per vin­cerli.
C. Quali oppressi? Ce n’è di tanti tipi… Io pro­ve­rei a fare un altro discorso. Tra le sini­stre e l’ambientalismo, non’ c’è mai stato un fee­ling posi­tivo. Credo che sia stato un grave errore, delle sini­stre innan­zi­tutto, ma anche dei Verdi. Quando si litiga ognuno dà il peg­gio di sé. L’errore delle sini­stre è innan­zi­tutto aver tra­scu­rato il fatto che a pagare più pesan­te­mente i danni ambien­tali sono sem­pre i poveri. Sono gli ope­rai che lavo­rano su pro­cessi tos­sici e can­ce­ro­geni. I morti della Mon­te­di­son, di Seveso, di Boh­pal, te li ricordi? Sono quelli che non rie­scono a sal­varsi dalle allu­vioni, i ric­chi se le cavano sem­pre in qual­che modo… E i pro­fu­ghi da terre deser­ti­fi­cate, da laghi e fiumi senza più pesce, da paesi som­mersi nella costru­zione di cen­trali idroe­let­tri­che… Oggi si cal­co­lano sui 50 milioni i pro­fu­ghi ambien­tali. Tu parli di oppressi: non sono degli oppressi tutti que­sti?
V. Ma voi que­sto aspetto sociale lo met­tete poco in rilievo…
C. Io l’ho sem­pre detto. E scritto, anche sul mani­fe­sto. Ma le sini­stre sono rima­ste ferme a una miope difesa della fab­brica, anche inqui­nante, in nome dell’occupazione. Che è un pro­blema reale, chi lo nega, ma non can­cella la gra­vità del pro­blema eco­lo­gico, anche in rap­porto al benes­sere dei lavo­ra­tori.
V. E i verdi non hanno saputo fare altro che ridurre il discorso alle scem­piag­gini di un antin­du­stria­li­smo indi­scri­mi­nato. Gli ambien­ta­li­sti seri devono darsi da fare per supe­rare que­ste posi­zioni.
C. E le sini­stre devono capire che la cre­scita da loro invo­cata ogni tre parole non solo distrugge l’ambiente, ma non risolve nulla sul piano sociale. Negli ultimi decenni il pro­dotto ha con­ti­nuato a salire, ma sono aumen­tate, e for­te­mente, anche le disu­gua­glianze. Lo dicono tutti, per­sone al di là di ogni sospetto di estre­mi­smo, come Sti­glitz, Fitoussi, e Soros, per­fino Lut­wak… Allora per­ché pro­prio le sini­stre deb­bono inte­star­dirsi su que­sta strada?
V. Ma insomma per i poveri Cri­sti, che si fa? Chá­vez, ad esem­pio, è socia­li­sta, per prima cosa vuol dar da man­giare agli affa­mati, e che fa, aumenta lo sfrut­ta­mento del petro­lio, cerca di ven­derlo bene… E’ un cir­colo vizioso.
C. Usa gli stru­menti dispon­bili. Che altro può fare? Oggi tutti i mas­simi pro­blemi hanno assunto una dimen­sione sovra­na­zio­nale, che però con­di­ziona anche i sin­goli paesi. Sono pro­blemi che sol­tanto a livello sovra­na­zio­nale si potranno risol­vere, forse. E non dimen­ti­chiamo un altro fatto: La Fao, che non è un orga­ni­smo anti­si­stema, afferma che la pro­du­zione mon­diale di cibo baste­rebbe a sfa­mare tutti. Ma circa il 40% del cibo pro­dotto in Occi­dente viene distrutto. Per tenere alti i dazi, per difen­dere varie cate­go­rie di pro­dut­tori, ecc. Non si tratta dun­que di pro­durre di più, ma di distri­buire in modo meno ini­quo.
V. I verdi di distri­bu­zione non par­lano. Inol­tre la distri­bu­zione avviene in que­sto modo per­ché ci sono poteri forti inte­res­sati a que­sto. come fare senza abbat­tere quei poteri? Tra voi ambien­ta­li­sti, l’idea di abbat­tere un potere non c’è. Vogliamo costruire un potere con­trap­po­sto, vogliamo che insieme al pro­blema dello sfrut­ta­mento pro­le­ta­rio, tema fon­da­men­tale di tutti i vec­chi socia­li­smi, anche la distru­zione dell’ambiente diventi fon­da­men­tale per le sini­stre d’oggi. Quello che ci vor­rebbe è un nuovo comu­ni­smo. Resta però il fatto che se oggi, rebus sic stan­ti­bus, ridu­ciamo la pro­du­zione, noi fac­ciamo solo disoc­cu­pa­zione e morti di fame.
C. Con tutti i nostri enormi pro­gressi, scien­ti­fici e tec­no­lo­gici, oggi saremmo in con­di­zione di scon­fig­gere la povertà, di dare benes­sere a tutti, di vivere a lungo tutti in buona salute. Invece nel sud del mondo ci sono 850 milioni di per­sone affa­mate, men­tre in Occi­dente l’obesità da sovra­li­men­ta­zione è diven­tata una malat­tia sociale: una sorta di tre­menda meta­fora della società attuale. Saremmo in grado di pro­durre il neces­sa­rio e anche non poco super­fluo per l’intera popo­la­zione del globo, lavo­rando tutti un tempo molto limi­tato. E invece abbiamo masse di disoc­cu­pati e di pre­cari, gente sog­getta a sfrut­ta­menti da pro­to­ca­pi­ta­li­smo, costretta a orari pesan­tis­simi e a straor­di­nari di fatto obbli­gati. Il tutto per pro­durre quan­ti­ta­tivi cre­scenti di merci inu­tili, di durata sem­pre più breve, per lo più desti­nate nel giro di poche set­ti­mane a finire in disca­rica. E si torna all’inquinamento del mondo: tutto si tiene. Que­ste sono le tue res. Per esem­pio, ripren­dere l’idea della ridu­zione degli orari di lavoro, ripren­derla seria­mente, non sarebbe un buon ini­zio per smuo­verle?
V. La ridu­zione degli orari non mi pare al cen­tro del discorso eco­lo­gi­sta…
C. Certo che no. Ma in fondo l’ambientalismo è un movi­mento, com­pito dei movi­menti è porre una que­stione. La sin­tesi poli­tica è com­pito delle forze poli­ti­che. E d’altronde l’ambientalismo indica soluzioni…
V. Sì, la decre­scita. La decre­scita, scu­sami, è una sce­menza totale.
C. Non sono d’accordo. Certo, la decre­scita non è un pro­gramma. Però indica ine­qui­vo­ca­bil­mente quella che è la causa prin­ci­pale della crisi eco­lo­gica, cioè l’accumulazione capi­ta­li­stica. E in un mondo che sa dire solo cre­scita cre­scita, gri­dare decre­scita signi­fica met­tere la cre­scita, il Pil, la pro­dut­ti­vità, la com­pe­ti­ti­vità, tutti i totem dell’economia neo­li­be­ri­sta, in rap­porto con il disa­gio e le paure che lo squi­li­brio eco­lo­gico ha ormai creato tra la gente. Il movi­mento della decre­scita riflette su un tipo di vita che non con­ti­nui a met­tere a rischio l’ecosistema e la nostra stessa soprav­vi­venza. Per­ché que­sto biso­gna fare: ripen­sare radi­cal­mente il nostro vivere.
V. No, con­tro tutto que­sto o il movi­mento eco­lo­gi­sta diventa comu­ni­sta o non si farà un passo avanti.
C. Secondo me, sono le sini­stre che deb­bono diven­tare ambien­ta­li­ste, facendo pro­prio tutto il posi­tivo che l’ambientalismo ha detto, e devono saperlo usare per trarne una poli­tica com­ple­ta­mente diversa da quella attuale. E diversa anche da quella sto­rica, che pur com­bat­tendo e spesso vin­cendo grosse bat­ta­glie a favore del lavoro, di fatto non ha mai messo in discus­sione l’ordine dato. Tu vor­re­sti che i verdi diven­tas­sero comu­ni­sti… Ma quanti sono i comu­ni­sti oggi?
V. Pochi. Assai pochi.

C. Tu prima avevi ragione par­lando di un nuovo comu­ni­smo. Ma le sini­stre, nel loro non facile rap­porto con i Verdi, non si sono accorte della dimen­sione ever­siva che l’ambientalismo con­tiene. Che con­si­ste appunto nella cri­tica dell’accumulazione, che nes­sun comu­ni­smo, da Lenin a D’Alema, ha mai messo in discus­sione. Ma, il mondo è cam­biato e diventa sem­pre più pic­colo. Come dice Wal­ler­stein, non ci sono nuovi spazi da occu­pare e uti­liz­zare per la pro­du­zione di plu­sva­lore, men­tre la cre­scita, oltre ad essere eco­lo­gi­ca­mente distrut­tiva, dal punto di vista sociale oggi non dà risul­tati apprez­za­bili. Sarebbe neces­sa­rio rileg­gere in que­sta chiave i pro­blemi del mondo per ten­tare di met­tere a fuoco un nuovo comunismo.

V. Fino a che voi Verdi non vi met­te­rete in testa che occorre qual­cuno che comandi, sarete solo dei pre­di­ca­tori inu­tili. Non basta dire cose giu­ste. Attorno agli obiet­tivi giu­sti biso­gna orga­niz­zare una forza. Senza forza non si fa niente.
C. Tu sei ancora fermo alla rivo­lu­zione armata, insomma…
V. Non penso alle armi, ma a un par­tito, a una forza sociale e anche poli­tica e di cul­tura.
C. Io alla neces­sità della forza non ci credo, non ci voglio cre­dere. La forza, anche usata per i fini migliori, fini­sce per imporre all’operazione un’impronta nega­tiva, un’ipoteca che la sna­tura. E però, sono d’accordo, sarebbe neces­sa­rio un sog­getto forte che si facesse carico del pro­blema. Io da tempo penso all’Europa. L’Europa con la sua sto­ria, la sua cul­tura… L’Europa certo col­pe­vole di orrendi misfatti, dal colo­nia­li­smo alla shoah, ma anche patria dell’illuminismo, del socia­li­smo, dei diritti del cit­ta­dino, dello stato sociale… potrebbe forse essere il moderno sovrano, capace di orien­tare il mondo, o quanto meno di sol­le­ci­tarlo a farsi carico di un pro­blema sem­pre più urgente. Certo, con que­sti indu­striali che non capi­scono che stanno distrug­gendo la base stessa della loro attività.…Se il mare cre­sce, il deserti avan­zano, i cicloni si mol­ti­pli­cano…
V. Tra quanti anni que­sto acca­drà?
C. Sta già acca­dendo. E un domani che pareva lon­tano è ormai qui.
V. Ma anche le ener­gie rin­no­va­bili… Se fai andare lo stesso mec­ca­ni­smo col sole o col vento invece che col petro­lio, le cose non cam­biano. E i Verdi pun­tano solo su que­sto…
C. Con ener­gie rin­no­va­bili attive su vasta scala i gas serra dimi­nui­reb­bero, e que­sto non è tra­scu­ra­bile. Ma, sono d’accordo, è neces­sa­ria una stra­te­gia molto più com­plessa. I Verdi pro­pon­gono anche molte altre cose, ma un com­pito di que­sta por­tata, come arre­stare la cata­strofe eco­lo­gica, cioè neces­sa­ria­mente cam­biare il modello di pro­du­zione, distri­bu­zione e con­sumo, non è cosa che pos­sano fare i Verdi. Que­sto è un com­pito che tocca alle sini­stre.
V. Sono d’accordo. Il dif­fi­cile è il come…
C. Se ci fosse una pre­cisa, con­sa­pe­vole, volontà poli­tica delle sini­stre, sarebbe una buona base di par­tenza. E ci sono anche cose che si potreb­bero fare subito. Ad esem­pio, riscal­da­mento e refri­ge­ra­zione: invece di sof­frire il caldo d’inverno e il freddo d’estate, come accade oggi, rego­lare le tem­pe­ra­ture sui 20–21° d’inverno e 28–29° d’estate, in case uffici negozi di tutto il mondo: sarebbe un rispar­mio ener­ge­tico niente male, eh?
V. Hai detto che si pos­sono fare più cose…
C. Sì. Fab­bri­care merci desti­nate a durare di più, come acca­deva una volta, e non pro­gram­mare auto­mo­bili, fri­go­ri­feri, lava­trici, da sosti­tuire nel giro di quattro-cinque anni. E’ una cosa che non richie­de­rebbe ricon­ver­sioni indu­striali, solo volontà poli­tica.
V. Con caduta dei con­sumi…
C. Appunto. Si par­lava di rivo­lu­zione, no? Ma si potrebbe pen­sare a una cosa che pro­po­nevo nel mio ultimo libro. Oggi le ammi­ni­stra­zioni di sini­stra, cen­trali e locali, non sono poche nel mondo. Se ognuna di esse con­fron­tasse le pro­prie scelte eco­no­mi­che con una serie di norme da osser­vare, doman­dan­dosi ogni volta se si tratti di cosa neces­sa­ria, se non esi­stano più urgenti prio­rità, quali siano le rica­dute dell’opera sul piano ambien­tale, sociale, sani­ta­rio, ecc. In Sici­lia, ad esem­pio, non sarebbe il caso di risa­nare fer­ro­vie vetu­ste o addi­rit­tura abban­do­nate, di ripa­rare acque­dotti che per­dono quan­ti­ta­tivi enormi di un liquido sem­pre più pre­zioso, o magari di for­nire can­cel­le­ria ai tri­bu­nali, len­zuola agli ospe­dali, ecc. prima di osti­narsi sul ponte di Mes­sina? Certo, se le sini­stre fos­sero vere sini­stre… O ancora: se il mondo deci­desse di non fab­bri­care più armi. Lasciamo per un attimo tutte le ragioni paci­fi­ste o sem­pli­ce­mente umane. Pen­siamo solo a quanto inquina la pro­du­zione di quan­ti­ta­tivi sem­pre cre­scenti di armi, il loro tra­sporto, e il loro «con­sumo». Ma, se mi con­senti, vor­rei finire con un’altra cosa, a cui penso da tempo. Io credo che il mani­fe­sto in tutto ciò potrebbe avere una fun­zione non tra­scu­ra­bile. Per­ché il mani­fe­sto è un gior­nale, ma è anche un sog­getto poli­tico. Ecco, per­ché il mani­fe­sto non fa pro­pria la bat­ta­glia ambien­ta­li­sta, con dibat­titi anche duri, magari con sedute di auto­co­scienza, ma anche con pub­blici con­fronti con le sini­stre isti­tu­zio­nali? Sono con­vinta che la cosa potrebbe risul­tare utile. Anche alla dif­fu­sione del gior­nale. Per­ché no?

Postilla
Singolare come non si accorgano che fanno lo stesso ragionamento. Non si modifica il rapporto tra produzione e consumo, se non si abbatte la preminenza del valore di scambio sul valore d'uso, la riduzione del lavorio a merce, se cioè non si supera il sistema economico capitalistico, se non esiste una blocco sociale capace di esercitare il potere, con il dominio o con l'egemonia. Ma ciò è impossibile finchè non si costituisce un blocco sociale alternativo a quello oggi egemone. D'altra parte questo non è possibile se nn si fa maturare nelle coscienze la consapevolezza dei problemi reali di oggi, tra i quali quello del disastro ecologico (e del disagio provocato dal paradigma della crescita indefinita della produzione di merci) non è certo irrilevante. Assumere come direzione di marcia l'uscita dal capitalismo (sia esso di Stato o privato) è la base di ogni politica capace di condurre l'umanità attuale e futura (anche il futuro dell'umanità deve preoccuparci) è inbdispensabile (e.s.)

L’Unità, 17 gennaio 2013

L’altro ieri eravamo insieme con Carla a una riunione della associazione che abbiamo fondato insieme con lei. E come al solito si vantava d’esser più vecchia di me e io le dicevo che era una ragazza. Ed era vero. Nella sua battaglia per far capire alla sinistra tutta – e a noi – che non c’è sinistra senza la capacità di capire che lo sviluppo che si sta seguendo è insensato e inumano c’era una passione giovanile, il fervore di un convincimento sincero e profondo. Ed era piena di progetti e di volontà.

L’ultimo era quello di una intervista in cui io avrei dovuto avanzarle le obiezioni più informate, cioè non quelle più dozzinali, di una sinistra sviluppista, anche se non le condividevo tutte. E l’avevo indirizzata a qualcuno più bravo di me a sostenere quella parte. Aveva scritto tanto per una visione della lotta ambientalista che risalisse, prima e oltre il capitalismo, alle ragioni costitutive di una deriva che minaccia l’avvenire stesso dell’umanità. Ma non ne era appagata.

Sentiva che c’era tanto da fare per affermare una cultura economica e politica diversa, come quando, in anni lontani, a Milano, era stata tra le più combattive a spendersi, come giornalista e scrittrice, nell’azione per coinvolgere la sinistra di allora, a partire dal Pci, nelle lotte del primo femminismo. La sua forza stava nel fatto che la passione era nutrita di rigore e di capacità critica.

Di qui veniva l’acutezza di una instancabile e competente contestazione dei luoghi comuni di una cultura economica e politica incapace di vedere i nessi tra produzione e ambiente, tra mercato e qualità delle nostre vite, tra vacuità delle spinte al consumo e gravità di un disastro annunciato. Il suo insegnamento è prezioso per costruire una nuova sinistra politica e sindacale, in grado di superare le durissime sconfitte passate e recenti. Un insegnamento che raccogliamo e vogliamo continuare a coltivare con lo spirito combattivo del suo carattere.

Qui le opinioni di Carla Ravaioli per eddyburg. E qui la notizia della sua morte, con il video di un suo recente intervento

La Repubblica, 6 gennaio 2014

La misteriosa scomparsa di Federico Caffè avvenuta ventisette anni fa ha reso questo schivo economista una celebrità. Un uomo che per tutta la vita aveva tanto accuratamente evitato il clamore della scena pubblica quanto amato la riservatezza dell’insegnamento è diventato famoso per l’ultimo episodio della sua vita. Oggi avrebbe compiuto cento anni e a chi gli faceva gli auguri, con l’autoironia che gli era propria, rammentava di essere “un figlio della Befana”.

Il carisma che ha esercitato su un’ ampia generazione di allievi ha fatto sì che ognuno di loro abbia sentito la necessità di rievocare il comune maestro, come se questo fosse il modo migliore per esprimergli tardiva gratitudine. Perché Caffè ha lasciato un vuoto che chi lo ha conosciuto non è riuscito a riempire se non con il ricordo.

La sua eredità non si esaurisce in una univoca scuola di pensiero. Tra i suoi numerosissimi allievi troviamo di tutto: i paladini dell’antagonismo sociale, come Bruno Amoroso, i difensori intransigenti dell’intervento pubblico, come Nicola Acocella, gli esploratori di nuove forme di protezione sociale, come Enrico Giovannini, i fautori di una attiva politica economica capace di controllare l’azione dei mercati, come Marcello de Cecco. Che tra i suoi allievi ci siano anche il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, e il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, indica quanto la sua scuola sia stata tutt’altro che monocorde. Caffè aveva le sue idee, e le difendeva con accanimento, ma era capace di ascoltare e di accettare opinioni diverse.

Che cosa è rimasto del suo pensiero? Tre idee ci sembrano oggi ancora più importanti di uno quarto di secolo fa: il pieno impiego, l’assistenza sociale e la politica economica.

1) Caffè riteneva che il lavoro fosse non solo uno degli aspetti essenziali della emancipazione umana ma anche la più solida garanzia di tenuta sociale di un Paese. Certo, era consapevole quale fosse la differenza tra la Gran Bretagna del suo amato Keynes e la nostra penisola: da noi, gli effetti peggiori della disoccupazione, specie quella giovanile, erano e sono parzialmente assorbiti dalla famiglia. Ma Caffè aveva compreso che il ritardato inserimento nel mercato dei lavoro dei giovani, anche quando sono sostenuti dalle famiglie, provocava un distruzione di risorse umane, condannando intere generazioni ad acquisire tardivamente e spesso malamente le competenze ed esperienze della vita professionale. Riteneva, pertanto, che lì dove il mercato falliva, fosse compito specifico dell’operatore pubblico trovare lavoro per i giovani tramite piani straordinari per il lavoro.

2) Come indica il titolo del suo ultimo libro, In difesa del Welfare State, Caffè sosteneva accanitamente la protezione sociale, anche in un periodo come gli anni Ottanta in cui il debito pubblico italiano stava esplodendo. Società opulente dovevano farsi carico dei più deboli aumentando la tassazione sui più ricchi. Per tutta la sua vita, e ancor di più negli ultimi anni, Caffè sentì moltissimo il problema dell’assistenza agli anziani, troppo spesso privi di quei servizi essenziali che invece esistevano in altre parti del mondo; prima ancora di criticare il Welfare State, sosteneva, sarebbe stato necessario realizzarlo. Queste opinioni erano anche associate ai suoi timori personali: temeva di diventare di peso e questa fu una delle cause della sua depressione. Allo Stato rimproverava di “prelevare” male e di “spendere” peggio, e in ciò occorreva rintracciare la crisi dell’assistenza sociale. La soluzione ai problemi del bilancio pubblico non andava ricercata affidando al mercato problemi che non erano di sua competenza, quanto piuttosto riformando radicalmente il funzionamento dell’amministrazione statale.

3) Infine, per Caffè la politica economica poteva e doveva avere un ruolo chiave per la coesione sociale. “Politica economica” non era solo la materia che insegnava, ma anche la pressante richiesta al governo di agire per assorbire i conflitti sociali, aumentare la produzione, soddisfare i bisogni umani. Non digeriva i diktat degli organismi internazionali quali il Fondo monetario e la Commissione europea. La politica economica doveva controllare i mercati per evitare che le risorse finanziarie si indirizzassero verso attività speculative piuttosto che produttive. Era compito del governo trovare soluzioni concrete lì dove i mercati non riuscivano a raggiungere gli obiettivi sociali. Imprese a partecipazione statale, servizi collettivi, lavori pubblici e politica monetaria erano solamente gli strumenti a disposizione del governo per realizzarli. Era fiducioso nel fatto che un loro uso illuminato avrebbe consentito al governo di raggiungere più occupazione e più benessere.

Passano gli anni, i problemi cambiano eppure rimangono simili. Rileggere oggi i suoi scritti ci fa capire quanti appuntamenti siano stati mancati dalla politica italiana per risolvere i problemi strutturali del Paese. La disoccupazione, in particolare quella giovanile, ha toccato nuovi record storici e i pubblici poteri delegano ancora al mercato la risoluzione del problema. Il debito pubblico continua a dominare il dibattito di politica economica ma ancora oggi il governo non è capace di identificare i benefici generati dalla buona spesa e dai buoni investimenti pubblici. La politica economica del governo subisce passivamente i vincoli esterni. No, Federico Caffè non avrebbe ragione di essere soddisfatto dell’Italia di oggi. E chissà se avrebbe ancora la voglia di indicare quotidianamente la via di un riformismo possibile.


Il manifesto, 9 novembre 2013

Sala del Teatro de' Servi, via del Tritone a Roma, affollata per il convegno dal titolo «Togliatti e la Costituzione» promosso dall'Associazione Futura Umanità.

Tocca subito a Giampasquale Santomassimo tratteggiare la complessa personalità di Togliatti. Lo fa iniziando da un particolare biografico poco conosciuto: «Negli anni 1922-1923, mentre il fascismo si insediava, scomparve e fu Umberto Terracini a chiedergli di farsi vivo. Togliatti passava le giornate studiando, pensando a una seconda laurea e a risolvere il dubbio esistenziale sulla politica come vera vocazione. Togliatti non fu un totus politicus ». Parte da qui una ricostruzione che spiega come il leader comunista fu eletto segretario del Pci solo nel 1946 diventandone ben prima il leader indiscusso, dopo essere stato in Spagna nel corso della guerra civile di fine anni Trenta dove imparò sul campo come si debba rispondere al tema delle alleanze sociali e della democrazia, se non si vuole essere sconfitti; poi fu in Francia dove apprese la lezione dei «fronti popolari». La tesi di Santomassimo è che quel Togliatti che arriva in Italia alla caduta del fascismo è un politico a tutto tondo: aveva nella sua esperienza già accumulato tutte le riflessioni di quella «via italiana al socialismo» e di quel «partito nuovo» che segneranno così fortemente la storia della democrazia italiana e del Pci.
Dall'osservatorio del Teatro de' Servi, sembrano lontani i tempi in cui Togliatti era personaggio divisivo sia nel confronto tra Pci e Psi (gli anni del craxismo), sia all'interno del Pci (21 agosto 1989, l'articolo dal titolo «C'era una volta Togliatti» su «l'Unità» a firma del filosofo Biagio De Giovanni), sia ancora nel rapporto tra alcuni gruppi della nuova sinistra sessantottina e la politica togliattiana. Nel convegno, tra relazioni e interventi, affiora invece un forte bisogno di togliattismo, inteso come strategia e progetto sociale.
Gianni Ferrara, nella sua relazione, propone per esempio l'affascinante tesi di Togliatti «rivoluzionario costituente», ricordando che fu il solo dei segretari di partito dell'Assemblea costituente che volle far parte della Commissione dei 75 a cui fu affidato il compito di elaborare il progetto di Costituzione. Ferrara ricorda che Togliatti era un giurista. Ciò gli permise di giocare un ruolo di primo piano perfino nella formulazione dei singoli articoli contribuendo a quella vera rivoluzione culturale che fu far poggiare la Carta sulla centralità del lavoro e dei lavoratori ponendo la questione della proprietà in termini nuovi. Molti interventi sviluppano approcci particolari alla «questione Togliatti».
Piero Di Siena ricorda come proprio la strategia togliattiana pose in termini inediti il tema dell'unità nazionale. Poi analizza le ultime tappe di riflessione di Togliatti: il discorso a Bergamo del marzo 1963, quando rivolse l'invito ai cattolici al dialogo sui «destini dell'uomo»; il Memoriale di Yalta dove affiora la consapevolezza della crisi del socialismo reale.
Luciana Castellina ricorda il Togliatti della svolta di Salerno di fine marzo 1944 che gettò le basi del «partito nuovo e di massa» e dell'accettazione della democrazia come terreno d'azione: «Per lui, il partito era innanzitutto rappresentanza sociale».
Paolo Ciofi, presidente dell'associazione che ha promosso il convegno, analizza le novità contenute nella strategia della «via italiana al socialismo» e nella Costituzione dove «la società dei proprietari cede il passo alla società dei lavoratori». Sono sufficienti alcune citazioni di Togliatti nella fase costituente per cogliere la svolta politica: «Siamo democratici in quanto siamo non soltanto antifascisti, ma socialisti e comunisti. Tra democrazia e socialismo non c'è contraddizione». Ciofi spiega la rivoluzione concettuale operata dal leader comunista su un punto fondamentale: «Libertà del lavoro e libertà della persona si intrecciano, giacché il lavoro, in una sintesi inedita che non contrappone la classe all'individuo, è considerato come fattore costitutivo della personalità». La democrazia che si organizza, come amava ripetere Togliatti, conclude Ciofi, prende forma con i partiti di massa e si dispiegherà nel progetto di nuova società che non esclude compromessi con l'avversario.
Emanuele Macaluso, autore di un recente libro dedicato a Togliatti, esprime subito una tesi netta: «Senza di lui ci sarebbe stato comunque un partito comunista in Italia ma non avremmo avuto la democrazia italiana. Va riconosciuto senza tentennamenti il ruolo di Togliatti nella storia repubblicana. La straordinaria strategia togliattiana va però in crisi definitiva nel 1989, quando cade l'Urss. Lui aveva mantenuto quel legame e non lo aveva rotto del tutto neppure Enrico Berlinguer che nel 1983 era stato vittima in Bulgaria di un incidente che interpretò come un tentativo di farlo fuori fisicamente». Quanto all'attualità, Macaluso invita a non rigettare ipotesi di riforma della Costituzione: «Servono i partiti di massa, servono le riforme per far funzionale meglio la democrazia».
Argomenta Mario Tronti «Togliatti è la politica, chi vuole fare politica a quella scuola deve andare e chi vuole pensare la politica deve fare altrettanto. La Costituzione fu un miracolo politico. Il compromesso, del resto è una modalità della politica, proprio come lo è il conflitto. Oggi è l'assenza dei partiti uno dei mali della situazione».
Secondo Aldo Tortorella, le modalità della svolta occhettiana del 1989 impedirono al Pci di riflettere su se stesso e sui propri errori: «Fummo posti seccamente di fronte a un sì o a un no, senza la possibilità di discutere sul perché avevamo perso. Togliatti e la sua generazione si erano arrovellati sull'avvento del fascismo come regime reazionario di massa». Dice Tortorella: «Non ci accorgevamo dei cambiamenti della società italiana, non avvertivamo la necessità di rielaborare un programma. Io non mi assolvo, perché ho svolto funzioni dirigenti».

Corriere della Sera, 31 ottobre 2013, con postilla e barzelletta

La colonia di scrittori, intellettuali e uomini di scienza che animavano la Olivetti era una fabbrica nella fabbrica. Di cui però nella fiction La forza di un sogno , trasmessa lunedì e martedì da «RaiUno», non c’è traccia. «Non dico che sia calata una saracinesca, ma è una diminutio eccessiva» sostiene Franco Ferrarotti, tra i collaboratori stretti di Adriano Olivetti. «Una storia della Olivetti senza gli intellettuali è impossibile - dice Luciano Gallino, che non ha visto la fiction e fa un ragionamento per assurdo - perché non sarebbe la storia della Olivetti».

Al Corriere della Sera, Ferrarotti (classe 1926) parla con schiettezza: «La fiction racconta benissimo Olivetti uomo, interpretato magistralmente da Zingaretti: Adriano era così, volitivo e trattenuto, razionale e intuivo». Bene anche la regia di Michele Soavi. Ma l’ipotesi del complotto della Cia, adombrata, per Ferrarotti è errata: «Si drammatizza troppo il contrasto con gli americani, con l’agente americana infiltrata e alcune allusioni; in realtà la fortuna Olivetti deriva anche dai contatti con gli americani, in Svizzera, dove conosce Allen Dulles, poi direttore della Cia, grazie al quale riuscirà a non far bombardare Ivrea durante la guerra».

Ferrarotti non contesta le licenze di finzione, ma il fatto che il peso dato al complotto, e al romanzo familiare, metta in subordine il ruolo degli intellettuali: «Senza di loro non ci sarebbe il mito Olivetti. Non sarebbe arrivato al Museum di modern art a New York. Perché Ivrea, in quegli anni, era una piccola Atene industrializzata. C’erano Geno Pampaloni, scrittore e critico letterario, che faceva il segretario personale di Adriano, poi Renzo Zorzi, che veniva dal Partito d’azione, e Paolo Volponi, che non si limitò a dirigere le risorse umane, ma ricavò dall’esperienza dell’Olivetti i suoi libri Il memoriale e Corporale ». E ancora, Ottiero Ottieri, mandato da Olivetti come psicologo alla fabbrica di Pozzuoli «perché lì, in una fabbrica nuova in una zona non industrializzata — sottolinea Ferrarotti — i neo operai avrebbero avuto problemi particolari». Almeno il critico Franco Fortini, dice Ferrarotti, si poteva citare: «Fu lui a regalare lo slogan di grande successo per la prima macchina Lexicon 80, che diceva “Scriverà le parole del vostro avvenire”».

Ma attenzione. Olivetti non era un mecenate. «Era un capitalista che andava oltre il capitalismo — sostiene Ferrarotti —, un imprenditore che intuiva, per vie misteriose e a lui naturali, l’enorme importanza e il riverbero intellettuale e propagandistico dei suoi prodotti. Era una strana figura di ingegnere, umanista e post-rinascimentale, mezzo ebreo e mezzo protestante, meticcio come Obama, diciamo, sovversivo come Jobs... Un vero imprenditore perché non si limitava a gestire l’esistente».

Il sociologo Luciano Gallino (1927), collaboratore di Olivetti per l’Istituito di relazioni sociali, ricorda che a Ivrea il ruolo degli intellettuali era duplice: «Alcuni continuavano a fare quello che facevano prima, e si occupavano delle attività culturali dell’azienda, come Luciano Codignola e Ludovico Zorzi. Mostre, esposizioni, spettacoli a ciclo continuo. Altri svolgevano compiti manageriali, come Volponi, che era un dirigente anche severo, oltre che un vero romanziere. Ma non dimenticava mai di essere un intellettuale». Cosa vuol dire? «Non dimenticarsi mai — risponde Gallino — di avere davanti persone, la cui componente umana è inseparabile da quella economica, produttiva, come credevano i capitalisti che pensavano solo alla prestazione. E che oggi, purtroppo, hanno vinto. Olivetti diceva che la fabbrica, l’azienda, che molto prende e chiede in termini di sacrifici fisici, psicologici, familiari, ha il dovere di restituire. Oggi che il lavoro è presentato come un regalo fatto al lavoratore, suona assurdo».

postilla

Giustamente Ferrarotti e Gallino criticano la fiction su Olivetti per aver trascurato di sottolineare l’attenzione con cui Adriano Olivetti chiamava gli intellettuali a lavorare nella sua fabbrica, dove costituivano, come dice Ferrarotti "una fabbrica nella fabbrica". A questo proposito, e a conferma delle osservazioni di Ferrarotti e Gallino, voglio raccontare a chi in quegli anni non c’era una meravigliosa storiella, nata e diffusa qualche decennio fa. La trovate nella cartella Humour del vecchio archivio di eddyburg,it, precisamente qui

La Repubblica, 14 settembre 2013, postilla (f.b.)

NEW YORK - Nelle più diffuse traduzioni italiane, la frase è fin troppo esplicitata: «Tutto ciò che era stabilito e rispondente alla situazione sociale svanisce», oppure «si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi». Nella versione originale delManifesto comunista di Karl Marx e Friederich Engels l’immagine è più astratta, misteriosa. Citata da sola richiama un trattato di fisica. «Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria». Significa che il potere rivoluzionario del capitalismo non risparmia nulla: ha travolto società feudali scaraventandole nella modernizzazione, e prima o poi la sua furia distruttiva dissolverà la stessa borghesia. È quella frase che Marshall Berman scelse come titolo del suo libro più bello e più fortunato, pubblicato in Italia dal Mulino. Fu una fatica durata dieci anni, cominciò a scrivere nel 1971 e finì nel 1981. Ne valeva la pena: fu all’origine di un revival d’interesse americano per il marxismo, capace di sopravvivere alla caduta del Muro di Berlino.

Trent’anni prima della grande crisi del 2008 o di Occupy Wall Street, Berman aveva riscoperto una lettura marxista del suo tempo, rifiutandosi di abbandonare quei testi alla critica dei roditori. Edmondo Berselli in Adulti con riserva lo ricordò come «una specie di elefante barbuto, nello stesso tempo goffo ed agile, divertentissimo da osservare mentre in un bar veneziano mangiava la pizza con le mani impiastricciandosi le dita, se la ficcava in bocca sporcandosi la barba»...

È morto come lo ricordava Berselli: stroncato da un infarto l’11 settembre, a settantatre anni, mentre mangiava in uno dei suoi “diner” preferiti, il Metro dell’Upper West Side. Newyorchese fino al midollo, nato nel South Bronx, laureato alla Columbia, docente al City College, Berman negli ultimi anni si era dedicato proprio alla storia della sua città, curando un’opera collettiva sulla Grande Mela “dal blackout a Bloomberg”.

Teorico della modernità, la studiava nei grandi fenomeni sociali così come nella vita personale. Pubblico e privato facevano tutt’uno per lui, questo contribuiva al fascino dei suoi scritti: «Essere moderno, vuol dire sperimentare la propria vita personale e sociale come un vortice, trovarsi in una perpetua disintegrazione e trasformazione, fra turbamento e angoscia, ambiguità e contraddizione ». Cioè, appunto, essere parte di un universo in cui tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria. Berman era capace di scrivere con la stessa prosa seducente sul Faust di Goethe, su Dostoevskij, o sull’architettura di Manhattan. Al centro del suo pensiero c’è la potenza creatrice e devastante della modernità. Non lo convinceva il pensiero “leggero” dei post-moderni.

Anche in questo incrociava la sua filosofia con la sua esperienza di vita, segnata da tragedie come il suicidio della prima moglie. Da Dissent a The Nation alla New York Review of Books,la sua firma è stata su tutte le riviste più radicali e impegnate, dove l’intellighenzia newyorchese non rinuncia a esercitare la critica del presente. Era convinto, con Marx, che non basti interpretare la storia, occorre cambiarla.

postilla
Un ruolo particolare Marshall Berman avrebbe potuto avere, e magari avrà in futuro, chissà, per gli studi urbani in Italia, ben oltre la vaga eco del suo L'Esperienza della Modernità, praticamente noto soprattutto per lo svarione del traduttore sottopagato, autore dell'improbabile neologismo “scure di carne” attribuito al modernizzatore autoritario per eccellenza, Robert Moses. Il rimescolare personale e politico di Berman, ricordato da Rampini, nel caso di Moses cascava benissimo ricordando l'infanzia a West Tremont, nel Bronx ancora sereno quartiere popolare e di ceto medio nell'anteguerra, trasformato nell'anticamera dell'inferno dagli sventramenti voluti dallo zar delle opere pubbliche Moses per una autostrada urbana. Vicenda replicata in migliaia di altre città del mondo, più o meno identica anche se non nelle dimensioni, ma che Marshall Berman ci propone secondo una prospettiva diciamo difficile da digerire per la critica italiana: è l'accettazione acriticamente tecnocratica dell'urbanistica razionalista, del ruolo indiscutibile della pubblica amministrazione dotata del diritto di esproprio per pubblica utilità, a produrre danni e cicatrici difficili da rimarginare nel tessuto urbano e sociale, replicando le fratture dell'industrializzazione ottocentesca nel segno della città-macchina corbusieriana che ruota attorno all'automobile. E che fa passare in secondo piano anche l'autoritarismo militaresco degli sventratori classici, da Haussmann (a cui pure Moses diceva di ispirarsi) al nostro Mussolini stigmatizzato da Cederna. Perché la distruzione di questi sventramenti non riguarda semplicemente le sedimentazioni del passato, spesso del tutto inesistenti nelle città del mondo prive di storia degna di questo nome. Il solidificarsi di ciò che era sospeso nell'aria è invece un esercizio spietato di potere nel segno di una razionalità astratta, di cui la cultura razionalista non ha saputo davvero liberarsi, e che non è assente neppure in certe culture urbane contemporanee, pur frammentate tra lobbies settoriali. Così l'Esperienza della Modernità di Marshall Berman ci resta a efficace testimonianza e monito: non solo diffidate dei falsi profeti, ma badate bene a come interpretare quelli autentici! (f.b.)
Su Mall la versione italiana di alcune considerazioni di Berman a proposito dell'immaginario urbano a Times Square, vetrina delle merci e della società, aggiungono molto al profilo oggi santificato dell'amministrazione Bloomberg
Qui un breve filmato sull'autostrada del Bronx raccontata da Berman



L'articolo di Giuseppe Pullara sul PRG di Roma del 1962, progettato da un'équipe coordinata da Luigi Piccinato, mi suscita alcune considerazioni che non trovano spazio adeguato in una postilla. Eccole qui.

IIl PRG del 1962, come Pullara ricorda, aveva introdotto alcune innovazioni sostanziali, sia nel progetto della Roma futura che nelle regole generali della pianificazione urbanistica in Italia. Il governo del territorio esercitato nella Capitale ha sempre avuto effetti rilevanti a livello nazionale. Voglio ricordare, a quest’ultimo proposito, gli standard urbanistici, elemento essenziale per una città organizzata in funzione dei cittadini e non della rendita, prescritti nelle norme del PRG romano e nei piani urbanistici dell’Emilia rossa in quegli (stessi anni), che furono generalizzati con i decreti Mancini del 1968, e la programmazione pluriennale delle previsioni del PRG, introdotta nella legislazione nazionale con la legge Bucalossi del 1977, e poi subito abbandonata nei terribili anni 80).

Per il progetto della nuova Roma è utile precisare che l’Asse attrezzato non era solo né tanto un’arteria stradale, ma l’elemento di connessione multivettoriale tra tre nuovi centri direzionali, dove avrebbero dovuto essere spostati i grandi uffici pubblici e privati (a cominciare dai Ministeri) liberando così il centro storico dalla congestione e dal traffico.

In realtà le previsioni migliori del PRG del 1962 furono abbandonate e rinnegate, a partire dall'idea base:n che «il Comune deve decidere dove e come va la città» (un'idea cara non solo al socialista Piccinato, come afferma Pullara, ma a tutto il pensiero urbanistico italiano ed europeo dell’epoca). Ciò che i successori di Luigi Piccinato hanno conservato accuratamente negli ultimi lustri (gli anni di Rutelli, Veltroni e Alemanno), e anzi ampliato è stato invece l'errore principale del PRG del 1962 : il pesante sovradimensionamento, giustificato all’inizio degli anni ‘6o dai trend demografici, motivato negli anni successivi solo dalla perversa volontà di estendere, con lo sviluppo delle capacità edificatorie, il valore della rendita fondiaria. Hanno accresciuto e consolidato la capacità edificatoria del piano proprio in una fase in cui le ragioni della crescita quantitativa stavano scomparendo; e l'invenzione e l'introduzione nel pensiero corrente dei "diritti edificatori" ha costituito per l'urbanistica italiana l'equivalente negativo di quelle della dimensione temporale, e non solo spaziale, della pianificazione urbanistica e degli spazi pubblici come diritti per tutti gli abitanti.

Di Luigi Piccinato voglio ricordare en passant (sperando che qualcuno ne scriva più ampiamente) tre contributi che ha dato alla mia formazione, e forse a quella di molti urbanisti italiani.

Il primo, e il più leggero, è l’humour con il quale sapeva concentrare in fulminanti battute il suo spirito critico (esprimeva ad esempio la sua rabbia per il delitto urbanistico col quale gli ingegneri dell’ANAS avevano deciso e progettato il Grande raccordo anulare di Roma definendoli “gli ingegneri anali”). La sua capacità di criticare frustando era un risvolto utile della sua capacità di comunicare l'urbanistica a un mondo più vasto di quello degli specialisti.

Il secondo contributo è il suo libro, Urbanistica, Sandron, Roma 1947, col quale fornì, a una generazione di urbanisti quella che, «nell’immediato dopoguerra, si poneva come la più avanzata “filosofia”generale dell’urbanistica nel nostro paese», come scrisse Giovanni Astengo nella sua introduzione alla ristampa del libro (con il nuovo titolo La Progettazione urbanistica, Marsilio editori, Venezia 1987). Una "filosofia generale" (una ideologia e un mestiere) che aveva al suo centro una duplice consapevolezza: il futuro della città nasce da un sentimento profonda della sua storia e del suo presente; ela pianificazione urbanistica, se vuole migliorare le condizioni della città territorio, deve riuscire a contrastare la rendita fondiaria mediante l'arma di un sistema di regole chiaramente definite dal potere pubblico come espressione di una volontà collettiva.

Infine, voglio ricordare l’impegno con il quale contribuì, unico dei "padri anziani"dell’Istituto, alla ricostruzione dell’INU da parte del gruppo costituito da Detti, Tutino, Cabianca, Romano,De Lucia, dopo che la contestazione studentesca aveva spazzato via il gruppo dirigente dell’istituto, considerato dagli studenti colluso con l’establishment conservatore dell’Italia del centro destra a egemonia democristiana. Come accade ai nostri giorni, nel quadro delle "larghe intese", queata volta nella disattenzione degli studenti.

Corriere della Sera, ed. Roma, 8 settembre 2013

«È stata dura per me - dice Giorgio Piccinato, 77 anni, urbanista, docente a Roma Tre - appena laureato lavoravo a studio da zio Luigi a piazza Jacini. Lui giocava un ruolo da divo, aveva sempre una risposta a tutto. Era un tipo gioviale, dalla battuta facile». In famiglia si ricordano in questi giorni i trent'anni dalla scomparsa del più celebre dei congiunti: Luigi Piccinato, uno degli urbanisti più importanti del secondo dopoguerra, soprattutto il capofila degli autori del Piano regolatore di Roma del 1962, il primo dopo quello fascista del 1931. All'inizio degli anni Cinquanta il Comune mise mano ad un nuovo progetto di sviluppo della città: anni ruggenti, demografia impazzita (+50/60 mila abitanti all'anno!) ed enormi speculazioni. Nel '57 un Comitato tecnico (con Piccinato) presentò una proposta che fu malamente trasformata dalla giunta democristiana e che venne in parte ripristinata da una speciale Commissione di Cinque saggi di nomina ministeriale (guidata da Piccinato, con Vincenzo Passarelli, Michele Valori, Piero Maria Lugli, Mario Fiorentino). Il Piano fu infine adottato nel 1962 e approvato dal Quirinale tre anni dopo. Dieci anni fa è stato sostituito dal Prg firmato Veltroni.

Il «Piano Piccinato» ha operato per quarant'anni, infarcito di «varianti» e correzioni di ogni genere. A lui si deve grosso modo l'aspetto attuale della città, nel (poco) bene e nel (tanto) male. Il Piano successivo in buona parte ha sviluppato anche se corretto le linee già stabilite lasciando ufficialmente aperta ogni possibilità di trasformazione urbana con gli «accordi di programma», le «varianti» e soprattutto la logica che sostiene l'intero progetto: «Pianificar facendo». Nato a sinistra, l'attuale Prg è andato proprio per questo quasi bene anche alla destra di Alemanno.

Il Piano regolatore di Piccinato, pur essendo considerato dal suo co-autore «flessibile», ossia vivo e adattabile alle circostanze che via via si sarebbero presentate, è in sostanza l'ultimo Piano «rigido», che fissa nei dettagli (coloratissimi sulle mappe) tutte le funzioni che il territorio dovrà assumere. Un Piano che parte dall'idea che il Comune deve decidere dove e come va la città (un'idea cara a Luigi, socialista militante) non lasciando i suoi 150 mila ettari a se stessi e alla speculazione. Con tutti i suoi difetti, il Prg del '62 è stata l'ultima occasione in cui Roma ha avuto un progetto strategico fortemente caratterizzato da idee perfino grandiose. Dopo, gli ideali urbanistici sembrano essere calati nell'ordinario mondo della realtà.

«La tutela del centro storico comincia dalla periferia» diceva Piccinato. E così nacque l'idea di un Asse Attrezzato da piazzare tra Est e Sud per portare il direzionale fuori dal centro, liberando la parte più prestigiosa della città. Un progetto basato sul trasporto su gomma e non sul ferro (metrò), cosa che ancora pesa su Roma. L'espansione urbana doveva avvenire con nuovi quartieri autosufficienti (restati scollegati tra loro e col centro) in grado di soddisfare un incremento di popolazione fino a 5 milioni (un errore, ma la previsione serviva per garantire lo sviluppo controllato del territorio). Il verde pubblico sarebbe stato abbondante e pianificato. Tutto il tema delle immense periferie, che sarebbe esploso nei primi anni di attuazione del Piano, fu trascurato. Scrive Italo Insolera (Roma moderna, ed.'93, pag.263): «Non è dato vedere una politica delle periferie intesa come rottura della tradizionale indifferenza dei Pr romani verso quelle zone della città dove, nelle baracche, nelle borgate, negli alveari di cemento armato si accumulano da cento anni energie umiliate e frustrate, vane speranze di uomini a cui non è stato dato di partecipare all'evoluzione di quella civile comunità di persone che dovrebbe essere una città».

il Piano di Piccinato negava l'«urbanistica contrattata» venuta poi, anche se «teneva conto con intelligenza delle forze in campo» come annota il nipote Giorgio. Tentò di coniugare spinte conservatrici con propositi riformisti. Scelse lo sviluppo direzionale a Est con un aeroporto internazionale nell'estremo Ovest negando (forse perché d'ispirazione fascista) l'opzione «a mare» che si è realizzata fuori controllo in seguito. Nonostante il Piano, il «sacco di Roma» denunciato anni prima da Aldo Natoli in consiglio comunale, procedette inesorabile. «Noi urbanisti - commenta amaro Giorgio Piccinato - abbiamo il compito di capire come funziona una città. Come vanno poi le cose dipende dai tanti protagonisti in campo: politici, amministratori, categorie, forze sociali, finanza, cittadini».

I progettisti del PRG; da sinistra: Piero Maria Lugli, Mario Fiorentino, Michele Valori, Luigi Piccinato, Vincenzo Passarelli

Il Mondo, 24 aprile 1956). Lo ringraziamo. La lotta continua.

Resteranno sempre misteriose le ragioni che hanno spinto l'amministrazione democristiana di Roma a cercare una fine così ingloriosa come quella capitatale venerdì 6 aprile, nell'ultima tempestosa seduta del consiglio comunale. Solo un totale spregio dell'opinione altrui o una rata incoscienza o oscuro desiderio di dissolvimento possono avere indotto la giunta a sollecitare dal consiglio, allo scadere del suo mandato, l'approvazione di un progetto complesso, discusso e delicato, quale il monumentale albergo panoramico che la Società Generale Immobiliare, col contributo dell'americana Hilton Corporation, da qualche anno ha deciso assolutamente di costruire in cima a Monte Mario, superstite scenario verde nel desolato cementizio paesaggio romano.

Da mesi e da anni era nota la presa di posizione contraria di istituti culturali e tecnici, di parte della stampa e di personalità autorevoli; da mesi e da anni continuava la denuncia dell'inettitudine del Comune del salvaguardare il patrimonio artistico e naturale di Roma; da mesi e da anni, dopo le lotte per la Via Appia Antica e le rivelazioni fatte durante la discussione sul piano regolatore, il sottogoverno di Roma, in fatto di urbanistica ed edilizia, era diventato la favola di tutti; da mesi e da anni la Società Generale Immobiliare, per la enormità delle sue pretese e dei suoi profitti, era diventata emblema più adeguato, per l'eterna città, che non la lupa o la cupola di S. Pietro; da mesi "L'Espresso" andava conducendo la sua violenta campagna contro la straordinaria docilità dell'amministrazione verso la Società Generale Immobiliare; da mesi si sapeva che l'opposizione avrebbe dato battaglia. Niente da fare. La dura scorza dei democristiani capitolini è a prova di bomba: essi hanno preteso che il consiglio, in articulo mortis, applaudisse l'albergo panoramico della Società Generale Immobiliare a Monte Mario, come se si trattasse di un provvedimento urgente, necessario, indispensabile e di pubblica utilità. Bene sta, alla maggioranza, l'esito inglorioso dell'ultima seduta consiliare.

"L'Immobiliare paga bene deliberazioni come questa", esclamò a a mezzanotte un consigliere comunista, dopo che da sette ore durava l'efficiente opposizione della minoranza: scoppiava il tumulto, e il sindaco offeso toglieva la seduta, deludendo l'orgogliosa sicurezza della Società Generale Immobiliare. Tuttavia, valendosi di un articolo di legge, la giunta potrebbe ancora approvare il progetto dell'albergo Hilton a Monte Mario ma, a quanto si sente dire, non ne avrà il coraggio. E si spera che il nuovo consiglio comunale di Roma sia diversamente composto da quello appena scaduto.

L'ultima seduta del consiglio è stata interessante per tre motivi. In primo luogo ha mostrato nettamente la vacuità intellettuale della maggioranza democristiana, affatto impreparata a fronteggiare le argomentazioni pertinenti della minoranza, se non con boati e fiacche e approssimative concioni. In secondo luogo ha dimostrato che la maggioranza non può pretendere che la sua volontà sia democraticamente rispettata quando, già debole per il silenzio mantenuto di fronte alle accuse precise della stampa, essa non dà alla minoranza né il tempo né i mezzi per deliberare a ragion veduta, e nemmeno fornisce ad essa i documenti necessari come, nel caso, l'elenco delle proprietà, le relazioni tecniche dettagliate, la piena informazione sui particolari urbanistici della questione: da un anno la giunta conduceva le trattative con l'Immobiliare e improvvisamente ha messo la minoranza di fronte a una proposta eccezionale, alla variante di un piano particolareggiato, cioè alla conversione di un provvedimento di interesse pubblico in strumento di interesse privato. In terzo luogo la seduta è stata importante, perché ha finalmente richiamato l'attenzione generale sui problemi urbanistici di Roma: finalmente, c'è da sperare, i distratti e i profani si saranno accorti che anche la costruzione di un complesso alberghiero in cima a un colle, per i suoi aspetti sociali, economici, politici e giuridici, può portare con sé conseguenze assai gravi per il destino della città.

Si veda: La "Grande Bellezza" romana riunita ieri l'altro per festeggiare le cinquanta candeline dell'Hotel Hilton di Monte Mario (http://www.dagospia.com/rubrica-6/cafonalino/video-cafonalino-lhotel-hilton-compie-50-anni-ieri-fred-astaire-e-julia-roberts-oggi-58063.htm).

© 2024 Eddyburg