ETS, 2016, pp. 15-21. 4 maggio 2016
Può ben darsi che questo rimanere sullo sfondo del Cederna ambientalista dipenda dal fatto che gran parte delle persone che gli sono state maggiormente legate sono attive soprattutto nei campi dell’urbanistica, dei beni culturali e del paesaggio, nei quali è sempre molto vivace l’attività pubblicistica ed editoriale nello spirito della denuncia e della proposta cederniana, mentre questo tipo di intervento si è un po’ offuscato negli anni più recenti sul versante della protezione della natura. Il ricordo personale e le carte ci dicono però che l’interesse di Cederna per l’ambiente e il suo contributo alla battaglia ambientalista non sono stati né episodici né estemporanei né tantomeno ininfluenti. Essi sono stati al contrario il frutto di una conquista lenta e tenace, ottenuta - come nel suo stile - ediante un ammirevole sforzo di documentazione e di riflessione.
A dispetto della sua identità di giornalista, peraltro autore soprattutto di articoli incisivamente brevi, tanto le testimonianze di parenti, amici e collaboratori quanto le carte rimandano l’immagine di un uomo che è rimasto per tutta la vita uno studioso, per quanto sin da subito la vocazione civile ha finito col prevalere in lui su quella alla ricerca. La parabola del Cederna scrittore inizia non a caso con un’ampia relazione di scavo negli “Atti dell’Accademia nazionale dei Lincei” e termina con una severa polemica contro una deriva giornalistica che predilige il colore e la sensazione rispetto all’indagine accurata e al ragionamento approfondito. E se in molti rivendicano oggi a Cederna, come ricorda non a caso Edoardo Salzano, la qualifica di urbanista tout court le sue competenze e il suo livello di elaborazione in campo ambientale non furono da meno.
A testimonianza di ciò sta anzitutto il modo in cui Cederna si avvicinò alla protezione della natura. La quasi totalità dei suoi articoli degli anni Cinquanta, pubblicati invariabilmente su “Il mondo”, riguardano i beni culturali, l’urbanistica e - in qualche misura - il paesaggio. La questione ambientale comincia timidamente ad apparire soltanto nel 1960, cioè dopo quasi dodici anni di attività giornalistica, sotto la veste ancora tutta urbana del “verde”, come ancora in gran parte urbano è il taglio del primo convegno di Italia Nostra sull’argomento, del dicembre dello stesso anno e del quale Cederna riferisce puntualmente sul settimanale. L’imprinting del ricercatore si manifesta però molto presto: mentre l’associazione si muove con disagio e piuttosto timidamente sul “nuovo” terreno della protezione della natura, Cederna capisce subito che lì c’è un ampio terreno di impegno civile, di nuovi diritti e insomma di questioni politiche che travalica una impostazione limitata alla dimensione del verde urbano o del semplice paesaggio. Come mostra la sua corrispondenza privata degli inizi del 1962, oltre a documentarsi sulle attività del National Trust inglese egli si è procurata quella che all’epoca è una delle bibbie del protezionismo internazionale, cioè il volume Derniers refuges. Atlas commenté des Réserves Naturelles dans le monde pubblicato nel 1956 dall’Union internationale pour la conservation de la nature, l’Uicn, ma non bastando certamente questo tutto questo si rivolge con estrema umiltà a uno dei pochissimi grandi esperti italiani del settore: il direttore del Parco nazionale del Gran Paradiso, Renzo Videsott. Nella lettera che Cederna gli indirizza il 12 febbraio 1964 due cose colpiscono.
La prima è appunto l’umiltà, la fattiva serietà:
«Occorre che io mi istruisca sulla storia della protezione della natura nel mondo, metodi, istituti, mezzi, esempi stranieri, eccetera. Questo volevo chiederLe: Lei può consigliarmi in proposito, magari indicandomi una prima bibliografia sommaria e orientativa?»
La seconda è un brevissimo accenno che però anticipa una visione e una posizione che Cederna terrà fino alla fine:
«In Italia, come Lei ben sa, bisogna battersi accanitamente per la difesa della natura in tutti i suoi aspetti. Ma per fare questo occorre liberare la gente dall’imparaticcio della filosofia idealista che ha insegnato che la natura e il bello di natura non esiste, che è cosa soggettiva.»
Qui Cederna mostra anzitutto di aver compreso che la difesa della natura ha molti aspetti, alcuni dei quali sicuramente già conosce mentre altri gli sfuggono ancora, anche se non sono meno importanti. Qui credo che stia uno degli elementi che rende più gravosa l’“assenza” di Cederna e meno raccolta la sua eredità: il fatto cioè che Cederna era pervenuto a “vedere insieme”, in modo saldamente unitario, beni culturali, questione urbana e territoriale, paesaggio e protezione della natura nelle sue varie accezioni. Uno sguardo olistico che - mi pare di vedere - non ha avuto finora in Italia eredi alla sua altezza. In secondo luogo Cederna sembra comprendere sin da ora, anche se in modo ancora embrionale, che la questione della protezione della natura, del paesaggio e del territorio non si può definire soltanto o prioritariamente in termini di valori morali o estetici, con tutto il carico di preferenze squisitamente soggettive che uno sguardo di questo tipo comporta. Cederna sembra comprendere al contrario che proprio dal protezionismo viene la richiesta di fondamenta ulteriori e più salde per la battaglia in difesa di beni universali, sia che si tratti di beni patrimoniali sia che si tratti di beni ambientali: fondamenta che stanno anzitutto nel sapere tecnico-scientifico e nel riconoscimento dell’utilità collettiva di un modello di sviluppo moderno ma razionale. In questo Cederna si ritrova sintonia sia col “vecchio” protezionismo italiano rappresentato da Videsott e da Alessandro Ghigi sia coi giovani del “gruppo verde” di Italia Nostra che hanno iniziato a operare da pochi mesi in seno all’associazione: Arturo sio, i fratelli Carlo Alberto e Pier Dionigi Pinelli, Paola Onelli e il più maturo Bonaldo Stringher jr.
Nel corso degli anni Cederna affinerà progressivamente questa visione sia convertendo una parte cospicua della propria attività pubblicistica a questioni di protezione della natura e in particolare alla questione delle aree protette, sia ribadendo la necessità di un approccio nutrito, si, di una salda passione morale e civile e di una imprescindibile sensibilità estetica ma anche e soprattutto di solide valutazioni tecnico-scientifiche e di obiettivi chiari.
Ciò fa in modo che quando, verso la fine degli anni Sessanta, la questione dell’ecologia intesa ormai in senso planetario viene all’ordine del giorno anche in Italia Cederna può ritrovarsi in in pieno all’interno del piccolo drappello di giornalisti che si sforzano di illustrarla all’opinione pubblica e di approfondirla, accanto in particolare ad Alfredo Todisco e Giorgio Nebbia. Proprio con Nebbia, ad esempio, con Vi rginio Bettini e con una giovane GraziaFrancescato Cederna è a Stoccolma per raccontare il vertice globale sull’ambiente del giugno 1972 mentre assieme a Todisco coordina e anima l’anno successivo un convegno organizzato dal suo giornale, il “Corriere della Sera”, volto all’elaborazione di “80 proposte per salvare l’ambiente” che vede la partecipazione tra gli altri di Aurelio Peccei, Leonardo Benevolo, Giorgio Ruffolo, Alberto Predieri, Franco Tassi e Giuseppe Montalenti.
Ma Cederna ha modo di ribadire più volte nel corso degli anni, in pratica fino alla fine, il suo approccio olistico, anti-aristocratico e anti-idealista alle questioni del patrimonio, del territorio e dell’ambiente abbozzato nella lettera del 1962 a Renzo Videsott, in questo mostrando di essere un autentico erede della tradizione lombarda che discende da Carlo Cattaneo. Lo farà infatti ancora nel 1975 nell’ampio saggio che introduce il fortunato volume einaudiano La distruzione della natura in Italia nel quale mette sotto accusa - in modo persino ingeneroso - la legge sulla bellezze naturali del 1939 a causa del suo impianto essenzialmente visuale e lo farà nuovamente nel settembre 1991 in un articolo per “la repubblica” nel quale appoggerà l’integrazione dell’articolo 9 della Costituzione con un riferimento alla natura.
In ogni caso il Cederna ambientalista, in ciò effettivamente coerente con le sue origini di fondatore e animatore di “Italia Nostra”, i spenderà soprattutto per la difesa dei parchi naturali esistenti e per la creazione di nuovi lasciando così un poco più sullo sfondo le grandi questioni sollevate, ad esempio, dal Club di Roma. E l’impegno per l’istituzione della riserva di Migliarino-San Rossore - una delle campagne più antiche e vivaci del movimento protezionista italiano del dopoguerra - è solo uno dei tanti terreni su cui Cederna si cimenta a partire dal 1962-63. Una ricognizione complessiva di questo suo impegno per le aree protette è tutta da effettuare ma è possibile qui ricordare almeno come il legame personale con Renzo Videsott prima e con Franco Tassi poi lo renderà per anni testimone diretto e costante delle vicende dei primi due parchi nazionali italiani e come l’iter e l’approvazione della legge quadro del 1991 sarà una delle iniziative parlamentari che lo impegnerà di più nel suo mandato a Montecitorio.
Nel 1989, Antonio Cederna presenta come primo firmatario una proposta di legge per Roma Capitale. Il futuro della città è immaginato attorno a tre linee fondamentali, riguardanti la direzionalità pubblica, il sistema dei trasporti e il parco storico-archeologico dei Fori e dell’Appia, vero e proprio elemento unificatore della città intera, dall’area centrale fino ai piedi dei Castelli Romani. Come ha scritto, su eddyburg, Vezio De Lucia “la relazione alla proposta di legge è una delle più suggestive e convincenti pagine dell’urbanistica moderna, una vera e propria lezione che dovrebbe essere diffusa nelle scuole e nell'università”.
Riferimenti
La relazione e la proposta di legge sono consultabili nell’archivio della Camera dei Deputati. Nell’archivio di eddyburg, una cartella intera è dedicata a Gigi. Un suo ricordo, qui.
Oasis, I, 3 mag.-giu. 1985
TERRITORIO SPAZIO DI VITA
ra che i giochi politici sono fatti vedremo se le promesse e le parole spese durante la campagna elettorale si tradurranno in programmi e azioni concrete: se cioè verrà affrontato il problema di fondo dell’ambiente italiano, il problema delle risorse scarse e del loro utilizzo ragionevole e parsimonioso.
La risorsa scarsa, limitata, irriproducibile per eccellenza è il suolo, il territorio: ogni sforzo dunque va fatto per porre fine al consumo irresponsabile che ne è stato fatto in decenni di sprechi, leggerezze e saccheggi.
Se si continuasse col passo attuale della cieca espansione edilizia, stradale, industriale eccetera, tra poco più di un secolo tutta l’Italia sarebbe ricoperta da una continua, ininterrotta, repellente crosta edilizia e di asfalto, tale da distruggere ogni produttività agricola e cancellare la stessa fisionomia paesistica, naturale, culturale di quello che fu chiamato il Bel Paese. Bisogna dunque che con l’aiuto di urbanisti ambientalisti ecologi, le pubbliche amministrazioni (comuni, province, comunità montane, regioni, eccetera) si decidano a fare sistematicamente i conti, a fornire le cifre relative al consumo di suolo e territorio perché tutti possano rendersi conto del disastroso traguardo che ci sta davanti se non si cambia rotta: un’Italia a termine, destinata ad essere tutta consumata e finita nelle prossime tre o quattro generazioni.
Gli amministratori sono restii a fare calcoli e a fornire le cifre, perché sono un essenziale strumento di conoscenza che può mettere in crisi il partito dei saccheggiatori: ma qualcuno ha cominciato a informare la pubblica opinione. I dati sono ancora parziali: ma come le “proiezioni” fatte alla televisione dopo la chiusura dei seggi elettorali esaminando un numero assai limitato di schede, già possono dare attendibili indicazioni su quello che sarà il risultato finale. Dunque, dai calcoli del CENSIS coi dati dell’ISTAT, risulta quanto segue.
Il suolo agricolo utilizzabile nell’ultimo decennio è diminuito del 9,4 per cento, perché distrutto dall’avanzare dell’urbanizzazione o perché abbandonato.
Regione per regione, è diminuito dell’8 per cento in Veneto e Lombardia, dell’11 per cento in Calabria, del 12 per cento in Liguria, Piemonte e Sicilia, del 16 per cento in Sardegna, del 17 per cento nel Friuli-Venezia Giulia. Nell’ultimo trentennio le aree non più classificabili come utilizzabili a fini produttivi hanno raggiunto la dimensione di circa 5 milioni di ettari (una superficie pari a Piemonte più Lombardia): il consumo è proceduto a un ritmo medio di 150.000 ettari all’anno.
In particolare, le aree antropizzate, cioè urbanizzate, sono raddoppiate: l’espansione delle città ha divorato la campagna al ritmo di 25-35.000 ettari all’anno. In sintesi, come ha calcolato Giuliano Cannata della Lega Ambiente, dal ’70 all’81 i terreni perduti perché abbandonati o occupati da edifici, strade, industrie, cave, discariche eccetera, sono passati dal 12,5 al 20,6 per cento del totale, pari a un consumo medio dello 0,7-0,5 per cento all’anno: nell’ultimo ventennio circa 3 milioni di ettari di terreni agricoli sono andati distrutti (e sono un decimo dell’Italia). Come a dire che se si continuasse ad andare avanti così, “tutto il territorio italiano, dal Cervino a Capo Passero, sarebbe finito in poco più di cento anni”.
Questa prospettiva suicida è il risultato di quella distorsione mentale che il CENSIS chiama “rimozione del territorio”. Con incoscienza l’abbiamo considerato come un vuoto da riempire, una res nullius, un oggetto di baratto e una fonte di lucro: i comuni hanno confezionato strumenti urbanistici grottescamente sovradimensionati, senza alcun rapporto coi reali fabbisogni, praticamente considerandolo tutto edificabile. Qualcuno ha calcolato che se si sommassero le cubature previste da piani regolatori e programmi di fabbricazione, l’Italia risulterebbe capace di ospitare, sulla carta, una popolazione superiore a quella degli Stati Uniti o dell’Unione Sovietica. Costruire il superfluo e l’inutile, questa la regola, e basta osservare quel che risulta dal censimento: in dieci anni la popolazione è aumentata di due milioni di abitanti, mentre sono state costruite 22 milioni di stanze, in buona parte seconde, terze, quarte case (per non parlare dell’enorme massa dell’abusivo): per cui oggi per 56 milioni di italiani ci sono più di 80 milioni di stanze.
Il deprimente spettacolo che offre il nostro Paese è sotto gli occhi di tutti. Un inverecondo sparpagliamento edilizio sommerge pianure e colline, abolendo ogni distinzione tra città e campagna e sommergendo le aree agricole, nell’ignoranza completa delle caratteristiche del suolo, nel disprezzo per gli aspetti paesistici, per l’ambiente naturale. L’edilizia dilaga a nastro lungo le strade, a ragnatela nelle periferie urbane: al costruito si accompagna l’asfalto, le discariche di rifiuti, in terreni vaghi, degradati, l’abbandono (a ogni ettaro costruito ne corrisponde mediamente un altro in attesa di essere liquidato).
È il “deserto abitato” che avanza nel disordine totale, rendendo a poco a poco irriconoscibile l’Italia: una clamorosa smentita alle regole elementari del vivere associato, un’incolta irrisione a ogni norma elementare di pianificazione urbanistica, una crescita dissennata che aumenta paradossalmente proprio mentre cala l’incremento demografico.
Una documentazione fotografica di questo dissesto territoriale, nella sua varia tipologia, sarebbe quanto mai utile in una rivista come questa.
Due sono le indagini recenti che danno un’idea drammatica della situazione: una riguarda l’area metropolitana milanese e la Lombardia in generale, l’altra la provincia di Roma. Come è stato documentato recentemente dal “Centro documentazione e ricerche” della regione Lombardia, nell’area metropolitana milanese (oltre un centinaio di comuni, 180.000 ettari) il consumo di territorio ha ormai raggiunto il 33 per cento, in nove anni (1963-1972) ne è stato distrutto più che nel secolo precedente, e si procede al ritmo dell’1 per cento all’anno, anche se è finita la grande espansione economica e demografica.
Il piano territoriale comprensoriale ha posto dei limiti alle previsioni comunali, e si propone di contenere l’espansione complessiva entro il 50 per cento, entro il duemila, che è già una “soglia di allarme”: se invece le cose continuassero ad andare per il verso sbagliato, osserva Gianni Beltrame, direttore del comprensorio, tutto il suolo verde e agricolo dell’area metropolitana milanese sarebbe finito entro 67 anni.
Al consumo di territorio per incontrollato avanzare di urbanizzazione, si aggiunge quello dovuto al degrado (brutta parola diventata ormai di uso comune), cioè a quell’insieme di interventi in vario modo offensivi e distruttivi, che vanno dall’attività selvaggia delle cave alle discariche di rifiuti all’isterilimento del suolo nelle sudice frange periurbane. Come ha osservato l’economista Mercedes Bresso al citato convegno, in Lombardia le cave, “vera e propria industria del dissesto”, compromettono circa 20.000 ettari, pari al 2 per cento della superficie regionale. Ad essi va aggiunto un 1-2 per cento di discariche e depositi di rifiuti, più un 8 per cento di “degrado diffuso” (spazi compromessi da utilizzazioni precarie, fasce di rispetto stradale, variamente occupate, depositi di materiali industriali, fabbricati in stato di abbandono eccetera): si arriva così all’11 per cento di territorio degradato, pari a circa 100.000 ettari, quasi il 10 per cento del suolo utile lombardo. Disordine, spreco, inquinamento delle falde idriche, erosione del suolo, distruzione di terreno agricolo: quanto costa il risanamento, il ripristino, il recupero di un terreno così devastato? Si valuta che il costo sarebbe di 35-40 milioni ad ettaro, quindi in Lombardia occorrerebbe spendere 3.500-4.000 miliardi, che diventano almeno 10.000 se l’operazione venisse estesa ai casi che richiedono interventi complessi (sgomberi, abbattimenti eccetera). Ecco quali sono i costi sociali scaricati sulla collettività dal saccheggio del territorio.
Altri dati allarmanti vengono forniti dall’indagine condotta dall’Assessorato al bilancio e programmazione della provincia di Roma, circa le destinazioni d’uso previste dagli strumenti urbanistici dei 118 comuni che la compongono. Il risultato è che, senza contare Roma, è prevista l’edificazione (tra zone di espansione, di completamento e turistiche) di 2.300 stanze per altrettanti abitanti: se si aggiungono i 7-800.000 vani residui previsti dal piano regolatore di Roma (tra edilizia privata e pubblica) si arriva a più di 3 milioni di stanze: come costruire ex novo un’altra Roma accanto all’esistente. A tanto può giungere il sonno della ragione, l’allegra incoscienza urbanistica (intanto, da anni, il territorio della provincia romana viene consumato al ritmo di tre ettari al giorno).
La prospettiva è dunque catastrofica: il “giardino d’Europa” corre alla rovina, e rischia di essere consumato entro poco più di un secolo, a meno che mentalità, cultura e politica non cambino radicalmente. Che fare? Occorre mettere finalmente da parte il mito anacronistico, folle e rovinoso della crescita illimitata fatta solo di sprechi, e decidersi a considerare il territorio come il bene più prezioso perché scarso e limitato, quindi come bene collettivo da conservare gelosamente. Non si salva ciò che non si conosce: è urgente impegnarsi alla conoscenza scientifica del territorio e del suolo nei loro aspetti produttivi, fisici, geomorfologici, ambientali, paesistici, naturalistici (uno studio del genere è stato fatto dal comune di Padova), e imparare a rispettarli.
Dobbiamo rovesciare il nostro modo di agire: non più urbanizzare alla cieca risparmiando eccezionalmente (quando pure a fatica ci si riesca) qualche area eminente, ma trattare tutto il territorio come un parco in linea di principio inedificabile, alla cui rigorosa salvaguardia subordinare ogni eventuale intervento. Altrimenti assisteremo alla distruzione del nostro stesso spazio di vita, e poco a poco la terra ci sarà strappata materialmente di sotto i piedi.
La sua caratteristica principale come professore, sviluppata in decenni di impegno e sulla base di una cultura urbanistica e storico-architettonica "fatta a mano", su documentazioni molto più che su ipotesi, è stata una fortissima e appassionata impronta maieutica nei confronti degli allievi a lui più vicini, che Mario aveva il vezzo di vantare che fossero in genere di quantità non eccessiva.
Infatti, per Mario Cusmano, l'ammissibilità deve dipendere da correttezze e coerenze proprie e interne alla elaborazione del pensiero urbanistico fortemente applicato ai luoghi specifici e alla dimensioni precipue delle città "proporzionate", opportunamente trasferite in regole intrinseche, che non costituiscono affatto dettagli valicabili a piacere ovvero sulla base di leggi e norma di comodo o ad hoc.
Da una tale impostazione discende che il ruolo del professionista urbanista, dell'autore del piano, al di là della forma transeunte in cui possa esercitarsi, non è eliminabile. Come deriva una concezione della ricerca scientifica applicata ai campi dell'Urbanistica nettissimamente caratterizzata dalla subordinazione agli interessi pubblici istituzionalmente sovraordinati, matrice di qualsivoglia tipo o sottotipo di metodica pianificatoria.
Tutto ciò ha consentito al Professor Cusmano di avviare programmi di ricerca applicata o applicabile sempre ben concepiti e pubblicamente ben orientati , concordati con Enti Pubblici ed , in genere, a chiaro scopo pianificatorio. Ciò soprattutto nel difficile campo degli studi su cui possono fondarsi le pianificazioni provinciali o di area vasta, fra cui quello relativo al territorio vasto fiorentino, le cui categorizzazioni rimangono esemplari quantomeno nella elaborazione concettuale, che, naturalmente, deve subire, per Mario, aggiornamenti costanti mai streotipizzate, nelle fasi operative.
Di Mario Cusmano, che fu per me il Maestro fondamentale a conclusione dei miei studi universitari, ho sentito già da quando ha voluto dedicarsi solo allo studio individuale e sento fortemente ora che ci ha lasciato il bisogno di avere a fianco la sua grande sua capacità di sinteticità critico-propositiva, che infondeva sicurezza e conforto, specie nell'ambito di questo nostro mestriere complesso e oggi, purtroppo, anche imbrattato da comportamenti che Mario, spesso con ben pochi altri, ha sempre avuto il coraggio di denunciare anche a costo di rimanere, ma solo apparentemente, isolato.
Trenta giorni sono passati dalla scomparsa di Vincenzo (Cenzi) Cabianca: un urbanista che non ha mai avuto i riconoscimenti che oggi si attribuiscano alle “star”, ma che ha svolto un ruolo di assoluta avanguardia per un aspetto del governo del territorio che oggi ci sembra più che mai decisivo: il rapporto tra organizzazione dello spazio della vita delle persone e preesistenze storiche e naturali. Cabianca ha insegnato ai suoi numerosi studenti che i beni culturali, dal paesaggio ai lasciti della storia più antica, , non sono come isolati da proteggere in una bacheca (né tanto meno spazi residui di un oceano di cemento e asfalto da completare, ma devono essere adoperati come lematrici di un nuovo modo di organizzare l’habitat dell’uomo.
Questo impegno culturale non è stato per Cabianca solo l’espressione di una teoria - di un pensiero - ma la premessa di un’azione da sviluppare e rendere concreta adoperando il mestiere dell’urbanista: un mestiere che ha esercitato non solo negli ambiti delle aule universitarie e degli studi professionali, ma anche nel campo politico e sociale della battaglia culturale. Cabianca è stato infatti vicepresidente dell’Istituto nazionale di urbanistica (INU) in anni decisivi della storia dell’istituto e della politica italiana: nel cuore di quel ventennio della speranza che separa gli anni della ricostruzione postbellica da quelli dell’avvio e dell’affermazione, in Italia e nel mondo, del neoliberismo.
Per ricordare Vincenzo Cabianca pubblichiamo di seguito due testi, che lo ricordano in due significativi momenti del suo contributo: il piano regolatore di Siracusa e la ricostruzione dell’Inu dopo la sua crisi del 1969. L’uno e l’altro sono tratti dai materiali di un convegno organizzato dall’associazione Fratelli Rosselli, di cui alleghiamo la locandina. Per una più completa conoscenza rinviamo al volume Vincenzo Cabianca, Documenti su vent'anni di utopia urbanistica a Siracusa. Tra neoilluminismo e neoromanticismo, curato da Giuseppe Palermo e pubblicato da La casa del nespolo, Roma 2013: qui di potete leggere, su questo sito, l'introduzione di Cabianca al suo libro.
VINCENZO CABIANCA E IL PIANO DI SIRACUSA
di Umberto De Martino
Stralci dalla relazione introduttiva all’incontro organizzato dal Circolo Fratelli Rosselli, Roma
Il Circolo Fratelli Rosselli di Roma ha avviato quest’anno un ciclo di incontri, unificati dal titolo “Dal pensiero all’azione”. […] Oggi abbiamo preso a campione il lavoro di un urbanista, Vincenzo Cabianca, mettendo a confronto il suo pensiero, che gli deriva dalla sua formazione culturale, ed il risultato raggiunto su un particolare campione dove ha operato per decenni, la città di Siracusa e il suo Piano Regolatore.
Va premesso che, se è vero che il prodotto che si ottiene come applicazione di un pensiero originale viene via via modificato dall’operare in un contesto esterno, con altri interlocutori dialoganti e con l’influenza che ne deriva, ciò è ancor più evidente nel caso dell’urbanistica dove il risultato finale, in questo caso l’assetto e lo sviluppo di una città, è frutto della concorrenza di soggetti che in modo più o meno palese interloquiscono intensamente con il progettista: operatori economici, cittadini, politici, e così via.
I nostri “tre eroi”, invece, avevano culturalmente ben assimilato le novità più importanti in campo urbanistico, novità tra le quali primeggiava l’esperienza della pianificazione olandese, e di Amsterdam in particolare, diffusa in Italia da Astengo attraverso la rivista “Urbanistica” (e i cui principi erano stati, peraltro, anche trasferiti nello spirito della legge urbanistica italiana del 1942, poi purtroppo del tutto travisati): piani non più planovolumetrici ma di destinazione d’uso dei suoli, rinvio della realizzazione dei quartieri di espansione a piani esecutivi di iniziativa pubblica da progettare di volta in volta a seconda della necessità, dotazione programmata di servizi pubblici e di aree verdi sia a livello urbano che di quartiere.
Ma, e questo è il particolare più importante, i progettisti si sono trovati ad operare su un territorio di straordinario valore storico-archeologico, valore che l’opinione degli “addetti ai lavori” (proprietari terrieri, tecnici anche pubblici, operatori economici, perfino gran parte dei cittadini) riteneva un intralcio alla modernità dello sviluppo urbano e non una risorsa da esaltare e mettere a frutto. (Peraltro questa è stata una carenza della cultura italiana ancora per molti anni, dove nei piani regolatori – come quello di Roma del 1962 – ci si limitava a coprire i centri storici con una coloritura unitaria, rinviando a successive, ma anche astratte, pianificazioni specifiche: come se i centri storici non fossero parte integrante della città complessiva. Anche qui dovremo aspettare l’esempio progettuale di Astengo per Assisi e le teorizzazioni dell’ANCSA).
Ciò non è stato nel caso del Piano di Siracusa, dove all’assetto dell’espansione si è accompagnato simultaneamente quello della valorizzazione dei beni archeologici e dell’ambiente. Il piano del 1952-’56 nasce così da una cultura moderna, europea di governo dell’assetto urbano e da una specifica sensibilità dei progettisti, e di Cabianca in particolare; sensibilità che lo ha caratterizzato come “tra i primi che hanno dato vita ai Piani Urbanistici basati sul primato dei beni Culturali, sulla salvaguardia e valorizzazione dei Centri Storici, e sull’armatura culturale del territorio”.
Proverò ad illustrare sinteticamente i punti salienti di questo Piano, peraltro ampiamente descritto nel n. 20 (settembre 1956) della rivista Urbanistica.
Espansione di progetto articolata in quartieri da realizzare per iniziativa pubblica, dotati di servizi e circondati dal verde.
Per le zone di espansione veniva decisamente superato il metodo della previsione astrattamente precostituita per singoli lotti edificabili minuziosamente disegnati, utilizzato nella precedente pianificazione. Veniva invece previsto un sistema di aree a destinazione d’uso residenziale con integrato un mix di edilizia sovvenzionata, dimensionate in modo conforme rispetto alla dotazione di servizi necessari per i singoli quartieri, circondato da un sistema di aree verdi, dotato altresì di aree per attrezzature generali e servito tangenzialmente dalla grande viabilità di attraversamento e connessione sovra comunale. Di tali quartieri non veniva prefigurato il sistema edilizio e la loro progettazione attuativa veniva rinviata all’insorgere delle necessità insediative. Oltre alla corretta previsione delle zone di nuova espansione, nel Piano veniva particolarmente curata l’integrazione e la razionalizzazione delle zone residenziali già esistenti al di là dell’Ortigia.
Viabilità comunale di progetto, allontanata dalla costa per salvaguardarne le caratteristiche e ”di margine” rispetto all’Epipoli.
Area industriale unitaria e protesa verso il polo petrolchimico di Augusta.
Salvaguardia delle zone archeologiche (Neapolis, latomie, castello di Eurialo, mura dionigiane); piano della Neapolis non isolato dalla città ma strettamente integrato con la pianificazione della città stessa.
L’intervento progettuale più importante, che ha rappresentato una vera novità in campo urbanistico, è stato mosso da un atteggiamento culturale del tutto innovativo rispetto ai beni archeologici e alle qualità ambientali. Il sistema storico-ambientale, singolarmente rappresentato da elementi di inestimabile valore (Neapolis, Latomie, Castello di Eurialo, Teatro greco, Mura dionigiane, ecc.) è stato affrontato non come salvaguardia di singoli elementi ma come un tutt’uno da affrontare e valorizzare nella sua unità storica. Inoltre la progettazione dei vari elementi componenti il sistema non è stata rinviata a un ipotetico futuro ma è stata ideata e proposta insieme al progetto di Piano Generale come parte integrante se non addirittura principale del Piano urbanistico complessivo.[…]
VINCENZO CABIANCA E L'INU
di Vezio De Lucia
Il XII congresso dell’INU, dedicato a L’iniziativa urbanistica delle regioni, doveva svolgersi a Napoli, nel teatro della mostra d’Oltremare, il 14 e 15 novembre del 1968. L’INU era allora un’associazione molto accademica, che operava come importante snodo fra l’università, le professioni e la pubblica amministrazione, in particolare con la direzione generale dell’Urbanistica del ministero dei Lavori pubblici. Si tenga conto che ancora non erano state istituite le regioni (lo furono nel 1970) e l’urbanistica di tutti i comuni d’Italia faceva capo a Roma.
Il congresso cominciò regolarmente alla presenza delle autorità – ministro, sindaco, vescovo e prefetto – ma fu subito interrotto dalla contestazione, perfettamente organizzata, di studenti di architettura che ricoprirono le pareti con tazebao, poi iniziarono il lancio di rotoli di carta igienica, mentre le autorità cominciavano a svignarsela. Invano Giuseppe Campos Venuti, balzato sul palco, urlando al microfono, cercava di fermare la polizia intervenuta a sgomberare la sala. Si chiuse così una fase della vita dell’Inu, quella caratterizzata dalla prevalenza dei grandi interessi accademici e professionali e dai rapporti sostanzialmente subalterni alle politiche di governo. Ma, al tempo stesso, l’INU godeva allora, nel mondo politico e sulla stampa, di un prestigio indiscusso e mai più recuperato.
I reduci di Napoli s’incontrarono alla fine di maggio dell’anno dopo ad Arezzo, dove si confrontarono due schieramenti: chi, come Bruno Zevi, proponeva di restare legati alla tradizione fondamentalmente culturale dell’Inu e chi, invece, auspicava un ruolo pienamente politico, cercando nuovi interlocutori. Prevalse a maggioranza questa seconda posizione, rappresentata da Vincenzo Cabianca, Edoardo Detti, Marco Romano e Alessandro Tutino che avviarono la costruzione di una proposta politica e culturale radicalmente nuova, spostando l’interesse verso le organizzazione sociali, a cominciare dai sindacati, che proprio in quegli anni erano attivamente presenti nella vita pubblica.
Ad Arezzo fu eletto presidente l’insigne costituzionalista Paolo Barile, vicepresidente Cabianca, che ressero l’istituto per un anno, avviandone la ripresa dopo la contestazione di Napoli. Qualche protagonista della precedente gestione lasciò l’istituto, fra questi Bruno Zevi, che ne era stato prestigioso segretario generale.
L’apertura ufficiale della nuova fase dell’INU fu il convegno di Bologna del 1970. Il tema era Il controllo pubblico del territorio per una politica della casa e dei servizi. Edoardo Detti sostituì alla presidenza Paolo Barile, Cabianca fu confermato alla vicepresidenza fino al congresso di Ariccia del 1972.
Mi limito qui a ricordare soltanto il ruolo da protagonista che Cenzi Cabianca svolse nei primi anni della svolta, nella nuova fase della vita dell’INU di affiancamento ai movimenti di lotta e alle organizzazioni sindacali, in particolare sul problema della casa. L’istituto assunse allora come obiettivo prioritario quello dell’“opposizione culturale”. In un documento del consiglio direttivo nazionale del 1972 si legge che l’INU “rinuncia definitivamente a caratterizzarsi come gruppo di «specialisti in urbanistica» che in quanto tali scelgono di far politica; tende invece e soprattutto a divenire un punto di raccolta di informazione e di attivazione per forze politiche, sindacali e di base (nell’intero arco della sinistra) che intendano dedicarsi ai problemi della città e del territorio e che ricerchino nell’istituto i necessari supporti tecnici e culturali”. Prendemmo le distanze dal mondo accademico e professionale, sostenemmo con puntiglio l’obiettivo che la formazione degli strumenti urbanistici dovesse essere condotta direttamente dagli enti locali, utilizzando le risorse professionali interne, adeguatamente preparate.
Ricordo gli incontri con i sindacalisti che ascoltavano affascinati – non sto esagerando – il parlare colto e forbito di Cenzi. E il suo entusiasmo nell’impadronirsi dei temi giuridici, avendo stabilito un’intesa particolare con Guido Cervati, che abbinava a un’indiscussa competenza in materia di diritto urbanistico, un’insuperata sensibilità sociale che lo induceva a orientare sapientemente le interpretazioni delle norme a favore degli interessi popolari (diritto evolutivo).
Cabianca restò nel CDN fino al 1990 – per ventuno anni – quando per l’INU ebbe inizio l’interminata stagione del revisionismo e del trasformismo con l’abbandono della linea dell’intransigenza e dell’autonomia che Cabianca aveva sempre difeso con determinazione.
Prima di finire, ancora un minuto per denunciare un documento recentemente adottato dalla Giunta Comunale di Siracusa e da sottoporre al Consiglio per la revisione del PRG del 2007. Devo la segnalazione a Giuseppe Palermo, il benemerito studioso che ha curato la pubblicazione del volume su Cabianca che presentiamo oggi.
Si tratta di un testo che ripresenta pedissequamente e integralmente la filosofia, e la nomenclatura dell’urbanistica contrattata di rito ambrosiano e, peggio ancora, del “modello Roma”. Non manca nulla:
· perequazione e compensazione
· nuove centralità
· appositi meccanismi premiali per incentivare l’edilizia sostenibile
· espansioni a bassa densità con il pretesto del turismo e dell’agriturismo
· social housing come cavallo di Troia per nuove edificazioni
· ammissibilità imprecisata di modificazione delle destinazioni d’uso
· sviluppo indiscriminato della viabilità.
Penso che verremmo meno alle ragioni che ci hanno indotto oggi a rendere omaggio all’impegno urbanistico di Cenzi Cabianca per Siracusa se ci astenessimo dalle necessarie azioni di vigilanza, di denuncia e di mobilitazione per evitare che, ancora una volta, a Siracusa prevalgano gli energumeni del cemento armato.
Molti anni dopo Corte del fòntego editore propose a Sandro Roggio e a me di comporre un libro sull’esperienza del piano paesaggistico della Giunta di Renato Soru (Lezione di piano, Venezia, 2013).Nel documentare attraverso una molteplicità di voci il piano e il suo contesto ci sembrava indispensabile inserire una testimonianza di Luigi. Era malato, e ci fu impossibile raggiungerlo se non per telefono. Inserimmo allora nel libro una sua intervista, rilasciata a Filippo Peretti e pubblicata da La Nuova Sardegna il 18 novembre 2002.
La ripresento oggi, perché mi sembra che non solo esprima compiutamente la qualità e le ragioni dell’impegno di Cogodi, ma rechi testimonianza di una persona (un “politico”) e un’epoca che non devono essere dimenticati. (e.s.)
Mi piace ricordare, come ho fatto altre volte, un’affermazione di Cederna della fine del 1964, contenuta in uno scritto per Il Mondo, poi riprodotto per volontà dello stesso Cederna, in Brandelli d'Italia, nel 1991. Scriveva Cederna, invocando la definizione di una "nuova legge urbanistica", ed auspicandola prossima, che essa avrebbe dovuto "garantire un'effettiva tutela dei centri storici e dei comprensori naturali", segnando "la fine, finalmente, della sporadica, occasionale, tardiva e fallita politica dei vincoli apposti dal Ministero dell'Istruzione: la tutela dell'ambiente urbano e naturale viene finalmente inclusa nella pianificazione, ne diventa una sua parte integrante e essenziale, centri storici e paesaggio e complessi naturali, da semplici apparenze che erano, diventano destinazioni di zona, con funzioni previste, nell'ambito di tutti gli sviluppi urbanistici".
È bensì previsto l'esercizio di poteri statali che, seppure censurando l'improprietà delle formulazioni di legge, la Corte costituzionale ha stabilito possano interpretarsi come “sostitutivi”, nella formazione dei "piani paesistici", in caso di inadempienza regionale. Ma l'esercizio di tali poteri può conseguire soltanto dalla totale inattività regionale, ovvero, con qualche forzatura, da un adempimento regionale che sia, incontrovertibilmente, “elusivo” dell'obbligo posto in capo alle Regioni, cioè tale da non rispondere affatto alla finalità di tutela, se non da contraddirle. In altri termini, la concorrenza dei poteri non è definita nella forma piena dell'obbligo dell'intesa, tra i poteri medesimi, sui concreti contenuti dei previsti strumenti di pianificazione. Di fatto, ad oltre tredici anni dall'entrata in vigore della legge, delle regioni a "statuto ordinario", sei non hanno adempiuto affatto, due hanno adempiuto in termini assolutamente “elusivi”, cinque in termini parziali, lacunosi, comunque assai discutibili, e soltanto due in termini pieni. Lo Stato ha esercitato i poteri sostitutivi soltanto nei riguardi di una delle regionali totalmente inadempienti.
Sette anni fa ci ha lasciati Gigi Scano. È stata una perdita grave, per ciascuno dei suoi amici e per eddyburg. eddyburg ha perso un collaboratore prezioso per l'intelligente attenzione con cui informava e orientava sistematicamente non solo sulle questioni de jure relative all'urbanistica, ma anche sui più rilevanti eventi della cultura e della politica.
Le sue scelte e i suoi commenti (e cosí i consigli che generosamente offriva a chiunque glieli chiedesse) erano sempre, dichiaratamente, di parte: era un giacobino, un uomo per il quale, secondo l’aurea definizione di Lucio Villari, "il buon governo consiste nella soggezione dell'interesse privato a quello pubblico". La politica, nel significato più alto di quel termine oggi tanto sputtanato, era il suo humus. Forse non a caso scomparve quando la politica cominciava a diventare cosa radicalmente diversa, e anzi antitetica, rispetto a quella che lui aveva conosciuto e praticato. Sempre in ombra, sempre al servizio degli altri.
Luigi Scano ha lasciato una grandissima eredità di scritti, suoi e altrui, e di documenti. L’insieme delle carte e dei materiali digitali è stato raccolto dai suoi amici. Non aveva una casa di sua proprietà (Gigi è morto povero, come aveva vissuto) nel quale si potesse custodirlo. Il materiale cartaceo è stato ospitato prima in un locale del Comune di Venezia, grazie a Enzo Castelli, oggi a Villa Hériot, sede dell’Istituto veneziano per la storia della Resistenza, grazie al suo direttore Marco Borghi.
Crediamo che il lascito di Gigi sia un patrimonio prezioso, la cui conoscenza potrebbe aiutare oggi tutte le persone di buona volontà che volessero attingervi. Per conto nostro cominceremo col riprendere dal nostro archivio digitale, o da testi ancora cartacei scanditi per l’occasione, alcuni scritti che ci sembrano ancor oggi di grande attualità.
Ci piacerebbe festeggiare, fra tre anni, il decimo anniversario della sua morte con l’avvio di un lavoro più sistematico sul patrimonio che ci ha lasciato. Ma è un’impresa per la quale eddyburg non ha neppure le risorse per cominciare. Per ora, vi ricordiamo che alcuni scritti di Gigi sono raggiungibili nel vecchio archivio di eddyburg e altri via via ne inseriremo, nelle cartelle “Scritti di Gigi Scano” e “Per la sua Venezia”, mentre altri materiali raccolti alla sua scomparsa sono riuniti in altre cartelle qui.
Il manifesto, 28 gennaio 2015
La prima edizione del saggio di Lefebvre è del 1970, ma fu presto archiviato perché ritenuto un manoscritto incompleto. Da alcuni anni, però, il geografo David Harvey ha attinto a Il diritto alla città come una miniera di suggestioni per analizzare il ruolo della metropoli come un hub delle dinamiche economiche e sociali della contemporaneità. Ha dunque fatto bene la casa editrice ombre corte a ripubblicarlo, corredandolo di una utile prefazione di Anna Casaglia, che inquadra storicamente il saggio del filosofo francese (Il diritto alla città, pp. 138, euro 14).
I monumenti del potere
Il funzionalismo rappresentava per Lefebvre un macigno che impediva un’adeguata analisi della città, anche se invitava comunque a prendere ciò che di buono avevano prodotto gli emuli europei di Parson: l’idea cioè che la città è la forma del vivere associato che meglio di altre consente a definire il luogo, meglio i luoghi della produzione della ricchezza. È su questo crinale che Lefebvre usa una famosa frase di Marx laddove scriveva che se il mulino sta al capitalismo mercantile, la macchina al vapore sta al capitalismo industriale. Lefebvre la evoca per sintetizzare la successione delle diverse forme di città che hanno accompagnato lo sviluppo economico. Così la città orientale è connaturata al modo di produzione asiatico, mentre la città antica è funzionale all’economia schiavistica, così come la città medievale ha potuto imporsi solo in presenza del feudalesimo.
Al di là di questa tassonomia, tanto la città orientale che quella medievale erano i luoghi dove re, imperatori, aristocratici e mercanti ostentavano il loro potere e status. La città è immaginata come un’opera che rispecchi una concezione dominante delle relazioni e gerarchie sociali. Ma in quanto «opera», non può rimanere indifferente al divenire storico e sociale. Deve cioè mutare. La città, dopo il Rinanscimento, diventa così il luogo dove il reale deve manifestare una intima coerenza, un’armonia monumentale che occulti la dimensione sociale, conflittuale che è insita a questa forma del vivere. Una coerenza del reale che non verrà mai raggiunta. I monumenti, le opere architettoniche, i dipinti e disegni rinascimentali sono cioè da considerare la rappresentazione iconografica di una città ideale che non è mai esistita, né che esisterà mai.
Nel diritto alla città ci sono pagine piene di sarcastica critica di tutte le metafore «naturalistiche» della città (il tessuto urbano, l’habitat urbano), segnalando che la nostalgia per un passato mitico sulla città rappresenta l’incapacità del potere costituito di prospettare una riconciliazione della società urbana con il territorio. E se per la maggioranza della popolazione diviene è al tempo stesso il luogo di un possibile riscatto da una condizione di indigenza e povertà e lo spazio dove i legami sociali primari - la famiglia, la parentela, persino le corporazioni - sono stravolti dallo ormai inarrestabile sviluppo capitalistico, per gli urbanisti è lo spazio dove immaginare una riconciliazione tra l’«ordine prossimo» (le relazioni sociali determinate dal regime della proprietà privata) e l’«ordine remoto» (lo stato). Per questo, secondo Lefebvre, gli urbanisti sono gli ideologi per eccellenza del capitalismo, perché con i loro progetti e interventi fanno sì che la città diventi la «mediazione delle mediazioni», cioè lo spazio dove il potere costituito ha la sua legittimazione.
L’impossibile sintesi
Non sembri però una nota stonata che in questo piccolo, ma denso saggio non compaiano mai riferimenti ai filosofi, sociologi che tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento hanno scritto pagine importantissime sulla città. Georg Simmel è infatti ignorato, così come il Walter Benjamin della Parigi capitale del XX secolo. E nulla viene detto sulle riflessioni di un modernista convinto come lo statunitense Lewis Munford. Un solo passaggio liquidatorio è dedicato a Le Courbusier, ritenuto un funzionalista che ambisce a diventare l’«uomo di sintesi» di quella che viene ironicamente chiamata la società urbana. L’obiettivo di Lefebvre, infatti, non attiene allo svelamento di come si è formata la metropoli, bensì di registrare un’altra «grande trasformazione» in corso tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del Novecento. Il progetto razionalista di riportare ordine nelle metropoli è stato sconfitto da un’alleanza tra urbanisti, amministratori e immobiliaristi tesa a trasformare la città in una «infrastruttura» del governo politico della società e della produzione di merci. La metropoli non è cioè un luogo passivo che riflette ciò che avviene nel mondo della produzione, ma è il contesto dove l’urbano interviene direttamente nella produzione.
Il diritto alla città auspicato da Lefebvre è così un antidoto a una totalità dove produzione, consumo e circolazione della merci sono ormai tre momenti non distinti, ma complementari l’uno all’altro nel tempo e nello spazio. Per questo la città diventa a tutti gli effetti il luogo del desiderio, dei bisogni sociali, della dimensione ludica, trasgressiva inerente i rapporti sociali, ma anche lo spazio dove il potere punta ad esercitare una funzione di controllo a distanza attraverso incentivi alla produzione di segni che rispecchino sì la dimensione multiforme dei rapporti sociali, ma per piegarla alla riproduzione dei rapporti sociali.
Può sembrare un’ironia della storia, ma Lefebvre scrive del conflitto sempre più evidente tra un 99 per cento della popolazione e un 1 per cento che si appropria di tutta la ricchezza prodotta. Lo scrive due anni dopo che nel quartiere latino di Parigi oltre a bruciare le automobili è stato archiviato il sogno razionalista di una città ordinata e facilmente controllabile attraverso le forze preposte all’ordine pubblico. Ma all’orizzonte non c’era nessun Occupy Wall Street, né movimento sociale teso alla riappropriazione dello spazio urbano trasformato in un atelier produttivo. Lefebvre annota solamente che la totalità costituita dalla città ha bisogno di strumenti sofisticati per essere destrutturata. La filosofia e la sociologia, certo, ma anche la linguistica, l’antropologia, la teoria dell’informazione. Le ultime pagine del libro indicano solo un programma di lavoro che Lefebvre continuò a svolgere, intersecandolo con altri libri anche’essi assenti da molti anni nelle librerie, come la monumentale critica della vita quotidiana e l’altrettanto ambizioso studio sullo Stato.
Le comunità recintate
Il diritto alla città potrebbe essere dunque considerato un libro anticipatore di quanto sarebbe accaduto una manciata di anni dopo la sua pubblicazione. Da allora molto cemento è passato sotto i ponti. Le metropoli sono diventate un atelier produttivo che ingloba il territorio all’interno di un processo che vede la compresenza di finanza, produzione e cooperazione sociale, dove la città deve continuare ad essere la mediazione delle mediazioni.
I nuovi comunardi
Si deve però a David Harvey la ripresa delle tesi di Henri Lefebvre. Anzi si può dire che il filosofo francese ha funzionato come un invisibile filo rosso che tiene insieme l’analisi critica del capitalismo svolta da Harvey sul capitalismo del nuovo millennio, laddove individua nella città il luogo dove l’intreccio ormai inestricabile tra finanza e produzione sono funzionali a un uso capitalistico del territorio.
eddyburg riprendo un intervento che scrissi per un'iniziativa dell'Università di Reggio Calabria, e fu pubblicato sul numero monografico della rivista trimestrale del Laboratorio Cinema-Città dedicato a Francesco Rosi. In calce una scheda e l’audio della scena principale del film. |
E’ facile dire che Le mani sulla città è una lezione di urbanistica. Lo è in modo così evidente!
Certo, non è una lezione sulla tecnica dell’urbanistica, non spiega la cultura del piano regolatore né il procedimento della sua formazione, non affronta il tema delle analisi né quello del disegno del piano, non svela gli arcani della disciplina. E’ una lezione che molti professori d’oggi criticherebbero senza perdere troppo tempo nelle argomentazioni.
Ma è una lezione essenziale: perché racconta la sostanza del piano. Svela “di che lagrime grondi e di che sangue” il tentativo, che nella pianificazione perennemente si compie, di “temprare lo scettro ai reggitori”, di ridurre il peso dei padroni della città, di far sì che la città non sia una macchina per accumulare ricchezze private di un pugno di proprietari immobiliari, ma la casa di una società di uomini, donne, bambini.
E dimostra come il piano urbanistico sia il risultato di una scelta politica. Non a caso, il protagonista del film, l’antagonista dello speculatore Nottola (splendidamente interpretato da Rod Steiger), è il consigliere comunale comunista che, esprimendo i bisogni e gli interessi, magari inconsapevoli, dei cittadini si oppone all’intreccio, sempre perverso, tra la proprietà immobiliare e i governanti servizievoli verso i poteri economici forti.
È una lezione anche per oggi. E fa riflettere il fatto che il protagonista, l’eroe positivo del film, Rosi lo abbia potuto scegliere in una persona che ha svolto nella realtà il medesimo ruolo che svolge sullo schermo. Era un comunista del PCI, Carlo Fermariello. È stato facile allora, per Rosi, scegliere come attore un uomo che poteva essere assunto a simbolo: non solo per la sua persona, ma per la forza politica che rappresentava. E ripensare al film di Rosi fa nascere il desiderio di ricordare e ringraziare, per la realtà che quel film esprime, il Partito comunista italiano di quegli anni.
Molti anni sono passati. Grazie anche agli uomini e ai partiti che allora combattevano contro chi metteva “le mani sulla città” oggi le cose sono un po’ migliori. Ma è segno dei tempi che oggi non ci siano forze politiche come quelle che allora si adoperavano per un’urbanistica riformata e, nel frattempo, là dove potevano amministrare, applicavano le regole del buongoverno.
Venezia, 8 novembre 2003
Appendice
dal sito www.filosofia.unina.it
La questione meridionale è un argomento che affonda le sue radici nella storia del paese, ma è anche una materia profondamente attuale dal cui nucleo continuano a sorgere nuove e vecchie problematiche. Per il progetto è stato selezionato uno spezzone audio tratto da "le mani sulla città", come esempio cinematografico in cui la realtà del meridione viene rappresentata nella sua integrità, senza mistificazioni.
"I personaggi e i fatti sono immaginari, autentica è invece la realtà che li produce". Con questa didascalia (che accompagna le immagini iniziali del film) la sapiente regia di F.Rosi ci introduce nella Napoli della fine degli anni '50 descrivendo, sullo sfondo di una città da ricostruire, le vicende immaginarie ma verosimili di un consigliere comunale di ideologia comunista (De Vita) e di uno spietato impresario edile (Nottola), in lizza per diventare assessore e bramoso di grandi speculazioni.
L'ambientazione riproduce il clima di quegli anni, le tensioni e le lotte politiche tra una classe dirigente, irrimediabilmente compromessa con il potere economico, i cui interessi sono in contrasto con il bene pubblico, e l'opposizione, animata da passione politica e civile, la quale denuncia i crimini compiuti ai danni della collettività.
Nello spezzone selezionato abbiamo l'incontro-scontro tra le due figure centrali del film, il cui pensiero e la cui individualità vengono obiettivamente colte dalla camera. Da una parte, abbiamo il costruttore Nottola che, sullo sfondo di una città ridotta in macerie, vanta l'ambizione di un ammodernamento della città e dice che costruire nuovi palazzi porterà una speranza alle persone che vivono in condizioni di indigenza e miseria, ma in realtà nasconde solo la brama di successo e ricchezza personali. Dall'altra, abbiamo la figura del consigliere De Vita che si staglia nella sua purezza, sullo sfondo di una candida parete bianca e lancia il suo grido di condanna contro l'ipocrisia di Nottola e di chi come lui rappresenta la parte marcia della politica e auspica l'avvento di un cambiamento rigeneratore per le sorti della città.
Audio
Scarica il plug in
Scheda tecnica del film:
Francesco Rosi "Le mani sulla città" (Italia, 1963, b/n - 105')
Sceneggiatura: F. Rosi, R. La Capria, Enzo Provenzale, ed E. Forcella.
Con Rod Steiger, Salvo Randone, Guido Alberti, Angelo d'Alessandro, Carlo Fermariello, Marcello Cannavale
Tratto da http://www.filosofia.unina.it/corsoperf/corsoperf01/qmfad/QPol_eco/lemani.html
Sentendolo con attenzione si capiva la sua duttile retorica:quando la concatenazione logica illuminista diventava troppo serratae quindi sul punto di gripparsi, Secchi la ribaltava con ilrelativismo dei vari Foucault o Deleuze, e quando questo relativismoera sul punto di evaporare nelle sue stesse circonvoluzioni, allorafluidamente tornava al razionalismo riduzionista. Non si poteva nonrimanere affascinati da come Secchi gestiva questo pendolo retoricoche ipnotizzava.
La vera seduzione si attua nei confronti di coloro i quali lapensano diversamente. Per quel che mi riguarda, non amo il pensierorelativista dei francesi e considero il principio secondo il qualeesistono solo interpretazioni persino pernicioso. Per di più detestoquella città diffusa su cui si è fondata da decenni la peraltroacuta analisi di Bernardo Secchi e considero i cosiddetti “pianidi terza generazione”, propagandati dagli Anni Ottanta daSecchi nei suoi editoriali su Casabella, molto menoacuti di quanto si sarebbe potuto supporre. In definitiva consideroche il pensiero debole alla Vattimo di cui si è nutrital’urbanistica di Secchi abbia prodotto un’urbanistica un po’troppo debole, troppo in libertà vigilata rispetto allafenomenologia.
Eppure le lezioni di Bernardo Secchi erano uno spettacolocatturante: tornivano anche chi come me afferiva a un altro mondo e ti tornivano perché raccontavano di una cultura alta e chiara,persino accessibile: una cultura alla quale dagli Anni Settanta erasubentrata una cultura di segno opposto: bassa e confusa, pop mainaccessibile nelle sue finalità.
Secchi aveva stile. Non credo che avrebbe amato questa miaaffermazione idealista, ma per me Bernardo Secchi era un magisterelegantiarum. Il suo stile era sobrio, velatamente scettico,intriso da un senso del decoro mai ostentato ma mai celato, qualitàqueste che gli permettevano di vedere le cose a volo d’uccello. Edè proprio questa capacità di vedere le cose a volo d’uccello, divedere l’architettura come parte di un contesto sempre più ampio,ciò che Secchi lascia all’architettura italiana.
Penso che Secchi e con lui Paola Viganò abbianoinfluenzato notevolmente lo stile dell’architettura italiana degliultimi anni. Sono stati artefici di un processo di avvicinamentodell’architettura all’urbanistica e dell’urbanisticaall’architettura senza il quale oggi non avremmo le architetturedi Cino Zucchi o di Stefano Boeri o l’azionecritica di Mirko Zardini o di studicome +Arch, Metrogramma e Barreca e Lavarra.Nonè poco per un urbanista influenzare l’architettura. Forse è ilmassimo a cui egli possa aspirare.
postilla
L’intelligenza di Bernardo Secchi e il ruolo che ha svoltonell’urbanistica e nella società italiane non consentono, nelricordarlo, di limitarsi all’agiografia. Significherebbe tradireuna parte rilevante del suo lascito, che è lo stimolo continuo aesercitare lo spirito critico. Un ritratto di un personaggio tale dameritare un ritratto non può essere fatto solo di luci: anche leombre devono essere tracciate. Questo di Mosco è il primo scritto(tra quelli che ho letto) che comincia a lavorare su un ritratto chesi avvicina al vero. Personalmente ne condivido la maggior parte,sebbene nel loro insieme mi sembra che manchino molte delle luci chenel suo lavoro mi sembrano balenare.
Il punto sul quale nonconcordo con Mosco è sulla questione del rapporto tra urbanistica earchitettura. Mosco scrive «non è poco per un urbanista influenzarel’architettura. Forse è il massimo a cui egli possa aspirare». Iopenso che ciò al quale l’urbanista deve aspirare è influenzare lasocietà. E penso che se l’urbanista deve porsi (come deve) anche l’aspirazione a “influenzare l’architettura” devefarlo assumendo un compito riassumibile nel titolo delle lezioni diCarlo Melograni: “progettare per chi va in tram”. (e.s.)
Agenparl, 16 settembre 2014
Scompare un grande analista della realtà urbana contemporanea
di Giovanni Caudo
Abitare, 16 settembre 2014
Addio a Bernardo Secchi
di Stefano Boeri
Il Corriere della Sera, 16 settembre 2014
Bernardo Secchi, la città come territorio di integrazioni
di Pierluigi Panza
Fra le sue pubblicazioni (anche tradotte) ricordiamo Squilibri regionali e sviluppo economico (Marsilio, 1974), Il racconto urbanistico (Einaudi, 1984), Un progetto per l’urbanistica (Einaudi, 1988) e Prima lezione di urbanistica (Laterza, 2000).
La Repubblica, 17 settembre 2014
Bernardo Secchi l’urbanistica come letteratura
di Francesco Erbani
Il manifesto, 30 marzo 2014
I compleanni di Pietro Ingrao sono sempre occasione di riflessione sulla sua biografia e sul suo pensiero politico. Quest’anno, compleanno numero 99 il 30 marzo, si è deciso di promuovere alcune iniziative nei luoghi della formazione del giovane Pietro: Lenola, città nativa; Formia, dove frequentò il Liceo classico Vitruvio e scoprì l’antifascismo degli insegnanti Gioacchino Gesmundo e Pilo Arbetelli uccisi alle Fosse Ardeatine; Fondi (i primi rapporti con alcuni intellettuali); Roccagorga (si occupò della costruzione di una Casa del popolo negli anni cinquanta); Gaeta (le vacanze al mare, i ricordi di gioventù). Su questi luoghi molto amati dal festeggiato scrive lo stesso Ingrao nei primi capitoli dell’autobiografia (Volevo la luna, Einaudi, 2006) ricordando radici mai recise.
In qualche occasione l’ex presidente della Camera, schernendosi, ci ha tenuto a sottolineare la sua formazione “provinciale” indicandola come un limite. In effetti, è arduo dire cosa sia l’«ingraismo» e a quali riferimenti culturali faccia riferimento (i convegni di queste settimane potrebbero aggiungere elementi utili a capire).
L’Ingrao politico è stato spesso definito utopista e visionario perché la politica resta per lui tensione morale e progetto, oltre che comunicazione con gli altri e un po’ profezia del tempo futuro: non solo tecnica o amministrazione dell’esistente. Queste peculiarità ingraiane non piacevano ai suoi «nemici» nel partito, a iniziare da Giorgio Amendola fino ai «miglioristi» della corrente di Giorgio Napolitano. Resta tuttavia un mistero spiegarsi le origini del pensare l’agire politico così particolare da parte di un intellettuale di Lenola, profonda provincia italiana, con scarsa conoscenza della realtà internazionale, che in gioventù aveva una forte vocazione per cinema e poesia.
Dopo la morte di Palmiro Togliatti nel 1964, Ingrao inizia a parlare insieme ad altri di «nuovo modello di sviluppo» per superare l’orizzonte della «democrazia progressiva» che non poteva portare il Pci al governo causa conventio ad excludendum. A spingerlo in quella direzione può essere stata la profonda conoscenza della società agricola (tornano le radici di Lenola e dintorni) che si andava trasformando in realtà marginale nell’Italia che diventava società prevalentemente industriale. Il nome di Ingrao – innovatore per eccellenza, conservatore solo quando si trattò di sciogliere il Pci – è spesso legato all’analisi puntuale delle trasformazioni del capitalismo italiano, alla sollecitazione della democrazia partecipativa, allo studio sistematico del potere decentrato degli enti locali, alla riforma delle istituzioni e – negli anni Ottanta – alla crisi degli stati nazione e all’affacciarsi sulla scena dell’Europa politica come ipotesi (Masse e potere del 1977, la conversazione con Romano Ledda Crisi e terza via del 1978, Tradizione e progetto del 1982 sono libri che tracciano un percorso). Il Crs da lui presieduto prima e dopo l’incarico di presidente della camera (1976–1979) è stato inoltre fucina di discussioni, ricerche e formazione di varie generazioni di studiosi.
Chi ha amato da giovane cinema e poesia prima di diventare uno dei massimi dirigenti del Pci, deve aver guardato al fare politica in modo totalizzante come un limite, pur accentandone la disciplina (la «ragione di partito»). E deve aver conservato la curiosità intellettuale per altre forme di pensiero e di linguaggi che non fossero la politica. Nonostante la laurea in giurisprudenza, che gli tornerà utile quando dirigerà il Centro riforma dello Stato (Crs) a iniziare dal 1975 e si occuperà di decentramento e forme della democrazia, nel pensiero di Ingrao è più il progetto che la norma la principale preoccupazione.
Con la forza delle idee, ha lasciato un’impronta sulle discussioni più vitali degli ultimi cinquant’anni della sinistra italiana. Forse è stata la formazione culturale fatta di approcci plurali e non ortodossamente marxista a favorire la ricerca imperniata sul monitoraggio di culture – compresa quella cattolica – e movimenti che chiedevano al Pci di rinnovarsi e di stare al passo coi tempi. È stato ad esempio proprio Ingrao, con il Crs, a promuovere i primi convegni sulla sinistra europea e il possibile destino dell’Europa. Ne sono la riprova gli Annali di politica europea pubblicati dal Crs dal 1988 al 1993 insieme al convegno sul «caso svedese» promosso addirittura nel 1983 in cui si discusse delle conquiste socialdemocratiche del welfare di Stoccolma.
L’Ingrao studioso e innovatore non può quindi essere separato dall’Ingrao dirigente di primo piano del Pci. Quello che ha diretto l’Unità per dieci anni (1947–1957), che nel 1966, all’XI Congresso del Pci (il primo dopo la morte di Togliatti), pose il problema del pluralismo interno e della liceità del dissenso legandolo a un’altra lettura delle modernizzazioni che attraversavano l’Italia (il suo applauditissimo intervento è passato alla storia per quel «non mi avete convinto», contiene però una vera e propria analisi alternativa a quella imperante in quegli anni nel partito e andrebbe riletto in quella chiave). È stato presidente del Gruppo del Pci per due legislature (1964–1972), prima di salire sullo scranno più alto di Montecitorio.
Nacquero a iniziare dagli anni Sessanta varie generazioni di «ingraiani», alcuni della prima diedero vita a il manifesto e si separarono dall’antico maestro rimasto fedele al partito (il «gorgo», dirà oltre trent’anni dopo in un seminario ad Arco della sinistra comunista interna ed esterna al Pci che si poneva il problema di cosa fare dopo la «svolta» di Achille Occhetto). Una fedeltà ribadita al partito fino al 1993, quando decise di abbandonare il Pds. Prima ancora c’era stato il rifiuto a ripetere l’esperienza di presidente della camera (Ingrao disse no alla proposta fattagli da Enrico Berlinguer) perché aveva voglia di tornare a studiare immergendosi nell’attività di ricerca del Crs. I limiti dell’Ingrao politico sono l’altra faccia delle specificità dell’Ingrao intellettuale che abbiamo ricordato fin qui. Non è mai stato un politico puro, forse ha perso alcune occasioni per rendere più incisiva la sua azione nel Pci.
Negli anni Novanta ha provato a ricongiungersi con il manifesto, partecipando prima all’esperienza del Cerchio quadrato (inserto settimanale curato da Ida Dominijanni) e poi alla seconda serie della rivista mensile diretta da Lucio Magri. Del resto, tra le sue autocritiche c’è sempre stata quella di non essersi opposto nel 1969 alle radiazioni dal Pci di Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Luciana Castellina, Valentino Parlato, Lucio Magri, Eliseo Milani, Filippo Maone e tanti altri. Con Rossanda ha scritto nel 1995 il libro Appuntamenti di fine secolo segnalando la quantità di problemi irrisolti che il Novecento consegnava al secolo nuovo.
C’è un dolore in queste giornate di festa per il compleanno numero 99. È l’assenza di Laura Lombardo Radice (quest’anno avrebbe compiuto 101 anni), la sua amata compagna, che un libro curato da Chiara Ingrao (Soltanto una vita, 2005) ci ha restituito nella sua complessità biografica. A fare compagnia a Pietro ci sono i figli Chiara, Renata, Guido, Bruna e Celeste, i nipoti e i pronipoti. E ci sono i tanti che vogliono bene a Ingrao e provano a ispirarsi a quel singolare metodo del pensare e fare che è l’«ingraismo».
eddyburg il 13 ottobre 2008
Carla Ravaioli, Ambiente e pace una sola rivoluzione. Disarmare l’Europa per salvare il futuro. Edizioni Punto Rosso, Milano 2008, p. 192, € 12
Forse è il momento, questo il titolo di un capitolo nell’ultima parte (la quinta) del libro (pp.170-172). Che è uscito a maggio, dunque è stato scritto nei mesi precedenti l’incontenibile crisi strutturale e non solo finanziaria in cui sarebbe precipitato il “sistema mondiale dell’economia moderna” (per dirla col titolo di un famoso testo di Immanuel Wallerstein di oltre trent’anni fa), ossia il capitalismo liberistico duro e irragionevole, il whirl capitalismstrangolatore del mondo. Sembrava già allora il momento “più propizio a un mutamento della politica mondiale” quando “a parlare di crisi… sono oramai i giornali di tutto il mondo” (p. 170).
La premonizione era presente da molti anni nel pensiero e nell’attività di Carla Ravaioli e degli studiosi che con lei guidano scientificamente e politicamente l’analisi critica del capitalismo individuando i punti d’attacco per ragionare di avvio a un possibile cambiamento. In un articolo dell’aprile 2005, Il giocattolo rotto (denominazione anche di un capitolo del saggio) Ravaioli smuoveva l’aria ferma e inquinata della politica riproponendo il wallersteiniano “bisogno di esplorare possibilità alternative” al mondo attuale. Non ci si può accontentare di aggiustare il giocattolo, invece si può credere, con Walden Bello, che una nuova economia mondiale deglobalizzata possa costituire il punto di partenza verso una trasformazione del mondo, una – pensavo e penso dinnanzi alla continuità della crisi e al fallimento del libero mercato – pura e semplice rivoluzione. Addirittura del 1966 è questa stupefacente intuizione di Kenneth Boulding (altro riferimento costante di Carla): “chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo oppure un economista”. C’è come un filo rosso che unisce i critici dello sviluppismo, una concezione cui soggiace anche il centrosinistra in Italia condividendo lo stupido ossimoro sviluppo sostenibile. Il biologo fisiologo biogeografo Jared Diamond avvisava che il nostro habitat è minacciato di distruzione ravvicinata, che stiamo perdendo irreversibilmente le nostre limitate risorse, che noi abitanti dei paesi ricchi siamo diventati sconsiderati e ignoranti consumatori, devastatori di beni. Nel suo libro dal titolo ben chiaro, Collasso. Come le società scelgono di morire o di vivere (orig. 2004), mostrava che è la decrescita a essere sostenibile, non lo sviluppo economico capitalistico visto in chiave di Pil, prodotto interno lordo onnicomprensivo, tra l’altro pena di morte per i popoli vittime dello scambio ineguale. E in un’intervista Diamond, al consueto avvertimento di economisti e politici d’ogni specie di non cadere nell’effetto Cassandra rivolgendosi alla gente, sbottava “ma vedete, in primo luogo Cassandra aveva ragione…”.
Il famoso rapporto di trentasei anni fa del System Dynamic Group MIT per il Club di Roma, ci ricorda Carla Ravaioli, con la titolazione italiana “I limiti dello sviluppo”, infedele traduzione probabilmente in… buona fede di “Limits to Growth” (crescita), avrebbe generato nel corso del tempo l’identificazione del termine “sviluppo”, originariamente pensato di certo come rafforzativo, con “crescita” e la “naturale interscambiabilità dei due vocaboli” (p.116). “Crescita” riguarda merci e reddito, “sviluppo” invece deve concernere beni sociali, diritti civili, alta scolarità e buona salute, libera informazione, parità dei sessi, rispetto e conservazione dell’ambiente naturale e antropico storico, insomma tutto quanto provvede a una vita personale e sociale volta alla umanizzazione delle risorse e, perché non dirlo, alla felicità. Nel lontano 1996 l’Onu stessa, attraverso l’Human Development Report si scagliava contro l’aberrazione del Pil calcolato mediante la crescita di prodotti insensati come l’inquinamento e i congegni per mitigarlo, la criminalità e la polizia per combatterla, gli incidenti d’auto e le relative riparazioni e nuovi acquisti, gli armamenti e, aggiungo con Carla, le relative guerre, lo scambio ineguale e la ricchezza come reddito dei già ricchi (cfr. p.117). Di qui la rivendicazione della decrescita da parte di numerosi studiosi fra i quali Ravaioli è protagonista della lotta culturale guidata da Serge Latouche, l’economista filosofo antropologo francese avversario dell’occidentalizzazione del pianeta e fautore della “decrescita conviviale”, che, non coincidente semplicemente con crescita negativa, vorrebbe chiamarsi a-crescita, anzi acrescita, ugualmente a come si definisce ateismo la scelta di chi è libero totalmente da fedi religiose. Così, diciamo, è vero e proprio teismo oscurantista il culto del dio Pil intriso di fanatismo, il calcolo falsificato del prodotto da accrescere ad ogni costo oltre i limiti della sopportabilità per la terra, la natura e noi stessi che apparteniamo a due storie interrelate, storia naturale e storia sociale.
Ecco, tutto il libro è percorso da una straordinaria tensione politica e morale che da una parte rende assai efficace il sentimento di “ rifiuto della società così come l’abbiamo fabbricata” (p.13), da un’altra parte, proponendo fonti cristalline anche da altri autori oltre quelli citati (Karl Polanyi, Marcel Maus, Ivan Illich…) costruisce una potente macchina da battaglia contro il neoliberismo e i suoi feticci, vorrei dire tout court contro il modello capitalistico mondiale, storico e attuale, distruttore della natura e dell’uomo stesso in mille maniere, per prima quella di promuovere ad arte contrapposizioni insanabili e infine le guerre come folle metodo risolutore. Di qui l’”idea shock”, enunciata all’inizio del libro e argomentata a fondo nell’ultima parte: collegare la necessità di fermare la crescita, di cominciare a ridurre il Pil mondiale (giacché “sviluppo” è da convertire in esclusivi termini sociali) alla smilitarizzazione unilaterale dell’Unione europea siccome la produzione di armi è una componente rilevante del prodotto.
Per rispondere alla domanda “da dove cominciare” per istituire un nuovo modello economico sociale pacifista e, dinnanzi alla rovina naturale e artificiale della terra, ambientalista, all’idea della smilitarizzazione si deve associare l’affermazione di una politica ecologica effettiva. Bisogna, per Carla Ravaioli, riconoscere due verità: la prima, la crisi ecologica è connessa alla forma-capitale, la seconda, la guerra è inseparabile dall’obbligo di crescita produttiva. Lo “sviluppo sostenibile” è fallito, idem il preteso ordine mondiale fondato sulla diseguaglianza e sulla guerra. In definitiva, “fallimento del capitalismo tutto intero, macchine e idee”.
Ambiente e pace una sola rivoluzione, non poteva essere più chiaro il titolo. Un futuro felice dell’uomo nega la forma capitalistica perché responsabile della devastazione del pianeta e della violenza che lo sovrasta. Allora, “la dimensione potenzialmente eversiva della crisi ecologica non potrebbe non emergere e farsi attiva quando fosse avviata, mediante una scelta di disarmo, un’opzione di non violenza: a indicare la necessità non solo di un diverso ordine economico-sociale, ma di un ethos culturale e morale diverso” (cfr. pp. 179-171).
manifesto del 4 febbraio 2007 e ivi ripubblicato il 18 gennaio 2014. con postilla
Carla e Valentino, un’ecologista e un economista, hanno disputato per anni sui problemi centrali della vita. Discutendo anche molto animatamente, come dimostra anche questo articolo. Dal quale emerge che è possibile agire, evitando di produrre merci inutili, tanto per cominciare. Poi scegliendo un piano che sappia unire gli sforzi di economia ed ecologia salvando forse così l’ambiente.
[..]Valentino.. D’accordo, avete ragione. Però tra voi ambientalisti c’è una componente di fondamentalismo, che nuoce.
Carla. Con quello che sta succedendo, ti sembra il caso di parlare di fondamentalismo?
V. Mi riferisco a quelli che mi annunciano di continuo la fine del mondo. E se domando quando accadrà, mi rispondono: tra 5.000 anni. E io dico: chi se ne frega.
C. Oggi nessuno ti dirà nulla del genere. Il Wwf ha parlato del 2050, data da cui cominceremo a consumare il Pianeta, non più i suoi frutti. La Commissione Europea pone i prossimi cinquant’anni come lo spazio entro cui dovremo darci molto da fare per contenere l’effetto serra, se no saranno guai tremendi…
V. Ma voglio insistere sui lati deboli dell’ecologismo. Anche tu, in un libro, scrivi di una mercificazione dell’ecologia, attraverso la pubblicità o che altro…
C. Ma non vedo come questo possa apparire un lato debole dell’ecologismo. E’ invece la denuncia di un fenomeno tipico dello stesso sistema che, facendo merce di ogni cosa, e moltiplicandone all’infinito la produzione, crea lo squilibrio ecologico.
V. Cioè, l’economia capitalistica riesce a integrare, a trasformare in merce anche le vostre posizioni?
C. Accade, sì. Pensa al business verde che oggi tutti inseguono furiosamente… ti pare un fatto positivo? Che riduca il rischio ambientale?
V. No.
C. Appunto. Io cito questo fatto per sottolineare la pervasività, l’onnipresenza, la capacità di raggiungere ogni espressione della realtà che sono tipiche del neoliberismo. Il consumismo, una delle cause prime della crisi ecologica, nasce così, con una manipolazione continua dei cervelli.
V. Avete un atteggiamento strano. Lo trovo anche scorrendo i tuoi scritti… L’economia, che era la radice del progresso e del benessere, è diventata cattiva.
C. L’economia capitalistica…
V. Voi enfatizzate in modo fondamentalistico l’ idea che la distruzione dell’ambiente dipende dal capitalismo, dai meccanismi di accumulazione.
C. Non c’è proprio bisogno di enfatizzare. E’ l’accumulazione in sé che contraddice la realtà naturale. Insomma, se vogliamo farci capire da chi ci legge, devi lasciarmi ribadire i punti fondamentali del problema. 1) Il nostro pianeta è una quantità finita e non dilatabile, incapace quindi di alimentare un’economia in continua crescita (ricordando che tutto quanto si produce è «fatto» di natura, minerale, vegetale, animale); 2) Analogamente, il pianeta non è in grado di assorbire, metabolizzare e neutralizzare i rifiuti, solidi, liquidi, gassosi, derivanti da ogni tipo di produzione. I quali inquinano terra, acque, aria, causando lo squilibrio dell’ecosfera.
V. Rifiuti che diventano un’altra base di speculazione capitalistica…
C. Sì, ma è un aspetto minore, un «danno collaterale».
V. Sei tu che ne parli.
C. Certo, ma ne parlo in poche righe su un intero libro, neanche tanto piccolo. A me pare che tu, da sempre notoriamente in posizione di drastico rifiuto verso l’ambientalismo, oggi che è ormai impossibile negare l’esistenza del problema, tendi a cogliere gli aspetti più discutibili della militanza verde. Che esistono, come no, ma che inseriti innanzitutto nel discorso generale acquistano un altro valore… Non è così che potrai negare o sminuire la gravità della crisi ecologica.
V. Secondo me l’ambientalismo attuale è romantico. Se dite che i guasti dell’ambiente sono causati dal capitalismo, dovete dire di conseguenza: il nemico principale da abbattere è il capitalismo.
C. Io lo dico. Anche in questi pochi scritti miei che hai scorso. Ma non solo io. Gran parte degli autori più qualificati che si occupano della materia, da Gorz a Daly, a Martinez-Allier, a Giovenale, a Passet, a Foster, a Beck, a Cini, (per limitarmi a pochi nomi) accusano il capitalismo. Ma anche chi non lo nomina direttamente, lo dice quando indica la crescita illimitata come responsabile del dissesto ecologico. Certo, c’è anche un bel po’ di ambientalisti che evitano con cura di accusare il capitalismo.
V. Io sono un veterocomunista, e quindi penso che per bloccare il disastro del mondo ci vuole un potere.
C. Faccio fatica a seguirti su questa strada…
V. Insomma come lo blocchi il disastro del mondo?
C. Io credo che occorra una rottura culturale, una discontinuità storica. Il mondo cambia senza sosta. Le vecchie rivoluzioni non servono più. Oggi bisognerebbe liberare i cervelli: il consumismo è una delle peggiori forme di corruzione mentale, anzi esistenziale, oltre che una delle prime cause del guasto ecologico.
V. Il consumismo non è colpa dei consumatori, ma dei produttori che spingono i consumatori a consumare.
C. Ma è quello che ho appena detto. E lo dico da una vita.
V. Allora, siccome i produttori sono forti, come ne abbatti il potere?
C. Prima di dare le risposte (che io ovviamente non ho, che credo nessuno oggi abbia) forse si dovrebbe cercare di porre le domande giuste. Temo che quella che tu poni non lo sia. Il fatto è che fa riferimento ai modelli storici delle sinistre, che non servono più. La storia è una lunga serie di fatti che prima non c’erano stati. La Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Sovietica, sono stati eventi mai accaduti prima. E se oggi l’intera comunità scientifica mondiale chiede il taglio del 60% dei gas serra, questa è una rivoluzione.
V. Allora anche Kyoto è stata una rivoluzione …
C. Avrebbe potuto esserlo, ma la timidezza delle proposte, e soprattutto l’ostilità dei grandi potentati economici, e la mancata firma di numerosi stati, Usa in testa, l’hanno di fatto vanificata. E’ rimasta però un preciso antefatto per tutte le direttive a seguire. Ma, permettimi, provo a girare a te la domanda. Tu chi attaccheresti? Dato e non concesso che in difesa dell’ambiente tu voglia abbattere questo potere, da dove cominceresti?
V. Comincerei dagli oppressi. Un’organizzazione forte e anche violenta degli oppressi, tale da imporre il suo potere. Perché combattere il consumismo, significa fronteggiare interessi fortissimi, e ci vuole un forza enorme per vincerli.
C. Quali oppressi? Ce n’è di tanti tipi… Io proverei a fare un altro discorso. Tra le sinistre e l’ambientalismo, non’ c’è mai stato un feeling positivo. Credo che sia stato un grave errore, delle sinistre innanzitutto, ma anche dei Verdi. Quando si litiga ognuno dà il peggio di sé. L’errore delle sinistre è innanzitutto aver trascurato il fatto che a pagare più pesantemente i danni ambientali sono sempre i poveri. Sono gli operai che lavorano su processi tossici e cancerogeni. I morti della Montedison, di Seveso, di Bohpal, te li ricordi? Sono quelli che non riescono a salvarsi dalle alluvioni, i ricchi se le cavano sempre in qualche modo… E i profughi da terre desertificate, da laghi e fiumi senza più pesce, da paesi sommersi nella costruzione di centrali idroelettriche… Oggi si calcolano sui 50 milioni i profughi ambientali. Tu parli di oppressi: non sono degli oppressi tutti questi?
V. Ma voi questo aspetto sociale lo mettete poco in rilievo…
C. Io l’ho sempre detto. E scritto, anche sul manifesto. Ma le sinistre sono rimaste ferme a una miope difesa della fabbrica, anche inquinante, in nome dell’occupazione. Che è un problema reale, chi lo nega, ma non cancella la gravità del problema ecologico, anche in rapporto al benessere dei lavoratori.
V. E i verdi non hanno saputo fare altro che ridurre il discorso alle scempiaggini di un antindustrialismo indiscriminato. Gli ambientalisti seri devono darsi da fare per superare queste posizioni.
C. E le sinistre devono capire che la crescita da loro invocata ogni tre parole non solo distrugge l’ambiente, ma non risolve nulla sul piano sociale. Negli ultimi decenni il prodotto ha continuato a salire, ma sono aumentate, e fortemente, anche le disuguaglianze. Lo dicono tutti, persone al di là di ogni sospetto di estremismo, come Stiglitz, Fitoussi, e Soros, perfino Lutwak… Allora perché proprio le sinistre debbono intestardirsi su questa strada?
V. Ma insomma per i poveri Cristi, che si fa? Chávez, ad esempio, è socialista, per prima cosa vuol dar da mangiare agli affamati, e che fa, aumenta lo sfruttamento del petrolio, cerca di venderlo bene… E’ un circolo vizioso.
C. Usa gli strumenti disponbili. Che altro può fare? Oggi tutti i massimi problemi hanno assunto una dimensione sovranazionale, che però condiziona anche i singoli paesi. Sono problemi che soltanto a livello sovranazionale si potranno risolvere, forse. E non dimentichiamo un altro fatto: La Fao, che non è un organismo antisistema, afferma che la produzione mondiale di cibo basterebbe a sfamare tutti. Ma circa il 40% del cibo prodotto in Occidente viene distrutto. Per tenere alti i dazi, per difendere varie categorie di produttori, ecc. Non si tratta dunque di produrre di più, ma di distribuire in modo meno iniquo.
V. I verdi di distribuzione non parlano. Inoltre la distribuzione avviene in questo modo perché ci sono poteri forti interessati a questo. come fare senza abbattere quei poteri? Tra voi ambientalisti, l’idea di abbattere un potere non c’è. Vogliamo costruire un potere contrapposto, vogliamo che insieme al problema dello sfruttamento proletario, tema fondamentale di tutti i vecchi socialismi, anche la distruzione dell’ambiente diventi fondamentale per le sinistre d’oggi. Quello che ci vorrebbe è un nuovo comunismo. Resta però il fatto che se oggi, rebus sic stantibus, riduciamo la produzione, noi facciamo solo disoccupazione e morti di fame.
C. Con tutti i nostri enormi progressi, scientifici e tecnologici, oggi saremmo in condizione di sconfiggere la povertà, di dare benessere a tutti, di vivere a lungo tutti in buona salute. Invece nel sud del mondo ci sono 850 milioni di persone affamate, mentre in Occidente l’obesità da sovralimentazione è diventata una malattia sociale: una sorta di tremenda metafora della società attuale. Saremmo in grado di produrre il necessario e anche non poco superfluo per l’intera popolazione del globo, lavorando tutti un tempo molto limitato. E invece abbiamo masse di disoccupati e di precari, gente soggetta a sfruttamenti da protocapitalismo, costretta a orari pesantissimi e a straordinari di fatto obbligati. Il tutto per produrre quantitativi crescenti di merci inutili, di durata sempre più breve, per lo più destinate nel giro di poche settimane a finire in discarica. E si torna all’inquinamento del mondo: tutto si tiene. Queste sono le tue res. Per esempio, riprendere l’idea della riduzione degli orari di lavoro, riprenderla seriamente, non sarebbe un buon inizio per smuoverle?
V. La riduzione degli orari non mi pare al centro del discorso ecologista…
C. Certo che no. Ma in fondo l’ambientalismo è un movimento, compito dei movimenti è porre una questione. La sintesi politica è compito delle forze politiche. E d’altronde l’ambientalismo indica soluzioni…
V. Sì, la decrescita. La decrescita, scusami, è una scemenza totale.
C. Non sono d’accordo. Certo, la decrescita non è un programma. Però indica inequivocabilmente quella che è la causa principale della crisi ecologica, cioè l’accumulazione capitalistica. E in un mondo che sa dire solo crescita crescita, gridare decrescita significa mettere la crescita, il Pil, la produttività, la competitività, tutti i totem dell’economia neoliberista, in rapporto con il disagio e le paure che lo squilibrio ecologico ha ormai creato tra la gente. Il movimento della decrescita riflette su un tipo di vita che non continui a mettere a rischio l’ecosistema e la nostra stessa sopravvivenza. Perché questo bisogna fare: ripensare radicalmente il nostro vivere.
V. No, contro tutto questo o il movimento ecologista diventa comunista o non si farà un passo avanti.
C. Secondo me, sono le sinistre che debbono diventare ambientaliste, facendo proprio tutto il positivo che l’ambientalismo ha detto, e devono saperlo usare per trarne una politica completamente diversa da quella attuale. E diversa anche da quella storica, che pur combattendo e spesso vincendo grosse battaglie a favore del lavoro, di fatto non ha mai messo in discussione l’ordine dato. Tu vorresti che i verdi diventassero comunisti… Ma quanti sono i comunisti oggi?
V. Pochi. Assai pochi.
C. Tu prima avevi ragione parlando di un nuovo comunismo. Ma le sinistre, nel loro non facile rapporto con i Verdi, non si sono accorte della dimensione eversiva che l’ambientalismo contiene. Che consiste appunto nella critica dell’accumulazione, che nessun comunismo, da Lenin a D’Alema, ha mai messo in discussione. Ma, il mondo è cambiato e diventa sempre più piccolo. Come dice Wallerstein, non ci sono nuovi spazi da occupare e utilizzare per la produzione di plusvalore, mentre la crescita, oltre ad essere ecologicamente distruttiva, dal punto di vista sociale oggi non dà risultati apprezzabili. Sarebbe necessario rileggere in questa chiave i problemi del mondo per tentare di mettere a fuoco un nuovo comunismo.
V. Fino a che voi Verdi non vi metterete in testa che occorre qualcuno che comandi, sarete solo dei predicatori inutili. Non basta dire cose giuste. Attorno agli obiettivi giusti bisogna organizzare una forza. Senza forza non si fa niente.
C. Tu sei ancora fermo alla rivoluzione armata, insomma…
V. Non penso alle armi, ma a un partito, a una forza sociale e anche politica e di cultura.
C. Io alla necessità della forza non ci credo, non ci voglio credere. La forza, anche usata per i fini migliori, finisce per imporre all’operazione un’impronta negativa, un’ipoteca che la snatura. E però, sono d’accordo, sarebbe necessario un soggetto forte che si facesse carico del problema. Io da tempo penso all’Europa. L’Europa con la sua storia, la sua cultura… L’Europa certo colpevole di orrendi misfatti, dal colonialismo alla shoah, ma anche patria dell’illuminismo, del socialismo, dei diritti del cittadino, dello stato sociale… potrebbe forse essere il moderno sovrano, capace di orientare il mondo, o quanto meno di sollecitarlo a farsi carico di un problema sempre più urgente. Certo, con questi industriali che non capiscono che stanno distruggendo la base stessa della loro attività.…Se il mare cresce, il deserti avanzano, i cicloni si moltiplicano…
V. Tra quanti anni questo accadrà?
C. Sta già accadendo. E un domani che pareva lontano è ormai qui.
V. Ma anche le energie rinnovabili… Se fai andare lo stesso meccanismo col sole o col vento invece che col petrolio, le cose non cambiano. E i Verdi puntano solo su questo…
C. Con energie rinnovabili attive su vasta scala i gas serra diminuirebbero, e questo non è trascurabile. Ma, sono d’accordo, è necessaria una strategia molto più complessa. I Verdi propongono anche molte altre cose, ma un compito di questa portata, come arrestare la catastrofe ecologica, cioè necessariamente cambiare il modello di produzione, distribuzione e consumo, non è cosa che possano fare i Verdi. Questo è un compito che tocca alle sinistre.
V. Sono d’accordo. Il difficile è il come…
C. Se ci fosse una precisa, consapevole, volontà politica delle sinistre, sarebbe una buona base di partenza. E ci sono anche cose che si potrebbero fare subito. Ad esempio, riscaldamento e refrigerazione: invece di soffrire il caldo d’inverno e il freddo d’estate, come accade oggi, regolare le temperature sui 20–21° d’inverno e 28–29° d’estate, in case uffici negozi di tutto il mondo: sarebbe un risparmio energetico niente male, eh?
V. Hai detto che si possono fare più cose…
C. Sì. Fabbricare merci destinate a durare di più, come accadeva una volta, e non programmare automobili, frigoriferi, lavatrici, da sostituire nel giro di quattro-cinque anni. E’ una cosa che non richiederebbe riconversioni industriali, solo volontà politica.
V. Con caduta dei consumi…
C. Appunto. Si parlava di rivoluzione, no? Ma si potrebbe pensare a una cosa che proponevo nel mio ultimo libro. Oggi le amministrazioni di sinistra, centrali e locali, non sono poche nel mondo. Se ognuna di esse confrontasse le proprie scelte economiche con una serie di norme da osservare, domandandosi ogni volta se si tratti di cosa necessaria, se non esistano più urgenti priorità, quali siano le ricadute dell’opera sul piano ambientale, sociale, sanitario, ecc. In Sicilia, ad esempio, non sarebbe il caso di risanare ferrovie vetuste o addirittura abbandonate, di riparare acquedotti che perdono quantitativi enormi di un liquido sempre più prezioso, o magari di fornire cancelleria ai tribunali, lenzuola agli ospedali, ecc. prima di ostinarsi sul ponte di Messina? Certo, se le sinistre fossero vere sinistre… O ancora: se il mondo decidesse di non fabbricare più armi. Lasciamo per un attimo tutte le ragioni pacifiste o semplicemente umane. Pensiamo solo a quanto inquina la produzione di quantitativi sempre crescenti di armi, il loro trasporto, e il loro «consumo». Ma, se mi consenti, vorrei finire con un’altra cosa, a cui penso da tempo. Io credo che il manifesto in tutto ciò potrebbe avere una funzione non trascurabile. Perché il manifesto è un giornale, ma è anche un soggetto politico. Ecco, perché il manifesto non fa propria la battaglia ambientalista, con dibattiti anche duri, magari con sedute di autocoscienza, ma anche con pubblici confronti con le sinistre istituzionali? Sono convinta che la cosa potrebbe risultare utile. Anche alla diffusione del giornale. Perché no?
Postilla
Singolare come non si accorgano che fanno lo stesso ragionamento. Non si modifica il rapporto tra produzione e consumo, se non si abbatte la preminenza del valore di scambio sul valore d'uso, la riduzione del lavorio a merce, se cioè non si supera il sistema economico capitalistico, se non esiste una blocco sociale capace di esercitare il potere, con il dominio o con l'egemonia. Ma ciò è impossibile finchè non si costituisce un blocco sociale alternativo a quello oggi egemone. D'altra parte questo non è possibile se nn si fa maturare nelle coscienze la consapevolezza dei problemi reali di oggi, tra i quali quello del disastro ecologico (e del disagio provocato dal paradigma della crescita indefinita della produzione di merci) non è certo irrilevante. Assumere come direzione di marcia l'uscita dal capitalismo (sia esso di Stato o privato) è la base di ogni politica capace di condurre l'umanità attuale e futura (anche il futuro dell'umanità deve preoccuparci) è inbdispensabile (e.s.)
L’Unità, 17 gennaio 2013
L’altro ieri eravamo insieme con Carla a una riunione della associazione che abbiamo fondato insieme con lei. E come al solito si vantava d’esser più vecchia di me e io le dicevo che era una ragazza. Ed era vero. Nella sua battaglia per far capire alla sinistra tutta – e a noi – che non c’è sinistra senza la capacità di capire che lo sviluppo che si sta seguendo è insensato e inumano c’era una passione giovanile, il fervore di un convincimento sincero e profondo. Ed era piena di progetti e di volontà.
Sentiva che c’era tanto da fare per affermare una cultura economica e politica diversa, come quando, in anni lontani, a Milano, era stata tra le più combattive a spendersi, come giornalista e scrittrice, nell’azione per coinvolgere la sinistra di allora, a partire dal Pci, nelle lotte del primo femminismo. La sua forza stava nel fatto che la passione era nutrita di rigore e di capacità critica.
Di qui veniva l’acutezza di una instancabile e competente contestazione dei luoghi comuni di una cultura economica e politica incapace di vedere i nessi tra produzione e ambiente, tra mercato e qualità delle nostre vite, tra vacuità delle spinte al consumo e gravità di un disastro annunciato. Il suo insegnamento è prezioso per costruire una nuova sinistra politica e sindacale, in grado di superare le durissime sconfitte passate e recenti. Un insegnamento che raccogliamo e vogliamo continuare a coltivare con lo spirito combattivo del suo carattere.
Qui le opinioni di Carla Ravaioli per eddyburg. E qui la notizia della sua morte, con il video di un suo recente intervento
La Repubblica, 6 gennaio 2014
Il carisma che ha esercitato su un’ ampia generazione di allievi ha fatto sì che ognuno di loro abbia sentito la necessità di rievocare il comune maestro, come se questo fosse il modo migliore per esprimergli tardiva gratitudine. Perché Caffè ha lasciato un vuoto che chi lo ha conosciuto non è riuscito a riempire se non con il ricordo.
La sua eredità non si esaurisce in una univoca scuola di pensiero. Tra i suoi numerosissimi allievi troviamo di tutto: i paladini dell’antagonismo sociale, come Bruno Amoroso, i difensori intransigenti dell’intervento pubblico, come Nicola Acocella, gli esploratori di nuove forme di protezione sociale, come Enrico Giovannini, i fautori di una attiva politica economica capace di controllare l’azione dei mercati, come Marcello de Cecco. Che tra i suoi allievi ci siano anche il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, e il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, indica quanto la sua scuola sia stata tutt’altro che monocorde. Caffè aveva le sue idee, e le difendeva con accanimento, ma era capace di ascoltare e di accettare opinioni diverse.
1) Caffè riteneva che il lavoro fosse non solo uno degli aspetti essenziali della emancipazione umana ma anche la più solida garanzia di tenuta sociale di un Paese. Certo, era consapevole quale fosse la differenza tra la Gran Bretagna del suo amato Keynes e la nostra penisola: da noi, gli effetti peggiori della disoccupazione, specie quella giovanile, erano e sono parzialmente assorbiti dalla famiglia. Ma Caffè aveva compreso che il ritardato inserimento nel mercato dei lavoro dei giovani, anche quando sono sostenuti dalle famiglie, provocava un distruzione di risorse umane, condannando intere generazioni ad acquisire tardivamente e spesso malamente le competenze ed esperienze della vita professionale. Riteneva, pertanto, che lì dove il mercato falliva, fosse compito specifico dell’operatore pubblico trovare lavoro per i giovani tramite piani straordinari per il lavoro.
2) Come indica il titolo del suo ultimo libro, In difesa del Welfare State, Caffè sosteneva accanitamente la protezione sociale, anche in un periodo come gli anni Ottanta in cui il debito pubblico italiano stava esplodendo. Società opulente dovevano farsi carico dei più deboli aumentando la tassazione sui più ricchi. Per tutta la sua vita, e ancor di più negli ultimi anni, Caffè sentì moltissimo il problema dell’assistenza agli anziani, troppo spesso privi di quei servizi essenziali che invece esistevano in altre parti del mondo; prima ancora di criticare il Welfare State, sosteneva, sarebbe stato necessario realizzarlo. Queste opinioni erano anche associate ai suoi timori personali: temeva di diventare di peso e questa fu una delle cause della sua depressione. Allo Stato rimproverava di “prelevare” male e di “spendere” peggio, e in ciò occorreva rintracciare la crisi dell’assistenza sociale. La soluzione ai problemi del bilancio pubblico non andava ricercata affidando al mercato problemi che non erano di sua competenza, quanto piuttosto riformando radicalmente il funzionamento dell’amministrazione statale.
3) Infine, per Caffè la politica economica poteva e doveva avere un ruolo chiave per la coesione sociale. “Politica economica” non era solo la materia che insegnava, ma anche la pressante richiesta al governo di agire per assorbire i conflitti sociali, aumentare la produzione, soddisfare i bisogni umani. Non digeriva i diktat degli organismi internazionali quali il Fondo monetario e la Commissione europea. La politica economica doveva controllare i mercati per evitare che le risorse finanziarie si indirizzassero verso attività speculative piuttosto che produttive. Era compito del governo trovare soluzioni concrete lì dove i mercati non riuscivano a raggiungere gli obiettivi sociali. Imprese a partecipazione statale, servizi collettivi, lavori pubblici e politica monetaria erano solamente gli strumenti a disposizione del governo per realizzarli. Era fiducioso nel fatto che un loro uso illuminato avrebbe consentito al governo di raggiungere più occupazione e più benessere.
Passano gli anni, i problemi cambiano eppure rimangono simili. Rileggere oggi i suoi scritti ci fa capire quanti appuntamenti siano stati mancati dalla politica italiana per risolvere i problemi strutturali del Paese. La disoccupazione, in particolare quella giovanile, ha toccato nuovi record storici e i pubblici poteri delegano ancora al mercato la risoluzione del problema. Il debito pubblico continua a dominare il dibattito di politica economica ma ancora oggi il governo non è capace di identificare i benefici generati dalla buona spesa e dai buoni investimenti pubblici. La politica economica del governo subisce passivamente i vincoli esterni. No, Federico Caffè non avrebbe ragione di essere soddisfatto dell’Italia di oggi. E chissà se avrebbe ancora la voglia di indicare quotidianamente la via di un riformismo possibile.
Il manifesto, 9 novembre 2013
Sala del Teatro de' Servi, via del Tritone a Roma, affollata per il convegno dal titolo «Togliatti e la Costituzione» promosso dall'Associazione Futura Umanità.
Corriere della Sera, 31 ottobre 2013, con postilla e barzelletta
La colonia di scrittori, intellettuali e uomini di scienza che animavano la Olivetti era una fabbrica nella fabbrica. Di cui però nella fiction La forza di un sogno , trasmessa lunedì e martedì da «RaiUno», non c’è traccia. «Non dico che sia calata una saracinesca, ma è una diminutio eccessiva» sostiene Franco Ferrarotti, tra i collaboratori stretti di Adriano Olivetti. «Una storia della Olivetti senza gli intellettuali è impossibile - dice Luciano Gallino, che non ha visto la fiction e fa un ragionamento per assurdo - perché non sarebbe la storia della Olivetti».
Al Corriere della Sera, Ferrarotti (classe 1926) parla con schiettezza: «La fiction racconta benissimo Olivetti uomo, interpretato magistralmente da Zingaretti: Adriano era così, volitivo e trattenuto, razionale e intuivo». Bene anche la regia di Michele Soavi. Ma l’ipotesi del complotto della Cia, adombrata, per Ferrarotti è errata: «Si drammatizza troppo il contrasto con gli americani, con l’agente americana infiltrata e alcune allusioni; in realtà la fortuna Olivetti deriva anche dai contatti con gli americani, in Svizzera, dove conosce Allen Dulles, poi direttore della Cia, grazie al quale riuscirà a non far bombardare Ivrea durante la guerra».
Ferrarotti non contesta le licenze di finzione, ma il fatto che il peso dato al complotto, e al romanzo familiare, metta in subordine il ruolo degli intellettuali: «Senza di loro non ci sarebbe il mito Olivetti. Non sarebbe arrivato al Museum di modern art a New York. Perché Ivrea, in quegli anni, era una piccola Atene industrializzata. C’erano Geno Pampaloni, scrittore e critico letterario, che faceva il segretario personale di Adriano, poi Renzo Zorzi, che veniva dal Partito d’azione, e Paolo Volponi, che non si limitò a dirigere le risorse umane, ma ricavò dall’esperienza dell’Olivetti i suoi libri Il memoriale e Corporale ». E ancora, Ottiero Ottieri, mandato da Olivetti come psicologo alla fabbrica di Pozzuoli «perché lì, in una fabbrica nuova in una zona non industrializzata — sottolinea Ferrarotti — i neo operai avrebbero avuto problemi particolari». Almeno il critico Franco Fortini, dice Ferrarotti, si poteva citare: «Fu lui a regalare lo slogan di grande successo per la prima macchina Lexicon 80, che diceva “Scriverà le parole del vostro avvenire”».
Ma attenzione. Olivetti non era un mecenate. «Era un capitalista che andava oltre il capitalismo — sostiene Ferrarotti —, un imprenditore che intuiva, per vie misteriose e a lui naturali, l’enorme importanza e il riverbero intellettuale e propagandistico dei suoi prodotti. Era una strana figura di ingegnere, umanista e post-rinascimentale, mezzo ebreo e mezzo protestante, meticcio come Obama, diciamo, sovversivo come Jobs... Un vero imprenditore perché non si limitava a gestire l’esistente».
Il sociologo Luciano Gallino (1927), collaboratore di Olivetti per l’Istituito di relazioni sociali, ricorda che a Ivrea il ruolo degli intellettuali era duplice: «Alcuni continuavano a fare quello che facevano prima, e si occupavano delle attività culturali dell’azienda, come Luciano Codignola e Ludovico Zorzi. Mostre, esposizioni, spettacoli a ciclo continuo. Altri svolgevano compiti manageriali, come Volponi, che era un dirigente anche severo, oltre che un vero romanziere. Ma non dimenticava mai di essere un intellettuale». Cosa vuol dire? «Non dimenticarsi mai — risponde Gallino — di avere davanti persone, la cui componente umana è inseparabile da quella economica, produttiva, come credevano i capitalisti che pensavano solo alla prestazione. E che oggi, purtroppo, hanno vinto. Olivetti diceva che la fabbrica, l’azienda, che molto prende e chiede in termini di sacrifici fisici, psicologici, familiari, ha il dovere di restituire. Oggi che il lavoro è presentato come un regalo fatto al lavoratore, suona assurdo».
La Repubblica, 14 settembre 2013, postilla (f.b.)
NEW YORK - Nelle più diffuse traduzioni italiane, la frase è fin troppo esplicitata: «Tutto ciò che era stabilito e rispondente alla situazione sociale svanisce», oppure «si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi». Nella versione originale delManifesto comunista di Karl Marx e Friederich Engels l’immagine è più astratta, misteriosa. Citata da sola richiama un trattato di fisica. «Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria». Significa che il potere rivoluzionario del capitalismo non risparmia nulla: ha travolto società feudali scaraventandole nella modernizzazione, e prima o poi la sua furia distruttiva dissolverà la stessa borghesia. È quella frase che Marshall Berman scelse come titolo del suo libro più bello e più fortunato, pubblicato in Italia dal Mulino. Fu una fatica durata dieci anni, cominciò a scrivere nel 1971 e finì nel 1981. Ne valeva la pena: fu all’origine di un revival d’interesse americano per il marxismo, capace di sopravvivere alla caduta del Muro di Berlino.
Trent’anni prima della grande crisi del 2008 o di Occupy Wall Street, Berman aveva riscoperto una lettura marxista del suo tempo, rifiutandosi di abbandonare quei testi alla critica dei roditori. Edmondo Berselli in Adulti con riserva lo ricordò come «una specie di elefante barbuto, nello stesso tempo goffo ed agile, divertentissimo da osservare mentre in un bar veneziano mangiava la pizza con le mani impiastricciandosi le dita, se la ficcava in bocca sporcandosi la barba»...
È morto come lo ricordava Berselli: stroncato da un infarto l’11 settembre, a settantatre anni, mentre mangiava in uno dei suoi “diner” preferiti, il Metro dell’Upper West Side. Newyorchese fino al midollo, nato nel South Bronx, laureato alla Columbia, docente al City College, Berman negli ultimi anni si era dedicato proprio alla storia della sua città, curando un’opera collettiva sulla Grande Mela “dal blackout a Bloomberg”.
Teorico della modernità, la studiava nei grandi fenomeni sociali così come nella vita personale. Pubblico e privato facevano tutt’uno per lui, questo contribuiva al fascino dei suoi scritti: «Essere moderno, vuol dire sperimentare la propria vita personale e sociale come un vortice, trovarsi in una perpetua disintegrazione e trasformazione, fra turbamento e angoscia, ambiguità e contraddizione ». Cioè, appunto, essere parte di un universo in cui tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria. Berman era capace di scrivere con la stessa prosa seducente sul Faust di Goethe, su Dostoevskij, o sull’architettura di Manhattan. Al centro del suo pensiero c’è la potenza creatrice e devastante della modernità. Non lo convinceva il pensiero “leggero” dei post-moderni.
Anche in questo incrociava la sua filosofia con la sua esperienza di vita, segnata da tragedie come il suicidio della prima moglie. Da Dissent a The Nation alla New York Review of Books,la sua firma è stata su tutte le riviste più radicali e impegnate, dove l’intellighenzia newyorchese non rinuncia a esercitare la critica del presente. Era convinto, con Marx, che non basti interpretare la storia, occorre cambiarla.
postilla
Un ruolo particolare Marshall Berman avrebbe potuto avere, e magari avrà in futuro, chissà, per gli studi urbani in Italia, ben oltre la vaga eco del suo L'Esperienza della Modernità, praticamente noto soprattutto per lo svarione del traduttore sottopagato, autore dell'improbabile neologismo “scure di carne” attribuito al modernizzatore autoritario per eccellenza, Robert Moses. Il rimescolare personale e politico di Berman, ricordato da Rampini, nel caso di Moses cascava benissimo ricordando l'infanzia a West Tremont, nel Bronx ancora sereno quartiere popolare e di ceto medio nell'anteguerra, trasformato nell'anticamera dell'inferno dagli sventramenti voluti dallo zar delle opere pubbliche Moses per una autostrada urbana. Vicenda replicata in migliaia di altre città del mondo, più o meno identica anche se non nelle dimensioni, ma che Marshall Berman ci propone secondo una prospettiva diciamo difficile da digerire per la critica italiana: è l'accettazione acriticamente tecnocratica dell'urbanistica razionalista, del ruolo indiscutibile della pubblica amministrazione dotata del diritto di esproprio per pubblica utilità, a produrre danni e cicatrici difficili da rimarginare nel tessuto urbano e sociale, replicando le fratture dell'industrializzazione ottocentesca nel segno della città-macchina corbusieriana che ruota attorno all'automobile. E che fa passare in secondo piano anche l'autoritarismo militaresco degli sventratori classici, da Haussmann (a cui pure Moses diceva di ispirarsi) al nostro Mussolini stigmatizzato da Cederna. Perché la distruzione di questi sventramenti non riguarda semplicemente le sedimentazioni del passato, spesso del tutto inesistenti nelle città del mondo prive di storia degna di questo nome. Il solidificarsi di ciò che era sospeso nell'aria è invece un esercizio spietato di potere nel segno di una razionalità astratta, di cui la cultura razionalista non ha saputo davvero liberarsi, e che non è assente neppure in certe culture urbane contemporanee, pur frammentate tra lobbies settoriali. Così l'Esperienza della Modernità di Marshall Berman ci resta a efficace testimonianza e monito: non solo diffidate dei falsi profeti, ma badate bene a come interpretare quelli autentici! (f.b.)
Su Mall la versione italiana di alcune considerazioni di Berman a proposito dell'immaginario urbano a Times Square, vetrina delle merci e della società, aggiungono molto al profilo oggi santificato dell'amministrazione Bloomberg
Qui un breve filmato sull'autostrada del Bronx raccontata da Berman
L'articolo di Giuseppe Pullara sul PRG di Roma del 1962, progettato da un'équipe coordinata da Luigi Piccinato, mi suscita alcune considerazioni che non trovano spazio adeguato in una postilla. Eccole qui.
IIl PRG del 1962, come Pullara ricorda, aveva introdotto alcune innovazioni sostanziali, sia nel progetto della Roma futura che nelle regole generali della pianificazione urbanistica in Italia. Il governo del territorio esercitato nella Capitale ha sempre avuto effetti rilevanti a livello nazionale. Voglio ricordare, a quest’ultimo proposito, gli standard urbanistici, elemento essenziale per una città organizzata in funzione dei cittadini e non della rendita, prescritti nelle norme del PRG romano e nei piani urbanistici dell’Emilia rossa in quegli (stessi anni), che furono generalizzati con i decreti Mancini del 1968, e la programmazione pluriennale delle previsioni del PRG, introdotta nella legislazione nazionale con la legge Bucalossi del 1977, e poi subito abbandonata nei terribili anni 80).
Per il progetto della nuova Roma è utile precisare che l’Asse attrezzato non era solo né tanto un’arteria stradale, ma l’elemento di connessione multivettoriale tra tre nuovi centri direzionali, dove avrebbero dovuto essere spostati i grandi uffici pubblici e privati (a cominciare dai Ministeri) liberando così il centro storico dalla congestione e dal traffico.
In realtà le previsioni migliori del PRG del 1962 furono abbandonate e rinnegate, a partire dall'idea base:n che «il Comune deve decidere dove e come va la città» (un'idea cara non solo al socialista Piccinato, come afferma Pullara, ma a tutto il pensiero urbanistico italiano ed europeo dell’epoca). Ciò che i successori di Luigi Piccinato hanno conservato accuratamente negli ultimi lustri (gli anni di Rutelli, Veltroni e Alemanno), e anzi ampliato è stato invece l'errore principale del PRG del 1962 : il pesante sovradimensionamento, giustificato all’inizio degli anni ‘6o dai trend demografici, motivato negli anni successivi solo dalla perversa volontà di estendere, con lo sviluppo delle capacità edificatorie, il valore della rendita fondiaria. Hanno accresciuto e consolidato la capacità edificatoria del piano proprio in una fase in cui le ragioni della crescita quantitativa stavano scomparendo; e l'invenzione e l'introduzione nel pensiero corrente dei "diritti edificatori" ha costituito per l'urbanistica italiana l'equivalente negativo di quelle della dimensione temporale, e non solo spaziale, della pianificazione urbanistica e degli spazi pubblici come diritti per tutti gli abitanti.
Di Luigi Piccinato voglio ricordare en passant (sperando che qualcuno ne scriva più ampiamente) tre contributi che ha dato alla mia formazione, e forse a quella di molti urbanisti italiani.
Il primo, e il più leggero, è l’humour con il quale sapeva concentrare in fulminanti battute il suo spirito critico (esprimeva ad esempio la sua rabbia per il delitto urbanistico col quale gli ingegneri dell’ANAS avevano deciso e progettato il Grande raccordo anulare di Roma definendoli “gli ingegneri anali”). La sua capacità di criticare frustando era un risvolto utile della sua capacità di comunicare l'urbanistica a un mondo più vasto di quello degli specialisti.
Il secondo contributo è il suo libro, Urbanistica, Sandron, Roma 1947, col quale fornì, a una generazione di urbanisti quella che, «nell’immediato dopoguerra, si poneva come la più avanzata “filosofia”generale dell’urbanistica nel nostro paese», come scrisse Giovanni Astengo nella sua introduzione alla ristampa del libro (con il nuovo titolo La Progettazione urbanistica, Marsilio editori, Venezia 1987). Una "filosofia generale" (una ideologia e un mestiere) che aveva al suo centro una duplice consapevolezza: il futuro della città nasce da un sentimento profonda della sua storia e del suo presente; ela pianificazione urbanistica, se vuole migliorare le condizioni della città territorio, deve riuscire a contrastare la rendita fondiaria mediante l'arma di un sistema di regole chiaramente definite dal potere pubblico come espressione di una volontà collettiva.
Infine, voglio ricordare l’impegno con il quale contribuì, unico dei "padri anziani"dell’Istituto, alla ricostruzione dell’INU da parte del gruppo costituito da Detti, Tutino, Cabianca, Romano,De Lucia, dopo che la contestazione studentesca aveva spazzato via il gruppo dirigente dell’istituto, considerato dagli studenti colluso con l’establishment conservatore dell’Italia del centro destra a egemonia democristiana. Come accade ai nostri giorni, nel quadro delle "larghe intese", queata volta nella disattenzione degli studenti.
«È stata dura per me - dice Giorgio Piccinato, 77 anni, urbanista, docente a Roma Tre - appena laureato lavoravo a studio da zio Luigi a piazza Jacini. Lui giocava un ruolo da divo, aveva sempre una risposta a tutto. Era un tipo gioviale, dalla battuta facile». In famiglia si ricordano in questi giorni i trent'anni dalla scomparsa del più celebre dei congiunti: Luigi Piccinato, uno degli urbanisti più importanti del secondo dopoguerra, soprattutto il capofila degli autori del Piano regolatore di Roma del 1962, il primo dopo quello fascista del 1931. All'inizio degli anni Cinquanta il Comune mise mano ad un nuovo progetto di sviluppo della città: anni ruggenti, demografia impazzita (+50/60 mila abitanti all'anno!) ed enormi speculazioni. Nel '57 un Comitato tecnico (con Piccinato) presentò una proposta che fu malamente trasformata dalla giunta democristiana e che venne in parte ripristinata da una speciale Commissione di Cinque saggi di nomina ministeriale (guidata da Piccinato, con Vincenzo Passarelli, Michele Valori, Piero Maria Lugli, Mario Fiorentino). Il Piano fu infine adottato nel 1962 e approvato dal Quirinale tre anni dopo. Dieci anni fa è stato sostituito dal Prg firmato Veltroni.
Il «Piano Piccinato» ha operato per quarant'anni, infarcito di «varianti» e correzioni di ogni genere. A lui si deve grosso modo l'aspetto attuale della città, nel (poco) bene e nel (tanto) male. Il Piano successivo in buona parte ha sviluppato anche se corretto le linee già stabilite lasciando ufficialmente aperta ogni possibilità di trasformazione urbana con gli «accordi di programma», le «varianti» e soprattutto la logica che sostiene l'intero progetto: «Pianificar facendo». Nato a sinistra, l'attuale Prg è andato proprio per questo quasi bene anche alla destra di Alemanno.
«La tutela del centro storico comincia dalla periferia» diceva Piccinato. E così nacque l'idea di un Asse Attrezzato da piazzare tra Est e Sud per portare il direzionale fuori dal centro, liberando la parte più prestigiosa della città. Un progetto basato sul trasporto su gomma e non sul ferro (metrò), cosa che ancora pesa su Roma. L'espansione urbana doveva avvenire con nuovi quartieri autosufficienti (restati scollegati tra loro e col centro) in grado di soddisfare un incremento di popolazione fino a 5 milioni (un errore, ma la previsione serviva per garantire lo sviluppo controllato del territorio). Il verde pubblico sarebbe stato abbondante e pianificato. Tutto il tema delle immense periferie, che sarebbe esploso nei primi anni di attuazione del Piano, fu trascurato. Scrive Italo Insolera (Roma moderna, ed.'93, pag.263): «Non è dato vedere una politica delle periferie intesa come rottura della tradizionale indifferenza dei Pr romani verso quelle zone della città dove, nelle baracche, nelle borgate, negli alveari di cemento armato si accumulano da cento anni energie umiliate e frustrate, vane speranze di uomini a cui non è stato dato di partecipare all'evoluzione di quella civile comunità di persone che dovrebbe essere una città».
il Piano di Piccinato negava l'«urbanistica contrattata» venuta poi, anche se «teneva conto con intelligenza delle forze in campo» come annota il nipote Giorgio. Tentò di coniugare spinte conservatrici con propositi riformisti. Scelse lo sviluppo direzionale a Est con un aeroporto internazionale nell'estremo Ovest negando (forse perché d'ispirazione fascista) l'opzione «a mare» che si è realizzata fuori controllo in seguito. Nonostante il Piano, il «sacco di Roma» denunciato anni prima da Aldo Natoli in consiglio comunale, procedette inesorabile. «Noi urbanisti - commenta amaro Giorgio Piccinato - abbiamo il compito di capire come funziona una città. Come vanno poi le cose dipende dai tanti protagonisti in campo: politici, amministratori, categorie, forze sociali, finanza, cittadini».
I progettisti del PRG; da sinistra: Piero Maria Lugli, Mario Fiorentino, Michele Valori, Luigi Piccinato, Vincenzo Passarelli |
Il Mondo, 24 aprile 1956). Lo ringraziamo. La lotta continua.
Resteranno sempre misteriose le ragioni che hanno spinto l'amministrazione democristiana di Roma a cercare una fine così ingloriosa come quella capitatale venerdì 6 aprile, nell'ultima tempestosa seduta del consiglio comunale. Solo un totale spregio dell'opinione altrui o una rata incoscienza o oscuro desiderio di dissolvimento possono avere indotto la giunta a sollecitare dal consiglio, allo scadere del suo mandato, l'approvazione di un progetto complesso, discusso e delicato, quale il monumentale albergo panoramico che la Società Generale Immobiliare, col contributo dell'americana Hilton Corporation, da qualche anno ha deciso assolutamente di costruire in cima a Monte Mario, superstite scenario verde nel desolato cementizio paesaggio romano.
Da mesi e da anni era nota la presa di posizione contraria di istituti culturali e tecnici, di parte della stampa e di personalità autorevoli; da mesi e da anni continuava la denuncia dell'inettitudine del Comune del salvaguardare il patrimonio artistico e naturale di Roma; da mesi e da anni, dopo le lotte per la Via Appia Antica e le rivelazioni fatte durante la discussione sul piano regolatore, il sottogoverno di Roma, in fatto di urbanistica ed edilizia, era diventato la favola di tutti; da mesi e da anni la Società Generale Immobiliare, per la enormità delle sue pretese e dei suoi profitti, era diventata emblema più adeguato, per l'eterna città, che non la lupa o la cupola di S. Pietro; da mesi "L'Espresso" andava conducendo la sua violenta campagna contro la straordinaria docilità dell'amministrazione verso la Società Generale Immobiliare; da mesi si sapeva che l'opposizione avrebbe dato battaglia. Niente da fare. La dura scorza dei democristiani capitolini è a prova di bomba: essi hanno preteso che il consiglio, in articulo mortis, applaudisse l'albergo panoramico della Società Generale Immobiliare a Monte Mario, come se si trattasse di un provvedimento urgente, necessario, indispensabile e di pubblica utilità. Bene sta, alla maggioranza, l'esito inglorioso dell'ultima seduta consiliare.
"L'Immobiliare paga bene deliberazioni come questa", esclamò a a mezzanotte un consigliere comunista, dopo che da sette ore durava l'efficiente opposizione della minoranza: scoppiava il tumulto, e il sindaco offeso toglieva la seduta, deludendo l'orgogliosa sicurezza della Società Generale Immobiliare. Tuttavia, valendosi di un articolo di legge, la giunta potrebbe ancora approvare il progetto dell'albergo Hilton a Monte Mario ma, a quanto si sente dire, non ne avrà il coraggio. E si spera che il nuovo consiglio comunale di Roma sia diversamente composto da quello appena scaduto.
L'ultima seduta del consiglio è stata interessante per tre motivi. In primo luogo ha mostrato nettamente la vacuità intellettuale della maggioranza democristiana, affatto impreparata a fronteggiare le argomentazioni pertinenti della minoranza, se non con boati e fiacche e approssimative concioni. In secondo luogo ha dimostrato che la maggioranza non può pretendere che la sua volontà sia democraticamente rispettata quando, già debole per il silenzio mantenuto di fronte alle accuse precise della stampa, essa non dà alla minoranza né il tempo né i mezzi per deliberare a ragion veduta, e nemmeno fornisce ad essa i documenti necessari come, nel caso, l'elenco delle proprietà, le relazioni tecniche dettagliate, la piena informazione sui particolari urbanistici della questione: da un anno la giunta conduceva le trattative con l'Immobiliare e improvvisamente ha messo la minoranza di fronte a una proposta eccezionale, alla variante di un piano particolareggiato, cioè alla conversione di un provvedimento di interesse pubblico in strumento di interesse privato. In terzo luogo la seduta è stata importante, perché ha finalmente richiamato l'attenzione generale sui problemi urbanistici di Roma: finalmente, c'è da sperare, i distratti e i profani si saranno accorti che anche la costruzione di un complesso alberghiero in cima a un colle, per i suoi aspetti sociali, economici, politici e giuridici, può portare con sé conseguenze assai gravi per il destino della città.