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Un'ala sul mare è solitaria. Ondeggia come pallido rottame. E le sue penne, senza più legame, sparse tremano ad ogni soffio d'aria. … Chi la raccoglierà? Chi con più forte lega saprà rigiugnere le penne sparse per ritentare il folle volo?[1]

Niente meglio delle parole, più “alate” che mai, del Vate per antonomasia, per introdurre questa dolente nota (un intero spartito, direi) di vicende padane. Niente di meglio: sia perché idealmente il poeta dall’alto del suo Vittoriale scruta l’immensa pianura dal Chiese al Mella; sia perché a Gabriele D’Annunzio è dedicato l’attuale aeroporto di Montichiari, una ventina di chilometri a sud di Brescia, nell’angolo fra la SS 236 Goitese e la trasversale di media pianura verso Orzinuovi-Crema-Pavia. Una pista, qualche edificio di servizio, una strada che ci passa davanti, e a ovest oltre una larga striscia di campagna altre piste e altri edifici, stavolta verniciati a chiazze marrone-mimetico: l’aeroporto militare di Ghedi. Spazi che sono saliti agli altari della cronaca solo occasionalmente, ad esempio quando un altro più moderno esperto parole alate, il sublime romanziere Aldo Busi, si è speso a favore dell’uso civile (prima del 2000 era militare) e modernizzazione dello scalo di Montichiari. Ma come ben sa chiunque si occupa di territorio, la calma più appare piatta più è foriera di rapidi sommovimenti. O, per usare le parole del Vate, di chi vuole “ con più forte lega … rigiugnere le penne sparse per ritentare il folle volo”. E figuriamoci quanto è salda la lega, quando ha pure la “L” maiuscola!

Del resto il ricongiungimento da queste parti è fatto quasi naturale e spontaneo. Lo osservava già alla fine degli anni ’60 l’ingegner Matteo Maternini, come la striscia più o meno continua di pianura immediatamente a sud degli sbocchi di valle alpini, con la sua forte e consolidata urbanizzazione e infrastrutturazione, presentasse caratteristiche di potenziale nucleo portante, corridoio di mobilità, in tutto e per tutto assimilabile all’allora emergente modello megalopolitano “ Bos-Wash”. E la pianura a sud di Brescia, è contigua a quella a sud di Bergamo, e prima di quella a sud di Verona … beh, avete indovinato: ai giorni nostri questa cosa si chiama istituzionalmente Corridoio Europeo 5.

Contemporaneamente alle ricerche del professor Maternini, e a quanto pare ignorandone in buona o mala fede il portato, si sviluppavano studi e opere per la conversione di altro aeroporto militare a civile, e successivamente a Hub internazionale. E anche qui avete ovviamente indovinato: sull’alta pianura varesina, parallelamente al corso dell’azzurro Ticino, iniziavano a rombare sulle teste dei residenti i primi Caravelle e DC8 di Malpensa. Il problema era duplice. Da un lato i nuclei abitati in relativa crescita che circondavano l’area di sviluppo dello scalo e delle reti di accesso. Dall’altro la nuova coscienza ambientalista e di partecipazione che faceva nascere (accidenti a loro!) proprio attorno alle piste una delle più interessanti esperienze di parco naturale regionale in area ad alta urbanizzazione d’Europa. Insomma una bella rogna per “ ritentare il folle volo”. Senza contare che, nella prospettiva di una integrazione dei sistemi aeroportuali col resto delle grandi reti di trasporto, Malpensa si colloca decisamente fuori da qualunque stiracchiamento del corridoio padano. E concludo questo lungo preludio con una bella e lunga citazione:

Significative sono le risultanze di (quasi) recenti studi che individuerebbero il futuro padano del trasporto aereo intercontinentale in Montichiari, presso Brescia. È questa una imponente infrastruttura militare da poco dismessa, integrabile con quella adiacente di Ghedi, in fase di dismissione. Le aree disponibili sono enormi. Pure enormi sono le aree adiacenti libere da costruzioni, da sempre salvaguardate dal vincolo militare. La localizzazione nel baricentro del corridoio padano (e proprio su una direttrice dell’alta velocità ferroviaria) è ottimale. Qui potrebbe, insomma, essere localizzato quanto in futuro necessario nell’area padana e non ulteriormente localizzabile in Malpensa. O addirittura: anche quanto già è (e sarà) in Malpensa, ma con inconvenienti, potrà proficuamente trovar miglior posto qui. Ma questa è un’altra storia.”[2]

Già, un’altra storia.

Una storia che vede improvvisamente incrociarsi qui, tra i campi a mezza strada fra le Prealpi e le basse di pianura fa le anse dei corsi d’acqua, tutti i flussi di interessi che prendono via via il nome di alta capacità ferroviaria, corridoi e opere autostradali varie (Bre.Be.Mi; Ti-Bre; Cremona Mantova) più cose “locali” che vanno dalla connessa stazione ferroviaria Montichiari (intermedia fra Lisbona e Kiev, no?), ad altri collegamenti metropolitani e ferroviari minori, al completamento della “Corda Molle” provinciale 19 (il bypass metropolitano meridionale di Brescia), agli insediamenti della logistica, dei servizi aeroportuali diretti e di quelli che il mitico “mercato” si trascina appresso. Ovvero commercio, intrattenimento (a partire dal nuovo complesso dello stadio bresciano), servizi vari. E questo per fermarsi solo al nucleo centrale aeroportuale e linee di alimentazione e deflusso principali. Ci sarebbero poi gli effetti indotti, ma per ora lasciamo perdere.

Per capire le dimensioni e la potenza di questo magnete insediativo, basta riassumere brevemente l’idea di scalo: prima potenziare e riorganizzare quello esistente, poi realizzare una seconda pista parallela, poi su tempi più lunghi (ma si tratta di lustri, non di secoli) gestire la dismissione pianificata dello scalo militare di Ghedi e procedere a un riuso anche di quelle piste. Previsione a tempi medi di potenzialità passeggeri, attorno ai 10 milioni l’anno. Su quelli lunghi anche 20 milioni.

Non si tratta di speculazioni teoriche. I convegni coi sociofagi che urlano da un palco l’ineluttabilità dello sviluppo locale a colpi di metri cubi e strisce d’asfalto li hanno già fatti e archiviati. Lo Schema di Piano d’Area per l’Aeroporto Gabriele D’Annunzio di Montichiari è pubblicato da qualche settimana, e racconta esattamente queste cose.

Scorrendolo, il Piano d’Area (che come estensione diretta riguarda un piccolo spicchio di pianura padana comprendente tre ancor più piccoli comuni), in particolare si scoprono gli “scenari”, il grande respiro territoriale che ci sballotterà da una parte all’altra nel futuro prossimo e sino all’ineluttabile serena vecchiaia.

C’è il breve termine, ovvero i prossimi cinque anni che dovrebbero vedere completato il bypass metropolitano della Corda Molle, raccordata alla “direttissima Brescia-Milano”. Se queste sono considerate opere completate, la pianura secondo il documento dovrebbe anche essere già solcata dalle terre smosse dei cantieri della Cremona-Mantova, e “ la cosiddetta TIBRE che collegherà Parma con Nogarole Rocca”.

Nel medio termine, dei dieci anni, già sfreccia nelle ex campagne, verso il pedecollina di Castenedolo, la Lisbona-Kiev, con la sua bella stazione che “ caratterizzerà lo scalo di Montichiari rendendolo complementare a quello di Malpensa”. Col nuovo treno siamo a mezz’ora da Milano e a un’ora da Venezia. I passeggeri sono dieci milioni l’anno (nel 2005 ne ha gestiti 400.000), ma per fortuna si può comodamente “ effettuare il check-in di accesso all’aeroporto anche presso la stazione AC/AV”. Nel frattempo è anche cresciuta moltissimo, in termini di merci movimentate e di dimensione dei servizi a terra e insediamenti complementari, l’attività logistica.

Infine, nel lungo termine (solo del primo ciclo di sviluppo, neh?), fino a vent’anni, costruzione della seconda pista e assunzione del ruolo di potenziale “ secondo Hub regionale” sino a incorporare il modernizzato e demilitarizzato aeroporto di Ghedi. Il tutto in “collegamento ferroviario metropolitano con il sistema urbano di Brescia” [3], il che implicitamente significa, pur con tutte le cautele e corridoi di rispetto del caso, una sostanziale saldatura almeno fra la linea della trasversale di pianura e il pedemonte metropolitano, in un unico sistema ad urbanizzazione compatta. Cosa che suonerebbe superficialmente gioiosa per chi si oppone da sempre alla proliferazione dello sprawl padano, ma che ad un solo sguardo appena più ravvicinato appare inquietante, almeno rispetto allo scenario attuale.

Concludo questa brevissima rassegna dei cicli di sviluppo dell’aeroporto e del suo contesto osservando marginalmente che tutto si svolge sull’arco di vent’anni: circa la metà dell’intero arco di crescita (e devastazione locale) che ha portato Malpensa dallo stadio di pista appena demilitarizzata immersa nei boschi di fianco al Ticino, a quello che più o meno conosciamo tutti, e che continua tuttora a trasformarsi, ad esempio col nuovo raccordo di tipo autostradale da decine di chilometri (e relativi svincoli, bretelle, varianti …) verso le tangenziali di Milano, la A4 e la Padana Superiore, o con la crescita qui e là di grumi di scatoloni che inalberano il vessillo di Malpensa seguito o preceduto da specifiche varie, tipo “polo fieristico”, “nucleo direzionale” “parco qualcos’altro” ecc. Un futuro che evidentemente molti friggono dalla voglia di veder replicato nella pianura bresciana.

Forse i promotori di tutto questo popò di materiali e flussi, che siano legaioli, berluschi, riformisti o riformati, non si sono mai fatti un giro ad esempio nell’alta pianura vercellese o biellese. A vedere come è facile, con molto meno (“solo” la linea AV/AC e adeguamenti di contorno) letteralmente ribaltare un paesaggio e un assetto territoriale. O forse sì, ci sono stati e gli piace moltissimo quella collana di scatoloni sparsi, svincoli degni di un fumetto alla Flash Gordon per collegare due estremità di strada poderale sui lati opposti del corridoio, perversi appetiti locali scatenati, come l’idea di “Autodromo Nazionale di Buronzo” (sic). È certo comunque che qui sulle sponde del Chiese, appena a sud del famoso quartiere nazionalpopolare di San Polo a Brescia, tutti si aspettano sfracelli dal punto di vista della crescita economica, con la creazione di decine e decine di migliaia di posti di lavoro, naturalmente con relativa creazione di spazi e contenitori. Significativo il titolo di un articolo sulla stampa locale all’epoca della prima discussione del Piano d’Area all’inizio di quest’anno: “Nella Fascia d’Oro il nuovo Eldorado della Lombardia”.[4]

Fascia d’Oro è tra l’altro il nome dell’attuale zona industriale a cavallo della Statale 236 Goitese, una striscia continua di corsie complanari larga parecchie decine di metri, e che si sviluppa quasi senza soluzione di continuità dai margini orientali del sistema autostradale-tangenziale di Brescia, fino all’ingresso dell’abitato e alla Fiera di Montichiari. Naturalmente il paesaggio lunare (consiglio di percorrerlo a piedi o in bicicletta in un pomeriggio di agosto, magari ascoltandosi in cuffia Paris Texas di Ry Cooder) si completa con gli scatoloni precompressi, le trasversali a cul-de-sac, e infine i mucchi di ghiaia delle cave, che qui abbondano. Magari un Eldorado per chi ci investe, sicuramente non per chi sta tutto il giorno da quelle parti, e che appare potenzialmente peggiore, forse perché più “pianificato”, del suo omologo un centinaio di chilometri più a ovest: la superstrada 336 Autolaghi-Malpensa. E se dobbiamo dar retta alle aspettative degli sviluppisti locali, certamente qui dobbiamo aspettarci qualcosa che sarà “ Altro che Malpensa!”. [5]

E se è vero che proprio il Piano d’Area ha come scopo fondamentale il coordinamento degli interventi e scelte ai fini di un miglior assetto del territorio, quando si arriva alle prospettive di sviluppo economico le indicazioni sembrano orientate soprattutto a tutelare l’ambito dell’Hub, e soltanto quello [6], anche nella prospettiva (come più di uno lascia intendere almeno sulla stampa) di un “sorpasso” dello scalo di Montichiari rispetto a Malpensa, ridimensionata sui tempi lunghi al ruolo di “ Virtual Hub[7].

Virtualità naturalmente relativa, che secondo gli esegeti dell’Eldorado si declina soprattutto a colpi di concretissimi movimenti terra, pose cementizie, catramose colate. E lascerei perdere per il momento le preoccupazioni di “medio termine” per il prolungarsi del serpentone modello Fascia d’Oro giù per la 236 Goitese fino a saldarsi alla zona industriale di Mantova; o di traverso in direzione della 235 Orzinuovi-Lombardia Occidentale, dove già iniziano ad affollarsi – ignorati altezzosamente dalla Relazione del Piano – tutti i segni dello sviluppo commercial-industriale a nastro. Per non parlare delle futuribili Bre.Be.Mi. e correlato bypass Corda Molle …

Lasciando perdere appunto anche tutto questo, si può restare anche soltanto a scavare un po’ il futuro della piana lì sotto la collina di Castenedolo, praticamente appena sbucati dal budello del centro storico ed ex tracciato della statale per Mantova. Tanto per cominciare, c’è la stazione AV/AC con annessi e connessi, per scendere, sgranchirsi le gambe e fare pipì nella lunga traversata Lisbona-Kiev, se proprio non si vuole prendere l’aereo. Poi come ha spiegato l’assessore leghista Aristide Peli « Nell’area dell’aeroporto sono compatibili delle attività commerciali. Gli oneri di urbanizzazione che saranno versati non dovranno necessariamente ricadere nel Comune che ospiterà le attività commerciali, ma dovranno andare a beneficio dell’intera area. È una delle novità più importanti, una sperimentazione a livello regionale» [8].

Messi così tutti d’accordo sulla distribuzione degli “onori”, si può procedere all’elenco degli oneri, che ad esempio comportano l’insediamento da qualche parte e coordinato con quello stradale, ferroviario, aeroportuale, del nuovo “Stadio di Brescia”. Virgolette di rigore, perché come ormai tutto quanto anche il pallone deve avere la sua bella appendice (e che appendice) turistica, commerciale, di accoglienza, a partire dal nome: Stadium Global Center; e dalla “location”, che come ci spiegano nel sito dello studio global consulting responsabile, è per filo e per segno identica a quella aeroportuale i quanto ad inserimento nella rete infrastrutturale, da quella locale in su [9].

I numeri: lo stadio, fatalmente “uno degli impianti da gioco più moderni d'Europa” può ospitare 25-30.000 persone, e 5.500 posti auto; per lo shopping e servizi vari “un edificio con una pianta di 70.000mq articolato su due piani”, con ad esempio 12.000 mq di ipermercato, una multisala e dei misteriosi “bar tematici”; l’albergo si riassume in 12.000 mq, 200 camere, 500 posti auto, e non è finita; c’è pure un’area direzionale con un complesso su circa 35.000 mq, 5.000 (!) posti auto, e “uffici intelligenti collegati con la banda larga”. Intelligenza e banda larga che evidentemente non servono allo scopo principale, di tenere a distanza almeno qualcuna delle auto previste. E se vi pare già troppo, “ vi sono altre idee nel cassetto. Ad esempio una facoltà universitaria destinata al Food & Beverage e un eventuale centro servizi per l'intermodalità logistica[10].

E mi fermo per ora a questa fantomatica facoltà universitaria Food & Beverage, che da sola farebbe esclamare, a proposito di tutta l’operazione Montichiari: Hub? Burp! Del resto in linea con la scorpacciata di metri quadri e cubi di cui sommariamente fatto cenno nei paragrafi precedenti.

Resta una modesta domanda: e Malpensa? Quella desolazione di erbacce, scatoloni e cantieri eterni a cui è stata ridotta una fetta considerevole di Parco Ticino, serviva e servirà davvero a qualcosa?

Mah!

Se non altro, sarà servita a mettere in guardia preventivamente contro il manifesto destino della crescita coatta, a colpi di inestricabili tabelle, dietro cui stanno sempre ben nascosti i committenti.

Alla prossima puntata. Altro che That’s all Folks!

Una postilla di Maria Pia Guermandi

Alla prima lettura di questo intervento, la sensazione immediata è stata di sconcerto. Stiamo parlando di un'opera che con annessi e connessi (reti ferroviarie e metropolitane, insediamenti logistici, ecc.) è destinata a cambiare il volto di una bella fetta della Padania centro orientale in tempi tutto sommato accelerati e non ne sappiamo quasi nulla. Conosciamo persino i gusti alimentari di ogni valligiano che in Val di Susa ha preso parte alla lotta dei NO TAV e di quello che sta per succedere nel triangolo Bergamo - Brescia - Verona siamo tenuti all'oscuro. Soprattutto oscure appaiono le ragioni strutturali che presiedono ad una scelta che appare in netta controtendenza con l'affannoso sciupio di risorse - economiche - logistiche - politiche - rovesciato sull'Hub di Malpensa, considerato fino a ieri operazione di prima necessità. Poi ho letto gli articoli su Vema, la futuribile città ideale ed ecco chiarito il mistero: con perfetta prevenzione stanno già costruendo le infrastrutture per la città del futuro: quando si dice avere l'occhio avanti...(m.p.g.)

(dopo le note bibliografiche, un PDF scaricabile di questo articolo con qualche illustrazione; è disponibile anche una Galleria di foto dell'area attorno agli aeroporti)

[1] Gabriele D’Annunzio, L’Ala sul Mare (Alcyone), strofa prima e terza.

[2] Roberto Busi, Giovanna Fossa, “Il piano d'area di Malpensa. Nodo hub tra parco e conurbazione”, Area Vasta, n. 6-7 2003

[3] Informazioni e citazioni da: Provincia di Brescia, Settore Assetto Territoriale, Parchi, V.I.A, Schema di Piano d’Area dell’Aeroporto G. D’Annunzio di Montichiari, in adempimento della delega funzionale dalla Regione Lombardia alla Provincia di Brescia, 2006, Relazione, 3. Quadro Progettuale, pp. 65-67

[4] Articolo firmato Zana, pubblicato dal Giornale di Brescia il 10 gennaio 2006, sottotitolo: “Dalla vocazione agricola allo sviluppo commerciale”. Dove si sottolinea tra l’altro entusiasticamente che “ Parliamo di un’area preziosa come il platino, stabilito che essa ruota attorno ad un aeroporto destinato a diventare un hub da 10 milioni di passeggeri, immaginando la possibilità di una seconda pista di decollo, a tempi medi e lunghi, una volta recuperata una parte del patrimonio delle piste di Ghedi. Un’area di assoluto valore socio-economico, attraversata dall’Alta Velocità della Lione-Kiev, Corridoio 5, con stazione a Castenedolo, dalla corda molle, come è definita la strada provinciale 19, da Concesio a Castenedolo con entrata nel casello di Brescia Est, prevedendo gli innesti Brebemi e autostrada Valtrompia.

Un punto, cioè, in cui tutto convergerà e da cui tutto si sgancerà. Un’area, la cui fortuna viene determinata da quel capolavoro di piattezza, che è storicamente la brughiera, ieri secca e desolata, oggi appetita da mille finanze”.

[5] È la conclusione, a suo modo ragionevole e documentata, di un lungo intervento del dicembre 2005 sul noto bloghttp://skyscrapercity.com L’articolo, presumibilmente ripreso da un comunicato della Provincia, elenca in sommario: Importante passo avanti per il raccordo autostradale tra il casello di Ospitaletto (A4), quello nuovo di Poncarale (A21) e l’aeroporto di Montichiari; Corda Molle, ok del Cipe al progetto definitivo; Un’opera da 296 milioni di euro strategica per la viabilità bresciana.

[6]La prospettiva della speculazione immobiliare induce a sottolineare un secondo aspetto, che la Pubblica Amministrazione deve adeguatamente considerare nel suo sforzo di salvaguardare l’integrità del sedime. Si dovrebbe, infatti, rafforzare il più possibile l’efficacia degli strumenti urbanistici attualmente in vigore”. Provincia di Brescia, cit., Relazione sull’impatto socio-economico dell’insediamento aeroportuale di Montichiari sul sistema produttivo provinciale; La salvaguardia del sedime nella sua dimensione più ampia possibile, p. 197

[7] Per il ruolo di Montichiari come “Virtual Hub” di Malpensa, è stato osservato tra l’altro che “Brescia Montichiari airport has a high developing potential. Due to the vicinity to Ghedi airport, it could develop into a hub with two parallel, 3 km apart, 3 km long runways, thanks to the low population density in the area … a future Montichiari-Ghedi airport could manage major airlines intercontinental traffic. The high speed rail link between Milano and Verona could widen the area serviced”. Renato Picardi, “The Virtual Hub”, Economic Research Center, Round Table 126: Airports and Multimodal Interchange Nodes, 2003 (PDF), p. 29; sulla complementarità Montichiari/ Malpensa, ancora, si ritiene “indispensabile definire una oculata strategia di medio-lungo periodo (2010) … attraverso una lungimirante scelta di sviluppo di un hub secondario con funzioni complementari a Malpensa, oggi esclusivamente individuabile nell’aeroporto di Montichiari che detiene caratteristiche tecniche ed ambientali-territoriali uniche per l’intera Lombardia”, Roberto Zucchetti, Sintesi dello Studio sul Sistema Aeroportuale Lombardo, sulla Rete degli Aeroporti Minori e sui Servizi di Elitrasporto, IReR, Istituto Regionale di Ricerca della Lombardia, Milano, maggio 2001, p. 8.

[8] Massimo Tedeschi, “Montichiari, avanti … il piano”, Bresciaoggi, 14 gennaio 2006.

[9] Le informazioni sul progetto Stadium Global Center, salvo indicazione diversa, sono desunte dal sito della B. Consulting http://www.bconsulting.it

[10] Alessandro Cheula, “Castenedolo: Un Centro di terza generazione: lo Stadium Global Center”, articolo comparso nel gennaio 2006 sui siti http://www.europaconcorsi.com e http://skyscrapercity.com

Hub_Montichiari_Mall

Manuela Cartosio, Bersani in campo: a Rimini per benedire l’asse del nord, il manifesto, 15 agosto 2006

Domenica prossima decolla il meeting Niellino di Rimini. Cosa ci va a fare Bersani a parlare di don Giussani?, si è chiesto un offeso Antonio Socci. Nessuno l’ha filato più di tanto. Il ministro diessino al meeting parlerà anche di un libro sulla figura del fondatore. Ma di certo non è solo per quello che l’hanno invitato. Pierluigi Bersani, tanto al governo che all’opposizione, è un abbonato fisso a Rimini. Da un pezzo intrattiene ottimi rapporti con la Compagnia delle Opere.

C’è certamente lo zampino di Bersani nello smarcamento della Cdo dal centrodestra, testato in alcune elezioni amministrative al Nord prima delle ultime politiche nazionali. Bersani, inoltre, si occupa di imprese e di economia.

Per la destra becera, è lo sponsor delle Coop rosse. Per la Cdo, invece, è un campione della «sussidiarietà».

Si intuisce il profilo di Bersani (oltre che di Enrico Letta) dietro l’operazione varata a fine luglio in Lombardia: Formigoni ha rilanciato il federalismo a doppia velocità e Ds e Margherita ben volentieri si sono accodati, spaccando l’Unione (i particolari li trovate riassunti nell’intervento di Pino Vanacore). Il federalismo «a richiesta» e «asimmetrico», che necessita di un accordo bipartisan, e i lavori in corso per scomporre e ricomporre i poli saranno i protagonisti al meeting di Rimini. L’intenzione dichiarata di Formigoni, che resta il politico di punta per i ciellini, è di raccogliere a Rimini ok ulivisti di rango nazionale al suo progetto. Che smentiscano lo stop venuto da Linda Lanzillotta, ministro degli affari regionali, all’accelerazione lombarda.

Sia Bersani che Letta nei giorni scorsi sono rimasti zitti. Scommettiamo che del federalismo alla lombarda parleranno a Rimini e non per bocciarlo. Non sarà «un inciucio», come lo definisce Rifondazione, ma qualcosa di grosso bolle in pentola.

Il governatore lombardo ha quasi snobbato lo stop della Lanzillotta, lasciando intuire d’avere in tasta il sì di qualche pezzo da novanta nel centro sinistra. «La nostra iniziativa ha spiazzato molti. Ma i tempi della pura conservazione sono finiti. É ora di uscire dalle proprie tane comode e calde. E di lasciarsi alle spalle il bipolarismo da guerra», ha dichiarato signorilmente Formigoni.

Più inviperite e scomposte le reazioni Di Ds e Dl lombardi allo stop della Lanzillotta. «E’ stata eletta in Lombardia, ma non capisce niente del Nord», ha detto Luciano Pizzetti, capogruppo della Quercia al Pirellone. «Sul federalismo vogliamo andare avanti, non accetteremo dilazioni da Roma», ha aggiunto, «per noi non esistono governi amici, ma solo quelli che fanno o non fanno le cose». Tanto i Ds che la Margherita hanno chiesto, dalle pagine locali di Repubblica, le dimissioni di Riccardo Sarfatti, portavoce dell’Unione al Pirellone. «Prende ordini da Roma e vota sempre contro». La seconda cosa è vera. Ma che altro dovrebbe fare il capo dell’opposizione se non votare contro Formigoni?

Pino Vanacore, Quell’abbraccio mortale a Formigoni, il manifesto 15 agosto 2006

L’ordine del giorno votato nel consiglio regionale lombardo dal centrodestra, da Ds e dalla Margherita, con la contrarietà delle altre forze di opposizione e l'astensione del coordinatore dell'Unione, non è stato un temporale estivo destinato a dissolversi in fretta.

L'atto è apparso subito grave e gratuitamente lesivo di un’unità che il giorno prima si era espressa nel voto contrario al documento di programmazione regionale. Non è stato un colpo di caldo, ma un’operazione pianificata nei giorni precedenti, condotta senza trasparenza e scontando a priori una rottura interna all'opposizione. Né si è trattato di un innocuo, non condivisibile, documento sulle priorità dell'assetto viario. Dietro il «federalismo autostradale» si nasconde l'ambizione di Roberto Formigoni di rilanciare la sua leadership, compromessa dalla breve parentesi romana e dalla sconfitta del referendum sulla devolution, bocciata anche nelle principali città lombarde, a partire da Milano.

Far leva sull'articolo 116 della Costituzione come «via ordinaria » per ottenere poteri speciali e risorse aggiuntive, per sostenere la sussidiarietà, è operazione non condivisibile,ma anche di rottura della solidarietà nazionale. Non si spiegherebbero altrimenti le reazioni dei presidenti della Calabria e della Campania che, in buona sostanza, hanno affermato che «poteri speciali in assenza di chiare regole fiscali, in grado di garantire la perequazione delle risorse a livello nazionale, sono peggio della devoluzione di Bossi».

Questo adagiarsi su Formigoni da parte di Ds e della Margherita è solo in parte spiegabile con i tentativi in atto di aprire orizzonti a esperienze di «larghe intese». C'è in Lombardia una crisi del modello di sviluppo e del modello sociale. Crisi denunciata, ad esempio, dalla Banca d'Italia nel rapporto sullo sviluppo delle regioni, ove si evidenzia che è il declino della Lombardia a trascinare quello dell'Italia e non viceversa.

Il punto è come si risponde a questa crisi. A destra e in una parte del centrosinistra si pensa di rispondere in termini meramente quantitativi. Da coloro che hanno votato a favore dell'ordine del giorno del 27 luglio viene denunciato il gap infrastrutturale rispetto ad altre regioni. La «Brebemi», opera viaria considerata dagli esperti inutile, diventa una necessità, ma non ci si cura dell'emergenza idrica, causata in parte dalla perdita degli acquedotti che supera il 50%. Non ci si cura della qualità dello sviluppo e dell'inclusione sociale. Nel Dpef regionale 2007-2009 non ricorre una sola volta la parola solidarietà, per non parlare del termine uguaglianza, sparito totalmente dal lessico del Pirellone.

In realtà, la Lombardia ha bisogno di una via dello sviluppo, puntando su investimenti pubblici capaci di generare una nuova specializzazione industriale, sostenibilità ambientale e inclusione sociale. Ma guardando ai dodici anni di governo Formigoni si deve constatare che la capacità di spesa della Regione non è aumentata: il disavanzo è cresciuto (oltre novemila miliardi di vecchie lire), è costato ai cittadini più tasse e più interessi passivi che sottraggono risorse agli investimenti. Contestualmente, i bilanci della Regione sono meno trasparenti, e meno nitidi sono i ruoli di società come Finlombarda, Lombardia Informatica o Infrastrutture Lombarde Spa: aumenta la vocazione ad operare al di fuori delle regole della pubblica amministrazione e della concorrenza (la Cgil lombarda ha avviato un ricorso alla Corte di Giustizia europea).

I cittadini lombardi sono oggi meno uniti e più insicuri, la percezione soggettiva della povertà (8% della popolazione) supera la povertà oggettiva (4,7%).Una sensazione di fragilità controversa, ma anche il risultato dell'indebolimento delle reti collettive: il fai da te non è alla portata di tutti e i poveri hanno meno occasioni di inclusione. La Lombardia ha un abbandono scolastico superiore alla media nazionale. Secondo i dati della campagna Sbilanciamoci!, la Lombardia si colloca al ventesimo posto, l'ultimo nella graduatoria nazionale, per la situazione ambientale, all'undicesimo per l'esercizio dei diritti, al nono per la partecipazione e le pari opportunità, e solo al settimo per la salute.

Segnalo un altro indizio della nuova stagione bipartisan al Pirellone. Nella discussione in aula sull'assestamento del bilancio 2006 non un solo emendamento del centrosinistra è stato accolto, né per gli anziani, né per il sostegno al reddito, né per il diritto allo studio. Ma, come per magia, il 28 luglio è stata presentata una legge per interventi contro la povertà che stanzia 210mila euro a favore del Banco Alimentare della Compagnia delle Opere. Accanto alle firme di Forza Italia, An, Lega e Udc ci cono quelle dei Ds e della Margherita.

Formigoni alle scorse regionali ha perso settecentomila voti, l'esito del referendum non gli consente trionfalismi. E'davvero sorprendente che, proprio quando crescono le condizioni permettere in discussione il vero laboratorio della destra in Italia, l'Ulivo lombardo puntelli il governatore. Sono puntelli che scardinano l'Unione in Regione e pesano persino sul governo Prodi. ( L’autore è di Unaltralombardia)

Nota: contemporaneamente conferma, se necessario, questo articolo dalle pagine milanesi di Repubblica (f.b.)

Andrea Montanari, Sangalli: bene il polo autostradale ma al Nord serve anche la Brebemi, la Repubblica, 15 agosto 2006

«Bene il patto sulle autostradale, ma ci vuole anche la Brebemi per evitare la rottura del Nord». Il presidente della Camera di Commercio e di Confcommercio Carlo Sangalli condivide la proposta di Regione e Provincia di coinvolgere anche il Comune sulle nuove opere: «Milano deve dimostrare come il buon governo diventi anche capacità del fare nelle infrastrutture».

Presidente Sangalli, le larghe intese possono partire dalle nuove autostrade?

«La proposta politica di Roberto Formigoni è molto interessante perché si occupa di cose concrete e cerca vaste intese».

E dunque?

«Quello di questi giorni mi è parso un confronto direi quasi post-ideologico. Il tema, secondo me, non è solo ciò che Milano chiede al governo, ma ciò che Milano può dare in più al Paese. A cominciare dall´innovazione».

In altre parole?

«Mi pare si sia chiarito anche il ruolo di chi controlla e di chi gestisce il sistema autostradale, quello delle istituzioni e dei concessionari. E se in futuro chi controllerà sarà più vicino ai cittadini sarà meglio per tutti e sarà un reale esercizio di sussidiarietà. Il tema delle risorse, però, resta. E su questo l´intervento del pubblico è decisivo».

Ma le casse pubbliche sono vuote.

«Come camere di commercio abbiamo proposto una strada aggiuntiva, quella del project financing, con l´investimento dei privati, a partire dalla Brebemi. Noi ci crediamo, come metodo e come priorità per il territorio».

Per il governo solo Pedemontana e Tem sono delle priorità.

«La Brebemi come la Pedemontana hanno un compito essenziale, quello di evitare la rottura del Nord. Con l´alta velocità, le nuove infrastrutture dell´aeroporto di Malpensa quelle della nuova Fiera si ragiona sempre più in termini di macroregione del nord-ovest. Ma per tutto il Paese è essenziale saldare il nord-ovest con il nord-est. Ed è proprio sulla parte centrale del Corridoio 5 che abbiamo le difficoltà maggiori e i rallentamenti più evidenti. E sono tutti nella nostra regione. Ecco perché la Brebemi non è un´infrastruttura locale, ma una priorità nazionale».

Come giudica i primi passi del tavolo Milano voluto dal governo Prodi?

«Un buon inizio. Qualcuno la chiamerebbe concertazione, io preferisco definirla una collaborazione necessaria, o meglio un matrimonio d´interesse. Da un lato, il governo ha interesse a proporsi a un Nord che non lo ha sostenuto, dall´altra Milano deve dimostrare la sua capacità del fare nelle infrastrutture».

Si spieghi meglio.

«I trasporti e l´accessibilità sono un tema di sviluppo, che interessa alle imprese, al territorio, alle istituzioni. Ma soprattutto un tema legato alla qualità della vita. E quindi politico. Direi addirittura di democrazia sostanziale tra i cittadini "privilegiati", che possono avere le autostrade, l´alta velocità ferroviaria, la compatibilità ambientale, servizi pubblici, e quelli che, invece, scontano costi aziendali aggiuntivi, restano imbottigliati per ore, si devono muovere solo con le proprie auto perché i servizi pubblici non sono all´altezza».

Parco. Dall’antico francese parc; dal latino medievale parricus, a sua volta derivante dall’equivalente germanico dell’Anglo-Sassone pearroc. 1. nella legge inglese, area delimitata di terreni per volontà reale destinata alla caccia e a questo scopo ripopolata e conservata. 2. superficie di terreno che contiene laghi, prati, boschi, circostante una grande dimora di campagna o possedimento privato. 3. area di proprietà pubblica, in particolare a) interna o adiacente a una città, di solito attrezzata di percorsi, aree da gioco ecc. per la ricreazione pubblica; b) spazio aperto nella città con panchine, alberi, ecc.; c) grande area caratterizzata da scenari naturali e tutelata per l’uso pubblico dal governo statale. 4. grande spazio circondato da montagne e foreste. 5. spazio destinato al deposito temporaneo di veicoli.

No, perché i dizionari servono sempre nel caso di dubbio. Uno ascolta, che so, un dibattito alla televisione e sente distintamente un signore che dichiara appassionato alle folle telespettative “Non voglio fare una città satellite, ma un corridoio verde attrezzato per collegare il parco di Monza ai quartieri san Rocco e san Donato. Smettiamola con il "dagli al cementificatore". Chi conosce Milano 2 e Milano 3 sa che sono parchi”.


Allora va a vedere, magari su un vocabolarione da cultura internazionale, di quelli che stanno spesso sugli scaffali dei veri managers, legge quelle cose lì, e capisce: bastava dirlo prima, no? Perché noi non siamo mica tutti managers internazionali, con gli orizzonti ampi a cogliere il vero senso delle cose, e i trecentottantamila metri cubi più strade vialetti e parcheggi e siepi e rotatorie ci parevano un’altra cosa. Non un parco, ma invece del parco. Il parco, pareva a noi, c’è già: si chiama area della Cascinazza per via della cascina che ci sta in mezzo, e in effetti a vederlo non è un vero parco come lo insegnano ai bambini, anche sui vocabolari. Mancano le panchine, la fontana coi pesci rossi, il laghetto. Ci sono invece campi di granturco e un po’ di sterpaglie, e qualche filare di pioppi lungo il fiume, oltre altri campi arati. In milanese c’è un temine dialettale che chiama “ parco agricolo” certi posti col granturco, le sterpaglie, i fossi coi pioppi … ma qui è troppo piccolo: c’è una strada a quattro corsie a poche centinaia di metri, e dalle altre parti spuntano rigogliosi i tetti di condomini e altro scatolame più difficilmente identificabile.


Al centro dell’area Cascinazza, quella che nelle cartine stradali si chiama via Antonio Rosmini, e per chi ci passa un tracciato sterrato che divide la zona in due ambienti distinti, dopo aver costeggiato gli edifici della cascina: è il Cardine della centuriazione romana. Ce la racconta tra l’altro nei particolari, questa cosa della centuriazione romana nell’agro milanese, un documento dal titolo La vera storia della Cascinazza – Luglio 2006. Documento non firmato in quanto tale, ma che si scarica in PDF dal sito forzaitaliabrianza.com, sito non esattamente ricchissimo e che contiene nell’ordine: a) una bandiera di Forza Italia; b) la scritta linkata Scarica il file PDF Area Cascinazza.

Ma quel documento interessa queste note soprattutto per un aspetto: il parco. Anche lì, fra legioni romane che tracciano centuriazioni nell’agro gallico cisalpino di Mediolanum, e presunte legioni di urbanisti monzesi che in un secolo a quanto pare sono riuscite soltanto a combinare pasticci, rispunta il toccasana per grandi e piccini del parco:

“Il disegno urbanistico proposto si fonda su quattro scelte principali:

- la costituzione del Parco fluviale del Lambro;

- la realizzazione di un grande Parco Attrezzato;

- la definizione di un nuovo bordo edificato;

- la nuova centralità urbana affidata alla Cascina Cascinazza”.


Poco importa, che quel “bordo edificato” si rapporti al quartiere esistente come un raddoppio in termini area urbanizzata, e un incremento assai superiore in termini di cubatura. Poco importa, ancora che a una cascina, tuttora al centro di una piccola porzione di campagna padana residua, venga appioppata inopinatamente una “nuova centralità urbana”. Qui si deve fare il parco (come già fatto a Milano 2 e Milano 3, no?), costi quel che costi.

Dev’essere una tendenza di area, di area politica intendo, questa cosa della transustanziazione del parco. Ci aveva pensato l’ineffabile Gabriele Albertini, qualche tempo fa, a chiamare Central Park una vagonata di grattacieli griffati con qualche alberello negli interstizi. Però forse non si trattava di una sparata personale (non vorrei accusare ingiustamente Albertini di avere delle idee) ma di una precisa filosofia politica, elaborata nelle rarefatte atmosfere intellettuali di Arcore.

Proseguendo di poco nella lettura del documento sulla Cascinazza, questa ipotesi si rafforza:

Si noti … come sia possibile paragonare nel disegno urbano, la Cascina alla Villa Reale a nord, nel senso che la posizione ne fa la naturale porta di accesso al Parco e la struttura di attività di servizio allo stesso”.

Una sparata incredibile, tutta giocata sul medesimo motivo da cui nasce tutta la questione: il cuneo verde di uscita a sud dal centro storico del Lambro, che corrisponde a quello di ingresso a nord. Sopra, ad aprire le vedute dell’ampiamente progettato Parco, c’è la Villa Reale, monumento solitario ed eccezionale. Sotto, come banalmente ovvio trattandosi di campi coltivati, da qualche parte c’è una cascina, “naturale porta d’accesso” a un bel niente. Nel progetto di Monza Due, la cascina come spesso accade da queste parti ai vecchi edifici rurali assorbiti dall’urbanizzazione, è destinata a qualche tipo di servizio (basta farsi un giro nei comuni della zona per vedere decine di casi simili).

Ma, il parco, che fine ha fatto il parco? C’è, niente paura. In edizione tascabile, comodo e maneggevole. Un po’ come Cesare che zompava oltre il Rubiconde, il brianzolo del futuro dovrà scavalcare l’antico Cardine di centuriazione (che sta a metà dell’area, vedere la mappa) per entrare nella zona che retorica televisiva a parte possiamo chiamare “parco”, ovvero le sponde del fiume e i campi circostanti, fino alla brusca interruzione del nodo autostradale e delle tangenziali, nell’angolo sud-ovest.


E pure, curiosamente, anche parlando delle bellezze di questa fila di condomini a corte, strade cul-de-sac con rotatoria di inversione, l’accento torna sempre e comunque sul “parco”, su qualche grande idea di zona verde attorno al fiume serpeggiante … ecco!

Lo dicevo sin dall’inizio, che noi comuni mortali non dobbiamo mai fidarci di quello che ci appare buon senso. Ma che buon senso non è affatto: solo superstizione, viziata dall’odio spontaneo del “figlio dell’operaio” per il figlio di qualcos’altro. Pensare che era lì, scritto nero su bianco sulle immortali pagine del Webster Unabridged Dictionary citato all’inizio. In particolare, la definizione numero 2, che dice:

“superficie di terreno che contiene laghi, prati, boschi, circostante una grande dimora di campagna o possedimento privato”.

Usciamo dai nostri orizzonti angusti, e come insegnava anche il grande Daniel Burnham: “Think big. Make no little plans. They have no magic to stir humanity's blood”. Ed era quasi ovvio che i nostri moderni e cosmopoliti managers avessero idee grandi, a scala metropolitana e regionale, che i poveri monzesi privi di fede azzurra non sanno cogliere. Il parco “ circostante una grande dimora di campagna o possedimento privato”, ce l’abbiamo sempre avuto davanti agli occhi: la grande dimora sono addirittura due grandi dimore. A presidiare le due rive del Lambro, Villa San Martino a Arcore sulla sponda est, e la più appartata e collinare residenza di Macherio su quella ovest. È da lì che tutto nasce, e si snoda poi fra casupole di villici e giardini di delizie, stalle operose e l’antico Parco Reale con la sua Villa, ex possedimento di ex potenti (le cose cambiano, ogni tanto, eh?). Segue il parco della Cascinazza col segno urbanistico di “nuova centralità” accostata all’antica Centuriazione, e poi giù lungo le acque limpide fino al Parco di Milano Due, e oltre ancora agli spazi tutti da qualificare del Parco Agricolo Sud.

Ecco, cosa non volevamo capire.

E a ben vedere, per quanto mi riguarda, continuo a considerare l’ennesima sparata televisiva, diretta a un esiguo pubblico di gonzi. Una versione prime-time delle solite urla notturne a colpi di “immerso nel verde”. E a furia di immergerci roba, tutto il verde che ci resterà saranno quelle orrende cravatte e fazzoletti da tasca dei leghisti.

Nota: qui, per chi non l'avese ancora fatto, un giro attorno all'area della Cascinazza; qui l'articolo di Repubblica che riferisce del dibattito televisivo dove P. Berlusconi esprime la sua filosofia del parco; di seguito, scaricabile il citato PDF di Forza Italia Brianza. Da notare la copertina, che esplicita orgogliosa tutti i 380.000 metri cubi virtualmente già edificati nel cuneo verde meridionale: si riconoscono le "corti" quadrate e la griglia stradale ; al "dossier" di Forza Italia, dopo qualche giorno dalla stesura di questao articolo, ha risposto puntualmente un altro dossier del centrosinistra, che allego di seguito (f.b.).

Lacquanonebagnata

Lacquanonebagnata

Nel quadro dell’articolatissima iniziativa che si svolge a Carpi (MO) sulle Città Ideali è prevista fra l’altro per settembre una conferenza dal significativo titolo Land art, architettura-infrastruttura, paesaggio. Risposte alla città diffusa.

Di quali risposte si tratti, esattamente, sarà la conferenza a fornire i particolari. Ma una buona idea la può dare questo breve estratto dalla presentazione:

Lungo le arterie principali di comunicazione si snoda ormai, specie in pianura, un edificato rado, disordinato ma continuo, fatto di capannoni, magazzini, parcheggi, frammisti a case; può diventare tutto questo occasione di qualità?

Le “discipline del territorio” sono proprio indisciplinate. Pare l’unica spiegazione possibile (salvo la malafede, che si vorrebbe escludere a priori) per il ripetersi nei titoli di iniziative più o meno articolate, più o meno orientate, del tema “città diffusa” affrontato con strumenti sproporzionati, per non dire risibili.

Sarà per colpa di certa sociofagia dilagante, che teorizza a prezzi di saldo la Città Infinita, autorizzando a piazzare dentro questo iperuranio Enduring City tutto e il contrario di tutto?

Sia come sia, continua a lasciare perplessi che, a quasi mezzo secolo dalle prime teorizzazioni mature di Jean Gottmann sulle megalopoli, e altrettanto se non più di discussioni multidisciplinari sullo sprawl urbano, ciclicamente spuntino anime candide che si pongono domande sul tono di quella riportata sopra.



Quale qualità si può perseguire, tentando di rifare il trucco a Scatolonia? Una qualità che si declina al massimo attraverso gli interventi sulle architetture, la composizione del paesaggio, la qualità dell’ambiente costruito nel suo insieme. Niente di male, in sé: meglio il meglio del peggio, no?

Invece verrebbe proprio da dire no, niente affatto: c’è una questione ambientale e sociale molto seria legata al tema dello sprawl, che questo genere di approcci tende esattamente a nascondere, dietro la cortina fumogena della “occasione di qualità”. Nel caso migliore. In quello peggiore, implicitamente, a distinguere l’insediamento diffuso degenere da quello “di qualità”, magari perché composto secondo gli stilemi del teorico di turno.

E non si tratta solo di questione italiana, anche se il nostro contesto è particolarmente delicato a causa delle stratificazioni storiche anche di immensa portata (si pensi alla Postumia romana) ormai travolte dallo sprawl nel silenzio più generale. Anche in altri paesi spesso articolazioni della cultura che fa riferimento all’ambientalismo e all'urbanistica in senso lato si scontrano con altre articolazioni, stavolta legate all’approccio progettuale del new urbanism. Ma, anche qui, è raro trovare proposte che perlomeno formalmente non facciano riferimento alle questioni della densità, del recupero, dei nuclei centrali metropolitani alternativi al greenfield development.

Parafrasando l’opinione del giornalista esperto divulgatore di temi territoriali Anthony Flint, e del suo ultimo lavoro, This Land (Johns Hopkins UP, 2006), non esiste new urbanism che sia davvero tale, senza smart growth.

Più terra-terra, senza una valida pianificazione urbanistica, intesa come processo costante in evoluzione, monitoraggio, governo (e anche stimolo) della crescita secondo criteri ambientali sostenibili e socialmente condivisi, non saranno certo i magnifici rendering acquerellati degli studi di architettura e landscape, a rendere meno perniciosa la proliferazione delle superfici asfaltate superflue, dei volumi edificati “produttivi” destinati a non produrre assolutamente nulla, salvo i propri metri cubi.

E per capire quanto la questione non sia affatto teorica, basta farsi una passeggiata nemmeno troppo attenta proprio nei distretti territoriali che producendo ricchezza attirano anche intelligenze, progettualità, ambizioni. Che riguardo a qualunque uso non folle dello spazio e delle risorse, brillano per la loro assenza: le intelligenze, le progettualità, le ambizioni.

A meno di non voler chiamare tali il design delle insegne al neon, la redazione burocratica di “norme tecniche” avulse da qualunque riflessione (e applicate con il medesimo criterio), l’arredo a verde di qualche striscia a dividere un ettaro di asfalto dall’altro. Insomma: può diventare tutto questo occasione di qualità?

Prima di rispondere, può essere utile verificare, magari senza muoversi, lo stato attuale di un distretto produttivo fra i più dinamici del paese: la “città lineare del mobile” nella bassa veronese.

Vedere per credere. E poi magari riproporsi quella domanda sulla “qualità”.

Arredo Urbano Diffuso

Poniamo che per via di un cavillo giuridico un gruppo di energumeni inviperiti vi venisse a prelevare nella notte, poniamo, per lapidarvi sulla pubblica strada. E magistratura e polizia ad assistere al lieto evento, impossibilitati a intervenire per via del cavillo di cui sopra, spuntato per forza o per caso dalla notte dei tempi. Assurdo, no?

Beh: la lottizzazione dell’area (molto) nota come “Cascinazza” a Monza assomiglia piuttosto da vicino a qualcosa del genere. Con l’aggravante, pure (molto) nota, dell’insistenza dei succitati energumeni nel ripescare e riproporre forzosamente vari, veri e presunti cavilli. Ma su questi aspetti si sono già profusi questo sito e altri mezzi di comunicazione. Quella che vorrei provare a proporre, spero a rafforzare la posizione pro-parco, è una questione di merito: cos’è questo poligono irregolare di spazio aperto, green-wedge di campagna padana fra il centro storico e la barriera autostradale e delle tangenziali?

La risposta, che spero possa emergere e/o rafforzarsi, è: uno spazio unico, di valore non solo comunale, in un contesto metropolitano dove per trovare cose che gli assomigliano bisogna spostarsi di parecchio, verso la green-belt del Parco Sud (dove, guarda caso, da anni gli stessi esegeti del metro cubo “ci provano”). Altro che, come ha osservato pubblicamente l’assessore regionale, accanimento sulla famiglia Berlusconi. L’accanimento è quello sul buon senso. Del resto anche il piano vigente di Luigi Piccinato, che a quei 380.000 metri cubi di palazzine, coi loro vialetti, cul-de-sac alla brianzola ecc. conferirebbe legalità formale, recita alla relazione:

“Realizzare a sud, lungo il Lambro, un nuovo grande parco pubblico, onde spaziare i due settori con la stessa funzione esercitata a nord dal Parco Reale”.

E ancora:

“Il piano afferma la necessità di disporre un nuovo spazio verde di parchi e di attrezzature sportive, impostato sulle due rive del Lambro che, con il corrispondente Parco Reale a nord, completa un sistema a verde a due grandi cunei che verrà a spaziare tutto l’organismo urbano. Il parco del Lambro potrà nel futuro piano intercomunale, trovare il suo completamento fino a Milano, costituendo un sistema verde regionale fino a Monza ed oltre, fino alle soglie della Brianza”.

Bastano queste poche battute a chiarire quale sia il ruolo di quel cuneo verde, “sistema regionale”, con un valore che gli anni, con la saturazione dell’edificato e la quasi distruzione di ogni possibilità di rete continua hanno aumentato esponenzialmente. E si capisce anche, indirettamente, il senso anche originariamente forzoso di quella fascia edificata sul lato orientale, a strizzare il cuneo verde alle sole sponde del fiume: una città da 300.000 abitanti, in una regione metropolitana che si presumeva in crescita più ordinata, per nuclei compatti e sistemi di spazi aperti. Non certo lo sprawl di capannoni, bretelle e cinture che ora fa da “cornice” a quella residua testimonianza di pianura padana.

Ed è soprattutto questo, che il breve, prosaico percorso attorno alla Cascinazza, vorrebbe mostrare: costruire qui, nel terzo millennio, è davvero come lapidare adulteri sulla pubblica piazza.

Qui la Galleria pubblica. Non sono foto magnifiche (come ad esempio quelle, molto suggestive, del sito cascinazza.info) ma servono soprattutto a dare un’idea di cosa ancora “non è” quello spazio. Cliccando sulle immagini, si ingrandisce un po’, e si possono leggere le didascalie.

vai alla Galleria

Via libera, ieri, del consiglio regionale alle modifiche della legge urbanistica. Modifiche che consentiranno, tra l´altro, a Paolo Berlusconi di mettere a frutto dopo anni, a Monza, la lottizzazione dell´area della Cascinazza, 55 ettari di verde incontaminato attraversati dal Lambro. Un affare da almeno 250 milioni di euro. Accompagnato dall´occasione, per altri costruttori, di realizzare un milione e ottocentomila metri cubi di cemento in una delle zone più belle della Brianza. E c´è anche, per la Lega, la possibilità di imporre uno stop a nuove moschee in Lombardia, a cominciare da quella di viale Jenner sulla quale dovrà decidere ora il sindaco Letizia Moratti.

«Una vergogna e una legge ad hoc che svilisce le funzioni del consiglio regionale» - ha protestato dopo il voto, compatta, l´Unione con il diessino Marco Cipriano. «Finalmente regole chiare per tutti» - ha replicato l´assessore regionale leghista all´Urbanistica, Davide Boni, che sulle moschee ha aggiunto: «Ora non sarà più possibile prendere un garage e trasformarlo in un luogo di culto come in viale Jenner». Non sono bastati gli 868 emendamenti del centrosinistra, due manifestazioni, una "notte bianca", l´appello di numerosi urbanisti di fama e nemmeno la presentazione in extremis, mercoledì, del nuovo piano territoriale di Monza. Con 42 voti a favore e 29 contrari, ma ben 7 franchi tiratori nella Casa delle libertà, l´aula ha pronunciato il suo verdetto. Con la riduzione da cinque anni a tre delle cosiddette salvaguardie (ossia gli anni di validità dei piani regolatori) il comune di Monza, nonostante abbia pronto il nuovo piano, rischia di dover continuare ad applicare quello del 1971, più permissivo. Nel frattempo, la Ist.Ed.In, Istituto per l´edilizia industrializzata di Paolo Berlusconi, potrà chiedere di costruire nei quasi 400mila metri di sua proprietà, un´area finora protetta.

Immediata la protesta del sindaco di Monza, Michele Faglia: «La Lombardia non poteva fare una figura peggiore. Il presidente Formigoni, che si propone sempre come progressista e paladino della sussidiarietà, è stato succube di interessi immobiliari di parte. Non ci arrenderemo». Si dice «esterrefatto» il consigliere regionale monzese dell´Ulivo Pippo Civati.

Sul piede di guerra anche i Verdi e Rifondazione comunista. «Perfino sette franchi tiratori della Cdl non hanno voluto votare la legge pro Berlusconi» dicono i verdi Carlo Monguzzi e Marcello Saponaro. «È una legge scandalo che fa vergognare anche parte della maggioranza» sottolineano anche Mario Agostinelli e Luciano Muhlbauer di Rifondazione.

Secca la replica del relatore del provvedimento, il leghista Giulio De Capitani: «Sono solo modifiche tecniche per rendere più facile l´applicazione della legge». Il capogruppo di An in Regione, Roberto Alboni, respinge che i franchi tiratori siano tra i suoi: «Basse speculazioni di chi vuole solo gettare benzina sul fuoco». Accuse pesanti proprio nel giorno in cui, con l´elezione di Ettore Albertoni alla guida del consiglio regionale, è sembrato che il dialogo tra gli opposti schieramenti sulla riforma dello statuto potesse ripartire. «Entro luglio la commissione, in un anno la riforma» sono state le prime parole del neo presidente. «E senza preclusioni sulla guida della commissione a un esponente del centrosinistra» ha aggiunto il governatore Formigoni. Un´apertura comunque definita «interessante» dai capigruppo dei Ds, Giuseppe Benigni, e Guido Galperti della Margherita.

Comunicato stampa dal gruppo DS in Regione Lombardia

È una legge sbagliata, l’ennesima modifica, e non certo l’ultima, alla legge urbanistica approvata solo l’anno scorso. Siamo l’unico Paese al modo in cui un problema che attiene alla libertà di culto, com’è l’apertura di luoghi di preghiera, viene regolata con una legge urbanistica, e questa è già un anomalia notevole. Ma i problemi veri, nascosti dall’articolo antimoschee, riguardano la città di Monza e i piani d’area. Con questa legge ad hoc, infatti, si vuole impedire a un comune di tutelare il proprio territorio, solo perché su una specifica area, quella della Cascinazza, c’è un chiaro interesse di Paolo Berlusconi. Con i piani d’area, invece, si vuole dare mano libera alla Giunta di ridisegnare il territorio in alcuni punti strategici, come le zone degli aeroporti della Malpensa e di Montichiari e come la Valtellina, senza che sia stato ancora approvato il piano territoriale regionale, di cui non c’è ancora nemmeno una bozza.

Una legge sbagliata, ancora più stonata oggi, giorno in cui il Consiglio elegge il nuovo presidente, che ha richiamato l’Aula al dialogo per meglio esercitare le sue alte funzioni. La realtà è che questo Consiglio viene svilito dall’approvazione di una legge ad hoc, primo provvedimento dopo mesi di sostanziale inazione.

Marco Cipriano, vicepresidente del Consiglio regionale

Milano, 6 luglio 2006


CREMONA - Peggio della grande secca di tre anni fa. Il Po sembra quasi un rigagnolo, le bettoline e le grandi barche non riescono più a passare, e i campi intorno sono riarsi. Anche le zanzare sono più cattive. La vecchia asta millimetrata dell´idrometro che scende dal ponte che va in città, segna meno 7 metri e 60. La magra, in questa siccità anticipata a causa delle scarse piogge e delle temperature più alte della media stagionale, sta toccando di nuovo picchi storici. «Il record del 23 luglio del 2003, - 7,72, l´abbiamo già superato: - 7,77 il 9 giugno di quest´anno» spiega Luigi Maccabelli dell´Agenzia per il Po, memoria storica del fiume che da quarant´anni ne spia ogni movimento.

Sulle rive del grande fiume in agonia è cominciata una dura battaglia per la sopravvivenza tra i contadini e i padroni dell´energia. Tutti vogliono l´acqua che non c´è, tutti ne hanno bisogno, tutti la vorrebbero prima di tutto per loro. Gli agricoltori dicono che è colpa del mancato rilascio di acqua da parte dei bacini alpini. «Vengono mantenuti chiusi dalle società che ne hanno la concessione per la produzione di elettricità - accusa Coldiretti - e in questo modo impediscono che l´acqua giunga a valle sottraendola ai cittadini, all´ambiente e all´agricoltura».

Replicano i gestori: «E se vuotiamo ora i bacini, cosa faremo per l´agricoltura e per gli eventuali picchi di richiesta di elettricità a luglio? Tutte le esigenze sono importanti, irrigazione, elettricità, turismo. Ci vuole un tavolo dove pesarle e poi decidere». Ci proveranno oggi, a Parma, tutte le parti interessate, chiamate dal segretario dell´Autorità di Bacino, Michele Presbitero, ad una «cabina di regia» sul Po che il presidente dell´associazione per le bonifiche Massimo Gargano vorrebbe rendere permanente «per non agire sempre sotto la pressione dell´emergenza».

Infatti è già allarme rosso. Quasi ovunque lungo l´asta del Po si registrano «livelli inferiori a quelli del 2003», dice l´Autorità di bacino: 4 metri sotto Casalmaggiore, 5 a Castelmassa, 7 a Cremona e Pontelagoscuro, 8 a Canonica d´Adda. Sono in crisi anche i suoi affluenti, come il Ticino, l´Adda, la Dora Baltea, e i laghi di Como, Iseo e Maggiore. Cinque regioni, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, stanno mettendo a rischio l´irrigazione delle colture in un periodo determinante per la loro crescita. La Coldiretti del Piemonte, che chiede lo «stato di calamità», lamenta già 120 milioni di euro di danni all´agricoltura, sostenendo che il raccolto del mais «è compromesso per il 40%», mentre quella veneta, che aspetta ancora gli indennizzi del 2003, denuncia un calo del 30% del reddito di 3000 aziende agricole del Padovano.

Foto di F. Bottini

Sono a rischio un terzo dei raccolti delle produzioni più tipiche del nord, come riso, cereali, mais, soia, barbabietole, ma anche pomodori, specie in Emilia, e molte colture foraggiere nel Sassarese, in Sardegna. Secondo la Cia, la confederazione agricoltori che mette in guardia su «possibili riflessi sui prezzi»,ricordando che la magra di tre anni fa causò all´agricoltura una perdita secca di 5 miliardi di euro, per il momento a soffrire maggiormente della siccità sono le risaie delle province di Pavia, Novara e Vercelli. Ma ci sono problemi anche in montagna, come in Valsesia, dove a causa della carenza d´acqua manca l´erba sui pascoli alpini. La magra del Po sta inoltre causando forti danni alle colture in Polesine per la risalita del «cuneo salino», che porta nel fiume l´acqua del mare Adriatico, rendendola inservibile sia per i campi che per uso potabile.

Ma le conseguenze di questa secca anticipata rischiano di essere ancora peggiori. Infatti non rischia solo l´agricoltura, perché l´acqua comincia a mancare anche per le centrali, e se manca l´acqua mancherà l´elettricità. «Stiamo perdendo più di un milione e mezzo di chilowattora al giorno - afferma Sergio Adami, responsabile degli impianti idroelettrici dell´Enel per il nord - tanto che nella nostra centrale idroelettrica di Isola Serafini sul Po e anche in quella termoelettrica di La Casella, vicino a Piacenza, abbiamo dovuto costruire un ‘pennello´ per poter andare a pescare l´acqua con le pompe». Enel si dice comunque pronta a «fornire alle Regioni la massima collaborazione». Con la Lombardia è già in atto una cooperazione che prevede la fornitura dell´acqua affluente e un parziale svasamento dei bacini. Ma ancor di più, dicono, potranno fare i grandi laghi. Una giornata di prelievo dal lago di Como equivale, secondo l´Enel, alla quantità d´acqua immagazzinata in un bacino idroelettrico.

Il seguente comunicato è stato distribuito sabato 10 giugno 2006 durante la manifestazione pubblica sul caso di "scavalcamento" regionale dell'autonomia locale per favorire interessi particolari (leggi: Paolo Berlusconi). E' rivolto ai cittadini di Monza, ma il caso di questa speculazione forse merita un'attenzione generale. Chi non conoscesse ancora il caso può far riferimento sia al Dossier relativo predisposto dall'Ulivo, sia agli articoli raccolti su Eddyburg (f.b.)

COMUNE DI MONZA – COMUNICAZIONE AI CITTADINI

Martedi 13 giugno il Consiglio Regionale potrebbe decidere di condizionare pesantemente il futuro della nostra città.

Per la terza volta la Regione Lombardia, attraverso una legge apposita, tenterà di bloccare l 'autonomia di Monza su questioni di carattere urbanistico.

COME? Inserendo una norma che, solo per la città di Monza, riduce il periodo di salvaguardia delle aree non ancora edificate e ripristina cosl il vecchio Piano regolatore di 31 anni fa, che prevedeva una città di 310.000 abitanti!

PERCHÈ? È del tutto evidente che questa Legge Regionale è funzionale ad alcuni interessi economici e immobiliari.

L 'esempio più eclatante è quello della Cascinazza, area sulla quale il privato potrebbe chiedere di realizzare l' equivalente di 60 nuovi palazzi .

COSA SI PUÒ FARE? Chiedere al Consiglio comunale di approvare SUBITO il Piano di Governo del Territorio, con un atto di responsabilità e .di orgoglio monzese. Bisogna continuare a difendere i veri interessi, quelli pubblici, cioè quelli della città intera.

Esprimere la protesta dei monzesi al Presidente della Regione Roberto Formigoni inviando questo messaggio: "Monza ha diritto di scegliere il proprio futuro: salviamo il nostro verde! No alla modifica dell 'art.36 comma 4 della L.R. 12/2005!" all'indirizzo via Fabio Filzi 22, Milano, o via mail a roberto_formigoni@regione.lombardia. it

Quando un articolo, un comma valgono milioni. Bella storia italiana, perché fuori gioco perunmomentoun fratello le leggi ad personam si compilano per l’altro: via Silvio, ecco Paolo, lontano dalla politica, fermo ai mattoni, primo amore del più grande in famiglia. Tanti mattoni, qualcosa come 388 mila metri cubi di mattoni e di cemento, tante belle case, una dietro l’altra, tra i prati verdi e umidi della Cascinazza, comune di Monza, appena a nord di Milano, accanto a Brugherio e aCologno, in mezza a una zona , in sostanza, tra le più densamente urbanizzate e popolate della Lombardia. Protagonisti oltre al “piccolo” Berlusconi, in fase di attesa, la grande Regione Lombardia con il suo presidente e senatore, Roberto Formigoni, l’assessore regionale all’urbanistica, Davide Boni, ultras leghista e sbandieratore della devolution, il comune di Monza, con il suo sindaco, Michele Faglia, sindaco di sinistra.

Ci starebbe anche Milano, ci starebbero soprattutto quelli che a Milano, nel centrodestra, in campagna elettorale, s’animarono per il progetto dell’anello verde e lo chiamarono “Gli occhi verdi di Milano”. Tranne uno, avrebbero dovuto precisare, l’occhio della Cascinazza, un trapezio di 750 mila metri quadri, che nessuno a Monza vorrebbe vedere costruito,ma che la lungimirante Regione Lombardia («Ci muoviamo nell’ottica del bene pubblico, del bene comune, da realizzare nel dialogo e nel confronto», commentò sereno il governatore lontano, rispondendo a una lettera del sindaco Faglia) vorrebbe veder edificato, senza badare alle pretese dei riottosi monzesi e neppure alla salute dei silenti milanesi.

I monzesi, pignoli, si erano dotati di tutti gli strumenti urbanistici necessari a proteggere la Cascinazza. Da tempo, A cominciare dal piano regolatore di un sindaco leghista, Che stabiliva vincoli definitivi. Poi confermati, varie volte, dagli strumenti urbanistici varati e adattati a legislazione vigente dall’amministrazione di centrosinistra. Ma alla Regione Lombardia hanno pensato che una legge lava l’altra ed ecco pronta la modifica che riduce gli anni di salvaguardia da cinque a tre, addirittura con valore retroattivo: il piano del 2002, dunque, non vale più dunque, le norme di salvaguardia dovrebbe decadere secondo i progetti del governatore Formigoni e dell’assessore (leghista) Boni non più dopo cinque anni, ma dopo a tre, sarebbero quindi (per retroattività) già scadute e quindi e tornerebbero d’attualità le misure del precedente piano regolatore, vecchio di oltre trent’anni, il piano Piccinato del 1971, che generosamente e in una logica di grande espansione consentiva di costruire appunto quasi quattrocentomila metri cubi su quell’area (e su altre per altri cinquecentomila metri quadri, quasi).

Come piacerebbe oggi a Paolino Berlusconi e come, appunto, la nuova legge gli consentirebbe, se venisse approvata, una nuova legge fatta per lui e per poche altre anime: perché la legge non solo è ad personam ma anche per due comuni soltanto, Monza, terza città della Lombardia, e Campione d’Italia (enclave del gioco d’azzardo ormai in territorio svizzero). Per amore della verità neppure la legge sarebbe sufficiente, perché l’area agricola supervincolata è anche area che soffre d’esondazioni, a fianco scorre il Lambro che potrebbe far danni ancora (come capitò tre anni fa). E quindi si disegna il Pai, piano di assetto idrogeologico, che delimita l’area della Cascinazza come fascia protetta, di salvaguardia e di esondazione.Quindi non edificabile.

Ma ecco la soluzione, sedendo ancora a Palazzo Chigi il fratello maggiore, Silvio Berlusconi: si inventa una “grande opera” il canale scolmatore, una sorta di by pass che dovrebbe partire in prossimità della secentesca Villa Mirabello, nel Parco di Monza, attraversare il nord monzese, traversare strade e aiuole, rientrare nel Lambro più a sud. salvare la Cascinazza e quindi anche la possibilià di edificarvi quello che si vuole. Danni ambientali: pazienza. Costi: pochi euro. Cioè: 168.294.491 euro. Quasi centosettanta milioni euro. Quasi trecentoquarantamiliardi delle vecchie lire. Il canale ovviamente andrà a futura memoria.

Per la legge l’appuntamento è domani in consiglio regionale. «Provvedimento tecnico», modifica di poco conto, sostiene il centrodestra della Regione, che dimostra tanta attenzione per i metri cubi di Berlusconi Paolo e nessuna per Monza, che aveva deciso in altro senso, e nessuna per chi vive tra Milano e la sua provincia, a prova perenne di inquinamento. Il polmone verde della Cascinazza evidentemente non interessa a Roberto Formigoni, così sollecito nel proclamare domeniche a piedi contro le polveri sottili e a mostrarsi lui stesso in bicicletta, per dare il buon esempio. Berlusconi Paolo aspetta. Intanto persino la magistratura gli ha dato torto. Paolo aveva citato il comune di Monza per danni, chiedendo un risarcimento di trecento milioni di euro (per non aver potuto costruire un milione e mezzo di metri cubi previsti da un convenzione del 1962 dal comune con la vecchia proprietà). Niente. Cassazione e Corte d’appello gli hanno dato torto. Paolo Berlusconi deve aspettare. Ancora. Ma la Regione di Formigoni può fare il miracolo.

Joseph Conrad la metteva esattamente così:

The tranquil waterway leading to the uttermost ends of the earth flowed sombre under an overcast sky – seemed to lead into the heart of an immense darkness.

E anche se il Po non è il Congo, ed è piuttosto difficile considerare Monselice – la nostra meta, quasi 400 km a est – come un posto che sta “agli estremi confini della terra”, si può comunque provare a sperimentare una sensazione del genere, partendo la mattina presto da Sassi, sulla sponda collinare del fiume a Torino. La strada Padana Inferiore risale rapidamente una valle con poche case sparse (poche considerato che siamo ancora in comune di Torino), poi taglia sotto il colle di Pino in tunnel, e scende rapidamente verso la pianura attraversando l’abitato di Chieri. Siamo in territorio aperto, con la padania spalancata davanti agli occhi nei primi rettifili tra le fasce verdi di prati e alberature ... ma è un’impressione sbagliata. Doppiamente sbagliata.


Perché tra qui, periferia orientale di Chieri, fascia esterna della conurbazione torinese, e “gli estremi confini della terra” acquattati là in fondo a Monselice, la padania è tutto fuorché spalancata, aperta, ariosa, libera. E non solo perché si devono attraversare posti come Alessandria, Voghera, Cremona o Legnago (senza offesa per gli altri), ma soprattutto per via delle scatole precompresse sparpagliate, via via più fitte di anno in anno, tra Alessandria e Voghera, tra Cremona e Legnago, e poi tra Castel San Giovanni e Sarmato, o Casteldario e Nogara. Insomma, dappertutto, sempre più vicine l’una all’altra, a soddisfare l’imperativo dello “sviluppo” produttivo, commerciale, di servizi vari, di sicuro doverosamente e solennemente deliberato dai vari sindaci di Sarmato, Piadena, Sanguinetto, eccetera.

Del resto, che altro potrebbero fare i sindaci, se non promuovere lo “sviluppo” locale, magari concentrando (o disperdendo) capannoni e scatole commerciali-espositive proprio su quello stradone? Stradone ben allacciato a qualche non lontano casello autostradale, che sembra messo lì apposta, (quasi) sempre lontano da piazze, sagrati, cortili della scuola, giardinetti.


Il fatto è, che quella strada scorre nell’ancora virtuosamente tenebroso cuore della padania, per lunghissimi tratti parallela e vicinissima al grande fiume, e il pur legittimo punto di vista dei singoli sindaci smette di essere tale se si salda a quello di tutti gli altri, così come si sta saldando via via la striscia continua degli scatoloni, rotatorie, insegne luminose, piazzali asfaltati, da Torino a Monselice. Sempre più simile all’altro, più noto, nastro trasportatore della Padana Superiore, che nessuna persona sana di mente si sognerebbe mai di considerare qualcosa di diverso da una immensa città lineare, e dove non c’è bisogno di evocare corridoi continentali Lisbona-Kiev per descrivere quello che salta agli occhi.

Il fatto è, che appunto ne abbiamo già una di città lineare continua, anzi due, se mettiamo nel conto anche l’asse Emilia. Che ce ne facciamo di un’altra? Vogliamo gestire il territorio e l’ambiente con la regola aurea del “non c’è il due senza il tre”? Pare proprio di si, a giudicare dal ritmo col quale nastri e nastrini cementizi spuntano dappertutto, e dappertutto doverosamente allineati lungo la Padana Inferiore, a saldare un centro abitato all’altro, con interruzioni sempre più brevi di prati, qualche ciuffo di alberi, campi coltivati a mais o cartelloni pubblicitari.

Certo, oltre le decisioni puntuali dei singoli comuni ci sarebbe la pianificazione provinciale, e qui in effetti leggendo relazioni, mappe, norme tecniche, si nota una certa attenzione, dalla periferia di Chieri alle pendici dei Colli Euganei, a contenere le esuberanze della biscia cementizia al neon. Ma se si confrontano, questi piani provinciali, messi in fila uno dopo l’altro come i territori che interessano, pare proprio che si rischi di ripetere la vecchia storia dei ciechi attorno all’elefante: uno tocca una gamba e giura che quello è un albero, un altro sbatte contro il fianco e ribatte macché, è una muraglia, eccetera. Insomma quello che emerge leggendo questi documenti della pianificazione provinciale sono a volte anche ottime intuizioni (a volte molto meno), ma che anche quando fotografano efficacemente il fenomeno, poi annaspano o si contraddicono in fase di proposta.


Succede così che nello stesso documento si legga in un capitolo descritta tutta la gravità della “conurbazione continua” (nell’Oltrepo pavese, da Voghera a Stradella), e poi si trovino magnificate le sorti di un futuro grande interporto, giusto in una delle poche aree libere rimaste. Oppure che si sviluppi una magnifica “macchina” scientifica di monitoraggio e decisioni, a contenere consumi di suolo agricolo e sprawl urbano da irrazionalità localizzativa (nella grande pianura cremonese e mantovana), salvo poi introdurre la stessa infrastruttura autostradale parallela alla Padana, che altrove ha già generato, appunto, consumi di suolo e sprawl.

Il tutto per tacere dei documenti che, salvo lodevoli richiami alla doverosa tutela di ambiente e spazi liberi, poi in realtà sono impostati tutti in una logica di crescita delle attività logistiche, produttive, commerciali, puntualmente concentrate sempre lì, nell’ex cuore verde della padania a cavallo dell’ex Statale n. 10 (da Tortona a Piadena anche ex Postumia Romana, per inciso).

Ma non è certo questa breve nota, la sede ideale per sviluppare un tema complesso come quello accennato, e per questo rinvio ai materiali utilizzati alla Scuola Estiva di Eddyburg, in corso di pubblicazione.

Resta solo l’ottimistica speranza che decisori e pianificatori sviluppisti, oltre a consultare sociomani e tuttologi televisivi (la cui idea di territorio sembra concentrata sugli immensi spazi interni della propria mente), provino magari a guardarsi attorno, durante gli spostamenti da un qualificato consesso all’altro. Magari potrebbe anche tornargli in mente quella battuta di Woody Allen letta tanti anni fa in treno: When you’re dead, it’s hard to find the light switch.

In altre parole, in padania e altrove, mille luci dello sviluppo e cuore di tenebra non sono armate contrapposte che si scrutano con odio dal rispettivo crinale. Possono convivere, purché dosate e governate.

Ne abbiamo parlato molto. Speriamo di continuare a parlarne, magari con qualche effetto in più sull'agire quotidiano.

Nota: oltre ai miei materiali per la Scuola Estiva di Eddyburg già citati, qui sul sito con riferimento diretto ad alcuni temi della Padana Inferiore, ci sono un paragrafo sul Centro Commerciale Montebello (nel testo su Borgarello), e soprattutto quello sull’autostrada ACME ; di qualche utilità generale anche il testo pubblicato a suo tempo da "il manifesto", sulla Città Ideale della Padania (f.b.)

Un affare da oltre un miliardo e mezzo di euro, di cui duecentocinquantamila solo per la lottizzazione del terreno della Cascinazza di proprietà di Paolo Berlusconi, fratello dell’ex premier. Questa è la speculazione edilizia che rischia di abbattersi sulle ultime aree verdi di Monza, se passeranno le modifiche alla legge regionale urbanistica volute dall’assessore lombardo al Territorio, il leghista Davide Boni. È a rischio una delle parti più belle della Brianza.

Duro scontro ieri in consiglio regionale tra Unione e Casa delle Libertà sui 868 emendamenti del centrosinistra. Che denuncia: «È una marchetta per Berlusconi in cambio della legge sulle moschee». Replica dell’assessore del Carroccio: «È solo accanimento contro la sua famiglia. Gli emendamenti? Solo una perdita di tempo». Dopo un dibattito fiume, rinvio alla prossima settimana. Ma il sindaco di Monza Michele Faglia attacca il governatore Roberto Formigoni: «La Regione vuole favorire Paolo Berlusconi. È una legge vergognosa, la fermeremo».

In Regione scoppia il caso Monza

Un affare da oltre un miliardo e mezzo di euro. Non solo i duecentocinquantamila delle nuove case alla Cascinazza del progetto di Paolo Berlusconi, fratello dell’ex premier. Questa è la speculazione edilizia che rischia di abbattersi sulle ultime aree verdi di Monza, la terza città lombarda per abitanti. Questo spiega l’interesse di molti gruppi immobiliari, che, a un anno dalle elezioni amministrative e a tre da quelle per la nuova provincia, vogliono spartirsi la torta. Poco meno di un milione e ottocentomila metri cubi di aree agricole, a ridosso da uno dei parchi più famosi d’Europa. In appartamenti, fanno cinquecentomila metri quadrati da vendere ad un prezzo tra i 2300 e i 5000 euro al metro quadro. I terreni più appetiti sono a sud ovest, nel quartiere di S. Albino, in zona San Fruttuoso-Torneamento, in viale delle Industrie, alla Cascinazza dove il piano di lottizzazione è di ben 388mila metri cubi. Un progetto che diventerebbe molto più facile con le modifiche alla legge sul territorio proposte dall’assessore regionale all’Urbanistica leghista Davide Boni.

A Monza, il rapporto tra superficie già edificata e verde, escluso il parco, la dice lunga: 4.768.900 metri quadrati contro 2.899.000. Ma la densità degli abitanti per chilometro quadrato è ancora più esplicita: 4827 abitanti rispetto ai 388 della Lombardia e i 192 di tutta Italia. Il vecchio piano Piccinato del 1971 prevedeva trecentomila abitanti. Oggi Monza, invece, ne ha solo 122.000. La superficie edificata è già il 75 per cento del totale. Da qui l’allarme del Comune. La legge urbanistica regionale, approvata sul finire della scorsa legislatura, bloccò sul nascere il nuovo piano regolatore più restrittivo. È già pronto il nuovo piano del governo del territorio, ma ora le norme della Regione rischiano di riazzerare tutto.

Ieri, la discussione in consiglio regionale è iniziata con un muro contro muro tra Unione e Casa delle libertà. Dopo un dibattito fiume tutto è stato rinviato a martedì. Il centrosinistra ha presentato 868 emendamenti, ma il centrodestra insiste. «Ora c’è una settimana per tentare di trovare un’intesa» ribadisce il centrosinistra. Secca la replica dell’assessore Davide Boni: «Il solo problema è l’accanimento contro la famiglia Berlusconi. Quegli emendamenti sono solo una perdita di tempo».

(a.m.)

Il sindaco Faglia contro il governatore "Legge vergognosa, la fermeremo"

di Andrea Montanari

Michele Faglia, sindaco di Monza, lei ha scritto il suo grido d’allarme al governatore Formigoni: le ha risposto?

«No. Formigoni sta viaggiando alto proprio perché non si vuole abbassare al confronto. Si è limitato a dire che la Regione deve tener conto dell’interesse di tutti. Le cose, però non stanno così».

Cioè?

«Il compito di fare i piani spetta ai Comuni. Io rivendico a pieno titolo che la terza città della Lombardia possa e debba pianificare il suo territorio secondo la volontà pubblica e privata. La Regione, invece, vuole andare contro il principio della sussidiarietà e contro gli stessi principi che ha affermato nella sua legge urbanistica».

Come reagirete?

«Userò qualsiasi strumento per evitare che questa macchia politica di cui si sta sporcando Formigoni abbia una ricaduta sul territorio della mia città».

Perché pensa che la Regione voglia favorire Paolo Berlusconi?

«Perché ne sono convinto. Dietro a questo provvedimento c’è una volontà punitiva nei confronti nella nostra amministrazione, che ha più volte fatto presente che non si poteva fare un intervento così sfacciato e vergognoso».

Sì, ma cosa c’entra Berlusconi?

«Ci sono dietro anche degli interessi privatistici, che con queste modifiche verrebbero facilitati».

Quali interessi?

«Quelli dei proprietari delle aree che, diventando edificabili senza più i limiti delle salvaguardia, acquisterebbero un valore di mercato molto più elevato».

Alla Cascinazza cosa può accadere?

«Che i proprietari che hanno già presentano un piano di lottizzazione pretenderanno di costruire su 388mila metri cubi sessanta condomini in un’area che oltretutto ha un vincolo paesaggistico idro-geologico».

Ma non è prevista la costruzione di un nuovo canale scolmatore?

«Non lo faranno mai. È sbagliato anche il progetto. E poi costerebbe 170 milioni di euro. Lo vedete, poi, un canale scolmatore a cielo aperto dentro a uno dei parchi più famosi d’Europa?».

Cosa accadrà nelle altre aree?

«Saremo sommersi di richieste di edificare su aree finora protette. Monza non può sopportare la saturazione delle poche aree ancora libere. Io sono stato eletto per difendere questa priorità».

In verità, l’assessore Boni l’accusa di non dire nulla su altri suoi progetti contestati, dai parcheggi alla sede della nuova Provincia.

«Sono squallidissimi argomenti, che dimostrano come Boni non sia informato. Il 93 per cento dei permessi per costruire che sono stati rilasciati riguardano esclusivamente ristrutturazioni o riqualificazioni di aree dismesse. Questo è il nostro programma».

Si spieghi meglio.

«Anche gli interventi per le nuove funzioni pubbliche interesseranno solo aree dismesse. Non abbiamo occupato volutamente un metro di aree libere. Perché Monza è ormai a un livello di urbanizzazione quasi pari al 90 per cento».

Perché Monza non ha ancora un piano regolatore?

«Ci sono stati tanti sindaci prima di me. In ogni caso, ora il piano è pronto a tempi record e la Regione rischia di nuovo di riazzerare tutto».

Vedi anche Eddyburg su Carta

L’Assessore regionale alla pianificazione territoriale, mobilità e infrastrutture di trasporto della regione Friuli Venezia Giulia, Sonego (DS), al convegno del 24 febbraio scorso a Villa Manin di Passariano su “La nuova politica urbanistica della Regione”, ha sostenuto che il Friuli Venezia Giulia è una delle regioni più ordinate e non soffre del caos urbanistico che ha dilapidato il confinante Veneto. Per l’Assessore ciò è risultato del civismo delle amministrazioni locali e delle popolazioni e poiché la Regione è pervenuta alla decisione di ritirarsi dai controlli sui piani urbanistici comunali riconoscendo alle amministrazioni locali piena autonomia pianificatoria, questo dato garantisce da futuri scempi a danno del territorio regionale. Che il territorio della regione sia esente da caos urbanistico è un’affermazione comprensibile sul piano politico, ma appare un pò trionfalistica e a ben vedere non corrisponde del tutto al vero : anche questa regione non è esente dal degrado urbanistico, paesaggistico e ambientale e da inefficienze territoriali molto serie. Infatti se è corretto riconoscere storicamente al Piano Urbanistico Regionale Generale del 1978 una funzione importante, dato che ha delineato criteri per la pianificazione urbanistica locale e modalità di tutele del territorio più che un modello di sviluppo economico-territoriale, e ai conseguenti controlli sui piani regolatori generali comunali che la Regione ha saputo e voluto fare conferendo autorevolezza e credibilità al suo operato, è anche vero che non sempre quella stessa Regione è stata capace, sul piano prevalentemente politico, di garantire il territorio regionale secondo le sue stesse regole, correggendo storture della pianificazione comunale.

Ad onore del vero l’incipit espresso pubblicamente dall’Assessore Sonego nell’introdurre il suo intervento al convegno suona poco incoraggiante. L’Assessore, suscitando una certa meraviglia tra gli astanti, ha pubblicamente confessato di essere giunto a ritenere preferibile, seppure in ritardo, il privato al pubblico. Una simile confessione spostata nella sfera urbanistica, di questi tempi, suona una dichiarazione di campo allarmante per il territorio e per la garanzia dell’interesse pubblico e generale. Invero ancor meno tranquillizzante è parso il taglio politico che Jilly ha dato al suo intervento, tutto teso a condividere la posizione di Confindustria, la quale chiede sostanziale mano libera nella pianificazione degli insediamenti industriali, che dovrebbero essere direttamente ed unicamente pianificati dai consorzi industriali, al cui interno il peso degli industriali è rilevante, senza che i comuni ci mettano praticamente naso. Jilly ha poi auspicato una forte semplificazione delle procedure per accorciare i tempi della burocrazia, dato che non è possibile porre freni allo sviluppo del territorio e rispetto all’Assessore ha aggiunto, che la Regione deve definitivamente disinteressarsi dell’operato dei comuni in campo urbanistico, per volare alta, molto alta, da dove si vede molto poco del mondo reale che sta sotto. Jilly ha poi proseguito sostenendo che l’autocertificazione deve essere alla base di ogni rapporto tra il cittadino-imprese e la pubblica amministrazione nel settore edilizio-urbanistico. In capo a pochi anni tutto il processo deve essere velocizzato, le fibre ottiche serviranno anche a questo ha assicurato il Presidente. Jilly ha ricordato, infine, che vi sono nuovi strumenti del fare pianificazione e questi vanno usati, valorizzando il concorso dei privati e sostenendo la sussidiarietà orizzontale. Un po’ di folklore è stato portato dall’intervento di un architetto austriaco Dustin Tusnovics direttore della scuola di architettura Baugestaltung-Holz di Salisburgo (Trieste esige un po’ di valzer e di Mozartkugeln). L’oratore neo-esteta giurava ai vari periti-edili degli uffici tecnici comunali, che la qualità estetica dell’architettura fa bene all’occhio delle masse, ingentilisce i cuori, rende buoni gli spiriti e arricchisce la democrazia. L’oratore faceva venire in mente quella tale Antonietta, che un bel dì, assai scocciata, ordinò di dare delle brioches al popolo affamato che reclamava qualcosa di più sostanzioso. Di li a poco non ebbe una gran prospettiva quella signora, così almeno narra la storia. Guardare e non infastidire, quindi. L’indirizzo che traspare è dunque chiaro: odore di lupi.

Siccome la speranza è dura a morire c’è da augurarsi che l’esito del movimento che l’attuale maggioranza al potere in Friuli Venezia Giulia ha intrapreso, avviando incontri aperti al pubblico, purtroppo specialistico e su ristretto invito, approdi a risultati più decenti della recente legge regionale campana, tutta tesa a snellire procedure e ad accelerare i tempi perdendo di vista tutele e priorità, e soprattutto meno intrisi dell’impronta privatistica che pervade la prossima leggiaccia “Lupi” di sfascio del territorio. La Regione Friuli Venezia Giulia ha una cartuccia in più : deve assolutamente utilizzare tutta la sua potestà legislativa primaria in materia urbanistica che gli conferisce lo statuto d’autonomia, anziché appiattirsi su indirizzi politici i cui esiti non possono che essere deleteri, proprio per quel modello di territorio abbastanza ordinato cui lo stesso Assessore fa riferimento e vanto.

Ci sono dunque nella regione aree in cui il disordine e l’inefficienza urbanistici, ambientali e paesaggistici hanno assunto livelli preoccupanti che devono far pensare ed intraprendere conseguenti azioni, politiche e tecniche, per correggere se non bloccare modelli insediativi in atto, errori pianificatori, assenze e carenze degli attori istituzionali in gioco, se non si vuole arrivare nel breve periodo a situazioni di vero tracollo, analoghe a quelle tanto vituperate del confinante Veneto. Ma ci sono anche aspetti e problematicità inerenti tanto l’amministrare che il fare urbanistica, che richiedono assunzioni di responsabilità ai competenti livelli. I tratti salienti di alcune di queste aree e problematicità, si tracciano di seguito avendo presente che non assolvono l’intera gamma delle questioni aperte.

L’area pordenonese ha continuato a perseguire un modello insediativo diffuso, incapace di correggere i macroscopici errori e assenze di una corretta pianificazione urbanistica. Lo sprawl di capannoni artigianali, industriali, commerciali, plurifunzionali, industriali, ecc. ora ammassati in piccole zone artigianali incastrate tra corsi d’acqua di risorgiva o nodi viari, ora secondo il ritmo casa-capannone-strada, ha assunto risultati che sono sotto gli occhi di chi voglia osservare e capire. La qualità del paesaggio ha subito danni difficilmente recuperabili. La mobilità su gomma, sia di merci che di persone dovuta alla diffusione insediativa, si riflette in maniera pesante sulla funzionalità del sistema della viabilità, con costi economici e sociali pesanti. E’ noto che ci sono tratti fondamentali della rete viaria in quella zona, che hanno raggiunto un livello di assoluta disfunzione ed inefficienza. La SS13 Pontebbana, la principale arteria che unisce l’udinese al pordenonese e questo al Veneto, è il caso più eclatante. La continuità del sistema insediativo che si attesta e che continua con pervicacia a consolidarsi lungo quella strada statale, rende impossibile qualsiasi distinzione dei limiti tra un comune e l’altro, tra una provincia e l’altra, tra una regione e l’altra. Quale differenza ci sia tra questo modello e quello veneto è assai difficile da percepire con lo sguardo. Se nel Veneto si è inseguito l’interesse privato, qui ha prevalso quello pubblico nelle scelte della pianificazione urbanistica locale ?

L’area del distretto industriale della sedia a sud-est di Udine (dove si produce il 40% circa della produzione mondiale di sedie), che si diffonde prevalentemente nei territori dei comuni di Butrio, Manzano, San Giovanni al Natisone, Corno di Rosazzo e Pavia di Udine (area che peraltro costituisce la porta obbligata di accesso al Collio, territorio cosiddetto di eccellenza per lo sviluppo del turismo eno-gastronomico in virtù della produzione vinicola di altissima qualità), ha assunto un carattere insediativo diffuso, destrutturato, privo di qualità, non molto dissimile da quello pordenonese. In questo caso il paesaggio extra-urbano ha pagato un tributo severo ai seggiolai, mentre l’esile cordone ombelicale della strada statale che collega l’area udinese e del capoluogo del Friuli al capoluogo isontino ed al monfalconese, è prossimo al tracollo per gli elevati flussi di traffico di merci e persone.

Non è esagerato affermare che in queste due macro-aree territoriali la dispersione insediativa di capannoni, diventati un tutt’uno con il paesaggio, abbia fortemente impoverito e compromesso la qualità del paesaggio agrario, ma anche dei sistemi insediativi urbano e rurale. In più circostanze i capannoni sono stati costruiti a ridosso o in prossimità di ville o di edifici che costituiscono il patrimonio culturale storico e architettonico, magari anche minore ma pur tuttavia testimonianza della storia della comunità. Per non parlare dei rilevanti effetti che questi modelli insediativi hanno prodotto pure sulla rete viaria intermedia e locale.

L’enorme diffusione dei centri commerciali è uno dei più rilevanti problemi urbanistici che negli anni più recenti si è posto al centro dell’attenzione generale. Il consumo di suolo derivato dagli insediamenti commerciali, sviluppatisi senza un quadro pianificatorio di coordinamento capace perlomeno di indirizzarne, se non di limitarne, l’attuazione, ha prodotto inefficienze territoriali, diseconomie di scala, messa in crisi di segmenti fondamentali della rete viaria di rilevanza strategica per la logistica di ampi territori centrali regionali (la legislazione regionale sul commercio ha richiesto che gli insediamenti commerciali si collocassero lungo gli assi viari principali), dando luogo a pesanti effetti che hanno coinvolto anche le reti viarie locali. Il richiamo determinato dalla concentrazione di questi vasti poli monofunzionali, ha incrementato i già intensi flussi di traffico su gomma, riducendo la velocità commerciale, con conseguente concentrazione di inquinamenti anche in spazi non urbani. Pesanti sono gli effetti che i poli commerciali hanno prodotto sui -sistemi economico-sociali locali, soprattutto, ma non solo, a svantaggio del sistema distributivo e della vivacità delle aree centrali dei nuclei urbani e delle città intorno alle quali tali meteore si sono sviluppate. Il caso più emblematico è rappresentato dalla meteora commerciale che si snoda tra Udine e Cassacco lungo la strada statale 13 Pontebbana (strada che è destinata a soccombere), chiamata dai commercianti anche Strada Nuova quasi a contrapporsi con le strade antiche dei centri storici. Questo lungo agglomerato insediativo ha assunto una dimensione spaziale considerevole, risulta tra le maggiori concentrazioni commerciali non solo italiane, ed ha raggiunto un livello di saturazione dello spazio inedificato ancora disponibile prossimo al completamento. Ciò nonostante proprio tra Udine e Tricesimo vi sono programmi insediaitivi di centri e complessi commerciali per ulteriori 60/70.000 mq di superfici di vendita che quanto prima si tradurranno in ulteriore stress urbanistico. La statale 13, lasciata priva di efficaci difese, è stata prima declassata a provinciale e ora è in corso il suo ulteriore declassamento a strada locale all’interno della meteora commerciale. La fase successiva sarà il declassamento a passeggiata ciclo-pedonale ? Da ciò l’esigenza di trovare nel territorio spazi dove far passare proprio quel tratto di viabilità che è venuta a mancare tra la città di Udine e la parte settentrionale del Friuli, altrimenti collegati solo attraverso l’A23 Palmanova-Tarvisio. Solo enormi investimenti pubblici, purché fortemente guidati da un livello superiore in grado di farsi valere, a salvaguardia di una visione davvero alta a favore del pubblico interesse per l’intera comunità, possono, forse, tentare di risollevare le sorti collassate del sistema viario. Cosa che tuttavia non si può dire che sia accaduta e le prospettive economiche perché ciò accada paiono assai remote, perlomeno non pare siano nell’agenda della politica in questi tempi di vacche magre.

Questo modo di concepire la pianificazione comunale alla prova dei fatti è risultato incapace di andare oltre una visione ristretta al solo orizzonte del confine amministrativo comunale, in quanto mirata esclusivamente ad ottenere vantaggi monetari immediati, tutto e subito, determinati dai maggiori introiti della “bucalossi” che le vaste superfici commerciali garantiscono ai bilanci comunali, ma ha prodotto l’abbandono dello scopo politico della pianificazione pubblica, cioè la guida e la gestione delle trasformazioni e delle tutele territoriali nell’interesse pubblico e generale. E’ questo, però, l’esito grave dell’incapacità e/o non volontà della Regione di correggere, nell’interesse pubblico e generale, attraverso le diverse politiche settoriali che hanno effetti sulle strutture e sui sistemi territoriali (in questo caso le politiche commerciali e della mobilità-viabilità), le deviazioni della spinta privatistica volta a massimizzare nell’immediato la rendita di posizione nello spazio territoriale, a fronte della cecità ma anche della debolezza delle amministrazioni locali a reggere l’urto dei capitali delle catene della grande distribuzione commerciale. E’ proprio in queste circostanze che è venuto meno il ruolo alto, strategico come si ama sostenere, della Regione, la quale ha rinunciato a svolgere la propria funzione di coordinamento e di indirizzo pianificatorio territoriale, fino al pressoché pieno disconoscimento del proprio strumento di pianificazione settoriale, cioè il Piano regionale della viabilità per quell’ambito territoriale. Si è scontata in questo frangente l’aggravante da parte della Regione per ciò che attiene alle politiche viabilistiche e cioè l’inazione, determinata dal non aver voluto modificare-adeguare gli strumenti di propria competenza ritenibili, forse non del tutto a torto, inadeguati alle mutate condizioni. In questa circostanza la Regione ha fatto una ritirata, più che strategica poco onorevole, delegando al salvifico e demiurgico mercato la tutela del pubblico interesse, costituito dal capitale fisso della rete viaria, costato soldi all’intera collettività attraverso la tassazione diretta e no.

Checché ne dica la classe politica regionale al potere, la quale all’atto del suo insediamento garantì il blocco totale dell’espansione dei centri commerciali, è alle porte una valanga di mega centri commerciali superiori a 10.00 mq di superficie di vendita e di parchi-cittadelle commerciali-outlet alla Serravalle Scrivia. Tutte le big della grande distribuzione sono presenti, dalla rossa Coop, al Gruppo Bernardi, dalla svedese Ikea, alla Sorelle Ramonda. A Villesse, appiccicato all’autostrada Venezia-Trieste e a ridosso dell’innesto con la strada Villesse-Gorizia, si realizzerà un insediamento commerciale su un’area di mezzo milione di metri quadrati. Gli euro sloveni fanno gola e a ridosso del confine con quel paese a Trieste e a Muggia, dove la viabilità farebbe schifo anche agli albanesi, si stanno caricando gli obici dell’artiglieria commerciale pesante. La vendita di mutande con il filo interdentale, di telefonini che parlano da soli e di pizze al taglio mastica e sputa da consumarsi su uno sgabello di frassino curvato, risolleverà e modernizzerà le sorti dell’economia regionale, essendo la produzione industriale ormai attività di nicchia da veri amatori, vista la delocalizzazione imperante.

Resta che gli enormi “scatoloni” commerciali, la fine dello sviluppo dei quali non si vede ancora, posto che lo sviluppo non è illimitato come qualcuno sostenne negli anni sessanta, lungi dal venire demoliti o riconvertiti allorquando la festa finirà, resteranno, bene che vada, da monito per le future generazioni di come non fare “pianificazione” comunale. Emblematica Stalingrado dell’urbanistica, sicuramente contrattata e non imposta dall’alto, rappresentativa vicenda, peraltro, di come l’impresa sia ben lungi dal non essere al centro delle attenzioni e cure della Regione e dei comuni nelle politiche di localizzazione urbanistica.

Ci sono in regione, poi, aree in cui la diffusione insediativa residenziale, ad alto consumo di suolo e a bassa intensità edilizia, è andata oltre ogni più ragionevole e sostenibile logica di pianificazione. Anziché rispondere con scrupolo e nella sostanza a dimostrati fabbisogni residenziali, privilegiando politiche rivolte al recupero del patrimonio urbanistico-edilizio esistente anziché rivolgersi esclusivamente all’espansione, avendo responsabilmente a cuore l’uso accorto della risorsa in assoluto meno riproducibile, il suolo appunto, si è preferito rincorrere spasmodicamente il voto del cittadino-elettore. Gli esempi in regione non mancano e sono indifferenti alla geopolitica. Gemona del Friuli è il caso forse più emblematico dell’anarchia urbanistica e del mal governo del territorio, ancorché tutto si sia svolto in assoluta conseguenza del piano regolatore. L’addizione erculea di Ercole d’Este a Ferrara deve essere il punto culturale di riferimento ma dal solo profilo quantitativo. ( E’ un dato oggettivo: all’avvicinarsi delle elezioni si assiste ad un crescendo esponenziale di adozioni di varianti di ogni genere ai piani regolatori, ma tendenzialmente caratterizzate da una solerte disponibilità ad accogliere istanze della gente. Si tratta di varianti “gestionali” tese a “migliorare” il piano. Insomma le urne fanno il piano partecipato. La fase post elettorale, in genere, ma magari in tono minore, risente ancora dei benefici effetti delle urne e così permane l’apertura delle amministrazioni locali a soddisfare le istanze rimaste inevase. L’Agenda 21 è già pratica corrente. Sviluppo e fare soldi sono l’imperativo categorico che, indistintamente, pervade tutti. Non si è mai sentito un politico affermare che il suo obiettivo è la frustrazione delle aspettative della gente, non certo di quelli che potenzialmente gli assicurano la carriera attraverso il voto. La coscienza del territorio è estranea a tutto ciò.)

Il Friuli Venezia Giulia è una regione in cui la popolazione non cresce come ci sarebbe bisogno. La compagine demografica invecchia, si rinnova poco e lentamente. Quei pochi e piccoli numeri di segno positivo sono dati da saldi sociali, che però non sono bilanciati da saldi naturali perlomeno di pari peso. Basterebbe comparare i PRG della stragrande maggioranza dei comuni della seconda metà degli anni ottanta e confrontarli con quelli scaturiti dalla legge urbanistica del 1991, per rendersi conto che in pochi lustri, a fronte di una stasi-riduzione degli abitanti, gli insediamenti, le urbanizzazioni aggiuntive, le nuove espansioni edilizie, si sono ampliate in maniera assai consistente, erodendo ulteriori quote di spazio rurale e producendo un vero spreco di risorse e di suolo. Gli esiti della qualità urbanistico-insediativa sono deboli, culturalmente sempre più avulsi dai contesti storici e tradizionali degli insediamenti. Il paesaggio urbano è stato impoverito e le campagne inquinate dalle urbanizzazioni. E le prospettive di crescita demografica di questa regione non paiono particolarmente brillanti. Poi bisognerebbe incominciare a studiare con cura le serie della produzione edilizia da dopo l’apice della ricostruzione post sisma. Si scoprirebbero sicuramente cose interessanti. Altro che stasi del settore, altro che vincoli, impedimenti e burocrazie.

L’esito dell’assenza della Regione nello svolgere il ruolo alto di indirizzo e coordinamento, si verifica dalla debole e spesso contraddittoria mancanza di dialogo tra gli strumenti generali dei comuni costituenti aree urbane intercomunali vaste. Le conurbazioni dei capoluoghi provinciali e altre aree di rilevanza territoriale, esprimono un formidabile bisogno di coordinamento, che al momento però non ha avuto risposta soddisfacente. Anche in questo caso gli esiti territoriali sono spesso al limite della tenuta. Il dimensionamento e l’offerta di aree edificabili in queste realtà, ad esempio, hanno necessita di una visione unitaria e coordinata, dato il forte grado di interrelazione che esiste all’interno di queste aree territoriali. Il Greater London Council del suo periodo migliore dovrebbe essere assunto a paradigma di democratica efficienza negli atti di pianificazione territoriale di area vasta.

Negli anni più recenti si è assistito ad una consistente conversione d’uso di strutture edilizie nei territori agricoli della regione verso funzioni abitative estranee alle attività agricole. A questo fenomeno, però, non corrisponde una diminuita intensità dell’espansione delle nuove aree insediative residenziali negli ambiti urbani. Il recupero e la riconversione dei volumi edilizi non più funzionali alle attività agricole, dovrebbe essere molto attentamente considerato e valutato, sia in termini di potenziali maggiori costi dei servizi a rete, delle accessibilità, ecc., che in rapporto alla capacità del territorio rurale ed extra-urbano di sostenere la diffusione dell’urbanizzazione, trattandosi di riconversioni non correlate alla conduzione del territorio agricolo e ben avendo presente che lo spazio extra-urbano e rurale soprattutto, è l’unico spazio territoriale – oltre a quello sottoposto a speciali tutele naturali e ambientali – ancora non del tutto riempito e più indifeso. Il terriotorio agricolo richiede grande attenzione e cura per la sua conservazione perché la trama del paesaggio è prevalente rispetto ai segni dell’urbanizzazione. Peraltro in altre realtà regionali il fenomeno della riconversione ad usi abitativi non primari o anche ricettivi di edifici rurali dimessi, è stato oggetto di specifiche disposizioni legislative, conducenti alla costruzione di un dettagliato quadro conoscitivo nei piani regolatori. In Friuli Venezia Giulia il legislatore non si è preoccupato adeguatamente di guidare e orientare questo fenomeno, richiedendo ai comuni indagini dettagliate finalizzate a costruire un catalogo del patrimonio rurale dismesso ed emanando specifici indirizzi tecnici finalizzati a salvaguardare le strutture edilizie rurali tradizionali. E non c’è dubbio che alle peculiarità culturali, linguistiche ed ambientali che arricchiscono il territorio della regione, stanno modalità costruttive e insediative altrettanto varie: dall’architettura carsolina e istro-dalmata, a quella carnica; dalle isole linguistiche tedesche prealpine, ai casoni della laguna; dagli edifici in sasso nelle campagne e delle colline moreniche, alle pietre arenarie del Collio; dal cotto della bassa pordenonese, alla pietra calcarea della pedemontana pordenonese. Questo patrimonio culturale e paesaggistico deve essere salvaguardato, definendo modalità accurate di conservazione, estendendole a tutti gli aspetti, anche minuti, del segno materiale che la comunità ha lasciato sul territorio.

Ci sono poi alcuni aspetti di diversa natura, ma strettamente connessi con le questioni che si sono trattate, che hanno concorso al calo della qualità delle azioni di governo del territorio e della città in questa regione, perlomeno negli ultimi tre lustri. Gli effetti della fine della cosiddetta Prima Repubblica hanno creato un vuoto pesante nella classe politica, regionale e locale. Le mutate condizioni delle regole elettorali, l’elezione diretta del sindaco, il conseguente diminuito peso dell’azione collegiale nelle scelte politiche locali e la drastica riduzione di incidenza dell’azione dei consigli comunali, hanno fortemente ridotto le politiche urbanistiche locali a scelte sempre più costruite intorno ai tavoli di ristoranti piuttosto che nelle aule istituzionalmente deputate a ciò. La repentina messa al bando dei partiti di massa, ha allontanato sempre di più la politica dalla società civile, avvicinandola fin quasi a mescolarla in maniera pressoché indistinta agli interessi forti, alle lobbies, alle categorie professionali, alle corporazioni, al capitale finanziario. A volte si ha la sensazione che Orwell ci abbia davvero azzeccato. La politica, fare il politico, è diventato un affare e non più un atto di partecipazione alla costruzione della società nel nome di ideali di equità e giustizia sociale. Il successo individuale nella carriera politica mette al sicuro il proprio futuro in termini economici. Il partito è lo strumento attraverso il quale si raggiunge lo scopo del singolo. Spesso in Friuli Venezia Giulia si fa riferimento all’epica epopea della ricostruzione dopo i terremoti del 1976/77, quando i sindaci ed i comuni furono investiti di una considerevole autonomia decisionale e gestionale (in urbanistica solo per i piani particolareggiati di ricostruzione e per alcune limitate varianti allo strumento generale invero). Senza entrare nel merito degli esiti della ricostruzione fisica dei centri distrutti, sicuramente di gran lunga più efficace e rapida che altrove in Italia, c’è da dire che tale forte autonomia, discendenti dalla necessità di dare risposte concrete e quanto più rapide possibile alle comunità locali che un evento catastrofico quale il terremoto richiede, si reggeva anche su una classe politica di amministratori, regionali e locali, di tutt’altra pasta e levatura. Non foss’altro per l’elevato senso di responsabilità, di rispetto delle istituzioni e della cosa pubblica e per una buona dose di senso etico della politica che contraddistinse quasi per intero gli uomini di quella stagione politica. Quella classe di governo, regionale e locale, non esiste più e non ha trovato un gruppo dirigente di pari valore. Questo non è dato di poco conto e fa la differenza. E’ questa una delle chiavi di volta per cui oggi la devoluzione di competenze ai comuni in campo urbanistico, rischia di produrre effetti non necessariamente civili, come auspica l’Assessore, se non c’è a monte una politica regionale di grande respiro sociale ed etico in grado di far volare alto cui corrisponde un piano territoriale molto forte, incisivo, corredato di documenti tecnici di indirizzo ricchi sul piano tecnico-disciplinare, di strumenti capaci di monitorare gli effetti sul territorio in tempo reale, in modo da poter rapidamente apportare gli adeguamenti necessari a correggere la rotta se e quando è strettamente indispensabile.

C’è un dato ulteriore che non emerge nella relazione dell’assessore e che invece ha un peso ed è giusto che sia preso in considerazione. Si legge e si assiste un po’ in tutti i campi professionali ad un generale calo del livello della qualità prestazionale. Nella sanità, come nelle professioni manuali e intellettuali in genere. Il calo di competitività e di civiltà di una nazione passa anche attraverso questi aspetti, cioè dal livello di cultura e di conoscenza. Da più parti si osserva criticamente l’incapacità dell’università nel preparare professionisti culturalmente capaci, eticamente e deontologicamente motivati. Se questo è vero, non si capisce per quale ragione le professioni di architetto, di urbanista e di ingegnere dovrebbero uscire indenni. Il fare urbanistica sta pagando il tributo al lassismo e al mercantilismo diffuso. C’è un calo diffuso, non di rado grave, della professionalità nella redazione dei piani urbanistici. La superficialità, l’inadeguata conoscenza delle regole, l’accondiscendenza acritica e passiva alle richieste del committente, garantiscono esiti disiciplinarmente discutibili, anticamera di sfasci annunciati. Peraltro gli esiti che scaturiscono queste deficienze, hanno un ché di curioso. In diverse circostanze la qualità dei piani approvati dagli stessi comuni (la Regione non approva più i piani regolatori e loro varianti dal 1991, al più si limita a correggere le sole difformità negli stretti limiti che l’ordinamento le riconosce) crea all’atto pratico difficoltà gestionali da parte delle stesse amministrazioni locali, che sempre più spesso se ne lamentano, anche se però queste lamentazioni sono sussurrate a denti stretti tra un sorso di caffè e l’altro. Il confronto dei piani urbanistici elaborati e approvati in questa regione con quelli di altre realtà regionali, anche vicine, è poco incoraggiante. Ciò dovrebbe suggerire che si attivi una considerazione attenta da parte degli ordini professionali. Le stesse strutture tecniche comunali costituiscono in parecchi casi un anello debole, a prescindere dalla generosità che esprimono nello svolgere i propri compiti istituzionali. Il livello di scolarizzazione e di specializzazione (quasi sempre diploma di scuola media superiore) non è sempre adeguato e sufficiente a far fronte alla complessità dei temi che richiede la disciplina urbanistica e il governo del territorio, non più circoscrivibile alla verifica del rispetto della distanza dai confini di proprietà e alla mera conformità urbanistica. Le stesse piante organiche comunali sono inadeguate ad affrontare le attuali competenze richieste. L’unificazione delle forze potrebbe, perlomeno in parte, migliorare le cose, ma l’esito dei consorzi intercomunali ha dato risultati assolutamente sconfortanti.

In questo mutato quadro generale, il piano regolatore ha perso, nei fatti concreti, la funzione esclusiva di documento fondamentale e organico della pianificazione locale, per assumere quello sempre più frequente di mero catasto sul quale registrare le scelte prese fuori dalle aule consiliari comunali.

Rispetto a tutto ciò, lascia perplessi e preoccupa perfino, l’asserzione dell’Assessore Sonego per cui la Regione Friuli Venezia Giulia intende d’ora in poi mettere il cittadino e le imprese al centro del proprio operato in politica urbanistica. La domanda sorge spontanea avendo a mente i fatti e le questioni rilevate. Fin’ora i piani regolatori comunali sono stati fatti dai comuni contro i cittadini e contro le imprese ? E la Regione ha forse “vessato” cittadini e imprese ? Se fosse così ci sarebbe la rivolta dei ciompi. Nel documento l’Assessore denuncia che la Regione è scivolata sempre più verso un profilo caratterizzato da un’invadenza tentacolare negli aspetti procedimentali più minuti. Credo che si sbagli a ritenere invadenza il richiamo al rispetto degli obblighi di legge e quindi al rispetto della legittimità che la stessa legge urbanistica regionale pretende. D’altrocanto la frequenza dei richiami dimostra che c’è una diffusa persistenza a non rispettare la legge, urbanistica e no. E’ di questi giorni l’informazione che il contenzioso amministrativo in questa regione è tra i maggiori d’Italia con il Piemonte. Qualche cosa dovrà pur significare questo dato. Deve essere assolutamente nitido che la legittimità e il rispetto della legge non vanno ridotti a fatti meramente burocratici o ad inutili orpelli perditempo, in quanto costituiscono fondamentale garanzia degli interessi generali. Il recentissimo conflitto aperto dal Presidente del Consiglio nei riguardi del Presidente della Repubblica costituisce un esempio oltremodo emblematico che dovrebbe fare alzare le orecchie.

Lasciano poi perplessi alcuni passi del discorso dell’Assessore.

Cosa vuol dire diventare più ricchi. Chi, quanto e in che misura e come si deve arricchire; a svantaggio di chi e di cosa. Questo non è scritto e invece andrebbe chiarito e precisato. Di certo non si è mai sentito un politico asserire pubblicamente che il suo programma è finalizzato a mettere in ginocchio la comunità, o a fare tabula rasa del territorio, del paesaggio e dell’ambiente. Però c’è modo e modo per dire e per non dire.

Cosa si intende essere più civili. Il fatto che il Friuli Venezia Giulia sia, forse, meno arretrato in alcuni settori rispetto ad altre realtà regionali, non può giustificare l’inazione e i ritardi. L’applicazione delle direttive europee in materia ambientale (Siti di interesse comunitario e Zone di protezione speciale) in questa regione non è da prendere da esempio di civiltà. Tutto è stato fatto in piena assenza di atti legislativi e regolamentari regionali, si è proceduto solo mediante l’emanazione di, confuse e contraddittorie deliberazioni della giunta regionale. Idem per quanto riguarda l’assoluta inadempienza verso disposizioni normative nazionali che discendono da direttive europee di effettiva civiltà, in quanto volte a tutelare la salute e la sicurezza degli individui, lo sviluppo compatibile della città e dell’ambiente, in cui la comunità stessa vive. E ‘ il caso della delicatissima materia degli insediamenti industriali a rischio di incidenti rilevanti. In regione ci sono diversi insediamenti a rischio e il trattamento delle previsioni urbanistiche negli strumenti di pianificazione comunale resta privo di riferimenti di metodo volti a ridurre i rischi per gli altri insediamenti prossimi, esistenti e no. Sono solo due tra i diversi possibili di carenza di civiltà.

A ciascuno secondo le proprie esigenze, suona un pochino come l’accondiscendere a tutto e a tutti. Si dovrebbe essere più cauti e responsabili ad affermare questi principi, forse un po’ demagogici. Si dovrebbe ribaltare l’approccio, ponendo l’attenzione sulla sostenibilità delle risorse, piuttosto che spostare l’asse di interesse su consumi e merci.

Preoccupazione, poi, sorte la sollecitazione a cavalcare lo sviluppo del territorio che emergerebbe nell’affermazione dell’Assessore secondo cui, una volta definiti i campi di operatività delle funzioni regionali, il comune dovrà decidere come “riempire i vuoti che ci sono negli interstizi dell’ossatura”. Il termini riempire non prelude a rassicuranti garanzie, al contrario potrebbe suonare come un incitamento a darsi da fare: “Che la festa cominci !”. Forse andrebbe considerata seriamente la modalità di identificazione del limite quantitativo e fisico del riempimento.

Una visione civile di governo del territorio, onesto e ossequioso delle regole di legge della democrazia costituzionale, responsabile nei confronti della comunità locale, in rapporto corretto e leale con la comunità regionale e nazionale, mosso da una visione rivolta all’uso parsimonioso delle risorse, primo fra tutti il suolo, dovrebbe far fare agli amministratori conti sulla sostenibilità ambientale ed economica delle scelte urbanistiche. E chi sbaglia quei conti dovrebbe pagare, anziché scaricare facilmente sulle future generazioni, ma anche sugli attuali abitanti, gli effetti della sua elezione e della facile carriera politica individuale.

Si contano su poche dita le amministrazioni che si preoccupano di svolgere preventive verifiche di sostenibilità delle scelte urbanistiche: capacità del territorio di sostenere ulteriori sviluppi insediativi in rapporto alle risorse disponibili (energetiche e naturali), all’incidenza sui costi di estensione, manutenzione e gestione di reti, di viabilità, di erogazione di servizi, ecc. Ancora di più rare quelle che curano, promuovono e coinvolgono le comunità locali ad avere nei confronti del territorio e dell’ambiente, in quanto risorse della comunità, un rapporto responsabile e cosciente che non sia quello del solo sfruttamento immediato. La ragione è evidente e sta tutta nel meccanismo elettorale: il famigerato quinquennio entro il quale il piano del principe, come qualcuno con lucida ma sciocca esemplificazione lo ha definito, deve dare risultati concreti. Il piano dei prendi i soldi e scappa, insomma. Ma la conoscenza necessaria e approfondita dei fenomeni, la capacità di intravedere e comprendere gli effetti delle possibili opzioni di piano sui sistemi coinvolti, richiede tempo, danaro, testa e cuore. Ogni scelta affrettata, non ponderata con responsabilità e coscienza, produce effetti difficilmente recuperabili, se non a costi monetari enormi, che solo la fiscalità generale può assicurare, in condizioni economiche di crescita, magari dirottando risorse da altri investimenti socialmente indispensabili. Tutto questo deve essere ben presente e posto alla base di ogni scelta di politica urbanistica che la Regione intenda assumere.

C’è da chiedersi sino a che punto il sindaco o la maggioranza di governo di una città, possano fare ciò che credono del territorio, posto che questo non è un feudo, né è di proprietà esclusiva di una singola comunità, ma è parte integrante di una comunità regionale e nazionale. C’è da chiedersi se in nome dell’autonomia e dell’assenza dei controlli, tutto sia sempre e comunque ammesso. Se insomma non esiste più un etica dell’amministrare la cosa pubblica e l’urbanistica.

Concludendo ma non avendo senz’altro esaurito le questioni, non è proprio del tutto vero che l’amministrare l’urbanistica e il territorio in questa regione ha dato frutti eccellenti. Se qui si è stati meno bravi del Veneto nel fare danni ciò non deve far dimenticare che i problemi, grossi e gravi, ci sono. E’ ora che la Regione li affronti per davvero facendo con responsabilità, coscienza e scienza ciò che le compete.

Nota: qui allegato e scaricabile, il PDF della relazione presentata dall'assessore regionale al territorio del Friuli Venezia Giulia, Lodovico Sonego (Villa Manin, Passariano, 24 febbraio 2005), a cui si riferisce tra l'altro il testo (f.b.)

L´auto sbuca dalla nebbia, rallenta, monta sulla passerella a passo d´uomo, percuote le vecchie assi come uno xilofono, al ritmo sincopato lento della pianura. È il rumore dei francesi sulla Beresina, dei carriaggi di Armando Diaz verso il Piave, dei tedeschi in fuga nel ‘45. Le giunture coperte di "galabrösa" - la brina dei padani - cigolano al passaggio, il pianale tuona sui barconi inchiavardati con pulegge. Sotto, il mormorio dell´acqua alpina in viaggio verso il Po, che sbuca lì dietro l´angolo. «Giù le mani dal ponte» ti dicono i passanti intabarrati, e fanno il segno di vittoria con le dita, come se Torre d´Oglio fosse Mostar. Non difendono un manufatto, ma l´anima della pianura.

La Padania è in guerra per l´ultimo ponte. Non vuole che gli cambino i connotati, come la Provincia di Mantova è decisa a fare in febbraio. La protesta è arrivata in Parlamento, con firme, interrogazioni, presidi sul territorio. Questo, ti dicono, non è solo un «ponte di barche». È di più: un ponte che naviga. L´unico in Europa. Risale o scende la corrente, si sposta come un traghetto con a bordo due passerelle - simili ad ali di pipistrello - da agganciare a quattro approdi diversi, su livelli stradali differenti. Ha anche il suo ponte di comando: la baracca degli addetti, con letti e cucinino. A bordo vietato dormire, il fiume può alzarsi anche di due metri in meno di ventiquattr´ore.

Sta effigiato in tutte le guide turistiche, il Touring lo mette in copertina, ma fa niente. Al suo posto vogliono metterci «un ambaradan». Una struttura galleggiante fissa, con ai margini due pedane spaziali governate da terra, in grigliata di metallo, e un bel po´ di cemento sulle rive, buono per farci passare i Tir. Portata decupla, forse più; e cancellazione della strada articolata su quattro livelli. Insomma, la fine di un pezzo di storia italiana. Il ponte, del ‘26, è uno degli ultimi del mondo di ieri; fatto prima che il calcestruzzo generasse le «ardite campate» d´epoca totalitaria, e le bombe del ‘45 completassero l´opera affondando le strutture galleggianti sopravvissute nel Grande Nord.

Mica per niente Bertolucci ci ha girato Novecento. Intorno, un labirinto di chiuse, golene, sbarramenti, sifoni, chiaviche, stazioni di sollevamento. E poi argini, fontanazzi, confluenze, idrovore, canali di scolo e canali di bonifica che si incrociano, si sovrappassano in una trama indecifrabile, con l´Oglio che scorre più alto rispetto alla pianura e la può inondare in ogni momento. E il Po, che nei millenni s´è cercato la strada in cento modi diversi, lasciando tracce impressionanti di alvei in secca, e oggi, ancora qui, compie la sua virata più spettacolare. Dopo Pomponesco, il Dio Serpente si gira verso le sorgenti, risucchiato dall´Oglio che subito lo rigurgita in direzione del Delta, in un´altra pazzesca curva da autodromo.

Altro che i canali di Francia. Questa è una Mesopotamia, con segni secolari di regimazione delle acque, ben precedenti alla bonifica fascista (la chiamarono «riscatto delle terre»), con cascine del Cinquecento, luoghi come Sabbioneta - capolavoro italiano del Rinascimento - costruita su un terrapieno che, in mezzo a fiumi pensili, la fa diventare isola nel gioco impercettibile delle isoipse di questo mare di mezzo pronto a riformarsi a ogni piena. Un labirinto di meraviglie: con in mezzo lui, il ponte di Torre d´Oglio, simbolo e baricentro di un mondo in bilico fra Reggio, Mantova, Parma e Cremona, cuore nobile della pianura.

«Protesta lumbard». Alla Provincia di centrosinistra liquidano così la rivolta, e accampano «spese di gestione insostenibili». Poi vai a vedere chi attraversa il ponte, e non trovi leghisti. Stupefatti tedeschi in bicicletta che passano in muto raccoglimento. Contadini della Bassa con i trattori, mamme mantovane che portano i figli all´asilo, cavallerizzi pavesi che vengono qui solo per sentir gli zoccoli calpestare le assi di legno, o i giunti pigolare sulla corrente verdegrigia. Fai il conto dei passaggi - mille in sei ore in un´orrenda giornata di pioggia - e t´accorgi che, col pedaggio di un euro a testa ai non residenti, il ponte si autofinanzierebbe alla grande.

Ma alla Provincia non mollano. Per convincerti che non sarà una tragedia, ti mostrano un bel modello: la passerella di Arles, quella a bilancieri dipinta da Van Gogh. Così, come se la Padania fosse la Provenza, come se la corrente del fiume camuno fosse quella, sonnolenta e navigabile, delle chiatte del Midi. Intanto il ponte agonizza per assenza di personale. I pontieri vecchi se ne sono andati, stufi di combattere; quelli giovani non riescono a coprire i turni, non hanno più qualcuno che insegni loro il mestiere. Spesso il pontiere è solo, non ce la fa a navigare verso l´approdo giusto quando l´acqua sale, e così il glorioso manufatto si logora. E il problema si risolve all´italiana, senza bisogno di permessi della Soprintendenza.


Il ponte di barche vicino alla foce dell'Oglio (foto di F. Bottini) - mappa scaricabile della zona
Ponte di barche sull'Oglio

A Viadana, poco a monte, di fronte a Brescello e al campanile di Don Camillo, il Po scroscia sotto le stelle d´inverno. Sull´argine fa un freddo becco, «da lazaron» dicono qui. All´osteria Bortolino si batte carte tra tortellini di zucca, trippa con fagioli, bottiglie di Barbera. Cibo tosto, in bilico fra Lombardia ed Emilia. «Quando vuoi far conoscere la pianura ai forestieri, li porti a vedere quel ponte. Lì c´è già tutto. Ma vallo a spiegare ai politici», brontola Paolo Bergamaschi, 55 anni, consigliere per gli affari esteri dei verdi al Parlamento europeo. Sa che, se fosse in Francia o Germania, la gloriosa passerella navigante sarebbe una vedette. La circonderebbero di cartelli, la collegherebbero a un museo e a un percorso turistico. «Non ci vuole niente far rendere questo posto, e trovare contributi europei».

Al mattino dopo fai appena a tempo a vederlo. Dalla passerella fra le barche avvisti già alle sette una striscia fosforica, alta poco più di un metro, che arriva controcorrente dalla confluenza col Po, invade le golene disseminate di salici e alberi di noce, dilaga nelle terre basse, diventa una banchisa di latte, poi si gonfia, oscura il cielo in pochi minuti, forma una massa compatta, felliniana, da Amarcord. «La nebbia ritorna», ghigna Umberto Chiarini, padano innamorato delle sue terre, dietro il suo barbone da baleniere. E col caravan ti porta in immersione, come in sommergibile, in un silenzioso fondale oceanico.

Navighiamo in un bicchiere di orzata. Intorno, non c´è luogo che non abbia nome "idraulico". Sabbioni, San Matteo delle Chiaviche, Boccabassa, Canale Navarolo. O la Valle dell´Oca, così detta perché si allagava per salvare le terre vicine, più fertili. Oltre i filari di pioppi, la Corte Motta o la Corte Camerlenga - sentite che nomi - fattorie con terrapieni che portano al primo piano, dove rifugiare uomini, animali e carriaggi in caso di "rotta" del fiume, arche di Noè in mattoni dove il diluvio non arriva una volta per tutte, ma torna sempre.

«Non tutto si misura in denaro e viabilità - si accalora Chiarini - i pontieri sono anche sentinelle delle acque». Col ponte, spiega, si rischia di cancellare un presidio. La contezza dei punti deboli dove il fiume può sfondare. La topografia delle "brede", le terre basse; o dei "bugni" (o "budri"), voragini tonde come pignatte che squarciano le argille; dei fontanazzi addormentati; dei sifoni alla base dell´argine. La conoscenza delle sabbie, della cotica erbosa degli argini, della permeabilità dei terreni. O i trucchi per tamponare le falle, che non vanno mai chiuse completamente, perché l´acqua si asseconda, non si tappa mai. Altrimenti, esplode e fa disastri.

Odone Rondelli, pontiere in pensione, abita a Cizzolo, a due passi dall´argine, in una casa decorata da vecchi legni portati dal Po. Radici a forma di mantide, uccello, tartaruga. Sul tavolo, ciccioli, salame e lambrusco. Quando arrivò la piena del 2000, fu lui a dire come bloccare i fontanazzi senza danneggiare il terrapieno, usando la stessa acqua che usciva. Lo sapeva perché glielo avevano insegnato i vecchi. Ora, con i nuovi pontieri trimestrali, la sapienza antica non passa più di mano. La controprova? «Le rotte del Po sono spesso coincise col passaggio di eserciti, quando la gente, per salvarsi la pelle, non riusciva più a controllare il fiume».

Nella bruma l´impianto idrovoro di San Matteo delle Chiaviche, dove confluiscono tre canali su livelli diversi (Fossola, Ceriana e Navarolo), ti si para davanti enorme, sembra la diga sullo Yangtse, con la lapide dell´ingegner Cavour Beduschi «redentore» delle terre impaludate, l´uomo della grande bonifica mantovana. Pannelli elettrici anni Venti, pompe a elica e chiocciola, fondamenta fatte con migliaia di tronchi di salice piantati nel fango a suon di battipali. Una meraviglia, perfetta per un ecomuseo che forse si farà, forse no.

Il ponte cigola, fa un lamento lungo come di uccello. Questo, spiega Chiarini, era ed è un punto d´incontro di passanti, turisti, pescatori e barcaioli. «Non capirlo, rivela non solo ignoranza nei confronti di un territorio complesso e affascinante, ma anche la fine di un´etica della manutenzione, che è alla base della sopravvivenza del sistema padano». Il freddo aumenta. Poco in là, cavalieri passano in silenzio sotto l´argine maestro. Un terzetto di poiane in predazione si appollaia sui fili della luce. Nella nebbia filtra aria di neve.

Serravalle SCRIVIA - Il termometro segna - 1, l´orologio le 9.45. Il casello di Serravalle si infila veloce arrivando da Genova, ma da Milano le auto si snodano fino al curvone della rampa. Robetta: sabato mattina qui c´era già il caos, a mezzogiorno i chilometri di coda sulla A7 erano più di dieci. Non è più il primo giorno di saldi all´Outlet di Serravalle, ma tutti accelerano verso il parcheggio, dove una cinquantina di camper (prevalentemente piemontesi le targhe, sembrano essere una costante di tutti i weekend) svettano bianchi nella nebbiolina e alcune centinaia di auto si piazzano qua e là con gli occupanti pronti a catapultarsi fuori, non appena spento il motore: presto, che c´è già coda. È vero, davanti a "Dolce e Gabbana", nella "piazza" centrale, si assiepano in una sessantina, una ventina aspettano pazienti che si apra la porta di "Prada", altrettanti - di età decisamente più bassa - sono in attesa di catapultarsi dentro "Calvin Klein Jeans". Prima si arriva meno si aspetta: qui si entra pochi per volta, quando il volto corrucciato della security di guardia ti fa un cenno. Dieci in punto, si apre la seconda battuta, pardon giornata di caccia al saldo. Annarita e Gloria, da "Marzotto Factory Store", primo negozio sul percorso, sono ancora frastornate dal primo, clamoroso sabato di saldi: «Lavoro qui da cinque anni, mai vista una cosa così. L´affluenza è stata incredibile» dice una. E la collega: «Cos´hanno comprato? Tutto, direi. Soprattutto camicie da uomo, una marea. Di più non le so dire perché non sono riuscita nemmeno ad alzare gli occhi».

«Mammina siamo appena arrivati sì, adesso facciamo il giro... va bene, un bacio mammina!» Diana viene da Torino, chiude in fretta il cellulare, gli amici la incalzano: «Dài, dobbiamo comprare un sacco di roba!». Ma l´affare c´è davvero? Prezzi in vetrina: lupetto di cashmere che in tre mosse (prezzo originale, cartellino outlet, saldo) passa da 218 a 131 e infine a 92 euro; maglione in pile bianco griffato che con lo stesso meccanismo scivola da 91 a 54,50 e infine a 32,70 euro. Ammesso che si trovi la misura e s´incontri il gusto sì, l´affare è certo. Da "Brioni", capi d´alta sartoria, una giacca in cashmere riesce a scivolare da 1350 a 405 euro. «Ieri? Non ce la facevamo più da sole, abbiamo dovuto chiamare i colleghi...» ridono le vendeuses. Da "Borrelli Camicie" Laura mette le mani nei capelli: «Cavallette. Erano come le cavallette. Non sono nemmeno riuscita ad andare a mangiare, me ne sono resa conto alle nove meno cinque. Ho venduto cose che mai al mondo... Oggi, al confronto, è un lusso».

È mezzogiorno. Luigi Battuello, direttore del Serravalle Outlet, indica fuori dalla finestra del suo ufficio: «Vede là fuori? Quello spazio oltre la statale? Tutto pieno di auto. I tremila posti qui, gli altri duemila a lato, tutto pieno. Poi hanno cominciato a riempire ovunque, lungo le strade... tra un paio d´ore mi sa che sarà lo stesso. D´altro canto, il primo giorno di saldi è così, ma il problema sono gli accessi dall´autostrada: chi arriva da Milano deve fare lo stop, lasciare la precedenza alle auto in arrivo da Genova, e l´autostrada si blocca. Mi rendo conto che il casello era dimensionato per altre necessità, forse è il caso che si faccia qualche intervento». Quarantacinquemila persone sabato, circa 35 mila ieri, anche se più diluite nella giornata, fanno ottantamila in un weekend: annaspa la viabilità autostradale, ma all´Outlet e dintorni - un migliaio di posti di lavoro diretti, oltre duecento nell´indotto, progetti di nuovi centri commerciali già attivi in zona - i saldi sono la punta di diamante di un afflusso costantemente alto. «Ma per quale ragione dovevo comprarmi le scarpe prima dei saldi? Costano la metà, adesso» dice la signora bionda dall´accento milanese al telefonino. A dir la verità, a Serravalle lo sconto-dello-sconto, almeno per i clienti affezionati invitati via lettera o mail, era cominciato già con l´anno vecchio, con i pre-saldi. «Certo che sono venuti, e in tanti - sospira l´elegante signora alla cassa di "Loro Piana" - Non pensavamo di vedere ancora così tanti nostri clienti... cos´è successo sabato? Lo vede com´è ridotto il negozio?». Eh già, sono ben sguarniti, gli scaffali. Le cavallette griffate sono già sciamate via.

Nota: è forse di cattivo gusto (imperdonabile, davanti a tante griffes!) notare pur gentilmente, che "l'avevamo detto", e poi "l'avevamo anche ripetuto"? (f.b.)

Adriano Agostini, Giacomo Piran, Un grande centro servizi alle porte di Dolo, La Nuova Venezia, 30 settembre 2005

DOLO. Si torna a parlare di Veneto City, il grande polo del terziario avanzato che dovrebbe sorgere ad Arino. Nei prossimi giorni l'ingegner Luigi Endrizzi - rappresentante dei privati promotori di uno dei più ambiziosi interventi urbanistici previsti in regione - si incontrerà con i tutti consiglieri comunali per illustrare il piano.

Nei giorni scorsi, inoltre, si è tenuto un incontro, cui hanno partecipato i responsabili del Comune di Dolo, di Pianiga, della Regione, della Provincia e dei soggetti promotori, per verificare le procedure prima di dare il via alla conferenza dei servizi necessaria a far partire l'opera. La zona interessata dalla costruzione sarà di circa 640 mila metri quadrati, per la maggior parte nel territorio di Dolo. Una prima bozza di progetto prevedeva la possibilità di edificarvi circa un milione di metri cubi. La cordata di privati a suo tempo puntava alla realizzazione di un grande insediamento terziario, con uffici (si parla della possibilità di trasferirvi parte delle funzioni della Regione), centro congressi, area fiere (si pensa soprattutto ad expo del tessile, dell'elettronica, della meccanica, dell'arredamento e del calzaturiero), un centro moda. E poi, tutto attorno, negozi di media dimensione, parcheggi pubblici su 188 mila metri quadrati e 91 mila metri di aree privare a destinazione varia. Insomma, quello che andrebbe a nascere a due passi dal casello autostradale di Arino, in posizione baricentrica fra Padova e Venezia, sarebbe un centro capace di modificare la struttura direzionale e commerciale di un'area molto vasta, con ricadute possibili (si pensi agli uffici regionali) un po' in tutto il Veneto. Un intervento troppo ambizioso?

Gli imprenditori che il 17 luglio 2002 si sono riuniti a Padova (via Venezia) nella società Arinum srl ci credono. Tale società, a quel tempo controllata dalla Lefim srl (stessa sede, nata il 9 febbraio 2001), ha portato avanti con convinzione la sfida, affidandosi al progettista Luigi Endrizzi. Bisogna capire ora come il progetto si è modificato e adattato alle esigenze del territorio.

La variante urbanistica, come si ricorderà, era pronta per l'approvazione già a marzo, alla vigilia delle ultime elezioni comunali di Dolo. Poi l'allora sindaco Bertolin preferì bloccare tutto e rinviare l'approvazione a dopo le elezioni, provocando una spaccatura con il vicesindaco Ascari. Durante la campagna elettorale maggioranza e opposizione si sono dimostrate concordi nel sostenere - fra le altre cose - che il progetto andava ponderato, facendo attenzione soprattutto all'impatto sulla viabilità e sul territorio circostante. Ora l'amministrazione ha deciso di incaricare un professionista di fornire un parere «pro veritate» riguardante tutta la questione giuridica. «L'intento - spiega il sindaco Antonio Gaspari - è di operare nella massima chiarezza possibile. Questa è una grossa occasione non solo per Dolo, ma anche per tutta la regione. Però le cose devono andare fatte con la massima trasparenza e senza deturpare il territorio». Tutta la questione verte sulle cosiddette opere complementari. «Voglio - spiega Gaspari - la massima collaborazione da parte di tutti i consiglieri, maggioranza e minoranza, perché partecipino alla realizzazione di questa grossa opportunità. La zona sarà un centro attrattivo per il terziario avanzato che tutti ci invidieranno». Il primo cittadino smorza poi le voci su fatto che Veneto City possa uccidere il commercio di Dolo: «I commercianti possono stare tranquilli - sostiene - non verrà creato nessun centro commerciale né supermercato». Tra le possibili istituzioni che dovrebbero trovare posto nel plesso, ci potrebbero essere anche alcune facoltà delle Università di Venezia e Padova.

Renzo Mazzaro, «Costruiremo una città in mezzo alla campagna», La Nuova Venezia, 19 novembre 2005



DOLO. La fotografia che piace di più all’ingegner Endrizzi, è un cane da caccia, un pointer per la precisione, lanciato come un treno verso un bersaglio sconosciuto e fulminato dal teleobiettivo con le quattro zampe sollevate da terra, raggruppate sotto la pancia, in un concentrato di potenza che sta per esplodere. Endrizzi va a caccia. Di terreni, non solo di quaglie o di pernici rosse, come il suo amico Bepi Stefanel.

Vanno a tirare alla pernice rossa nella Mancha con il re Juan Carlos, poi Bepi invita sua maestà in Italia a tirare all’anatra nella tenuta di Dragojesolo. «E’ successo anche poche settimane fa e nessuno ne ha parlato» dice Endrizzi. Meno male. Almeno stavolta i disinformati hanno evitato di dire, come è già accaduto, che il re di Spagna viene a caccia abusivamente in Italia perché è senza tesserino regionale, mentre basta quello vallivo. Provinciali, ci facciamo sempre riconoscere.

Endrizzi ha fiuto per i terreni, come i cani da caccia che alleva. «Avevo per le mani l’area giusta» dice. Ma guarda che combinazione. Cosa si può obiettare a uno così fortunato?



L’area. In quest’area di 550.000 metri quadrati, di cui metà sono già suoi e l’altra metà in fase di accaparramento, tra l’autostrada A4, la linea ferroviaria Padova-Venezia, la stazione fs di Dolo-Mirano e l’innesto del Passante, l’ingegner Luigi Endrizzi, ovvero l’uomo che costruì Padova Est (do you remember Ikea?), ha immaginato una città nuova di zecca e l’ha battezzata «Veneto City». Due milioni di metri cubi, 10.000 posti di lavoro. Dal nulla.



I soci. Il sogno ha contagiato il suo amico di trasferte venatorie Giuseppe Stefanel, imprenditore trevigiano che tra una schioppettata e l’altra ha messo su un impero mondiale dell’abbigliamento. «Credo molto a questo progetto» conferma Stefanel. Un altro trevigiano che mette i soldi è Fabio Biasuzzi, anch’egli appassionato di animali, i cavalli stavolta, ma più noto perché si occupa di cave. In società c’è anche Olindo Andrighetti, imprenditore di Piove di Sacco, nome importante nel commercio internazionale dei legnami, con la figlia Nicoletta. E altri investitori di cui riferiamo a parte.



I capannoni. Nell’area dove sorgerà «Veneto City» per il momento ci sono solo campi, alberi, fossi, strade di raccordo interno, case sparse, aziende agricole. Difficile immaginare una città, anche se qui basta distrarsi un attimo perché cresca un capannone. Nel 2000 la campagna è stata sventrata da una rotonda con una strada di collegamento al casello di Dolo dell’A4: in tre anni il Comune di Pianiga ha venduto le aree. Venduto non rende l’idea. Le ha bruciate. Adesso c’è un capannone attaccato all’altro, una teoria di scatoloni immensi, gli ultimi con la scritta «Affittasi». Il cemento avanza, è il turno di Dolo.



Benemerito. «Mi umiliava fare capannoni» dice l’ingegner Endrizzi, nel nuovo ufficio di Vigonza, guardando le foto dei suoi pointer al galoppo. E’ un benemerito. Anche se ci voleva poco. «Stiamo lavorando con l’università di Venezia e quella di Padova, abbiamo studi di socio-economia alle spalle, vogliamo progettisti di grande qualità, nomi di fama internazionale». Norman Foster e Renzo Piano, dice. Ma senza impegno, perché non c’è ancora l’accordo. «Verranno qui a vedere di che cosa è capace l’architettura ai massimi livelli.

Ci misuriamo con Tokyo, con Hong Kong, non con Trebaseleghe». Alla faccia dello scatto di reni. Speriamo di non doverci misurarci anche con Padova Est.



Il progetto. Adoperiamo le parole dell’ideatore: «Il progetto prevede un centro servizi polifunzionale, ideale baricentro della regione, che sarà la vetrina di tutto il meglio di ciò che si produce nel Veneto ma anche luogo di progettazione di ciò che si produrrà nei prossimi anni»: «un museo della produzione industriale, meta di scolaresche»; «un centro di produzione tridimensionale Aimax che non esiste in Italia»; «strutture di didattica per l’imprenditoria»; «possibilità di acquisire i master, senza andare in America, perché noi vogliamo fare le cose qui»; «sedi di rappresentanza di tutte le istituzioni, dalla Regione fino alle organizzazioni di categoria».

Insomma: «Il Veneto non ha mai saputo realizzare un centro servizi di dimensioni internazionali. Noi pensiamo a competere con Parigi».



Le strutture. «Veneto City» sorgerà su 560.000 metri quadrati, con uno sviluppo di 2 milioni di metri cubi. Ci lavoreranno 10.000 persone, tra occupati diretti e indotto. La maggior parte sarà addetta ai centri di ricerca che occuperanno il 50% della superfice costruita. La città è pensata «sotto forma di alcune torri che si sviluppano in altezza, per lasciare spazio al verde». Non vorremmo fare sfoggio di erudizione peregrina, ma un certo Le Corbusier ci aveva già pensato negli anni ’30: siamo fermi da allora? Attorno al centro servizi, definito il «pianeta centrale», ruoteranno una serie di «satelliti»: si va dagli alberghi, ai negozi, agli impianti per il tempo libero.



Tapis roulant. La determinazione arriva a prevedere lo spostamento della stazione fs di Dolo-Mirano (appena inaugurata) di qualche chilometro in direzione Padova, per farla combaciare con il centro servizi. Una passerella aerea coperta, che Endrizzi mostra in avveniristico disegno al computer («ma niente immagini per il momento») porterà i passeggeri al centro servizi, con un tapis roulant per risparmiare la fatica dei bagagli.



Torre telematica. Alta 150 metri, con immancabile ristorante panoramico all’ultimo piano, concentrerà le strutture per il controllo di tutto il traffico stradale della regioni, incluso quello autostradale. Dal che si profila una probabile partecipazione societaria, decisamente negata invece da Lino Brentan, a.d. della Venezia Padova spa.



Tempo libero. E’ previsto un parco di diversi ettari, solo pedonale. Un «market palace», piastra coperta di piccoli negozi «unica al mondo». E poi cinema, un teatro, piscine, strutture per fitness, megacentro per convegni.



Alberghi. Il «satellite ricettivo» avrà un capacità di 1000 stanze, dalle 3 stelle in su, per graduare l’offerta a seconda della tasca. Disponibilità che nessuno, secondo Endrizzi, è in grado di assicurare oggi in Italia. Chi è del posto può già prepararsi: gli alberghi sorgeranno dietro la pescheria «Gianni & Mirca» di Arino, di fronte all’azienda agricola di Gastone Signori. Invece le stalle, l’essicatoio e gli impianti dell’azienda, incluse le abitazioni, dovrebbero sparire. Sempre se Endrizzi si sbriga, perché a Gastone Signori sta vendendo la mosca al naso: gli hanno fatto un’offerta l’anno scorso, ma non hanno stretto. «I figli non sono più d’accordo vendere, la moglie s’arrabbia perché la casa non è a posto - dice Gastone, un tipo simpatico, grande e grosso, che viene da Piazzola sul Brenta -. Io capisco tutto, ma devono fare i lavori o no? Quando cambio idea, la cambio davvero, eh!».

Paolo Possamai, Una colata di cemento sacrificando Marghera, La Nuova Venezia, 25 novembre 2005

L’affaire Veneto City dichiara nel nome stesso che la questione non riguarda Dolo e comuni limitrofi.

L’operazione Veneto City, lucidamente indagata nell’inchiesta di Renzo Mazzaro per il nostro giornale, chiama in causa i destini dell’area centrale del Veneto. Sarebbe riduttivo, pilatesco, truffaldino se la classe politica e, più in generale, il ceto dirigente veneto delegassero al Comune di Dolo la decisione se urbanizzare 560 mila metri quadrati di terreno. Volendo assumere un termine di paragone, a Verona, alle porte della città antica, è programmato il recupero dell’ex mercato ortofrutticolo, destinandone l’area di 59 mila metri quadrati a nuova city per la finanza veneta. Una cittadella dove dovrebbero a regime lavorare all’incirca tremila persone, dipendenti del gruppo Unicredit, del Banco popolare di Verona, della Cattolica assicurazioni, di altre istituzioni creditizie. L’investimento, promosso da Fondazione Cariverona, Cattolica e Banco popolare è stimato in circa 200 milioni di euro e richiederà almeno 5 anni di tempo quanto all’esecuzione dei lavori.

A Dolo è in gioco un intervento che si sviluppa su un territorio dieci volte più grande di quello di Verona, con una richiesta di edificare 2 milioni di metri cubi. A questo punto, introduciamo subito una domanda semplice semplice, una fra le altre dei tanti quesiti irrisolti: ma se sarà consentito il placet ai privati imprenditori mobilitati per l’urbanizzazione delle campagne di Dolo, che ne sarà del recupero della zona industriale di Marghera? Il polo industriale di Marghera è largamente dismesso, il governatore veneto Giancarlo Galan preme affinché le imprese chimiche cessino ogni attività entro il 2015. Misurando il tempo secondo i cicli di investimento e di ammortamento delle aziende, vale a dire che Galan vuole che la chimica se ne vada da Porto Marghera domani.

Tralasciando un’analisi puntuale sulla opportunità che l’Italia abbandoni il presidio sulla chimica, rimane da capire quali nuove attività economiche potranno effettivamente abitare a Marghera. E qui intendiamo enfatizzare la relazione con Veneto City. Se a Dolo sarà concentrata un’enorme mole di attività direzionali, di industrie innovative, di servizi avanzati, di alberghi, che futuro potrà mai avere Marghera? Se Dolo catalizzerà un imponente volume di investimenti, quanti denari resteranno in circolazione per il recupero delle aree dismesse a Marghera e per l’invenzione di un nuovo destino per la più grande e degradata zona industriale del Nordest?

Sono questioni che giriamo a chi ha responsabilità politica. Le giriamo al presidente della Provincia di Venezia, Davide Zoggia, depositario con le recenti riforme di considerevoli poteri in materia di pianificazione urbanistica. Le giriamo al governatore Galan, che mantiene un ruolo incisivo nella pianificazione territoriale e, più in generale, nella programmazione dello sviluppo economico del Veneto. Le giriamo al sindaco Massimo Cacciari, che fra le altre sfide è chiamato a misurarsi con il futuro possibile di Marghera. Galan, Zoggia e Cacciari esemplarmente incarnano la figura dell’amministratore che deve perseguire il «bene comune», che deve badare all’interesse collettivo. Ebbene, a Zoggia e a Galan chiediamo se il «bene comune» consista nell’assecondare il disegno speculativo di Stefanel, Biasuzzi, Endrizzi, che sono i promotori di Veneto City. Chiediamo a Cacciari, a Galan e a Zoggia come sta assieme il loro annuncio di voler dare un futuro a Marghera e l’operazione di Dolo. Chiediamo a Galan, inoltre, se è vero che Veneto City potrebbe ospitare un polo rilevante di uffici della Regione, perché Dolo sarebbe baricentrica e facilmente raggiungibile dall’intero territorio regionale. Se tale ipotesi fosse veritiera, ci permettiamo di osservare che sarebbe un formidabile volàno, uno straordinario vantaggio competitivo riconosciuto a tavolino ai promotori di Veneto City.

Chiediamo, infine, a Zoggia come possa far rientrare ex post nel suo neonato Piano territoriale provinciale di coordinamento l’urbanizzazione di un’area di 560 mila metri quadrati. Ma Zoggia, annunciando il Ptcp, non aveva detto che era tempo di cessare la cementificazione del territorio? E Zoggia, Cacciari e Galan non sanno forse che il Veneto è già pieno zeppo di capannoni con la scritta «affittasi» o «vendesi» per la semplice ragione che il modello produttivo classico è superato e, abbandonata gran parte della filiera manifatturiera, per cui servono spazi molto meno abbondanti del passato?

A Cacciari, da ultimo, giriamo l’accusa rivolta all’amministrazione comunale di Venezia da Adriana Marinese, primario imprenditore edile-immobiliare, che contesta alla burocrazia di Ca’ Farsetti totale immobilismo, di non dare risposte a programmi di intervento nella prima zona industriale di Marghera, valutati a spanne 500 milioni di euro.

L’immobilismo del burocrate veneziano può divenire l’alibi per chi volesse dare la precedenza a Veneto City.

Maurizio Franceschi, Un «buco nero» sul territorio, La Nuova Venezia, 30 novembre 2005

Il titolo di «città» è una cosa seria. I comuni se ne possono fregiare solo se esso viene loro conferito da uno specifico decreto del capo dello Stato. Gli agglomerati tinta pastello, accozzaglia di vetro plastica, che sorgono lungo le nostre autostrade spesso si fregiano invece del titolo di «city». Come balza all’occhio, è cosa ben diversa.

Un po’ di portici, qualche piazza ben lastricata e grandi parcheggi non bastano infatti a ricreare la storia e la complessità di una vera città. Questi iper-mega-super centri che integrano il commercio all’intrattenimento e ai più disparati servizi alla persona vorrebbero essere città, ma non possono, e quindi diventano «city». Sempre più grandi e accattivanti le «city» alimentano l’unico consumo che non conosce flessioni: quello del territorio. Le zone, commerciali, del tempo libero e del terziario si succedono oggi in modo caotico, lasciando tra di essi solo miseri brandelli di territorio, assediati e dall’aspetto grigio e indefinibile. Eppure continuano a riprodursi senza soste e senza apparente logica.

Kenneth Boulding, economista-ecologista, già negli anni ’60, sosteneva: «per credere che sia possibile realizzare una crescita infinita in una biosfera finita bisognerebbe essere o un pazzo o un economista». In questo caso si tratta di pazzi che, attraverso riuscite speculazioni immobiliari, comunque si riempiono le tasche con fior di soldoni. Le «city» sono diventate sempre più grandi e ingorde, sovvertendo l’ordinata rete gerarchica tra i centri urbani tracciata dalla storia e dai commerci e sconvolgendo la programmazione urbanistica ed infrastrutturale elaborata su ritmi decennali (il Piano Territoriale Regionale di Coordinamento vigente è stato approvato nel 1992) troppo lenti per contrastarli. Veri e propri «buchi neri» che attraggono a sé, insieme alle persone, attività centrali inizialmente nate per essere collocate nel cuore delle città con l’effetto, ben noto, di desertificazione e impoverimento dei nostri centri urbani. L’ultima «city» in progetto rivela, nel nome e nelle dimensioni, le sua ambizioni di grande «capitale» di questa «blob» artificiale che, in pochi anni, ha invasola pianura padana.

«Veneto city» dovrebbe occupare 560 mila metri quadri, nel Comune di Dolo, tra l’autostrada A4, la linea ferroviaria Padova-Venezia, e l’innesto del Passante. Due milioni di metri cubi di cemento, magari «firmato» da qualche grande architetto, dove troveranno posto una piastra coperta di piccoli negozi, cinema, teatro, piscine, strutture per fitness, megacentro per convegni ecc. ecc. Tutte cose sbandierate e promozionate come «innovative» e «mai viste» e che invece sanno già di stantio e sbiadito. In questo caso di «eccezionale» infatti c’è solo la dimensione dell’area: almeno dieci volte più grande di quelle, pur mastodontiche, cui siamo già abituati. Si tratta di dimensioni destinate a moltiplicare in modo esponenziale i costi che conosciamo bene in termini di perdita di qualità del paesaggio, di difficoltà logistiche e infrastrutturali, di incremento della mobilità e dell’inquinamento. A questi si devono poi aggiungere i soldi, presi dalle tasche dei cittadini, e utilizzati per operazioni di riqualificazione, animazione e rivitalizzazione delle città (quelle vere), ma soprattutto la fine di tanti bei progetti (anche questi costosi) che riguardano la riconversione di Porto Marghera e dei siti industriali dimessi. Tutte iniziative che verrebbero messe fuori gioco in un battibaleno dalla realizzazione di un gigantesco magnete, posto al centro della tanto discussa «area metropolitana» destinato ad attrarre, insieme a masse di «consumatori», anche tutti i servizi «rari» localizzati e localizzabili della zona.

Per questo spero che chi ha il dovere di governare il territorio, e soprattutto Province e Comuni, abbia ben chiaro che uno dei grandi compiti dell’urbanistica nei prossimi anni sarà quella di contrastare l’espansione impetuosa di questa e di tutte le altre «city», di progettare accuratamente lo sviluppo necessario in una logica di spazio «restituito» più che «consumato» e di difendere e mantenere, per quanto possibile, i caratteri naturali residui del paesaggio e della vita urbana. Questi sì beni preziosi e soprattutto insostituibili.

Maurizio Franceschi è segretario provinciale Confesercenti

L'imponente manifestazione di mercoledì in val Susa per dire no alla Tav non ha impressionato la presidente della regione Mercedes Bresso. «Il progetto dell'alta velocità c'è, è quello e potrà essere modificato sulla base dei sondaggi. Ma il progetto va avanti, non è in discussione».

Presidente, i settantamila di mercoledì chiedevano ascolto.

Mah, avrei dei dubbi su questo. Dicendo no a priori è difficile dialogare. Se invece si dice: lavoriamo a migliorare il progetto, a minimizzare gli impatti locali e a valorizzare al massimo risorse che possono essere messe a disposizione della valle per un progetto di rinaturalizzazione, allora possiamo discutere.

I cittadini e gli amministratori della valle mettono in discussione l'utilità dell'opera.

Mi scusi, ma non tocca agli abitanti della val Susa metterla in discussione. L'Unione europea, lo stato italiano, lo stato francese, la regione Piemonte la pensano diversamente. Se il tema è che hanno deciso loro che l'opera è inutile, mi spiace ma tocca ad altri decidere. Mettiamo pure che abbiamo torto, comunque tocca a chi risponde a territori più vasti, ad esigenze economiche più vaste prendere decisioni. L'economia va sempre più avanti sulla logistica. Si producono servizi, cioè modificazioni di beni che arrivano dall'estremo oriente, dall'India, dall'Africa, confezionamenti, montaggi. Inoltre il Mediterraneo è lì, dalla Cina, dall'Africa, dall'India si verrà sempre di più attraverso il Mediterraneo: il porto di Genova, Barcellona, Marsiglia, Trieste. Il corridoio 5 è il grande asse di ridistribuzione delle merci al di sotto delle Alpi. Uno può dire che non gliene frega niente, però l'analisi che fa l'Europa, che facciamo noi, è diversa. Se non sono d'accordo, non tocca comunque a loro decidere, e neppure al primo che passa per la valle che non conosce il progetto e che in valle ci va solo per protestare.

Ma perché non prendere in considerazione l'alternativa proposta dalla valle, di riaggiustamento della linea storica?

Quello è in realtà un progetto complementare. La linea esistente è già in rimodernamento. Il traforo del Frejus ha 135 anni ed è in corso di rimodellazione per allargarlo, con cautela, naturalmente, in modo da consentire il passaggio dei treni con tir montati o rimorchi. Sono interventi necessari perché la Torino-Lyon sarà realizzata fra 10-15 anni. Se si parla di fare tunnel di base e poi andare al quadruplicamento in asse, allora si parla di un altro progetto che è già stato valutato e bocciato. A me sembra difficile allo stato attuale della progettazione tornare indietro. Abbiamo già il preliminare approvato e si sta facendo il definitivo: il tracciato è già stato deciso. In opere di questo genere, tornare indietro significa sì buttare soldi pubblici. Quando uno parla da lontano, senza mai aver guardato una carta, studiato la valle - perché quelli sono andati giusto a fare la manifestazione e hanno cominciato a parlare prima della manifestazione - può dire qualunque cosa. Io ho sempre detto agli amministratori della valle che sarebbe stato meglio sedersi sul serio attorno ai tavoli, cioè trattare. Perché meno si tratta e si dice no e basta, più le cose vanno avanti senza di te.

Però la valle è compatta nel suo no alla Tav.

Non mi pare proprio ci sia un fronte compatto. Gli amministratori sono ostaggio di quelli che, essendo contro, li tengono sotto tiro, non fisico ma morale. L'ultimo sondaggio di Repubblica realizzato in valle dà il 51% a favore della Tav, malgrado la disinformazione totale. Perché ormai è impossibile andare in valle a fare informazione. Lo apro domani il centro informazione in val Susa se non me lo vanno a bruciare. Adesso lo apriremo a porta Nuova, dove comunque la gente della valle potrà andare ad informarsi. In Piemonte la media di favorevoli è il 70%. Siamo dunque in presenza di una minoranza robusta e rumorosa. Come sempre le minoranze fanno questo. Se tutti ti dicono che morirai, diventi contro. Il problema è che non morirà nessuno lì, nessuno è mai morto di un treno. I lavori avverranno in sicurezza. L'Arpa ci dice che dove passa il tunnel di base non c'è amianto e le quantità possibili di uranio sono irrisorie e di nessun pericolo. E l'Arpa è più affidabile di chi da lontano parla a vanvera di queste cose.

I finanziamenti europei ci sono o no?

Sì, ci sono finanziamenti europei per fare i progetti e che, assieme a quelli dei due stati, servono tra l'altro per la galleria di Venaus. Quando sarà approvato il progetto ci sarà il finanziamento per il tratto internazionale, che ancora deve essere deciso ma che può essere tra il 20 e il 50% dei costi definitivi di quella tratta.

A giorni potrebbero partire i lavori del tunnel di Venaus. Sindaci, cittadini e comitati hanno già detto che non lasceranno che i lavori comincino.

La sua posizione?



La cosa è già decisa. Venaus è appaltata. L'azienda sta aspettando di fare i lavori, si stanno pagando le penali. Non c'è nulla da decidere, c'è solo da fare. L'unica cosa che si potrà fare è quella di sospendere eventualmente i lavori nel periodo olimpico per evitare tensioni.

APPELLO

AVVERSO LA COSTRUZIONE DEL TERZO

PONTE SUL FIUME PO A CREMONA

Le sottoscritte associazioni ambientaliste operanti nella zona piacentina e cremonese, vista l’inutilità dei precedenti interventi, formulano il presente ulteriore appello avverso la costruzione del cosiddetto “terzo nuovo ponte sul fiume Po a Cremona”, ovvero del raccordo autostradale che si intenderebbe realizzare, per iniziativa della società Autostrade Centropadane concessionaria dell’autostrada A21, tra il casello di Castelvetro Piacentino e l’ex-statale “Codognese” (località Cavatigozzi in Comune di Cremona).

Si espongono qui di seguito le motivazioni dell’appello.

1) Mancato rispetto della pianificazione urbanistica vigente

Il progetto del nuovo ponte autostradale e dei relativi raccordi (per un totale di oltre 10 Km) si pone in grave contrasto con le previsioni sia dei Piani Territoriali di Coordinamento delle province interessate (Cremona e Piacenza), che dei piani regolatori vigenti nei comuni attraversati (Castelvetro e Cremona).

Si ha poi notizia che alcune forze politiche locali premono perchè su tale opera vengano convogliate le attenzioni ed i finanziamenti della programmazione economica nazionale. Tutto ciò avviene scorrettamente, prima ancora che nelle assemblee competenti (consigli provinciali e consigli comunali interessati) abbiano provveduto a modificare le strumentazioni urbanistiche vigenti e quindi a democraticamente avallare quanto sino ad ora deciso solo in sede di segreterie politiche.

Tale iniziativa rischia di compromettere il destino dei territori interessati senza che ai cittadini sia stato dato modo di intervenire, anche presso la competente magistratura, a tutela dell’ambiente in cui vivono: in assenza di una adeguata formalizzazione amministrativa di quanto si sta “cucinando” in sede politica risulta infatti impossibile operare qualsiasi forma di ricorso nelle competenti sedi.

I cittadini vengono così, di fatto, privati del loro diritto di controllo sulle trasformazioni del territorio nel quale vivono.

2) Rischio di gravissimi danni all’ambiente e, in particolare, alla grande golena del fiume Po

Il territorio interessato dal progettato nuovo ponte, collocato immediatamente a monte di Cremona ed a valle dello sbarramento di Isola Serafini, rappresenta, nel quadro fortemente antropizzato dei terreni circostanti il corso sinuoso del fiume Po, una singolare ed importante eccezione per gli elevati caratteri di naturalità che ancora conserva.

In tale ambiente sono infatti presenti sia una fauna che una flora di notevole e rara ricchezza, che gli fanno assumere una importanza naturalistica particolare, significativa non solo di per sé stessa, ma anche in quanto, come zona “di passo”, componente di un sistema ecologico a carattere intercontinentale che sarebbe atto gravissimo distruggere, alterare, ovvero anche solo turbare temporaneamente con opere cantieristiche.


La zona dell'attuale Ponte di Cremona sul Po (foto F. Bottini)

Ebbene il progetto in questione sembra avere deciso di non considerare affatto tale delicata situazione ambientale nel momento in cui non si preoccupa neppure di rispettare l’eccezionale ecosistema qui presente della cosiddetta “isola del deserto”, sito la cui importanza è stata da tempo riconosciuta anche a livello comunitario (S.I.C.)! Proprio in tale sito verrebbe infatti impostata la testa meridionale del nuovo ponte!

In realtà si ha ragione di ritenere che la problematica ambientale sia stata semplicemente, e cinicamente, “rimossa” dai promotori dell’iniziativa che, fino a pochi mesi or sono, ancora ipotizzavano di realizzare l’opera, in tutto o in parte, in forma di un tunnel sotterraneo, tanto evidente era apparsa sin dall’avvio degli studi preliminari di progettazione, la delicatezza ambientale dei terreni interessati.

3)Devastazione ambientale alla periferia dell’abitato di Castelvetro Piacentino

Correndo in rilevato tra Fogarole e Castelvetro, il raccordo autostradale si collegherà all’attuale casello attraverso la realizzazione di un mastodontico nuovo argine che finirà con l’accerchiare l’abitato di Castelvetro alterandone il contesto ambientale e, in particolare, distruggendone del tutto l’attualmente già precario rapporto con la circostante campagna.

4) Inopportunità pratica della infelice soluzione viabilistica prevista in località Cavatigozzi (frazione di Cremona)

In località Cavatigozzi, zona Canale Navigabile, il raccordo autostradale, per mancanza di spazio, si sdoppierà in due carreggiate entrambe a due corsie. Entrambe le carreggiate saranno a doppio senso di circolazione! Non è chi non veda il gravissimo pericolo che una tale risicata soluzione comporterà alla luce della considerazione che il resto del raccordo, a monte ed a valle di tale sdoppiata strozzatura, sarà, ovviamente, a doppia carreggiata con distinte direzioni di marcia ciascuna impostata su doppia corsia.

In pratica, qualunque delle due distinte carreggiate venga in futuro imboccata dall’utente, sarà come, improvvisamente, incontrare un cantiere (permanente!) che determinerà un brusco, incomprensibile e pericolosissimo restringimento della sede viabile!

L’opera progettata appare pertanto irrazionale, del tutto inaccettabile sotto il profilo della mancata continuità nel livello di servizio offerto all’utenza e, in particolare, per quanto si dirà nel punto successivo, anche foriera di una drammatica accentuazione del rischio di incidenti rilevanti già precipuamente presente nei luoghi interessati.

5) Accentuarsi del rischio di incidenti rilevanti presente nei luoghi interessati dal raccordo sulla sponda cremonese

Il raccordo in terra cremonese si sdoppia come sopra descritto in due carreggiate parallele, divise tra di loro dall’oleificio Zucchi, ed incuneate tra una discarica di rifiuti tossico-nocivi (Arvedi, a ovest) e un deposito di gas combustibili (Abibes, ad est) la pericolosità del quale non ha probabilmente concorrenti sull’intero territorio nazionale.

Appare evidente l’assoluta inopportunità di realizzare tale raccordo in un sito così potenzialmente pericoloso.

È appena il caso di ricordare come anche recenti e terribili episodi terroristici sconsiglino vivamente di aggiungere pericolo a pericolo in un sito quale quello del Porto di Cremona che è già, purtroppo, caratterizzato da una singolarissima concentrazione di industrie a elevato rischio di rilevante incidente (il già citato deposito di gas Abibes, l’altro analogo deposito Liquigas e la raffineria Tamoil), concentrazione che potrebbe innescare un devastante effetto domino davvero esiziale per la vita stessa della vicina città di Cremona.

6) Inutilità pratica del proposto nuovo collegamento

Il proposto nuovo collegamento non risulterà utile che per una quota modestissima del traffico locale, praticamente solo per quella destinata a servire la zona industriale esistente in prossimità del Canale Navigabile.

Il nuovo ponte risulta infatti troppo decentrato rispetto a Cremona per dirottare su se stesso una quota significativa del traffico che attualmente percorre il vecchio ponte in ferro e non dispone, nè a monte, né a valle, di un bacino di attrazione adeguato a suscitare quelle correnti di traffico che ne potrebbero altrimenti giustificare la costruzione.

Le valutazioni in termini di costi-benefici forniscono al riguardo ipotesi di convenienza economica talmente risicate da far seriamente dubitare della reale fattibilità ed opportunità dell’iniziativa, per la quale esistono comunque valide alternative.

7) Esistenza di valide alternative al proposto nuovo tracciato

Il proposto nuovo tracciato potrebbe essere infatti agevolmente sostituito da valide alternative, assai più interessanti sotto il profilo territoriale ed assai meno impattanti sul paesaggio locale.

In primo luogo deve considerarsi l’ipotesi, da vari anni sostenuta e sempre rinviata, di liberalizzare o di agevolare nell’uso, con tariffe privilegiate quantomeno per il traffico pesante, l’altro ponte autostradale già preesistente poco a valle di Cremona.

In secondo luogo può considerarsi l’ipotesi di realizzare gli opportuni raccordi tra la viabilità piacentina, il ponte di San Nazzaro sul Po ed il ponte di Crotta sull’Adda, manufatti entrambi al presente significativamente sotto utilizzati e postii poco a monte dell’ipotizzato raccordo.

Quest’ultima soluzione sarebbe praticabile con modestissima spesa e ridottissimo impatto ambientale.

Cremona, luglio 2005

WWF Cremona

Italia Nostra Cremona

Lega Ambiente Cremona

WWF Piacenza

LIPU Cremona

GIS Cavatigozzi

Ambiente Territorio Società

Nota: qualche notizia tecnica in più (e una utile mappa) nel reportage a più voci del periodico cremonese Il Vascello, con interventi di Giorgio Albera - rappresentante del Porto e favorevole - e Massimo Terzi - ex assessore all'urbanistica e critico; altre informazioni e immagini QUI(f.b.)

Settant’anni fa, quando da queste parti c’erano “sommergibili rapidi ed invisibili”, il sociologo di Chicago Roderick McKenzie studiava qualcosa di altrettanto sommerso e invisibile: la comunità metropolitana. Una comunità ben diversa da quella tradizionale del vicolo, della piazza, del quartiere, e che si riconosceva e articolava su punti di vista e strumenti più complessi: mezzi di trasporto, mezzi di comunicazione, tempi e spazi elastici. Era insomma un primo vagito di adattamento umano ai tempi della macchina e della modernità, oltre gli slanci elitari delle avanguardie di inizio secolo, per una convivenza più pacioccona (ma non per questo retrograda e reazionaria) col nuovo contraddittorio universo costruito dalla tecnologia.

Proprio questa nozione di comunità metropolitana mi è tornata in mente seguendo da vicino e da lontano la “navigazione” in questo agosto 2005 del sommergibile Enrico Toti: dal porto di Cremona al Museo della Scienza di Milano, ma soprattutto da piccola nota di cronaca a spettacolo nazionalpopolare seguito minuto per minuto dalla stampa. È stato detto molto, sulle migliaia di persone che durante le trasferte notturne o le soste diurne si sono affollate attorno al gigante nero che con dannunziana orgogliosa sicurezza risaliva la valle padana verso l’ultima dimora. Forse qualcosa di più si potrebbe dire sugli spazi dove questa nuova e inattesa socialità si è manifestata, e sulla ricerca di nuovi rapporti con questi spazi.

Non a caso il corteo inizialmente tecnico-militarizzato si è rapidamente evoluto in una versione tascabile del Giro d’Italia, con un particolarissimo ruolo delle “tappe”. Era qui, a mio parere, che si registrava uno degli aspetti più interessanti della nuova comunità mediatico-territoriale: la scoperta e tentativo di appropriazione dei nuovi spazi di solito preclusi all’incontro, alla vera frequentazione, alla socialità corrente, e lasciati a poche avanguardie specializzate. Avanguardie specializzate che difficilmente pensiamo come tali, sempre che ci pensiamo, ma che da veri impavidi pionieri iniziano la colonizzazione dei nuovi territori, un po’ come i gabbiani sulle isole sputate in superficie da un vulcano sottomarino: camionisti, puttane, pensionati con la passione dell’orto, qualche operaio delle manutenzioni, e pochi altri. Sono loro ad esplorare per primi l’immensa città proibita che si stende sulle grandi distanze fra un bozzolo privatizzato e l’altro, fatta di piazzole, cigli stradali, guard-rail, macchie di alberi, parcheggi, scarpate sul retro degli scatoloni precompressi artigianali e commerciali. Spazi preclusi ai comuni mortali, intravisti malamente anche da chi dovrebbe “progettarli”, e invece quasi sempre si limita ad applicare norme e regole in modo astratto. Spazi accettati e subiti soprattutto perché ignorati.

Chi ha mai fatto davvero caso a quanto sono inutilmente orribili, scomodi, alieni, questi spazi? Mercato, burocrazia, “tecniche” campate per aria organizzano localizzazioni, densità, arretramenti, miscele funzionali e rapporti con la strada, di questi sparpagliati baracconi, già settant’anni fa temuti come la peste (si veda ad esempio il dibattito sul britannico Restriction of Ribbon Development Act, 1935). E pure tranquillamente realizzati, che anche ora continuano a crescere come funghi, anche lungo il percorso sub-padano del sommergibile Toti. Chissà se qualcuno dei neo appassionati di navigazione padana su ruote se n’è accorto, di quanto un’idea del tutto scema di ruote, mobilità, nodi e tratte, ha finito per mortificare anche il “cuore verde della Megalopoli” (come lo chiama il geografo Turri).

Eppure anche in mezzo a questo neo-casino malpensato per automobili e umani, si sono affollate migliaia di persone, magari inciampando su cordoli superflui che però si studiano nei corsi tecnici, smadonnando per l’ombra che mancava, dagli standard e dai piazzali pieni di buche, per le piazzole di sosta assenti sul ciglio di decine di chilometri di statale, perché tanto prima o poi ci facciamo l’autostrada, a che serve migliorare il tracciato “vecchio”?

Speriamo, appunto, che qualcuno se ne sia accorto. Magari qualcuno che poi partecipa alle decisioni. Magari qualcuno poco propenso a ridurre il tutto a una versione all’amatriciana del new urbanism, con una bella siepe davanti ai capannoni, rotatorie con verde sponsorizzato ... e chilometri di barriere tipo “ new jersey” a tagliare fuori completamente l’ambito stradale dal territorio, e viceversa. Allora sì, che la mobilità diventerebbe davvero e per sempre una navigazione sottomarina, una Lega dopo l’altra, e il territorio una chimera, plasmabile a piacimento dagli schermi televisivi.

Per ora, ringraziamo anche il sommergibile Toti per averci riportati coi piedi per terra.

Nota: alcune delle riflessioni sulla comunità metropolitana di Roderick McKenzie citate all'inizio, sono disponibili tradotte qui su Eddyburg, nella sezione del testi "storici" Urbanistica, Urbanisti, Città ; per una non banale descrizione dell'ambiente stradale si veda anche sul mio sito la traduzione di RoadTown USA . In fondo, anche alcuni articoli sul sommergibile Toti dalle edizioni locali di Repubblica e del Corriere della Sera (
fabrizio bottini)

A chiunque è consentito utilizzare questo articolo alla condizione di citarne l'autore e la fonte

Dalla cronaca locale:

Annachiara Sacchi, Migliaia alla partenza del Toti: Viaggio-show verso Milano, Corriere della Sera 8 agosto 2005

Cinzia Sasso, Comincia al buio il viaggio del Toti, la Repubblica, 9 agosto 2005

Teresa Monestiroli, Un’altra notte di sagra infinita, la Repubblica, 11 agosto 2005

Teresa Monestiroli, Arriva il Toti due km di coda in tangenziale, Repubblica, 12 agosto 2005

Annachiara Sacchi, Il sommergibile a Milano Passerella del Toti per le strade della città, Corriere della Sera, 12 agosto 2005

“Là dove c’era l’erba, ora c’è una città”, cantava nostalgico Celentano negli anni Sessanta. Sembrava già un’apocalisse allora, ma adesso credo nessuno si stupirebbe più di tanto, ascoltando versi che suonano più o meno: “Là dove c’era l’erba, ora c’è una schifezza”.

Perché una città (come cantava il socio Gaber) è anche bella, grande, viva, allegra, piena di case e di negozi, con tanta gente che lavora ecc. Una schifezza invece è solo una schifezza, e può essere al massimo “grande”, e “con tanta gente”. In fondo lo sappiamo anche quando stiamo a guardare, abbastanza entusiasti, le accattivanti prospettive dell’ultimo arrivato nella sterminata famiglia dei centri poli-super-mega-funzionali-integrati. Verde, superfici lisce e tonde, colori pastello, atmosfera che suggerisce flusso, ma anche pace e tranquillità fra i piazzali dei parcheggi e le zone di sosta ai piedi di qualche luccicante curtain-wall ingentilita da un portico neoqualcosa. Poi iniziano i lavori, o movimenti terra, il cantiere, mesi di fango, strade sbarrate, lamiere ondulate, e alla fine l’inaugurazione, con o senza cabarettista, comico, starlet nazionalpopputa sgambettante.

E puntuale, sgombrati i bicchieri di carta e i consiglieri d’amministrazione festeggianti appare lei, la Schifezza: ettari di parcheggio che sembrano progettati dallo stratega di Little Big Horn in quanto a vie di fuga, e lontani all’orizzonte i luccicanti padiglioni che invitano (sono pensati apposta) a fuggire all’interno, dove la Schifezza non si vede più. Questa roba la chiamano città, e ci aggiungono sempre “di” qualcosa: città della moda, città degli affari, cittadella degli spacci. Ma è sempre la solita solfa: uno svincolo, un parcheggio, uno spazio costruito completamente rivolto all’interno. Altro che città.


La zona dell'Outlet con gli svincoli ai margini del Parco Ticino Lo stato di fatto di Gallarate Sud lungo la superstrada dell'Aeroporto

Tutta questa lamentela, per finire alla non-notizia: ci stanno per propinare l’ennesimo factory outlet, stavolta collocato nel bel mezzo di Malpensa, ovvero del polo di attrazione che campeggia negli studi sul bacino di utenza di tutti gli altri. La cosa curiosa (se qualcuno ha delle curiosità in proposito) è che a quanto pare si tratta di struttura non commerciale, o che almeno dovrebbe essere a mille miglia dalla tipologia della grande distribuzione, inserita nel cosiddetto Business Park di Gallarate, una delle grandi strutture di complemento allo sviluppo territoriale previsto dal Piano d’Area Malpensa. E “grande” è dir poco, visto che l’idea parte robustamente a fine anni ’80 con qualche milione (avete letto giusto) di metri cubi, che si riducono via via a centinaia di migliaia negli anni, mentre cambiano e/o si precisano le funzioni.

L’area sta ai confini meridionali del comune di Gallarate, confini che segnano anche insieme l’inizio dell’area compatta di urbanizzazione Bu-Ca-Le (Busto Arsizio, Castellanza, Legnano), e quella del Parco Ticino. Dal punto di vista infrastrutturale la zona si caratterizza per la “V” definita dalla Statale 33 del Sempione in entrata a Gallarate, dalla superstrada 336 che connette l’Autolaghi all’HUB, e dallo svincolo Busto Nord che le collega tra loro e alla viabilità locale.

Non vale la pena ripercorrere qui la cronologia del Business Park, per cui si rinvia ai documentati articoli della stampa locale. Vale la pena invece di sottolineare come le due paroline magiche, Factory Outlet, non diano alcun risultato se digitate sul sito dello stesso periodico online. Segno che, forse, questa dell’outlet è una pensata recente per tentare di indorare la supposta. È vero, ahimè, che il trucco spesso funziona, visto che proprio a Serravalle si è inaugurata la serie italiana di questa tipologia commerciale piazzando un villaggio della moda là dove non poteva starci un centro commerciale tradizionale. Il tutto, guarnito dalle pur abituali sottolineature di come si tratti di insediamento ad alta qualità (quale? l’arredamento?), che non fa concorrenza alle botteghe del centro (altro errore), e che arricchisce l’offerta turistica del territorio.

Come ci informa il sito del promotore, la Insviluppo, “La previsione è di realizzare 20.800 mq. di negozi destinati soprattutto alla Moda, insieme a Bar, ristoranti e spazi per l’intrattenimento”. I bacini di utenza potenziale, sull’isocrona dell’ora e dei novanta minuti, coprono i soliti, sterminati territori di caccia al cliente. Altrettanto solito, il fatto di ignorare (a meno che il sito non sia piuttosti vecchio) come oltre a Serravalle esistano anche almeno Vicolungo, Franciacorta, Fidenza che hanno marcato territori di caccia sovrapposti. Sempre nel sito, consiglio di farsi un giro nell’efficace Virtual Tour, tanto per confermare (o smentire, se credete) quanto detto sopra sul rapporto fra progetti e realtà tangibile.


La superstrada di fianco all'HUB La statale del Sempione a Gallarate I terreni per l'Outlet, ora

All’osservatore minimamente scafato (come immodestamente pretendo di essere), basta però un’occhiata al cosiddetto Master Plan per confermare le aspettative: un nucleo centrale, allungato parallelamente al percorso della superstrada, e completamente circondato dai piazzali dei parcheggi. Ovvero, niente più e niente meno, innovazioni merceologiche a parte, della struttura spaziale dello shopping mall, così come infesta valli e pianure da un paio di generazioni. Non so se l’outlet e la città degli affari che gli sta attorno si faranno (c’è opposizione, pare pure ovvio), ma per l’ennesima volta sembra perso l’autobus del ricondurre almeno sul versante dell’organizzazione spaziale queste strutture a qualcosa di meno rozzo. Perché possiamo anche tralasciare, come non vanno tralasciati, il Parco Ticino, l’inquinamento da traffico, la saldatura della conurbazione, l’impermeabilizzazione dei suoli, lo stravolgimento della viabilità locale, la realizzazione di una “muraglia” a rafforzare la cesura della superstrada. Anche scordandosi tutto questo, resta la miseria spaziale dei cosiddetti mixed use assai poco misti, delle cittadelle che non sono città vive, ma somma sterile di ambienti chiusi e terre di nessuno. Provate a passeggiare, per esempio di Natale pomeriggio, dentro a una di queste cittadelle, e avrete la vera sensazione del genius loci. Provate.

Nota: come accennato nel testo, è disponibile un'ottima serie di articoli sul Malpensa Business Park, al sito di Varese News online; le informazioni dei promotori e il suggestivo Virtual Tour stanno al sito della Insviluppo; per il senso generale della pianificazione per lo sviluppo del bacino intercomunale di Malpensa, c'è un bell'articolo di Roberto Busi e Giovanna Fossa su Area Vasta 6/7 2003 (fb)

Sono trascorsi oltre trent'anni da quando Antonio Cederna denunciò, dalle colonne del Corriere della Sera, l'inutilità del tracciato autostradale che avrebbe dovuto collegare Trento a Vicenza e Rovigo. Un tracciato voluto dai grandi democristiani dell'epoca, un'autostrada denominata A31, che, per l'opinione pubblica, divenne Pi.Ru.Bi, ovvero l'autostrada di Piccoli (Trento), Rumor (Vicenza), Bisaglia (Rovigo). L'infrastruttura, grazie alle campagne giornalistiche e all'aperta opposizione delle maggiori associazioni ambientaliste, in particolare Wwf ed Italia Nostra, che la definirono: «l'autostrada meno utile d'Italia» e «mostro ecologico», venne realizzata per un breve tratto di neppure 40 km, tra Vicenza e Piovene-Rocchetta, all'imbocco della Val d'Astico.

Il fantasma d'asfalto

Negli ultimi anni se n'è tornato a parlare e questo fantasma d'asfalto, inesistente per la pianificazione fino alla metà degli anni Novanta, aveva assunto una consistenza sempre maggiore, un coltello brandito, pronto a colpire in ambiti di grande sensibilità ambientale, a polverizzare gli elementi armonici di un paesaggio storico costruito dalla prima centuriazione romana ed esploso in quella dimensione di bellezza unica che è il contesto delle ville palladiane. Il coltello della Pi.Ru.Bi taglierà il territorio, spalmando un po' ovunque la marmellata del traffico e dell'urbanizzazione, in un ambito regionale che, dal 1961 ad oggi, ha visto cambiamenti nelle destinazioni agricole quali mai si erano verificati in 2.000 anni di attenta agricoltura. Il tessuto ambientale del basso veneto è stato stravolto, nel solo 2001, da capannoni che, messi in fila, andrebbero ben oltre il tracciato dell'autostrada già in esercizio, una linea di 42 km, una superficie di 2.450.000 metri quadrati.

La novena per la riproposta della A31 comincia nel 1995, quando viene presentato un nuovo progetto, venduto come il solo, vero catalizzatore per lo sviluppo del sud del Veneto. Molti traffici attorno al progetto, con l'entusiasmo e l'adesione della giunta regionale Galan di centro-destra. La risorta autostrada della Valdastico sembra poter sfidare ogni attento esame urbanistico, storico e ambientale, ma ecco la pioggia fredda per i sostenitori dell'infrastruttura (industriali veneti, giunta Galan e Società per l'Autostrada Brescia-Padova): il ministero dell'ambiente ed il ministero dei beni culturali, nel 2001, esprimono parere negativo.

Nel 2002 il progetto viene leggermente modificato, non nella sostanza del tracciato ed ecco subito scattare il parere positivo da parte del ministero dell'ambiente, mentre il ministero dei beni culturali ribadisce il proprio dissenso.

Nel 2003 Berlusconi approva il progetto con un decreto, onde superare la discordia e il contrasto tra i due ministeri.

Le associazioni ambientaliste, i comitati locali per la difesa del territorio, sostenuti, come negli anni Settanta, da Wwf ed Italia Nostra (ma anche da Our Europe e dall'inglese Landmark Trust) fanno ricorso contro un'infrastruttura non prevista dalla pianificazione, una vera forzatura nel disegno della rete di collegamenti tra le Alpi e la pianura, venduta come completamento di un tratto autostradale esistente. La realtà è ben diversa: il tratto esistente, tra Vicenza e Piovene-Rocchetta è di soli 38 chilometri, mentre il tracciato nel suo insieme ne misura 128. Si tratterebbe di realizzare i 90 chilometri mancanti e non mi sembra proprio che si possa parlare di semplice completamento.

I danni ambientali sarebbero irreversibili, in particolare nel tratto della bassa vicentina, mentre nel tratto trentino si sommerebbero problematiche ambientali con problematiche apparentemente irrisolvibili del traffico pesante.

In questo contesto, ambientalisti e comitati civici del Basso Vicentino e del Trentino si sono trovati a Venezia nell'auditorium dell'università di Ca' Foscari a Venezia, in Campo Santa Margherita, per definire gli impatti significativi dell'infrastruttura.

Nel tratto vicentino l'autostrada lambirebbe 9 ville venete, distruggerebbe intere aree agricole e traccerebbe un solco tra gli ambiti naturali dei Colli Berici e dei Colli Euganei, cancellando il sistema ecotonale che connette le due aree naturali, fino ad ora non ancora frammentate, che mantengono un disegno di landscape ecology sublime, nel suo intrecciarsi con l'oculata presenza umana delle ville del XVI- XVIII secolo. Se si vuole capire l'ecologia del paesaggio, esaltarsi nei meccanismi della percezione biosemiotica, se si vuole coltivare il proprio ecofield, il proprio ambiente soggettivo o Umwelt, si deve passeggiare tra i Berici e gli Euganei. Potete anche usare un manualetto per fare questo, il bel libro di Almo Farina «Verso una scienza del paesaggio», pubblicato lo scorso anno dall'editore bolognese Alberto Perdisa. Se volete poi capire cosa succederebbe se la A31 passasse a cuneo tra i Berici e gli Euganei dovete leggervi un testo che, se richiesto, la provincia di Roma vi invia a casa gratis, un testo che consiglio a tutti per intendere le problematiche ambientali di questo scontro titanico tra uomo e natura, a danno in particolare della fauna selvatica, il lavoro di Corrado Battisti: «Frammentazione ambientale, connettività e reti ecologiche».

I comitati hanno studiato a fondo la valutazione di impatto ambientale presentata dal proponente, la Società che gestisce il tratto autostradale da Brescia a Padova, rilevando lacune ed errori, sia procedurali che metodologici: il tracciato autostradale non viene considerato nella sua interezza, non vengono correttamente posizionate le aree di cava dalle quali si estrarranno i materiali lapidei per la costruzione, in una situazione di sfruttamento del bacino che già si colloca al limite della sostenibilità, non esiste un'adeguata valutazione di alcuni strumenti della pianificazione, dal Piano di Sviluppo Rurale al Piano di Sviluppo Regionale, non c'è un'analisi di landscape ecology per un territorio che è significativamente segnato da un formidabile paesaggio culturale ben armonizzato con resti di vegetazione e culture agrarie.

Gelsi e salici addio

L'ambiente attraversato dalla A31 è un'enciclopedia di eventi speciali, dalle opere idrauliche al paesaggio culturale, ha sostenuto lo studioso inglese Richard Haslam. Come è possibile inserirvi i caselli? Come potrà, questo ambiente, fare a meno di gelsi e di salici? Le ville venete esistono dal 1512 (a Vicenza tempo fa c'è stata una mostra), come si può consentire che un'autostrada distrugga questa cultura? Si predica il restauro conservativo per il paesaggio culturale e lo si va invece a colpire a morte con un'infrastruttura inutile. Non è sufficiente infatti, come sostiene il prof. Foscari, difendere le ville venete limitandosi ai confini dei giardini. « Il faut cultiver notre jardin», diceva Voltaire.

Il presidente della sezione di Italia Nostra di Medio e Basso Vicentino ha rilevato come faccia una certa impressione che su questi temi domini il silenzio degli intellettuali, un silenzio forse barattato con la classe politica, un silenzio-assenso che pone gli intellettuali in una condizione di sudditanza del potere. Il che succede alle volte anche all'interno dell'Università, ha sostenuto il rettore di Ca' Foscari, Pier Francesco Ghetti.

Non tutti gli intellettuali tacciono però. Emanuele Curzel, uno storico del Medioevo attento ai particolari, all'informazione e al ruolo della stampa del suo Trentino, ha ricordato come non sia corretto sostenere che la Valdastico sarebbe la soluzione per il problema del traffico in Valsugana, valle particolarmente segnata dalla circolazione automobilistica e dal traffico pesante delle merci. Nel 1995, quando si rilanciò la A31, si stimava che la Pi.Ru.Bi avrebbe risolto parte del traffico della Valsugana. Come può essere possibile, se il suo contributo di alleggerimento sarebbe solo di 2-3.000 veicoli/giorno su di un totale, in Valsugana, di 13-15.000? Post hoc ergo propter hoc. Come può essere che la A31 risolva i problemi della Valsugana, dal momento che questa resterebbe una camera a gas per via del traffico pesante?

Nel 2000 si aggiustano i conti e si dice che la A31 sottrarrà 25.000 veicoli alla Valsugana. Lo studio si dice prodotto dalla Ata di Arco di Trento, o almeno così sostengono i giornali, ma poi si scopre che la provincia autonoma di Trento non ha mai commissionato questo studio alla Ata engeneering.

Uno studio vero è invece quello che, nel 2002, la provincia di Trento commissiona alla Tps di Perugia, uno studio che focalizza il flusso di traffico in veicoli equivalenti (un veicolo pesante eguale a 2,5 veicoli leggeri): a Divezzano, vicino a Trento, senza la A31 ci sarebbero 44.000 veicoli, con la A31 i veicoli equivalenti sarebbero 8-10.000 in meno.

Riparte il ritornello: la Pi.Ru.Bi salva la Valsugana.

La banda riparte con la stessa musica nell'ottobre 2004, quando anche la giunta di centro-sinistra della provincia autonoma di Trento scende in campo in appoggio alla A31, sparandola grossa. L'assessore Grisenti dichiara che la Valdastico toglierà dalla Valsugana circa 8.000 veicoli pesanti. Purtroppo si tratta di veicoli-equivalenti, non pesanti. La provincia si dice anche disposta a finanziare in parte la A31, sostenendo che un tale impegno segna l'attenzione dell'amministrazione provinciale per la Valsugana. Gli amministratori della provincia di Trento sembrano inoltre dimenticare alcune cose: che la Convenzione delle Alpi non prevede più infrastrutture stradali, anche se si insiste sul fatto che la realizzazione della A31 sarebbe un completamento e che la provincia di Bolzano è contraria alla ripresa del tracciato della Valdastico per l'insostenibilità della pressione del traffico nelle valli dell'Adige, dell'Isarco e dell'Inn. La provincia di Trento dovrebbe anche valutare cosa ne sarebbe della tangenziale di Trento, nel caso in cui vi sfociasse anche la Valdastico.

I risparmi di Lunardi

Erasmo Venosi ha avuto modo di approfondire il modello finanziario e contrattuale per la realizzazione delle opere pubbliche e ne parla mettendo tutti in guardia: il committente pubblico si spoglia della propria funzione e la delega al general contractor. Lunardi dice che così si abbassano i costi, ma come è possibile se i costi della Tav tra Torino e Milano sono cresciuti del 650%?

Sull'altro fronte, Bersani dice che la legge obbiettivo è un flop e che il centrosinistra, se andrà al potere, varerà ancora più opere pubbliche del centrodestra. Al momento dominano Infrastrutture spa e Patrimonio spa, finanziatori dell'Alta velocità e del ponte sullo stretto di Messina al 60%. Questa finanza di progetto che Venosi chiama «alle vongole» produrrà buchi enormi a causa di una falsa impostazione privatistica. Restano anche seri dubbi sulla possibilità che la gente riesca ad intascare qualcosa dagli espropri e dagli indennizzi. Insomma, tutte queste opere, compresa la A31, non servono ad altro che a mettere in moto un vero mulinello di soldi, lasciando le perdite alle future generazioni.

Considerata quindi dal punto di vista dei trasporti e del traffico, dal punto di vista storico-ambientale e da quello economico, questo tentativo di resurrezione macabra della Pi.Ru.Bi sembra la riedizione di una vecchia commedia di spettri.

Finalmente, il 31 maggio di quest'anno la svolta: con una sentenza del Tar Veneto che gli ambientalisti definiscono storica, vengono accolti i ricorsi delle associazioni ecologiste e dei comitati territoriali e il progetto di resuscitare la Pi.Ru.Bi è bocciato. E speriamo che non se ne parli più.

01 Luglio 2005: Via libera dal TAR al progetto

Da TorinoCronaca del 1 luglio 2005, un articolo di Claudio Neve:

IVREA - Millenium Canavese si farà. Il grande parco divertimenti, destinato a rivaleggiare con Gardaland e Mirabilandia, sorgerà nella piana di Albiano d’Ivrea, proprio come progettato da Mediapolis, la società che da anni porta avanti l’investimento.

Il via libera è arrivato ieri dal Tar, il tribunale amministrativo regionale, che ha respinto il ricorso presentato un anno fa dalle associazioni ambientaliste Legambiente, Italia Nostra e WWF, guidate dal Fai (Fondo per l’Ambiente Italiano) che della battaglia contro il colosso del divertimento ha fatto una delle proprie bandiere. Gli ambientalisti, infatti, si oppongono al progetto sostenendo che Millenium (questo per ora il nome del futuro parco) «presenta un alto rischio idrogeologico che la struttura porterebbe una volta costruita» e che «avrà un catastrofico impatto ambientale» su un paesaggio ritenuto unico come quello della Piana di Albiano, dominata dal castello di Masino. Motivazioni respinte dal Tar con una sentenza motivata in 140 pagine nelle quali si sostiene che il parco tematico «non produrrebbe un impatto ambientale tale da dover bloccare il progetto». Il Tar ha anche respinto l’istanza di rischio idrogeologico, sollevato soprattutto da Legambiente e WWF, preoccupate delle conseguenze in caso di alluvione.

Così come emerso nei mesi scorsi, ottenuto il via libera dal Tar, con ogni probabilità nel prossimo autunno verranno affidate le concessioni edilizie. I lavori potrebbero essere terminati in un paio d’anni e la struttura inaugurata già entro il 2008. Millenium Canavese sorgerà su un’area supeiore ai 140 mila metri quadrati, con investimenti di oltre 150 milioni di euro. Darà lavoro a circa 1.550 persone e sarà in grado di attrarre oltre 2 milioni di visitatori all’anno che, tra le altre cose, potranno divertirsi con le attrazioni meccaniche (montagne russe e giostre varie) all’aperto e al chiuso, guardare un film in una delle sale del multiplex, fare acquisti nel centro commerciale, visitare il museo della musica. Molto di più di quanto offra Gardaland, l’attuale numero uno in Italia.

Nota: sul sito Parksmania tutte le varie informazioni e commenti sul progetto; qui su Eddyburg l'articolo sul Millennium Canavese ; numerosi interventi - compresa una lettera di Giulia Crespi Mozzoni - sul sito di Beppe Grillo (f.b.)

Cremona: l’autostrada Cremona - Mantova in ...23 anni! E ci si ferma subito: all’ “osteria” di Tornata

L’Europa conferma, intanto, che nessun corridoio europeo passerà dalla Lombardia.

di Ezio Corradi*

Annunciato a fine marzo nel bel mezzo della campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio Regionale della Lombardia del 3 e 4 aprile 2005, in questi giorni è apparso sul sito www.ilspa.it il bando di gara per la concessione di costruzione e gestione dell’autostrada regionale “Integrazione del sistema transpadano Direttrice Cremona-Mantova”. Un progetto dal valore di 755-770 milioni di Euro (Iva esclusa, naturalmente): in termini di vecchie lire circa 2.000 miliardi!

Ma, nonostante le speranze cremonesi si tratterà di una autostrada monca e lunga da costruire: 23 anni e addirittura in 3 fasi.

L’autostrada Cremona-Mantova lunga 70 km sarà così completata alla media record di 3,5 km-anno. Meglio la performance della Salerno-Reggio Calabria dove in 7 anni sono stati costruiti 49 km di nuova autostrada (dati citati da Guglielmo Epifani Segretario Generale della CGIL nella trasmissione “Ballarò” del 3 maggio 2005).

E’ così che appare subito l’ autostrada Cremona-Tornata.

Si, avete letto bene: dopo i roboanti annunci dei nostri politici regionali, provinciali e gestori delle autostrade, che da Cremona a Mantova sarebbe passato un tratto dell’itinerario autostradale da Barcellona a Kiev, fatto passare come Corridoio 5, ci si ferma subito alla prima osteria: a quella di Tornata.

Va ricordato che è stata sufficiente una lettera indirizzata dai cittadini dei Comitati cremonesi e mantovani contro le autostrade al Parlamento europeo e al Presidente dell’UE Prodi per ricevere dalla Commissione Trasporti Europea e per conto della stessa Presidenza dell’Unione Europea (Prodi e Loyola de Palacio) ben due risposte identiche: nessun corridoio europeo passerà dalla Lombardia e la conferma che la politica dei trasporti dell’Unione Europea preferisce mezzi di trasporto meno inquinanti come le ferrovie e le autostrade del mare.

Così la Cremona-Tornata, importante tassello della “fase 1” del reticolo autostradale transpadano (del tutto sconosciuto ai trattati di politica dei trasporti e mai previsto da alcun Piano Generale o Regionale dei Trasporti) dovrà essere realizzata entro tre anni dall’affidamento della concessione autostradale assieme alle tratte mantovane, distinte nelle “sottofasi 1A, 1B, 1C e 1D” che vanno dalla variante ex SS 62 nel Comune di Virgilio, all’asse interurbano di Mantova e da qui alla variante della exSS10 nei territori di Curtatone e Castelucchio.

E il resto del tracciato autostradale? Verrà realizzato a rate (se ci sarà traffico): la “fase 2” da Tornata a Castellucchio dovrà essere realizzata entro 15 anni dall’entrata in esercizio della “fase 1”. La “fase 3” dal casello di Castellucchio alla variante della ex SS 62 in Comune di Virgilio dovrà essere realizzata entro 20 anni dall’entrata in esercizio della prima “fase 1”. La Cremona-Mantova sarà un esempio di autostrada transgenerazionale: talmente lunga da fare nel tempo, che verrà tramandata da padre in figlio!

E l’Europa e la frontiera dell’Est trampolino di lancio per la Cina? Beh, non si può avere tutto e subito! Per ora le forze politiche e sociali che hanno sponsorizzato l’autostrada quale indispensabile infrastruttura per lanciare lo sviluppo e agganciare rapidamente l’Europa e i traffici dell’Est, devono accontentarsi di avviare una programmazione ultraventennale per i loro investimenti. In tempi di economia globalizzata e di scenari in rapida trasformazione, i nostri imprenditori dovranno attendere 23 anni per vedere realizzata la loro aspirazione e prepararsi a lasciare in eredità ai loro successori anche un testamento con precisi ordini di servizio “a futura memoria” per spiegare “il perché e il che farne” di questa infrastruttura voluta dal pensatoio del Partito Trasversale Cremonese delle Grandi Opere.

Sì il pensatoio che vuole la bretella autostradale da Castelvetro a Cavatigozzi comprensiva di un nuovo ponte sul Po e di un ponte sul Canale navigabile, che vuole le autostrade Tirreno-Brennero e Brescia-Bergamo-Milano, due centrali turbogas a Cremona e a Spinadesco, poli logistici che sconvolgono la viabilità come a Soresina, nuovi poli industriali lontani dalle ferrovie come a Cicognolo, Cappella Cantone, San Giovanni in Croce, nuove discariche, depuratori per liquidi pericolosi, ecc., ecc.. Il tutto alla modica cifra di oltre 8.000 miliardi di vecchie lire di investimenti: i soliti bruscolini!

Nemmeno la pianificazione economica sovietica è mai riuscita a tanto. Con tutti i difetti, e furono davvero tanti, nell’ ex URSS la pianificazione almeno era “solo” quinquennale!

Evidentemente il passaggio dalla politica dello statalismo all’economia del libero mercato non vale ancora per i nuovi politici: i diessini-expci che gestivano il potere nelle province di Cremona e Mantova e nella Società Autostrade Centro Padane quando, negli anni 2002-2003, venne presentato il progetto dell’ ”Autostrada Cremona-Mantova tratto lombardo del Corridoio 5” prontamente proposto non appena presentata la “Legge per le autostrade regionali” dal Governo di centrodestra della Regione Lombardia.

Ma il bando di gara presenta alcune gustose chicche: in caso di assenza di partecipanti alla gara l’amministrazione regionale lombarda si riserva la facoltà di procedere all’aggiudicazione della concessione anche in presenza della offerta del solo promotore, cioè della Società Cento Padane.

Altro elemento rilevante è che il bando del quale se ne è parlato a fine marzo 2005 prevede la presentazione delle domande di partecipazione entro le ore 12 del 7 giugno 2005: un termine che sinceramente ci sembra troppo breve per una gara europea. Infine l’elemento che suscita più di una ilare perplessità è la durata della concessione che “avrà una durata massima di 64 anni”: una durata battuta solo dal ponte di Messina per il quale era prevista una concessione lunga 100 anni!

Si vuole forse precostituire la perennità della gestione della Società Centro Padane per la A21 Brescia-Cremona-Piacenza e delle bretelle autostradali Castelvetro-Cavatigozzi e Cremona-Mantova?

Con queste premesse, la ripresa economica e il rilancio economico della nostra provincia più che guardare al prossimo futuro, diventano più che mai futuribili, lanciate come sono su una prospettiva di lungo corso che guarda “ambiziosamente” addirittura al traguardo del primo quarto del nuovo secolo, verso il 2025! L’unica certezza è che la realizzazione di questi progetti porteranno alla devastazione dell’ambiente, alla distruzione di floride aziende industriali e imprese agricole oltre che la prospettiva che Il Grana Padano e gli altri prodotti della nostra terra siano arricchiti di nuove polveri e di PM10: possibile che nessuno abbia nulla da dire di fronte a questi scempi?

* Ezio Corradi - Ambiente Territorio Società - Coordinamento - Comitati contro le autostrade e le centrali turbogas

Nota: qui il sito di notizie locali il Vascello; qui il contributo di Eddyburg al tema dell'autostrada ACME (f.b.)

Quando Dostojewski diceva che “la bellezza salverà il mondo” si riferiva all’aspirazione alla bellezza dato che poi aggiungeva che essa è un enigma ed il Creatore parla per enigmi. Alla stessa stregua per quanto riguarda la bellezza di natura la poetessa americana Emily Dickinson in pochi versi illuminanti affermava: “La bellezza non ha causa: esiste. Inseguila e sparisce. Non inseguirla e rimane”.

I due grandi scrittori sottolineavano la velleità del tentativo di definire la “bellezza” e la sua precarietà dato l’instabile equilibrio tra l’oggettivo ed il soggettivo. Infatti questo termine più che denotare un concetto si riferisce ad una costellazione di concetti. E tuttavia ogni epoca ed ogni cultura ha sempre tentato di definirne una.

Quanto sia articolata e complessa la questione appare chiaro quando tutto questo si applica alla città perchè in questo caso si intreccia con il potere. La città è sempre stata il luogo fisico dei poteri fin dalla sua nascita e ciascuno di questi ha sempre cercato di imporre una sua bellezza come segno della sua presenza e della sua potenza. Come in tutti i campi anche in quello estetico la cultura dominante cerca di far valere una sua visione ed un suo gusto e tanto più il potere è autocratico e gerarchico tanto più si hanno concezioni rigide e assolutiste. Per le antiche città guerriere bella era anche la guerra e belli i monumenti che celebravano le gesta degli eroi e le vittorie.

La grande teoria del Bello, dove tutto veniva definito in base a rapporti geometrico matematici, derivata dalla cultura greco romana militarista tesa alla ricerca di un ideale assoluto, ha dominato la cultura ufficiale occidentale per circa duemila anni portando in sé un germe di necrofilia e staticità.

Nel Rinascimento questa ricerca del bello ideale diventò la finalità stessa del governo della città e ne decretò al tempo stesso la grandezza, da cui l’ importanza data ai grandi artisti in quel periodo. Da allora in vario modo il concetto di decoro urbano ha risentito di questa tradizione.

In epoca moderna, nel tentativo di sganciare il bello dal potere borghese, si è cercato di minarne i principi. Funzionalismo e razionalismo non hanno forse messo in discussione la prospettiva centrale e la simmetria? Questo tentativo teso a trovare una bellezza più “democratica” non sempre ha funzionato. Anzi, a parte i movimenti del primo razionalismo, ha prodotto semplificazioni e riduzionismi massificanti, in particolare dove regimi totalitari hanno sfruttato la rottura con la tradizione e l’aspirazione al futuro per produrre forme oppressive, banali e ossessive.

Oggi il libero mercato, dove il potere del denaro in sé finisce per prevalere sui valori umanistici, ha provocato dei veri disastri in assenza di regole. Questa “deregulation” ha prodotto l’arbitrio di poteri, visibili e invisibili, senza etica e senza estetica, dominati dalla brama di apparire ed asserviti ad una tecnologia che è diventata essa stessa un potere autocratico. Così il concetto di bellezza si è confuso con quello di spettacolarizzazione di quest’ultima che nel contempo ha ingigantito le sue possibilità. La globalizzazione e lo sviluppo dei media hanno determinato la omologazione estetica verso il basso di tutte le aree urbane di recente formazione.

Questo si nota in particolare a Milano, città degli affari e dell’economia rampante. Dopo aver subito uno sviluppo caotico negli anni 60 e 70, che ha generato il problema delle periferie degradate e da riqualificare, negli ultimi anni invece di rispondere alle esigenze di qualità ed identità, concetti che si sposano anche con la tradizione, il contesto territoriale e la valorizzazione del luogo, ha voluto seguire, con i progetti delle grandi opere, la internazionalizzazione di questa bellezza dell’apparire. Ciò contrasta con una estetica dei veri bisogni dell’abitare e crea nuovi problemi anziché risolvere i vecchi, soprattutto quelli legati al traffico, produce anche nuovi stimoli ma senza creare le occasioni per soddisfarli. Si genera così una città schizogena dove si perde la capacità di identificarsi con un luogo e di sentirlo amico, così tesi alla ricerca di nuovi spettacoli si finisce per perdere il senso del proprio vivere quotidiano. È anche per questo motivo che Milano continua a perdere abitanti, soprattutto giovani.

La scelta di spingere in senso verticistico la costruzione dei nuovi edifici per le aree della ex Fiera, di Garibaldi-Repubblica e per le nuove sedi regionali e comunali è generata da questo spirito che è dominatorio e colonialistico. Tra l’altro si reclutano con concorsi a preselezione, chiusi così alle nuove leve, famosi studi di architetti stranieri (come se l’Italia fosse terra di sottosviluppo culturale) per garantirsi l’approvazione mediatica ed un consenso acritico.

Quando il sindaco Albertini si vanta e scrive a proposito del concorso dell’ex Fiera, vinto dal gruppo Hadid, Isozaki e Libeskind che ha intitolato, guarda caso, il suo progetto “Turris Babel”, che finalmente Milano è ritornata ai bei tempi dei Giò Ponti, del boom economico quando si credeva nello sviluppo e nel futuro, gli si potrebbe rispondere con quanto era emerso in un dibattito del 1954 intitolato “Il problema dei grattacieli di Milano”.

Cinquant’anni fa, proprio mentre si costruiva il grattacielo Pirelli e si ultimava la Torre Velasca, il Collegio degli Ingegneri di Milano oganizzava un convegno con i grandi costruttori e progettisti dell’epoca (i Clerici, i Cecchi, i Gadola...) per uno scambio di opinioni su quella “moda” delle costruzioni in altezza. Nessuno dei relatori risultò acriticamente favorevole anche se ne ammetteva la possibilità tecnologica. In particolare il prof. Chiodi affermava: “A New York la fungaia di grattacieli è sorta in un primo tempo per difetto di regolamentazione, per un eccesso di libertà costruttiva e per condizioni particolarissime. La punta di Manhattan è il centro degli affari costretto e circondato da due bracci di mare ... Oggi però anche a New York si lamentano delle conseguenze di questi eccessi edilizi. A Milano le condizioni non sono le stesse: Milano non ha quelle dimensioni ed è una città di pianura. Le necessità tipiche di New York non sussistono”. Come si può notare anche cinquant’anni fa le considerazioni che le persone di buon senso facevano circa la smania di costruire grattacieli a Milano erano improntate alla critica di voler stravolgere la identità milanese per copiare una realtà newyorkese che aveva senso solo là. Perché dunque oggi l’amministrazione milanese insiste su questa strada per di più senza un piano direttore e in modo episodico e dilettantistico? Oltre alla evidente volontà di accontentare potenti gruppi economici, come si diceva, c’è anche l’insensibilità estetica, o meglio una cattiva educazione estetica che confonde bellezza con grandezza e questo è sempre accaduto in tutte le epoche da parte di un potere che vuole imporre la sua ingombrante presenza anche alle generazioni future che si troveranno a dover gestire queste scelte. Si sa che ai tempi dell’antica Roma ogni città della provincia cercava di imitare la capitale dell’impero, con il circo, le terme, gli archi trionfali ed il foro così da sovrapporsi alla cultura ed alle usanze locali.

Ma la bellezza e l’interesse appartengono a quelle città che hanno mantenuto la loro identità legata al territorio ed alla vita che da lì si sviluppa. Infatti, come in psicologia tutti sanno che non si può essere se stessi se non si parte dalle proprie origini, così anche per quanto riguarda le città e l’estetica non si ha piena maturazione se non si prescinde dall’invidia del potere e non si accede al rispetto per la propria specificità.

Riprendendo poi in considerazione il progetto vincitore per l’area ex Fiera, firmato dalle star internazionali citate, appare evidente la sfida tecnologica e l’esibizionismo propagandistico soprattutto nell’edificio “storto”: che oggi sia possibile anche sfidare, in apparenza, le leggi della statica non è una novità, del resto nei parchi dei divertimenti abbiamo esempi anche più clamorosi, ma oggi di questi segni “forti” siamo saturi e forse era meglio limitarsi tanto più che questo rende ancora più evidente il carattere commerciale e pubblicitario di questi edifici, con poi tutti i problemi urbanistici, legati principalmente alla congestione, che renderanno ancora più in vivibile la nostra città.

Primi articoli pubblicati su NOVARA OGGI dedicati alla realizzazione del parco acquatico, che stando alle dichiarazioni della proprietà. dovrebbe aprire addirittura nella stagione 2005.

Nutriamo fortissimi dubbi, a meno che non si voglia presentare al pubblico una struttura ancora fortemente deficitaria, con tutti i rischi che ne conseguono in termini di immagine e soddisfazione del cliente.

NOVARA OGGI

articolo a cura di Sabrina Maio

VICOLUNGO - A metà dell’opera il parco acquatico ‘Ondaland’ di Vicolungo, primo atto del parco divertimenti a tema da 260 mila metri quadrati che sarà pronto per il 2008. I lavori sono iniziati solamente lo scorso mese di ottobre, ma l’apertura al pubblico è già prevista per la stagione estiva 2005. Pochi i mesi di lavoro necessari, dato che la maggior parte delle attrazioni sono pre-costituite e vengono assemblate sul posto, dunque di veloce realizzazione. «Sperimenteremo per due stagioni il parco acquatico – spiega Ennio Coda, presidente della TLT, società che opera nell’ambito della realizzazione e gestione del settore dei parchi a tema e del turismo, che si occupa dell’intero progetto e dell’attuale realizzazione del primo lotto del nuovo parco di Vicolungo – nel frattempo metteremo in piedi dei progetti ex novo con le attrazioni più all’avanguardia come il cinema a quattro dimensioni con schermo a 360 gradi, con tutti gli effetti del movimento, dove sembrerà di essere parte della proiezione, attrazioni varie e tutto ciò che nei prossimi anni sarà inventato per la tematizzazione del parco che sarà completato, per lotti, nel 2008».

Tornando a ‘Ondaland’, per voce di Coda si apprende che il costo stimato dell’opera si aggira tra i 20 e i 25 milioni di euro, che darà lavoro nei mesi estivi in cui sarà aperto al pubblico mediamente ad 80 persone e che alcune figure professionali, come quelle dei bagnini, saranno ricercate esclusivamente all’interno della provincia di Novara. In base a studi effettuati dalla società risulta che l’utenza potenziale rappresenta circa 1/3 della popolazione italiana, che stimata in circa 55 milioni, vale a dire poco meno di 20 milioni di persone che potrebbero recarsi in questa porzione di territorio novarese. In quanto alla scelta di investire in questa zona, anche per la società di Coda, così come lo è stato per la Neinver che a Vicolungo ha costruito l’outlet, è stato determinante il fatto della strategicità della sua ubicazione geografica, crocevia tra l’autostrada A26 Voltri-Gravellona e la A4 Milano-Torino, vicina a Milano, Torino, Genova, e agli aeroporti di Malpensa e Caselle.

NOVARA OGGI

Articolo a cura di Sabrina Maio

VICOLUNGO - Il parco acquatico è un luogo di svago e divertimento, paragonabile ad un grande luna-park, dove però tutte le attrazioni hanno come principale componente l’acqua. Grandi piscine con le onde, scivoli su acqua con percorsi più o meno tortuosi, percorsi di navigazione su gommoni, trampolini per tuffi, piscine con idromassaggio, giochi d’acqua per bambini, fontane e zone di animazione acquatica, il tutto contornato da aree verdi e punti ristoro. Il progetto del parco acquatico di Vicolungo si estende su una superficie di circa 150 mila metri quadrati (compresi i parcheggi) e prevede un fabbricato d’ingresso di circa 1700 mq dove troveranno posto uffici, casse automatiche, infermerie per soccorso di primo intervento, boutique, un bar, spogliatoi, servizi igienici, docce con acqua calda, cabine ed armadietti custoditi. Una struttura coperta di 800 mq sarà invece attrezzata per un ristorante self service, mentre una seconda di 2000 mq per la ristorazione vera e propria, ma ci saranno anche due chioschi bar adibiti a piccola ristorazione, gelateria, frulleria e yogurteria. Per le ore notturne è invece prevista una tensostruttura adibita a discoteca che sarà attivata, però, a partire dalla seconda stagione. E poi una serie di attrazioni acquatiche d’ultima generazione: una piscina da oltre 2000 mq dove, ogni 30 minuti preannunciate dal suono di una sirena, si alzeranno onde alte fino ad un metro e mezzo, una vasca a più curve della stessa dimensione dove arriveranno ben 12 tipi di scivoli differenti, con pendenze che vanno dall’8 al 20%, e che prevedono velocità e strumenti diversi per la discesa. Spazio anche per i più pigri con solarium, zona ‘acquadance’, corso d’acqua a movimento lento, dove ci si può lasciare trasportare dalla corrente seduti su una ciambella gonfiabile, una laguna di circa 1800 mq destinata ai bambini, con scivoli adatti all’età e spazi relax per i genitori che li accompagneranno. Un occhio di riguardo nei confronti dei disabili, per i quali sono stati studiati sistemi per il facile accesso alle strutture e all’acqua.

Nota: qui il sito Parksmania, con anche gli altri articoli sul caso; di seguito, per vedere meglio, il file PDF scaricabile con la mappa riportata sopra (f.b.)

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