CARAVAGGIO (Bergamo) — Poca mistica, molta politica e parecchi veleni. Da monumento alla misericordia mariana, il santuario del Sacro Fonte di Caravaggio dedicato alla Madonna — che per le cronache della fede cristiana qui apparve nell’anno 1432 — pare di questi tempi più il teatro di feroci dissidi di natura tutta terrena. E di terreno si tratta, per di più ubicato in territorio del comune confinante (e storico nemico di campanile), Misano Gera d'Adda.
Pomo della discordia, un' area di circa 160mila metri quadri proprio a ridosso del tempio, un territorio ricco di sorgive naturali e pregiate, che l'amministrazione guidata dalla sindachessa di fede padana Daisy Pirovano — figlia del presidente della Provincia di Bergamo Ettore Pirovano— avrebbe destinato via Pgt ad «area produttiva».
Apriti cielo, è battaglia aperta. A fronteggiare la prima cittadina leghista si è levato un esercito di paladini della tutela del territorio, in prima fila il Fai e quindi Legambiente, con l'appoggio dei vertici porporini della curia di Cremona, competente sul territorio caravaggino, che avrebbe sposato i timori degli oltre tremila cittadini e fedeli firmatari di un appello e sollecitato l’intervento della Sovrintendenza per i beni ambientali e paesaggistici per un risoluto (e risolutivo) «altolà».
L'area produttiva, denunciano preti, fedeli e ambientalisti, sorgerebbe a soli 600 metri dalle mura del santuario, danneggiando fortemente il luogo di culto, meta di migliaia di pellegrini, e distruggerebbe un'area di pregio naturalistico.
Sulle barricate sono saliti negli scorsi giorni anche i consiglieri regionali bergamaschi Gabriele Sola (Idv), Maurizio Martina e Mario Barboni (Pd), che hanno presentato un'interrogazione al governatore Formigoni e all'assessore al Territorio Daniele Belotti da Bergamo.
«Chiediamo al presidente e all'assessore— spiega Sola— se a loro avviso un insediamento di quelle dimensioni non sia incompatibile con le indicazioni del Piano territoriale regionale. Mi riferisco, in particolare, alla tutela dei luoghi di culto e di devozione popolare. Nei cassetti della Regione giace una proposta di legge d'iniziativa popolare che lo stesso assessore Belotti aveva firmato un paio d'anni fa». Il primo a sollevare la questione era stato un privato cittadino, Gianni Baruffi, che aveva poi allertato la compagine ambientalista.
«Considerata l'importanza naturalistica e ambientale della zona interessata — tuona Patrizio Dolcini, segretario locale di Legambiente — l'area una volta cementificata comprometterebbe seriamente il paesaggio adiacente al santuario. Il nostro sospetto è che si voglia creare un maxi centro logistico. E se qualcuno pensa che a togliere le castagne dal fuoco ci pensi l’amministrazione provinciale di Pirovano si sbaglia, non sono affari di famiglia».
E l' «affaire santuario» sembra abbia sollevato malumori anche nella giunta della rampolla leghista: giovedì scorso il vicesindaco Oscar Mor ha rassegnato le dimissioni, pare — secondo rumors— proprio perché contrario al «mostro di cemento» accanto al santuario.
postilla
la cosa che sorprende davvero (ci si sorprende ancora, e per fortuna), è che nessuno abbia ancora “blindato” spazi del genere rispetto alle classiche trasformazioni idiote e inutili, come quella raccontata nell’articolo, dell’usuale manciata di capannoni a tamponare un contingente problema di immagine consenso o bilancio. Edificazione che lì significa trasformazione brutale, affatto contingente, del tutto arbitraria, e che trascina con sé uno spazio/tempo enorme. Ovvero il tempo dell’eternità, e lo spazio del paesaggio che qui (l’avevano già notato anche i nostri antenati irsuto-gutturali, gli stessi a cui fa finta di riferirsi qualche volta il partito del sindaco) sacralizzando quell’area, che segna con la risorgiva il confine fra l’alta pianura asciutta e la bassa irrigua. Il grande Santuario è spettacolare anche perché come storicamente accade aggiunge l’immaginario cristiano a riti precedenti, occupando il medesimo spazio. Per chi non conosce l’area, basta dire che si colloca a cavallo delle ultime propaggini della strada Rivoltana (quella che a Milano comincia più o meno davanti alla Mondadori di Niemeyer), tra la linea delle Prealpi e la pianura agricola quasi intatta della cosiddetta Gera d’Adda. Uscendo dall’area metropolitana verso est, il paesaggio si “scopre” via via appunto scavalcando le schiere dei capannoni, che si diradano fino a lasciare spazio, verso Caravaggio e la linea di confine fra bassa bergamasca e alto cremasco, alla campagna aperta. Insomma per riassumere in due parole, si tratta di un caso analogo a quello già trattato qui, della lottizzazione di Montalino, dall’altra parte della megalopoli a sud del Po: una trasformazione micidiale, soprattutto perché inutile, che se proprio necessaria (cosa assai dubbia) potrebbe realizzarsi benissimo altrove, ad esempio coordinando meglio il sistema degli insediamenti produttivi a scala intercomunale. Visto che, come ci racconta l’articolo, la sindaco è figlia del presidente della Provincia, si mettano d’accordo a tavola su questa questione di coordinamento territoriale. In Italia (pardon, in padania) si risolve tutto in famiglia, no? (f.b.)
GENOVA - Si chiama "Mi Nova" e anche se sembra rimandare al nome di una stella è il più terrestre dei progetti. Il suo obiettivo è rivoluzionare il Nord ovest del Paese sfruttando le peculiarità geografiche dei territori coinvolti, il mare di Genova e la pianura padana che ha in Milano il suo baricentro, unite da un collegamento ferroviario ad alta velocità per far correre merci e passeggeri. "Mi Nova", infatti, è il prodotto della fusione fra Milano e Genova. Fusione non solo lessicale, ma economica e commerciale, e, in ultima ipotesi, anche amministrativa, se gli enti locali ne condivideranno l’operazione. A firmare il progetto Mi Nova è il presidente dell’autorità portuale di Genova, Luigi Merlo, a capo del primo scalo d’Italia (e secondo del Mediterraneo).
«Sono un uomo delle istituzioni, valuto con molta attenzione le implicazioni che possono arrivare da un’operazione di questo tipo - spiega Merlo a "Repubblica" - Ma ritengo che oggi ci siano tutte le condizioni per arrivare a una vera integrazione fra le due città, Milano e Genova, unite da interessi comuni e in grado di rappresentare, insieme, una grande realtà fatta di eccellenze e di peculiarità. Da tempo verifico con gli amministratori e i rappresentanti economici della Lombardia una sintonia sempre più forte sui progetti infrastrutturali e logistici che coinvolgono il porto di Genova. A questo punto ritengo che ci siano tutte le condizioni per fare un salto di qualità».
Il modello delle aggregazioni in chiave portuale si sta ormai affermando a livello internazionale. Non a caso, la Francia sta ipotizzando la "trasformazione" di Parigi in città portuale attraverso la creazione di un canale navigabile fino al porto di Le Havre, sul Mare del Nord. Mi Nova si muoverebbe sulla stessa scia, con un obiettivo temporale molto ravvicinato, vale a dire l’Expò 2015 di Milano. Le basi per un’integrazione sempre più spinta fra Genova e Milano, comunque, ci sono già. Basti pensare che gran parte della merce che ogni anno lascia la "Regione Logistica Milanese" (Milano e il suo hinterland) per l’estero utilizza il mare come suo mezzo di trasporto. Su 48 milioni di tonnellate di export di merce "milanese", 38 prendono la rotta del mare e 33 scelgono il porto di Genova. Da Genova a Milano, e ritorno, si spostano oltre un milione di container ogni anno. È come se il capoluogo lombardo, ogni giorno, producesse merce per riempire dodici grandi navi portacontainer. Oggi il porto viaggia al di sotto dei due milioni di container. Cifra che potrebbe triplicare, o quadruplicare con nuove infrastrutture (6-8 milioni).
La chiave di volta dell’operazione è infatti rappresentato dal collegamento ad alta velocità del "Terzo Valico dei Giovi", atteso da più di vent’anni e che, per la prima volta nelle scorse settimane, ha ricevuto il via libera dal Cipe con un finanziamento di oltre 700 milioni di euro. L’opera costa oltre sei miliardi di euro, ma l’impegno di questo governo, e di quelli che dovrebbero succedergli, è di sostenerne la realizzazione fino alla fine, prevista fra otto anni e quattro mesi. In parallelo dovrebbero proseguire i progetti di crescita infrastrutturale del porto di Genova, costo tre miliardi. Così, solo dal fronte mare, Mi Nova potrebbe muovere dieci miliardi di euro.
«È necessario creare le condizioni perché Genova e Milano diano vita a una vera e propria macrocittà, unita da un collegamento ferroviario veloce che è poi il primo anello della tratta internazionale Genova-Rotterdam - precisa Merlo - Mi Nova sarebbe la macrocittà del mare del Nord Italia». Una potenza economica e finanziaria che già oggi vale un fatturato di due miliardi e mezzo di euro (generati dai movimenti in entrata e in uscita dalla merce milanese nel porto di Genova) e che anche in chiave federalista rappresenterebbe una risposta alla voglia di affermazione dei territori. Non sfugge, infatti, al presidente Merlo, ex assessore ai Trasporti della Regione Liguria e uomo del Pd, che un progetto di questo tipo può anche avere una forte connotazione politica. «Più che di rottamatori, questo Paese avrebbe bisogno di ricostruttori - chiude il presidente dell’authority genovese - Credo che anche da un progetto come questo ci possano essere le condizioni per dare centralità, in chiave internazionale, all’economia del Nord del Paese».
postilla
anche se non ci si adegua al vecchio adagio andreottiano, del pensare male per indovinare, basta scorrere l’articolo per intuire che qualcosa proprio non va. La fascia meridionale della megalopoli padana è davvero una selvaggia prateria da occupare militarmente, col cavallo d’acciaio, i Buffalo Bill per sbrigare sbrigativamente le faccenduole locali, e dulcis in fundo un bel progetto autoritario di riorganizzazione amministrativa modellato su infrastrutture e flussi di merci?
Non basta il recente disastro sull’asse A4/TAV di alta e media pianura, con le costellazioni di scatoloni nati vuoti, di svincoli e cavalcavia a servizio esclusivo di arrancanti trattori più qualche disperata in abitino fluorescente?
Avevano ragione, quei grossi papaveri della stronzaggine nazionale, a liquidare a cavallo fra gli anni ’60 e ’70 come Libro dei Sogni il tentativo di programmare in qualche modo i grandi sviluppi territoriali! Loro si regolano perfettamente da soli, altro che grandi progetti, politica, democrazia, piani territoriali. Al massimo, quelli vengono dopo, magari cooptando qualche accademico carrierista di bocca buona. Per i superstiti, naturalmente (f.b.)
Morto qualcuno ne arriva un altro, meglio ancora se di fianco al cadavere e con la vedova che ridacchia compiaciuta accompagnandosi al nuovo venuto, con tanto di vestitino sexy all’ultima moda.
Fra la terra cronicamente smossa degli svincoli autostradali di Santhià giace freddo e rigido il corpo inanimato del sedicente Glam Mall (almeno quello era l’ultimo nome conosciuto prima della dipartita) chiuso fra la statale verso Biella e un po’ di capannoni che se non altro pare servano a qualcosa, oltre che da pista atterraggio corvi che neanche negli incubi di Edgar Allan Poe.
Sta lì, la salma scomposta del Glam Mall, da diversi anni, col suo inutile cordoncino ombelicale semi-attaccato all’autostrada, le porte aperte ad aspettare le carte di credito delle mogli di evasori suburbani che non arriveranno mai più. Nevermore.
Ma il pimpante progettista di tanti giorni perduti non si sente affatto vedovo inconsolabile: l’universo è grande, e anche la provincia di Torino a ben guardare non scherza, se si ragiona in termini strettamente di metro cubo. Basta scavalcare il ponte sulla Dora e avvicinarsi all’area metropolitana del capoluogo per trovare tanti metri quadrati dove sognare tanti metri cubi in più. Poi basta il tocco magico di un sindaco entusiasta (forse a suo tempo era entusiasta anche quello di Santhià per il Glam Mall, ma soprassediamo) e un nome fantasioso: Laguna Verde.
Cocktail vincente, il cui profumo irresistibile oltre a far dimenticare il caro estinto attira anche nuovi elegantoni al party. Nientepopodimeno che Giorgio Armani, ci informa una nota Ansa del 1 ottobre 2010:
Un megastore del 'lusso', capofila Armani, con all'interno le principali griffe del settore moda.
É la proposta a cui sta lavorando il Comune di Settimo Torinese nell'ambito di 'Laguna verde'. Lo ha anticipato oggi Aldo Corgiat, sindaco di Settimo. Il progetto e' di un 'fashion mall', che dovrebbe svilupparsi su una superficie di 40-60 mila metri quadrati. Entro la fine dell'anno, Armani dovrebbe presentare al Comune di Settimo Torinese la domanda per ottenere le autorizzazioni necessarie per avviare i lavori.
Evidentemente, là dove è fallito miseramente il “ glamour” di Santhià, qui a cavallo della Padana Superiore una manciata di chilometri più a ovest (saranno venti minuti semafori rossi compresi) dovrebbe trionfare il “ fashion” sponsorizzato da un altro sindaco, magari nei colori corvini marchio di fabbrica dello stilista evocato, nonché colore politico di gran voga su varie sfumature.
Magari il fashion ha qualche asso nella manica in più, perché invece della fabbrica di mangimi dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) avere di fronte qualcuno dei grattacieli stortignaccoli che si sono visti nel rendering dell’architetto presentato in pompa magna qualche anno fa?
Personalmente, come ribadisco spesso, non ho nulla contro la distribuzione moderna, o la riqualificazione urbana, o l’innovazione in generale. Sospetto invece dell’odore di patacca, anche quando è vago. E qui pare un pochino più che vago, anche senza parlare di concorrenza territoriale caricaturale, densificazione impanata alla milanese, e via discorrendo.
Per non farla troppo lunga, a chi si fosse perso le puntate precedenti, e si stesse chiedendo di cosa vado cianciando, consiglio vivamente di scorrere almeno i vecchi articoli sul Glam Mall e Laguna Verde.
In questo caso si può proprio dire che il cuore batte dove il dente duole. E duole molto a Ponte San Pietro, nel Bergamasco, dove si cerca di salvare un’area verde e una villa settecentesca, oppure a Pavia, con la bella piazza Castello che rischia di subire l’oltraggio di un parcheggio interrato, o ancora a Lonate Pozzolo, su cui incombe il progetto della terza pista di Malpensa, da fare sconvolgendo un’antica strada nella foresta. E per Milano c’è Villa Litta ad Affori da tener presente, con la sua meravigliosa biblioteca rionale insediata in stanze affrescate e magistralmente restaurate, in cui ci si sente protagonisti di un altro tempo, mentre gran parte del resto dell’antico palazzo è in condizioni di incomprensibile abbandono.
A metà del cammino i risultati sono parziali ma già interessanti, e si può comunque continuare a votare fino al 30 settembre per esprimere un’opinione e far sentire la propria voce. Sono 11mila le segnalazioni che riguardano la Lombardia arrivate al Fai per il censimento «I luoghi del cuore», 60mila a livello nazionale. E nella nostra regione i luoghi più amati da salvaguardare sono non solo quelli che piacciono per la loro bellezza ma soprattutto quelli minacciati da speculazioni che rischiano concretamente di stravolgere e snaturare per sempre siti storici e ambientali. I cittadini non vogliono e lo dicono così, mandando una segnalazione al Fai, impegnato nella quinta edizione del censimento.
Fino ad ora nella classifica lombarda al top delle segnalazioni si trovano l’Isolotto e l’area di Villa Mapelli Pozzi a Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo: il primo «Luogo del cuore», una delle ultime aree verdi del Comune, dove fioriscono otto specie di orchidee spontanee e si vorrebbero edificare 38 villette, ha raccolto 1.691 voti; il secondo, villa settecentesca che rischia di essere compromessa da un insediamento commerciale di 9mila metri quadrati, 1.668. Ma c’è anche, al terzo posto con 1.398 segnalazioni, il castello Visconteo di Pavia, di fronte al quale si vuole costruire un parcheggio interrato di tre piani. Mentre al quarto - 1.166 voti - c’è una strada poco conosciuta, antico collegamento tra Lonate e la frazione Tornavento, che si immerge in una foresta ancora intatta dove i mezzi a motore non hanno accesso: è via Gaggio, che potrebbe essere spazzata via dalla terza pista del vicino aeroporto.
Al quinto posto della classifica arriva anche Milano - 781 voti - con Villa Litta Modignani ad Affori, patrimonio cittadino da salvaguardare che necessita di interventi di recupero urgenti. E un altro scempio che potrebbe avvenire è la distruzione del romantico paesaggio di brughiera (gli inglesi se lo terrebbero ben stretto) compreso tra Senna Comasco, Capiago, Cantù e Orsenigo. Destinato a sparire se venisse realizzata la variante fuori terra del secondo lotto della nuova tangenziale di Como, dicono i cittadini, che hanno segnalato la volontà di mantenere intatto questo luogo naturale.
Chi vuole votare il "suo" posto del cuore lo può fare fino alla fine di settembre compilando le cartoline nelle sedi Fai o nelle filiali di Intesa San Paolo, partner in questa avventura, e imbucandole; ma anche visitando il sito, oppure con Messenger e su Msn.
Una città da 140 mila abitanti con uno skyline composto da quattro torri che si stagliano contro il Resegone e la Grigna: ecco come potrebbe presentarsi la Monza del futuro. La variante al Piano di governo del territorio messa a punto dalla giunta di Marco Mariani debutterà in consiglio comunale solo dopo le vacanze estive. Tuttavia, fa già discutere. L'assessore all'Urbanistica, Silverio Clerici, che ha ricevuto la delega direttamente dalle mani dell'onorevole Paolo Romani, non si è limitato a illustrare i numeri del documento, ma ha anche una visione: «Mi piace l’idea di uno sviluppo verticale della città — spiega Clerici —, a patto però che avvenga nelle periferie. L'amministrazione ha messo a disposizione un certo quantitativo di metri cubi, adesso spetta ai privati avanzare proposte intriganti». La variante individua sei poli tematici: sanitario, tecnologico, sportivo, energetico, Expo 2015 (Cascinazza) e ricreativo.
Tre verrebbero identificati con delle torri: torre dello sport, dove inserire per esempio un palazzetto del ghiaccio, torre dell'energia rinnovabile con tetti verdi, sistemi di recupero delle acque piovane e aziende specializzate nel settore dell'energia rinnovabile e torre tecnologica, dove dare spazio ad aziende in grado di garantire ricerca sul fronte innovazione. A queste se ne aggiungerebbe una quarta, un albergo alto sessanta metri in via Borgazzi angolo viale Campania. Il tutto, però, in periferia — prosegue Clerici —. Se le avessero fatte in centro, invece, sarebbero state uno scempio». I numeri parlano di 3 milioni e rotti di metri cubi di residenziale (quasi due sono recupero dell'esistente), di 980 mila metri quadrati di terziario e produttivo e di uno sviluppo di circa 20mila abitanti in dieci anni. Il principio cardine è «urbanistica contrattata»: metri cubi in cambio di servizi e aree verdi attrezzate.
L'esempio è l'area della Cascinazza, zona sud di Monza, da anni al centro di roventi polemiche fra l'amministrazione comunale e l'ex proprietà, la famiglia Berlusconi. Su questo lotto di oltre 500 mila metri quadrati l'amministrazione ha autorizzato 400 mila metri cubi. Il 25% sarà di residenziale, il 75% potrà essere suddiviso fra terziario, produttivo ed espositivo. E per non perdere il treno di Expo 2015, si ipotizzata la realizzazione di uno o più centri legati all' esposizione universale. I privati dovranno realizzare un parco fluviale e un parco attrezzato di 15 ettari complessivi. Inoltre lungo l'asse viabilistico che corre di fronte alla Cascinazza è stato programmato la realizzazione di un boulevard delle industrie e degli artigiani, una specie di «viale vetrina» dove potranno trovare spazio le attività produttive della città.
I partiti di minoranza però non ci stanno e sono già partiti all'attacco. Alfredo Viganò, consigliere della lista Faglia, parla di «svendita del territorio e norme che esautoreranno il consiglio comunale» eMichel Faglia, capogruppo dell'omonima lista nonché ex sindaco, si chiede se «il documento non sia a rischio bocciatura da parte della Provincia», che ha appena detto no a tre insediamenti nel Vimercatese. «Ha lo stesso metro usato in passato — commenta Faglia —, questa variante non ha alcun futuro». Per Marco Mariani, però, non c'è alcun rischio — spiega il primo cittadino — e quelle zone vanno salvaguardate. Tuttavia, non c'entrano nulla con noi. Anzi, la variante al Pgt, oltre a piste ciclabili, asili nido e centro ricreativi, prevede ben 400 mila metri quadrati di verde attrezzato, fra i quali un mega parco proprio sulla Cascinazza».
Aggiudicare i lavori e accorciare la tabella di marcia. Il Pirellone vuole far ripartire il cammino della controversa autostrada regionale Broni-Pavia-Mortara, 65 chilometri d’asfalto a tagliare la Bassa e il Parco del Ticino per collegare l’Oltrepo a Pavia. Tra la A21 (Torino-Brescia) e la A7 (Milano-Genova) più le opere connesse, fino al Vercellese. Pensati, nelle intenzioni, per alleggerire il traffico locale ma osteggiati da ambientalisti (tra cui Fai e Legambiente) e cittadini che, invece, ne escludono ogni beneficio. Mercoledì la giunta regionale voterà la convenzione con cui Infrastrutture Lombarde affiderà i lavori alla Società autostrada Broni-Mortara, la SaBroM di cui i soci principali sono il gruppo Gavio e la Serravalle.
Un passaggio necessario, ora che il Tar ha respinto il ricorso degli altri due competitor. In particolare degli spagnoli Sacyr, vincitori della gara ma poi esclusi. In attesa del responso del consiglio di Stato, la Regione accelera sull’opera. Che sarà pronta prima: «Da quasi tre anni e mezzo, i tempi si sono ridotti a 2 anni e 9 mesi - annuncia Raffaele Cattaneo, assessore ai Trasporti - i lavori inizieranno nel 2012, la fine ad agosto 2015». E poi pedaggi ridotti, un canone annuo di concessione (42 anni) di 270 milioni e un investimento che sfiora il miliardo.
Il territorio, però, è in rivolta. «È un’alternativa alla A4 che riverserà 44mila veicoli al giorno aggravando il traffico - contesta Renato Bertoglio, coordinatore del gruppo Territorio di Legambiente pavese - serve un collegamento Nord-Sud e non Est-Ovest. E poi rovina le risaie della Lomellina e il Parco del Ticino». Che, però, a suo tempo, diede parere favorevole: «Ma condizionato - precisa la presidente Milena Bertani - Le nostre osservazioni agricole e ambientali furono accolte: la ritengo una vicenda chiusa, pur assicurando gli opportuni controlli sul rispetto delle prescrizioni». C’è anche una critica pratica. «È tutta rialzata di oltre due metri - denuncia Nicola Ghisiglieri del coordinamento contro la Broni-Mortara - ci sarà un grande movimento di terra che incrementerà il progetto cave della provincia pavese. Intanto noi aspettiamo di sapere l’esito dei quattro ricorsi fatti dai cittadini contro quest’opera inutile e troppo costosa».
Nota: per capire meglio di cosa si tratta, chi non l’avesse già letto può far riferimento al mio vecchio La Fabbrica dello Sprawl, riassunto “in chiaro” su Mall e scaricabile in pdf (f.b.)
Sulle dichiarazioni rilasciate dal presidente della Provincia, per ribadire che il nuovo Pgt comunale tutelerà in ogni modo il polmone verde più importante del milanese. “Serve una visione europea”
Corsico (2 luglio 2010) - “A pensar male si fa peccato, ma quasi sempre si indovina”: anche la sindaca di Corsico Maria Ferrucci usa una metafora, come ha fatto il presidente della Provincia Guido Podestà che l'altro giorno, di fronte all'assemblea di Assimpredil (associazione imprenditori edili), ha detto che il Parco sud non è un totem.
“Non sarà un totem – dice l'assessore all'Urbanistica, Emilio Guastamacchia – ma è sicuramente un bene comune e per questo va tutelato in ogni modo. Le dichiarazioni del presidente Podestà, che è anche presidente del consiglio direttivo del Parco sud, sul futuro dell'area verde destano preoccupazione a noi amministratori locali e lasciano aperti molti interrogativi”.
Ci sono troppi “appetiti” nell'area sud milanese, dopo che altre zone della cintura cittadina sono state già oggetto, negli ultimi decenni, di numerosi interventi edificatori.
“Gli adeguamenti di cui parla chi guida la Giunta di palazzo Isimbardi – prosegue Guastamacchia – potrebbero portare a ulteriori possibilità di edificazione, forse anche di ulteriore cementificazione in aree agricole oggi tutelate”.
Nessun arroccamento su posizioni anacronistiche o atteggiamenti ideologici, ma c'è la volontà di fare uno sforzo congiunto per assicurare un patrimonio di estrema importanza dal punto di vista ambientale. Di cui la città di Corsico è direttamente interessata.
“Nell'ambito della discussione sulle linee guida del nuovo Pgt – spiega l'assessore Guastamacchia - stiamo valutando come salvaguardare l’unica area agricola oggi presente in città, nei pressi della Cascina Guardia di Sotto, che ha un'estensione complessiva di quasi sessanta ettari. Per Corico questa è l’unica area ancora agricola e non urbanizzata, se si escludono i diversi parchi cittadini, di un territorio che registra l’indice di consumo di suolo più elevato di tutto il sud Milano. In uno studio recente dell’Osservatorio sul consumo di suolo, realizzato dal Politecnico di Milano e da Legambiente, la nostra città registra un indice superiore all’80% di territorio urbanizzato”.
Cosa si può fare? “Per il Parco sud – prosegue Guastamacchia - c’è la necessità di fare uno sforzo di immaginazione, per costruire una visione di ciò che l’immensa area agricola che racchiude il sud Milano può avere: l’idea che l’attività agricola sia ancora possibile in aree periurbane ci viene anche suggerita, oltre che offerta come esempio concreto, da molte realtà metropolitane europee”.
(QUI le dichiarazioni del Presidente della Provincia)
Ufficio stampa Comune di Corsico
telefoni 02.4860.1721 – 335.6671.574
e-mail c.trementozzi@comune.corsico.mi.it
«Il Parco Sud non è un totem» e il sacrilegio è la sua contemplazione: «Gli atteggiamenti ideologici impediscono i necessari adeguamenti». Il presidente della Provincia, Guido Podestà, mette al bando i «pregiudizi» e sul tavolo i progetti: strade, piste ciclabili, magari scuole, cascine da ristrutturare o ampliare, sicuramente «la prosecuzione della tangenziale esterna Est con il completamento dell’anello esterno» della gemella Ovest, la bretella mancante, «un’infrastruttura indispensabile». Podestà illustra la road map all’assemblea di Assimprendil, da presidente del consiglio direttivo del Parco, precisa che il Comune «ha le sue prerogative» nella stesura del nuovo Piano di governo del territorio, ma lancia un messaggio e sembra rassicurare i costruttori: «Insediamo una commissione per riflettere su un’esperienza che ha vent’anni». Un annuncio che preoccupa gli ambientalisti: «Podestà dà picconate al Pgt. Salvaguardiamo il nostro monumento all’agricoltura». Così Matteo Mauri, capogruppo provinciale Pd: «Il Parco Sud è un polmone verde il cui pregio e la cui bellezza vanno tutelati dall’edificazione indiscriminata».
È un’area di 47 mila ettari, nei confini di 61 Comuni, ingloba abbazie, castelli e casali. Nel 1990, l’atto fondativo. Ieri, la svolta programmatica. Il Parco Sud, sostiene Podestà (rinominato ieri anche presidente della Permanente), «dev’essere interpretato dal punto di vista della valorizzazione del verde, della destinazione agricola, ma dev’essere più penetrabile e fruibile da parte dei cittadini. Certi adeguamenti sono possibili senza tradirne la natura, anzi investendo per confermarla». Linee guida: «Consumare meno territorio possibile», «riutilizzare le aree dismesse», «evitare posizioni preconcette». Il presidente della Provincia lo ribadisce anche a proposito del nuovo termovalorizzatore: meglio fuori dal Parco, alla periferia Sud-Est. Detto questo: meglio farlo.
«Podestà apre al cemento e difende gli interessi immobiliari», attacca Damiano Di Simine, presidente di Legambiente: «Il Parco non sarà un totem, ma staremo a vigilare perché non venga abbattuto: il progetto della nuova tangenziale Ovest, ad esempio, massacrerebbe il pezzo di Pianura padana più bello della Provincia». Marco Parini, neopresidente di Italia Nostra, chiederà presto un incontro a Podestà: «Il Parco Sud può essere fonte di rilancio economico e turistico per i Comuni, ma ne va conservata la vocazione agricola e il valore paesistico. Apriamo il confronto ed evitiamo danni».
Marco Magnifico è il vicepresidente esecutivo del Fai: «Siamo tutti preoccupati. Io, la signora Giulia Maria Mozzoni Crespi, la presidente Ilaria Buitoni Borletti. Solo dieci giorni fa Podestà aveva assicurato: "Il Parco rimarrà intonso". Ora, queste curiose dichiarazioni: il presidente della Provincia sembra aver cambiato idea dopo le esternazioni di qualche immobiliarista. Ci auguriamo che torni sui suoi passi: il Parco agricolo è una risorsa da preservare».
la Repubblica ed. Milano
Ligresti: ecco la Milano che sogno
di Franco Capitano
La Milano che sogna Salvatore Ligresti? Tanti grattacieli, perché «questa è l’unica città in Italia che abbia le caratteristiche per fare i grattacieli», un tunnel sotterraneo «come a Parigi», nuovi quartieri in fondo a via Ripamonti, parco Sud, dove lo stesso Ligresti è proprietario di ampie aree. Il costruttore siciliano ha spiegato le sue idee sullo sviluppo urbanistico della città ieri, all’uscita da Mediobanca. E sull’Expo, ha detto, «io sto con la Moratti: basta litigi, c’è posto per tutti».
Eccola, la Milano di Salvatore Ligresti. Meglio: la Milano che il costruttore siciliano vorrebbe. La Milano dell’Expo, perché Ligresti sta con la Moratti, e lo dice senza mezzi termini. Una Milano con tanti grattacieli, un lungo tunnel sotterraneo che la attraversi da capo a piedi, e tanti nuovi quartieri costruiti ai margini della città, sfruttando aree dismesse e terreni incolti. E non terreni scelti a caso, perché i terreni sui quali Ligresti vorrebbe costruire sono proprio i suoi, quelli «in fondo a via Ripamonti» (cioè in pieno Parco Sud, dove costruire, in teoria, non si può, ma su questo sorvola volentieri) dove possono nascere «nuovi quartieri completi che devono avere le scuole per i bambini perché - sottolinea - bisogna eliminare le differenze di classe, le scuole per i nobili, i bambini devono crescere assieme».
Spregiudicato immobiliarista a caccia di nuovi affari o nobile propugnatore dell’eguaglianza sociale? Ligresti, all’uscita di Mediobanca, la spiega così: «Io vengo dal popolo, dalla Sicilia, ho fatto gradino su gradino, ma lo possono fare anche gli altri». Dura poco, perché un secondo dopo Ligresti torna a parlare di grandi affari. Si chiede «perché proibire che la città si espanda?». E punta l’indice contro la burocrazia «troppo lenta e complicata», con «commissioni che si riuniscono e poi si riuniscono ancora e poi cambiano i componenti e si ricomincia daccapo: è impossibile. Ci vogliono regole chiare e definite».
Qualche idea sulla città del futuro, in ogni caso, Ligresti l’ha ben chiara in mente: Milano, dice, «è l’unica città in Italia che abbia le caratteristiche per fare i grattacieli. Certamente ci vuole anche la collaborazione dell’amministrazione che, assieme a grandi gruppi come banche e assicurazioni, può portare avanti i grandi progetti». Proprio la fotografia di Citylife, il grande progetto nato dalla collaborazione tra Fiera, Comune e grandi compagnie assicurative, tra cui - guarda caso - la Fondiaria Sai del gruppo Ligresti. E il traffico? Nelle grandi città, spiega Ligresti, fare un tunnel «per disintossicare il traffico è normale. Guardate Parigi che ne è piena».
Insomma: costruire, costruire, costruire. La cornice giusta? Ligresti non lo dice in modo diretto, ma si capisce bene cosa intenda quando lancia il suo appello: «L’Expo è un grande progetto, aiutiamo il sindaco Moratti a portarlo avanti. La Moratti si è data un sacco da fare. Adesso che c’è l’autorizzazione uniamoci, non perdiamo tempo a litigare, facciamo cose positive, c’è posto per tutti».
Il Corriere della Sera ed. Milano
Nel paese di Berlusconi un grattacielo come il Pirellone bis
di Andrea Senesi
Trentasei piani per 160 metri d’altezza. In pratica quanto il Pirellone bis, la futura casa della Regione Lombardia. Siamo in piena Brianza, a casa di Silvio Berlusconi. Perché la torre che lotterà per il primato del cielo lombardo col futuro Pirellone 2 nascerà nel Comune di Arcore. Nella zona industriale del paese, quasi al confine con Villasanta. A fianco di una fabbrica di camicie e a pochi chilometri da villa San Martino, la residenza del premier, il gioiello neoclassico che fu del conte Casati Stampa con i suoi giardini all’inglese e le sue cento stanze.
Trentasei piani per 160 metri d’altezza, e qualcuno giura che in realtà sarebbero pure di più. In pratica quanto il Pirellone bis, la futura casa della Regione Lombardia. Siamo in piena Brianza però, siamo a casa di Silvio Berlusconi.
Perché la torre che lotterà per il primato del cielo lombardo col futuro Pirellone formigoniano nascerà nel Comune di Arcore. Nella zona industriale del paese, quasi al confine con Villasanta. A fianco di una fabbrica di camicie e a pochi chilometri da villa San Martino, la residenza del premier, il gioiello neoclassico che fu del conte Casati Stampa con i suoi giardini all’inglese e le sue cento stanze.
E dire che Silvio Berlusconi non è esattamente un fan dello «sviluppo urbanistico verticale». Un paio d’anni fa, per dire, promise le barricate di fronte alla torre storta di Daniel Libeskind destinata a svettare nell’area della vecchia Fiera. «Ho visto progetti di grattacieli elaborati da architetti stranieri, storti e sbilenchi, in totale contrasto con il contesto milanese. Spero non sia questa l' idea moderna di Milano, altrimenti la protesta sorgerà spontanea e giusta. E io mi metterò alla testa di questa protesta», ebbe a dire allora il premier.
«Per essere dritta la nostra torre è dritta», giura ora chi ha visto il rendering depositato negli uffici del Comune di Arcore. «Il punto semmai è un altro», spiega l’assessore del Pdl, l’architetto Claudio Bertani: «Il punto è che non abbiamo ancora deciso cosa fare. Stiamo discutendo in questi mesi il nostro piano di governo del territorio e ci siamo trovati tra le mani questa richiesta così "folle". Chiaramente ne abbiamo parlato subito col sindaco e in giunta, però la decisione la prenderemo solo dopo aver sentito Provincia e Regione».
L’assessore, passato lo choc iniziale, s’è fatto possibilista: «In fondo non si tratta di residenza. Sono strutture commerciali e ricettive, oltre a una clinica sanitaria. Dal punto di vista dell’impatto sul territorio non credo che sarebbe un disastro. Vedremo, ma senza pregiudizi».
Anche l’opposizione è incredula. Chi c’è davvero dietro il progetto-choc? Il maxi-grattacielo è arrivato negli uffici del Comune giusto un mesetto fa. Regolarmente protocollato. Nero su bianco, in attesa di via libera. La società che ha chiesto il permesso di costruire è una semplice Srl, la Smeraldo, che farebbe capo, assicurano in paese, a uno dei più importanti commercialisti della zona.
Secondo Fausto Perego del Pd (e a sua volta ex assessore in Comune) «meglio comunque le due maxi-torri che l’altro progetto che è uscito fuori negli ultimi mesi. E cioè la cosiddetta Milano 4 che l’immobiliare di famiglia del premier vorrebbe realizzare proprio qui ad Arcore».
«La maxi-torre— racconta ancora Perego — ha una forma triangolare, come una gigantesca punta protesa verso l’alto e con le superfici dei due lati un po’ bombate». I grattacieli in realtà sarebbero addirittura due. «A fianco del gigante, ne è previsto un altro un po’ più piccolo e dalla forma più convenzionale». Centoventi metri o su di lì.
«Milano 4, la Cascinazza, il Pgt di Monza: è chiaro che la Brianza è ormai al centro degli appetiti degli immobiliaristi», attacca Giuseppe Civati, consigliere regionale del Pd: «Non vorrei che Arcore dopo essere diventata la capitale politica del Paese diventasse ora la capitale del cemento».
ROMA— Domani la Regione Lombardia potrebbe dare il via libera alla terza pista di Malpensa. Ed è inutile aggiungere che gli ambientalisti sono furibondi. Le motivazioni delle loro rimostranze sono note: l’ampliamento dell’aeroporto, uno dei più problematici d’Italia, comprometterebbe il parco del Ticino, riducendo ancora le aree naturali. Meglio, secondo un documento congiunto di Wwf e Fondo per l’ambiente italiano, sarebbe investire dei soldi per migliorare i collegamenti pubblici, ridefinire un piano aeroportuale per tutto il Nord Italia, ormai pieno zeppo di scali, e magari risolvere la vecchia faccenda delle due piste troppo vicine senza farne una terza. Perché Malpensa ha una particolarità tutta sua: le due piste sono state costruite troppo vicine, fatto che rende praticamente impossibile, in base alle norme internazionali, il loro utilizzo simultaneo.
Difficile dire come si potrebbe tecnicamente rimediare a questo problema senza fare un nuovo nastro d’asfalto. Ma al di là delle pur importanti questioni ambientali (la Lombardia è un’area altamente urbanizzata e il consumo del territorio ha raggiunto ormai livelli inaccettabili, come nel resto del Paese), la decisione che la Regione si appresta a prendere desta molti interrogativi.
Sappiamo che la terza pista di Malpensa è il pilastro del mastodontico piano di sviluppo (1,6 miliardi di euro entro il 2020) della Sea, la società pubblica guidata da Giuseppe Bonomi. Piano che guarda fra l’altro all’Expo 2015, evento dai contorni ancora molto fumosi, ma saldamente, con i suoi 15 miliardi di euro di investimenti, nelle mani delle forze politiche (il Pdl, con derivazioni cielline, e la Lega Nord) che controllano gli enti locali della Lombardia. Piano che soprattutto dovrebbe servire a dare un’identità all’aeroporto che sta a cuore soprattutto alla Lega Nord, partito che ha in quella zona il suo storico bacino politico-elettorale.
Una decina d’anni fa era stato immaginato per quello scalo un futuro da hub, cioè da base operativa per l’Alitalia alleata della olandese Klm. Poi l’operazione è saltata e Malpensa è rimasta in una specie di limbo, condizionato di volta in volta dagli umori della politica. Finché la compagnia di bandiera ha deciso di mettere definitivamente nel cassetto il progetto, tirando anche un respiro di sollievo: se è vero che mantenere un numero rilevante di voli su Malpensa costava almeno 200 milioni di euro l’anno.
Allora si è pensato che potesse diventare un quartier generale per le compagnie, come la tedesca Lufthansa, vogliose di fare concorrenza all’Alitalia, alla quale nel frattempo era stato consegnato il monopolio della rotta Milano Linate-Roma Fiumicino. Insomma, una specie di spina nel fianco della Cai.
Anche quel disegno ha incontrato però non poche difficoltà, segnalate per esempio dalla decisione, presa a febbraio dalla compagnia germanica, di sospendere la linea Malpensa-Fiumicino, giudicata «poco conveniente». Il fatto è che lo scalo varesino si trova pure in una posizione infelice: sempre più assediato da altri aeroporti che succhiano traffico all’aera più ricca d’Italia. Né la lieve ripresa dei passeggeri registrata nei primi mesi di quest’anno ha potuto compensare il crollo del 19% accusato nel 2008 e quello ulteriore di oltre l’8% nell’anno seguente. Vedremo ora quali altri risultati darà la strategia di «Airport driven hub» (parole di Bonomi).
Ma non è forse legittimo chiedersi se il progetto della terza pista non risponda più a un’esigenza della politica che a quelle dei viaggiatori?
MONTICHIARI (Brescia)— Lo avevano già ribattezzato «l' aereo dei bagnanti»: un volo low-cost che ogni fine settimana, con partenza alle 13.50, in 40 minuti avrebbe dovuto portare turisti da Brescia a Rimini.
Ieri, sulla carta, al «D’Annunzio» di Montichiari si doveva festeggiare il primo decollo del volo Dnm220, gestito dalla OristanoFly. Peccato che quell’aereo nessuno l'abbia mai visto. Cancellato prima di prendere servizio. Il volo per Rimini non è decollato perché nessun passeggero si è presentato all'imbarco.
Si tratta dell'ennesima partenza falsa di uno scalo nato addirittura con l'ambizione di fare concorrenza aMalpensa e Linate, ma che dopo 11 anni di vita è inchiodato agli ultimi posti della graduatoria nazionale di traffico. La direzione di Montichiari non vuole sentire parlare di flop: «La rotta per Rimini è gestita dalla OristanoFly, la stessa che dal 3 giugno ha riattivato i collegamenti con Roma e per la Sardegna. La cancellazione del volo d’esordio per Rimini è solo frutto di un disguido — chiosa Vigilio Bettinsoli, presidente dello scalo —. La prossima settimana sarà tutto regolare. I collegamenti con la Romagna, la Sardegna e la Toscana saranno fondamentali per farci ripartire».
Dallo scalo bresciano ieri sono decollati solo tre aerei: due per Londra (gestiti dalla Ryanair) e uno per Oristano via Roma (riattivato proprio dalla compagnia sarda).
Montichiari si conferma una cattedrale nel deserto dei cieli: i soci— principalmente enti pubblici— devono ripianare ogni anno un debito che è arrivato a sfiorare i 30milioni di euro.
I passeggeri e le compagnie latitano, preferendo muoversi sugli scali di Bergamo e Verona, ciascuno dei quali dista dal D'Annunzio 40 chilometri al massimo.
I trentadue poliziotti assegnati allo scalo, assieme a finanzieri, vigili del fuoco e controllori di volo lavorano in concreto solo pochi minuti al giorno.
Ieri c'erano dieci taxi in fila, passeggeri zero.
Nota: su questo fantasmagorico hub fantasma, mi sono già parzialmente "sfogato" qualche anno fa, inserendoa lcuni articoli, a partire dal mio HUB? BURP! (f.b.)
IL PARADOSSO DELLA TERZA PISTA
La Giunta regionale ed altri Enti stanno imprimendo un grande movimento ai programmi per la terza pista ed il colpo di scena è l’annuncio del Consiglio regionale a Malpensa: sarà veramente convocato? A volte, come è noto, basta dirlo… vedremo.
Ma siccome l’obiettivo è la terza pista (Bonomi: “non c’è un momento da perdere”) evidenziamo quello che, della terza pista, è il paradosso.
• Quando il traffico di un aeroporto è in aumento può rendersi necessario aggiungere una pista, quando il traffico cala bruscamente (ed è il caso di Malpensa), normalmente non ci pensa nessuno.
• Alcuni dati: Malpensa gestisce, oggi, con 2 piste, 17 milioni di passeggeri/anno ed è noto che, purtroppo, può arrivare con questa configurazione a ca. 30 milioni di passeggeri ma, francamente, dove li potrà trovare 30 milioni di passeggeri, anche fra 5, 10 anni o più? Il “traffico che aumenta” (ancora Bonomi) è il futuro dietro l’angolo (Expo???), è un sogno o è solo propaganda?
• Quindi per l’operatività di Malpensa la terza pista non serve: ma allora a cosa serve?
IL PARADOSSO DELLA REGIONE LOMBARDIA
• La Regione Lombardia, con D.G.R. N°8/5290 del 03/08/2007, ha classificato i Comuni del C.U.V. in zona di risanamento in cui devono essere ridotte le fonti emissive.
• L'elevato rapporto di emissioni prodotte da Malpensa (dati rilevati e pubblicati da ARPA Lombardia) rispetto alle altre attività presenti sul territorio, indica come unica compensazione possibile la riduzione delle attività aeroportuali.
• Quindi il supporto che Regione Lombardia dà ai piani di crescita dell’aeroporto di Malpensa è sorprendentemente in contrasto con:
- il sopracitato D.G.R. N° 8/5290 del 03/08/2007,
- il collocamento dei Comuni attorno all'aeroporto di Malpensa in “zona di risanamento”, e costituisce una PARADOSSALE AMBIGUITA’.
Alla qualità e quantità delle emissioni inquinanti di Malpensa (dati di ARPA Lombardia, causa Quintavalle e relativa sentenza), si correla un rischio reale per la salute umana, rischio ben noto in Medicina che capiremo quando (troppo tardi) avremo i dati dagli ospedali della zona.
CONCLUSIONE
• Ci auguriamo che la squallida offerta di 1 € per passeggero e l’abbaglio di 300.000 posti di lavoro non stimolino l’appetito di Sindaci e Sindacati, visto che stiamo ancora aspettando i 100.000 posti a cui qualcuno aveva creduto 20 anni fa.
• Il vero valore aggiunto per il Territorio non è Malpensa e la cementificazione dei suoli ma è il parco del Ticino, “Riserva della Biosfera dell’UNESCO e Patrimonio dell’Umanità”
Gallarate, 10 giugno 2010
UNI.CO.MAL. Lombardia
Beppe Balzarini
Da nord a Sud, da Est a Ovest, nell´hinterland di Milano il premier Silvio Berlusconi ha impiantato una colonia di uomini di fiducia capaci di mandare in porto progetti edilizi in grado di modificare in profondità il tessuto urbano in cui sono inseriti. Tra gli arruolati spicca, da tempo, il geometra Francesco Magnano, da ieri sottosegretario nella giunta regionale del Formigoni IV. È al nome del factotum di Idra, l’immobiliare di famiglia del presidente del Consiglio, che sono legate le operazioni più importanti.
Arcore, Macherio, Monza, Segrate, i vertici del quadrilatero in cui il Cavaliere ha rinchiuso le sue fortezze. L’ultimo intervento, in ordine cronologico, è quello in riva al Lambro, da realizzare ad Arcore, alle spalle di Villa San Martino, residenza brianzola del Cavaliere. Milano 4: un investimento da 220 milioni di euro, 25 palazzine da quattro piani ciascuna, pari a 150mila metri cubi di volumi edificabili. Tutto all’interno di un parco regionale, oggi sottoposto a vincolo ambientale.
Per superare l’evidentemente resistibile ostacolo, lo scorso 2 febbraio Magnano e il pidiellino Antonino Brambilla, per l’occasione nella doppia veste di assessore al Territorio della Provincia di Monza e consulente di Idra, si sono presentati dal sindaco del Comune brianzolo per ottenere la concessione edilizia. Arriverà in cambio di 20 milioni di euro in oneri di urbanizzazione. «Al Comune di Arcore non è stato depositato alcun progetto», si è affrettato a precisare ieri Magnano, davanti ai microfoni, ai margini della cerimonia di presentazione della nuova giunta. Eppure il sogno di Milano 4 marcia spedito, sottotraccia. Tanto che in municipio circola una dettagliata proposta di intervento con cifre, metri e destinazione degli edifici della nuova cittadella.
Un punto d’onore per Berlusconi, che a Monza, sull’area della Cascinazza, ha dovuto fare un passo indietro, e che ora non è più disposto a tollerare altri ritardi. Al punto da schierare l’esperto numero uno della sua galassia per gli affari edilizi, il geometra nato a Brancaleone nel 1949, trapiantato a Macherio.
È proprio in Brianza che l’imprenditore del Biscione e Magnano si conoscono nel maggio del 1990, pochi giorni dopo la seconda vittoria del Milan berlusconiano in Coppa dei Campioni. L’occasione arriva con la compravendita dei terreni attorno a Villa Belvedere, 286mila metri quadri. Nella trattativa tra il proprietario, Augusto Erba, e Idra si inserisce proprio Magnano. È Sergio Roncucci, dirigente dell’allora Finivest e consulente di Idra, a contattarlo. Il geometra, che gode di ottime credenziali tra i funzionari dell’ufficio tecnico comunale, fa valutare i terreni 575 milioni di lire. In realtà verranno versati altri 4 miliardi e 400 milioni in nero sul conto di Erba, che poi mettendosi in regola con un condono fiscale farà venire a galla la verità.
Per Idra arriveranno le accuse di frode fiscale, appropriazione indebita e falso in bilancio. Dalle prime sarà assolta, per la terza scatta la prescrizione. In quei giorni, però, l’operato di Magnano è considerato eccellente. Promosso sul campo, la regia indiretta dell’affare, e di quelli futuri, è affidata alle sue mani. La consulenza gli frutta 300 milioni del vecchio conio.
Niente prebende ma un incarico diretto per Paolo Romani, sottosegretario alle Telecomunicazioni e luogotenente di Berlusconi nella giunta di Monza, con l’incarico di assessore all’Urbanistica fino a gennaio. Il progetto originario prevedeva la nascita di Milano 4 all’ombra della regina Teodolinda, sull’area della Cascinazza. Una zona di 723mila metri quadri considerata inedificabile dal Pai (Piano di assetto idrogeologico) perché bastano due gocce d’acqua per mandarla a mollo. Nell’ottobre del 2007 la Istedin di Paolo Berlusconi, proprietaria dei terreni, cede tutto a Brioschi sviluppo Immobiliare e Axioma Real Estate per 40 milioni di euro, con la promessa di un’integrazione di 60 milioni nel caso fosse modificata la destinazione d’uso. Variante certificata dal Pgt firmato dal sottosegretario alle telecomunicazioni e ribattezzata dai monzesi la "Variante Romani" [vedi estratto allegato f.b.].
A Segrate, dove già esiste Milano 2, si gioca la partita del Golfo Agricolo: 657mila metri quadri dove il senatore Gianpiero Cantoni, appoggiato da Dell’Utri, vuole realizzare un golf circondato da case e da un centro commerciale. «Per i lavori di realizzazione girano i nomi di aziende vicine a Berlusconi», denuncia Fernando Cristofori, capogruppo dell’opposizione di centrosinistra. Come andrà a finire a Segrate lo si vedrà. Certo è che né televisioni, libri, giornali e neppure la politica hanno distolto il tycoon di Arcore dal suo primo amore: il mattone. Perfino all’Aquila, dove ha scelto anche le piastrelle dei pavimenti, ne sanno qualcosa.
Il passo avanti è qualche ora indietro: lo sversamento iniziò, hanno scoperto i carabinieri, alle 2.30 e non, come si pensava in una prima fase, tra le 3.30 e le 5. Certa la data (la notte tra lunedì 22 e martedì 23 febbraio), certo il luogo (l’ex azienda petrolifera, oggi deposito di idrocarburi, «Lombarda Petroli», a Villasanta, in provincia di Monza), e adesso certa anche la collocazione temporale, per il resto, delle tonnellate di olio combustibile e gasolio un mese fa finite nel Lambro e nel Po rimane da scoprire quasi tutto.
Il ministero dell’Ambiente deve ancora emanare l’ordinanza sul post-disastro ecologico, che porterebbe una dote iniziale di 12 milioni di euro e farebbe scattare, con la nomina di un commissario, un piano d’azione generale di bonifica, risarcimento per enti e ditte fin qui intervenute, e monitoraggio su pesci, uccelli, piante.
I controlli
Le stime parlano di 1.800 tonnellate di gasolio e 800 di olio combustibile cadute nei due fiumi. Delle 2.600 tonnellate, ne risultano recuperate 2.200, acquisite da raffinerie per il riutilizzo. L’enorme quantità di idrocarburi è stata fatta volontariamente fuoriuscire dalle cisterne della Lombarda Petroli, che, dopo due controlli dell’Arpa (l’azienda regionale protezione ambiente) l’8 e il 30 gennaio del 2009, nei dodici mesi successivi non è più stata visionata. I controlli spettavano all’Asl, l’Azienda sanitaria che dipende dalla Regione.
Il capo del personale
Le cisterne sono state aperte. Da chi? Un operaio? Per quale motivo? Vendetta? La Lombarda Petroli è un’azienda in progressiva dismissione. Occupa una vasta area obiettivo immobiliare degli Addamiano, noto gruppo di costruttori che nell’area e negli immediati dintorni vuole edificare una cittadella con case e negozi chiamata Ecocity. Alla Lombarda Petroli sono rimasti dieci operai, cinque dei quali in mobilità. Dicono che il direttore generale, in più ideatore del progetto di una centrale termica sempre sull’area dell’ex ditta petrolifera, è molto temuto dai dipendenti, o forse è a loro molto inviso; i rapporti sono conflittuali.
La Lombarda Petroli è sotto sequestro. È in corso la bonifica, vi partecipano gli stessi operai. I Tagliabue, i proprietari, gli «Onassis della Brianza», tacciono. Giuseppe, l’amministratore delegato, è l’unico indagato, dalla Procura di Monza, per aver violato la direttiva Seveso, che regolamenta i doveri delle aziende con oltre 2.500 tonnellate di idrocarburi. La Lombarda Petroli, con note al ministero dell’Ambiente nel gennaio 2009, ha dichiarato l’uscita dalla direttiva Seveso. Mentendo. «Sotto la direttiva», sottolinea Legambiente, «in Lombardia restano 287 aziende. A rischio: i controlli sono inadeguati».
Specie a rischio
Pierluigi Viaroli insegna Ecologia all’università di Parma. Invita a considerare come, in quei giorni, Lambro e Po erano gonfi d’acqua, e potrebbero esserci state esondazioni con idrocarburi depositatisi sugli argini. Nei campi, in questi giorni, le rane di Lataste (specie inserita nella lista degli animali a rischio) stanno deponendo le uova. Le rane sono una specie tipica dell’area del Po, è il loro mondo. Potrebbero trovarsi a procreare in aree contaminate. Dice Andrea Agapito, responsabile acque del Wwf, che «serve l’individuazione di alcune specie "bersaglio" per valutare come le sostanze inquinanti sono entrate nella catena alimentare».
I ritardi
«Siamo le vittime» ripetono dal Gruppo Addamiano. Un loro progetto immobiliare, a Desio, fuori Milano, sta subendo forti rallentamenti. Colpa della crisi, dello stallo del mercato immobiliare. Non girano soldi. La Addamiano Costruzioni, la società «storica» del Gruppo, provvede alla realizzazione degli appalti. Nell’ultimo bilancio che abbiamo potuto leggere (31 dicembre 2008), c’erano un patrimonio netto di 10.963.772 euro e debiti quasi tre volte tanti: 28 milioni di euro. Prima dei conti economici, i carabinieri vogliono capire i ritardi dei soccorsi e le responsabilità (altri indagati in arrivo?). Torniamo infatti al 23 febbraio. Alle 8.30 (sei ore dopo lo sversamento di olio e gasolio) i tecnici del depuratore San Rocco (gestito da Brianzacque) si accorgono di un’anomalia negli impianti, per la presenza di idrocarburi.
Alle 8.53 l’Arpa avvisa la Provincia di Monza che a sua volta attiva il gruppo sommozzatori della Protezione civile di Milano. Alle 10.25 la Protezione civile lombarda viene avvisata dello sversamento di idrocarburi nel depuratore San Rocco. Le 10.25: otto ore dopo. La dichiarazione della Regione dello stato d’emergenza, che prevede una mobilitazione diversa, più massiccia in uomini e mezzi della Protezione civile, con operatori professionisti anziché pensionati volontari, arriverà soltanto l’indomani mattina. Cioè più di un giorno dopo le 2.30 di quella notte.
Domenica sfideranno il divieto. I cicloamatori che protestano contro il divieto d’accesso all’alzaia del Naviglio, nel tratto tra Turbigo ed Albairate. I sindaci della zona hanno annunciato che non manderanno i vigili a multare i trasgressori. «Così perdiamo anche i tanti turisti del fine settimana».
«Mandare i vigili a multare la gente che passeggia sulla pista ciclabile del Naviglio Grande? Ma non scherziamo, non lo farò mai. L'alzaia va riaperta subito, una chiusura totale non è pensabile » . Osvaldo Chiaramonte (Pdl), sindaco di Bernate Ticino, si ribella all' idea di un Naviglio «blindato». E non è l'unico: domenica prossima alle 10 proprio dal ponte di Bernate partirà una biciclettata di protesta promossa con un tam tam sui social network dai frequentatori dell'alzaia. Ciclomatori, podisti, ma anche amanti delle passeggiate. E poi i membri di associazioni ambientaliste e storiche. A piedi o sulle due ruote, sfideranno il divieto di circolazione e lamulta di 51 euro, percorrendo il tratto di un chilometro e mezzo tra Bernate e Boffalora sopra Ticino. Lì si terrà un'assemblea che dovrebbe stabilire altre forme di mobilitazione.
Il divieto di accesso all'alzaia del Naviglio, nel tratto di quindici chilometri fra Turbigo e Albairate, è stato deciso dal Parco del Ticino, che gestisce la ciclabile per conto della Regione. L'ente è stato da poco condannato a pagare 500 mila euro di risarcimento alla famiglia di una donna di 71 anni, che nel 2002 cadde nel Naviglio dopo uno scontro con un tredicenne in sella a un'altra bicicletta e annegò. Il Tribunale civile di Milano ha dichiarato il Parco e il tredicenne corresponsabili della sua morte e ha dichiarato la pista ciclabile è “insicura”, perché senza protezioni. Il Parco dovrà prendere provvedimenti. Nel frattempo, il sentiero è chiuso fino a nuovo ordine.
Un Naviglio off limits ha anche un risvolto economico. Negli ultimi anni, proprio grazie a una vasta campagna di promozione turistica del Parco del Ticino, lungo il canale sono nati punti di noleggio delle biciclette, gelaterie, ristori, bed and breakfast. E la risposta dei turisti non si è fatta attendere, con migliaia di presenze, anche dall'estero, soprattutto nella stagione estiva.
«Nel fine settimana da aprile a settembre noleggiamo 50 biciclette al giorno. Per questo, ho da poco investito 12 mila euro per cambiare tutto il parco bici. Adesso invece ricevo le telefonate di disdetta, per paura delle multe» sintetizza Michele Calcaterra, 45 anni, titolare del negozio «Doctor Bike» a Boffalora.
Della stessa idea Domenico Finiguerra (centrosinistra), sindaco di Cassinetta di Lugagnano: «La chiusura è un grave danno. La Regione dovrebbe stanziare subito i 5 milioni di euro necessari per mettere a norma la ciclabile. Otto anni fa sono stati stanziati e mai utilizzati 226 milioni di euro per costruire la superstrada tra Magenta e la tangenziale ovest. Basterebbe usare una parte di questi. Sarebbe la dimostrazione che alla mobilità e al turismo sostenibile ci tengono davvero».
postilla
Immaginiamoci, che so, una interruzione per frana di un tratto stradale qualunque: quanto tempo passa secondo voi prima che venga stanziata la cifra necessaria e ripristinato il percorso? Questione di giorni, al massimo. E la strada di cui si parla nell’articolo, in più, rappresenta l’UNICO PERCORSO POSSIBILE per attraversare alcuni territori, nonché tratto essenziale di una rete sviluppata per centinaia di chilometri. Praticamente, un’autostrada, e che autostrada, di mobilità sostenibile, in grado con pochissimi accorgimenti, e se valorizzata da piani e programmi coerenti, di iniziare concretamente un’evoluzione del territorio dalla centralità assoluta del trasporto privato su gomma e relative infrastrutture, dispersione insediativa, inquinamenti, consumo di suolo ecc., verso una rete più articolata, e adeguata alle prospettive che si delineano col cambiamento climatico, la crisi energetica e compagnia bella.
Ma chi comanda dentro il cosiddetto “ambaradan” (definizione del leghista Davide Boni) dei parchi non vuole, o non può, fare il suo mestiere, ovvero partecipare a questo percorso, investendo quelle esigue cifre che giustamente Domenico Finiguerra paragona alle altre, e che altre, destinate a una discutibilissima grande opera nel segno della solita centralità automobilistica.
È un piccolo esempio, enorme nei danni, ma piccolo perché miserabile, di cosa succede quando il gioco si fa duro e i duri cominciano a giocare. Gli stessi duri che stanno gestendo l’operazione Expo, e si risciacquano la bocca ad ogni piè sospinto con fantastici (indiscutibili, a parole) progetti di rilancio dell’agricoltura, di sviluppo urbano sostenibile ecc. ecc. Ne leggiamo ogni giorno, di queste cose, e anche grazie al coinvolgimento di persone serie nel progetto, finiscono quasi quasi per convincerci. E poi, dopo una condanna a pagare 500.000 euro (il prezzo di una villetta con gardino nani inclusi) si chiudono senza passare dal via chilometri e chilometri di pista ciclabile?
Ma ci facci il piacere! Direbbe il compianto principe De Curtis (f.b.)
si veda anche il commento sul sito di Domenico Finiguerra
IL LAMBRO avvelenato, che minaccia di avvelenare il Po è l´ultima delle devastazioni compiute dal partito del fare e del non ragionare. Il Piemonte è "il padre di tutte le inondazioni", i suoi fiumi non tengono più, non regolano più. Contadini, industrie e cavatori hanno chiesto all´alto corso del Po più del ragionevole.
Hanno preso i suoi valligiani per farne dei manovali, le sue acque per derivazioni che in certi tratti, d´inverno, asciugano il fiume che è tanto più pericoloso quanto più è in magra. Tra Casalgrasso e Moncalieri, c´è il "materasso alluvionale" più profondo e più pregiato d´Europa. Ghiaie e sabbie depositatesi nei millenni per una profondità che arriva ai duecento metri, materiali di corso alto dunque puri e pregiati. Ogni tanto, dove il bosco fluviale s´interrompe, sembra di essere sul Canale di Suez dove passa fra alte dune sabbiose. Sono le colline di sabbia delle cave per cui si muovono come insetti mostruosi i camion giganti. Ricordano la confusione e il fervore dantesco dell´"arsenal dei viniziani", gru alte cinquanta metri, scavatrici mostruose, baracche e la pozza d´acqua della cava, delle voragini profonde fino a duecento metri, a centinaia in un territorio che dall´alto sembra un groviera con il rischio che le acque del fiume sfondino le paratie di terra e si uniscano alle acque delle cave con un caos idrologico imprevedibile.
Il rischio è grande, ma cosa è il rischio per i contemporanei? Gli esperti del Progetto Po ci perdono la testa, ma per i due milioni di Torino e dintorni è una cosa inesistente. Eppure le acque delle cave inquinatissime potrebbero penetrare nella falda acquifera che fornisce il settanta per cento dei consumi della metropoli. La grande difesa in superficie del depuratore del Po Sangone, il più grande e pare l´unico da qui al delta, potrebbe essere sottopassato. Ma che sanno i nostri governanti di questi rischi? Poi le genti del fiume Po hanno perpetrato il misfatto di rifiutare, di sabotare la navigazione commerciale del fiume. Ogni giorno arriva nel porto fluviale di Cremona una nave da carico. Potrebbero essere trenta, cinquanta se Cremona fosse collegata all´area di Milano, dove si concentra la metà della produzione industriale italiana, ma gli agrari si oppongono. Quanti sono? Forse cinquecento proprietari fra grandi e piccoli fra Pizzighettone e Crema. Più forti dei quattro milioni di abitanti della grande Milano e pronti a tutto. Il teorema degli agrari è il seguente: il canale è inutile perché il Po non è veramente navigabile: fondali bassi, nebbie, due periodi di magra. Non è vero, il professor Della Luna, un grande esperto del Po dice: «I giorni in cui il Po da Cremona al mare ha un fondale di due metri e cinquanta, due metri e ottanta sono duecentosessantanove, sui due metri trecentodiciassette. I fondali sui due metri e ottanta saranno necessari quando useremo le navi fluvio-marine lunghe centocinque metri e larghe undici e cinquanta, navi da duemila tonnellate, ma con le navi di oggi i fondali medi sono sufficienti. Quelli del Reno, che è la più grande via d´acqua d´Europa, sono analoghi».
Credo che il professore, che è fra i progettisti del canale dica una cosa vera: il Po è il più navigabile fiume d´Europa e il meno navigato. Cremona è a trenta metri di altezza sul livello del mare mentre il Rodano a Lione a centosessanta. Il dislivello tra Cremona e Milano è di cinquanta metri, e il canale tedesco tra il Meno e il Danubio ha superato una quota di quattrocentosei metri. I francesi vogliono collegare con un canale Parigi a Lilla, ci sono due progetti ed è in corso una lotta aspra fra i sindaci dei due tracciati che se lo contendono. Qui i venti sindaci fra Pizzighettone e Milano sono tutti fortemente ostili. Perché? Perché i lombardi hanno perso il gusto per l´intrapresa e sono allineati sulla linea conservatrice di "sfruttiamo l´esistente".
Ma cosa è questo esistente? È un sistema di trasporto su strada prossimo a scoppiare anzi già scoppiato. Nonostante la terza corsia, la autostrada Milano-Bologna, è già un fiume rombante di camion che non possono, come un fiume vero, "esondare" in lanche o golene. E siccome il piano Delors prevede nel decennio un raddoppio del traffico o si usano anche le vie di acqua o si va verso una cementificazione folle. Nella metropoli milanese vivono quattro milioni di persone e ognuna di esse ha bisogno di un trasporto di materiali solidi di tre metri cubi: cifre terrificanti. Il Po è un fiume di rare piene ma disastrose, nel ‘51 e nel ‘94 ha inondato intere province. Ma per la navigazione è un fiume placido, riceve gli ultimi dei suoi trenta grossi affluenti, il Mincio e il Panaro a 160, 140 chilometri dalla foce, diciamo una portata costante con variazioni regolari, ma dei grandi fiumi europei è il meno usato, quattrocentomila tonnellate di merce contro milioni.
Il Po è il grande padre avvelenato dai suoi figli. «Spero di morire prima di veder morto il Po» si legge in uno degli ultimi scritti di Riccardo Bacchelli. L´agonia è stata, per un fiume millenario, rapida, quindici anni fa il Po era ancora un Nilo, invadeva secondo le stagioni le terre di golena e le fecondava, dico le terre comprese fra gli argini di maestra, alti, possenti, rinforzati ogni anno e gli argini di ripa, pian piano invase dai coltivatori padani che vi hanno costruito le loro case le loro "grange" o piccoli borghi mettendo nel conto che ogni tanti anni, magari cinquanta, magari dieci il fiume dà e toglie, arricchisce e impoverisce. Gente di Po, comunque, incapace di abbandonare il suo fiume, la sua storia. Ora dopo una esondazione - sono belli i nomi fluviali - restano sul terreno chiazze di olio, macchie calcinate di residui chimici. «Solo pochi anni fa - mi dice un uomo del fiume - andare per i pioppeti inondati era stupendo, si passava in barchino tra i filari nella luce ombra della piantagione, più che una violenza era una silente, pacifica comunione di acque e di piante. Ora, appesi ai rami più bassi, trovi i sacchetti di plastica, i nastri di plastica e sembra di stare in un film dell´orrore, ti aspetti che compaiano mostri esangui». Ma anche i pallidi eleganti pioppi hanno la loro parte nel disastro del Po. Li hanno piantati fino alla riva del fiume e non sono alberi che rafforzano l´argine, non si piegano all´onda come i canneti o i salici, non hanno radici forti come gli ontani, sono piante di poche radici sradicabili, per proteggerli si è imprigionato il fiume nei cassoni dei "bolognini" o delle prismate, difese dure che fanno impazzire la corrente.
E inquinano, i tronchi sono cosparsi di insetticidi, la chimica arriva nel terreno, bisognerebbe arretrarli di almeno cento metri ma quel che è fatto è fatto, la barriera verde sta sulle rive. L´agonia per un fiume millenario che non era mai sostanzialmente cambiato è stata rapida, questione di venti, di quindici anni. Non molto tempo fa i pescatori si facevano la minestra con l´acqua del fiume prendevano l´acqua con la loro tazza di legno per berla. Ora non se la sentono più di entrarci a gambe nude, si proteggono con stivaloni e tute. L´inquinamento è salito negli ultimi cinque anni dai 14 milligrammi per litro ai 50. Pochi anni fa la gente del Po anche benestante faceva le vacanze sul fiume, preferiva i suoi ghiaioni alle spiagge affollate di Viareggio o di Rimini, conosceva gli accessi, sapeva tagliare le frasche con cui fare dei ripari al sole, non sentiva come Gioan Brera nessun complesso edipico verso il padre fiume feroce "rombante nelle notti di piena" semmai, adesso, il complesso è verso il padre sporco. Le società fluviali avevano nomi diversi ma sempre abbinati a "canottieri" e il legame è così antico che anche se ci si bagna in piscina in club aperti di recente a quindici chilometri dal fiume sempre canottieri sono.
Ha scritto uno studioso del fiume, Piero Bevilacqua: «Nella cultura dello sviluppo padano ci si è mossi verso l´ambiente come in una realtà da dominare, da schiacciare». Che il Po fosse il sistema nervoso di questa grande valle, il punto di riferimento, di identità, quello che dava una misura precisa alla nostra vita non ha avuto alcuna importanza: era solo un canale di scarico, un luogo per estrazioni di sabbia e allevamenti di maiali. Non si è più distinto fra rischi accettabili e rischi mortali, fra i rischi normali di un fiume e la sua uccisione; non si è più distinto fra convivenza accettabile e convivenza distruttiva. E così si è arrivati all´assurdo che per la manutenzione normale del fiume si sono spesi in sei anni settecento miliardi e per pagare i danni della piena del Tanaro diecimila. Che per l´auto ogni persona spende tre milioni l´anno ma tutti assieme i lombardi non sono stati capaci di bonificare la zona del Lambro, non se ne è fatto niente perché l´acqua del Lambro e dei pozzi è strumento di potere politico che i sindaci e i partiti non vogliono mollare. I soldi per la variante di valico dell´autostrada Bologna-Firenze li troveremo, ma quelli per collegare le vie d´acqua del Veneto e andare dal Po a Ravenna chi sa quando. Eppure sono ottimista, ho partecipato quest´anno a un convegno sul Po, c´erano quattrocento amministratori, tecnici, studiosi del fiume. Molti non si erano mai incontrati prima, eppure c´era un sentire comune: il governo civile del Po, il recupero del Po devono diventare senso comune, devono formare un nuovo pensiero sociale che riprenda il cammino del riformismo del primo Novecento.
La secessione non risolve nulla, ci vuole l´autogoverno solidale. Come mai? La società impazzisce ogni tanto.
L´agonia del fiume e anche quella dei suoi pesci, non molti anni fa al mercato di Piacenza vendevano trance di storione di Po oggi se ne trovano ancora, non i giganti di quattro metri di cui Plinio il vecchio per Paduam navigante, seguiva le scie argentee, se ne pescano ancora nelle lanche di acqua tiepida dove vengono a digerire il pasto di carpe e di cavedani ma non superiori ai due metri. Sono scomparse anche le anguille di Ongina dove una ostessa con la faccia di Giuseppe Verdi le friggeva crocchianti e dolci mentre il marito era addetto al taglio perpetuo dei culatelli di Zibello, le cose miracolose che maturano solo all´aria umida del Po come i prosciutti e gli stradivari. Nel fiume si pescano ancora lucci, scardole, cavedani, carpe ma spesso "di gusto avariato". Imperversa il pesce siluro, lo squalo del Po. Venti anni fa non c´era o era rarissimo. Dicono che questo silurus flanis descritto dai naturalisti come "pesce tirannico, crudele vorace" sia arrivato dal Baltico. «C´è una Lombardia - mi dice il dottor Gavioli assessore all´Ambiente della Provincia di Parma - che ha prodotto i grandi costruttori di canali da Leonardo al Filarete e un´altra che ha prodotto Craxi e Formigoni», la Lombardia che ha impiegato venti anni a rendere percorribili le strade per Como e per Lecco, che non è stata capace di bonificare il bacino del Lambro che butta nel Po tutti i suoi rifiuti e veleni, incapace di capire che non ci sono solo gli interessi suoi ma anche quelli dei sedici milioni di italiani che stanno nei settantamila chilometri quadrati del bacino fluviale, nelle terre che Philippe de Commines, al seguito di Carlo VIII di Francia descrisse nel suo diario come "il paese più bello e il più abbondante di Europa".
Non è facile capire per quale involuzione dello sviluppo questa Lombardia che scavava i navigli per cui passavano le merci provenienti da Genova e dall´Adriatico fino alla fossa interna milanese dove si legavano a quelli provenienti dall´Europa attraverso i laghi, come mai la Lombardia dei grandi ingegneri idraulici come l´Aristotele Fioravanti e il Bertola da Novate non sia capace oggi di collegare il Po a Milano, non riesca a fare di questo Po cadaverico e puzzolente il fiume della rinascita.
È un affare da mezzo miliardo di euro, un progetto faraonico da 187mila metri quadrati su un terreno di 309mila. Ed è previsto proprio sui terreni della Lombarda Petroli, l´ex raffineria di Villasanta a Monza da cui qualcuno, nella notte tra lunedì e martedì, ha fatto uscire gli ottomila metri cubi di petrolio che hanno avvelenato il Lambro per poi riversarsi nel Po.
Su quell´impianto, e sui terreni che lo circondano, dovrebbero sorgere appartamenti, negozi, capannoni industriali, un grande centro direzionale. In una parola, "Ecocity": così lo ha battezzato la "Addamiano Engineering" di Nova Milanese che vuole realizzare tutto ciò. Un progetto che da qualche tempo sembra segnare il passo, frenato da una serie di difficoltà economiche, e sul quale ora la catastrofe del Lambro si abbatte con la forza di un ciclone.
foto f. bottini |
E le indagini dei carabinieri, della polizia provinciale e del Noe, il nucleo ecologico dell´Arma, sembrano avere già imboccato una direzione precisa: quella del sottobosco dei subappalti. Ieri la Procura di Monza ha aperto un fascicolo per disastro ambientale e avvelenamento delle acque a carico di ignoti. Nessun dubbio che si sia trattato di un sabotaggio a cui hanno preso parte almeno tre persone. Per svuotare le cisterne è necessario sbloccare le valvole, attivare nella giusta sequenza tre comandi e attendere che gli idrocarburi vengano aspirati dal fondo e pompati in apposite tubature. Solo a questo punto si possono aprire le ultime paratie che dovrebbero essere collegate ad autobotti.
L´amministratore delegato della Lombarda Petroli, Giuseppe Tagliabue, è stato interrogato a lungo. Sarebbero emerse gravi carenze nella sicurezza dell´impianto. Nei prossimi giorni verrà sentita anche la famiglia Addamiano: i fratelli Giosuè, Rosario e Matteo, alla guida del holding Addamiano Engineering di Nova Milanese, fondata negli anni Sessanta. Ieri, all´ora di pranzo, i costruttori si sono presentati ai cancelli della Lombarda Petroli per verificare di persona quanto accaduto sui terreni dove a breve prenderà il via il loro progetto di riqualificazione urbana.
L´idea di "Ecocity" è trasformare l´ex-raffineria in una cittadella ecosostenibile. Il masterplan è stato realizzato dall´architetto Massimo Roj in collaborazione con progettisti del Politecnico. La prima parte, 80mila metri quadri dedicati all´industria, è già stata realizzati. Presto dovrebbe partire l´intervento per la costruzione della zona residenziale, altri 36mila metri quadri. Ed entro due anni dovrebbe essere aperto il cantiere per l´edificazione dell´ultima parte, quella direzionale (44mila metri quadri), che si troverebbe proprio dove oggi ci sono le cisterne del deposito carburanti della Lombarda Petroli da cui è uscita la terrificante onda nera che ora avanza lungo il Po.
Nel quartiere svetteranno proprio due delle cisterne, simbolo della old economy, reperto di archeologia industriale, che saranno inserite nel nuovo contesto fatto di verde, piazze e piste ciclabili. «È prematuro dire se quanto accaduto rallenterà il nostro lavoro» fanno sapere gli Addamiano. Di certo c´è che questa non è la loro unica opera di lottizzazione di grosse dimensioni. Sparsi da nord a sud, gli Addamiano hanno disseminato l´Italia di quartieri ecosostenibili, ma in questo momento soffrono di scarsa liquidità come molti imprenditori del settore.
Un dato, quest´ultimo, che non è sfuggito agli inquirenti che hanno deciso di compiere una serie di accertamenti proprio in questa direzione. E la pista degli interessi legati al mattone prende corpo anche nelle dichiarazioni del presidente della Provincia di Milano, Guido Podestà, che ieri ha dichiarato: «Se la magistratura dovesse individuare nella speculazione edilizia il movente di quest´azione criminalesarebbe necessario porre un vincolo urbanistico su tutte le aree attorno al Lambro». L´ex raffineria della Lombarda Petroli non è per la verità nelle vicinanze del fiume ferito, ma il sospetto che dietro il sabotaggio alle cisterne ci sia un qualche misterioso interesse legato al futuro di tutta quell´area è la principale pista su cui, per ora, si stanno concentrando procura e carabinieri.
(di seguito scaricabili relazione e tavole del progetto desunte dall'archivio valutazione regionale, e la delibera di adozione comunale con altri particolari; informazioni "istituzionali" anche sul sito dei promotori http://www.eco-city.it/ecocity-villasanta/)
Milano, 23 feb. (Adnkronos) - ''Un disastro ambientale senza precedenti per l'ecosistema del fiume Lambro che ne pagherà a lungo le conseguenze''. Non usano mezzi termini i volontari di Legambiente che da stamane lavorano per frenare l'onda di petrolio, riversatasi nel fiume che attraversa la Brianza e che rischia di raggiungere il Po. Almeno 600mila i metri cubi di sostanza inquinante, fuoriuscita dai depositi della ex-raffineria Lombarda Petroli di Villasanta, che si sono riversati in acqua.
Si tratta di uno ''dei più gravi disastri ambientali verificatisi di recente in Lombardia, che potrebbe avere conseguenze di lungo periodo, considerata anche la messa fuori servizio del grande depuratore di Monza San Rocco, che tratta le acque fognarie di oltre mezzo milione di brianzoli'', spiegano i volontari. ''Qualunque ne sia la causa, accidentale o dolosa - sottolinea Damiano Di Simine, presidente regionale di Legambiente- questa nuova catastrofe torna a mettere in luce l'insufficienza della prevenzione dei rischi industriali''.
Ancora troppo presto per quantificare il danno ambientale: al momento manca una cifra ufficiale sulla quantità di petrolio riversata nel fiume, ma l'impatto 'visivo' è ben visibile:numerose le carcasse di anatre e germani che affiorano dall'acqua.
Nel frattempo il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, sta valutando accuratamente insieme ai tecnici i termini di un'ordinanza, da emettere nella giornata di domani, per garantire lo smaltimento in sicurezza del materiale inquinante. Gli agenti della Polizia provinciale, presenti insieme alla protezione civile, alla polizia locale e all'Arpa, hanno tratto in salvo tre germani che sono stati trasportati all'oasi Wwf di Vanzago. ''Le priorità - spiega l'assessore alla Polizia Provinciale della Provincia di Milano, Stefano Bolognini - sono arginare i danni e proseguire nella bonifica della zona''. Intanto, però, è caccia anche ai responsabili di quanto accaduto. ''Si accertino al più presto le responsabilità del grave disastro ecologico del fiume Lambro'' è la richiesta della Lipu-BirdLife Italia.
A chiederlo è anchePaolo Grimoldi, deputato monzese della Lega Nord. "La priorità è che vengano stabilite in tempi padani le responsabilità, perché questo scempio non passerà certo senza nomi e cognomi dei colpevoli. Ho chiesto l'intervento del Viminale e ottenuto un incontro con il ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo".
DaGiuseppe Civati e Carlo Monguzzi, consiglieri regionali del Pd arriva la richiesta di ''Mettere subito in sicurezza il depuratore di San Rocco a Monza, andato letteralmente in tilt a causa dello sversamento doloso di migliaia di metri cubi di gasolio e petrolio e arginare il disastro''.
Una quantità ''tremenda di gasolio e petrolio si è riversata nelle fogne e nel Lambro - spiega Civati, c'è un odore nauseante ed è stato straziante vedere poveri animali in agonia praticamente imprigionati nella melma oleosa''. E' una corsa contro il tempo quello di esperti e volontari per salvare germani, folaghe e cormorani.
La marea nera ha attraversato Milano per arrivare questo pomeriggio a Lodi e proseguire verso il Po. Oltre l'inquinamento del fiume, il petrolio ha colpito il reticolo idrico minore, formato dai canali utilizzati essenzialmente dalle produzioni agricole, e sta raggiungendo, attraverso Cremona, il fiume Po. ''Mi auguro che l'intervento immediato delle autorità competenti possa limitare i danni all'intero territorio lombardo e alla fauna, - spiega il capodelegazione della Lega Nord in giunta regionale lombarda, Davide Boni- evitando che il petrolio raggiunga lo stesso fiume Po.
Confido, inoltre, che venga ben presto accertata la dinamica dell'incidente, individuando eventuali colpevoli''. Un ''gravissimo episodio che dimostra la fragilità e il rischio a cui sono sottoposti un territorio fortemente urbanizzato e i corsi d'acqua della Brianza'' è il commento del segretario provinciale del Pd e il capogruppo in Consiglio provinciale di Monza, Enrico Brambilla e Gigi Ponti.
CASSANO Magnago (Varese) - Se ne parla da mezzo secolo, adesso è la volta buona. Ieri, l’inaugurazione in pompa magna della Pedemontana, opera viabilistica che collegherà cinque province lombarde (Bergamo, Monza, Milano, Como e Varese). Centosessanta i chilometri del nuovo percorso: 70 di autostrada, 20 di tangenziali e altri 70 di viabilità locale. Si comincia a lavorare da ovest: il cantiere inaugurato è a Cassano Magnago, in provincia di Varese, la stessa località dove nel 1924 cominciarono i lavori per la Milano-Laghi, la prima autostrada d’Europa.
La Pedemontana dovrebbe essere completata entro il 2015, l’anno dell’Expo a Milano. A regime, avrà circa 350mila utenti al giorno, con una notevole riduzione del traffico sui 20mila chilometri di rete stradale esistente: dal 10 al 70 per cento. Gli abitanti che gravitano lungo il percorso della nuova opera sono quattro milioni, e 300mila le imprese. Si calcola che i posti di lavori creati saranno 40mila in cinque anni. Grande opera, grandi costi: cinque miliardi di euro, di cui oltre quattro destinati alla costruzione, 100 milioni per opere compensative (tra cui cinque milioni di metri quadri di boschi e prati, con un milione di nuove piante) e 800 milioni per oneri finanziari e gestionali durante i trent’anni di durata della concessione. Gli azionisti di Autostrade Pedemontana spa sono la Serravalle - società pubblica sotto il controllo della provincia di Milano (68%) , Equiter (20%) Banca infrastrutture innovazione sviluppo (6%) - queste ultime due controllate dal gruppo Intesa Sanpaolo - e Ubi Banca (5%).
Secondo una ricerca della Camera di commercio di Monza, la nuova infrastruttura consentirà un risparmio 45 milioni di ore l’anno in spostamenti, e ogni suo chilometro creerà 900 posti di lavoro. L’incremento stimato del Pil è pari a 210 milioni di euro, con un beneficio diretto sul fatturato delle imprese che supera i 200 milioni. Numeri sottolineati ieri da una folla di autorità: dal ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli al suo collega Umberto Bossi (nativo di Cassano Magnago), dal presidente della Lombardia Roberto Formigoni a quello della Provincia Guido Podestà. A mezzogiorno telefona Silvio Berlusconi, che non rinuncia allo spottone elettorale. «Dopo il governo della sinistra, tutto è ricominciato a partire», dice il premier, che insiste in particolare sulla necessità di «rendere più verde l’Italia», perché il milione di nuovi alberi lungo la Pedemontana «non basta». Seduto in prima fila, Bossi ha qualcosa da dire: «Silvio, lascia stare, che a piantare il verde ci pensa la Lega». Controreplica del Cavaliere: «Ne sono felice, ma l’italiano che ha piantato più’ alberi in Italia credo di essere io, su questo siamo in competizione assoluta».
Prima dei discorsi la cerimonia del muro di ghiaccio abbattuto, a simboleggiare il lungo letargo di un’opera, pensata alla fine dei Cinquanta. L’accelerazione negli ultimi anni, dopo un difficile confronto fra i Comuni interessati, le Province e la Regione. Inaugurazione con polemica. Filippo Penati, fino all’anno scorso presidente della Provincia di Milano e ora candidato governatore del centrosinistra in Lombardia, abbandona la sala. «Per colpa di qualche servo sciocco - spiega - sono stato relegato in quinta fila, mi hanno nascosto per non riconoscere il mio impegno come amministratore per la realizzazione di questa struttura, e anche perché mi sono candidato contro Formigoni».
BERGAMO — Se fossero già installate, le eliche girerebbero a pieno regime. Ma non è il vento delle polemiche che dovranno sfruttare, se davvero otterranno il via libera, le pale del parco eolico che la società Centuria di Milano vuole realizzare al passo San Marco (a due mila metri), versante valtellinese.
Il progetto, il primo del genere in Lombardia, ha ottenuto l’ok della Regione per quanto riguarda l’impatto ambienta le e aspetta solo che la Conferenza dei servizi faccia scattare il definitivo semaforo verde. Ma in terra bergamasca le quattro pale da 90 metri d’altezza non sono viste di buon occhio. Anzi, il fronte del no è piuttosto ampio e variegato. E anche chi, come Legambiente, in un primo tempo si era detta in linea di principio favorevole, in virtù del valore ecologico del l’impianto, ora chiede garanzieche l’impatto non sia troppo pesante per il contesto.
Il più feroce avversario delle pale, vestito metaforicamente come un Don Chisciotte contro i mulini a vento, è Franco Grassi, presidente del Parco delle Orobie: «Questo progetto è un vero disastro. Dal punto di vista paesaggistico installare quattro pale del genere è uno scempio. Il passo San Marco è l’unica porta di accesso alla Valtellina: possibile che non ci sia una valletta nascosta in cui piazzare il parco eolico?». Il paradosso è che proprio di questi tempi era maturata l’idea di interrare tralicci e cavi dell’alta tensione. Ora le pale rischiano di aggravare la situazione. Schierato per il no è anche il sindaco di Averara: «Le abbiamo provate tutte per opporci — spiega Angelo Cassi — non sappiamo più a che santo votarci, ma pare che non serva a nulla. Siamo troppo piccoli per ché ascoltino la nostra voce».
L’impressione, in alta Valle Brembana, è che ormai la decisione sia stata presa e che non vi siano margini per opporsi. Il consigliere regionale del Pdl Carlo Saffioti si è impegnato ad affrontare la questione con gli assessori competenti al Pirellone: «Trovo inopportuno deturpare parti importanti e significative del territorio per posizionare pale eoliche che da una parte sono antiestetiche e dall’altra non garantiscono una continuità sul fronte della resa energetica. Il paesaggio naturale dei nostri monti va tu telato ».
Chi fa della montagna la propria palestra, come il Club Alpino Italiano, è sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda. «L’utilizzo delle fonti rinnovabili è fondamentale — osserva Paolo Valoti, presidente della sezione bergamasca — ma senzatroppo impatto sull’ambiente. Nel caso del passo San Marco bisogna vedere se il gioco vale la candela, cioè se il sacrificio ambientale porta un guadagno economico». Nel fronte bergamasco l’unica voce che non dice aprioristicamente no è quella di Legambiente: «Riteniamo che le pale siano uno dei progetti da tenere maggiormente in considerazione per la produzione di energia pulita — è la premessa di Paolo Locatelli—. Riteniamo però che sia necessario avviare un approfondimento sull’effettiva incidenza territoriale e sulle implicazioni reali dell’intervento, come i possibili danni per l’avifauna ». L’associazione ambientalista chiede infine che vi sia un confronto, con assemblee pubbliche, sia con gli organismi regionali che con la società promotrice del progetto.
Glielo ha chiesto Pierluigi Bersani. Un incontro lunedì, poi lunghe e ripetute telefonate il giorno dopo. E adesso Filippo Penati non scuote più la testa. Manca ancora il sì ufficiale, ma per l’ex presidente della Provincia si profila un futuro al Pirellone, come candidato alla presidenza contro Roberto Formigoni. Quello che fino a qualche settimana suonava come un granitico diniego si sta dunque sgretolando sotto l’effetto del pressing congiunto esercitato prima dai lombardi del Pd e adesso dallo stesso Bersani, che ha appena nominato Penati capo della sua segreteria.
Proprio questo nuovo incarico sembrava costituire un ostacolo lungo la strada del Pirellone. Almeno così sosteneva Penati («Mi si chiede un grosso sacrificio»), che però alla vigilia del faccia faccia a faccia con Bersani aveva già ammorbidito la posizione: «Io vorrei evitare - confidava lunedì - ma in un partito come il nostro si deve fare quello che serve». Insomma, proprio l’impegno nazionale nella cabina di regia del Pd lo starebbe portando a un’assunzione di responsabilità che cozza contro il suo progetto originario: candidarsi, sì, alle regionali, ma solo come capolista del Pd. E prepararsi poi da votatissimo consigliere del Pirellone alla sfida del 2011, come candidato sindaco.
Quello di Penati è un profilo di politico a tutto tondo, ma con alle spalle una solidissima esperienza amministrativa, cominciata nei primi anni Ottanta come assessore nella sua Sesto. Inoltre, e questo nell’entourage penatiano sta diventando il leit motiv delle ultime ore, il centrosinistra in Lombardia ha sempre candidato figure «di certo rispettabili, ma bisognose del forte traino dei partiti». Traduzione: a fare da traino stavolta sarebbe lui. Maurizio Martina, segretario lombardo del Pd, è stato il primo a proporre la carta Penati per la gara del Pirellone, e dopo la «chiamata» di Bersani dice che per l’ex sindaco di Sesto «ci sono forti stimoli ad accettare la sfida». Un via libera è già arrivato dagli alleati certi, Italia dei valori e Sinistra e libertà, mentre continua il corteggiamento dell’Udc. Intanto la mozione Bersani candida il sindaco di Cormano, Roberto Cornelli, alla segreteria provinciale. Se, come sembra, entro domenica non verranno presentati altri candidati, non ci sarà neppure bisogno di ricorrere alle primarie.
caro Penati: ma chi glie lo fa fare? Intendo, chi glie lo fa fare di accettare un ruolo tutto sommato marginale, di “capo dell’opposizione” per il prossimo travolgente mandato del Celeste Formigoni? Perché, complice anche una sua eventuale candidatura, questo ci aspetta, implacabile, con tutti i suoi strascichi di nuovo clientelismo, autostrade inutili, spreco di territorio, tirapiedi baciapile a bizzeffe e via dicendo. Per non parlare dell’altissima probabilità di un suo ufficioso quanto inevitabile ritiro a carica nazionale (quella di alto coordinamento a cui l’ha appena chiama il segretario Bersani) dopo la sconfitta alle elezioni e qualche mese di visibilità locale.
Per dirla tutta, e con un briciolo di buon senso: perché mai la stessa persona che è stata scalzata dal governo provinciale di Milano da un signor Nessuno messo lì a fare il candidato zerbino degli interessi del centrodestra, dovrebbe spuntarla contro la corazzata talebano-affaristica di ciellini, leghisti, annessi & connessi?
Nel Pd lombardo ci sono fior di personalità e intelletti, giovani, cresciuti esattamente nel clima da nuove reti sociali e politiche che tutti auspicano da anni, che conoscono benissimo il mitico “territorio”, e lei che non avrebbe nulla da guadagnare li lascia a far la muffa in terza fila, in una logica da “paracadutato da Roma” che peggio di così non si può?
Non ascolti gli appelli di chi ormai da anni infligge piuttosto sadicamente la medesima zuppa sempre più indigeribile ai democratici e progressisti di una Regione che avrebbe molto da dire. Sempre che la si lasciasse parlare, ogni tanto (f.b.)
La Broni-Mortara e il Business Park le prossime ferite all’antico tessuto di marcite e risaie della Bassa I comitati in rivolta e i municipi provano a ripensare l’espansione, ma forse è troppo tardi
Tangenziali, villette, logistica: ogni anno si perdono in media 13 metri quadrati di terreno agricolo pro capite
A Lodi e Pavia, dove l’industria sta diventando un lontano ricordo e si devono fare i conti quotidiani con i posti di lavoro persi, si sta rischiando di svendere il territorio. Autostrade, centri commerciali, lunghe file di capannoni, poli logistici. E poi case, ville, villette a schiera, se possibile condomini e uffici stanno prendendo il posto di campi, prati, coltivazioni, marcite. In cerca di un’anima, le due province sorelle non hanno ancora capito quale sia la loro strada.
Pavia ha la prospettiva, in teoria già nel 2013, di un altro, lunghissimo, nastro di asfalto che porterà tir, smog, campagne devastate. O almeno così vedono gli ambientalisti il progetto ormai approvato dell’autostrada Broni-Pavia-Mortara.
L’altro, di incubo, era quello dei 250mila metri quadrati di territorio consumato, 90mila di superficie edificata, del centro commerciale (il più grande d’Europa si diceva) che la multinazionale Sonae avrebbe voluto costruire a Borgarello, a due passi dal monumento della Certosa di Pavia. Una ferita, ma migliaia di posti di lavoro potenziali in un territorio con una cassa integrazione a quota più 400 per cento. Se Pavia piange, Lodi non ride con una cassa in salita del 350 per cento. Eppure, è solo di qualche mese fa il ricorso al Tar contro la variante urbanistica per la realizzazione del Business Park, progetto che consumerebbe quasi 400mila metri quadrati di terreno agricolo tra Lodi e San Martino in Strada.
Pavia e Lodi del resto condividono, secondo una ricerca del Politecnico di Milano, il record di consumo di territorio agricolo pro capite: 13,4 metri quadrati all’anno per abitante a Pavia, prima in Lombardia, e 10,1 a Lodi, terza e preceduta solo da Mantova (13,1), con una media regionale di 4,7 metri quadrati. E nel Lodigiano come nel Pavese (che però ha realtà diverse con Lomellina e Oltrepo) non si tratta soltanto di autostrade, centri commerciali e logistica, ma anche delle scelte fatte da molti sindaci. Scrive lo storico Giorgio Boatti: «Ogni Comune si fa puntiglio di estendere le zone urbanizzate, di consentire voraci lottizzazioni, di far nascere nel tempo più breve interi quartieri: il risultato è che vi sono settori cittadini, a Pavia, e paesi, nei dintorni del capoluogo, che nel giro del prossimo quinquennio aspirano ad avere il trenta, cinquanta per cento di popolazione in più. Con tutti i conseguenti squilibri che ne deriveranno».
E basta andare nella zona "calda" tra Pavese, sud Milano e Lodi, per scoprire che alcuni di questi paesi stanno perdendo la loro identità: case su case, villette a schiera, piccoli centri per la logistica, supermercati, e poi mini tangenziali per far arrivare residenti e clienti. Parcheggi enormi. Anche i Comuni e le Province, che pure hanno autorizzato e ancora vorrebbero autorizzare espansioni e cemento, provano a tirare il freno. Tant’è che proprio il sindaco di Lodi, Lorenzo Guerini, presentando il Piano di governo del territorio, aveva sottolineato come gli obiettivi del Pgt «si collocano all’interno di una scelta precisa, quella volta a limitare il consumo del suolo», che «sarà comunque pressoché integralmente legato a trasformazioni per gli ambiti produttivi mentre per le trasformazione residenziali verranno privilegiati ambiti relativi ad aree dismesse».
Eppure, viaggiando lungo queste due province, i cantieri ormai non si contano più, e leggendo i vecchi piani regolatori o le varianti appena approvate, si registra come la voglia di mattone, e di consumo di territorio, sia infinita. Lo si scopre in una cittadina qual è Voghera, 40mila abitanti, che si lecca le ferite della deindustrializzazione, che fa i conti con le decine di casse integrazione e che poi con il "Parco Baratta", approva una lottizzazione da un migliaio di appartamenti per circa quasi tremila nuovi abitanti. D’altro canto, dove fuggono via le industrie e dove il terziario avanzato non decolla, non resta molto per offrire lavoro. Il business dei rifiuti, per dirne una: e così a Senna Lodigiana il comitato "Per continuare a vivere" si rivolge al ministro per l’Ambiente Stefania Prestigiacomo perché blocchi l’arrivo della discarica da un 1,5 milioni di metri cubi di capienza in località Bellaguarda. Mentre a Casei Gerola, morto lo zuccherificio dell’Italia Zuccheri che occupò oltre 150 dipendenti, dopo la bonifica (altro business) si pensa a un outlet del prodotto tipico con annesso centro commerciale. A due passi dal casello autostradale della Milano-Genova. Strade e centri commerciali. Il futuro, a Pavia e Lodi, è davvero solo questo?
"Svendono i terreni per far quadrare i conti"
intervista all’urbanista Cristina Treu
Maria Cristina Treu insegna Progettazione urbanistica al Politecnico di Milano. Conosce a fondo i piani territoriali di Comuni e Province come Pavia e Lodi. E dice: «La svendita del territorio e il consumo del suolo non sono solo la reazione alla deindustrializzazione, sono una sorta di autodifesa da parte dei Comuni, di istinto di sopravvivenza contabile».
Che cosa intende dire?
«Gli oneri delle lottizzazioni di case e terziario servono ai Comuni per le spese ordinarie, per tirare avanti e far quadrare i bilanci, in particolare ora che è stata abolita l’Ici. In Lombardia ci sono 1.547 Comuni, il 94 per cento dei quali ha meno di 5mila abitanti, e proprio questi hanno fatto registrare il maggiore aumento della popolazione dal 2001 a oggi».
È una soluzione per non aumentare le tasse.
«Abbiamo fatto uno studio recentissimo. Ci dice che su una lottizzazione di circa 20mila metri quadrati, mediamente, in gettito di contributi diretti o in opere, un’amministrazione è in grado di garantirsi la sopravvivenza per 5 anni, ossia la durata del mandato di un sindaco. E sa cosa ci restano dopo i 5 anni? I costi di manutenzione. E c’è un problema in più».
Un altro?
«Gran parte delle opere a scomputo oneri sono strade e rotatorie, che non solo costano per la manutenzione ma che se non curate a dovere diventano anche un pericolo. I dati ci dicono che la maggiore incidentalità non è sulle grandi arterie, ma sulla piccola rete viaria di competenza di Province e Comuni».
C’è qualche soluzione praticabile?
«Penso che, invece di abolire le Province, che per zone come Pavia e Lodi non sono enti inutili, sarebbe il caso di unire i Comuni. In Provincia di Lodi, per dirne una, c’è Maccastorna, che ha 45 abitanti. Ha un senso?».
Il Consiglio approva il Piano casa ma boccia nuove aree protette
di Oriana Liso
Dopo quattro ore e mezza di discussione passa, con 37 voti su 41, la delibera della giunta che mette una serie di paletti al Piano casa della Regione. Dodici, per la precisione: perché alle undici aree individuate dai tecnici dell’assessorato all’Urbanistica come "città-giardino" da salvare da iniezioni di cemento, ieri l’aula del consiglio comunale ne ha voluto ribadire solo un’altra, ovvero tutto il perimetro del Parco Nord. Bocciati o ritirati gli emendamenti sulle altre zone da tutelare, presentati soprattutto dall’opposizione. E riformulato solo come ordine del giorno - che verrà votato lunedì - un contestato emendamento del leghista Matteo Salvini (con firme bipartisan) sulla tutela delle cascine di Milano. Voto contrario alla delibera dei Comunisti italiani; astenuti Rifondazione e Sinistra democratica. Voto a favore del resto dell’opposizione, con una forte riserva generale sul Piano casa formigoniano.
L’approvazione del provvedimento disegnato dall’assessore Carlo Masseroli - che sarà subito operativo - arriva a 24 ore dalla data limite per imporre limiti al Piano casa della Regione: le nuove regole saranno in vigore da domani per i prossimi 18 mesi e permette ai proprietari di case (privati e pubblici) di aumentare le volumetrie fino al 30 per cento con una serie di interventi di risparmio energetico. La legge regionale pone alcuni vincoli sui centri storici - nel caso di Milano, l’area della Cerchia dei Bastioni - , ma il Comune ha deciso di escludere dall’applicazione anche quei quartieri periferici con un tessuto particolare. A quelli, nei giorni scorsi, i consiglieri avevano proposto se ne aggiungessero altri - come Lampugnano, Trenno, Cantalupa, le casette di via Barzoni e il quartiere Umanitaria - ma ieri, durante l’acceso dibattito, queste ipotesi sono venute meno. Lo scontro più acceso è arrivato sull’emendamento presentato dall’Udc Pasquale Salvatore (e firmato da Manca e Gallera del Pdl): la delibera prevede la possibilità di incrementare del 40 per cento le volumetrie delle case popolari, ma solo se lo stabile viene abbattuto e ricostruito. Per l’opposizione l’emendamento - poi modificato profondamente - apriva la possibilità a speculazioni edilizie per i privati: nella versione definitiva, invece, si potrà abbattere una casa popolare e ricostruirla nella stessa zona (anche non sul suolo originario), con la possibilità di vendere quel 40 per cento di volume in più come edilizia convenzionata.
Alle critiche che l’opposizione ha ribadito fino al momento della votazione sul Piano casa e sulle sue implicazioni l’assessore Masseroli ha risposto che «ogni nuova costruzione consentita a Milano dal Piano casa sarà comunque sottoposta al vaglio preliminare della commissione comunale paesaggistica», che prende il posto di quella edilizia e dovrebbe essere operativa a breve. Ma Fai, Italia Nostra e Wwf rilanciano: «Per fortuna molti Comuni lombardi hanno colto il nostro invito per una applicazione molto restrittiva del piano (tra questi, le amministrazioni del Parco Sud): è evidente che sono stanchi di fare cassa svendendo il proprio territorio».
"Per Milano poche tutele si doveva fare di più"
intervista al presidente di Legambiente Damiano di Simine
di Alessia Gallione
Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia, cosa ne pensa dei vincoli di Palazzo Marino al Piano casa?
«La delibera di Milano contiene aspetti migliorativi come quelli decisi da molti altri Comuni. Purtroppo è il Piano della Lombardia a essere uno dei peggiori d’Italia dal punto di vista delle garanzie: ha permesso di fare aumenti di volumetrie indifferenziati o demolizioni e ricostruzioni con criteri poco chiari senza mettere paletti».
Quelli messi dal Comune bastano?
«Sono state salvate alcune zone di pregio: sono poche ma comunque sono qualcosa. Se non altro hanno affermato che il Comune ha una potestà di pianificazione urbanistica. Il problema è che Milano è una città talmente complessa che pensare di decidere cosa salvare dalla deturpazione in tempi così stretti è al limite del possibile».
Altre proposte sono state bocciate dall’aula, però.
«Stiamo parlando di pezzi di città che hanno tutti una forte valenza e che con questo Piano, invece, vengono venduti al mercato delle vacche. Si perde di vista che la città è un organismo da tutelare complessivamente: non si può decidere di lasciare carta bianca alle manomissioni di alcune aree invece di altre. Milano ha patrimoni sparpagliati su tutto il territorio che spesso rappresentano l’identità dei quartieri come nel caso di Lampugnano o le case di via Dezza».
Si poteva fare di più?
«Senza giustificarla, posso anche capire una certa prudenza istituzionale del Comune. Molti amministratori sono preoccupati di dover affrontare i ricorsi dei cittadini che, magari, si vedranno negata la possibilità di intervento».
Cosa rischiamo adesso?
«Di giocarci pezzi importanti di patrimonio della città. Abbiamo già visto cosa è successo con i sottotetti. In questo caso, però, sono più preoccupato per i quartieri periferici».
Perché avete presentato un esposto alla Corte di giustizia europea contro il Piano casa?
«Per noi è illegittimo visto che non prevede la partecipazione dei cittadini alle scelte e neanche quel passaggio oggi obbligatorio in tutta l’Unione Europea che è la Valutazione ambientale strategica».
MILANO - Una "Serenissima" in salsa padana. Un´autostrada d´acqua da Milano a Venezia attraverso il Po. Ma c´è chi già lo chiama il ponte sullo Stretto del Nord imposto dalla Lega. C´era infatti anche il leader del Carroccio Umberto Bossi, ieri, col governatore lombardo Roberto Formigoni a Truccazzano, comune ad Est di Milano, per il sopralluogo al progetto per riportare il più grande fiume d´Italia al 1954. Quando era in gran parte navigabile. Prima che i continui prelievi dalle cave di materiali da costruzione ne abbassassero il livello anche di cinque metri. Un sogno incompiuto che dura da oltre cent´anni. E che ora risorge grazie all´Expo di Milano del 2015. Ma gli agricoltori temono che il canale da Milano e Cremona fino alle foci del Mincio lascerà i campi a secco.
Unico tratto realizzato a Pizzighettone (foto F. Bottini) |
Il costo dell´opera, 2,4 miliardi di euro, è faraonico. L´unione Europea finora ha stanziato solo 80 milioni, ma la Lega ci tiene. Il vice ministro alle Infrastrutture Roberto Castelli ammette: «Non esiste ancora nemmeno il progetto preliminare». Formigoni dice che «dobbiamo vedere accuratamente la fattibilità», ma il Senatùr insiste: «Unire Milano a Venezia ha una valenza economica. Vogliamo riportare le aziende lombarde sul mare». Scettici sulla reale utilità la Coldiretti, il Pd e i Verdi. Il progetto preliminare dovrebbe essere pronto nel 2010. L´opera nel 2015.
In realtà se ne parla dal 1902, quando il primo progetto fu presentato alla commissione per la Navigazione. Nel 1918 arriva il progetto Majocchi e Villa. Nel 1921 è la volta di un piano regolatore per le grandi vie d´acqua dell´Italia settentrionale. Nel 1926 il progetto viene presentato al ministero dei Lavori Pubblici e nel 1939 a Ferrara. Nel 1941 viene istituito il consorzio del canale navigabile Milano-Cremona. Nel ‘55 la conferenza europea dei ministri dei Trasporti definisce l´idea d´interesse generale. Il patrimonio dell´azienda portuale di Milano passa al Consorzio e, nel 1960, il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi pone la prima pietra del tratto di 15 chilometri tra Cremona e Pizzighettone, l´unico realmente costruito.
Solo tra il 1989 e il 1992 si riparla della costruzione del tratto tra Pizzighettone e l´area milanese. Ma nel 1994 il consorzio del canale è soppresso come ente inutile malgrado l´Ue avesse ratificato il progetto. Il piano che permetterebbe di eliminare dalle strade lombarde 4mila Tir al giorno, però, risorge nel 1998 e viene inserito nei progetti di sviluppo europei: il Consorzio fa una nuova proposta, poi di nuovo più nulla.