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La storia si ripete, e quanto sta accadendo oggi per il progetto del nuovo aeroporto di Firenze è un film già visto. Si tratta del 'remake' ...(continua a leggere)

La storia si ripete, e quanto sta accadendo oggi per il progetto del nuovo aeroporto di Firenze è un film già visto. Si tratta del 'remake' di un soggetto scritto a più mani, così apprezzato da essere riproposto in ogni occasione utile. Ma quale è il soggetto del film? E' la solita grande opera infrastrutturale che ahimè, per volere di 'fastidiose leggi' che lo Stato italiano (come d’altronde tutti gli Stati europei) ha emanato in applicazione di direttive comunitarie, deve essere sottoposta a un giudizio di compatibilità ambientale. Ma potrà mai ciò accadere per le infrastrutture che il potere ritiene irrinunciabili per lo sviluppo? Certo che no! Un sistema collaudatissimo ha prodotto un complicato ma perfetto intreccio di relazioni e competenze che garantisce alle opere di uscire vincitrici nella competizione con le valutazioni, come uno slalomista tra i paletti.

Il problema è che le 'non valutazioni', perché di ciò si tratta, producono spesso effetti devastanti. Ha fatto scuola in tal senso l’alta velocità – nel sottoattraversamento appenninico - dove a seguito di ripetute segnalazioni da parte dei tecnici in merito alla probabilità che la realizzazione delle gallerie ferroviarie potesse intercettare l’acquifero e alla necessità, perciò, di approfondire le conoscenze in tal senso, la politica (tutta) ha, nel supremo interesse collettivo, approvato l’opera dando mandato affinché – ed ecco le parole magiche - “nelle successive fasi autorizzative” si verificasse la sussistenza di tale criticità. Et voilà, con la semplice frase “nelle successive fasi autorizzative” si è realizzata l'intuizione capace di sovvertire l’applicazione delle regole poste a tutela dell’ambiente e della salute pubblica. Perche è bene ricordare - a riguardo - che gli acquiferi del Mugello sono stati effettivamente intercettati dalle gallerie, che fiumi, torrenti e sorgenti si sono effettivamente seccati; e, udite udite, la Regione Toscana si è costituita parte civile nel processo per disastro ambientale; sì proprio quella Regione che anni prima, in sodalizio con l’allora Ministro delle infrastrutture Matteoli, aveva approvato il progetto TAV convenendo che soltanto “nelle successive fasi autorizzative” si sarebbe dovuto verificare se avevano una base di fondatezza le preoccupazioni ambientali poste da coloro che oggi è di moda chiamare 'gufi'.

Ma torniamo alla procedura di VIA del nuovo aeroporto di Firenze in corso. Questa sta seguendo lo stesso sistema collaudato di aggiramento delle leggi e delle regole. Il primo passo è che il proponente presenti un progetto preliminare/definitivo, operazione impossibile solo per gli ingenui. Il significato autentico è che il progetto entra nella VIA come 'preliminare' e ne esce come 'definitivo'. Come? Con un secondo passo: la commissione VIA, invece di chiedere integrazioni e chiarimenti - atti ufficiali che interromperebbero la procedura e che richiederebbero risposte e approfondimenti altrettanto ufficiali - 'contratta' le modifiche del progetto con il proponente; e, in effetti, per quanto risulta, la Commissione Via non ha richiesto nessuna integrazione del materiale del Master Plan aeroportuale per quanto lacunoso, né lo farà la Regione, Toscana, né lo ha fatto il Comune di Firenze, ovviamente sponsor del progetto, che ha trasformato le proprie osservazioni in "prescrizioni realizzative".

Le "prescrizioni realizzative", un'invenzione senza alcun fondamento giuridico, spiegano il terzo fondamentale passo del "sistema". L'amministrazione - tanto per fare un esempio - invece di chiedere le necessarie integrazioni degli studi e dei modelli di valutazione del rischio idraulico, perché basati su dati non aggiornati, dirà che "nelle successive fasi di realizzazione del progetto si dovrà approfondire l'eventuale necessità di disporre di dati più aggiornati". E così si arriva al progetto esecutivo 'non valutato', con ritardi, interruzioni non previste, proteste, costi triplicati da scaricare sui contribuenti; e con il rischio di ripetere i disastri del Mugello.

Questo sistema è stato seguito dalla Commissione VIA con l'intermediazione e il patrocinio di ENAC nel corso degli anni per tutti i progetti aeroportuali soggetti a studio di impatto ambientale. E, ovviamente, nonostante l'allarme della pagina locale di Repubblica (colpo di scena! Palazzo Vecchio fa le bucce all'aeroporto!) le "prescrizioni realizzative" del Comune di Firenze sono state favorevolmente accolte dal proponente Adf che ha annunciato di volere avviare i lavori entro agosto, anticipando come favorevoli i pareri della Regione e degli altri enti interessati; e sottintendendo che le valutazioni (serie) non sono altro che un evitabile intralcio a decisioni già maturate.

Le opache e tortuose vicende del nuovo aeroporto di Firenze non fanno altro che ripetere un copione collaudato: aggiramento delle regole poste a tutela della sicurezza e della salute delle popolazioni, vanificazione dei processi partecipativi, decisioni prese dall'alto e gestite dall'alto, pubblicità sui giornali al posto di analisi serie. Il tutto con la complicità delle istituzioni e delle amministrazioni pubbliche; nel silenzio della stampa che riporta solo entusiastiche dichiarazioni a supporto del nuovo aeroporto. Non c'è da stupirsi che la 'politica' sia sempre più sentita come una collusione tra potenti, estranea e contraria agli interessi dei cittadini.

Le città fallite. I grandi comuni italiani di Paolo Berdini ...(continua a leggere)

Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano di Paolo Berdini ha comportato un seguito. Voglio dire che nel tempo trascorso da allora ho ripensato lentamente a un tema suscitato dall’autore. Il risultato è questo articolo.

Berdini comincia il suo intervento in maniera inaspettata, originale, spiazzante. Molto utile però ai presenti fra cui numerosi giovani studenti del Politecnico, che suppongo fossero informati delle ultime vicende urbanistiche e architettoniche della città e conoscessero almeno l’essenziale degli eventi storici. Egli racconta del suo arrivo in treno e della decisione di andare dalla stazione Centrale alla “Nuova Milano” di Garibaldi – Repubblica – Isola. Quella di cui l’amministrazione civica e certi commentatori menano vanto. Quella dei grattacieli gettati lì senza un piano particolareggiato del Comune. Venuta su così per iniziativa liberista e irregolare di società immobiliari, banche, presidenza regionale; non discussa e non controllata in alcun Consiglio pubblico.[1]

Quella che cerca di ingannare i cittadini o di corroborarne la pigrizia sensoriale denominando “piazza” uno spazio indistinto, sbadato, fuggevole, inurbano: per di più dedicato a Gae Aulenti, la collega, l’amica che si sarà rivoltata nella tomba, lei che nell’operare privilegiò, come potette, la finitezza, la riflessione, il garbo. Hanno voluto, tutti gli implicati nel gigantesco fallo urbanistico-architettonico milanese manifestare il loro odio verso le meravigliose antiche piazze italiane depositarie di bellezza e di esemplarità dei rapporti umani che la sottendevano. Loro vogliono cancellare il retaggio storico, vogliono importare i mostruosi paesaggi di Dubai, di Doha, del Quatar… Non è un accidente che proprio questi grattacieli siano finiti alla fine di febbraio in mano agli emiri: impressionante, va detto, la coerenza dei nostri autori.
Il fondo sovrano del Qatar è ora il proprietario unico di questa parte di Milano. Un pezzo di un paese straniero è qui. Straniero non solo dal punto di vista economico (i capitali, si sa, volano attraverso l’aere-mondo e atterrano dove gli conviene, ossia dove desiderosi nuovi sudditi o servi gli aprono le porte), ma per la conformazione degli edifici e degli spazi a imitazione dei luoghi originari. Aveva dato l’annuncio in conferenza stampa Manfredi Catella, il capo di Hines sgr, sprizzando intorno soddisfazione e perfino gioia. Spiegando che il fondo già detentore del 40% scalava la china fino alla vetta (100%), concludeva con veritiero realismo che esso “è il padrone di casa". Quanti milanesi sentirono ghiacciarsi il cuore? Forse pochi, se dessimo ascolto alle cronache di consensi e persino entusiasmi manifestati da certi visitatori.

Berdini dinanzi al borgo del Quatar sbalordisce; dice di essere incredulo, addolorato: perché “Milano è bella”. “Milano è bella”, ripete.

Come dobbiamo interpretare quest’affermazione netta, sicura? Che Milano era bella? Che lo fosse ancora, dopo i fervidi apprezzamenti di Stendhal, prima della grande guerra e ancora negli anni Venti oso dirlo, benché non fossero mancati gl’investimenti anche molto estesi lautamente remunerativi della rendita fondiaria laddove svettava il primato nell’accumulazione dei profitti industriali (comprendenti sostanziosi trasferimenti dall’agricoltura). Rievocando la forma della città, gli elementi urbani costitutivi, la pianificazione, l’architettura nel trascorrere del tempo dal tardo neoclassico all’eclettismo al liberty al primo Novecento, parrebbe resistito una sorta di vincolo a tenere insieme non a slegare la città, anche in mancanza di un obbligo regolamentare a farlo.

Simbolo indiscutibile ne è la strada residenziale, con gli allineamenti degli edifici in base e in altezza nei tracciati sia retti che curvi, quest’ultimi di origine medievale: una costituzione storica che ha segnato le epoche senza perdere nessun germoglio di vita e così assegnare al luogo-strada (parallelamente al luogo-piazza) un compito sociale, di per sé sorgente del bello quando vince l’unione contro la divisione. E dove il modernismo ha cercato nuove costituzioni ben prima della negazione dei razionalisti radicali (“il faut tuer la rue corridor”, Le Corbusier. Tuer = ammazzare, assassinare) non ha disperso le case ma le ha radunate circoscrivendo uno spazio comune. Cito un esempio dei primi anni del XX secolo: seguendo via Porpora da Piazzale Loreto si incontra all’angolo con Viale Lombardia, segnalato anche dalla guida del Touring Club, un quartiere della Società Umanitaria realizzato entro il 1909 su progetto di Giovanni Broglio. I fabbricati di tre o quattro piani, noti anche per nuovi caratteri distributivi delle abitazioni, furono disposti solidalmente attorno a una corte centrale, comprendente i servizi utilizzati originariamente anche dall’attiguo e coevo quartiere dell’Istituto (comunale) per le case popolari ed economiche.

Solo con la revisione del razionalismo schematico, prima da parte di Enrico Agostino Griffini (il più anziano degli architetti moderni attivi a Milano) propenso a un ripensamento storicistico, poi di Piero Bottoni col progetto del Quartiere Gallaratese (1955-56, non realizzato), rinasce l’attenzione all’eccezionale contributo dato dalla strada italiana all’abitare bene, socievole, al di là della funzione famigliare dell’alloggio. Bottoni propone la “strada vitale”, una tipologia che da un lato vorrebbe richiamare la tradizione, dall’altro rappresentare la rottura razionalista: corpi bassi continui lungo i bordi per il commercio, i servizi sociali e culturali, le attività artigianali minute (la “vitalità”, dice Bottoni) e alti volumi per le abitazioni retrostanti ed estesi in lunghezza perpendicolarmente ai corpi bassi, e molto distanziati fra loro. Questa soluzione, sebbene non sembri disponibile a collaborare all’”assassinio”, non può tuttavia vantare una reale parentela con la strada storica. Infatti, manca la residenzialità (e le attività vi si mescolerebbero), mancano le famiglie le persone che vi abiterebbero incrociando le loro vite, i rapporti umani che ne nascerebbero. Quegli alti fabbricati si distaccano in tutt’altra condizione spaziale e sociale, secondo una specie di ritorsione lecorbusieriana.

Ben più duri giudizi meritano tracciati denominati “via”, “corso”, “strada” quando non ne hanno la minima rispondenza storica. La storia l’hanno buttata in frantumi gli autori proprio “assassinando” le vere strade insieme a vasti contesti. Per soluzione famosa – e non lo è troppo! – nomino la “racchetta”, prevista dal piano regolatore del 1934 e malinconicamente non negata dagli architetti milanesi negli anni Cinquanta: Corso Europa, Via Larga, Via Albricci, “balordo stradone”, “stradone micidiale” come lo chiama con disprezzo Antonio Cederna, “arrestato in piazza Missori sopra il cadavere di San Giovanni in Conca”.[2] Grossi edifici in lungo in largo in alto, molti “firmati”, interamente dedicati agli uffici, alla finanza e al commercio; delle migliaia di abitazioni preesistenti nessuno si ricorda, a meno di qualche vecchio (etiam ego) che vide da giovane sbriciolare le sobrie case unite nell’allineamento viario, rappresentative di quella celata bellezza tipicamente milanese che altrove ho definito architettura neoclassica da capomastro. Il sopravvissuto palazzo Cinque-Settecentesco Litta Cusini in corso Europa, debole e smarrito, sembra sul punto di essere schiacciato dalla pressione dei nuovi fabbricati che lo fiancheggiano.

Siamo alla ricerca della città “bella”. Cerchiamo l’essenza umana, la bellezza intima, non quella monumentale di cui peraltro Milano è ricchissima. Dal fascismo al dopoguerra ai decenni corsi uno dopo l’altro attraverso incontenibili cambiamenti strutturali[3], la mala urbanistica e la sorella speculazione fondiaria ed edilizia hanno imperversato fino ad oggi non facendo caso su quale tipo (socio-economico) di città piombassero i danni irreversibili (basti accennare alla perdita di mezzo milione di residenti) spacciati per benefici. Il caso e la coerente azione non potevano che esibirsi dove il successo già ottenuto chiamava, quando sembrava inconcepibile rinunciare alla concentrazione. Doveva essere il centro storico, già prescelto dal fascismo, in particolare il centro del centro vale a dire l’area all’interno della Cerchia dei Navigli, il luogo delle manomissioni che man mano avrebbero marcato sempre più chiaramente la natura e la funzione di Milano: banche, assicurazioni, uffici finanziari e fiscali, sedi commerciali dei prodotti di lusso …

Ma non sempre la manomissione coincide con la demolizione di begli edifici e la costruzione intensificata di nuovi volumi, al peggio accompagnate dalla cancellazione di interi contesti storico-sociali. Talvolta la trasformazione strutturale non comporta pesanti alterazioni esterne. Facciate allineate di case e palazzi di vecchia nobiltà o di borghesia produttrice, oppure resistite case un tempo abitate da ordinarie famiglie milanesi nascondono le nuove realtà: che nulla c’entrano con la vitalità di spazi residenziali posseduti dalle persone e riversata nell’umanità dei rapporti negli spazi pubblici. Forse dobbiamo accontentarci di un’estetica dell’apparenza? Intanto le banche più potenti che già si distinguono per la conquista di interi palazzi da spaccare nell’interno, alle volte preferiscono ostentare inserimenti vandalici di grossi volumi personalizzati da clamorose bruttezze architettoniche.

Camminiamo nelle piccole strade dietro e di fianco alla Scala, nell’intrico fra Broletto, dell’Orso, Verdi, S. Margherita. Siamo nel super centro, in un vecchio tessuto viario. Buona parte delle cortine ci appaiono come descritto sopra, ma non mancano gli accecamenti e i colpi al cuore. Via Filodrammatici (con la piazzetta dedicata a Enrico Cuccia, località e nome simboli indiscussi della potenza finanziaria della città) si presenta decorosa ma laggiù in fondo si staglia uno spaventoso doppio sopralzo. Giriamo, attraverso via Bossi, in via Clerici, per riscontrare la presenza del settecentesco omonimo palazzo esteso lungo la strada; conosciamo i tesori che conserva. Dirimpetto incombe un gigantesco edificio moderno di sorprendente bruttezza, per di più bianco abbagliante come il gesso e con il corpo centrale arretrato per ottenere maggior altezza: ora proprietà della più potente banca nazionale ma costruito a metà degli anni Cinquanta per uffici Olivetti su progetto di noti architetti “di fiducia”, fra cui il giustamente stimato in ambito olivettiano Marcello Nizzoli (di qui la sorpresa).

Inoltre la pesante massa bianca preme lateralmente contro il leggero palazzetto del Circolo filologico milanese, una degna testimonianza di architettura liberty. Se prima di entrare nel palazzo Clerici proseguissimo per la breve via San Protaso sbucando nella larga via Santa Margherita vedremmo incombere ai due angoli dell’imbocco due esorbitanti edifici bancari, perfetto esempio di quell’inserimento vandalico disinvoltamente accettato dall’amministrazione pubblica. Ritorniamo in via Clerici e per estraniarci entriamo nel palazzo antico. Saliamo lo scalone e andiamo a stupirci nella lunga Galleria degli arazzi coperta a volta, stiamo lì sotto il favoloso affresco di Gianbattista Tiepolo (doppio significato dell’aggettivo: per il soggetto e per la qualità). È questa la bellezza che cerchiamo? Essa fa parte della riserva di capolavori d’arte che Milano, a parte la dotazione nei musei e nelle gallerie private, custodisce in qualche palazzo signorile e soprattutto, in gran numero, nelle chiese. Una messe che ogni tanto ci concede di immedesimarci in un altro mondo che non quello dell’inquietudine metropolitana.

Stiamo cercando, come si è visto, un’altra bellezza, quella della città costruita, urbana e umana, per questo abbiamo insistito sul legame tra forma del luogo (strada, piazza...) e residenzialità, tra spazio famigliare e spazio pubblico. In mancanza di tale coerenza, come in gran parte dei quartieri entro la circonvallazione “spagnola” che hanno buttato fuori le famiglie residenti, dovremmo accontentarci di quel che la forma della città offre ancora nelle parti scampate ai vandali, magari ferite ma non assassinate, se non rovinate dagli stessi milanesi.[4] Insomma, dovremmo apprezzare la scena urbana, sapendo che mancano i veri attori e al più vi brulica la “vitalità” nel senso bottoniano. Di tali occasioni Milano ne offre non poche. Ognuno si cercherà le sue, nessuno pretenderà che sciogliamo le complicazioni di questo articolo con un elenco da guida turistica.

Invece invitiamo a ritrovare la bellezza come qui interpretata ai margini esterni della circonvallazione, in zone residenziali (specialmente strade e viali) dove conta il contributo di buona architettura dell’Ottocento e del Novecento ante guerra mondiale. Ora impiego (anche) la prima persona singolare e chiudo dichiarando la mia scelta di luogo esemplare in cui il conto delle diverse parti che concorrono a costruire il tutto torna, soddisfacendo la nostra equazione della bellezza: è un insieme di strade poco al di là dei Bastioni di Porta Venezia. Qui si concentra un gruppo eccezionale di case liberty, magnifiche facciate, sorprendenti particolari d’interni negli accessi, decorazioni ben integrate nell’architettura, sculture, mosaici di ceramica, pezzi di artigianato del ferro …, ogni opera di architetti e artisti contribuisce a costruire una scena urbana unitaria e unica: che, però, non ci basta per distinguere la bellezza urbana.

Percorriamo le strade e capiremo che nelle mirabili case allineate e coese (ah, la sprezzata rue corridor) risiedono famiglie persone, vedremo le stesse mescolate ad altre da altrove provenienti muoversi e incontrarsi; ci domanderemo infine se l’architettura d’autore, così vivida e felice nel caso dell’art nouveau contribuisca a rendere gli spazi dell’abitare, interiori ed esteriori, più sicuramente conformi al desiderio di benestare. Via Frisi, via Malpighi, via Melzo… Hotel Diana (ne sapete la lunga storia). Seguiamo il profumo dell’arte floreale e scopriamo non troppo lontano via Pisacane, l’altra rue dove la bellezza dell’unione residenziale (in un quadrante del piano “ottocentesco” dell’ingegner Cesare Beruto) è sostenuta ancora un volta da una fortissima coerenza dall’architettura liberty in una successione di case costruite al principio del XX secolo.

[1] Un’architetta interpellata da un giornalista ha detto che “Milano ha il grattacielo nel suo dna perché ha eretto la guglia del Duomo con la Madonnina …”.

[2] Antonio Cederna, L’inutile rovina,”Il Mondo”, II°,28 febbraio 1956, poi in I vandali in casa, Laterza 1956; nuova edizione 2006, ridotta, a cura di Francesco Erbani con sottotitolo Cinquant’anni dopo).

[3] Cfr. in Eddyburg il mio Com’era Milano e com’è al tempo dell’esposizione, 22 aprile 2015.

[4] Richiamo all’altro testo da affiancare a quello di Antonio Cederna: L’Italia rovinata dagli italiani. Sottotitolo di copertina Scritti sull’ambiente, la città, il paesaggio 1946-1970. A cura di Vittorio Emiliani, Rizzoli, Milano 2005. Antologia di articoli pubblicati prevalentemente sul Corriere della sera.

La pochezza e pericolosità della legge sulla cosiddetta “buona scuola” messa in evidenza da commentatori di ogni tendenza...(continua a leggere)

La pochezza e pericolosità della legge sulla cosiddetta “buona scuola” messa in evidenza da commentatori di ogni tendenza (da ultimo l'ottimo intervento di L. Illetterati su il manifesto del 28/5) ci dovrebbe tuttavia spingere a tentare di delineare i tratti di una scuola all'altezza del nostro tempo. Al di là della necessità di remunerare gli insegnanti italiani con un reddito dignitoso – la più vera e urgente riforma – occorrerebbe avviare una riflessione di prospettiva. La scuola è un asse fondamentale per la trasformazione radicale del capitalismo e costituisce un terreno su cui la sinistra ha potenzialità egemoniche.

E' evidente infatti che su tale terreno le classi dirigenti europee non vanno oltre un basso orizzonte economicistico. Tutti gli interventi riformatori che si sono succeduti in Italia e in Europa su scuola e Università, a partire dal cosiddetto “processo di Bologna” (1999) sino alla “buona scuola” dell'attuale governo - ovviamente con differenti ambizioni - hanno un elemento in comune: quello di ricercare una maggiore efficienza funzionale degli istituti della formazione. Modificazioni e aggiustamenti che non hanno mai riguardato la qualità degli insegnamenti e il modo di impartirli, l'estensione e l'innalzamento dei processi di conoscenza e di formazione, ma i meccanismi “produttivi” delle stesse istituzioni (quantità di laureati e diplomati, tempo e risorse impiegati, assunzione di personale, ecc.).

L'obiettivo dell'intervento è rimasto confinato nell'efficacia ed economicità delle prestazioni e nella loro misurabilità e incentivazione. L'introduzione dei crediti nei corsi universitari ha costituito l'innovazione più esemplare dello spirito riformatore che ha orientato e orienta il legislatore. Naturalmente il telos nascosto e unificante di tutti questi interventi è l'adeguamento della scuola e dell'Università, considerate vecchie, ai bisogni incalzanti della società. Dove la società coincide quasi perfettamente con l'impresa. Avvicinare la scuola al mondo del lavoro: è questa l'esigenza invocata. E il lavoro altro non è che il “mercato del lavoro”. La sorgente dell'innovazione oggi è sempre il mercato, regolatore assoluto dell'intero universo sociale.

Significativamente, non pochi, maldestri e ignari, si spingono ad accusare la scuola quale responsabile della disoccupazione giovanile. Ed è questa pressione, che si esercita sul mondo della formazione, a determinare l'ossessione dilagante per la valutazione ed il merito. Quel che preme al legislatore è incrementare e misurare la prestazione dei soggetti che operano nell'istituzione come in qualunque impresa che deve competere. Da qui discende l'intero edificio normativo e burocratico, che cresce su se stesso e che soffoca oggi scuola e università, distratte dai loro compiti formativi e chiamate continuamente a valutare e a valutarsi, a mimare imprese che devono produrre beni e servizi.

Ma è questa la scuola di cui abbiamo bisogno? L'innovazione nei contenuti degli insegnamenti si può davvero esaurire nell'aggiunta di qualche disciplina ( «Arte, Musica, Diritto, Economia, Discipline motorie») e, come recita ancora il testo del Ddl governativo, nel guardare «al futuro attraverso lo sviluppo delle competenze digitali degli studenti»? La modestia di queste amene genericità partorite dalle burocrazie ministeriali rivela tutta l'angustia culturale in cui è imprigionata la pedagogia neoliberista del nostro tempo. E , per la verità, non solo essa. In realtà, oggi, sul piano dei contenuti e delle discipline la scuola potrebbe costituire uno straordinario laboratorio di riforma scientifica, culturale e morale. Un luogo in cui si formano giovani in grado di pensare in forme nuove la realtà della natura, all'altezza delle sfide gigantesche che dobbiamo fronteggiare.

Ma per insegnare una nuova scienza nelle scuole occorre sapere quello che è accaduto non solo alle discipline in cui essa si articola, ma anche al mondo vivente di cui essa si occupa. Perché, come ebbe a osservare Einstein, «non possiamo risolvere i nostri problemi con lo stesso pensiero che li ha creati». Ebbene, oggi è clamorosamente assente non solo nel dibattito pubblico, ma perfino nella più ristretta koiné intellettuale, la percezione di uno dei più drammatici mutamenti consumatosi nel corso del XX secolo: la subordinazione dell'evoluzione terrestre ai ritmi e al dominio dell'azione umana. Due vicende che erano corse in parallelo per millenni, le trasformazioni autonome del pianeta e la storia degli uomini, si sono fuse, e l'evoluzione della terra è stata incorporata nello sviluppo economico delle società.
Una nuova imprevista responsabilità grava dunque sulle società umane, che richiederebbe una nuova visione dei metodi e dei compiti della scienza, da tempo avanzata da studiosi come Edgar Morin, Fritjof Capra e da altri. Un sapere in grado di superare la vecchia separazione delle discipline: la chimica, la fisica, la biologia, ecc. tutti ambiti che hanno studiato separatamente il corpo smembrato della natura per meglio penetrarlo e manipolarlo. La possibilità che abbiamo oggi, grazie ai progressi dell'ecologia, di studiare l'intero mondo vivente come un cosmo unitario, biologico, chimico, fisico, botanico, ecc. per poterlo conoscere nelle sue più intime connessioni e proteggerlo, potrebbe produrre nelle classi una vera rivoluzione didattica, capace di far cooperare le singole discipline come mai è avvenuto sinora. “Riformare” la scuola in questa direzione significherebbe davvero adeguarla ai bisogni del nostro tempo, perché assolverebbe il compito di educare le nuove generazioni a una nuova etica della natura, non più luogo di indiscriminato saccheggio, ma casa comune da curare e proteggere.

C'è un altro aspetto di carattere disciplinare e contenutistico che rimane clamorosamente assente dalle indicazioni dei riformatori che intervengono sulla scuola. Non mi riferisco soltanto all'assenza di idee su come valorizzare gli insegnamenti della nostra grande tradizione umanistica, base di formazione ed emancipazione spirituale degli individui, di educazione al pensiero, alla bellezza e alla poesia, e non semplicemente competenza professionale da utilizzare nel lavoro. Anche in questo caso è la storia contemporanea recente a suggerire la direzione necessaria. Il 900 ci consegna un'altra grande frattura. A dispetto del perdurante dominio economico e militare dell'Occidente, è evidente che la visione eurocentrica della storia del mondo oggi appare disarticolata dall'irrompere di nuove forze.

Nuovi protagonisti nazionali, nuove storie, culture, lingue, arti, stili di vita si affacciano sulla scena internazionale e reclamano un loro protagonismo. Nuovi punti di vista sul passato e sul futuro della nostra avventura sulla terra chiedono ascolto e dialogo e ci sfidano.
Le esortazioni ministeriali a studiare la lingua inglese e a impossessarsi dei linguaggi digitali appaiono in tutta la loro insipienza minimale, di raccomandazioni ovvie, mentre occorrerebbe approntare strumenti e saperi per affrontare le grandi sfide di una formazione interculturale. Non dobbiamo solo proteggere la natura, ma anche gli uomini da se stessi, precipitati in una Babele violenta, che rischia di finire in un generale bagno di sangue. Poiché la terra ha cessato di essere il cortile dell'Occidente, occorre preparare le nuove generazioni al linguaggio cosmopolita che solo può sventare le guerre e fondare nuove fratellanze internazionali, per abolire le disuguaglianze e rendere universali democrazia e diritti.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente a il manifesto

La vicenda del Fontego dei tedeschiillustra in modo esemplare la connessione tra scelte globali, nazionali e locali,e come esse tutte cospirino verso la mercificazione di ogni cosa ...(continua la lettura)

La vicenda del Fontego dei tedeschi illustra in modo esemplare la connessione tra scelte globali, nazionali e locali, e come esse tutte cospirino verso la mercificazione di ogni cosa che abbia pregio. Come tutte le operazioni del gruppo Benetton a Venezia, l’acquisto di quel complesso non è stato solo un accorto investimento immobiliare. E’ servito a ridisegnare una parte della città con il risultato di accelerare la trasformazione dell’intera struttura urbana: fisica, economica, sociale e politica. La soluzione finale posta alla vicenda dalla sentenza del Consiglio di Stato, che ha accolto le motivazioni dei privati proprietari, del comune e della sopraintendenza, tutti alleati contro Italia Nostra, suggerisce una riflessione su almeno tre questioni, il cui rilievo trascende la scala locale: il concetto di pubblica utilità, il futuro delle “città museo”, la zonizzazione del territorio in funzione del potere d’acquisto dei turisti.

1. TTIP e Consiglio di Stato

Il 10 giugno il Parlamento europeo esprimerà il suo parere sul TTIP (Partenariato transatlantico per il commercio e la libertà di investimento), il trattato che consentirà alle grandi concentrazioni multinazionali di impugnare le normative e le leggi di qualsiasi stato, che siano in contrasto ai propri interessi, ricorrendo ad un tribunale privato che avrà una giurisdizione al di sopra degli stati nazionali. Gli interessi economici delle multinazionali saranno, quindi, anche da un punto di vista formale, al disopra dei diritti delle persone e delle comunità locali. L’argomento usato per rendere le multinazionali immuni alle legislazioni nazionali sovrane è la “necessità” di evitare che le leggi pongano “restrizioni al commercio” e abbiano un impatto negativo sui profitti. Il governo italiano, ha detto Renzi, sta “spingendo con determinazione” per l’approvazione del trattato.

Secondo quanto riporta la stampa, tra le motivazioni con la quale il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso di Italia Nostra a proposito dei lavori di ristrutturazione del Fontego c’è il riconoscimento che le deroghe a norme e leggi sono giustificate in vista degli “effetti benefici per la collettività che ne derivano”. Se è così, si tratta di una sentenza anticipatrice dei dettami del TTIP, perché sancisce che quello che è bene per gli investitori, è bene per tutti.

DFS, la consociata di Moet Hennessy Louis Vuitton che gestirà il centro commerciale, non è un bottegaio qualsiasi. Creata a Hong Kong nel 1960 , possiede spazi duty free in 18 scali aeroportuali e 14 grandi magazzini denominati T-Galleria (dove T sta per traveller) in grandi città, soprattutto in Asia. Lo sbarco a Venezia è parte della strategia della società di espandersi e conquistare l’Europa. Come ha dichiarato l’amministratore delegato Philippe Schaus, “stavamo già trattando per una sede a Roma, ma quando Benetton ci ha chiamato, abbiamo pensato: questa è un’opportunità incredibile… we could not dream a better situation!”

In effetti, la situazione è ottima per DFS, che arriva e non deve nemmeno perdere tempo in trattative con le autorità locali, perché il lavoro sporco è già stato fatto. Deve solo pagare il giusto prezzo al proprietario dell’immobile, l’imprenditore/eroe nostrano che, d’ora in poi, potrà limitarsi a intascare l’affitto (si dice 110 milioni per i primi anni, cioè il doppio di quanto corrisposto alle Poste italiane per comprare l’edificio).

Il beneficio pubblico individuato nella sentenza consiste in 300 posti di lavoro, che forse avrebbero potuto essere creati anche senza stravolgere l’edificio monumentale. Non si menzionano future entrate fiscali per il comune. Speriamo che DFS Duty Free Shop non significhi che non pagheranno tasse.

2. La profezia di Andy Warhol

Quando Andy Warhol diceva: “tutti i grandi magazzini diventeranno musei, e tutti i musei diventeranno grandi magazzini” pensavamo fosse una battuta, invece, come sempre, l’artista è profeta.

Gli interventi sulla struttura edilizia del Fontego verranno portato a termine dal gruppo Benetton, secondo il progetto di Rem Koolhas. Per l’allestimento degli spazi interni, invece, DFS ha incaricato l’inglese Jamie Fobert, grande “star dell’interior design”.

L’intenzione, ha spiegato Schaus in una conferenza stampa organizzata al teatro la Fenice, è di creare una nuova “destinazione commerciale e culturale” sul Canal Grande, dando spazio a una nuova interpretazione del department store e sviluppando “un nuovo concetto di shopping che sia tanto commerciale quanto culturale”.

Con il supporto delle istituzioni locali, ha aggiunto (e sarebbe interessante sapere se e quali accordi siano già stati presi), DFS intende avviare un programma di eventi culturali per offrire ai clienti una “nuova esperienza”. Uno dei 300 assunti si occuperà esclusivamente di “manifestazioni culturali” e come tutti dipendenti verrà addestrato presso l’università della DFS. La società, infatti, possiede anche una sua università la cui missione è creare un ambiente educativo atto a sviluppare le abilità necessarie per far vivere esperienze di lusso estremo al viaggiatore internazionale!

Il piano terra del department store ospiterà le sezioni Food&Wine e Gift&Fashion mentre all’interno della corte coperta sarà allestito un caffè con spazi dedicati alla vendita di prodotti enogastronomici del territorio e di manifattura locale. Il primo piano sarà dedicato a Fashion Accessories, il secondo ai “prodotti uomo” e all’area Watches&Jewels. Il terzo piano sarà occupato da un’area dedicata al beauty e alle fragranze e dalla sezione delle calzature.

Per allestire le “sale”, la cui superficie commerciale complessiva è di circa 8 mila metri, Fobert riempirà l’involucro del Fontego con scale mobili di legno e pareti trasparenti che fungono da divisori e vetrine espositive. “Abbiamo analizzato le stratificazioni del fondaco, così come i migliori esempi di design italiano dell'epoca d'oro”, ha detto il designer, “e abbiamo preso spunto anche dall'acqua e dai riflessi dei canali per ideare nuovi giochi di superfici e richiami alla natura della città”.

3. Come adeguare la città alle necessità del department store

La previsione di Andy Warhol si riferiva alle modalità espositive all’interno di un singolo museo. Ma se una città è un museo (come dicono con scherno gli sviluppatori che se ne appropriano) e un museo è un centro commerciale, per la proprietà transitiva è l’intera città che deve essere risistemata, allestita come un centro commerciale.

E forse è questa la visione a cui si ispira Schaus quando dice “restituiremo al Fontego il ruolo di centro d’incontro e di emblema della città …. lo trasformeremo in un luogo vivo, in una destinazione d’eccellenza, rafforzando la connessione storica della città tra cultura e commercio”.

In ogni caso il rapporto con la città è decisivo per garantire il successo dell’operazione che richiede la soluzione a problemi funzionali, primo fra tutti l’accessibilità. DFS non dice quanti clienti dovranno arrivare al Fontego perché l’investimento sia remunerativo (altrimenti possono farci causa, imporci una addizionale irpef o regalarci una sponsorizzazione), ma alcuni anni fa il gruppo La Rinascente aveva stimato non potessero essere meno di 6 milioni all’anno. DFS ha deciso di stipulare accordi con i tour operators cinesi dal momento che “i viaggiatori cinesi stanno aumentando e amano particolarmente fare shopping in città estere, dove i prezzi nel lusso sono mediamente inferiori del 30% a quelli praticati nella madrepatria”. Dal punto di vista quantitativo la questione è risolta, anzi diventerà realtà la battuta secondo la quale Venezia è una “bottega dove cinesi vendono a cinesi merci fatte da cinesi”.

Il problema, dal punto di vista di DFS, è piuttosto quello di garantire ai suoi clienti “un’esperienza di lusso” non solo all’interno del centro commerciale, ma durante l’intera permanenza a Venezia, o almeno nel percorso tra la stazione ferroviaria e il Fontego. Il che rende necessario allargare l’ambito di pertinenza del Fontego stesso. Già nel rendering allegato al progetto di Koolhas (vedi Il Ponte del Fontego su eddyburg) era chiara l’intenzione di inglobare il ponte di Rialto nel dominio del centro commerciale. Ma non basta, e quindi, se non si possono trasportare i clienti in elicottero sul tetto terrazza (non ancora) o chiudere il Canal Grande al trasporto pubblico e cederlo a DFS (non ancora) non c’è altra soluzione che rendere meno squallido il percorso a piedi.

A questo ha provveduto il commissario Zappalorto che, tra i suoi ultimi atti, ha approvato una delibera contro il degrado, non in tutta la città, ma giustappunto solo lungo il tragitto dalla stazione al Fontego! Il risultato sarà che i banchetti non verranno eliminati (gli abusivi e i commercianti esentasse votano) ma semplicemente si sposteranno per non deturpare l’esperienza di chi va a fare shopping al Fontego.

È un ulteriore segnale di come il falso dibattito sul numero di turisti sostenibile verrà risolto con una zonizzazione della città in funzione del loro potere d’acquisto. Tale zonizzazione può essere così schematicamente descritta: isole della laguna destinate a alberghi a sette stelle; le aree attorno a Piazza San Marco, Rialto e stazione trasformate in recinti commerciali tra loro connessi da “corridoi” riservati; la zona dal ponte dell’Accademia alla Salute e il territorio sempre più vasto occupato dalla Biennale ceduti al cosiddetto turismo d’arte. Lo spazio residuale al di fuori di questi compound più o meno fortificati, sarà lasciato ai cittadini superstiti che se lo contenderanno con il “turismo straccione”.

Lo hanno scritto e affermato in molti. Queste elezioni regionali consegnano una certezza non camuffabile: Matteo Renzi è stato seccamente... (continua a leggere)

Lo hanno scritto e affermato in molti. Queste elezioni regionali consegnano una certezza non camuffabile: Matteo Renzi è stato seccamente sconfitto. E' stato sconfitto il segretario del PD e il presidente del Consiglio, non solo perché egli è stato un protagonista della campagna elettorale in prima persona e sino all'ultimo giorno. Ma perché le cifre mostrano, al di fuori di ogni dubbio, il forte arretramento numerico e politico del PD, analizzato dai commentatori di ogni tendenza. Dove vince, significativamente, è per il peso specifico di singoli candidati, eccezione che conferma la regola. E mai come in questo ultimo anno il PD era diventato “cosa” di una sola persona e della sua ristretta cerchia di fedeli. Una identità totale che non ha sopportato scarti e distinzioni, sia dentro il partito che nel governo e in Parlamento. Ma la questione è un'altra. La domanda che occorre porsi è se questa sconfitta segna un incidente di percorso o se essa non apra una frattura irrimediabile nel meccanismo che Renzi aveva messo in piedi . E dunque, per dirla con Norma Rangeri, se essa costituisca Una sconfitta che riapre i giochi( il manifesto,2/6).

Per afferrare la portata strategica di questa sconfitta occorre brevemente rammentare le mosse vincenti compiute da Matteo Renzi. E' evidente che un passaggio decisivo, il primo, più clamoroso, è stata l'alleanza diretta con Berlusconi. Il patto del Nazareno. Più spregiudicato di Letta, che si era fermato ad Alfano, Renzi ( ah, questi cattolici intemerati!) ha scelto direttamente di portarsi in casa l'Orco, di stringere un patto con l' Impresentabile. Il Berlusconi di allora era una perfetta anatra zoppa, ancora con tanto potere, ma privo di agibilità politica, come si diceva. Un avversario ideale per Renzi, che poteva persuaderlo facilmente del vantaggio reciproco delle sue mosse, tanto più che si trattava di scelte graditissime al capo del centro-destra. L'iniziativa, urticante per tanti dirigenti del PD, per la sua base e per i suoi elettori, è stata abilmente giustificata dalla necessità di coinvolgere anche l'avversario per riforme di portata costituzionale.

Questo passo condensava una infinità di vantaggi. Intanto incassava l' appoggio del grosso del centro-destra per fare approvare una legge elettorale su misura, destinata a rendere stabile il suo potere e ad accrescere in forme inedite il controllo dell'esecutivo sull'intero sistema politico. Una volta fatto ingoiare il rospo costituzionale, Renzi è passato al Jobs Act. Anche tale scelta racchiudeva più scopi. Ingraziarsi la dirigenza di Confindustria, cominciando a cementare un nuovo blocco col potere imprenditoriale e nello stesso tempo mostrare il proprio volto condiscendente ai voleri di Bruxells. E' qui che i capi di stato dei singoli paesi ricevono l'investitura, come i cavalieri medievali.
Ma questi passaggi, lo scontro aperto con la CGIL e da ultimo il Ddl sulla “Buona scuola”, hanno creato una novità la cui portata Renzi ha gravemente sottovalutato. Egli avrebbe voluto declassare i conflitti in casa PD, come gli sgarbi inconcludenti di una minoranza. Ma ha fatto male i conti perché tale minoranza, sia pure inconcludente, ha mostrato un PD diviso e lacerato, e questo ha rotto l'incanto.
Perché incanto c'era stato nei confronti di Renzi, nei primi mesi di governo, con la distribuzione degli 80 euro e soprattutto con l'immagine di un partito che pareva aver ritrovato la propria unità e capacità d'azione sotto la guida di un comandante di grande energia e abilità tattica. Questa perdita di immagine egemonica ha colpito duramente Renzi. E per una ragione semplice. E' oggi noto al più raffinato analista come al semplice cittadino, che il ceto politico è stato privato del suo antico potere. La rappresentanza degli eletti nelle istituzioni dello stato non sposta di un'oncia il destino di nessuno. Da qui il senso di inutilità del rito del voto. I dati dell'astensionismo intorno al 50% sono il timbro di autenticazione di tale certezza di massa. Ma chi ancora crede e spera dà il voto a realtà che appaiono dotate di una certa forza contrattuale, o appaiono nella loro radicalità anti-sistema. I partiti divisi, le forze piccole e sparse, sono percepite come un indebolimento ulteriore della politica. E comunque un PD ritornato ai fasti delle lotte intestine precedenti ha perso un bel po' di appeal, anche fra i potenziali elettori di centro destra, che Renzi contava di attrarre.

Ma il conflitto con la sinistra interna e soprattutto le scelte del governo hanno toccato radici profonde del consenso su cui si è retto sinora il PD. E occorre rammentare. Per ragioni di inerzia culturale, e per vari altri fattori, il PD, agli occhi di tanti italiani, è apparso come l'erede storico del vecchio PCI. Se anche per un intellettuale radicale come Mario Tronti, il Pd è ancora IL PARTITO, figuriamoci quanto tale identificazione abbia operato nella mente di semplici militanti ed elettori. E per questa larghissima fascia del popolo della sinistra – che in Italia è vivo e vegeto nonostante gli scongiuri degli avversari – Il Jobs act ha significato la licenziabilità e la ricattabilità dei dipendenti da parte del padrone. Mentre la Buona scuola e il preside-manager sono apparsi un cuneo lacerante dentro la comunità scolastica, un diversivo autoritario per non affrontare il problema centrale: la remunerazione secondo standard europei dei nostri insegnanti.

Dunque, queste scelte di destra sono state punite dagli elettori di sinistra, ma non premiate dagli elettori di destra. Perché, visto che il centro-destra è ancora più diviso del fronte avversario? Credo che una risposta sia da cercare nel fatto che pressoché nulla è cambiato nella condizione della grande maggioranza degli italiani. La pressione fiscale si mantiene elevata, sia al centro che in periferia, ed è anzi in crescita, la disoccupazione non da segni di cedimento, salari e stipendi sono fermi, aumenta senza sosta il part-time. Nessuno di questi dati è stato scalfito dall'azione di governo, e Renzi va in giro spandendo sorrisi di letizia per la ripresa in atto. Ma tale forma di comunicazione è altamente controproducente: mostra agli italiani solo la sua strabiliante capacità di mentire. Non è tutto. Le forze di centro-destra, ma anche il movimento 5S, conducono una politica aggressiva nei confronti dell'UE, ormai responsabile sempre più decisiva delle nostre disastrose condizioni. Ma Renzi, dopo i motteggi orgogliosi su “ l'Europa cambia verso”, dopo un semestre europeo senza sussulti, ha mostrato il suo perfetto allineamento ai voleri di Bruxelles, il solito perbenismo europeista di chi fa i compiti a casa. Con un ministro dell'Economia, Padoan, che sembra davvero credere nello screditato catechismo dei padroni dell'UE. E questo ormai gli italiani non lo perdonano più a nessuno.

Dunque, il progetto di Renzi è crollato. E ciò non è avvenuto per imperizia. Se si è onesti occorre riconoscere che l'uomo è senza storia e senza cultura, privo perciò di visione. E' solo tatticamente bravo: non basta per un grande paese nelle nostre condizioni. Con queste elezioni la destra italiana ha annusato il sangue e sa che può tornare a vincere, anche incrementando, come fa Salvini, la guerra tra poveri, visto che la riduzione del welfare e la disoccupazione l'alimentano. E ha sperimentato, anche con Toti, quanto sia conveniente opporsi a Renzi invece di collaborare. Questa stampella dunque verrà meno. A sinistra per il momento non c' è gran che, mentre resta in piedi la forza oppositiva dei 5S. Un movimento, com' è stato osservato, che ha mostrato la rapida maturazione di un gruppo dirigente giovane, radicato nelle realtà locali, malgrado l'estremismo infantile di Grillo e Casaleggio. Il bipolarismo che doveva mettere ai margini le “frange estreme” è a pezzi. Il partito della nazione resta un sogno di regime da riporre nel cassetto.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto.

Le vicende in corso sul progetto del nuovo aeroporto di Firenze spiegano come i privati oramai decidano a loro piacimento sulla cosa pubblica ...(continua a leggere)

Le vicende in corso sul progetto del nuovo aeroporto di Firenze spiegano come i privati oramai decidano a loro piacimento sulla cosa pubblica con la collaborazione di organismi statali (leggi Ministero delle Infrastrutture ed ENAC); mentre gli enti rappresentativi, in primis la Regione Toscana, stanno a guardare. Comportamenti tanto più gravi se si considera che nel progetto elaborato dalla società Aeroporto di Firenze (Adf) e proposto da ENAC nella procedura VIA, in gioco non sono solo la pista e le sue attrezzature, ma il rifacimento completo della piana a contatto con Firenze: tra l'altro, il nuovo sistema di raccolta delle acque alte e basse - con la deviazione e ricostruzione di un ampio tratto del Fosso Reale - le aree di compensazione delle superfici impermeabilizzate, il nuovo collegamento (quanto mai improbabile) tra il centro di Sesto Fiorentino e l'Osmannoro; per non parlare delle criticità, tra cui le pesanti interferenze con il polo universitario di Sesto e i vincoli che ne impediranno non solo l'ampliamento, ma anche una gestione in sicurezza.

Progetti di questo tipo ed entità, secondo la normativa europea, nazionale e regionale, devono essere accompagnati da un ampio ed effettivo processo di partecipazione. Nella fattispecie, la Regione Toscana si era impegnata, in sede di Variante del Piano di indirizzo territoriale, a sottoporre il progetto a Dibattito pubblico, così come è previsto dalla legge regionale sulla partecipazione. Ma ENAC e Adf non sono d'accordo e non vogliono esami o discussioni: rispondono picche alla Regione che chiede di essere messa a conoscenza del progetto (come sarebbe doveroso in una leale collaborazione) e lo rendono noto come 'definitivo' solo nella procedura VIA. Tuttavia, leggendo la documentazione depositata presso il Ministero dell'Ambiente, ci si rende facilmente conto che il progetto è carente in molte parti e in altre elaborato solo in linea di massima; perciò, non di 'definivo' si tratta, bensì di 'progetto preliminare', non a caso indicato da proponente come 'Master Plan'.

E qui la faccenda si complica, perché nel documento "Studio di impatto ambientale – aspetti generali", si afferma che "Il Master Plan è assunto al pari del progetto preliminare/definitivo”. Preliminare o definitivo? Difficile che possa essere contemporaneamente le due cose. La distinzione non è di poco conto, perché, secondo le regole stabilite dalla legge sulla partecipazione, il Dibattito pubblico deve avvenire, prima che tutte le principali scelte, compresa l'opzione zero, siano decise. Ma Adf ed ENAC aggirano l'ostacolo con una tempistica studiata in modo di fare coincidere le fasi del procedimento VIA con il periodo preelettorale, quando non solo non è consentito il Dibattito, ma vi è una sostanziale latitanza della politica e delle istituzioni; presentano, inoltre, un progetto che prevede una pista di 2400 metri a differenza di quella di 2000 metri consentita dal Pit mentre la Regione tace su questo aspetto decisivo (nonostante che Rossi abbia più volte ripetuto che "sulla lunghezza della pista decidiamo noi").

L'aspetto più grave della vicenda, tuttavia, va oltre l'opacità della gestione del progetto. Il risvolto più critico - un anticipo del potenziale contenuto nella legge Sblocca Italia - è che il piano di una parte così critica e delicata dell’area metropolitana fiorentina sia affidato un operatore privato, Air Corporacion America (anche proprietaria dell'aeroporto di Pisa) che decide sulla base dei propri interessi: mentre quelli pubblici sono tutti da dimostrare; nella marea di documenti prodotti da Adf ne manca, infatti, uno fondamentale: uno studio serio e approfondito che spieghi l'utilità del nuovo aeroporto. Molte pagine a pagamento sui giornali, ma nessuna seria analisi ne spieghi i vantaggi a fronte di un riassetto che accentua criticità e caratteri di artificialità del territorio. In sintesi: il territorio al servizio dell'aeroporto e non viceversa.

A fronte di un progetto di rilevante interesse pubblico che viene gestito non solo privatisticamente, ma in modo non partecipato, cosa fa la Regione Toscana che si vede messa all'angolo e che non viene messa in grado di svolgere il Dibattito pubblico (ammesso che lo voglia veramente svolgere); che potrà intervenire sul progetto di Adf solo in seconda battuta, con un suo parere nella Conferenza di servizi, dove, presumibilmente si arrenderà ai voleri di Marco Carrai, presidente di Adf e sodale di Matteo Renzi? La Regione tace ed è implicitamente accondiscendente; e non è irrilevante che, nonostante il plateale sconfinamento di Adf e ENAC contro uno strumento di pianificazione approvato, la Regione Toscana non abbia presentato alcuna osservazione in proposito (né alcuna osservazione in generale). E cosa fa Enrico Rossi, rieletto con largo margine presidente della Regione Toscana? Manterrà, dopo avere preso le distanze da Anna Marson, il silenzio sulla richiesta di Dibattito pubblico presentata da tutte le associazioni ambientaliste? Rossi rieletto in modo plebiscitario, ma con un 50% di astensioni: per sfiducia nella politica e nelle istituzioni, come è giustificato dalle vicende tortuose e opache del nuovo aeroporto di Firenze.

PS Non stupisce che il progetto dell'aeroporto, nella fase di valutazione di impatto ambientale, abbia ricevuto numerose e dettagliate osservazioni, sia sugli aspetti normativi e procedurali, sia sugli aspetti sostanziali e tecnici. A tutto ciò i rappresentanti di Adf rispondono con arroganza, senza entrare nel merito; preferendo l'invettiva all'argomentazione. Alle documentate e precise osservazioni dell'Università di Firenze, contenute in decine di pagine di studi tecnici, Roberto Naldi, presidente di Corporacion America Italia, risponde: «Mi aspettavo qualcosa di più qualificato, invece lo studio è banale e squalificante, fatto da persone che non hanno alcuna esperienza in fatto di aeroporti»: il 'privato' in linea con l'atteggiamento aggressivo di una politica fatta di slogan e di insulti.

Le televisioni mettono ogni tanto in circolazione un film del 1985 intitolato “Cinque minuti dalla fine”, del regista sovietico (allora esisteva ancora l’URSS) Andrej Končialovskij. La storia è presto detta: due detenuti, uno anziano e uno giovane, fuggono da un penitenziario e saltano su quattro potenti locomotive in movimento senza sapere che il guidatore è morto di infarto. Le locomotive corrono senza controllo; i dirigenti della compagnia ferroviaria non riescono a fermarle e possono solo dirottare il convoglio su un binario morto. Il detenuto anziano, interpretato da un eccellente John Voight (premio Oscar), si sfracella contro una montagna dopo essere riuscito a sganciare l’altra locomotiva su cui si trova il detenuto giovane che si salva, così, a “cinque minuti dalla fine”. Mi è tornato in mente questo film come metafora di quello che potrebbe succedere se continua lo sfrenato aumento della concentrazione nell’atmosfera di alcuni gas, come anidride carbonica, ossido nitroso, metano, composti clorurati e alcuni altri. Secondo l’opinione della maggior parte degli studiosi tali gas trattengono una parte del calore solare all’interno dell’atmosfera con conseguente riscaldamento anche degli oceani e dei continenti e crescenti mutamenti climatici, da siccità (ce n’è una catastrofica adesso in California) a improvvise piogge torrenziali.

L’aumento della concentrazione di tali gas (detti “gas serra” perché il riscaldamento planetario ha luogo con un fenomeno simile a quello che avviene nelle serre) è attribuito al crescente uso di combustibili fossili e a vari processi chimici industriali. Pertanto, se continuasse ad aumentare la quantità di fonti di energia e di merci prodotte e “consumate” dalla popolazione terrestre, aumenterebbero, in maniera crescente e irreversibile, la temperatura del pianeta, le bizzarrie climatiche e i conseguenti danni sotto forma di perdita di raccolti, di distruzione di edifici e strade, di innalzamento del livello dei mari con allagamento di zone costiere. Per rallentare tali danni e dolori futuri, bisognerebbe, perciò, diminuire i consumi di fonti di energia e di beni materiali, disturbando però, così, quella divinità intoccabile che è la crescita economica e merceologica.

Questa prospettiva non piace, anzi disturba molto, molte persone. Prima di tutto i venditori di carbone, petrolio e gas naturale, i quali vedrebbero compromessi i propri profitti; per lo stesso motivo non piace ai venditori di minerali, macchinari, prodotti chimici, alimenti, eccetera. E tutti questi hanno buon gioco nello spiegare che, se si desse retta alla tesi sopra esposta, milioni di persone perderebbero il lavoro. La proposta di mutamento non piace ai ricchi, naturalmente, che non vogliono rinunciare ad avere più beni di lusso, ma non piace neanche a molti abitanti dei paesi industriali che sono appena riusciti a possedere l’automobile e la casa, e piace ancora meno agli abitanti dei paesi poveri i quali chiedono di avere beni materiali per uscire dalla miseria e dall’arretratezza.

A conforto di questi scontenti molti scienziati sostengono che non sono le attività produttive e i consumi a modificare la composizione chimica dell’atmosfera. E che una tale modificazione, anche se esiste, non è responsabile di un riscaldamento planetario. E che, anche se tale riscaldamento ci fosse davvero, si tratterebbe di un fenomeno già verificato nel passato e niente di preoccupante perché il pianeta si adatterebbe con meccanismi di autodifesa. E che comunque, se non ci fosse un tale adattamento del pianeta ai mutamenti climatici, è possibile diminuirne, mitigarne, i danni con dighe, innovazioni nei macchinari e negli edifici, nell’uso del territorio, con progetti di “geoingegneria” (filtrando la radiazione solare con polveri immesse nell’atmosfera, aumentando la capacità degli oceani di assorbire l’eccesso di gas serra), insomma con la scienza e la tecnica. E, infine, che se i mutamenti climatici fossero davvero dovuti ai gas serra, è possibile continuare nel glorioso cammino dei consumi e degli affari ricorrendo a fonti energetiche che non emettono gas serra, come quelle solari e eoliche e, udite!, con l’energia nucleare.

Proprio per cercare una riposta alle preoccupazioni per i mutamenti climatici, nelle settimane scorse molti scienziati si sono riuniti presso le due Accademie pontificie, quella delle Scienze e quella delle Scienze sociali, e hanno concluso i lavori con una dichiarazione in cui si afferma che “l’azione umana, attraverso l’uso di combustibili fossili, ha un impatto decisivo sul pianeta. Se continuano le tendenze attuali, questo secolo sarà testimone di cambiamenti climatici senza precedenti e della distruzione dell’ecosistema, con conseguenze drammatiche per noi tutti”. Le cause sono state riconosciute nel massiccio uso di combustibili fossili da parte dei paesi ricchi mentre i danni climatici colpiscono maggiormente gli abitanti dei paesi poveri, nelle “pratiche agricole su scala industriale che stanno distruggendo ecosistemi”, nell’ampliamento delle disuguaglianze economiche e sociali.

Fra i rimedi gli scienziati riuniti in Vaticano suggeriscono “la tassazione e la regolamentazione degli abusi ambientali, l’imposizione di vincoli all’enorme potere delle imprese transnazionali e un’equa redistribuzione della ricchezza”. Gli scienziati finiscono con un messaggio di gioia e di speranza che sia possibile realizzare “un mondo più sano, più sicuro, più giusto, più prospero”. Molti attendono l’enciclica ecologica di Papa Francesco per avere qualche indicazione morale, più convincente della miope saggezza dei governanti, in grado di indurci a rallentare la corsa della locomotiva umana, oggi senza frenatore.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

L’unica applicazione “commerciale” dell’energia solare, capace, cioè di “far soldi” (che è l’unica cosa che molti chiedono al Sole), consiste nei pannelli fotovoltaici...(leggi tutto)

L’unica applicazione “commerciale” dell’energia solare, capace, cioè di “far soldi” (che è l’unica cosa che molti chiedono al Sole), consiste nei pannelli fotovoltaici, dispositivi capaci di trasformare, senza parti in movimento, la radiazione solare in elettricità. Sono quelle distese di pannelli che si vedono nella campagne, sui tetti di molte case e edifici, capaci di produrre circa 100-120 chilowattore di elettricità per ogni metro quadrato di superficie esposta al Sole, in un anno. “In un anno”, ma in quantità molto diverse a seconda delle ore del giorno e delle stagioni, a seconda che il cielo sia limpido o nuvoloso.

La possibilità di ottenere energia dal Sole dipende da una catena di rapporti commerciali che comincia con i produttori delle celle fotovoltaiche vere e proprie e dei pannelli, poi passa attraverso chi importa i pannelli, chi va a convincere i governanti ad assicurare incentivi finanziari, chi vende pannelli solari porta a porta promettendo sicuri guadagni, chi assicura il montaggio e la manutenzioni dei pannelli, chi vende i dispositivi capaci di trasformare l’elettricità a basso voltaggio, prodotta dai pannelli, nell’elettricità a 220 volts come vogliono i frigoriferi, i televisori, le cucine e gli scaldabagno elettrici. Infine la catena continua con chi predispone la “vendita” dell’elettricità solare, ad alto prezzo, alle società elettriche che in cambio cedono, quando il Sole è assente, a prezzi più bassi l’elettricità ai venditori solari; la differenza fra i due prezzi è pagata da tutti noi.

Il principale inconveniente dell’elettricità solare sta proprio nel fatto che essa viene prodotta di più nelle ore centrali della giornata e d’estate, quando è bassa la richiesta, ed è scarsa o assente nella notte e nei mesi invernali quando invece è elevata la richiesta da parte delle famiglie, degli uffici, delle fabbriche. La soluzione può essere cercata soltanto in un sistema capace di accumulare l’elettricità, a mano a mano che è prodotta, in modo da renderla disponibile quando è richiesta.

Le batterie di accumulatori sono dispositivi ben noti da oltre un secolo; ogni automobile ne ha una che viene ricaricata durante il viaggio e assicura l’elettricità per l’avviamento del motore fermo. Le batterie finora più comuni sono quelle a piombo e acido solforico. Con la diffusione della microelettronica è aumentata la domanda di batterie ricaricabili di piccole dimensioni e ciò ha stimolato la ricerca scientifica che ha portato all’invenzione, negli anni novanta del Novecento, delle batterie a ioni di litio ricaricabili.

Con diverse soluzioni sono così diventate disponibili batterie capaci di immagazzinare fino a 0,200 chilowattore di elettricità in un chilo di peso; dopo che è stata prelevata l’elettricità che essa contiene, la batteria può essere ricaricata, per esempio con l’elettricità prodotta di giorno dai pannelli fotovoltaici, ed è pronta a restituirne una parte in un momento successivo. Con le migliori batterie è possibile ripetere questi cicli di scarica-e-ricarica alcune migliaia di volte, poi la batteria va buttata via.

Proprio nei mesi scorsi è stata annunciata la produzione di batterie a ioni di litio, della dimensione di un frigorifero, capaci di immagazzinare fino a 7 chilowattore, più o meno l’elettricità consumata da una famiglia in un giorno. Una società americana ha annunciato la costruzione, nel deserto del Nevada, di una fabbrica capace di produrre queste batterie su larga scala. Sarebbe la soluzione rivoluzionaria: i pannelli solati darebbero liberati dal dover dipendere dalle grandi società elettriche per gli scambi di elettricità, dai capricci della politica che decide gli incentivi; la famiglie potrebbero godere di una autonomia elettrica, grazie all’energia solare.

Non solo; le nuove batterie consentirebbero il lancio delle automobili elettriche; con pochi minuti di ricarica, allacciata ad una presa di elettricità, una automobile elettrica potrebbe percorrere diecine o centinaia di chilometri, senza inquinamento, silenziosamente; vedremmo sorgere nelle strade “distributori” di elettricità simili a quelli odierni di benzina o gasolio, o si potrebbe ricaricare le batterie dell’automobile di notte nel garage di casa, magari con l’elettricità prodotta di giorno dai propri pannelli solari. Insomma, nuove automobili, nuove fabbriche, nuovo lavoro, minore inquinamento, minore consumo di petrolio.

Come in ogni grande innovazione ci sono però alcuni inconvenienti; per la fabbricazione delle nuove batterie occorrerebbero grandi quantità di litio, di cui esistono grandi riserve in Argentina, Bolivia, Cile; occorrerebbe cobalto, di cui il Congo Kinshasa, in Africa, contiene metà delle riserve mondiali; occorrerebbe grafite naturale e sintetica. Da una trappola all’altra? La natura non da niente gratis; solo l’ingegno è gratis ed ecco che altri laboratori e imprese stanno sviluppando batterie ricaricabili che utilizzano alluminio, al posto del litio, sfruttando la formazione di una differenza di potenziale fra un anodo (polo negativo) di alluminio e un catodo di grafite, a contatto attraverso soluzioni di cloruro di alluminio; i proponenti promettono che tali batterie potrebbero sopportare 7000 cicli di scarica-e-ricarica con una rapida ricarica in pochi minuti.

Con nuove batterie forse l’elettricità solare potrebbe liberarci dalle fonti energetiche fossili, aiutarci ad eliminare parte dell’inquinamento e delle cause del riscaldamento globale, contribuire, insomma, a realizzare quella società solare in cui tanti hanno (abbiamo) sperato. Il cammino è appena iniziato, aspetta altre scoperte e innovazioni e promette nuovo lavoro.

Che i grandi flussi migra­tori costi­tui­scano feno­meni inar­re­sta­bili, desti­nati a cam­biare il volto dei paesi, dovrebbe esser noto in Ita­lia, terra d’emigrazione e di antica sapienza sto­rica. A poco val­gono le bar­riere, gli stre­piti, le paure di fronte a pro­cessi demo­gra­fici e sociali incon­te­ni­bili. Essi avan­zano a dispetto di tutto, pro­ce­dono anche mole­co­lar­mente e cam­biano la sto­ria del mondo, che lo vogliano o no i contemporanei.

Per­ciò una isti­tu­zione come i Cen­tri d’Identificazione ed Espul­sione – nati dalla fan­ta­sia mise­ra­bile del centro-destra — ha sin­te­tiz­zato tutta la mio­pia e l’inettitudine delle nostre classi diri­genti di fronte a un feno­meno che non sono in grado di fron­teg­giare, ma nep­pure di com­pren­dere. Mio­pia e inet­ti­tu­dine para­dos­sali, per un paese in declino demo­gra­fico, mala­mente invec­chiato, che respinge l’energia vitale di una gio­ventù affa­mata di lavoro, di sta­bi­lità e di sicu­rezza di vita. Eppure, non man­cano gli esempi recenti che potreb­bero inse­gnare qual­cosa ai gover­nanti ita­liani e anche a quelli europei.

I quali, come s’è visto di recente, di fronte alle eca­tombi nel Medi­ter­ra­neo, con­den­sano la loro alta pro­get­tua­lità nell’idea di affon­dare i bar­coni dei dispe­rati. Qui gli algo­ritmi degli stra­te­ghi della finanza pre­ci­pi­tano nel ridi­colo. Negli anni ’90 gli USA hanno cono­sciuto una ondata di immi­gra­zione fra le più vaste e intense della loro storia.

Quell’immissione demo­gra­fica, pro­ve­niente dal Sud e Cen­tro Ame­rica, ha costi­tuito, fino all’ 11 set­tem­bre, una delle leve della straor­di­na­ria espan­sione eco­no­mica del decen­nio. Nuova popo­la­zione, dun­que nuovi biso­gni di case, ser­vizi, cibo e beni, e tanta dispo­ni­bi­lità di forza lavoro a basso costo. E ancora oggi è l’immigrazione che tiene in piedi la base ali­men­tare di quel paese. In Cali­for­nia, la “cam­pa­gna” degli USA, quasi nes­suna rac­colta di frutta e ortaggi sarebbe pos­si­bile senza il lavoro dei lati­nos, in grado di reg­gere un duris­simo lavoro a tem­pe­ra­ture insop­por­ta­bili per la popo­la­zione americana. Non è un modello da imi­tare, ma è la realtà. Ma anche a casa nostra, lo ricor­dano giu­sta­mente Tonino Perna e Alfonso Gianni nel loro arti­colo, gli immi­grati svol­gono già una fun­zione eco­no­mica deci­siva nelle nostre cam­pa­gne, ancor­ché in con­di­zioni spesso inac­cet­ta­bili. Si fa poco sapere agli ita­liani, ad es., che gran parte del set­tore zoo­tec­nico del Nord Ita­lia è stato tenuto in vita dal lavoro oscuro e silen­zioso degli immi­grati dall’India.

Ma quanto pro­pon­gono Perna e Gianni può diven­tare in effetti un grande pro­getto. Costi­tui­sce una strada non solo utile e per­cor­ri­bile, ma obbli­gata per un insieme di ragioni. Intanto per­ché ripor­tare alla nostra terra migliaia di gio­vani afri­cani o di altri altri stati che l’hanno dovuta abban­do­nare nel loro paese, per mise­ria o per guerra, signi­fica dare una pro­spet­tiva a una parte impor­tante della popo­la­zione migrante. Al tempo stesso, l’ingresso di tanti gio­vani che hanno espe­rienza e voca­zione per il lavoro agri­colo potrebbe rimet­tere in vita ter­ri­tori vastis­simi non solo del nostro Sud, ma anche delle col­line pre­ap­pe­ni­che di tutta la Peni­sola, oggi in abban­dono o in via di spo­po­la­mento. Infine, porre il feno­meno dell’immigrazione al cen­tro di un vasto pro­getto di inse­ri­mento sociale, farne una leva di pro­gresso eco­no­mico e ambien­tale di tutto il paese, raf­for­ze­rebbe enor­me­mente il discorso di pura difesa uma­ni­ta­ria degli immi­grati che oggi fa la sini­stra e le forze demo­cra­ti­che. Qui sta un nodo di ela­bo­ra­zione poli­tica di asso­luto rilievo, che può disin­ne­scare la miscela popu­li­stica e xeno­foba della destra italiana.

Com’ è ovvio, il pro­cesso di inse­ri­mento dei nuovi arri­vati nelle nostre cam­pa­gne non può essere affi­dato alla spon­ta­neità. Que­sti mira­coli del cosi detto libero mer­cato avven­gono solo nella testa degli eco­no­mi­sti neo­li­be­ri­sti. Occorre che la mano pub­blica fac­cia la sua parte, sia a livello cen­trale, con appo­site leggi, sia in peri­fe­ria, tra­mite le ammi­ni­stra­zioni comunali. La base di par­tenza è la dispo­ni­bi­lità della terra. Esi­stono immense esten­sioni di ter­ri­tori abban­do­nati, ricor­dano Perna e Gianni. Ma molti di que­sti, spe­cie se col­lo­cati non lon­tano dal mare, sono in attesa di edi­fi­ca­zione, per­ché la spe­ranza di arric­chirsi con la ren­dita non muore mai. E dun­que occorre sta­bi­lire per legge l’impossibilità netta e inva­li­ca­bile di cam­biare desti­na­zione d’uso alle terre agri­cole. Tanto più che si tratta quasi sem­pre di terre col­li­nari, che assol­vono un com­pito di equi­li­brio ambien­tale e idro­geo­lo­gico deci­sivo per la sicu­rezza di ter­ri­tori e abi­tati. Ma i comuni dovreb­bero fare la loro parte, impe­gnan­dosi a inven­ta­riare le loro terre e quelle dema­niali disponibili.

In que­ste aree, che rap­pre­sen­tano cer­ta­mente l’osso della nostra agri­col­tura, è pos­si­bile svi­lup­pare eco­no­mie niente affatto marginali. Nelle migliori terre di col­lina potrebbe fio­rire e in parte rifio­rire la frut­ti­col­tura di qua­lità, in grado di valo­riz­zare la bio­di­ver­sità agri­cola ine­gua­glia­bile di cui ancora dispo­niamo. Oggi esi­ste solo a livello ama­to­riale, si dovrebbe innal­zare a una scala accet­ta­bile di pro­du­zione e immet­tere nel mer­cato. Ma accanto all’agricoltura si potrebbe svi­lup­pare un ambito gra­ve­mente sot­to­va­lu­tato: quello della silvicultura.

E’ poco noto che nel Mez­zo­giorno l’intervento della Cassa, che ha rifo­re­stato larga parte delle nostre mon­ta­gne e col­line - limi­tando le allu­vioni che perio­di­ca­mente fune­sta­vano paesi a abi­tati - ha avuto un indi­rizzo molto spe­ci­fico: si è limi­tato alla pro­te­zione del suolo dai feno­meni di ero­sione. Oggi noi abbiamo km qua­drati di bosca­glia e di mac­chia e siamo costretti a impor­tare dall’Europa il legname da opera: noci, ciliegi, casta­gni, oltre a quello dei paesi tro­pi­cali. Si apre dun­que uno sce­na­rio di pos­si­bi­lità di nuova fore­sta­zione con alberi di pre­gio di straor­di­na­ria ampiezza, in grado di far rivi­vere tanti paesi e terre oggi abban­do­nati. Tanto più che alla sel­vi­col­tura si può accom­pa­gnare l’allevamento, soprat­tutto di ani­mali da cor­tile, e l’uso delle acque interne, capaci di pro­durre red­dito immediato.

Natu­ral­mente, a valle, si pre­senta il pro­blema della com­mer­cia­liz­za­zione dei pro­dotti. E’ que­sto l’altro grande nodo su cui inter­ve­nire. Lasciare i pro­dut­tori in balia della grande distri­bu­zione signi­fica stroz­zare i loro red­diti e con­dan­narli all’abbandono dell’impresa. E qui occorre impa­rare dall’esperienza della riforma agra­ria del 1950. Le imprese che allora ebbero suc­cesso e riu­sci­rono a soprav­vi­vere, furono quelle che ebbero una quota suf­fi­ciente di terra (almeno 5 Ha) e la casa. Ma che al tempo stesso godet­tero dell’assistenza tec­nica degli Enti di riforma e la pos­si­bi­lità di accesso al mer­cato. La crea­zione di coo­pe­ra­tive, come quelle pre­vi­ste dal Decreto Gullo per l’assegnazione delle terre incolte, del 1944, dovrebbe costi­tuire una piat­ta­forma impor­tante dell’intero pro­getto, in grado di met­tere insieme effi­cienza eco­no­mica e rela­zioni soli­dali. Non è solo in gioco la pos­si­bi­lità di valo­riz­za­zione eco­no­mica dei ter­ri­tori. Si gioca qui anche la scom­messa di rico­struire, sulle nostre anti­che terre, nuove comu­nità di vita

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Un diamante è tornato a brillare, nei giorni scorsi, nel cielo di Roma e svetta, con la sua cuspide candida, riuscendo a spandere una parte del suo splendore sulla consueta cornice di traffico e caos urbano che lo circonda. La piramide Cestia, innalzata alla moda egizia da un ricco commerciante romano, nel I secolo a.c., è stata di nuovo riaperta al pubblico completamente ripulita e consolidata, dopo un restauro durato 327 giorni (quanto la costruzione) e terminato con 75 giorni di anticipo rispetto alla stima di progetto. L'operazione, curata integralmente dalla Soprintendenza Archeologica statale di Roma, è stata finanziata in toto da un imprenditore giapponese, Yuzo Yagi che, come unica contropartita, ha voluto offrire una festa finale in occasione della conclusione dei restauri e della riapertura al pubblico del monumento, il 20 aprile scorso.

Alla festa non ha partecipato il ministro Franceschini che pure questo rarissimo - forse l'unico da molti anni a questa parte - esempio di mecenatismo puro nei confronti del nostro patrimonio culturale dovrebbe tenerselo caro, visti i non esaltanti risultati del suo Art Bonus, il provvedimento che avrebbe dovuto moltiplicare le erogazioni liberali dei privati a sostegno del patrimonio (comunque posteriore all'elargizione di Yagi).

Non è il suo unico problema, in verità: allo stesso modo la cosiddetta riforma del Mibact, la riorganizzazione della macchina ministeriale originata dalla spending review, pare impantanata in gravi impasses organizzative, con strutture, archivi e biblioteche in primis, già ora in forte sofferenza, mentre si dilatano i tempi per l'avvio a pieno regime dei venti Musei autonomi: sicuramente i 20 direttori non arriveranno, come previsto, a giugno.Esito non stupefacente considerato il modus operandi del ministro e dell'altissima dirigenza Mibact programmaticamente diffidenti nei confronti delle competenze interne, costantemente ignorate quando non delegittimate.

È accaduto, ad esempio e a più riprese, con la vicenda della ricostruzione dell'arena del Colosseo che il ministro, anche pochi giorni orsono ha ribadito di voler ricostruire per ricavarne i diritti TV derivati da "rappresentazioni uniche al mondo". Uniche non solo nello spazio, ma anche nel tempo, visto che nessun romano ha mai assistito agli spettacoli dal livello dell'arena. A meno che - falsificazione per falsificazione - non si intenda poi procedere con la ricostruzione delle gradinate: peccato che quei guastafeste dei magistrati abbiano messo sotto accusa quel brillante antecedente costituito dal rifacimento del Teatro Grande di Pompei. Anche in questo caso, il ministro ha ignorato il parere dei propri funzionari: la direttrice del Colosseo ha più volte pacatamente esposto le molteplici ragioni tecniche e scientifiche che si oppongono ad un progetto simile.

Lo spregio nei confronti delle competenze interne è evidentemente una delle cifre "stilistiche" di questo governo, basta pensare alle inaudite dichiarazioni della ministra Giannini sugli insegnanti suddivisi fra abulici e squadristi. E le conseguenze nefaste di una simile deriva si sono viste ieri, 3 maggio, a Bologna, dove l'unico confronto concesso dal premier agli insegnanti che protestavano- manganelli permettendo - è stata un'udienza in un retrobottega, a favor di telecamere.

Al contrario, proprio chi cerca di far valere le ragioni della scienza e dell'esperienza, di una competenza maturata sul campo in condizioni sempre più difficili di anno in anno, sia sul piano materiale che della delegittimazione politica è forse l'unico antidoto efficace agli squadrismi reali, da un lato e dall'altro alla "retorica delle puttane" (cit. Montanari) di cui l'inaugurazione Expo ci ha fornito esemplificazione mortifera.Una retorica che non può nascondere il vuoto culturale di una manifestazione ormai fuori tempo massimo quanto a spirito e motivazioni socioeconomiche e il cui unico obiettivo appare la celebrazione acritica della monocoltura commerciale. Osservando le inutili e pretenziose architetture dei padiglioni di questa fiera scombiccherata - una sorta di postalmarket dell'archistar - si pensa sconsolati al "less is more" dell'autore del più bel padiglione Expo mai concepito, quello sì, all'insegna dell'innovazione. Ma era il 1929 ed era Ludwig Mies van der Rohe.

E si pensa che l'innovazione, in realtà, nonostante tutto, qualcuno riesce ancora a farla in questo paese malandato. Con un'architettura di 2000 anni fa, riportata alla bellezza originaria attraverso l'uso sapiente e sperimentale di nuove metodologie di restauro e manutenzione e nuovi studi che ne hanno ricomposto una storia particolare e affascinante. E così pienamente restituita al godimento di tutti, per i secoli a venire.

È la piramide Cestia, o meglio i pochi ma competentissimi tecnici di un'istituzione di tutela statale, che meriterebbero il palcoscenico dell'Expo, perché è il loro sapere, esercitato sui resti del passato, non per feticismo, nè per sfruttamento effimero, che è in grado di insegnarci qualcosa di profondo sul nostro presente e di indicarci una possibile via per un futuro un po' più consapevole e meno retoricamente velleitario.

Me l'aspettavo, non per questo ho provato meno rabbia. Guardo ora i giornali su internet. Tutti ignorano il successo della manifestazione dei diversi movimenti... (leggi tutto)

Me lo aspettavo, non per questo ho provato meno rabbia. Sfoglio i giornali su internet. Ignorano il successo della manifestazione dei diversi movimenti compatti con i loro slogan contro le grandi opere inutili e costose, contro le scelte neoliberiste del governo. Invece raccontano, fotografano le azioni del “blocco nero”. Nessun giornalista dice chiaro che i blocchisti hanno potuto fare tutto quello che volevano, completamente liberi, senza il minimo ostacolo. La polizia assisteva agli incendi delle auto, alla rottura delle vetrine, agli imbrattamenti e non so a che altro come fosse davanti a una recita teatrale, a una finzione. Più violenza, più convenienza, non è difficile capire per chi. Mai visto scene paradossali come quelle in cui i blocchisti, prima vestiti come tutti, indossavano la divisa tutta nera dal cappuccio alle scarpe tenuta nei loro sacchi e, indisturbati, procedevano come programmato; poi si spogliavano del nerume, riponevano o gettavano, si rivestivano da bravi ragazzi e se ne andavano.

Non voglio apparire dietrologo, ma come non pensare che, quantomeno, i capi della polizia se la godessero. Qualcuno chiede le dimissioni di Alfano. Il sindaco Pisapia gli ha attribuito la responsabilità del mancato intervento. Fortunatamente i poliziotti, che a Genova avevano massacrato gli inermi innocenti, non hanno avuto bisogno di ripetersi. Bastava l'esito della perfetta strategia del laisser faire, laisser passer: come nei processi economici, per i quali questa locuzione di un economista settecentesco rappresenta oggi la necessaria mancanza di qualsiasi vincolo. Ognuno faccia il cavolo che vuole, ogni dirigente nell’economia, nella politica, nella società sia singolo blocchista incappucciato ma riconosciuto nel gruppo. Come il Klu Klux Clan.

Pochi giorni prima il settantennio della Liberazione aveva superato certa stanchezza celebrativa degli anni scorsi. Grande partecipazione di giovani, anziani e vecchi, un corteo lunghissimo, pieno di simboli e di suoni; 150.000 persone per testimoniare la vitalità di un retaggio storico che i rigurgiti di fascismo anche in una città medaglia d’oro della Resistenza non potranno mai spegnere. Saranno questi osceni rigurgiti a essere ricacciati in gola ai vomitanti. Magnifici, antiretorici gli interventi in Piazza Duomo, specialmente quelli di un’insegnante di 33 anni e del presidente dell'Anpi Smuraglia (92!), entrambi incalzante denuncia della condizione gravissima del paese nell’economia, nella politica, negli assetti sociali, nella cultura.

Ricordavamo la manifestazione del 1994, l’enorme corteo sotto la pioggia rispecchiamento dell’opposizione radicale al governo Berlusconi: che dopo pochi mesi cadrà. Ieri nessuno poteva credere che il governo attuale fosse davvero in pericolo, tuttavia nasceva la speranza che un’opposizione sociale di sinistra degna del nome diventasse viva opposizione politica e agitasse la “morta gora” delle alte istituzioni, in verità miranti, vuoi rumorose vuoi quatte quatte, a demolire la Costituzione un pezzetto dopo l’altro.

Intanto si inaugurava l’Esposizione universale. Ne ho scritto l’11 aprile insieme a un po’ di storia sociale milanese (Com’era Milano e com’è al tempo dell’Expo) e lì rimando. Ho visto le immagini dei padiglioni, e dintorni, in una rassegna fotografica: un trionfo inconcepibile del Kitsch. Del resto il Kitsch, ormai, è considerato un movimento d'arte. Un’infestante festa rutilante di forme liberamente scriteriate del tutto prive di un qualche legame con la ricerca architettonica (non basta la scusa della provvisorietà). Ho già segnalato in altra occasione che per simboleggiare la mostra si potrebbe scegliere il padiglione della Thailandia, la cui coerenza al tema agrario (“Nutrire il pianeta…”) consisterebbe nell'averlo costruito in forma di cappello delle contadine.

Dalle prime interviste sembra che i visitatori siano entusiasti dell'”architettura” dei padiglioni. E dell’inverosimile ”albero della vita”? (mi auguro che cada in testa al progettista e agli organizzatori, se si riuniranno lì sotto per adorarlo).

C'è un fondamento storico evidente e apprezzabile nella scelta di dedicare l'Expo italiano del 2015 all'alimentazione e all'agricoltura. La varietà, ricchezza, genialità...>>>

C'è un fondamento storico evidente e apprezzabile nella scelta di dedicare l'Expo italiano del 2015 all'alimentazione e all'agricoltura. La varietà, ricchezza, genialità della nostra cucina sono ormai un'ovvietà da senso comune. E tale fondamento si ritrova anche nella scelta di Milano, che oltre a vantare un prestigio di grande città e la modernità dei suoi servizi, custodisce un passato agricolo di rilievo mondiale. Almeno dal XVIII secolo Milano e la bassa Lombardia hanno visto fiorire una delle più prospere agricolture d' Europa e del mondo. Come sappiamo, questa grande opportunità, la ricchezza potenziale, culturale e politica di tale scelta, è andata in buona parte compromessa, se non è del tutto fallita. Certo, in tutte le Esposizioni universali del passato, sia che si tenessero a Londra o a Parigi, lo spettacolo ha avuto sempre una parte preponderante. D'altra parte, si trattava per l'appunto di Esposizioni, cioè delle esibizioni di un capitalismo orgoglioso di mostrarsi a un pubblico internazionale con le sue mirabilia tecnologiche, ma anche nei suoi virtuosismi estetici, incastonati entro mondi urbani in febbrile espansione. L'affanno e il ritardo con cui ci arriva Milano sono lo specchio impietoso di un capitalismo nazionale gravemente usurato nella sua capacità progettuale, corroso all'interno dalla prolungata corruttela che governa da decenni la vita pubblica italiana.

Di sicuro circoleranno nelle giornate milanesi dei prossimi mesi discussioni importanti e serie, contributi alla comprensione della complessa realtà del mondo agricolo e della produzione e distribuzione del cibo. Ma intanto tutti i mesi di preparazione sono già passati sprecando una grande occasione: almeno un ampio dibattito nazionale sulle condizioni della nostra agricoltura, oltre che del nostro cibo, gettando uno sguardo sugli squilibri intollerabili che governano l'architettura mondiale della produzione alimentare. Un Expo che si occupa del tema di “nutrire il pianeta” non dovrebbe dimenticare che il cibo si ottiene dalla terra e che è la sua mancanza alla base della fame di milioni di famiglie. Quella terra sottratta ai contadini dai possessi latifondistici, come accade in America Latina, dagli scavi minerari e dalle dighe, come accade in India e in Cina, dagli inquinamenti petroliferi, dall'agricoltura industriale, dalla desertificazione, e ora dalle guerre in Africa e in Medio Oriente.

Ma il cuore della discussione avrebbe dovuto essere e dovrebbe ancora essere la ragione storica del primato alimentare italiano. Perché il nostro cibo è cos' straordinariamente ricco, sapido, inventivo, vario, amato e imitato dappertutto? La risposta è all'apparenza facile e nota. Ma perché esso rispecchia la ricchezza unica e irriproducibile della nostra biodiversità agricola, frutto della varietà straordinaria di habitat naturali della Penisola e di una storia senza possibilità di confronti delle numerosissime comunità agricole che vi hanno operato per millenni. E la manipolazione alimentare delle infinite varietà di piante, di ortaggi, legumi, frutta è anch'essa opera storica del mondo contadino, della creatività popolare. In Italia come in Europa – lo ha ricordato più volte Massimo Montanari – anche l'elaborazione “alta” della cucina da parte dei cuochi professionali, faceva base sui piatti inventati dai contadini. E dunque l 'Expo di Milano avrebbe dovuto e dovrebbe ancora porsi il problema fondamentale: quale sorte è riservata oggi ai contadini e ai lavoratori della terra del nostro Paese? Perché dovrebbe essere evidente il paradosso a cui l'Italia certo non sfugge: i contadini, i piccoli agricoltori, i produttori di cibo, quelle figure che alla fine consentono a tutti noi di vivere, che sono ancora oggi la base primaria e imprescindibile delle nostre società, sono i peggio remunerati fra tutti i ceti produttivi esistenti. Spesso sono in condizione di schiavitù sostanziale, come accade ai braccianti agricoli extra-comunitari di Rosarno, di Nardò e di altre campagne italiane. Un lato oscuro e vergognoso del made in Italy, denunciato da pochi coraggiosi, tra cui Carlo Petrini.
Tale discussione è drammaticamente urgente non solo per ragioni di giustizia sociale, ma perché è in pericolo anche il nostro patrimonio, quel cibo su cui si regge ancora tanta parte della nostra ricchezza e della nostra identità nazionale. E qui occorre esser chiari. Se noi non assicuriamo ai nostri produttori agricoli una remunerazione dignitosa, se non conserveremo la terra fertile per produrre cibo, noi perderemo in breve tempo la base di biodiversità agricola su cui si è fondata la nostra eccellenza in cucina. Il made in Italy diventerà una finzione commerciale, un trucco all'Italiana di cui i consumatori internazionali si accorgeranno ben presto. Il processo è già in atto da tempo. Tra il 1982 e il 2010 sono scomparse 1 milione mezzo di aziende dalle nostre campagne. Abbandonano i campi i piccoli produttori e resistono le grandi aziende. E allora occorre chiedersi: e' questo il modello di agricoltura che vogliamo? Vogliamo puntare sulle grandi imprese per “produrre di più” riducendo i costi? Dobbiamo addirittura inserire il mais e la soia Ogm nelle nostre campagne, come pretendono taluni scienziati italiani, che hanno tanto a cuore le sorti della loro ricerca, e si curano così poco della storia e delle ragioni della nostra agricoltura?
La sparizione delle piccole aziende tradizionali comporta di necessità una crescente uniformità bioagricola dei prodotti. Su questo abbiamo prove allarmanti. Oggi siamo in grado di misurare gli esiti statistici ed epidemiologici di tale processo omologante dell'agricoltura e dell'alimentazione industriale. Nel rapporto Nuove evidenze nell'evoluzione della mortalità per tumore in Italia, pubblicata nel 2005 dall'Istat e dall'Istituto Superiore di Sanità, si legge: «L'uniformità alimentare ha prodotto un danno alle popolazioni del Sud, che in questi 30 anni hanno perso un vantaggio di salute che avevano» sul resto della popolazione italiana. L'alimentazione contadina che a lungo aveva protetto i meridionali dall'incidenza del cancro è stata dunque travolta. Un mutamento di paradigma alimentare che li espone alla virulenza cancerogena propria degli stili di vita delle società industriali.

Appare dunque evidente che le sorti dell'eccellenza italiana, il nostro cibo e i suoi infiniti piatti, al di la delle montagne di retorica che si sono sovrapposte sul tema, sono inscindibilmente legate al modello di agricoltura che vogliamo realizzare e in parte conservare. Essa dipende dal destino dei piccoli e medi produttori biologici, dalla loro disponibilità di terra, dalla remunerazione dei loro prodotti, dal premio dato a chi tutela la salubrità delle campagne, protegge il territorio su cui vive e opera, custodisce e restaura il paesaggio del Belpaese.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente al manifesto.

è davvero esigua e le prossime votazioni (segue)

è davvero esigua e le prossime votazioni per il rinnovo del consiglio direttivo nazionale sono l’ultima occasione per un’inversione di senso. Credo che sia impossibile tornare all’età dell’oro, quando Italia Nostra fu l’indiscussa protagonista della salvezza di Firenze, di Venezia, dell’Appia Antica, della Costiera Amalfitana, senza sconti per nessuno. La mostra “Italia da salvare” fece il giro del mondo.

Dalla fondazione, per mezzo secolo, è stata in prima linea nella difesa della capitale dagli assalti speculativi. “Roma sbagliata”, del 1974 (“un’impressionante radiografia della capitale dopo un secolo di malgoverno”, scrisse Antonio Cederna), insieme alle denunce di Dom Franzoni e della Caritas di Luigi Di Liegro, aprì la strada alle amministrazioni di Argan e Petroselli. Quanti ricordano che fu Italia Nostra alla fine degli anni Ottanta a far esplodere lo scandalo per il famigerato progetto Fiat Fondiaria, primo caso di urbanistica contrattata (ancor oggi tenuto in vita dal comune di Firenze)?

A mano a mano, con il passare degli anni, sempre di più hanno prevalso il piccolo cabotaggio, la prudenza, il buonsenso. L’urbanistica di rito ambrosiano, che ha aperto la strada in tutt’Italia alla controriforma e agli energumeni del cemento armato, come Maurizio Lupi, Italia Nostra non l’ha affatto combattuta con l’energia e la determinazione necessaria. E negli anni più recenti gli episodi di regressione si sono infittiti.

Nel 2010 Italia Nostra della Lombardia ha addirittura tentato un’inaudita operazione di revisionismo proponendo di “aggiornare” il pensiero di Antonio Cederna. E infine sono costretto a ricordare che Italia Nostra tiene a distanza Desideria Pasolini dall’Onda, ultima esponente di quel glorioso drappello che fondò l’associazione nel 1955, e che è stata la Bianchi Bandinelli, nel febbraio scorso, a ricordare e premiare Desideria (“una vita per la tutela”).
Non si può tornare all’età dell’oro, ma credo che abbiamo il dovere – per quanto mi riguarda è l’ultima volta – di cercare intanto di riannodare i fili di una vicenda non ancora del tutto consunti.

Voterò per Ilaria Agostini, Luigi De Falco, Raffaella Di Leo, Maria Pia Guermandi, Giovanni Losavio, Tomaso Montanari, Emanuele Montini, Francesco Vallerani. Non sono gli unici candidati meritevoli di fiducia, nella lunga lista a disposizione degli elettori ce ne sono almeno altrettanti che possono contribuire alla difficile impresa.

Anche quest’anno si celebra, sia pure in maniera sempre più fiacca e svogliata, la “Giornata della Terra”, “Earth Day”, per la quarantacinquesima volta ... >>>

Anche quest’anno si celebra, sia pure in maniera sempre più fiacca e svogliata, la “Giornata della Terra”, “Earth Day”, per la quarantacinquesima volta da quel 22 aprile 1970 che segnò l’inizio, di fatto, della "primavera dell'ecologia". Il 1970 arrivava dopo una lunga serie di proteste contro le esplosioni delle bombe nucleari nell’atmosfera; dai deserti africani, asiatici o dagli isolati atolli del Pacifico tali tests americani, russi, francesi, immettevano nell’aria elementi radioattivi che ricadevano poi anche a migliaia di chilometri di distanza, sulle terre coltivate e nelle acque. Era la stagione della protesta contro la diffusione planetaria dei pesticidi clorurati persistenti, come il DDT, e contro l’uso di erbicidi contaminati di diossina nel Vietnam; le città industriali erano afflitte da un traffico congestionato e la loro aria era oscurata dai fumi industriali; il petrolio copriva vaste superfici del mare.

In quella lontana primavera, in tutti i paesi industriali fu come se si aprissero gli occhi a un gran numero di persone: in un'epoca di grande sviluppo economico gli abitanti dei paesi industrializzati si accorsero improvvisamente che le fumose ciminiere delle fabbriche non segnavano l'avanzata del progresso, ma buttavano nell'atmosfera polveri e sostanze cancerogene e acidi che andavano a finire nei polmoni dei cittadini, nei fiumi, sui boschi. L'automobile, massimo segno del successo tecnologico, appariva improvvisamente come un “Insolent chariot”, l’arrogante veicolo che, invece di liberare l’uomo dai vincoli delle distanze, costringeva a muoversi a pochi chilometri all'ora, tutti in fila, in mezzo a un'atmosfera inquinata da fumi, metalli, veleni. La plastica, trionfo dell'industria chimica sintetica, era un bellissimo materiale ma, dopo l’uso, restava indistruttibile e copriva i mari, si fermava sugli argini dei fiumi, svolazzava per i campi coltivati. Il lavoro nelle fabbriche liberava grandi masse di persone dalla miseria secolare a prezzo di incidenti, avvelenamenti, morti, tanto che alcuni scrissero che "lavorare fa male alla salute".

Nella primavera di quel 1970 una nuova generazione di giovani, gli stessi delle lotte studentesche e operaie in California, a Parigi, a Berlino, a Milano, si accorsero che le Università, i grandi scienziati, il potere economico e politico, avevano tenuto nascosti gli aspetti negativi del "progresso" merceologico; furono scoperte parole magiche e sconosciute come "ecologia", che divenne domanda di un cambiamento verso un mondo meno violento e più ospitale per gli esseri umani. Anche in Italia in quel 22 aprile 1970 la Federazione delle Associazioni Scientifiche e Tecniche FAST di Milano, allora presieduta da Luigi Morandi, organizzò alla Fiera di Milano una grande conferenza internazionale i cui atti (L’uomo e l’ambiente: una inchiesta internazionale, Milano, Tamburini, 1971), purtroppo ormai una rarità bibliografica, conteneva un inventario delle forme di violenza contro l’ambiente.

La prima "giornata della Terra" stimolò un gran numero di persone --- giornalisti e studenti, professori e comuni cittadini --- a pensare, a leggere, a scrivere, a parlare di ecologia. Alcuni si permisero addirittura di spiegare quanto fosse poco attendibile il mitico “Prodotto interno lordo” come indicatore del benessere e dello sviluppo umano. In quella "giornata della Terra" di 45 anni fa sui muri delle città americane apparve un manifesto con una vignetta in cui Pogo, un opossum umanizzato, noto personaggio dei fumetti, guardava un ecologista che gettava per terra un foglio di carta straccia, e Pogo si chinava a raccoglierlo mormorando sconsolato: «Ho scoperto il nemico e il nemico siamo noi».

Anche oggi quante volte si vedono delle degnissime persone, eminenti nella loro professione, che si dichiarano fedeli amici dell'ecologia, ma poi fanno a gara per sfrecciare su ingombranti SUV e per costruire suntuose ville nei boschi, dopo aver tagliato gli alberi, o sulla riva del mare, dopo aver spianato le preziose dune. Ben presto la carica innovativa e “sovversiva” dell’ecologia si spense; il potere economico e finanziario spiegò bene che quelle dei guasti ambientali erano esagerazioni di frustrati pessimisti, che occorreva più energia a basso prezzo, che occorreva produrre e consumare più automobili, più merci, più plastica, diffuse l’illusione che la tecnica avrebbe risolto tutto.

Oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, la popolazione mondiale ha superato i 7000 milioni di persone, tre miliardi di nuovi consumatori in Asia e nell’America latina si affiancano ai due miliardi di abitanti dei paesi già industrializzati affannandosi a bruciare carbone e petrolio, a produrre macchine e merci, a immettere nell’atmosfera gas nocivi e che alterano il clima, a gettare nelle discariche e negli inceneritori, miliardi di tonnellate all’anno di rifiuti, oltre centocinquanta milioni di tonnellate ogni anno solo in Italia; residui di plastica galleggiano addirittura sugli oceani. In Italia grandi città costiere gettano tranquillamente le acque di fogna non trattate nel mare e nei fiumi; la fame di spazio e il rapido crescente ”consumo di suolo” per edifici, quartieri urbani, autostrade e veloci ferrovie, centri turistici, rende più fragili le colline e le coste, fa aumentare frane e alluvioni.

Se veramente amassimo “la Terra” forse bisognerebbe fermarsi e guardarsi intorno, recuperare la voglia di un nuovo, più giusto, rapporto degli esseri umani con le risorse naturali, con i beni della Terra. E magari rimettersi a studiare un po’ di buona ecologia, quella vera. Forse, come diceva Pogo, davvero il nemico siamo noi.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

Le fotografie del signor Rosso, padrone del marchio Only the Best, che si arrampica sorridente sulle impalcature del cantiere per il restauro del ponte di Rialto campeggiano... (segue)

Le fotografie del signor Rosso, padrone del marchio Only the Best, che si arrampica sorridente sulle impalcature del cantiere per il restauro del ponte di Rialto campeggiano in prima pagina. Il signor Rosso non è il direttore dei lavori, né un pubblico funzionario incaricato di verificarne l’andamento, è lo sponsor di un intervento che viene presentato come il prototipo della collaborazione fra pubblico e privato per rendere l’Italia più bella e appetibile.

I primi contatti fra Rosso e l’ex sindaco Giorgio Orsoni risalgono al 2011. Nel 2012 il costo del restauro era ipotizzato fra i 5 ed i 7 milioni di euro. Il comune ha quindi indetto un bando, con base d’asta di 5 milioni, ed è giustappunto per tale cifra che Rosso, convinto che “quando si crea profitto è giusto darne una parte ai beni culturali e alla società”, si è aggiudicato la gara per la sponsorizzazione.

Nelle numerose interviste che ha concesso in questi giorni, il nostro mecenate, che ha appena ricevuto una laurea honoris causa in economia aziendale e che certo non eccede in understatement, ha ribadito di non avere nulla in cambio della sua generosità. “Qui regaliamo bellezza ha detto! ma le controprestazioni previste nel contratto firmato nel 2013 (“non va dimenticato che stiamo parlando di imprenditori e quindi un tornaconto deve esserci”, spiegò l’allora assessore ai lavori pubblici Alessandro Maggioni) non sono poche, né di poco valore. Esse prevedono:

1. la “brandizzazione” dei vaporetti, cioè la facoltà di personalizzare la struttura (fiancate e tetto) di due vaporetti delle linee in servizio lungo il Canal Grande per 730 giorni;

2. affissioni sull’assito di cantiere, nella parte affacciata verso l’esterno, cioè verso i due lati del Canal Grande, per i 18 mesi di durata dei lavori, per una superficie di 120 metri quadrati. La “personalizzazione” potrà interessare anche altre strutture di servizio pertinenti al cantiere, collocate nei dintorni del ponte, fino ad un totale di 180 metri quadrati;

3. proiezioni “artistiche”, anche personalizzate con logo ed elementi di comunicazione dell’azienda sulla struttura del ponte. Le proiezioni potranno essere effettuate in 4 turni di 7 giorni, anche in coincidenza con eventi pubblici della città o con eventi privati che l’azienda potrà organizzare a Venezia nel periodo considerato. La prima servirà a pubblicizzare una mostra allestita dall’azienda in occasione della prossima Biennale d’Arte;

4. personalizzazione di 2 imbarcaderi dei vaporetti mediante l’installazione di 4 banner della dimensione di 200x260 centimetri ciascuno che potranno essere esposti in quattro turni di 14 giorni ciascuno;

5. utilizzo, per l’organizzazione di eventi privati aziendali, delle seguenti “location”:
- Ca’ Vendramin Calergi, sede del Casinò di Venezia: 4 volte;
-Teatro La Fenice: 2 volte;
-Ca’ Rezzonico, sede del Museo del Settecento Veneziano: 2 volte;
- Palazzo Ducale: 2 volte;
- Piazza San Marco: 1 evento personalizzato e connotato da comunicazione dell’azienda, che, però, dovrà mantenere “una seppur parziale connotazione di evento pubblico”!
6. una serie di benefit durante i “grandi eventi veneziani” (Carnevale, festa del Redentore, Regata Storica, capodanno a Venezia), cioè la possibilità di allestire un “temporary store” della grandezza massima di 5 x 5metri in un luogo di massimo passaggio del centro storico, per una durata di 14 giorni in coincidenza con ognuno degli eventi e di godere di un certo numero di posti riservati, durante i grandi eventi. Più in dettaglio, questa “hospitality” prevede:
- a carnevale, 10 posti per una delle cene ufficiali (“dinner show”) presso Ca’ Vendramin Calergi e 10 accessi ogni giorno nell’area parterre del “Gran Teatro” di Piazza San Marco;
- alla festa del Redentore, 10 posti alla cena di gala ufficiale a Palazzo Ducale;
- alla Regata Storica, 10 posti per assistere alla manifestazione sulla tribuna delle autorità.
All’azienda viene, inoltre, concesso di utilizzare la definizione di “sponsor unico” dell’intervento di restauro, di utilizzare immagini del monumento, di installare permanentemente sulla struttura del ponte di Rialto una targa a imperitura memoria del mecenate.
Una stima del valore di mercato di queste controprestazioni non è allegata al contratto. L’ex sindaco Orsoni, che è anche ordinario di diritto commerciale del turismo, si è dimenticato di fare due conti e comunicarceli, né ci ha detto se e quanto il regalo ci costerà in futuro.

Nel novembre 2014, prima ancora dell’inizio dei lavori, il costo del restauro è “lievitato” a 5 milioni e 200 mila euro. Ciò comporterà “un piccolo prelievo per le casse pubbliche”, ha scritto con un tono di benevola comprensione il Corriere del Veneto. Proprio oggi, in contemporanea con l’inaugurazione in stile cafonal-chic del cantiere, il comune ha annunciato che quest’anno non ci sono risorse per i centri estivi. Mancano 150 mila euro e 4 mila bambini resteranno a casa.

Oltre che sulla iniqua distribuzione di costi e benefici fra pubblico e privato, che ormai non fa più notizia, il restauro del ponte dovrebbe far riflettere anche sul progetto di città al cui interno si situa e del quale è un importante elemento. Il cantiere, infatti, si trova a pochi metri da quello del Fontego dei Tedeschi che il gruppo Benetton sta trasformando in centro commerciale. La contiguità delle due operazioni non è solo fisica, come è bene messo in evidenza dai modelli predisposti dallo studio di Rem Koolhaas. Oggettivamente, l’intervento sul ponte non solo valorizza l’area intorno al Fontego, ma veicola l’immagine del ponte come suo accesso. Forse non l’ha chiesto Benetton, ad onor del quale va riconosciuto di non aver mai rivendicato l’etichetta di mecenate - il titolo gli era stato conferito a sua insaputa dall’ex sindaco Massimo Cacciari - ma è certo che ogni suo investimento immobiliare in città è stato accompagnato da una apposita opera pubblica, a partire dal ponte di Calatrava che collega la stazione, anch’essa trasformata in centro commerciale, al terminal automobilistico.

Ma, purtroppo su questi temi la città tace. Nessun candidato alle imminenti elezioni li menziona, né tanto meno si impegna a far affiggere all’ingresso del comune la targa “non si accettano regali”.

“Salta il bilancio del comune di Venezia. Il commissario Zappalorto vara un piano lacrime e sangue fino al 2018” e “Il comune cede alla Biennale l’uso perpetuo dell’Arsenale Sud” sono i due... >>>

“Salta il bilancio del comune di Venezia. Il commissario Zappalorto vara un piano lacrime e sangue fino al 2018” e “Il comune cede alla Biennale l’uso perpetuo dell’Arsenale Sud” sono i due odierni dispacci dal fronte veneziano. Domenica arriverà Renzi e avrà modo di congratularsi con il commissario che, non potendo far rinviare ulteriormente la data delle elezioni, sta accelerando la sua missione, che è di lasciare terra bruciata e nessuna possibilità di scelte politiche autonome al prossimo sindaco.

Le cifre circa l’entità del buco nel bilancio del comune cambiano in continuazione perché, forse, per avere i dati veri bisognerebbe disarticolare le varie voci da cui hanno origine i “nostri” debiti, prime fra tutti sprechi e rischiosi investimenti in derivati, grandi opere e grandi regali ai mecenati. Invece si preferisce comunicare il totale, che oggi ammonterebbe a 65 milioni di euro. E’ solo una coincidenza, ma poche settimane fa, propagandando il carnevale “il brand italiano più conosciuto al mondo, un valore aggiunto che ha il preciso obiettivo di valorizzare l’economia della città in periodo invernale”, Piero Rosa Salva, il presidente di Vela s.p.a (società partecipata del Comune e del Casinò per organizzare eventi e il marketing cittadino) ha detto che il flusso di denaro speso dai turisti durante il carnevale è “un affare da 70 milioni in due settimane” e che gli pareva quindi “anacronistico pensare ad una eventuale abolizione di eventi di questo genere”. Il presidente Rosa Salva, che nel 2014 ha avuto un premio aggiuntivo di 10 mila euro, può stare tranquillo. Nessun contributo di solidarietà verrà chiesto ai beneficiari dei 70 milioni del carnevale.

Secondo il piano del commissario, infatti, per sanare il debito bisognerà che i costi dei servizi siano interamente coperti dagli utenti, il che da un lato significa che chi paga le tasse pagherà i servizi due volte, dall’altro che chi incamera il denaro speso da milioni di turisti continuerà a godere di un regime di “vacanza” fiscale. Al commissario questo non interessa, lui è qui per “sanare” il bilancio, e del resto nemmeno i candidati sindaco osano mettere in discussione lo slogan secondo il quale il turismo è la nostra (?) industria più preziosa. Ammesso che sia un’industria, bisognerebbe almeno specificare che si tratta di un’industria estrattiva, che di per sè non produce nulla, se non materiale di scarto. E che il suo successo, come quello di una qualsiasi industria estrattiva, si basa sulla disponibilità di materie prime a costo zero- che sia carbone, caffè o una città d’arte fa poca differenza purché distribuisca dividendi agli azionisti - lavoro poco qualificato e poco retribuito, e licenza di scaricare le esternalità negative, ambientali e sociali, sul territorio. Nel migliore dei casi, gli aspiranti sindaco ventilano l’ipotesi di far pagare “qualcosa in più” ai turisti (cioè di alzare il prezzo del prodotto per l’acquirente finale) ma nessun serio piano di contrasto all’evasione fiscale del settore è previsto. Far affiggere il reddito dichiarato alla vetrina di bar e ristoranti o suonare i campanelli alle migliaia di strutture ricettive non autorizzate, tutte agevolmente localizzabili nei siti internet, sono operazioni tecnicamente fattibili; il problema è che le “categorie” locali votano e le multinazionali sono esentasse, per definizione.

Oltre ad aumenti di tributi e tariffe, il piano di rientro del debito prevede una nuova tornata di svendite e cessioni di immobili e beni comunali. È un ramo nel quale il commissario si è già molto impegnato nei mesi scorsi con una serie di iniziative, dalla consegna del Lido al fondo immobiliare Hines al cambio d’uso delle Procuratie Vecchie in piazza San Marco a vantaggio delle Generali, che avranno ripercussioni pesanti e non reversibili per la città. Oggi, ignorando le motivate proteste dei molti comitati a difesa dell’Arsenale bene pubblico, ha rinnovato e ampliato la concessione alla Biennale. Non solo la durata della concessione diventa, di fatto, perpetua, ma la Biennale potrà concedere in uso a terzi gli spazi avuti dal comune. Ovviamente, nessun corrispettivo verrà alla città, a parte qualche milione di turisti.

Privatizzazione dei beni pubblici, regali ad astuti investitori e sedicenti benefattori, tagli e tasse per i cittadini annichiliti non si verificano solo a Venezia. Qui, però, la sproporzione tra il flusso di denaro in transito e la miseria delle casse del comune ha raggiunto dimensioni tali da farne un caso da “manuale”, una best practice di una prospera economia di rapina.

In queste settimane l’opinione pubblica è in gran parte attenta all’orgogliosa marcia del paese verso l’Esposizione universale di Milano e c’è quindi poco spazio per alcuni >>>

In queste settimane l’opinione pubblica è in gran parte attenta all’orgogliosa marcia del paese verso l’Esposizione universale di Milano e c’è quindi poco spazio per alcuni pur importanti eventi internazionali. Per esempio il 27 aprile comincerà un mese di incontri per la revisione del Trattato di non-proliferazione nucleare (TNP), una sessione delle Nazioni Unite che si riunisce ogni cinque anni alla ricerca di qualche accordo per diminuire, e magari per mettere fine alla presenza di armi nucleari sul pianeta.

Con mille esplosioni di bombe nucleari nell’atmosfera e altre mille esplosioni di bombe nucleari nel sottosuolo, nella metà del Novecento, Stati Uniti, Unione Sovietica (oggi Russia), Francia, Inghilterra, Russia, Cina, Pakistan e India, si sono dati da fare per assicurare i possibili nemici di possedere le più devastanti armi di distruzione di massa: se un paese avesse aggredito l’altro, sarebbe stato a sua volta distrutto; è la dottrina della “deterrenza”. Al club atomico si è poi aggiunto Israele, forse la Corea del Nord, e altri paesi hanno tentato di costruire le proprie bombe atomiche.
Per indurre i paesi non-nucleari a non dotarsi di armi nucleari e per scoraggiare la circolazione o il furto di uranio e plutonio, nel 1970 è stato proposto e poi firmato e ratificato, da “quasi” tutti i paesi, il Trattato TNP. Era naturale che molti paesi, in questo turbolento mondo, si chiedessero perché alcuni potessero possedere armi nucleari vietate agli altri, per cui nel trattato fu inserito un “Articolo sei” che impegna tutti i firmatari ad avviare in buona fede azioni per l’eliminazione totale di tali armi, in maniera simile a quanto si era fatto con successo per l’eliminazione di altre armi di distruzione di massa, come quelle chimiche e batteriologiche.

Nel corso degli anni sono diminuite e cessate le esplosioni sperimentali nell’atmosfera o nel sottosuolo, ma solo perché sono stati inventati altri sistemi per controllare il “perfetto funzionamento” delle bombe nucleari esistenti. Delle sessantamila bombe nucleari esistenti nel mondo nel 1985 molte sono state eliminate e oggi ne restano “soltanto” circa 10.000, con una potenza distruttiva equivalente a quella di alcune centinaia di migliaia di bombe come quelle che spianarono Hiroshima e Nagasaki, esattamente 70 anni fa. Alcune bombe termonucleari B-61 americane sono localizzate anche in Italia a Ghedi (Brescia) e Aviano (Vicenza).
L’esplosione anche solo di alcune bombe nucleari creerebbe sconvolgimenti climatici, desertificazione, avvelenamento e morte su intere regioni; per questo nel 1996 la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha dichiarato illegale anche solo la minaccia dell’uso delle armi nucleari. Intellettuali, premi Nobel e uomini politici (gli americani Kissinger e altri nel 2007; D’Alema, Fini, La Malfa e altri in Italia nel 2008), ma soprattutto movimenti pacifisti ed ambientalisti hanno chiesto ad alta voce, e finora senza successo, “un mondo senza armi nucleari”.

Nel 2014 la piccola Repubblica delle Isole Marshall, 68.000 abitanti di un gruppo di atolli nel Pacifico, in cui gli americani fecero esplodere centinaia di bombe nucleari cinquant’anni fa, ha “fatto causa” agli Stati Uniti e ad altri paesi nucleari che, pur avendo firmato il TNP, hanno sempre evitato di ottemperare agli obblighi dell’”Articolo sei” di tale trattato e anzi hanno continuato a perfezionare i loro arsenali. Nel 2014 l’Austria ha redatto il testo di un “Impegno” per la totale eliminazione delle armi nucleari dal pianeta.

Il disarmo nucleare totale, oltre ad aumentare la sicurezza internazionale e far diminuire i ben noti pericoli di danni ambientali, ha risvolti economici rilevanti. Intanto ogni anno nei soli Stati Uniti vengono spesi centinaia di miliardi di dollari per l’aggiornamento, il perfezionamento e la manutenzione delle bombe nucleari, soldi che il disarmo totale farebbe risparmiare. Questo certo disturberebbe il vasto e potente complesso militare-industriale delle imprese che traggono profitti dalla produzione dell’uranio arricchito, del plutonio, dei composti di deuterio, gli ingredienti “esplosivi” delle bombe nucleari; simili attività sono fiorenti in tutti i paesi che possiedono armi nucleari e si capisce perché il disarmo incontra tanti ostacoli.
D’altra parte l’eliminazione totale delle bombe nucleari, oltre a garantire maggiore sicurezza internazionale e a scongiurare il pericolo di catastrofi umanitarie e ambientali dovute alla stessa esistenza di tali armi, offrirebbe la possibilità di avviare un gigantesco impegno industriale e di ricerca per le operazioni di smantellamento delle bombe esistenti e di messa in sicurezza di migliaia di tonnellate di “esplosivi”, radioattivi e velenosi per millenni, altamente pericolosi da maneggiare; sarebbe la più grande impresa economica, finanziaria e di occupazione di tutti i tempi. Chi volesse saperne di più trova molte informazioni nel recente libro, pubblicato dalle edizioni Ediesse a cura di Mario Agostinelli e altri, intitolato: Esigete ! un disarmo nucleare totale.

L’11 aprile di 52 anni fa Giovanni XXIII nell’enciclica “Pacem in terris” affermava: “Giustizia, saggezza ed umanità domandano che si mettano al bando le armi nucleari e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci”. Gli ha fatto eco papa Francesco nell’appassionato messaggio del 7 dicembre 2014 alla conferenza sulle conseguenze umanitarie delle armi nucleari ripetendo: “Un mondo senza armi nucleari è davvero possibile”. Che i governi partecipanti alla prossima riunione del Trattato di non proliferazione, ascoltino queste parole e si incamminino davvero verso un tale mondo nuovo.

Lo saranno anche...>>>

Lo saranno anche dopo le elezioni? I disegni ed il rendering della tettoia che verrà collocata all’arrivo del tram a piazzale Roma, “porta automobilistica della laguna”, hanno suscitato molti commenti negativi sull’aspetto della struttura, il cui progetto è stato approvato dal commissario straordinario che governa la città. Si tratta di una piastra d’acciaio lunga 32 metri, poggiante su un’unica colonna centrale per “evocare una T nel paesaggio”. Sarà di colore grigio scuro, in conformità alle richieste della Sopraintendenza che lo ha voluto “in tinta” con il vicino nuovo palazzo di Giustizia, il cui rivestimento in rame “ invecchia malamente” e, invece di assumere la tonalità del metallo ossidato, è diventato grigio fumo.

Le più o meno futili discussioni sull’aspetto della pensilina, che verrà installata nei prossimi giorni, hanno distolto l’attenzione dall’intreccio di vicende, a scala nazionale e locale, di cui essa è, per il momento, l’ultimo atto.

Il tutto ha inizio nel 2002, quando la legge finanziaria predisposta dal ministro Tremonti ha imposto alle società di trasporto locale lo scorporo della parte infrastrutturale dalla erogazione dei servizi. La logica del provvedimento è simile a quella che ha portato allo smantellamento delle Ferrovie dello Stato. E simili sono i risultati: da un lato riduzione delle risorse per il servizio di trasporto, il che significa meno manutenzione dei mezzi, minor numero di corse, aumento delle tariffe; dall’altro grande impulso allo sviluppo immobiliare delle stazioni cedute a privati investitori.

Per effetto di tale legge, nel dicembre 2003, ACTV l’azienda comunale di trasporto pubblico di Venezia è stata scissa in due. E’ stata creata PMV s.p.a società del Patrimonio per la Mobilità, alla quale è stata conferita la proprietà di tutti i beni costituenti le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali destinate all'effettuazione del trasporto pubblico: gli approdi del servizio di navigazione - pontoni galleggianti, passerelle d’imbarco e pontili fissi in calcestruzzo-, le pensiline di fermata del servizio bus in terraferma, nonché i depositi dei mezzi e le relative aree di parcheggio. Da allora PMV affitta questi beni ad ACTV, e periodicamente minaccia di impedirne l’utilizzo ai mezzi di trasporto pubblico se non verranno alzati i canoni.

Nella stessa operazione di scissione del 2003, ACTV ha conferito a PMV anche il ramo di azienda denominato "Progetti Speciali" nel quale rientra il progetto per la realizzazione del “sistema tranviario su gomma a guida vincolata per la città di Mestre Venezia”.

Il tram era fortemente voluto dall’allora sindaco Paolo Costa (già ministro dei Lavori Pubblici ed attuale presidente dell’Autorità Portuale, nonché paladino delle grandi navi in laguna) che lo vedeva come la “spina dorsale” di una città che ha il suo fulcro nell’aeroporto e nei milioni di turisti che vi sbarcano. Nel 2004, inaugurando il cantiere della prima linea tra Mestre e Marghera ha detto, “ spero che ne vengano aggiunte altre, in particolare quella sino a Tessera, che potrebbe poi continuare, con la sublagunare, all'Arsenale. Un giorno, non molto lontano, con un unico mezzo si potrà arrivare dal centro di Venezia in aeroporto, in stazione a Mestre o a Marghera”.

I successivi sindaci hanno continuato ad appoggiare il progetto del tram, sebbene ognuno con motivazioni diverse e con diverse ipotesi di percorso. Per Massimo Cacciari era funzionale allo sviluppo del cosiddetto Quadrante Tessera, una gigantesca speculazione immobiliare adiacente all’aeroporto, e per sostenere la candidatura di Venezia alle Olimpiadi del 2020. Giorgio Orsoni non aveva un preciso disegno territoriale nel quale inserire il tram. Si limitava a valutarne le potenzialità nella contrattazione con i privati investitori che sperava di attrarre. Così, propose di modificare il percorso già approvato per far arrivare il tram davanti al Palais Lumière, la torre che Pierre Cardin voleva costruire a Marghera.

In ogni caso, era chiaro a tutti che per i cantieri del tram servivano molti soldi. Si è così deciso di alienare il deposito degli automezzi ex ACTV in via Torino, un’area di oltre trentamila metri quadrati in posizione strategica in prossimità dell’imbocco del ponte della Libertà. Inizialmente si è parlato di metterlo all’asta partendo da una base di 14 milioni di euro, ma poi, nel 2012, lo si è ceduto per 9 milioni ad un privato per realizzare un supermercato, una torre commerciale/residenziale e un parcheggio a raso. Il progetto, ha spiegato l’assessore Ezio Micelli, “tiene insieme tre elementi: sobrietà, complessità e qualità e punta sulla ricchezza funzionale dell’impostazione di fondo… è un intervento da tempo atteso, sia per ragioni di natura sociale, visto lo stato di abbandono e di degrado dell’area, che ambientali, essendo necessaria una bonifica, non solo da materiali inquinanti, ma anche da possibili residuati bellici”.

La torre, alta 75 metri e denominata Hybrid Tower Mestre, è ora finita. Come dicono gli opuscoli pubblicitari, “da una parte si potrà contemplare la laguna di Venezia e il campanile di San Marco, dall’altra la conurbazione mestrina e, sullo sfondo, le dolomiti con la neve”. Secondo il progettista, Flavio Albanese, il ristorante panoramico negli ultimi piani dovrebbe diventare “il vero locale appeal di Mestre, in grado di richiamare migliaia di persone, solo per farci un giretto dentro, come avviene nelle metropoli. La torre, inoltre, potrebbe essere un grande totem, che di volta in volta pubblicizza eventi, segno distintivo della città… è il nuovo simbolo della Mestre del ventunesimo secolo, il primo elemento della Mestre verticale”.

Ora che il tram è arrivato a piazzale Roma - il ritardo di alcuni anni rispetto ai programmi non ha impedito ad Antonio Stifanelli, presidente di PMV, di ricevere, per il 2014, un premio di 50.000 euro- ed il grattacielo a Mestre è finito, nuovi progetti sono in vista. Dopo aver realizzato enormi pontili a San Marco e al Lido -più diminuiscono le corse più si ampliano le stazioni alle fermate - PMV vorrebbe costruire una grande stazione di interscambio a Mestre, in piazza Cialdini. Ovviamente, le risorse necessarie dovrebbero provenire dalla vendita di immobili comunali. A questo dovrà provvedere la prossima amministrazione comunale e stupisce che nessuno dei candidati si pronunci sulla questione, preferendo promettere crescita e sicurezza. Intanto, l’unica cosa certa è che, grazie al tram, chiamato anche “siluro rosso”, forse per evocare un’analogia con i freccia rossa, verranno sospese o ridotte le corse di alcune linee di autobus.

Il 25 aprile è certamente la data simbolicamente più significativa e fondante dell'Italia repubblicana. Il giorno della liberazione del paese dall'occupazione nazifascista ...>>>

Il 25 aprile è certamente la data simbolicamente più significativa e fondante dell'Italia repubblicana. Il giorno della liberazione del paese dall'occupazione nazifascista segna un frattura netta non solo con la dittatura mussoliniana, ma anche con il conservatorismo monarchico, ponendo le basi dell'Italia democratica. Un evento che non è una delle tante “rivoluzioni passive” della nostra storia, ma il frutto della lunga lotta partigiana, di una resistenza popolare che ha pochi precedenti nel nostro passato nazionale. Per circa un ventennio la sua celebrazione è entrata nell'immaginario degli italiani come un anniversario condiviso, una festa di tutti che ratificava l'accettazione universale dei valori della Costituzione e della democrazia. Ricordo che sul finire degli anni '60 e nel decennio successivo, la replica di quella commemorazione cominciò ad apparire, ai giovani di sinistra della mia generazione, come uno stanco rituale in una società di stabile democrazia, che aveva ormai bisogno di idealità più avanzate cui ispirarsi.

Ma dagli anni '80, com'è noto, le cose cambiarono. Il 25 aprile insieme alla Resistenza e alla prima parte della Costituzione, subirono attacchi molteplici, sia in sede storiografica che politica e giornalistica. Revisioni che contribuirono non poco a “sporcare” un mito fondativo della Repubblica. Da allora quella data è terreno, in vari modi, di contesa e di lotta politica, dal momento che tutte le forze in campo hanno compreso il valore simbolico della memoria, il suo essere terreno di egemonia. Quest'anno, la celebrazione di quella data sta lacerando il fronte antifascista promotore, creando problemi all'interno dell'Anpi a causa di un dissenso esploso di recente: la Brigata Ebraica e l'Aned, l'Associazione degli ex deportati, non parteciperanno al tradizionale corteo di porta San Paolo. Ragione del violento dissenso è la presenza di organizzazioni palestinesi all'interno del corteo, ree di aver criticato il governo di Israele e di non volere nel corteo la bandiera di quello stato.

Credo che la decisione di parte ebraica sia faziosa e sbagliata per più ragioni, e non ho bisogno di entrare nei dettagli delle discussione per dimostralo. Del resto, basta leggere l'intervista a Yussuf Salman, quale rappresentante delle comunità palestinesi (il manifesto del 10.4.2015) per vedere quanto ragionevole sia la posizione di questa parte. E' faziosa e sbagliata intanto perché nella presente fase storica, mentre infuria in Medio Oriente un fanatismo religioso di inaudita ferocia, l'intelligenza politica consiglierebbe la ricerca dell'unità, del dialogo, della cooperazione tra le forze che ambiscono alla pace. Non turba nessuno il fatto che in questo momento l'Isis sta portando i suoi massacri nel campo dei rifugiati palestinesi di Yarmouk, gremiti di bambini e di vecchi? O è solo Israele, solo gli ebrei che devono godere del monopolio della pietà una volta per sempre?

Ma nel gesto della Brigata Ebraica e dell'Aned ci sono due errori politici gravi: l'identificazione con lo stato d'Israele, e il conseguente vulnus alla coscienza pacifista e democratica dell'antifascismo italiano. Che cosa c'entrano gli ex deportati con l'attuale governo di Netanyau? Com'è possibile che ancora oggi gli ebrei democratici non comprendano un aspetto fondamentale della storia recente d'Israele? Se esso ha il merito di avere dato una patria a un popolo perseguitato e disperso, rappresenta tuttavia la coda violenta e tardiva del colonialismo europeo, una imposizione militare, che avrebbe richiesto ben altra strategia di riparazione nei confronti del mondo arabo. E invece, insieme agli USA, quello stato ha prodotto una politica che ha disperso un'alto popolo ed è all'origine della più grave instabilità di questa parte del mondo negli ultimi 60 anni.

E veniamo a noi. Forse che milioni di italiani non hanno ragioni di recriminazioni, nei confronti dell'intera comunità ebraica del nostro paese, per la tiepidezza – si fa per dire – con cui essa ha assistito al massacro di civili palestinesi a Gaza? Uccisioni e distruzioni immani, perpetrati per ben due volte, con bombardamenti simultanei da terra , dal cielo e dal mare, nel 2008 e nel 2014. Non è ad essa ben noto che milioni di italiani, forse la grande maggioranza del nostro popolo, guarda allo Stato d'Israele, come a un potere ingiusto e liberticida, che tiene in servitù un altro popolo? O crede che i cittadini non capiscano, non sappiano. Eppure, per amore di unità e di dialogo l'antifascismo italiano ricerca l'accordo, tentando di mettere insieme le parti. Perciò io credo che l'Anpi su questo punto deve avere una posizione di assoluta fermezza. Come ha ricordato Angelo D'Orsi, l'art. 2 dello statuto di quella organizzazione rivendica «un profondo legame con i movimenti di liberazione del mondo» (il manifesto, del 9.4.2015). L'equidistanza pilatesca deforma la verità. Oggi sono i palestinesi, è questo popolo che attende di essere liberato.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente al manifesto

In queste settimane l’opinione pubblica è in gran parte attenta all’orgogliosa marcia del paese verso l’Esposizione universale di Milano e c’è quindi poco spazio ...>>>

In queste settimane l’opinione pubblica è in gran parte attenta all’orgogliosa marcia del paese verso l’Esposizione universale di Milano e c’è quindi poco spazio per alcuni pur importanti eventi internazionali. Per esempio il 27 aprile comincerà un mese di incontri per la revisione del Trattato di non-proliferazione nucleare (NPT), una sessione delle Nazioni Unite che si riunisce ogni cinque anni alla ricerca di qualche accordo per diminuire, e magari per mettere fine alla presenza di armi nucleari sul pianeta.

Con mille esplosioni di bombe nucleari nell’atmosfera e altre mille esplosioni di bombe nucleari nel sottosuolo, nella metà del Novecento, Stati Uniti, Unione Sovietica (oggi Russia), Francia, Inghilterra, Russia, Cina, Pakistan e India, si sono dati da fare per assicurare i possibili nemici di possedere le più devastanti armi di distruzione di massa: se un paese avesse aggredito l’altro, sarebbe stato a sua volta distrutto; è la dottrina della “deterrenza”. Al club atomico si è poi aggiunto Israele, forse la Corea del Nord, e altri paesi hanno tentato di costruire le proprie bombe atomiche.

Per indurre i paesi non-nucleari a non dotarsi di armi nucleari e per scoraggiare la circolazione o il furto di uranio e plutonio, nel 1970 è stato proposto e poi firmato e ratificato, da “quasi” tutti i paesi, il Trattato NPT. Era naturale che molti paesi, in questo turbolento mondo, si chiedessero perché alcuni potessero possedere armi nucleari vietate agli altri, per cui nel trattato fu inserito un “Articolo sei” che impegna tutti i firmatari ad avviare in buona fede azioni per l’eliminazione totale di tali armi, in maniera simile a quanto si era fatto con successo per l’eliminazione di altre armi di distruzione di massa, come quelle chimiche e batteriologiche.

Nel corso degli anni sono diminuite e cessate le esplosioni sperimentali nell’atmosfera o nel sottosuolo, ma solo perché sono stati inventati altri sistemi per controllare il “perfetto funzionamento” delle bombe nucleari esistenti. Delle sessantamila bombe nucleari esistenti nel mondo nel 1985 molte sono state eliminate e oggi ne restano “soltanto” circa 10.000, con una potenza distruttiva equivalente a quella di alcune centinaia di migliaia di bombe come quelle che spianarono Hiroshima e Nagasaki, esattamente 70 anni fa. Alcune bombe termonucleari B-61 americane sono localizzate anche in Italia a Ghedi (Brescia) e Aviano (Vicenza).

L’esplosione anche solo di alcune bombe nucleari creerebbe sconvolgimenti climatici, desertificazione, avvelenamento e morte su intere regioni; per questo nel 1996 la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha dichiarato illegale anche solo la minaccia dell’uso delle armi nucleari. Intellettuali, premi Nobel e uomini politici (gli americani Kissinger e altri nel 2007; D’Alema, Fini, La Malfa e altri in Italia nel 2008), ma soprattutto movimenti pacifisti ed ambientalisti hanno chiesto ad alta voce, e finora senza successo, “un mondo senza armi nucleari”. Nel 2014 la piccola Repubblica delle Isole Marshall, 68.000 abitanti di un gruppo di atolli nel Pacifico, in cui gli americani fecero esplodere centinaia di bombe nucleari cinquant’anni fa, ha “fatto causa” agli Stati Uniti e ad altri paesi nucleari che, pur avendo firmato il NPT, hanno sempre evitato di ottemperare agli obblighi dell’”Articolo sei” di tale trattato e anzi hanno continuato a perfezionare i loro arsenali.

Nel 2014 l’Austria ha redatto il testo di un “Impegno” per la totale eliminazione delle armi nucleari dal pianeta. Il disarmo nucleare totale, oltre ad aumentare la sicurezza internazionale e far diminuire i ben noti pericoli di danni ambientali, ha risvolti economici rilevanti. Intanto ogni anno nei soli Stati Uniti vengono spesi centinaia di miliardi di dollari per l’aggiornamento, il perfezionamento e la manutenzione delle bombe nucleari, soldi che il disarmo totale farebbe risparmiare.

Questo certo disturberebbe il vasto e potente complesso militare-industriale delle imprese che traggono profitti dalla produzione dell’uranio arricchito, del plutonio, dei composti di deuterio, gli ingredienti “esplosivi” delle bombe nucleari; simili attività sono fiorenti in tutti i paesi che possiedono armi nucleari e si capisce perché il disarmo incontra tanti ostacoli.

D’altra parte l’eliminazione totale delle bombe nucleari, oltre a garantire maggiore sicurezza internazionale e a scongiurare il pericolo di catastrofi umanitarie e ambientali dovute alla stessa esistenza di tali armi, offrirebbe la possibilità di avviare un gigantesco impegno industriale e di ricerca per le operazioni di smantellamento delle bombe esistenti e di messa in sicurezza di migliaia di tonnellate di “esplosivi”, radioattivi e velenosi per millenni, altamente pericolosi da maneggiare; sarebbe la più grande impresa economica, finanziaria e di occupazione di tutti i tempi. Chi volesse saperne di più trova molte informazioni nel recente libro, pubblicato dalle edizioni Ediesse a cura di Mario Agostinelli e altri, intitolato: Esigete ! un disarmo nucleare totale.

52 anni fa, proprio un undici aprile, Giovanni XXIII nell’enciclica Pacem in terris affermava: “Giustizia, saggezza ed umanità domandano che si mettano al bando le armi nucleari e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci”. Gli ha fatto eco papa Francesco nell’appassionato messaggio del 7 dicembre 2014 alla conferenza sulle conseguenze umanitarie delle armi nucleari ripetendo: “Un mondo senza armi nucleari è davvero possibile”. Che i governi partecipanti alla prossima riunione del Trattato di non proliferazione ascoltino queste parole e si incamminino davvero verso un tale mondo nuovo.

Fra tre settimane gli incolpevoli cittadini milanesi residenti cominceranno a soffrire l’ingiusta pena causata da colpi e contraccolpi dispensati alla cieca dal Moloch-Expo >>>

Fra tre settimane gli incolpevoli cittadini milanesi residenti cominceranno a soffrire l’ingiusta pena causata da colpi e contraccolpi dispensati alla cieca dal Moloch-Expo, col suo corpaccione obeso, le braccia gonfie come in una grassa divinità d’oriente, i tanti lunghi tentacoli come nel polpo gigante abili ad avvinghiare per intero la città e a soffocarla fino all’ultimo respiro di morte.

Cadeva il ventotto marzo il settimo anniversario della votazione che premiava la città governata da una destra berlusconiana impersonata dal sindaco Letizia Moratti Brichetto, ricca moglie di silenzioso petroliere. Come il settimo sigillo appena aperto dall’Agnello «e allora il primo angelo die' fiato alla tromba”, (ma poi “ne venne grandine e fuoco misto a sangue»). Diede, la nostra intrepida, fiato alle trombe (e la fortuna la preserverà dal resto). Un’indefessa azione lobbystica verso gli ambasciatori dell’Unesco aveva sconfitto Smirne (Izmir) che in seguito perdette anche la corsa con la potentissima mostruosa Abu Dhabi per l’Esposizione del 2020. I festeggiamenti di gusto buffonesco li ricordiamo come la patacca che sancirà per sempre il cambiamento, anzi il completo rivolgimento della società urbana. Il corteo carnevalesco lungo Corso Buenos Aires, stradone commerciale per eccellenza, parve dire «questa è la città del vendere e del comprare, la comunità che tratta e scambia e brucia nei consumi e nella speculazione la merce a cominciare dalla più preziosa, il denaro».
La Milano «dei nostri tempi», famosa per essere l’unica delle maggiori città italiane a detenere una struttura industriale articolata in miriadi di settori produttivi, non sottoposta all’egemonia di una sola o poche grandi fabbriche come Torino (private) o Genova (pubbliche) ha resistito per quasi tre decenni dal dopoguerra, quando poteva ancora presentare i cittadini milanesi secondo una struttura sociale ricca per differenze ma anche per unitaria identificazione urbana. Sopravvivevano le due classi dal cui confronto (e antagonismo) proveniva il dinamismo economico e culturale della città: la borghesia produttrice depositaria di un certo sentimento civile, non ancora discesa per sempre nel gorgo dei giochi finanziari e della connessa speculazione fondiaria e edilizia; la classe operaia, forte per numerosità e coscienza di sé (classe “per sé” diremmo riesumando il vecchio vocabolario), non ancora massacrata e disossata dall’imperversante e vittorioso neoliberismo oltranzista; e, non più classe, dispersa in pezzetti residuali negli anfratti dello sprawl metropolitano in cui la città medesima, ormai estranea al retaggio storico, affondava. (Per non dimenticare: nel 1963 la lotta degli operai dell’Alfa Romeo aveva strappato un nuovo contratto in cui l’aumento salariale rappresentava un chiaro spostamento del reddito dal profitto al lavoro).

Al principio degli anni Sessanta Milano è anche città industriale in ogni senso. Quasi la metà dei residenti attivi sono operai (484.000), ma gli addetti all’industria (in gran parte operai), cresciuti continuamente, sono poco meno di mezzo milione sicché il tasso di industrializzazione (rapporto fra addetti, approssimativamente posti di lavoro, e popolazione residente, 1.583.000) tocca il 31%, il massimo dal dopoguerra. Il confronto fra i residenti attivi nell’industria e i posti di lavoro mostra la prevalenza delle entrate in un pendolarismo giornaliero incessante. Vale a dire: si veniva a lavorare a Milano nell’industria oltre che nel terzo settore; un processo storico di lunga durata soltanto interrotto, e non completamente, dai momenti più duri della guerra.

Ai primi anni del decennio Settanta la popolazione residente, sempre aumentata dal 1945, è tanta quanto non era mai stata e mai più sarà, circa 1.740.000 unità (censimento del 1951: 1.274.000). Gli operai che risiedono in città sono diminuiti del 17%, ma all’interno di una popolazione attiva in corso di riduzione anche per ragioni di struttura demografica rappresentano il 41%. Gli addetti industriali, sebbene ancora molti, 435.000, non nascondano sintomi di deindustrializzazione, d’altro canto indicano la persistenza di una forte domanda verso il territorio extra urbano e dunque l’incongruenza del mercato delle abitazioni – in altre parole la mancanza di case popolari – rispetto alla realtà del lavoro e dei diritti dei lavoratori. Eppure vibra ancora nell’aria la parola d’ordine gridata nei cortei del grande sciopero del 1969, “casa servizio sociale”. Intanto diventa sempre più intensa la richiesta di impiegati negli infiniti luoghi del terziario, detto “settore dei servizi” mentre servizio sociale sarà sempre meno e sarà sempre più coacervo finanziario, commerciale, speculativo, persino affaristico mafioso. Le sue sedi invaderanno spazi urbani di ogni genere, dapprima capillarmente edifici residenziali fino a che i noti grandi volumi “firmati”, simboli, per noi, della fine ingloriosa dell’architettura e dell’urbanistica, andranno, come mostri frankensteiniani camminanti attraverso la città, a cercare e a coprire le aree libere più belle, che avremmo voluto destinate al bene comune. La rendita fondiaria intrinseca alle costruzioni si riprodurrà sempre, qualsiasi sia il loro destino, compreso quello di rimanere vuote per mancanza di domanda. Come capiterà sempre più spesso, ci sia o no crisi economica generalizzata..

Con il trascorrere degli anni Settanta e nei decenni successivi a Milano infierisce il sovvertimento demogra­fico che trascina con sé lo squilibrio sociale. La popolazione residente diminuisce senza sosta fino a che al principio del nuovo millennio il censimento rivela una perdita impressionante di 560.000 unità: come se a una persona normale fosse prelevato un litro e mezzo di sangue. Una città ridotta a 1.180.000 residenti, a causa di improbabile scelta anti-urbana di famiglie o di certa espulsione per impossibilità di trovare un al­loggio adeguato al reddito da lavoro, anche per la cronica penuria di abitazioni pubbliche in regime di Aler (azienda lombarda di edilizia residenziale, un’azienda come altre), non può essere la città vera. Che riconosciuta per equa nu­merosità di persone stabili, per equilibrio di settori economici e di attività delle persone, per proporzione fra diversi ceti sociali sarà molto difficile ritrovare. Gli operai “milanesi” per abitazione, occupati in città o altrove che, come si è visto, oltre mezzo secolo fa imprimevano sui residenti un chiaro marchio di classe lavoratrice tradizionale, sono diminuiti assai più velocemente dell’intera popolazione. Il loro peso, già ridotto al 10% all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scotso, ora è trascurabile. Anche la Milano residenziale d’oggi, che esibirebbe tristemente un nuovo sa­lasso di quasi centomila persone se non fosse per il contributo degli stranieri “regolari”, ben 265.000 (anagrafe 31.12.2013, residenti totali 1.354.000), non può ribaltare la propria verità sostanziale. Mostra però che l’antica vocazione a ospitare allogeni non è morta. Grazie a loro potrebbe profilarsi un futuro demografico e sociale meno statico. Solo una speranza.

L’altra Milano, quella del giorno, se così si può dire, con la massa di impiegati pendolari che forse portano la popolazione presente in queste ore a due milioni, neanch’essa è la città vera, giacché non recupera nulla del carattere storico dell’autentica modernizzazione (doveroso ossimoro). Come sbandierava il corteo morattiano: monocultura commerciale dominante con la classe speculatrice che la impersona: contro la ricchezza culturale della città che abbiamo amato e abbiamo perduto. Sarà proprio l’Esposizione a convalidarla. Dal disperato luogo dei padiglioni, tradimento della primaria idea di presentare davvero le coltivazioni dei paesi del mondo, agli assi stradali radiocentrici, al centro-centro della città: i pellegrini si uniranno alle folle durevoli per invetriarsi davanti o dentro le migliaia di spettacolari brutti negozi di abbigliamento e accessori in continuo cambiamento, cuore del riciclaggio mafioso, o di bar aggiustati in falsi ristoranti-pizzerie campioni del risotto milanese fornito surgelato a notte fonda dall’”organizzazione” e rigenerato nel forno a microonde.

Nel dibattito sul reddito minimo (e sue varianti) il punto da cui oggi occorrerebbe partire, in Italia,
è la ragione che nega l'impossibilità della sua applicazione ... >>>

Nel dibattito sul reddito minimo (e sue varianti) il punto da cui oggi occorrerebbe partire, in Italia,
è la ragione che nega l'impossibilità della sua applicazione: la mancanza di soldi. «Non ci sono le risorse» ha sentenziato di recente il ministro Poletti. Ma è davvero così? Sembra difficile invece crederlo, se ci si informa sulla ricchezza reale del paese, senza fermarsi alle retoriche correnti e al baccano stupido dei media. La Banca d'Italia, ad esempio, sembra avere un'idea diversa delle “risorse” dell'Italia. Nel suo documento La ricchezza delle famiglie italiane. Anno 2013, il nostro paese, con una ricchezza netta pari a 8.728 miliardi di euro, appare in una luce diversa dalla vulgata miserabilista corrente: «Nonostante il calo degli ultimi anni, le famiglie italiane mostrano nel confronto internazionale un'elevata ricchezza netta, pari nel 2012 a 8 volte il reddito lordo disponibile; tale rapporto è comparabile con quello di Francia, Giappone e Regno Unito e superiore a quello di Stati Uniti, Germania e Canada».

E' una ricchezza formata dal patrimonio abitativo (4.900 miliardi), ma anche da titoli finanziari, risparmi, attività economiche, ecc. Si tratta di una posizione di tutto rispetto, anche in confronto di grandi potenze industriali che il reddito minimo lo praticano da tempo. E' allora qual'è il problema? Perché un paese così ricco non trova le risorse per dare alle fasce più deboli ed esposte della nostra popolazione un reddito di dignità? Perché l'Italia ha oggi 6 milioni di poveri in senso assoluto, il 10% degli individui e l'8% delle famiglie? La prima risposta è - come largamente noto - nella disugualissima distribuzione della ricchezza. Su questo punto i dati della Banca d'Italia degli ultimi anni sono noti. Il 10% delle famiglie più ricche detiene quasi la metà della ricchezza nazionale.
Questione sociale di prima grandezza, ma oggi ostacolo evidente alla cosiddetta ripresa. Cinque mesi fa perfino l'OCSE, che non è la Caritas, si è spinta a sostenere, pudicamente che «l'aumento della disparità ha un impatto sulla crescita» (M. Moussanet sul Sole del 9.12.2014). E allora, perché i governi e i partiti non promuovono politiche efficaci di riequilibrio, di redistribuzione della ricchezza? Non è noto che il welfare del dopoguerra si è retto su sistemi fiscali progressivi? Eppure oggi un sistema fiscale realmente democratico non è nell'agenda del nostro governo, né ovviamente dell'UE, dove si fa a gara, tra paesi, a chi offre le migliori condizioni fiscali ai capitali esterni. Mentre in Italia, secondo i dati apparsi di recente sulla stampa, ben l'80% del peso fiscale è sostenuto dalla parte più debole del paese, dipendenti e pensionati.

Dunque, qual'è allora il vero ostacolo che si para dinnanzi all'istituzione del reddito minimo? Ma è evidente che si tratta di una ragione interamente politica. Il ceto politico non ha nessuna intenzione di scontrarsi con gli interessi costituiti, mettere in discussione la gerarchia consolidata della ricchezza così come si è venuta storicamente formando. Questo ceto, del resto, costituisce un segmento interno, una giuntura delle società capitalistiche del nostro tempo. Mettere radicalmente in discussione i rapporti dominanti esporrebbe a rischio il suo stesso potere relativo e la sua riproduzione. Eppure da noi la sperequata distribuzione della ricchezza non è solo una drammatica disuguaglianza fra le classi, che danneggia la “crescita”: dentro vi è incistata anche una questione generazionale. Sempre la Banca d'Italia, ne I bilanci delle famiglie italiane nell'anno 2012 ha ricordato che nel precedente ventennio, in termini relativi, il reddito degli anziani è passato «dal 95 al 114 per cento della media generale. (...) Per le classi di età più giovani, invece, il reddito equivalente è diventato significativamente più basso della media: il calo è stato di circa 15 punti percentuali».

Non c'è da stupirsi: il capitalismo neoliberista distribuisce la ricchezza sulla base dei puri rapporti di forza fra classi e individui. Com'era stato per tutta la precedente storia delle società umane, sino al trentennio “keynesiano”. Il generale regredire della nostra civiltà, lasciata ai liberi appetiti del cosiddetto “mercato”, si riflette anche qui. La parte meno rappresentata e forte, la nostra gioventù, indietreggia, non ha lavoro, non riesce a intraprendere, non può proseguire gli studi, non può fare ricerca, non può mettere su famiglia. E' da anni che il segmento più giovane della popolazione, il più vitale, potenzialmente più creativo e innovativo, in grado di ridare speranza e slancio al nostro paese, viene lasciato languire ai margini della società. Si facciano un giro per le città e i paesi del Sud politici e giornalisti filogovernativi: risparmieranno la fatica di leggere aride statistiche. Ma possono anche stare a Milano, dove l'altro giorno, per 25 posti da infermiere, erano in fila 13 mila persone.(Corriere della Sera del 3.4. 2015)
Davvero, qualcuno pensa di intaccare la disoccupazione giovanile italiana con il Jobs Act ? Chi può onestamente affermare che con la sola crescita potremo avere milioni di nuovi posti di lavoro? E quanti anni dovremo attendere? E quale potrà essere il ritmo di tale crescita, con i vincoli in cui ci stringono i patti iugulatori dell'UE? Nessuno faccia finta di non sapere che l'Italia è un paese sotto occupazione straniera: sotto occupazione finanziaria. Una novità assoluta nella storia degli stati sovrani.

Dunque, quello per il reddito minimo è una battaglia strategica di grande portata, in grado di dare un minimo di respiro alla nostra gioventù e a tante famiglie disperate in tempi brevi. Al tempo stesso colpirebbe la disuguaglianza e rafforzerebbe la domanda interna. Le risorse si trovano dove un tempo le trovavano i partiti della sinistra e i sindacati non asserviti: facendo leva sulla lotta sociale, con una pressione di massa che trasferisca aliquote significative di ricchezza dalle immense e crescenti rendite accumulate nelle fasce alte della società. La Coalizione sociale di Landini e altri dovrebbe porsi come centrale tale obiettivo, non solo per le ragioni già dette. Con le politiche correnti, senza un cambiamento dei trattati dell'Unione - ottenibile da un vasto movimento di massa continentale - è evidente a tutti noi che il prossimo avvenire, in Italia e in Europa, sarà delle destre. Con conseguenze imprevedibili per la democrazia.

Tutto congiura a loro favore: il rinfocolamento dei risentimenti nazionali, l'immigrazione - destinata a diventare ingovernabile con la tragedia dell'Africa e del Vicino Oriente - lo svuotamento ulteriore del welfare, la facilità di mettere i poveri l'uno contro l'altro. In politica il tempo è tutto. Perciò occorre oggi raccogliere la rabbia, il rancore, la disperazione ma anche la rassegnazione dei nostri giovani (e non solo di essi) e trasformarla in energia politica, mostrando ad essi un obiettivo conseguibile tramite il loro impegno in prima persona. Questo significa, tradotto in parole semplici, che la Coalizione sociale deve metter in moto subito iniziative nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nell'Università, in tutti gli spazi pubblici perché il reddito minimo diventi il tema dominante.
Una campagna di mesi, in cui si mettono in luce diritti e si denuncino le ingiustizie intollerabili che stanno trascinando il paese alla rovina. Una grande vertenza nazionale, che abbia al centro quest'asse, che parta ora, che avvicini le organizzazioni ai cittadini, rinsaldando un fronte politico davvero nuovo, privo delle strumentalità proprie delle campagne elettorali. E' questa una condizione importante: un aspetto mai considerato, per spiegare i fallimenti delle proposte politiche messe in piedi dalla sinistra radicale, è che sono state promosse sempre a ridosso delle elezioni. Dall'Arcobaleno in poi, puntualmente, esse sono apparse agli occhi degli elettori come una scoperta manovra da ceto politico, animate dal desiderio di occupare posti di potere. La politica fra i cittadini si dovrebbe fare tutti i giorni. Una grande battaglia nazionale così orientata può costituire l'esperienza da cui può nascere - se si sarà responsabili e si porrà al primo posto il valore dell'unità – una formazione politica dai tratti nuovi. Una “ cosa” che nessuno può ideare oggi a tavolino.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente al manifesto

che dovrebbero essere soddisfatte >>>

Alberto Asor Rosa, nel suo "I nazareni della Toscana", indica con lucidità le scelte fondamentali che dovrebbero essere soddisfatte dal prossimo governo della Toscana se vuole dirsi di sinistra e se vuole onorare l'approvazione del Piano paesaggistico.

L'intervento del Presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, anche se risponde solo in parte e omette di replicare alle critiche, contiene una serie di dichiarazioni e proposte condivisibili e si segnala anche per un approfondimento e uno stile del tutto desueti nelle acrimoniose polemiche dei consiglieri regionali del Pd. Inconsueti, inoltre, sia il contenuto, sia il tono delle parole con cui Rossi esprime apprezzamento di quanto hanno fatto i vituperati (da altri) intellettuali, opinionisti e giornalisti per sostenere le buone ragioni del Piano paesaggistico, di cui il Pd nel consiglio regionale aveva proposto lo stravolgimento (un dato che non può essere sottovalutato e su cui Rossi tace).

Il succo 'politico' delle dichiarazioni di Rossi, sta nelle ultime frasi, in particolare quando il Presidente afferma: "sono certo che la crisi dei corpi intermedi e dei partiti impone il dovere di allargare lo spettro della rappresentanza, della discussione e della decisione politica. Sono grato ai comitati di cittadini impegnati da anni nelle battaglie ambientali e civili". E subito dopo: "credo che con il Piano del Paesaggio anche in Toscana possiamo contribuire alla ricomposizionee delle forze progressiste e delle culture della sinistra. Ci sono tutte le premesse. Tra le molte possibilità anche il voto disgiunto, consentito dalle regole e dall’offerta politica".

Rossi, a quanto sembra, invita gli elettori di sinistra che non voteranno né Pd né Grillo, ma più probabilmente altre liste, a esprimere comunque un voto a suo favore. Dobbiamo prendere sul serio la proposta di Rossi o si tratta solo di un brillante escamotage per porre fine a una polemica? Proviamo a prenderla sul serio.

La risposta potrebbe essere la seguente. Caro Presidente, quanto lei scrive è indubbiamente di grande importanza e siamo soddisfatti che abbia riconosciuto il ruolo positivo di associazioni ambientaliste e comitati nelle vicende del Piano paesaggistico e più in generale nella tutela del territorio toscano. L'unico appunto è che nel suo intervento sia riproposta la teoria degli "opposti estremismi", intesi come contrapposizione tra un'imprenditoria di rapina che pretende di avere le mani totalmente libere e un ambientalismo 'imbalsamatore' che vuole frenare ogni sviluppo. Lei sa bene che gli ambientalisti e i comitati vogliono arrestare - non basta frenare - lo sviluppo distruttivo e vogliono supportare, nei limiti delle loro possibilità, quello che crea lavoro, tanto meglio se qualificato, come lei stesso dice.

Ma torniamo alla sua proposta che indica come possibile una ricomposizione delle forze progressiste e della cultura della sinistra e all'ipotesi di un possibile voto disgiunto. L'una cosa si lega all'altra. In effetti, potrebbe essere la gestione del Piano paesaggistico a costituire il vero e proprio banco di prova di questa proposta, ma il dubbio è il seguente: lei è sicuro che sarà seguito su questa strada dal suo partito? E che un modello di governo toscano un po' eccentrico rispetto a quello nazionale sarà supportato, o per lo meno non ostacolato, dagli organismi centrali del Pd?

Occorrerebbe una buona dose di intelligenza politica per non essere pregiudizialmente contrari a un esperimento di questo tipo, capire i vantaggi di una certa 'biodiversità politica' e non pretendere, perciò, l'omologazione di ogni realtà regionale. Ma questa intelligenza esiste? Si tratta, Presidente, del primo nodo critico che deve essere superato perché la 'ricomposizione' che lei prospetta sia fattibile. Il secondo è conseguente: se lei si candida come Presidente anche per chi, da sinistra, non vota il suo partito, deve per coerenza, una volta eletto, formare un governo regionale e una giunta che includano queste forze di sinistra. Lo farà, anche se lei - di nuovo Presidente - disporrà di una maggioranza assoluta nel consiglio regionale e non avrà bisogno di allargare "lo spettro della rappresentanza e della decisione politica"? Sono domande cruciali per coloro che vogliono prendere sul serio quanto lei ha scritto.
Quella prima della Pasqua è celebrata dalla chiesa cattolica come “la domenica delle palme”. In questa festa viene ricordato il giorno...>>>

Quella prima della Pasqua è celebrata dalla chiesa cattolica come “la domenica delle palme”. In questa festa viene ricordato il giorno in cui Gesù torna a Gerusalemme per festeggiare la Pasqua, la festa ebraica che ricorda la liberazione del popolo d’Israele dall’Egitto con preghiere e pranzi in comune. Era un momento di grande popolarità per Gesù; la sua predicazione in varie parti della Palestina faceva sperare in una nuova liberazione dall’esosa Roma che opprimeva il paese con la collaborazione o tolleranza delle autorità religiose ufficiali, ostili, quindi a questo nuovo profeta. Una folla accoglie Gesù, come racconta l’evangelista Giovanni, agitando rami di palme, la pianta diffusa sul posto.

Quello che succede dopo è noto; il pranzo con gli amici, l’agguato dei nemici, la denuncia alle autorità romane, le perplessità del prefetto romano Pilato, le folle sobillate contro Gesù dai “sacerdoti”, la crocefissione. Nella tradizione cattolica la domenica “delle palme” prevede la benedizione di rami di piante, in Italia dell’ulivo che è diffuso nell’Europa meridionale. (Non so che cosa facciano benedire i cristiani in Germania o Svezia).

Pensando a questo rito mi risuonava nella mente lo stridio delle motoseghe che stanno tagliando gli ulivi del Salento, attaccati da un mortale parassita, e mi sono ricordato quando, settant’anni fa, sono venuto per la prima volta in Puglia. Proprio nel Salento mi hanno fatto vedere i tronchi contorti e bellissimi dei secolari ulivi, raccontandomi la leggenda che fossero così per la sofferenza del nume tutelare, il genius loci, che ogni ulivo portava dentro di sé. Chi sa che cosa pensa la divinità pagana ora cacciata via del tronco del suo ulivo, ridotto ad un fittone che emerge sconsolato dal suolo nel terreno dopo aver visto imbrunire a morte le foglie dal loro verde originale.

Sono state e vengono scritte innumerevoli pagine sulla epidemia che ha colpito gli ulivi del Salento e che minaccia di estendersi; chi è questo batterio Xylella, da dove viene, come è possibile fermarne la propagazione, come risarcire gli agricoltori, che cosa fare nelle terre abbandonate. Soprattutto è ora di interrogarsi su questa nuova manifestazione della fragilità dell’agricoltura: di quella pugliese, oggi, ma più in generale italiana, e, in tante diverse forme, dell’agricoltura mondiale.

Siamo alla vigilia della famosa esposizione universale EXPO 2015 di Milano che prometteva costruttive indicazioni su come nutrire il pianeta, anche se sembra si stia trasformando in una sfilata di ristoranti. Si sprecano parole come sostenibilità e biodiversità mentre nei paesi industrializzati, per motivi “economici” gli addetti in agricoltura sono ridotti a meno del dieci percento dei lavoratori e la stessa tendenza sta diffondendosi nei paesi emergenti.

Il rapporto fra l’uomo e la terra è sradicato dall’avanzata delle grandi monocolture di piante commerciali, dei pozzi petroliferi e delle miniere, delle fabbriche, dall’avanzata del cemento dei quartieri e delle rotaie delle ferrovie sempre più veloci, del catrame delle strade e autostrade e delle discariche di rifiuti. Questa transizione è spacciata per modernità, ma in pratica è governata dal potere finanziario sempre pronto ad abbandonare alla rovina le imprese, anche agroindustriali, di cui si è rapidamente appropriato al solo fine di arricchirsi. L’agricoltura speculativa altera, spesso irreversibilmente, gli equilibri ecologici, quelli che possono, solo loro, in maniera durevole, sfamare il mondo, con una agricoltura che ha bisogno di tempi lunghi e di paziente cura e amore.

Il passato, il presente e il futuro dell’agricoltura saranno esaminati in un convegno su “Le tre agricolture” che si terrà a Brescia, per iniziativa della locale Fondazione Luigi Micheletti, il 22 e 23 aprile, alla vigilia dell’apertura dell’esposizione di Milano. La prima agricoltura per diecimila anni ha assicurato il cibo nel rispetto degli equilibri fra piante, animali, suolo e acque, con il lento e faticoso lavoro umano, con ansie davanti ai pericoli di tempeste, grandine, alluvioni, siccità, con gioie nel momento del raccolto. Con la rivoluzione industriale i migliori salari per gli operai hanno attratto nelle città crescenti folle di agricoltori che hanno abbandonato le campagne. Si è avuta una rapida crescita della popolazione mondiale e per sfamarla è stato necessario lo “sfruttamento” intensivo delle terre, l’apporto di concimi artificiali e di pesticidi che hanno fatto aumentare la produzione agricola, ma a spese di un crescente inquinamento delle acque, della avanzata della siccità, dell’abbandono di colture tradizionali.

L’industria agroalimentare per soddisfare la domanda delle popolazioni urbane ha incrementato i commerci internazionali che hanno offerto maggiore varietà di cibo nelle tavole e incentivato in terre lontane coltivazioni estranee alla loro vocazione, con conseguenti erosione del suolo e cambiamenti climatici. Non sta risolvendo i problemi la seconda agricoltura, quella “biologica”, divenuta in molti casi una moda e ben presto esposta anch’essa a furbizie e frodi. Forse esiste una terza agricoltura, in gran parte da inventare, che riporti i lavoratori alla terra, non come passeggera passione, ma come necessità per “nutrire il pianeta” nel rispetto degli equilibri ecologici e dell’uso razionale delle acque, compatibile col clima e con le caratteristiche del suolo, con le leggi della natura. Perché, in fin dei conti, come scriveva il biologo Barry Commoner, «Nature knows best», la natura sa le cose meglio di noi.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno
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