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sui mutamenti climatici, responsabili di alluvioni, frane, allagamento delle città, avanzate dei deserti e fusione dei ghiacci. Finita la sfilata iniziale dei potenti della Terra, resta il lavoro di funzionari dei vari governi che cercano di inventare un qualche sistema per attenuare i danni del riscaldamento del pianeta diminuendo le emissioni nell’atmosfera dei “gas serra” che si formano nella combustione dei combustibili fossili: carbone, petrolio, metano. E’ questione di soldi: i paesi ricchi vorrebbero limitare i danni dei mutamenti climatici senza rinunciare alla crescita economica che è possibile soltanto con la produzione di sempre nuovi oggetti e macchine e abitazioni, cioè con crescenti consumi di energia e emissioni di “gas serra”; altri paesi, quelli poveri, chiedono che non vengano imposti limiti ai consumi di energia necessari per uscire dallo stato di miseria e sottosviluppo o che almeno siano previsti compensi per i loro sacrifici. In questo scontro di interessi, quelli della difesa dell’ambiente e quelli dei soldi, circola un movimento di “scienziati” e opinionisti che negano che il riscaldamento globale e i conseguenti mutamenti climatici siano dovuti alla produzione e al consumo, alle attività umane e merceologiche.
Alcuni negazionisti, che suppongo in buona fede, cercano degli errori scientifici nella descrizione delle cause dei mutamenti climatici elaborata dalla maggior parte dei loro colleghi; altri sono scrittori pagati dalle grandi forze economiche per ridicolizzare o negare proposte che potrebbero danneggiare i loro affari.
Tanto per cominciare i negazionisti sostengono che non c’è nessun cambiamento climatico significativo: estati calde e inverni freddi ci sono sempre stati anche in tempi recenti, nel secolo scorso o nell’Ottocento; per non andare poi a più lontani periodi in cui i ghiacciai avanzavano o diminuivano anche in Europa. Comunque, se effettivamente ci sono dei mutamenti, se è vero che c’è un lento, piccolo, continuo aumento della temperatura del pianeta e in particolare delle acque oceaniche, e che tale aumento provoca una parziale fusione dei ghiacci e fa aumentare il livello delle acque oceaniche e la frequenza delle tempeste tropicali e l’estensione delle zone aride e desertiche, tutto questo, secondo i negazionisti, non dipende dai gas emessi dalle automobili o dai camini delle centrali elettriche e delle industrie e solo la crescita economica e dei consumi può mettervi rimedio. Alcuni negazionisti, che pur ammettono l’esistenza di un riscaldamento planetario, lo attribuiscono ad innocui cambiamenti dell’attività solare; altri pensano che se aumenta la concentrazione nell’atmosfera dell’anidride carbonica, il principale dei “gas serra”, ne verrà un beneficio per l’agricoltura perché aumenteranno le rese dei raccolti.
Per diminuire le emissioni di “gas serra” i combustibili fossili possono essere sostituiti con altre fonti di energia, quelle rinnovabili e non inquinanti fornite dal Sole: elettricità ottenuta con pannelli fotovoltaici o con motori eolici, calore dalla combustione delle biomasse, cioè dei prodotti e sottoprodotti agricoli e forestali che ritornano sempre disponibili ogni anno con la fotosintesi. Alcuni zelanti negazionisti spiegano che non si può avere una società moderna con pannelli solari o con le forze del vento che forniscono elettricità soltanto in maniera intermittente e variabile a seconda delle stagioni, quindi ben diversa e più costosa di quella prodotta col carbone, col petrolio o col metano. Secondo i negazionisti, poi, chi propone di usare carburanti derivati dai prodotti agricoli vuole togliere il mais e il cibo dalla bocca degli abitanti dei paesi poveri, pur di fare un dispetto ai petrolieri.
L’amore per i poveri è un tema caro ai negazionisti; secondo loro, se si desse retta a chi, per rallentare un ipotetico riscaldamento globale, vuole diminuire il consumo di energia da combustibili fossili, si andrebbe incontro ad un mondo con meno macchine e servizi e calore e elettricità, ad un rallentamento della crescita economica che colpirebbe maggiormente le classi povere dei paesi industriali e gli abitanti dei paesi più poveri. Anzi alcuni negazionisti del riscaldamento globale fanno credere che nelle trattative per limitare le emissioni di gas dell’atmosfera ci sia un progetto delle classi abbienti per tenere arretrati e soggetti i poveri della Terra. In alternativa altri negazionisti sostengono che la proposta di rallentare i consumi e gli sprechi per limitare il riscaldamento globale è un progetto per realizzare una società mondiale comunista, di persone tutte uguali e parsimoniose. Ah, dimenticavo, ci sono poi quelli che si sono infilati nel dibattito sostenendo che il riscaldamento globale si può evitare conservando un alto livello di consumi se si usa l’energia nucleare che produce elettricità senza emettere gas serra, poco conta se, in compenso, produce scorie che restano radioattive e tossiche per secoli e millenni, da lasciare come condanna alle generazioni future.
Come modesto studioso dei processi di produzione e di consumo vorrei tranquillizzare i lettori che è possibile rallentare il peggioramento del clima conservando civiltà e benessere, con innovazioni tecniche e nuovo lavoro: una bella sfida per le giovani generazioni. A condizione però, questo sì, di una maggiore equità nella distribuzione dei beni materiali in modo da diminuire gli sprechi e migliorare le condizioni di chi oggi ha così poco. Una società meno ineguale è la premessa anche per sradicare la violenza.
L'articolo é stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno-
Settanta anni sono un periodo lunghissimo; chi ha oggi venti anni ha, della seconda guerra mondiale, finita nel 1945, lo stesso ricordo che io ... (continua a leggere)
Settanta anni sono un periodo lunghissimo; chi ha oggi venti anni ha, della seconda guerra mondiale, finita nel 1945, lo stesso ricordo che io potevo avere, quando avevo venti anni, delle guerre di Indipendenza, cioè niente. Con la differenza che le guerre di indipendenza dell’Italia avevano lasciato conseguenze soltanto politiche, amministrative e sociali, mentre la seconda guerra mondiale coinvolge, a loro insaputa, i ventenni di oggi e quelli che verranno, per molte generazioni, con l’eredità politica e ecologica della bomba atomica. Per conservare questo ricordo proprio nel dicembre di settanta anni fa, pochi mesi dopo il bombardamento americano delle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, un gruppo di scienziati, colpiti dalla grande tragedia generata dalla “bomba” che loro stessi avevano contribuito a fabbricare, decisero di fondare un “bollettino” di informazioni, il Bulletin of the Atomic Scientists. Il fine era di avvertire il pubblico di quello che avrebbero potuto aspettarsi, nel male e nel bene, dalla scoperta dell’enorme energia che si libera dalla fissione del nucleo atomico. Per settanta anni, ogni mese, il Bulletin parla dei problemi delle armi nucleari ma anche delle conseguenze delle scoperte scientifiche che influenzano la vita dei terrestri, 2,3 miliardi di persone nel 1945, 7,2 miliardi di persone oggi.
A partire dal 1947 l’avvertimento dei pericoli è espresso con la immagine di un orologio, che appare sulla copertina di ogni numero, con le lancette che indicano i minuti, prima della mezzanotte dell’umanità, il giorno-della-fine-del-mondo, che restano se non si prendono provvedimenti. In mancanza dei quali l’umanità davvero rischia l’annientamento per la radioattività liberata dalla possibile esplosione di bombe atomiche, o per guerre, o per fame, o per catastrofi dovute agli sessi terrestri.
All’inizio la lancetta è stata messa a sette minuti a mezzanotte quando solo gli Stati Uniti possedevano le bombe atomiche; si avvicinò a tre minuti a mezzanotte nel 1949 quando anche l’Unione Sovietica dimostrò di possedere “la bomba”. La lancetta segnò due minuti a mezzanotte nel 1953, dopo l’esplosione della bomba H americana, e tornò indietro a dodici minuti a mezzanotte quando, nel 1963, Stati Uniti e Unione Sovietica decisero di far cessare le esplosioni nucleari sperimentali nell’atmosfera, limitandole alle esplosioni nel sottosuolo; negli anni successivi ci furono alterni rapporti fra le potenze nucleari “ufficiali” che erano diventate cinque: Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Unione sovietica e Cina, con l’aggiunta del misterioso arsenale nucleare di Israele. Nel 1991, dopo la distensione seguita al crollo dell’Unione Sovietica, l’orologio segnò diciassette minuti a mezzanotte, una boccata di speranza di pace, ben presto vanificata dall’entrata di India e Pakistan fra i paesi dotati di bombe nucleari.
Eppure un disarmo atomico sarebbe possibile; si è riusciti, pur dopo anni di dibattiti, a vietare le armi chimiche e quelle biologiche, perché non si dovrebbero vietare quelle nucleari? Il denaro risparmiato fermando le attività nucleari militari, centinaia di miliardi di dollari ogni anno nel mondo, permetterebbe di affrontare e risolvere almeno una parte dei problemi di miserie, di ingiustizie e di sottosviluppo, di fame e di mancanza di acqua e di suoli inariditi, che sono la vera radice della violenza internazionale.
Altre nuvole tempestose hanno infatti affollato il cielo rendendo possibili disastri, anch’essi planetari, dovuti al riscaldamento globale, e anche per questo l’orologio del Bulletin si è avvicinato, di recente, di nuovo a tre minuti dalla mezzanotte dell’umanità. Vedremo che cosa uscirà dal dibattito iniziato a Parigi per attenuare i peggioramenti del clima dovuti alla nuova “bomba atomica”: i gas inquinanti, figli dei nostri processi produttivi e dei nostri consumi e sprechi di energia, di minerali, di prodotti agricoli e di merci. Mi piacerebbe che di questi problemi si parlasse nelle scuole, nelle Università, nei partiti e, magari, nel Parlamento, al di là delle dichiarazioni di buona volontà. Miseria, migrazioni, disperazione, le madri del terrorismo, sono alle porte e non basta chiuderle. Bisogna aprire piuttosto, con coraggio, come raccomanda il Papa Francesco, le porte dei nostri cuori alla giustizia che è l’unica mamma della pace.
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L’annuncio che il Papa Francesco darà inizio al Giubileo, domenica prossima 29 novembre, alcuni giorni prima che a Roma ... (continua a leggere)
La Repubblica Centrafricana ottenne l’indipendenza nel 1960 e fu afflitta da lunghi periodi di instabilità dovuti a scontri fra etnie locali; nel 1965 prese il potere il colonnello Bokassa, bizzarro e megalomane dittatore che si proclamò “imperatore” nel 1972, sostenuto dalla Francia che aveva interesse a proteggere le imprese impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali del paese: nel 1979 Bokassa fu sostituito da vari presidenti in lotta fra loro fino al gennaio 2014 quando assunse la presidenza la signora Samba-Panza, in attesa di nuove elezioni.
La Repubblica Centrafricana è uno dei paesi dell’Africa che non ha accesso al mare e confina a nord col Chad, ad ovest col Cameroon, a sud col Congo e con la Repubblica Democratica del Congo e a est con Sud Sudan e Sudan. La Repubblica Centrafricana è una specie di grande altopiano con foreste e savane, ricche di biodiversità, e si trova nello spartiacque dei bacini idrografici di due grandi fiumi, l’Ubangi che fa da confine fra la Repubblica Centrafricana e la Repubblica Democratica del Congo, e il Chari. Su alcuni degli affluenti sono state costruite delle dighe e delle centrali idroelettriche.
La Repubblica Centrafricana è coinvolta in un importante problema ecologico. Al nord del paese si trova il Lago Chad, che “appartiene” agli stati del Niger, della Nigeria, del Chad e del Cameroon; il lago Chad è stato uno dei più grandi laghi di acqua dolce, portata da numerosi fiumi fra cui il Chari, che compensano la continua evaporazione di acqua dovuta all’intensa radiazione solare; nel 1960 il lago, poco profondo, aveva la superficie di 25.000 chilometri quadrati (cento volte superiore a quella del Lago Maggiore in Italia) e le sue acque irrigavano i campi dei popoli vicini e consentivano attività di pesca. Per aumentare le rese agricole i prelevamenti di acqua per irrigazione si sono fatti sempre più intensi e questo, insieme all’evaporazione aumentata a causa dei mutamenti climatici, ha fatto diminuire la superficie del lago, oggi ridotta a 2.500 chilometri quadrati, il che compromette la sopravvivenza di milioni di persone, oltre ad alterare l’intero ecosistema della zona a sud del Sahara.
I paesi che condividono la superficie del lago e la Repubblica Centrafricana hanno costituito una Commissione per il Lago Chad che da anni studia come è possibile evitarne la scomparsa e restituirgli almeno una parte delle acque perdute. Una delle proposte prevede di trasferire una parte delle abbondanti acque dei fiumi che attraversano la Repubblica Centrafricana e che adesso vanno verso sud, nel fiume Ubangi e poi nel fiume Congo e infine nel mare, dirottandola attraverso una sistema di condotte e canali verso nord, nel bacino del fiume Chari e quindi nel Lago Chad. La soluzione sarebbe facilitata dal fatto che i fiumi del bacino del Congo scorrono ad una altezza di un centinaio di metri superiore a quella del lago e quindi una parte delle acque scorrerebbe verso il lago Chad in discesa, per gravità, in un flusso continuo. Da questo flusso di acque in discesa sarebbe anche possibile recuperare energia idroelettrica da utilizzare in parte per i servizi dei nuovi canali e in parte per dare vita a attività minerarie e industriali.
Il progetto di questa gigantesca opera di ingegneria idraulica per ora è fermo non tanto per i costi o per le difficoltà tecniche, quanto per i possibili rischi ambientali. Gli indubbi vantaggi economici, per l’agricoltura, l’allevamento e la pesca, e quelli ecologici del ritorno delle acque nel lago Chad, potrebbero essere annullati da modificazioni negativi dell’intero ecosistema con danni per l’agricoltura del Centrafrica. Sulla natura non si può intervenire con leggerezza e senza precauzioni.
C’è da sperare che il messaggio di solidarietà, di pace e di misericordia portato dal Giubileo che si aprirà in questo poverissimo paese lo aiuti a liberarsi delle divisioni, dai conflitti e dallo sfruttamento delle sue risorse e possa mettere le sue grandi ricchezze naturali al servizio dello sviluppo umano degli abitanti.
Un paio di settimane fa il Tar dell'Emilia Romagna ha dichiarato l'illegittimità del progetto - voluto innanzi tutto dalla locale Fondazione Cassa di Risparmio - di 'riqualificazione' del Sant'Agostino...(continua a leggere)
Un paio di settimane fa il Tar dell'Emilia Romagna ha dichiarato l'illegittimità del progetto - voluto innanzi tutto dalla locale Fondazione Cassa di Risparmio - di 'riqualificazione' del Sant'Agostino - l'ex ospedale modenese - attraverso la creazione di un "polo librario". Topograficamente, il complesso si trova di fronte al Palazzo dei Musei, il settecentesco "Grande Albergo delle Arti", la sede che dal 1889 accoglie la Galleria e la Biblioteca Estensi, entrambe istituzioni di primaria importanza per il patrimonio conservato.
Ma non solo: in quest'unico contenitore, grazie alla lungimiranza dei passati amministratori furono ospitati anche il Museo Civico, la Biblioteca Poletti, specializzata in storia dell'arte, l'archivio comunale, una gipsoteca, il lapidario e, fino a pochi anni fa, anche il museo del Risorgimento (ora sloggiato e imballato). Nel tempo, questo lucido disegno civico si è via via fatto più confuso, tanto che ampi spazi dello stesso enorme edificio sono stati destinati a funzioni del tutto diverse, fra cui soprattutto quelle ospedaliere, mentre, sul lato settentrionale della piazza, l'Ospedale Sant'Agostino, creato nel XVIII secolo dal Duca Francesco III, diveniva sempre più inadatto per le moderne esigenze di assistenza e cura.
A partire dalla metà degli anni ‘90 si costruì quindi il nuovo Ospedale Estense-Sant’Agostino, a Baggiovara. Operazione rivelatasi assai gravosa per le casse comunali e dell’Ausl al punto da costringere il Comune alla vendita del Palazzo del Sant'Agostino, ormai svuotato dalle funzioni di nosocomio. Comune e Azienda sanitaria, in sostanziale coincidenza di interessi politici e finanziari, invitarono caldamente la locale Fondazione bancaria ad acquisire il centralissimo complesso del Sant’Agostino di enorme valore sul piano architettonico e urbanistico.
Un buon affare, ma evidentemente non sufficiente per le strategie di visibilità della Fondazione da subito interessata al potenziale di immagine della dirimpettaia Biblioteca Estense con i suoi 500.000 volumi, fra i quali soprattutto 16.000 cinquecentine, incunaboli e codici miniati fra cui la famosissima Bibbia di Borso. Così, dal 2007, anno dell'acquisizione, è stato avviato un progetto di "riqualificazione" il cui obiettivo sarebbe stato il trasferimento dell'intero patrimonio librario dell'estense e della biblioteca Poletti nel Palazzo Sant'Agostino per la creazione di un nuovo "polo librario". Non di ‘semplice’ trasloco si sarebbe trattato, bensì di una radicale trasformazione del carattere e delle funzioni delle biblioteche pubbliche, suddivise fra una sezione no-profit per la pubblica lettura e un polo "espositivo" dove poter ammirare - a pagamento - codici miniati ed "eccellenze" librarie e dotato, ça va sans dire, di adeguati servizi commerciali a supporto.
Naturalmente adattare un ex ospedale a biblioteca non è impresa semplice e all'uopo è stata chiamata l'immancabile archistar, figura totem che ha ormai assunto, in Italia, un carattere taumaturgico rispetto a qualsivoglia problema urbanistico. Lo studio di Gae Aulenti, su commissione della Fondazione, ha quindi elaborato un progetto che prevedeva la costruzione di due torri librarie di oltre 23 metri di altezza inserite nell'edificio settecentesco, il riempimento dei cortili con altri fabbricati, demolizioni e altre vistose manomissioni. In sintesi, lo stravolgimento di un edificio tutelato ope legis, sul quale sarebbero consentiti quindi solo interventi di restauro conservativo e filologico.
Che tale progetto fosse poi in contrasto con il piano regolatore vigente, è stata ritenuta quisquilia superabile con stratagemmi al limite della liceità (tavole del piano strutturale comunale con indebite varianti, misteriosamente apparse nel frattempo). Oltre ai problemi urbanistici - e legali - e a quelli di tutela architettonica, sono state superate con la stessa souplesse tutte le obiezioni relative alla tutela del patrimonio librario: le torri librarie sono ormai ovunque ritenute strumento pericoloso per l'integrità dei volumi; l'inadeguatezza degli spazi del Sant'Agostino avrebbe costretto a modifiche disastrose degli arredi storici, il semplice trasloco, con la distruzione del microclima, avrebbe messo a serio rischio il patrimonio librario nel suo insieme.
Di fronte alle ripetute denunce della gravità di un simile progetto, non solo per la salvaguardia di beni culturali preziosissimi, ma per lo stravolgimento radicale del concetto di fruizione che comportava, denunce condotte quasi in solitudine dalla sezione Italia Nostra di Modena, gli organi del Ministero, ad ogni livello dirigenziale, hanno trascurato qualsiasi criterio di verifica e di prudenza e, con una catena ripetuta di errori amministrativi, per tacer di quelli sostanziali sull'esercizio della tutela, hanno ripetutamente avallato le decisioni di Fondazione e Comune.
Il progetto è stato approvato da Comune, Mibact e Fondazione, il 13 novembre 2007, quando i rapporti di forza pubblico- privato furono plasticamente evidenziati al momento della firma dell'accordo di programma, siglato presso la sede della Fondazione, dove l'allora ministro Rutelli e l'allora Sindaco Pighi si recarono a rendere omaggio al dominus della partita, accettando persino - il Mibact - di pagare tutte le spese per il trasferimento del materiale librario da un edificio pubblico ad uno di proprietà privata. Cornuti e mazziati, ma si sa, la politica ha ragioni che la ragione (e la cultura) non conosce.
Nella sentenza dello scorso 6 novembre, il Tar non ha potuto che prendere atto dell'incredibile serie di irregolarità che viziavano il progetto, negando la validità del permesso di costruire e interrompendolo in radice.
In perfetto Zeitgeist, le reazioni di politici e amministratori (attuali, ex, post...), che si sono affannati a sminuire la portata della decisione, relegandola a cavillo burocratico utilizzato dai soliti conservatori, misoneisti a prescindere. La superficialità (eufemismo) con cui, anche in quest’occasione, i politici locali hanno interpretato il loro ruolo di amministratori della cosa e degli interessi pubblici ha trovato compiuta espressione nelle dichiarazioni – scritte – dell’Assessore all’urbanistica Anna Maria Vandelli che non necessitano di alcun commento: “le norme sono un pretesto, l’architettura [quella della Aulenti n.d.s.] ha regole altre da quelle che possono essere contenute in un piano…è la qualità del professionista che fa la differenza […] …credo che la maggior parte dei cittadini ritenga che la produzione e continua modifica delle norme siano fastidiosi impedimenti, occorrono meno regole e più autorevolezza demandata alla professionalità” (Su Facebook e “Prima Pagina”, 10 novembre 2015).
Immediate anche le reazioni indignate della stampa locale, contro il danno incommensurabile derivato allo "sviluppo" della città dalla perdita del segno dell'archistar, a sottolineare tristemente quale sia ormai l'unico fine cui sembra destinata la pianificazione urbanistica o ciò che ne rimane: il marketing territoriale.
Quest’ultimo, appare l'obiettivo esclusivo di amministratori, classe dirigente e media assortiti, incapaci di concepire anche una minimale strategia culturale. Ma ancor meno, basterebbe appellarsi all'evidenza del buon senso per comprendere come, senza alcun trasferimento, lo stesso Palazzo delle Arti, svuotato delle funzioni incongrue, potrebbe offrire tutti gli spazi necessari agli ampliamenti di cui archivi e biblioteche sempre necessitano compresi quelli utili a trasformare queste istituzioni che da troppo tempo galleggiano al limite della sopravvivenza, in veri centri di ricerca al servizio dei cittadini e degli studiosi.
La vicenda del Sant’Agostino ha un carattere esemplare rispetto alla situazione italiana per più di un aspetto. Ci parla innanzi tutto della confusione in cui si trovano i nostri amministratori, per i quali il patrimonio culturale è quasi solo un fardello oneroso e se non ha immediati riscontri sul piano turistico, diventa un problema di cui liberarsi o (s)vendendolo ai privati (come a Venezia, o Siena, o Torino) o privandolo dei mezzi di sussistenza (v. il caso del Castelvecchio di Verona).
Ci racconta del ruolo distorto che hanno assunto, ormai da molti anni, le Fondazioni bancarie, in particolare per quanto riguarda la gestione degli eventi e delle istituzioni culturali. Enti privati (anche se amministrano pur sempre un patrimonio della collettività…) che, soprattutto dallo scoppio della crisi economica, sono man mano diventati, in virtù delle disponibilità economiche, gli arbitri – talora assoluti - delle politiche culturali delle nostre città. Con risultati alterni, spesso discutibili, sempre “opachi” perché frutto di operazioni decise da non eletti e non vincolate alla trasparenza di un pubblico dibattito, anche se – come nel caso di Modena – interferiscono pesantemente sul patrimonio collettivo e se, come accade sempre più di frequente, i costi di gestione delle operazioni intraprese sono troppo spesso destinati, prima o poi, a riversarsi sulle casse pubbliche.
Il vuoto culturale indebitamente – dal punto di vista costituzionale – occupato dalle Fondazioni, non ha però solo una genesi economica. E’ l’inevitabile conseguenza della progressiva incapacità degli organismi pubblici – il Mibact prima degli altri – ad elaborare una seria politica culturale o anche solo ad esercitare i compiti di tutela loro assegnati, a difesa degli interessi dei cittadini italiani. Tutela che non significa “solo” vincolo passivo, ma, prima di tutto, la restituzione, in termini di accessibilità, comunicazione, fruizione, del patrimonio culturale alla collettività. Incapaci di riconoscere e quindi trasmettere le funzioni e il valore non meramente patrimoniale dei beni culturali, tali organismi – in particolare a livello dirigenziale – tradiscono quello che dovrebbe essere il loro ruolo di guida e coordinamento culturale finendo sempre più spesso preda delle sirene di un concetto di sviluppo provinciale e attardato e autorelegandosi alla funzione di “facilitatori” di politiche culturali assunte da altri.
Nel caso di Modena, il provincialismo del progetto dell’archistar risiedeva – ad esempio – in un concetto stravagante di uso del patrimonio librario, ottenuto con metodologie superate e pericolose (le torri librarie) e contrario ad ogni principio di sostenibilità gestionale. Principio ben presente, al contrario, nella controproposta, quella sì innovativa, che suggeriva di utilizzare le ingenti risorse (come abbiamo visto anche pubbliche) del progetto per un’operazione di digitalizzazione a largo raggio del patrimonio librario. In linea con quanto sta avvenendo in tutte le maggiori biblioteche e istituzioni pubbliche, dagli Stati Uniti all’Inghilterra, questo progetto avrebbe inserito Modena e i suoi tesori librari all’interno di un patrimonio universale, ottenendo al contempo un effetto di “marketing territoriale” di ben altro spessore culturale.
Ma la vicenda del Sant’Agostino ci racconta drammaticamente anche della mutazione etica della nostra classe politica che, dimentica delle più elementari regole istituzionali, arriva a definire esplicitamente le leggi come un fastidioso orpello. Siamo dunque arrivati alle estrema evoluzione dei “lacci e lacciuoli” di berlusconiana memoria, il cui esito naturale è la “semplificazione”, obiettivo guida di quest’ultima stagione governativa.
La gravità di tale fenomeno – di cui il Sant’Agostino è solo un esempio fra i tanti – non è solo per le conseguenze operative che è destinato a provocare (sul nostro paesaggio, sul patrimonio culturale, sui centri storici, sulla qualità urbana, dell’ambiente, dei servizi), ma costituisce un vulnus mortale allo stesso concetto di democrazia. Dal codice di Hammurabi in poi, uno dei cardini di questo concetto è rappresentato da un insieme di regole scritte, perfettibile all’infinito, ma uguale per tutti. Il rispetto del quale è l’unica garanzia contro la violenza e il sopruso del più forte sul più debole.
… e infine, per fortuna, il caso Sant’Agostino ci ribadisce che, anche se non sempre, esiste un giudice a Berlino.
, hanno più volte .. (continua a leggere)
, hanno più volte annunciato che tutto deve procedere celermente nelle fasi di valutazione e approvazione del progetto, affinché alla fine del 2017 l’aeroporto possa accogliere i capi di governo in un G7 che, tuttavia, sembra ora dirottato verso la Maddalena con disperazione della stampa locale; che si è ben guardata di appurare se la data fosse credibile; e, poiché è del tutto incredibile, a chiedersi le ragioni di una così plateale mistificazione.
Ma vediamo quali sono le operazioni da compiere in poco più di un anno e mezzo. Approvato il, progetto esecutivo, si tratta di espropriare tutti i terreni necessari. Poi si deve realizzare il nuovo Fosso Reale e trovare una destinazione a oltre 3 milioni di tonnellate di terra da bonificare; e poiché il Fosso Reale deve attraversare l’autostrada nel tratto Peretola-Firenze Nord, questa deve essere sopraelevata di circa 70 cm per qualche centinaio di metri, in contemporanea alla costruzione della terza corsia su entrambe le carreggiate; nel frattempo devono essere realizzate le aree di laminazione a compensare quelle eliminate e a mitigare le nuove impermeabilizzazioni; deve, inoltre, essere realizzato il nuovo collegamento tra Sesto Fiorentino e l’Osmannoro, rifatto il reticolo minore delle acque basse e alte con la viabilità di servizio. Infine, si potrà costruire la nuova pista, le infrastrutture di supporto, la viabilità di accesso, i parcheggi e, ovviamente le gallerie commerciali, il vero business dell’aeroporto.
Tutto finito e funzionante e collaudato in meno di due anni. Da ciò si deduce che chi annuncia la fine dei lavori in quei tempi o è matto o è uno sprovveduto che sottovaluta la complessità delle operazioni da compiere (e interferenze e opposizioni) o è in malafede. E se è in malafede, per quale ragione tutta questa fretta? Le ragioni sono fin troppo chiare: si vuole forzare la mano rispetto a leggi, regole e procedure affinché il progetto sia approvato prima possibile, ma, soprattutto, senza opposizioni e senza che i cittadini siano informati delle magagne, delle criticità, della pericolosità e della non convenienza (pubblica) del progetto. Perciò, un Master Plan spacciato per progetto definitivo, con così numerose omissioni e carenze ed errori da far concludere all’Università di Firenze, nelle sue osservazioni, che nella procedura VIA vi sono evidenti profili di illegittimità, tali da “giustificare un parere negativo dell’Autorità competente”. Perciò, niente Dibattito pubblico, nonostante che sia obbligatorio per legge e prescritto da una delibera del Consiglio regionale: poiché i proponenti non intendono collaborare mentre la Regione Toscana è inerte e sostanzialmente collusiva.
Il progetto deve essere approvato perché così si vuole dall’alto. Lo ha affermato Il Presidente dell’ENAC, Vito Riggio, parafrasando il marchese del Grillo: discutete e opponetevi pure, tanto decide il Ministero dell’Ambiente (cioè noi). E cosa deve decidere? Semplicemente che per ‘prassi consolidata’ la soluzione di tutte le criticità, delle carenze progettuali, delle magagne, verrà rimandata al progetto esecutivo, dove nessuno sarà in grado di controllare alcunché. E se il rischio di catastrofe aerea (come segnala l’Università) è stato sottovalutato, pazienza; e se il volo non sarà esclusivamente monodirezionale e molti aerei passeranno sulla città di Firenze, i fiorentini ci sia abitueranno; e se la ‘diga’ dell’aeroporto comporterà qualche esondazione, l’acqua in quei luoghi c’è sempre stata, inutile preoccuparsi. E in ogni caso, nessuno sarà responsabile.
Ora è importante portare il progetto su un piano inclinato in modo da non potere tornare indietro, con una prima tranche di denaro pubblico impegnato e speso; come già è stato ribadito per il sottoattraversmento di Firenze da parte dell’altavelocità. Poi si vedrà.
Alla fine dello scorso aprile, alla vigilia della solenne inaugurazione dell’EXPO 2015 di Milano, la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia ...(continua a leggere)
Alla fine dello scorso aprile, alla vigilia della solenne inaugurazione dell’EXPO 2015 di Milano, la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia ha riunito presso il suo Museo dell’Industria e del Lavoro (MusIL), un centinaio di studiosi invitandoli a chiedersi come si presentano, in Italia e nel mondo, le “agricolture”. “Agricolture” al plurale perché sono tante le forme in cui viene praticata la più importante attività umana, quella che assicura agli oltre settemila milioni di terrestri il cibo, ma anche molte altre materie prime essenziali. Lo storico Pier Paolo Poggio, direttore della Fondazione Micheletti, ha curato la pubblicazione del libro, appena apparso col titolo: Le tre agricolture: contadina, industriale, ecologica (Jaca Book, Milano), che raccoglie le relazioni presentate al convegno sopra ricordato. Non c’è dubbio che a “nutrire il pianeta” contribuiscono tante diverse forme di coltivazione del suolo: dalla cerealicoltura della Valle Padana, agli oliveti pugliesi, agli agrumeti della Sicilia, dalle monocolture a mais del Nord America o della canna da zucchero del Brasile o della palma dell’Indonesia, dalle innumerevoli comunità agricole dei villaggi contadini sparsi in Africa, Asia, America Latina, ai giovani che abbandonano le città per mettersi a produrre mele “biologiche”.
Chiamateli agricoltori o imprenditori o contadini, sono le centinaia di milioni di persone che zappano con poveri strumenti, o si spostano con moderni trattori, o lavorano nelle fabbriche in cui i prodotti agricoli e zootecnici sono conservati e trasformati, sono loro che permettono a (quasi) tutti noi di trovare ogni giorno sulla tavola il pane fresco e la carne e la frutta. In molti paesi esiste ancora una agricoltura contadina che coltiva la terra in armonia con i cicli naturali ma che può soddisfare soltanto il fabbisogno alimentare delle piccole comunità locali, sempre più sostituita dalla agricoltura industriale, così come l’artigianato è stato soppiantato dalla grande manifattura di prodotti di serie e il piccolo negozio è soppiantato dai supermercati.
Il successo dell’agricoltura industriale, con alte rese per ettaro, è assicurato dall’uso intenso di macchine, di energia, di concimi artificiali, di sementi geneticamente modificate, di pesticidi, ed è presentato come l’unico mezzo “moderno” con cui è possibile sfamare la crescente popolazione mondiale, sempre più urbanizzata e lontana dai campi e dai pascoli. Questo successo economico e finanziario oscura le trappole in cui la transizione ha fatto cadere l’umanità. Le monocolture e l’impiego di pesticidi alterano la biodiversità che è condizione essenziale per la stabile successione delle coltivazioni; il crescente impiego di concimi artificiali provoca l’immissione nell’atmosfera di ossidi di azoto, uno dei “gas serra”; la zootecnica contribuisce all’immissione nell’atmosfera di metano, altro “gas serra”, per cui l’agricoltura industriale contribuisce in maniera crescente al riscaldamento globale e alle conseguenti modificazioni climatiche che sempre più spesso distruggono i fertili campi.
Nell’introduzione al volume prima ricordato Pier Paolo Poggio ricorda che la salvezza, umana e ambientale del pianeta, è realizzabile con una agricoltura ecologica che veda “i contadini” appropriarsi del meglio della tecnologia attraverso il suo utilizzo selettivo e intelligente, producendo cibo con una “economia circolare”, per usare un termine oggi di moda, come hanno fatto sempre nel corso della storia.
Alla fine dei lavori del convegno di Brescia i partecipanti hanno redatto un “manifesto” in cui auspicano l’avvento di una economia agricola rinnovata, ecologica, appunto, capace di assicurare un reddito dignitoso, un lavoro soddisfacente, la sperimentazione di nuove forme di convivenza sociale e un rapporto consapevole con l’ambiente di vita e naturale. Una trasformazione legata ai prodotti e ai produttori di ciascun territorio, al servizio degli abitanti delle campagne e delle città, volta a limitare gli sprechi materiali ed energetici.
Una agricoltura ecologica può e deve raccogliere e superare l’eredità sia dell’agricoltura contadina sia di quella industriale, una transizione in cui è fondamentale il ruolo delle giovani generazioni e delle donne. La sua affermazione, passando da situazioni di nicchia a fenomeno socialmente rilevante, le consentirà di svolgere un ruolo prezioso di rigenerazione sul piano culturale, ambientale ed economico, rimettendo al centro dell’operare umano il valore del saper fare e della manualità, il valore del lavoro e del suo senso, il valore delle cose e delle relazioni, il valore dei tempi dell’attesa.
Abbastanza curiosamente simili concetti sono stati espressi da Papa Francesco parlando ai “Movimenti popolari”, per lo più piccoli contadini sparsi in tutto il mondo, riuniti sotto una bandiera che chiede “Terra, casa, lavoro”. “La passione per il seminare, ha detto il Papa, per l’irrigare con calma ciò che gli altri vedranno fiorire sostituisce l’ansia di occupare gli spazi di potere e di vedere risultati immediati”. Forse sarà questa la vera “modernità” per nutrire il pianeta.
Il 17 e 18 settembre scorsi la scuola di eddyburg si è strasferita a Lione per due giorni di fitti incontri con amministratori e tecnici del Grand Lyon e dell’Agence d’Urbanisme de l’Agglomération Lyonnaise. Queste mia note sono dedicate a mettere in evidenza, sia pure per cenni sintetici, lo iato incolmabile fra le innovazioni in atto nel governo e nella pianificazione dell’area metropolitana lionese e i modestissimi risultati finora conseguiti nel percorso di istituzione e attribuzione di competenze alle nostre Città Metropolitane (CM), in particolare a quella milanese.
Dal gennaio 2015 a Lione è attivo un ente di governo metropolitano a ‘statuto particolare’, grazie alla entrata in vigore nel 2015 della “Loi de modernisation de l’action publique territoriale et d’affirmation des métropoles” (MAPAM) la quale, a differenza della coeva ma dannosa legge Delrio[1], ha istituito città metropolitane con competenze molto estese, pur riconoscendo e legittimando percorsi istituzionali differenziati sulla base delle caratteristiche delle singole agglomerazioni metropolitane e dello stato di avanzamento dei processi locali di governance di area vasta. La Communauté Urbaine de Lyon, che partiva avvantaggiata grazie alla sua lunga e positiva tradizione di concertazione intercomunale, è stata considerata ‘matura’ per un passaggio immediato allo statuto di “collectivité territoriale unique”[2].
La legge istituisce due altre collettività territoriali a statuto particolare: la Métropole du Gran Paris che entrerà in vigore nel 2016 raggruppando la capitale e i dipartimenti della petite couronne (Hauts-de-Seine, Seine-Saint-Denis et Val-de-Marne), con compiti di pianificazione territoriale e ambientale e di politica abitativa (mentre i trasporti continueranno ad essere in capo alla regione Ile-de-France); e la Métropole di Aix-Marseille Provence che a partire dal gennaio 2016 si sostituirà alle sei associazioni intercomunali esistenti sul territorio. La legge autorizza il passaggio volontario al governo metropolitano delle altre 10 Communautés Urbaines (Tolosa, Lille, Bordeaux, Nantes, Strasburgo, Rennes, Rouen, Grenoble, Montpellier e Brest). I tempi sono in questo caso flessibili ma, per sollecitarne l’istituzione, a legge approvata François Hollande ha immediatamente sottolineato che le dotazioni finanziarie erogate dallo Stato avrebbero potuto “variare in funzione dell’impegno delle amministrazione locali”. Risultato: tutte le potenziali Métropoles si sono rapidamente adeguate e hanno avviato il percorso istituzionale previsto dalla legge.
Da sottolineare poi che tutte le Métropoles sono istituzioni locali a fiscalità propria: una riforma federalista con la quale la nostra legge sulle CM non ha alcun elemento in comune.
La istituzione dei governi metropolitani non è che un passaggio (anche se certamente importante) di una più ampia riforma delle amministrazioni locali che ha già ridimensionato il numero delle Regioni[3] e che, sempre nel 2015, ha ridisegnato la struttura amministrativa del paese attraverso la Legge n. 991 del 7 agosto 2015 “portant nouvelle organisation territoriale de la République” (NOTRe): una legge che razionalizza e semplifica un sistema plurilivello, troppo articolato e frammentato, reso inefficiente dalle molteplici sovrapposizioni di competenze e divoratore di risorse pubbliche, che i francesi definiscono icasticamente "millefeuille territorial”.
Le competenze attribuite al neonato governo metropolitano lionese sono amplissime, e gli sono state obbligatoriamente trasferite (così come per tutte le istituende Métropoles) sia dal basso che dall’alto. Si aggiungono infatti a quelle già esercitate dalla Communauté urbaine de Lyon, ulteriori competenze precedentemente in capo ai comuni. Ma, soprattutto, a Lione si anticipa la riforma complessiva prevista dalla legge NOTRe: sul suo territorio essa esercita oggi anche le competenze spettanti al Département du Rhône, fra le quali quella fondamentale dei servizi alla persona. In questo modo, il governo metropolitano ha aumentato il numero di dipendenti (7.500) e portato il suo budget a 3,5 miliardi di euro. Insomma, Lione ha fatto di nuovo da apripista alle altre agglomerazioni urbane, e ha oggi a disposizione poteri e strumenti rilevanti per perseguire i suoi obiettivi ambiziosi e, come vedremo, non solo retorici: migliorare il ‘posizionamento competitivo’ di Lione; rendere più efficace e comprensibile l’azione pubblica; rispondere ai bisogni dei cittadini.
Quali sono oggi le competenze esclusive di Lyon Métropole? Ne faccio solo l’elenco. A quelle precedentemente in capo alla Communauté Urbaine (pianificazione territoriale, ambiente, politica abitativa, sviluppo sostenibile ed energia, trasporti e mobilità, sviluppo economico, relazioni internazionali, gestione dei rifiuti, gestione delle risorse idriche, strade, turismo e agricoltura), si aggiungono quelle precedentemente in capo al Département du Rhône (inserimento lavorativo, anziani, portatori di handicap, famiglia, istruzione superiore, infanzia, cultura, sport e turismo) e, infine, quelle previste dalla legge MAPAM (creazione e gestione dei servizi per la cultura - musei, teatri, biblioteche,…-, costruzione e gestione delle reti di climatizzazione e delle reti a banda larga ad alta velocità, prevenzione dalle inondazioni, prevenzione della delinquenza e accesso ai diritti, partecipazione alla governance delle stazioni ferroviarie, copilotaggio dei pôles de competitivité, gestione del parco alloggi, costruzione e gestione dei servizi per i veicoli elettrici, servizi antincendio, igiene e salute).
Voglio soffermarmi più in dettaglio sulle competenze di pianificazione territoriale e urbanistica, anche per evidenziarne la distanza siderale dai modesti obiettivi della legge Delrio e dalle iniziative sinora avviate nel contesto lombardo/milanese.
Oltre che del piano di area vasta (SCOT) già di sua competenza, il governo metropolitano diventa l’unico responsabile dei piani di destinazione d’uso dei suoli. Spetta infatti all’Agence d’Urbanisme de la Métropole la elaborazione del PLU (Plan Local d’Urbanisme) dell’intero territorio metropolitano - ovviamente in concertazione con i singoli Comuni-. Un PLU che oggi a Lione si sta trasformando (è in revisione) in PLU-H (Plan Local d’Urbanisme-Habitat), poiché anche tutta la politica abitativa è in capo al Grand Lyon e soggetta alla sua approvazione.
Nel PLU del Grand Lyon sono state introdotte delle modifiche sostanziali ad alcuni articoli delle norme tecniche di attuazione per consentire la messa in opera, sul territorio metropolitano, del dispositivo contenuto all’art.55 della legge urbanistica (SRU) del 2000 dedicato a ridurre l’emergenza e la segregazione abitativa dei soggetti più deboli[4]. In ogni progetto locale destinato nel piano a edilizia residenziale devono essere previsti i “secteurs de mixité sociale”; sono cioè prescritte quote non negoziabili di edilizia economico-popolare. In particolare, devono essere obbligatoriamente realizzate quote di alloggi in affitto articolate in PLAI (Prêt Locatif Aidé d’Intégration: riservato alle persone in situazione di grave precarietà), in PLUS (Prêt Locatif à Usage Social: l’HLM tradizionale) e in PLI (Prêt Locatif Intermédiaire): destinati a famiglie i cui redditi sono più elevati di quelli ordinari dell’HLM ma insufficienti per accedere al mercato privato. L’obiettivo per la metropoli è oggi di raggiungere una quota percentuale del 25% del patrimonio abitativo. E’ l’amministrazione metropolitana che definisce le modalità di intervento sia per gli aménageurs pubblici che per gli operatori privati. Ciò vale in particolare per i grandi progetti di rigenerazione urbana o di riuso di aree dismesse: ricorrendo a seconda dei casi al meccanismo delle ZAC (Zones d'Aménagement Concerté), alla formula del Projet Urbain Partenarial o al Permis d'Aménager attribuito al developer o di iniziativa pubblica.
Per contrastare la doppia velocità urbana, si utilizzano i Contrats urbains de cohésion sociale (CUCS) attraverso i quali i finanziamenti dello Stato vengono concentrati su 63 quartieri difficili appartenenti a 25 Comuni della Métropole. Si tratta di contratti che attivano misure per favorire l’accesso alla istruzione e all’impiego dei gruppi sociali emarginati, promuovere l’accesso ai diritti e alla socialità. I CUCS sono spesso di accompagnamento a progetti di rigenerazione fisica dei quartieri. La Métropole ha infatti un ambizioso programma di “renouvellement urbain” (ricostruzione della città su sé stessa): una prima tranche di finanziamenti su 12 siti ha investito 1,8 miliardi di euro per demolizione, ricostruzione, creazione di servizi e spazi pubblici.
Nei grandi progetti recenti di rigenerazione urbana si stanno realizzando densità molto elevate. Ma si tratta di mera densificazione o di intensificazione? La recente legge ALUR (n. 366 del 24 marzo 2014 “pour l'accès au logement et un urbanisme rénové”), oltre ad affrontare il problema del disagio abitativo e della crisi degli alloggi con l’intento di “favorire l’accesso di tutti a un alloggio accessibile” attraverso una serie di misure molto dettagliate sia cogenti che incentivanti, introduce anche norme per valorizzare la qualità urbana e degli spazi pubblici e, simmetricamente, per la tutela ambientale e il controllo di consumo di suolo agricolo, come esplicitamente statuito dalle Grenelle 2 sull’ambiente[5]. Infatti, contrasta la dispersione urbana attraverso nuovi strumenti di politica fondiaria affidati alle collettività locali, e con il progressivo trasferimento a tutte le associazioni intercomunali (non soltanto le Métropoles quindi) delle competenze, oggi comunali, in materia di elaborazione dei piani urbanistici d’uso dei suolo.
Inoltre, proprio per ottemperare agli imperativi della Grenelle 2, si è costituito volontariamente un innovativo coordinamento partenariale fra tre Agenzie di Pianificazione territorialmente contigue della Regione Rhône Alpes: l’Agence d’urbanisme de la région grenobloise, l’Agence d’urbanisme de la région stéphanoise e, naturalmente, l’Agence d’urbanisme de l’agglomération lyonnaise): “un partenariato su misura, di lungo periodo, dedicato alla coerenza e qualità dei progetti di territorio” che pone al centro la moderazione del consumo di suolo e il contrasto all’urbanizzazione a bassa densità.
Fra i grandi obiettivi strategici del governo metropolitano lionese primeggia dunque la lotta al consumo di suolo e la tutela perenne delle aree agricole e di pregio ambientale. E’ in questo quadro (metropolitano, non comunale) che vanno valutate le densità elevate che si registrano in alcuni nuovi grandi progetti di rigenerazione urbana realizzati o in corso di completamento (il più grande è Lyon Confluence); e anche alla luce di questi nuovi territori a geometria variabile costituiti da reti volontarie finalizzate a combattere lo sprawl insediativo.
Insomma, una mera comparazione con le densità di alcuni progetti milanesi (peraltro spesso orribili, come City Life), completamente affidati a logiche speculative e comunali, rischia a mio avviso di banalizzare il problema. Lyon Confluence può suscitare perplessità: ma soprattutto per alcuni aspetti relativi alla qualità della progettazione architettonica (che ha suscitato perplessità anche in molti “eddyburghiani”…). Ma il criterio della mera comparazione delle densità rischia di oscurare altri aspetti in cui le differenze con i progetti milanesi sono evidentissime: ad esempio per quanto riguarda il mix funzionale realizzato, la elevata offerta di HLM (il 25% della nuova offerta abitativa), la formidabile accessibilità pubblica, la dotazione di servizi di rilevanza locale e sopralocale e, soprattutto, il simmetrico arresto dell’espansione insediativa in aree di cintura metropolitana a elevato valore ambientale e agricolo[6].
Ulteriori elementi differenziano in maniera sostanziale il modello di governo metropolitano all’opera a Lione da quello che si prospetta per le nostre CM. Nel Grand Lyon la fiscalità urbanistica è di competenza metropolitana (dal 2012 si tratta, per le agglomerazioni francesi, di due tasse: “taxe locale d’aménagement” - 1/8 delle entrate ottenute viene riversato ai comuni- e “versement pour sous-densité”). È l’amministrazione metropolitana che definisce gli oneri urbanistici a partire dalle destinazioni d’uso del PLU di area vasta. E ancora, è il Grand Lyon che, su richiesta di molti Comuni (soprattutto i più piccoli), istruisce le procedure relative alle concessioni edilizie. Ad oggi, sono 22 i Comuni che si affidano all’amministrazione metropolitana: in particolare all’ADS (pôle Autorisation du Droit des Sols) che istruisce i dossier, dà supporto tecnico e operativo, suggerisce ai sindaci le decisioni da prendere, lasciando loro la decisione finale e la firma dell’autorizzazione. E questo aspetto non soltanto garantisce probabilmente scelte tecniche più efficaci, ma certamente anche una migliore coerenza con il progetto cha sostanzia il piano urbanistico generale di scala metropolitana.
Non è qui possibile entrare nel merito del sistema di perequazione territoriale introdotto per le associazioni intercomunali francesi all’inizio di questo secolo grazie a una legge votata nel 1999. Si può solo sottolineare che, anche se sono state modificate nel corso del tempo le fonti di prelievo a sostegno della perequazione intercomunale[7], essa continua a trasferire alle Métropoles e a tutte le associazioni volontarie intercomunali mediamente il 40% delle entrate fiscali locali. I comuni ricevono dallo stato una compensazione proporzionale alla rilevanza e numerosità delle competenze trasferite all’ente intercomunale. Si tratta di un modello di grande successo che più volte abbiamo richiamato come buona pratica e del quale non troviamo traccia nella nostra legislazione nazionale (né in molte leggi regionali…tantomeno in quelle della Regione Lombardia). Ma è proprio questo modello di solidarietà fiscale in ambito metropolitano che ha arginato le propensioni autonomistiche e individualistiche delle amministrazioni comunali; che ha consentito di porre un argine alla loro propensione a fare cassa attraverso la “zecca immobiliare” a scapito della tutela del territorio non urbanizzato.
Anche le politiche e gli strumenti messi in campo per la concertazione con gli attori e il coinvolgimento dei cittadini sono potenti ed istituzionalizzati. Li cito soltanto, senza entrare nel merito, poiché scopi e aggiornamento delle attività sono reperibili in internet: il Conseil de développement, la Commission consultative des services publics locaux, la Commission Intercommunale d'Accessibilité e la interessantissima Charte de la Participation Citoyenne già in vigore dal 2003 e approfondita nel 2011 per i Contrat Urbain de Cohésion Sociale relativi ai progetti di riqualificazione urbana.
Quest’anno, per effetto dei tagli alla spesa pubblica effettuati a livello nazionale, dopo un periodo di stabilità Grand Lyon sarà costretto (come già da alcuni anni sta avvenendo nelle altre grandi agglomerazioni urbane francesi) ad aumentare le tasse sulla casa: aumenteranno infatti sia la Taxe Foncière (la tassa che si applica sulla proprietà degli immobili) che la Taxe d’Habitation che è dovuta dal soggetto che abita l’immobile a qualunque titolo. Naturalmente qualsiasi riferimento all’ipotesi di abolizione di IMU e TASI caldeggiata da Matteo Renzi è puramente casuale…
E Milano?
Alla luce di quanto sommariamente evidenziato sull’attività riformatrice del governo francese in materia di legislazione urbanistica e di riforma amministrativa, che dire del modesto esercizio riformatore della legge Delrio e, in particolare, delle vicende esitanti della CM milanese e del disinteresse manifesto dell’amministrazione del capoluogo? Che certamente i nostri ‘policy maker’ nazionali e i nostri amministratori locali poco conoscono, e comunque assai poco si interessano, delle buone pratiche in ambito metropolitano all’opera nelle città europee. Non sono certamente consapevoli che le buone pratiche di concertazione intercomunale hanno funzionato in Francia come un formidabile acceleratore di innovazione economica, sociale e ambientale sia a livello centrale che locale[8].
Ma Milano e la Lombardia sono più che disattente.
Il 29 settembre 2015 è stata approvata dal Consiglio Regionale, con l’inaccettabile astensione del centro-sinistra e con il solo voto contrario dei 5Stelle, la legge 92 che definisce le competenze attribuite alla Città Metropolitana[9]. Si tratta di una legge pessima. E anche se le aspettative erano modeste viste le propensioni mercatistiche di un governo regionale in mano alla Lega e ai suoi sodali, decimati da quotidiane vicende di corruzione, una volta di più si è persa una occasione di pensare al futuro dell’area metropolitana ‘più metropolitana’ d’Italia. Altro che “locomotiva d’Europa”! Uno slogan ormai vecchio di 30 anni che continua ad essere rispolverato da chi amministra la regione e la città, e che dovrebbe essere sostituito da immagini ben più consapevoli e problematiche, poiché Milano e il suo territorio rischiano, come ho argomentato recentemente e in maniera approfondita, un vero e proprio ‘decadimento urbano [10].
Con la legge 92, la Regione accentra tutte le funzioni precedentemente esercitate dalla Provincia di Milano, soprattutto quelle che dovrebbero costituire ambiti fondamentali per la sostenibilità economica, ambientale e sociale del territorio metropolitano: l’agricoltura, la cultura, l’ambiente e l’energia[11]. Inoltre, la Regione si è attribuita un ruolo di controllo (in realtà una vera e propria invasione di campo, una interferenza inaccettabile che impedirà eventuali e auspicabili innovazioni che potrebbero scaturire ‘dal basso’ sul territorio metropolitano): mi riferisco alla decisione di istituire una Conferenza Permanente tra Regione e Città Metropolitana che potrebbe trasformarsi in un meccanismo di controllo occhiuto e probabilmente paralizzante da parte del governo regionale. E ancora: il PTM (il Piano Territoriale Metropolitano: in pratica, il vecchio Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale senza alcuna nuova competenza se non quella relativa al retorico, letterario ed effimero “piano strategico” della durata di 3 anni e aggiornabile ogni anno!) è subordinato al Piano Territoriale Regionale. Insomma, per avviare la Città Metropolitana milanese si rafforza un modello gerarchico e ‘a cannocchiale’ da decenni vituperato a parole dai tanti sostenitori della governance multilivello i quali, però, in occasione della discussione e approvazione di questa legge miserabile, sono stati silenti o distratti[12].
Né la giunta milanese, né il neonato governo metropolitano, né l’opposizione in Regione hanno espresso sostanziali rilievi critici. Men che meno la stampa: neanche quella locale, impegnata a sottolineare quotidianamente, e ossessivamente, i successi di EXPO2015 e del suo Commissario Straordinario Giuseppe Sala (un ulteriore viatico per la sua elezione a sindaco di Milano?).
Meglio continuare a nascondere il vuoto di idee e di lungimiranza della ‘sinistra’ con dichiarazioni trionfalistiche e autoreferenziali…basti dire che, recentemente, partecipando a Milano alla presentazione della Carta dei Valori in vista delle primarie milanesi del 7 febbraio 2016, in una Casa della Cultura completamente deserta se si eccettuano giornalisti e reti televisive, il sindaco Pisapia, evocando il trionfo di EXPO, ha collocato Milano addirittura ai vertici della gerarchia mondiale delle città (sic!).
Tanti auguri alla Città Metropolitana Milanese: ma, visti da Lione, i primi passi sono davvero scoraggianti.
[1] Ho evidenziato le principali criticità della legge Delrio alla scuola di eddyburg del 2013: Gibelli M. C. (2013), Intercomunalità in ambito metropolitano”, eddyburg.it, 13 novembre.
[2] Di grand Lyon fanno parte 59 comuni e 1.281.971 “grand Lyonnais”.
[3] Legge n. 29 del 16 gennaio 2015 “relative à la délimitation des régions, aux élections régionales et départementales et modifiant le calendrier électoral”: le Regioni a partire dal primo gennaio 2016 passeranno da 22 a 13.
[4] La legge urbanistica (Legge 2000-1208 del 13 dicembre “relative à la solidarité et au renouvellement urbains”) all’art. 55 recita: “Si obbligano i comuni di più di 3.500 abitanti (1.500 in Ile-de-France) che facciano parte di una agglomerazione di più di 50.000 abitanti comprendente un comune di più di 1.500 abitanti, a realizzare un numero di alloggi sociali in affitto superiore al 20% del totale del patrimonio abitativo comunale. I comuni dove la quota è inferiore al 20% vengono sottoposti a un prelievo sulle loro risorse fiscali. Questo prelievo è utilizzato per sostenere la costruzione di alloggi”.
[5] Legge n. 788 del 12 luglio 2010 “portant engagement national pour l'environnement “.
[6] Baioni M. (2015)“Lyon Confluence: un quartiere nato due volte”, in eddyburg.it, 28 settembre.
[7] La CET(Contribution Économique Territoriale) dal 2010 ha sostituito la TPU (Taxe Professionnelle Unique); è costituita da quote delle entrate fiscali locali derivanti dalle attività produttive, dalle abitazioni in proprietà e dalle tasse sulle proprietà fondiarie, sia edificate che non edificate.
[8] Si vedano le mie riflessioni a proposito della vicenda milanese pubblicate sul numero monografico di Meridiana dedicato alla Città Metropolitana: Gibelli M. C. (2014), “Milano città metropolitana fra deregolazione e nuova progettualità”, Meridiana, n. 80.
[9] Disposizioni per la valorizzazione del ruolo istituzionale della Città metropolitana di Milano e modifiche alla legge regionale 8 luglio 2015, n. 19 (Riforma del sistema delle autonomie della Regione e disposizioni per il riconoscimento della specificità dei Territori montani in attuazione della legge 7 aprile 2014, n. 56 'Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di comuni'
[10] Gibelli M. C. (2015), “Urban crisis or urban decay? Italian cities facing the effects of a long wave towards privatization of urban policies and planning”, in Eckardt F., Sanchez J. V. (a cura di), City of crisis. The multiple contestation of Southern European Cities, Blelefeld, transcript Verlag.
[11] Proprio mentre all’EXPO2015 si continuano ad agitare questi temi come cruciali per il futuro delle grandi città e del pianeta.
[12]Altrove le cose, viste le premesse legislative della Delrio, non vanno molto meglio, ma quanto meno nella legislazione dell’Emilia Romagna e della Toscana è prevista la ‘possibilità’ di realizzare il piano strutturale metropolitano.
(continua a leggere)
Avete notato che si parla sempre meno del petrolio? Sarà perché ormai il suo prezzo da un po’ di tempo non fa più le bizze, abbastanza stabile intorno a circa 40-50 dollari al barile (circa 250 euro alla tonnellata), la metà dell’anno scorso. Sarà perché ormai in Italia se ne importa di meno, rispetto agli anni passati: circa 50 milioni di tonnellate nel 2014 rispetto ai 90 milioni di dieci anni fa (e addirittura se ne produce un poco nella stessa Italia), in parte sostituito dal gas naturale e dal carbone (si, proprio lui, zitto zitto, sempre intorno a noi, importato in ragione di circa una ventina di milioni di tonnellate all’anno).
Il prezzo del petrolio subisce continue oscillazioni a causa di guerre sotterranee fra potentissime imprese finanziarie e altrettanto potenti governi che dominano il commercio internazionale di quasi 4200 milioni di tonnellate all’anno dell’odiato e amato petrolio: i produttori Stati Uniti e Russia, Norvegia e Arabia Saudita, Iraq e Iran, e poi gli affamati consumatori di petrolio come l’insaziabile Cina. Il petrolio costa perché corre sugli oceani e negli oleodotti stesi nelle giungle e nei deserti, e perché le sue riserve più accessibili si esauriscono rapidamente ed occorre estrarlo da giacimenti sempre più lontani e ostili.
Eppure proprio il petrolio è indispensabile, sotto forma dei suoi derivati, benzina e gasolio, per tenere in moto i 50 milioni di auto e moto veicoli che affollano strade e città italiane. Ma il petrolio entra nella nostra vita anche sotto tante altre forme per cui si può parlare di un “costo in petrolio”, per tutte le merci e i servizi.
Il petrolio entra nella vita di ogni “signor Rossi” fin da quando si alza la mattina. Si è appena seduto per fare colazione e anche il latte che sua moglie ha comprato ieri è stato ottenuto da una mucca che si è nutrita di foraggi e cereali e mangimi che sono stati "fabbricati" dall'agricoltura usando trattori e concimi e che sono stati trasportati con navi e camion, e tutto ciò ha richiesto prodotti petroliferi.
Anche il caffè ha richiesto un poco di petrolio, quello che è stato necessario per muovere le navi che lo hanno portato dall'Africa o dal Sud America, e per far funzionare le macchine per la tostatura. E c’è del petrolio anche "dentro" la giacca e i pantaloni e le scarpe indossati dal Signor Rossi perché le fibre tessili sintetiche hanno richiesto petrolio; la coltivazione del cotone e l'allevamento delle pecore e la tessitura e la fabbricazione delle scarpe, sono stati tutti resi possibili da energia derivata dal petrolio.
Neanche in ufficio il signor Rossi potrà liberarsi dalla invisibile schiavitù del petrolio: il suo ufficio è dotato di tutte le apparecchiature elettroniche che consentono di abbandonare i polverosi archivi cartacei e di accedere alle informazioni alla velocità della luce. Purtroppo un vecchio proverbio dice che non si può avere niente gratis: infatti anche le sue macchine contengono materie plastiche, circuiti elettronici, oro e metalli rari e sali di litio e grafite che tutti hanno richiesto minerali e processi che hanno consumato petrolio. Per stare tranquillo il signor Rossi farà bene a stampare i risultati del suo lavoro su carta, la cui produzione ha richiesto petrolio quando sono stati segati gli alberi, trasportati poi dai lontani boschi del Nord fino alle cartiere, e quando la cellulosa è stata trasformata in carta e poi tagliata in fogli ben squadrati.
Qualche buona notizia: la signora Rossi dice al marito che la concessionaria ha finalmente avvertito che la nuova automobile è disponibile; lui non lo sa, ma anche una automobile, come anche una lavatrice, un frigorifero, un televisore, sono fatti di innumerevoli parti ciascuna delle quali ha richiesto petrolio, nell'estrazione dei minerali, nella fusione dei metalli, nella plastica, nelle vernici, eccetera.
Nel 1982 una piccola casa editrice di Milano pubblicò un libretto (ormai esaurito) dell'inglese Peter Chapman, intitolato Il paradiso dell'energia, che parlava del “costo in petrolio" di ogni oggetto della vita domestica: il pane, i tessuti, i mobili, gli elettrodomestici: in questo modo, quando il prezzo dell'energia fosse aumentato, ogni persona avrebbe potuto calcolare di quanto sarebbe aumentato il prezzo, in euro, di quello che stava per acquistare e avrebbe potuto regolarsi nel suo comportamento quotidiano, nei suoi consumi. E, nello stesso tempo, avrebbe potuto pretendere, quando i prezzi del petrolio fossero diminuiti, come adesso, una adeguata diminuzione del prezzo delle merci che acquista, soprattutto dei combustibili per autoveicoli il cui prezzo al consumo invece non segue affatto quello del petrolio.
Infine la conoscenza del “costo energetico” delle merci dovrebbe aiutarci a ricordare che il petrolio, insieme al gas naturale e al carbone, è responsabile dell’inquinamento dei mari, del suolo e soprattutto dell’atmosfera con quelle polveri e idrocarburi e gas che entrano nei nostri polmoni. Tutti e tre questi combustibili fossili aggiungono, in Italia, circa 400 milioni di tonnellate all’anno ai circa 30.000 milioni di tonnellate di “gas serra”, responsabili dei mutamenti climatici, che ogni anno finiscono nell’atmosfera dell’intero pianeta. Sappiamo quindi chi ringraziare se, alle prime violente piogge, provocate proprio da tali inquinamenti, tante case e strade e campi vanno sott’acqua.
L’attenzione per i problemi ambientali, quelli della scarsità di materie prime, degli inquinamenti, delle modificazioni climatiche e delle alluvioni, mobilita intellettuali, scrittori, giornalisti. Uno degli sport più diffusi fra questi formatori dell’opinione pubblica consiste nell’inventare nuove parole o attribuire nuovi significati a vecchie parole. Pensate alla parola “ecologia”: da austera scienza dei rapporti fra esseri viventi e ambiente circostante, viene usata come strumento di pubblicità per deodoranti, biciclette e mozzarelle; “bioeconomia”, un termine che indica la revisione dell’economia in modo che rispetti le leggi biologiche, è diventata il nome dei processi per produrre i sacchetti di plastica; l’aggettivo insostenibile, che in italiano indica una cosa difficilmente sopportabile, ha generato il nome “sostenibile” che sta ad indicare che si può continuare a produrre merci senza fine con un po’ di pannelli solari; adattamento e resilienza indicano la possibilità di far fronte alle alluvioni e alle frane costruendo muraglioni di cemento invece di pulire e regolare il corso dei fiumi, e così via.
Una recente invenzione è l’”economia dell’abbastanza”, titolo di fortunati libri, articoli e dibattiti. E’ oltre mezzo secolo che viene ripetuto che i disastri ambientali deriva dalla “eccessiva” produzione di merci e edifici e macchine e relativi rifiuti. Un celebre e dimenticato libro del 1973 avvertiva che “Piccolo è bello”, poi gli stessi concetti sono stati riscoperti dalla filosofia della decrescita e ora dall’”economia dell’abbastanza”.
Al di là dei discorsi, è bene ricordare che decrescita e “abbastanza” si riferiscono alla produzione e all’uso di cose materiali: patate e frigoriferi, elettricità e ferro, carta e edifici, plastica e carri armati: chi deve diminuire i suoi consumi e quanto è “abbastanza”? Di oggetti, di merci, di macchinari le persone hanno bisogno per vivere, per mangiare (occorre grano e olio), per abitare (ci vuole cemento per le case), per muoversi (ci vuole acciaio per automobili e biciclette e treni), per conoscere (occorre carta per i libri), per curarsi (occorrono letti di ospedale e siringhe per le iniezioni). I settemila milioni di abitanti delle Terra hanno tutti gli stessi bisogni fondamentali, cibo, salute, conoscenza, ma li soddisfano in maniera molto diversa; i “primi mille” milioni hanno abbondanza di “cose”, anzi di cose sempre più raffinate e costose e ci pensa la pubblicità delle imprese a proporre spazzolini da denti elettrici, motociclette “ruggenti”, mode e lusso spesso sguaiati. A questi ”mille” milioni si racconta che i consumi crescenti giovano all’economia e assicurano l’occupazione. Circa quattromila milioni di terrestri hanno consumi così-così, in parte simili a quelli dei “primi mille”, in parte molto minori e modesti e insufficienti.
Gli “ultimi duemila” milioni hanno una modesta o modestissima quantità di beni materiali, insomma sono più o meno “poveri” o “poverissimi”, e sono spinti, per imitazione delle condizioni di vita dei “primi mille”, decantate dalla televisione che ne porta le immagini in tutto il mondo, a possedere sempre più “cose”, a qualsiasi costo, anche emigrando, anche con la violenza. Questa “disuguaglianza” è stata denunciata da Papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’, ricordando che “un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare (ha proprio scritto così) alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere” (n. 95).
A questo punto sorge la domanda: che cosa è “abbastanza” e per chi; la risposta viene non da chiacchiere, ma da un serio lavoro culturale e scientifico di sociologi e ingegneri, filosofi e cultori di ecologia (di quella vera) e di merceologia (la disciplina che indica come produrre e caratterizzare le “cose” oggetto di produzione e di consumo): quali consumi e sprechi e inquinamenti sono molto al di là dei limiti dell’”abbastanza”, e con quali materie e processi è possibile assicurare “abbastanza” beni a chi ne è privo, fra gli “ultimi duemila” milioni di poveri e poverissimi, per soddisfare i bisogni reali e fondamentali.
Il bisogno di acqua e di cibo, tanto per cominciare: sta per chiudere i battenti l’EXPO di Milano che avrebbe dovuto suggerire come sfamare il pianeta e si è risolto in grandi dichiarazioni e fiere gastronomiche che incantano folle sazie e magari anche obese, ma non fanno fare un passo avanti per soddisfare i bisogni alimentari di chi non ha “abbastanza” cibo, anche perché le sue terre sono sfruttate per far ingrassare i “primi mille” milioni di terrestri. L’igiene personale è un bisogno fondamentale per fermare le epidemie che uccidono ogni anno quei milioni di persone, soprattutto bambini, che sguazzano nelle pozzanghere di rifiuti per mancanza di gabinetti, mentre tanti, fra i ”primi mille”, dispongono di gabinetti raffinati e vasche e idromassaggi ad alto consumo di acqua e di energia. Gli esempi possono continuare per altri bisogni essenziali: salute, acqua pulita, istruzione, abitazioni decenti, eccetera.
Per assicurare “abbastanza” beni essenziali ai poveri e poverissimi occorrono tecnologie appropriate, chimica, innovazioni, una “ingegneria della carità” da cui verrebbero anche numerose e durature occasioni di lavoro e di impresa. Non si tratta di fare delle opere buone; se non saranno attenuate le disuguaglianze, anche attraverso un contenimento degli sprechi dei “primi mille” milioni, gli “ultimi duemila” milioni chiederanno di eliminarle con la violenza. La lotta alla disuguaglianza è (sarebbe) interesse anche dei ricchi.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno
Gli abitanti di un palazzo milanese ottocentesco con la facciata di disegno classico – ricorrenze marcate, timpani sopra le finestre... (continua a leggere)
Gli abitanti di un palazzo milanese ottocentesco con la facciata di disegno classico – ricorrenze marcate, timpani sopra le finestre incorniciate, modanature della trabeazione o cornicione, linea di gronda netta indiscutibile conclusione dell’edificio contro il cielo, particolari di una rappresentazione unitaria severamente equilibrata – vedono ergersi là in alto un opaco volume come un camicione che nasconde un cantiere di lavori per sopralzare di un piano l’edificio. Non sanno, non sono informati di una nuova costruzione sulle loro teste. D’altronde sopralzi di ogni genere, e non di un solo piano, da quasi vent’anni stanno marchiando brutalmente la linea del cielo milanese.
L’edificio aggiunto del Santa Chiara non può di certo esser compreso nell’estratto. Non basta rivendicare una pretesa semplicità delle forme, siglata anche da timoroso soprintendente: che invece si riduce a un infecondo malthusianismo traditore consapevole dell’umanitarismo dell’antenato. Né sarebbe valsa una via di mezzo, l’azione in quel terreno intermedio fra i due poli. Ce lo dimostrano certi dolorosi risultati in edificazioni importanti, ormai digeriti, se così posso dire, dalla città. Per esempio il nuovo Danieli in Riva degli Schiavoni, l’hotel Bauer a San Moisè, la Cassa di risparmio in Campo Manin… Ma, allora (approssimativamente fino a cinquanta anni fa), la forza coesa dell’organizzazione storica dello spazio, essa stessa totalmente architettura, non aveva ancora perso per sempre la guerra contro i vandali. Il Moloch stava quatto nella tana sotto l’acqua in attesa delle occasioni per scatenarsi. Man mano arriveranno, ora sappiamo che non avranno mai fine.
Riferimenti
Si veda in eddyburg di Lodo Menegnetti Pirani non docet, L’architettonica commedia di fine estate, L’opinione contraria, AIZENEV. La città rovesciata, Nnpp.
Nel corso di diecimila anni gli esseri umani hanno ricavato beni utili da esseri viventi vegetali e animali con tecniche, spesso anche molto raffinate... (continua a leggere)
Nel corso di diecimila anni gli esseri umani hanno ricavato beni utili da esseri viventi vegetali e animali con tecniche, spesso anche molto raffinate, che chiamerei senz’altro biotecnologiche: hanno usato il legno come combustibile e materiale da costruzione; hanno imparato a far fermentare e a cuocere il pane; con la fermentazione degli zuccheri hanno prodotto bevande alcoliche; hanno imparato a conservare la carne col sale o col caldo o col freddo, a seconda dei climi, a estrarre coloranti e fibre tessili da molte piante e animali, e cuoio dalla pelle degli animali macellati. Anzi la chimica e la biologia sono nate come scienze proprio dai tentativi di comprendere e perfezionare tali processi naturali. Ancora oggi gli alimenti, usati dai sette miliardi di persone del mondo in ragione di circa dieci miliardi di tonnellate all’anno, vengono dalla trasformazione di esseri viventi, vegetali o animali.
Molte delle materie prime naturali richieste dalla crescente industria dei paesi emergenti, Europa e poi Stati Uniti, provenivano, però, dai campi di paesi coloniali lontani nei quali serpeggiavano aspirazioni di indipendenza: cotone dall’Africa, carne dall’Argentina, indaco dall’India, gomma dal Brasile e dall’Indocina. I chimici dei paesi industriali si misero perciò di buona lena a cercare di produrre dei surrogati partendo dai combustibili fossili esistenti sul posto: carbone in Europa, petrolio in America, e per circa un secolo, dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento, la parola magica è stata: “sintetico”. “Sintetico” rappresentava la rivoluzione, l’aspirazione a liberarsi dalla schiavitù dei prodotti naturali. Il prof. Giuseppe Testoni tenne la prolusione al corso di Merceologia nell’Università di Bari nel 1929 con una conferenza dal titolo Le merci sintetiche e lo stesso titolo scelsi per la prolusione al mio corso di Merceologia nella stessa Università nel 1959.
Con la scoperta dell’”ecologia”, dagli anni sessanta del Novecento, si è visto che i prodotti sintetici, in quanti estranei alla natura, non erano biodegradabili, anzi erano fonte di inquinamento delle acque, che l’uso dei combustibili fossili era fonte di inquinamento atmosferico e dei relativi mutamenti climatici. Il concetto di “sintetico” è stato parzialmente sostituito dalla nuova parola magica “bio”: tutto quello che è bio è nuovo e buono e ecologicamente virtuoso e lo sanno bene molti venditori che appiccicano il prefisso “bio” a tutto quello che capita. “Biotecnologia” è il nome dato ai processi che dovrebbero salvare il pianeta producendo merci alternative a quelle sintetiche e prive degli inconvenienti prima ricordati.
La svolta si è avuta probabilmente con i tentativi di sostituire i carburanti per autoveicoli di origine petrolifera con alcol etilico ottenuto da zucchero o amido, usando tecniche microbiologiche note da millenni. Tali tentativi, favoriti dagli agricoltori che potevano così smaltire eccedenze agricole e usufruire di sovvenzioni statali, hanno incontrato l’opposizione sia dell’industria petrolifera, che temeva di vedere ridotte le vendite di benzina e gasolio, sia dei movimenti ecologisti che hanno accusato i sostenitori dell’alcol carburante di bruciare nei motori delle auto, un prodotto ricavato da materie agricole che avrebbero potuto sfamare gli abitanti dei paesi poveri. Come alternative alle materie plastiche petrolifere. che restano indistruttibili, nei rifiuti e nei fiumi e nel mare, sono stati studiati processi per ottenere, da sottoprodotti agricoli, le “bioplastiche” che dovrebbero essere biodegradabili e decomponibili, più o meno presto, nel suolo.
Nello stesso tempo, dagli anni sessanta del secolo scorso si è scoperto che, attraverso la conoscenza della struttura genetica degli esseri viventi, era possibile modificare artificialmente il patrimonio genetico di piante utili per renderle resistenti agli agenti esterni, ai parassiti, alla siccità, ai pesticidi, e per aumentarne le rese nei campi. E’ nata la ingegneria genetica che permette, a molte imprese di “vendere” sementi brevettate, di piante geneticamente modificate (OGM), agli agricoltori che vogliono godere dei vantaggi della loro coltivazione. Questa “biotecnologia” ha stravolto l’agricoltura di molti paesi del mondo e ha fatto sollevare dubbi sulla innocuità degli alimenti derivati da piante OGM (come è quasi tutto il mais che l’Italia importa per l’alimentazione del bestiame) e degli animali che se ne nutrono. Sono però così nati anche nuovi problemi analitici e merceologici, come la necessità di disporre di tecniche che consentono di riconoscere se un alimento contiene, o è privo di, parti provenienti da organismi OGM.
Un dibattito che vede acidamente contrapposti studiosi che sostengono le virtù degli alimenti derivati da vegetali e animali OGM, e altri che ne contestano la utilità non solo sul piano della salute dei consumatori, ma anche sul piano umano e sociale; le coltivazioni con piante OGM fanno concorrenza a quelle ottenute con sementi tradizionali, più rispettose della biodiversità.
Vi sono infine le biotecnologie per le coltivazioni “naturali” o “biologiche”, senza impiego di concimi artificiali, pesticidi, sementi OGM, e per gli allevamenti di animali nutriti soltanto con mangimi di coltivazioni biologiche. I relativi alimenti “bio” sono più apprezzati da molti consumatori e anche qui si presentano problemi analitici per riconoscere se gli alimenti venduti come “biologici” sono stati realmente ottenuti in conformità con le norme.
Il cammino delle varie biotecnologie è appena iniziato e sta mobilitando nuove ricerche di chimica, biologia, microbiologia e merceologia. Davvero la natura e la vita sono le vere fonti di cose utili, purché se ne rispettino le ineludibili leggi.
Dagli anni ottanta del Novecento le chiese cristiane stanno dedicando attenzione ai problemi della difesa della natura e dell’ambiente, della pace ... (continua a leggere)
Dagli anni ottanta del Novecento le chiese cristiane stanno dedicando attenzione ai problemi della difesa della natura e dell’ambiente, della pace e della giustizia; tale attenzione è andata crescendo a mano a mano che si sono fatti più vistosi i segni della violenza delle attività umane contro l’ambiente, confermati, in questi ultimi anni, dagli eventi climatici disastrosi che hanno colpito tante parti della Terra e che sono imputabili al lento continuo riscaldamento del pianeta. Una attenzione che ha ricevuto nuovo impulso con la recente enciclica di Papa Francesco, Laudato si’ che ha trattato in maniera organica e unitaria le radici e i rimedi della crisi, non solo climatica, del pianeta Terra, nella società industriale e consumistica odierna.
Questo fermento si sta diffondendo anche nei seguaci delle religioni non cristiane. Il 17-18 agosto scorso, per esempio, si è tenuta a Istanbul una riunione di credenti musulmani che hanno redatto una Dichiarazione islamica sulle modificazioni climatiche mondiali, anche in vista della conferenza internazionale che si terrà a Parigi nel prossimo dicembre alla ricerca di azioni comuni per rallentare il riscaldamento planetario. In Europa abbiamo dell’Islam una visione miope sulla base delle violenze manifestate da gruppi che dichiarano di parlare in nome dell’Islam, e dei conflitti politici e militari fra comunità sunnite (circa 85 percento dei credenti musulmani) e sciite (circa 15 percento dei credenti). Ma il mondo musulmano conta 1600 milioni di credenti, la seconda religione dopo quelle cristiane con 2000 milioni di credenti di cui 1200 milioni cattolici. I credenti nell’Islam hanno come riferimento il libro sacro del Corano, così come i cristiani hanno la Bibbia, e il Corano, come la Bibbia, comincia con la creazione dei cieli e della terra e di tutti i viventi da parte di un solo Dio (Allah, per i musulmani), che ha fatto bene tutte le cose, che sono buone. I beni della creazione appartengono a Dio e l’uomo ne è soltanto il custode (khalifah, nel Corano). Lo stesso concetto che si trova nel secondo capitolo del libro della Genesi: la Terra è stata data all”uomo” perché la coltivi e la custodisca. Una delle molte analogie fra i libri sacri delle due religioni monoteiste.
La dichiarazione islamica di Istanbul ricorda che il riscaldamento planetario, causa dei mutamenti climatici, è dovuto sia al crescente uso di combustibili fossili, sia alla distruzione delle foreste e ai mutamenti della struttura del suolo dovute alla estensione di monocolture per prodotti da esportare nei paesi industriali, fenomeni che si manifestano vistosamente, per esempio, in Indonesia, popoloso paese islamico. La dichiarazione passa poi ad elencare molte raccomandazioni di buon governo ambientale. E’ opportuno risparmiare l’acqua, anche questo un aspetto a cui sono sensibili molti paesi aridi abitati da musulmani, istituire delle aree protette di particolare valore naturalistico, riparare e riciclare le cose usate. La dichiarazione invita a vivere in modo frugale per consentire agli abitanti dei paesi poveri di avere accesso ad una maggiore frazione dei beni naturali e invita le organizzazioni economiche e produttive a diminuire i loro elevati consumi di risorse, la loro ”impronta ecologica”, e a finanziare una economia verde. Viene auspicato anche che si possa arrivare ad un uso al 100 percento delle energie rinnovabili, un tasto delicato dal momento che alcuni paesi islamici sono fra i maggiori produttori ed esportatori di petrolio, il cui uso è una delle principali fonti dei mutamenti climatici. E' comunque interessante che gli esponenti di comunità musulmane, nei cui paesi si hanno i maggiori contrasti fra pochi abitanti ricchissimi e moltitudini abitanti poverissimi, auspichino l’avvento di un nuovo modello di benessere.
L’enciclica e l’insegnamento di Papa Francesco vanno però al di là dei rimedi tecnici o finanziari per contrastare la crisi climatica e riconoscono le vere origini delle violenze ambientali nell’egoismo dei paesi industriali e consumisti, nella ineguaglianza nella distribuzione dei beni materiali, per cui i paesi poveri diventano sempre più poveri essendo costretti a vendere a basso prezzo sia le loro risorse naturali minerarie, agricole e forestali, sia i loro stessi abitanti, costretti a migrare per cercare condizioni decenti di vita. L’enciclica denuncia una politica focalizzata sulla crescita a breve termine, e i governi che, rispondendo a interessi elettorali, non si azzardano a irritare la popolazione con misure, come potrebbero essere più severe iniziative per la protezione dell’ambiente, per la sicurezza dei lavoratori e per i diritti degli immigrati, che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti esteri.
In un’altra occasione Papa Francesco ha detto che la vera ricetta per la crisi anche ambientale contemporanea, è offerta dalla solidarietà, che significa pensare, agire e anche lottare in termini di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni, far fronte agli effetti distruttori dell’impero del dio denaro. Pace, giustizia e salvaguardia del creato sono tre questioni del tutto connesse, che non si possono separare o trattare singolarmente. I problemi economici, sociali, umani, ambientali che abbiamo di fronte sono enormi, comportano il superamento di grandi contraddizioni ed egoismi, ma, come dice il Papa, “L’amore è più forte”.
La lunga successione di settimane molto calde, interrotte da brevi tempeste improvvise, conferma che qualcosa sta cambiando... (continua la lettura)
La lunga successione di settimane molto calde, interrotte da brevi tempeste improvvise, conferma che qualcosa sta cambiando nel nostro pianeta. Aumenta la temperatura dei mari con mutamenti delle correnti, comparsa e scomparsa di specie marine, modificazioni del pescato; diminuisce la superficie dei ghiacci presenti sul pianeta con aumento del volume e diminuzione della salinità dei mari; cambia il ciclo planetario dell’acqua, per cui lunghe siccità mettono in ginocchio l’agricoltura e la vita in molte parti del pianeta, accompagnate da estesi incendi, mentre altrove piogge intense allagano campi e città.
Anche il nostro paese appare sempre più “fragile”; è il titolo di un recente libro del prof. Ugo Leone, docente di geografia nell’Università di Napoli e instancabile autore di scritti e libri sullo stato dell’ambiente in Italia e nel mondo. Il titolo completo è “Il rischio ambientale in Italia”, Carocci, 2015, e il libro ricostruisce le cause di tale fragilità italiana e planetaria da quando i nostri predecessori, pochi milioni di persone, sono diventati agricoltori e allevatori, fino alla rivoluzione industriale e tecnologica, iniziata dueento anni fa. Il progresso tecnico-scientifico ha permesso, al 20 percento degli attuali settemila milioni di terrestri, di avere case calde d’inverno e fresche d’estate, cibo e energia e merci, di muoversi e di conoscere altre persone e paesi e andare in vacanza. Purtroppo l’aumento del benessere economico e merceologico è inevitabilmente accompagnato da una modificazione dell’ambiente sotto forma di prelevamento dalla natura di acqua, minerali, rocce, combustibili, di diminuzione della superficie delle terre coltivabili e delle foreste, di immissione nella natura di fumi, liquidi inquinati, rifiuti solidi nocivi, di alterazione delle valli, delle colline e delle coste per far spazio a edifici e strade, spesso costruiti in luoghi che intralciano il moto naturale delle acque, con conseguenti frane e alluvioni.
Il libro del prof. Leone elenca l’aumento del rischio territoriale in Italia e soprattutto fornisce delle ricette per diminuirlo. La prima ricetta consiste nella necessità di conoscere la base fisica del territorio sui cui si svolgono le attività umane, e qui la geografia rappresenta un insostituibile strumento; la seconda consiste nel “prevedere e prevenire” un tema a cui è dedicata la seconda metà del libro, e nel comunicare l’esistenza dei rischi.
La conoscenza del rischio può, in molti casi, suggerire di “non fare”, nel nome della sicurezza presente e futura degli abitanti, certi interventi che sembrano desiderabili per il progresso economico, cioè per l’aumento del Prodotto Interno Lordo PIL italiano che invece impone di fare nuove opere e innovazioni e aumento delle produzioni e dei consumi di beni materiali. Per mettere a tacere chi chiede una maggiore precauzione nelle scelte economiche, i governi e gli imprenditori devono convincere i cittadini che molte delle denunce di rischi ambientali sono immotivate o sopravvalutano fatti poco rilevanti, o addirittura sono dovute ad ignoranza e ad un’irragionevole sfiducia verso il progresso scientifico e tecnico. Alcuni studiosi sostengono, per esempio, che le stranezze climatiche ci sono sempre state e non sono dovute ai gas immessi nell’atmosfera dalle centrali e dalle automobili, che le coltivazioni con piante geneticamente modificate producono alimenti del tutto sicuri, e anzi consentono di aumentare le rese agricole e quindi contribuiscono a sfamare le popolazioni povere, eccetera. E’ un delicato ed eterno scontro fra valori, quello del “benessere” attraverso l’aumento della produzione di merci e di denaro e quello del dovere di assicurare alle persone, oggi e in futuro, un mondo più sicuro.
Quasi mezzo secolo fa l’enciclica ”Populorum progressio”, sullo sviluppo dei popoli, di Paolo VI ricordava che: «Non basta promuovere la tecnica perché la terra diventi più umana da abitare» un pensiero ribadito ancora più energicamente nell’enciclica di Papa Francesco ”Laudato si’”. Da alcuni viene obiettato che i papi si occupino delle cose del cielo, perché delle cose della terra si occupano economisti e governanti e imprenditori; questi peraltro faranno bene a non sottovalutare, o irridere, le voci del dissenso perché non è detto che essi abbiano sempre ragione, che tutte le scelte del “fare” siano sempre “buone” e prive di effetti negativi.
Se è vero che in alcuni casi gli allarmi sono o si sono rivelati infondati, è altrettanto vero che si può fare un lungo elenco di scelte apparentemente “economiche” che si sono tradotte in disastri ambientali e anche finanziari. E’ troppo facile citare i fallimenti delle centrali nucleari e dei depositi di scorie radioattive: fra le scelte sbagliate ci sono strade che hanno tagliato le colline e sono state spazzate via dalle frane; villaggi turistici e quartieri urbani costruiti nei luoghi sbagliati e allagati da alluvioni; laghi artificiali che si sono riempiti di fango anziché di acqua; processi industriali che hanno provocato incendi e inquinamenti dell’aria e delle acque; inceneritori inquinanti e discariche di rifiuti che hanno avvelenato le falde idriche sotterranee. Ogni volta qualcuno aveva protestato ed è stato zittito come nemico dei governanti e del progresso. Il prof. Leone raccomanda giustamente una buona informazione per distinguere fra rischi reali e rischi immaginari; qualche volta qualcuno grida “al lupo al lupo” e il lupo non c’è, ma molte volte il lupo c’è davvero.
Le recenti polemiche sulla ricostruzione dell’arena del Colosseo, riattivate dalla decisione del ministro di destinare solo a quest’opera quasi il 25% dei fondi 2015-2016 del così detto “Piano strategico Grandi Progetti Beni culturali”, hanno riproposto alcuni stereotipi duri a morire. Come ad esempio la contrapposizione – sempre citata dai fautori della ricostruzione - fra presunti conservatori élitari, laudatores temporis acti fuori tempo massimo e chi invece si sforzerebbe di aggiornare il nostro patrimonio culturale destinandogli usi più moderni ed adeguati alla contemporaneità.
Si tratta di un’abusata coperta di Linus con cui si cerca di ovviare all’incapacità conclamata della nostra classe politica e accademica di pensare – anche solo per sommi capi – una politica dei beni culturali degna di questo nome, ovvero sia una politica che abbia una chiara cognizione della loro importanza e ne sviluppi finalmente le potenzialità di strumento di conoscenza (del rapporto presente-passato), di acquisizione degli strumenti critici e, per questo, di innovazione. In una parola una politica che abbia una qualche idea su cosa farci di questi beni culturali che non si limiti al loro sfruttamento turistico. O che, al minimo sindacale, si ponga almeno l'obiettivo di una redistribuzione dei flussi turistici più sostenibile, in grado di valorizzare non sempre solo i blockbusters, ma il museo diffuso sempre decantato a parole e sempre negletto nei fatti.
Di fronte all’incontrovertibile dato dello squilibrio delle risorse a favore della sola ricostruzione dell'arena, il ministro ha replicato - prontamente rilanciato dal codazzo dei clientes - che nei prossimi anni saranno fatte altre elargizioni e che si terrà conto di casi come quello della Domus Aurea, la fastosa dimora di Nerone, snodo della cultura figurativa dal Rinascimento in poi, abbandonata da anni in uno stato di difficilissima sopravvivenza.
Peccato che sarebbe esattamente compito di una politica e di una amministrazione adeguata saper stilare – tanto più di fronte alla fragilità complessiva e ai problemi che gravano sui nostri beni culturali – delle priorità secondo una linea di intervento trasparente, scientificamente motivata, amministrativamente conscia dei rapporti costi-benefici.
Al contrario il ministro ha deciso esclusivamente secondo propri criteri mentre il Consiglio Superiore è stato chiamato semplicemente a ratificare l’elenco proposto.
Questa completa distorsione della funzione del Consiglio e degli organi di consulenza scientifica testimonia il nuovo livello cui è stata abbassata la gestione del nostro patrimonio culturale: siamo dunque arrivati, in maniera conclamata, ad un uso politico – in senso personalistico – dei monumenti pubblici.
Per giustificare la spesa di 18,5 milioni si invoca una maggiore comprensibilità del monumento: stranoto al grande pubblico nelle sue funzioni e nella sua forma, il Colosseo di tutto ha bisogno tranne che di essere spiegato con la ricostruzione del piano dell’arena. E su questa linea, perché allora non ricostruire le gradinate? E il velarium? E i clipei bronzei?
Le migliaia di turisti che si ammassano quotidianamente per entrare nell’Anfiteatro avrebbero piuttosto bisogno di servizi adeguati: dai bagni al book shop – caffetteria, ad una maggiore efficienza degli ingressi. O, se vogliamo rimanere nell’ambito della didattica, di materiali informativi multilingui più aggiornati dei pochi cartelloni ora presenti, con ricostruzioni complessive e una storia del monumento che – ben più di un semplice piano di calpestio – ne farebbe comprendere l’importanza.
Altri sono invece i siti e i monumenti che necessiterebbero di una valorizzazione tesa finalmente ad una fruizione più informata e consapevole.
Invece si continua ossessivamente a intervenire sul grande feticcio, sull’icona turistica per eccellenza, nella speranza di spremerne ancora più soldi (i diritti televisivi per gli spettacoli futuri).
E perché è molto più semplice intervenire su di un monumento che non ha ora più bisogno di costosi e lunghi restauri (troppo lunghi per i tempi della politica…).
Certo gli 80 milioni non potevano sanare tutti i problemi del nostro patrimonio, ma occorreva fare delle scelte lungimiranti che, soprattutto in questa prima tornata, rendessero ragione di un programma non estemporaneo e raccogliticcio quale è quello che appare.
L’enormità del compito – la gestione del nostro patrimonio - avrebbe dovuto attivare una pianificazione complessiva e soprattutto un’azione politica di ampio raggio capace, ad esempio, di raccogliere le risorse disperse nei tanti rivoli delle amministrazioni pubbliche per un programma di emergenza nazionale (obiettivo troppo lungo e complesso per coesistere con i criteri di semplificazione e rapidità, valori cardine dell’attuale governo).
L’accanimento sul Colosseo, al contrario, testimonia in modo esemplare l’ormai avvenuta scissione fra i beni culturali di serie A, economicamente fruttuosi, mediaticamente spendibili, su cui vale la pena investire e beni di serie B, destinati ad un abbandono sempre più accelerato. La bad company così come l'ha definita Salvatore Settis anche recentemente.
E’ lo stesso criterio che ha guidato la “riforma” del sistema museale statale, il cui unico obiettivo appare ristretto all’accensione dei riflettori sulle “eccellenze” (peraltro discutibilmente designate).
Con il velleitario presupposto che un megadirettore possa magicamente risolvere la marea di problemi organizzativi, amministrativi, avendo peraltro le mani legate sulla gestione del personale.
Megadirettori che saranno scelti, alla fine di un iter concorsuale a dir poco improvvisato, dallo stesso ministro, come ai tempi di Bottai.
Si replica, anche in questo caso, quell’uomo solo al comando stigmatizzato dal Presidente della Repubblica qualche giorno fa.
E’ al Presidente Mattarella che ci rivolgiamo ora – da ultimo con la lettera aperta di un gruppo di costituzionalisti – perché presidi, come gli compete, il rispetto dei principi costituzionali, in primis dell’articolo 9.
Perché attraverso la legge delega Madia viene esplicitata – con la sottomissione delle Soprintendenze ai prefetti e in generale con l’abolizione de iure della primazia dell’interesse del patrimonio culturale sopra ogni altro (sul tema cfr. Tomaso Montanari) – la vera posta in gioco di questa stagione politica: l'estromissione delle Soprintendenze e del Mibact dalla gestione e dal controllo del territorio.
In maniera ancor più sistematica che attraverso lo Sblocca Italia, gli unici organi ormai in grado di esercitare un controllo, attraverso l’esercizio di tutela del paesaggio, gli unici ancora dotati di un’autonomia – almeno formale – dal potere politico, sono definitivamente sottoposti ad un potere, quello del prefetto, di diretta emanazione politica.
L’opposizione ad un disegno simile dovrebbe essere la priorità per ogni Ministro dei Beni Culturali, in nome della più importante innovazione che il nostro territorio attende da sempre, ovvero sia il coordinamento della pianificazione paesaggistica.
Al contrario, a ribadire l’irrilevanza del Ministro in questo settore, i piani sono in gravissimo generalizzato ritardo e gli unici due casi della Puglia e della Toscana si devono quasi esclusivamente alla determinazione e alla competenza di singole figure di assessori regionali (Barbanente e Marson).
A tutt’oggi il Ministero non ha mai esercitato quel ruolo di guida e di indirizzo prescritto dal Codice (art. 145) e si è dimostrato – soprattutto a livello centrale – sempre pronto alla mediazione al ribasso, come nel caso dello splendido paesaggio Apuane, sfregiato dalle cave i cui proprietari hanno imposto – contro lo stesso Assessore, ma con l’acquiescenza del Mibact – un radicale “ammorbidimento” delle regole di piano.
Privo di competenze interne consolidate e diffuse in quest’ambito cruciale, invece che dotarsene per governare questa partita vitale, il Ministero si è quindi ritirato in un ambito sempre più circoscritto, limitandosi quasi sempre a correzioni di rotta marginali senza mai riuscire ad imporre una visione autonoma «capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale», così come hanno scritto i giudici della Corte Costituzionale (sentenza nr. 151 del 1986).
E’ questa radicale inversione di atteggiamento politico e culturale che manca da sempre in chi ha guidato il Mibact, ridotto, nell’ultimo ventennio, su posizioni di mera difesa e, troppo spesso, di compromesso.
L'azione dell’attuale ministro si è sinora rivelata incapace sia di elaborazione innovativa, sia almeno di un contrasto efficace a tutela delle prerogative del proprio Ministero.
E fra poco, rischia di essere davvero troppo tardi.
In generale sappiamo ben poco di che cosa sono fatti gli oggetti che usiamo continuamente; la pentola in cui cuociamo la pasta, l’automobile ... (continua a leggere)
In generale sappiamo ben poco di che cosa sono fatti gli oggetti che usiamo continuamente; la pentola in cui cuociamo la pasta, l’automobile con cui ci muoviamo, il cellulare o il tablet con cui comunichiamo, eccetera, contengono materie plastiche e metalli, della cui provenienza sappiamo ancora meno. Vengono dal fabbricante di pentole e automobili e cellulari, ovviamente, ma il fabbricante li ha prodotti a sua volta da idrocarburi e minerali estratti in paesi anche lontanissimi, da persone che non conosceremo mai, forse liberi lavoratori con salari equi e adeguata sicurezza, forse miserabili schiavi costretti a lavori estenuanti, lontani dalle loro case.
Qualcosa su queste condizioni di sfruttamento umano fu denunciata dal film Diamanti di sangue, del 2006, con Leonardo Di Caprio, che descriveva l’estrazione di diamanti, insanguinati, appunto, da parte di migliaia di lavoratori schiavi, nella repubblica africana della Sierra Leone. Meno note, ma altrettanto dolorose, sono le condizioni di lavoro in altre zone dell’Africa, in cui milizie locali si guerreggiano con armi acquistate col ricavato dalla vendita dei minerali estratti col lavoro infernale di minatori schiavi. Senza contare che questi metodi violenti di estrazione clandestina si lasciano alle spalle montagne di scorie tossiche per l’ambiente e le popolazioni locali.
A qualcuno, sia pure nel disinteresse generale, sta a cuore la diminuzione di tutta questa violenza umana e ambientale: il Palamento europeo, qualche settimana fa ha votato a maggioranza una risoluzione che impone agli industriali di denunciare se i metalli che usano provengono da minerali estratti in zone in guerra. E’ una iniziativa ispirata da una simile legge americana del 2010, e già alcune industrie, soprattutto nel settore dell’elettronica di consumo, dichiarano, come dimostrazione della loro correttezza e come occasione di pubblicità, che i loro prodotti non contengono “metalli insanguinati”. La risoluzione europea specifica che la denuncia riguarda gli importatori di stagno, tungsteno, tantalio e dei loro minerali, e di oro, provenienti da una zona dell’Africa equatoriale che comprende la parte orientale della Repubblica Popolare del Congo e i paesi limitrofi Burundi, Ruanda, Sud Sudan e l’Angola.
I minerali e i metalli specificati sono particolarmente importanti per i loro usi industriali e perché in parte provengono proprio dalla zona africana travagliata da conflitti locali. Il principale minerale di stagno è la cassiterite e lo stagno trova impiego nelle saldature e in molti prodotti chimici. Per la sua capacità di proteggere i metalli contro la corrosione, lo stagno è utilizzato per il rivestimento di sottili lamiere di acciaio: si ottiene così la banda stagnata, quella delle lattine per prodotti alimentari conservati; una lattina media di tonno in scatola o di conserva di pomodoro contiene da 100 a 200 milligrammi di stagno.
Il tantalio viene estratto dal minerale columbite-tantalite, il coltan, nel quale si trova insieme al niobio. Il tantalio è un metallo molto resistente alla corrosione, è buon conduttore del calore e dell’elettricità e viene usato nelle apparecchiature elettroniche come telefoni mobili, tablet, computers, e anche per la preparazione di speciali leghe per jets civili e militari.
Ancora più importante è il tungsteno che si trova in natura nei minerali wolframite, tungstato di manganese e ferro, e scheelite, tungstato di calcio; il suo principale uso è la preparazione del carburo di tungsteno, un materiale duro quasi come il diamante con cui si ottengono utensili da taglio per la lavorazione dei metalli, nelle escavazioni minerarie e per segare i blocchi di marmo. Leghe a base di tungsteno estremamente resistenti sono usate nella produzione di proiettili penetranti e delle corazze di navi e carri armati. Nel film Gilda (1946) il marito della bella Rita Hayworth era un avventuriero che, durante la II guerra mondiale, organizzava per i nazisti il contrabbando del tungsteno estratto dalle miniere sudamericane. Il tungsteno viene impiegato anche in leghe per le pale delle turbine degli aerei a reazione e delle centrali elettriche.
Infine l’oro, di cui esistono miniere ”insanguinate” nell’Africa centrale, serve per la fabbricazione di monete e di gioielli, ma soprattutto per le saldature nelle apparecchiature elettroniche. Ogni cellulare o tablet contiene circa 20-25 milligrammi di oro, una quantità che diventa grandissima se si pensa che la Unione Europea importa ogni anno 350 milioni di pezzi fra telefoni mobili e computers, e che in Italia si vendono circa 40 milioni di cellulari all’anno.
L’iniziativa del Parlamento europeo ha suscitato differenti reazioni: favorevoli da parte delle organizzazioni che si battono per i diritti umani e per la difesa dell’ambiente, le quali sperano che la diminuzione dei profitti delle bande in guerra contribuisca a ristabilire una qualche pace e a combattere la corruzione inevitabilmente associata al contrabbando delle preziose materie prime. Contrarie, e non fa meraviglia, le imprese che temono che le norme contro i “metalli insanguinati” facciamo diminuire i loro profitti e che tirano fuori anche la commovente preoccupazione per i minatori africani che potrebbero perdere la loro, sia pure supersfruttata, occupazione. L’iniziativa europea potrebbe essere una occasione per una maggiore informazione dei consumatori sui materiali impiegati in quello che comprano, materiali che “costano” acqua, energia, risorse naturali e anche fatica e dolore e spesso violenza. C’è anche della violenza nelle merci.
Quanto al progetto del nuovo aeroporto di Firenze, ora sottoposto a VIA, è un concentrato di illegalità, già ampiamente segnalate e tali da portare l’Università di Firenze a concludere nelle proprie osservazioni “Si ritiene che, già sin d’ora, nella procedura di valutazione dell’impatto ambientale relativa al progetto siano rilevabili evidenti profili di illegittimità tali da giustificare un parere negativo da parte dell’Autorità competente”. Ma si va avanti lo stesso. Anzi, in un articolo apparso il 28 luglio sull’edizione locale della Repubblica, viene annunciata l’intenzione di Matteo Renzi (che ha perso la pazienza, sic!) di stravolgere con un proprio decreto le procedure di garanzia dei cittadini per accogliere nel nuovo aeroporto i capi di stato in occasione del G7 del 2017. Peccato che nessuno abbia designato Firenze come sede dell’avvenimento e che l’idea che l’aeroporto possa essere pronto tra due anni è una pura follia, cui evidentemente l’articolista presta fede. E poiché qualcuno deve pur avere avvisato il nostro Presidente del Consiglio che i tempi saranno dell’ordine, se tutto va bene, dei cinque – sette anni, l’eventuale G7 è solo un pretesto per invocare quelle circostanze eccezionali che giustificherebbero l’ennesimo strappo alle regole. Mentre l’Università, sempre secondo l’articolista, dovrebbe accontentarsi di qualche duna che proteggerebbe il Polo scientifico dai rumori del limitrofo aeroporto (operazione proibita per motivi di sicurezza, ma favola buona per gli ingenui). Quanto all’iter di approvazione dell’inceneritore, che dovrebbe concludersi con un ultima Conferenza di Servizi ad agosto, il Sindaco Nardella ha ricevuto i comitati della piana fiorentina che si oppongono con validissime ragioni all’ennesima opera inutile e dannosa (ma non per i costruttori e per Quadrifoglio), ribadendo la ferma volontà di andare avanti, magari con qualche albero e qualche rilevatore di inquinamento in più.
Vi è un filo che unisce ideologicamente e praticamente le tre opere: la loro dannosità non solo per gli impatti diretti e indiretti, ma perché insieme concorrono ad aumentare in modo drammatico il livello di artificialità del sistema territoriale fiorentino, in particolare di quello idrogeologico. E qui si può misurare tutta l’arretratezza dello sviluppo ciecamente perseguito dai nostri governanti. Mentre le città del nord Europa si stanno attrezzando per contrastare i fenomeni indotti dal cambiamento climatico, rinaturalizzando il proprio territorio, fuori e dentro le città, trasformando gli spazi asfaltati e cementificati in parchi e vasche di raccolta, noi pigiamo il pedale sui tubi, le condutture forzate, le soluzioni ingegneristiche che, ammesso che funzionino, implicheranno enormi costi di gestione, rendendo fragile il sistema e comunque altamente vulnerabile a eventi calamitosi sempre più probabili.
Avanti a tutta come kamikaze! Salvo che non saranno i nostri governanti a suicidarsi, ma “suicideranno” le popolazioni da loro amministrate. E quando si scoprirà che il tunnel sotto Firenze non è fattibile se non a costi triplicati e facendo gli scongiuri; che il completo rifacimento del reticolo idraulico della piana a contatto con Firenze è un’avventura rischiosa ed enormemente costosa (per i contribuenti, come è ovvio); che gli effetti inquinati dell’inceneritore insieme a quelli dell’aeroporto, dell’autostrada (con corsia aggiuntiva) e delle tante altre fonti di inquinamento già presenti, formeranno un cocktail micidiale. Quando i nodi verranno al pettine, nessuno sarà responsabile: non Adf, solo proponente; non ENAC, solo consulente; non la Commissione VIA nazionale che è solo un organo tecnico; non la Regione Toscana che ha solo espresso un parere. Colpevoli saranno i cittadini ammalati o alluvionati, perché nessuno li ha obbligati ad abitare nella piana e quindi che se ne stiano buoni e zitti.
“A Venezia, gli stranieri sono bene accolti se hanno molto denaro”, dice un personaggio del Candide di Voltaire. Forse è vero dappertutto, ma qui l’intreccio... (continua a leggere)
1. Un ministro “di qualità”.
Alle chiacchiere sul turismo sostenibile - fiaba con la quale i governanti convincono i cittadini a lasciarsi rubare i residui spazi pubblici, affinché privati investitori li facciano fruttare a loro vantaggio- si è aggiunta quest’anno una polemica internazionale. Il pretesto è stato fornito dalla dichiarazione del nuovo sindaco di Barcellona che, presentando alcune misure per limitare gli effetti devastanti del turismo, ha spiegato di “non voler fare la fine di Venezia”. Invece di chiedersi perché ormai Venezia sia il modello negativo a cui in tutto il mondo si guarda per evitarlo, il ministro ha reagito dicendo che a Barcellona “dovrebbero baciarsi i gomiti per poter diventare come Venezia”. Ha anche spiegato che il problema non è il numero di turisti, ma la loro qualità, che per definizione viene valutata in base alla quantità di denaro che spendono. Ed è perché questi turisti di qualità non vengano disturbati da turisti poveri né da abitanti poveri, che si stanno trasformando le nostre città e si erigono recinti attorno ai “luoghi più pregiati”. Facile, ancorché inutile, sarebbe usare lo stesso linguaggio elegante del ministro- che dà una buona idea del livello culturale di chi gestisce l’omonimo dicastero- e dire che volentieri ci baceremmo i gomiti per poter avere un sindaco come quello di Barcellona. Inutile è, anche, spiegare al ministro che il problema non sono i turisti, acquirenti finali di una merce sempre più contraffatta, avariata e venduta a caro prezzo, ma chi tale merce vende, anche se non è sua (del resto anche “il problema” dell’Ilva non è la fabbrica, ma i suoi padroni e i loro amici), perché lo sa già, ed è proprio per proteggerne gli interessi che è stato messo al posto che occupa.
Assolutamente d’accordo con il ministro si è detto il sindaco Brugnaro, che non ha “escluso azioni a tutela del nome e della reputazione di Venezia”. Intanto, mentre valuta se fare causa al sindaco di Barcellona, e speriamo che non ci metta un’addizionale irpef per pagare le spese legali, ha adottato una serie di ordinanze per il decoro e l’immagine della città. “Dobbiamo togliere dalle strade un sacco di gente che gira e bighellona, si ubriaca…” ha spiegato, ma non si riferiva ai turisti, che per l’appunto bighellonano ubriachi, ma ad “accattoni, mendicanti e persone moleste”. Così ha aumentato il numero di vigili urbani armati che si aggirano per le calli a caccia di venditori di strada, ma niente fanno per impedire gli osceni picnic al cimitero, dove anzi appositi cartelli indirizzano i turisti verso gli angoli ritenuti più suggestivi, né per limitare l’ingresso nell’atrio dell’ospedale costantemente invaso da turisti che, forse pensando che sia già stato trasformato in albergo come molti luoghi di cura e ricovero della città, si divertono a fotografare i parenti dei degenti. Ovviamente, ha confermato il divieto, istituito a suo tempo dal sindaco Cacciari, di sosta davanti alle porte delle chiese per chiedere l’elemosina. “Ripuliremo la città”, è il suo slogan, “è ora di dire basta con questa gentaglia che gira per le strade!” .
2. Un governatore “ghandiano”.
Le manifestazioni di razzismo in Veneto, regione operosa e campione di evasione fiscale, non sono una novità. I fatti di Quinto di Treviso ed Eraclea, però, che nei giorni scorsi hanno attirato l’attenzione della stampa anche nazionale, mostrano con inequivocabile chiarezza come i politici consapevolmente usino le preoccupazioni economiche della “gente” per consolidare e giustificare il razzismo istituzionale.
In entrambi i casi non si tratta di guerra fra poveri, da una parte abitanti legali e dall’altra clandestini o occupanti abusivi. A Quinto, i profughi contro i quali si è scatenata la furia degli abitanti, sono arrivati perché lì le autorità li hanno portati, dopo la firma di una convenzione fra una società immobiliare, proprietaria di un certo numero di immobili sfitti, e la cooperativa che gestisce la sistemazione di profughi. Al loro arrivo i pullman sono stati presi a sassate dai civili abitanti di Quinto, ai quali si sono aggregate le squadracce di Forza Nuova. Insieme, hanno poi bruciato materassi e suppellettili (di proprietà pubblica, cioè pagati con le tasse di chi le paga) e impedito ai volontari di portare le ceste con il cibo dei profughi. Nessun provvedimento di polizia è stato eseguito nei loro confronti; al contrario sono stati fermati alcuni giovani di un centro sociale che manifestavano a favore dei profughi. Il governatore Zaia si è recato di persona a Quinto per dar man forte agli insorti. La gente, ha spiegato, è giustamente preoccupata perché l’arrivo dei profughi può far scendere il valore degli immobili.
Anche ad Eraclea le motivazioni economiche sono state l’elemento scatenante del rifiuto ad ospitare temporaneamente 54 profughi in un residence. Ed anche qui Zaia è intervenuto di persona e ha attaccato direttamente Renzi che “mi aveva promesso che nessun profugo sarebbe stato mandato in località turistiche, di mare, di montagna, termali, città d’arte”, ma che dopo le elezioni avrebbe ordinato una “rappresaglia contro il Veneto!” . Comunque “se Renzi e Alfano vogliono distruggere l’economia del Veneto con i suoi 70 milioni di presenze” glielo impediremo, ha ribadito per rassicurare gli operatori del settore che gli hanno rivolto “un accorato appello per la salvezza dei territori e della stagione turistica”.
A Renzi ha scritto anche il sindaco Brugnaro, per mettere nero su bianco che noi non siamo razzisti e siamo disposti ad ospitare una conferenza internazionale sul tema, ma il governo deve prendere atto che a Venezia “non c’è posto” per nessun profugo e che “in Italia, l’Africa non ci può stare”. Poi si è recato all’aeroporto, insieme a Zaia e con uno stuolo di dignitari al seguito, ad inchinarsi allo sbarco della signora Obama.
Nata per scongiurare i nazionalismi che avevano devastato il Vecchio Continente e il mondo nella prima metà del '900, l'UE ritorna... (continua a leggere)
Alla base dell'egoismo nazionalistico tedesco, ben orchestrata dai media, opera infatti una narrazione ideologica potente: la leggenda che la Germania, seria e laboriosa, stia a svenarsi per sostenere una vasta platea di popoli debosciati. Sappiamo che l'opinione pubblica tedesca è una delle più colte, se non la più colta, d'Europa. Ma nella patria di Lutero il messaggio di una nazione del Nord, laboriosa e risparmiatrice, che si contrappone ai popoli del Sud, oziosi e dissipatori ha una capacità di presa difficilmente resistibile. Tanto più che in soccorso di tale convinzione viene una serie di stereotipi lunga diversi decenni, una Grande Retorica, che divide il Nord ed il Sud in due sfere separate dello spirito umano. E a rendere materia di senso comune tale divisione contribuisce anche il linguaggio popolare, che separa i popoli in cicale e formiche. Antica metafora del regno animale nobilitata dalla letteratura del mondo classico. Chi non conosce la favola di Esopo, tradotta da Fedro nel suo elegante e musicale latino? Olim cicada in frondosa silva canebat / laboriosa formica autem assidue laborabat. Non è necessario tradurre.
Ora, questa favola, comprensibile in un'epoca che doveva ancora costruire la sua etica del lavoro, si fonda su una serie interessante di errate conoscenze. E soprattutto condensa oggi la metafora di un capitalismo che ha smarrito ogni senso e progetto e corre verso la propria autodistruzione. Già a suo tempo Gianni Rodari, poeta di genio, non aveva ceduto all'autorità degli antichi: «Chiedo scusa alla favola antica/se non mi piace l'avara formica./Io sto dalla parte della cicala/che il più bel canto non vende, regala». Ma oggi noi possiamo aggiungere che la favola non è più proponibile innanzi tutto sul piano biologico. Le operose formiche, e soprattutto le operaie e i maschi fecondatori, vivono pochi mesi. Le cicale hanno un ciclo più complesso e possono vivere 4-5 anni, nel terreno, allo stato di larve, prima di mettere le ali. La cicala nord americana – ci informano gli entomologi - può superare i 15 anni di vita. Anni passati sugli alberi, non a raccattare cibo da accumulare nelle tane come accade alle formiche. I maschi e le operaie, i lavoratori alla base della piramide del formicaio, non godono gran che dei beni accumulati durante i lavori dell'estate. Proprio come tanti operai poveri delle società avanzate di oggi. Tanto lavoro, poco reddito. D'inverno, in genere, muoiono.
Occorre aggiungere che le formiche, impegnate tutto il tempo della loro breve esistenza in lavori faticosissimi, sono inquadrate in una società gerarchica e castale, una caserma piena di soldati, sempre alla ricerca di beni e di prede, una monarchia assoluta in cui comanda una dispotica regina. Le cicale, all'ombra di ulivi o di pini – i loro alberi preferiti - riempiono del loro incanto il cielo dell'estate, per il puro piacere del cantare, senza alcuna finalità utilitaria. Offrono gratuitamente, a tutti gli altri viventi e perfino agli uomini, il dono della loro musica che nasce da luoghi invisibili, fanno sentire anche noi partecipi, se sappiamo ascoltare, della misteriosa ventura che è la vita sulla Terra.
Perché dovremmo preferire la formica alla cicala? Il senso della favola antica va rovesciato. Il male non tanto oscuro del capitalismo dei nostri anni è che esso vuole imporre a tutte le società il modello sociale del formicaio, quando abbiamo risorse per vivere, tutti, da cicale. Il modello di vita più avanzato, carico di futuro, è quello di questo insetto cantore, che lavora sempre meno, è libero di esercitare i suoi talenti creativi, non è divorato dalla febbre usuraia dell'accumulazione e del risparmio. Queste virtù del capitalismo delle origini, così ben interpretate dall'ordoliberismo tedesco, sono adatte per una società che guarda al passato, ancora prigioniera di paure di un mondo di scarsità che non c'è più, che non ha più nulla di affascinante da proporre alle generazioni venture.
Era mezzogiorno e mezzo quel 19 luglio di trent’anni fa e i villeggianti, in parte ospiti dell’ACLI (l’associazione cattolica lavoratori) di Milano...(continua a leggere)
Era mezzogiorno e mezzo quel 19 luglio di trent’anni fa e i villeggianti, in parte ospiti dell’ACLI (l’associazione cattolica lavoratori) di Milano, erano a tavola negli alberghi di Stava, frazione del Comune di Tesero in provincia di Trento, quando una valanga di circa 200.000 metri cubi di fango ha spazzato via la loro vita e quella di altri abitanti della zona, 258 in tutto. La massa di acqua e detriti era scesa su Stava, a 90 chilometri all’ora, in seguito alla rottura degli argini di due grandi bacini artificiali che si trovavano poco sopra il paese, pieni dei residui del lavaggio della fluorite estratta dalla vicina miniera di Prestavel.
La fluorite è il minerale costituito da fluoruro di calcio, impiegato come fondente nella produzione dell’alluminio e dell’acciaio, per la preparazione di ceramiche e per la produzione di composti chimici fluorurati. La fluorite greggia, estratta da quella e da altre miniere del Trentino, era frammista ad altri minerali; per purificarla la roccia veniva macinata in fine polvere e veniva sottoposta a lavaggio con acqua e agenti chimici sospendenti; per quella particolare miniera, in Val di Fiemme, venivano utilizzate le acque dei piccoli torrenti nei quali erano anche reimmesse le acque residue del processo.
La miniera di Prestavel aveva una lunga storia; era stata aperta nel 1935 in concessione alla Società Atesina per Esplorazioni Minerarie; nel 1941 la concessione era stata ceduta alla società Montecatini la quale, nel 1961aveva ottenuto l’autorizzazione a costruire un primo bacino di decantazione del fango di lavaggio della fluorite; nel 1969 era subentrata la Montedison che aveva ottenuto l’autorizzazione alla costruzione di un secondo bacino, più grande e a monte del primo. Nel 1974 la Montedison passò la concessione alla propria società Fluorite e fra il 1974 e il 1978 la miniera venne ceduta ad una società del gruppo ENI, la quale, infine, nel 1980 la trasferì alla società Prealpi Mineraria di proprietà di certi fratelli Rota. Questi passaggi di proprietà avrebbero avuto importanza nel processo aperto dopo il disastro per accertare le responsabilità della costruzione e dei controlli sulla stabilità dei due bacini e degli argini il cui crollo aveva provocato la fuoriuscita del fango e la morte di tante persone.
La tragedia di Stava ebbe allora grande risonanza nazionale, tanto più che era avvenuta quando era ancora vivo il ricordo e il dolore della tragedia del Vajont, del 1963, con la morte di duemila persone ed erano ancora in corso i lenti processi contro i responsabili, con il palleggio di responsabilità fra la Edison che aveva costruito la diga e il lago artificiale, l’ENEL che ne era diventata da poco proprietaria, gli imprevidenti progettisti che non avevano tenuto conto del pericolo che dal monte Toc, sovrastante la diga, potesse scendere nel lago la frana che fece sollevare l’onda di acqua e fango che, scavalcata la diga, aveva sepolto il paese di Longarone.
Anche nel caso di Stava ci fu un lungo e lento processo, con testimonianze e perizie, le famiglie delle vittime furono difese, fra gli altri, dall’avvocato Sandro Canestrini, che era stato il difensore delle famiglie dei morti del Vajont, oggi novantenne, e dal geologo Floriano Villa che mise in evidenza che il crollo dei bacini della miniera di Prestavel era stato la conseguenza di macroscopici errori di localizzazione e di costruzione. Nel corso del processo apparve che ne erano responsabili i vari proprietari della miniera, i dirigenti susseguitisi negli anni, i progettisti dei bacini, i tecnici degli uffici pubblici che, tutti, avrebbero dovuto vigilare e non lo avevano fatto. Il processo si concluse nel 1992 con una prima sentenza e nel 2003 con il ricorso in cassazione; furono condannati dieci imputati, ma nessuno fece mai un solo giorno di detenzione. Vi furono dei risarcimenti, ma quanto vale, in soldi, la vita umana ?
La catastrofe avvenne quando la miniera di Prestavel era ormai quasi esaurita e destinata alla chiusura, ma le scorie delle lavorazioni erano ancora li e forse vi sarebbero rimaste per sempre, se non ci fosse stato il tragico crollo degli argini dei bacini. Anche qui si trattava della coda avvelenata di una delle tante attività industriali le cui fabbriche sono scomparse lasciandosi dietro rifiuti e contaminazioni ambientali.
Se veramente si volesse pensare e operare in termini di sostenibilità, come è di moda dire adesso, lo Stato dovrebbe lanciare un vasto programma di informazione sulle attività industriali passate e presenti che generano e lasciano scorie pericolose di cui spesso, col tempo, si dimentica perfino la composizione. Sono quei “siti contaminati”, solo in parte identificati e la cui bonifica, pur imposta per legge, procede tanto lentamente.
Voglio concludere con le parole incise sulla lapide dei morti di Stava che fu benedetta da Giovanni Paolo II il 17 luglio 1988: “La loro perenne memoria sia di monito perché la superficialità, la noncuranza, l’approssimazione, l’incuria, l’interesse non debbano più prevalere sulla cura per l’uomo, la sacralità della vita umana, la coscienza delle personali responsabilità”. Parole commoventi che invitano a non dimenticare i morti di quella lontana mattina d’estate, ombre ormai nella fila delle migliaia di morti nelle fabbriche, nelle città, nei campi, uccisi nel nome del profitto.
Un clamoroso paradosso segna la nostra epoca. Forse mai, come oggi, a una conoscenza così profonda delle contraddizioni insostenibili, a una consapevolezza universale delle ingiustizie che lacerano il mondo... (continua a leggere)
Un clamoroso paradosso segna la nostra epoca. Forse mai, come oggi, a una conoscenza così profonda delle contraddizioni insostenibili, a una consapevolezza universale delle ingiustizie che lacerano il mondo, era corrisposta una così perdurante impotenza da parte delle grandi masse popolari e delle forze antagoniste che vogliono combatterle. Le analisi e le sistemazioni storico- teoriche del capitalismo contemporaneo hanno raggiunto negli ultimi anni una vastità e intensità forse sconosciuta perfino nei momenti politici più effervescenti del '900. Marx è ritornato ad essere un nostro contemporaneo. E una ricchissima costellazione di analisti - da Bauman ad Harvey, da Piketty al nostro Gallino, per citarne pochissimi - ci consegna una radiografia dei meccanismi profondi della società capitalistica di rara ricchezza e densità.
Appare oggi dunque evidente quale sia, in Italia e nel mondo, l'imperativo della nostra epoca: rimettere in piedi le forme organizzate del conflitto. Il capitale possiede i generali e vari altri gradi di comando, perfino dei caporali (spesso molto loquaci), ma noi possediamo l'esercito, siamo l'esercito potenziale. Questa gigantesca sperequazione è alla base delle disuguaglianze crescenti tra le classi e tra i popoli, della sofferenza di milioni di persone, dell'usura progressiva degli spazi della democrazia, dell'ingovernabilità del sistema, del disordine politico mondiale.
Che cosa si aspetta dunque a fare di questa assenza gigantesca, di questa dispersione frammentata della nostra potenza, l'oggetto fondamentale delle nostre cure, il centro su cui far convergere il nostro pensiero, il nostro impegno immaginativo? Costruire una nuova forza capace di organizzare il conflitto sociale, che non somigli ai vecchi partiti, che ne erediti le esperienze migliori ma che sappia attivare meccanismi di trasparenza, democrazia e partecipazione sconosciuti al passato e all'oggi: ecco la sfida che abbiamo di fronte.
Rompendo una inerzia non più tollerabile, Nichi Vendola e Sel hanno avviato in questi giorni una iniziativa lodevole e necessaria. E' auspicale che essa venga condotta nelle forme più aperte, trasparenti, inclusive che l'attuale cultura politica della sinistra radicale pretende. Ma nel popolo frammentato dei movimenti, tra i dispersi, nel generoso e disilluso popolo della sinistra, deve scattare oggi il senso della realtà che l'epoca richiede. Non solo ognuno deve fare la propria parte.Ma ognuno deve saper rinunciare a parte delle proprie ambizioni, anche intellettuali, in cambio di una unità organizzata che fa la forza di tutti. Il più temibile nemico da battere è oggi la nostra divisione, e senza una forza plurale ma unitaria nessuna idea ha gambe per camminare. Si dice che abbiamo bisogno di un nuovo soggetto politico.Ma per realizzarlo avremmo bisogno di una nuova soggettività politica, la consapevolezza che il nostro ombroso e intransigente individualismo è spesso il calco vittorioso della cultura avversaria.
Nei giorni scorsi è morto a 83 anni l’attore egiziano Omar Sharif, interprete di molti film di successo fra cui il Dottor Zivago (1965). Ma c’è un suo ultimo film che sarà in distribuzione nel prossimo autunno, 1001 invenzioni e il mondo di Ibn al-Haytham, dedicato al contributo dell’Islam alla cultura tecnico-scientifico mondiale. L’Islam, nato come movimento religioso monoteista, fondato da Maometto in Arabia, nel corso di tre secoli si era esteso dai confini con la Cina, a oriente, all’Europa e all’Oceano Atlantico a occidente. I musulmani governavano l’Egitto e i paesi dell’Africa settentrionale e occidentale, la Spagna e la Sicilia, il Medio Oriente, la Mesopotamia, la Persia, parte dell’Asia centrale, una grande “nazione” i cui popoli in breve raggiunsero un elevato livello di vita e di benessere economico.
L’Islam fu temuto e anche ammirato dall’Occidente cristiano medievale; San Francesco, mentre erano in corso le sanguinose crociate fra cristiani e musulmani, non esitò ad incontrare, con reciproco rispetto, nel 1219 il “nemico” Califfo al-Malik al-Kamil, lo stesso incontrato, dieci anni dopo, da Federico II, l’imperatore cristiano che ebbe ministri e soldati musulmani; per inciso Lucera, in provincia di Foggia, è stata a lungo una città ”saracena”. Nella loro “età dell’oro, dall’800 al 1200 dell’era cristiana, migliaia di studiosi musulmani hanno tradotto in arabo le opere degli scienziati greci, molte delle quali sconosciute nel mondo latino, e ne hanno rielaborato le conoscenze nel campo della matematica, della fisica, della medicina, dell’ingegneria. Ben presto molti di questi scritti sono stati tradotti dall’arabo in latino e, attraverso il mondo musulmano, la cultura greca è tornata, arricchita, in Occidente, ulteriormente diffusa poi dopo l’invenzione della stampa.
Gli abitanti di un così vasto territorio, in cui circolavano e si incontravano popoli diversissimi, avevano dovuto risolvere innumerevoli problemi tecnico scientifici ed ecologici; diffusero la coltivazione di nuove piante alimentari come la canna da zucchero (che arrivò fino in Sicilia) e nuove tecniche di trasformazione dei prodotti agricoli; per dare acqua ai campi e alle popolose città furono inventati metodi di sbarramento dei fiumi con dighe e di trasporto e sollevamento dell'acqua dai pozzi. Occorrevano macchine e fonti di energia e gli Arabi inventarono dispositivi per trasformare il moto rotatorio in moto lineare, quelle norie che sono sopravvissute fino a poco tempo fa nelle campagne pugliesi; e poi macchine azionate dall’energia del moto delle acque e dal vento, proprio le fonti rinnovabili di energia a cui siamo costretti a rivolgerci noi oggi, dopo aver dissipato enormi quantità di petrolio. Nelle città gli Arabi sapeva risolvere problemi di smaltimento delle acque usate e dei rifiuti; in difesa dell’igiene pubblica esistevano ospedali presso cui veniva praticata della medicina e chirurgia di avanguardia. Attraverso le traduzioni dall’arabo sono arrivate in Europa le conoscenze della chimica, il cui stesso nome deriva da una parola araba, come di derivazione araba sono i nomi degli alambicchi, dell’alcol, degli alcali, eccetera. Nelle città musulmane esisteva un servizio pubblico di repressione delle frodi alimentari; nel mondo islamico esistevano vivaci scambi commerciali anche fra paesi lontanissimi, e con le merci i viaggiatori musulmani hanno portato in Occidente le invenzioni cinesi della carta e della bussola, le spezie e la giada.
Dopo un lungo declino, da molti decenni, soprattutto con i profitti assicurati dal petrolio, in molti paesi islamici, pur con mille contraddizioni, stanno nascendo modernissime università, biblioteche, centri di ricerca scientifica e soprattutto sta nascendo un senso di orgoglio per il contributo che l’Islam ha dato alla civiltà universale.
Una ventina di anni fa è stato lanciato il programma “1001 invenzioni” (il numero si riferisce alle “Mille e una notte”, la famosa raccolta di racconti arabi) per ricordare le tante innovazioni di scienziati, medici e “ingegneri” arabi medievali, passate in Europa e che sono alla base di molte delle nostre conoscenze; tali invenzioni sono descritte in un bel volume illustrato che ha già avuto tre edizioni (non tradotto in italiano). In questo ambito è stato realizzato anche il film con Omar Sharif, citato all’inizio e dedicato ad Ibn al-Haytham (965-1040), il grande fisico e medico (noto in Occidente come Alhazen), a cui siamo debitori di scoperte fondamentali, come le leggi del movimento della luce, della rifrazione, cioè di come la luce “cambia di direzione” passando dall’aria all’acqua, le leggi della concentrazione della luce solare mediante specchi, proprio quelli usati oggi in molte grandi centrali solari, la scoperta della “camera oscura”, il fenomeno ottico alla base delle macchine fotografiche e cinematografiche, la struttura e la fisiologia dell’occhio, la soluzione di delicati problemi matematici. Un doveroso tributo in questo “Anno internazionale della Luce”.
A titolo di curiosità, nel millesimo anniversario della nascita di Alhazen, esattamente cinquant’anni fa, si tenne anche nell’Università di Bari una conferenza che fu poi trasformata in un lungo articolo pubblicato nella rivista Physis, fondata a Firenze da Vasco Ronchi (1920-2012), il grande studioso di ottica e di storia dell’ottica.
Il riconoscere il contributo dell’Islam alla nostra civiltà ha anche lo scopo di ricordare e insegnare che soltanto le conoscenze e il rispetto reciproco neutralizzano i conflitti politici ed economici e la violenza e fanno progredire i paesi, tutti, in questo mondo globalizzato.
La mattina di lunedì 29 giugno, al buio, alle 4 di mattina, ora locale, le otto di sera di domenica a Roma, dall’aeroporto di Nagoya in Giappone...(continua)
La mattina di lunedì 29 giugno, al buio, alle 4 di mattina, ora locale, le otto di sera di domenica a Roma, dall’aeroporto di Nagoya in Giappone un uomo solitario si è avventurato sull’Oceano Pacifico per un volo di 8300 chilometri fino alle isole Hawaii, su un aereo che utilizza soltanto l’energia solare. Per il pilota, André Borschberg, è l’ottava tappa del giro del mondo sull’aereo Solar Impulse 2, un volo senza carburante iniziato a Dubai e che finirà a Dubai. Questa è la tappa più lunga e difficile: 120 ore, cinque giorni e cinque notti, di volo consecutivo, dormendo 40 minuti al giorno in due turni di venti minuti ciascuno. Da solo. Sarebbe facile ricordare l’ingenuo entusiasmo del Parini (ricordate: “Quando Giason dal Pelio, spinse nel mar gli abeti”, quel Giasone che aveva costruito la prima nave di legno per affrontare le onde tempestose del mare e scoprire nuovi paesi) per onorare il nuovo esploratore dell’ignoto, Étienne Montgolfier, che nel 1783 per primo si sollevò nel cielo appeso ad un pallone gonfiato di aria calda. O ricordare l’entusiasmo che accolse nel 1927 Charles Lindbergh al suo arrivo a Parigi dopo un volo solitario di 33 ore attraverso i 5800 chilometri dell’Atlantico su un fragile aereo ad elica. Anche se qualcuno potrà ricordare che, ”grazie” agli aeroplani, i tedeschi riuscirono a bombardare e spianare interi quartieri di Londra, o gli americani a distruggere Hiroshima con una bomba atomica, o ricordare i dannosi mutamenti climatici provocati, fra l’altro, dai “gas serra” immessi nell’atmosfera dalle migliaia di aeroplani civili e militari che affollano ogni giorno i cieli.
E’ la gioia e la punizione del destino dell’uomo da quando ha mangiato il frutto vietato dell’albero della conoscenza e della tecnica. La nuova sfida riguarda oggi la possibilità di percorrere i cieli usando l’energia solare al posto degli inquinanti carburanti derivati dal petrolio. L’energia solare ha l’inconveniente di avere una bassa densità, sufficiente per coltivare frumento nei campi e per coprire di foglie gli alberi, ma troppo poca rispetto al fabbisogno energetico delle macchine umane abituate al carbone o al petrolio. In termini di elettricità un metro quadrato di pannelli fotovoltaici fornisce, in un giorno d’estate, al massimo circa 1 chilowattora di elettricità e niente di notte e quasi niente quando il cielo è coperto.
All’impresa di costruire un aereo capace di fare il giro del mondo soltanto con l’energia solare si è dedicato l’ultimo, in ordine di tempo, dei Piccard, una famiglia di pionieri del volo e delle esplorazioni oceaniche. Nel 1932 August Piccard (1884-1962) ha stabilito il primato di altezza (17.000 metri) a bordo di un pallone aerostatico; il figlio Jacques Piccard (1922-2008) nel 1953 ha costruito, in collaborazione con i cantieri italiani, il batiscafo “Trieste”, un sottomarino abitato che nel 1960 ha stabilito il primato di profondità raggiungendo 11.000 metri nella fossa delle Marianne, nel Pacifico, il punto più profondo degli oceani. Bertrand Piccard, figlio di Jacques, dopo aver effettuato nel 1999 il giro del mondo in pallone senza scalo, si è dedicato alla costruzione di aerei alimentati con l’energia solare, capaci di volare sia di giorno sia di notte.
L’aereo Solar Impulse 2 è il risultato di molte innovazioni tecnico-scientifiche: si tratta infatti di un aereo molto leggero, circa 2300 chilogrammi, più o meno il peso di una auto di grossa cilindrata, con sottili ali lunghe 72 metri e aventi una superficie di circa 270 metri quadrati, ricoperta di 17.000 speciali celle fotovoltaiche capaci di produrre circa 350 chilowattore di elettricità solare al giorno. Fi giorno tali celle azionano quattro motori a elica elettrici, appesi sotto le ali, della potenza di circa 15 chilowatt ciascuno, più o meno quella di una grossa motocicletta. Per poter volare di notte, quando è assente la radiazione solare, una parte dell’elettricità prodotta di giorno dalle celle fotovoltaiche viene accumulata in quattro batterie a ioni di litio con elettrolita di speciali polimeri, del peso di 630 chilogrammi con una capacità di circa 150 chilowattore, in grado di erogare una potenza di 15 chilowatt, che fanno funzionare di notte i motori dell’aereo.
Nei voli lunghi il Solar Impulse 2 vola a 9000 metri di altezza di giorno, per catturare la massima quantità di energia solare, e a circa 2000 metri di altezza di notte, ad una velocità variabile fra 50 e 100 chilometri all’ora. Per il velivolo sono stati utilizzati nuovi materiali da costruzione in fibre di carbonio capaci di alta resistenza meccanica con il minimo peso e sono stati risolti problemi di aerodinamica.
Il pilota solitario ha aperto nuove strade le cui ricadute avranno effetti tecnici, economici e ambientali, sulla strada della liberazione dai combustibili fossili e dalla crescente emissione di gas responsabili dei mutamenti climatici.