Non un bilancio, un semplice richiamo alla memoria, per annotazioni quasi cronologiche, di casi e cose da me e altri proposti in eddyburg, per ragionarvi brevemente ora, Capodanno 2006.
-Dopo l’esplosione dello tsunami molti sembrano riscoprire l’esistenza del rapporto fra l’uomo e la natura secondo un senso dimenticato, quello del rispetto dovuto dal primo verso la seconda. Ciampi nel discorso di fine d’anno accenna chiaramente al “dovere di difendere la natura”, una pratica in disuso.
Sorprendente, riguardo al problema improvvisamente imposto dalla tragedia, la mancanza di una sostanziosa rielaborazione della sinistra, quantomeno quella parte che non aveva negato totalmente la formazione culturale marxista. Furono Darwin e Marx-Engels a trovare il centro della questione uomo/natura e, chiudendo la porta a determinismo, meccanicismo, necessarismo, a offrire la possibilità di porsi in modo nuovo davanti alla storia del mondo.
Dov’erano, penso, i capi eredi della “vecchia sinistra” (Salzano)?.
-Forzisti, fascisti, centristi, moderati e riformisti accusano l’Unità e in particolare il direttore Furio Colombo di essere gl’istigatori del lancio del treppiedi a Berlusconi. Silenzi o consensi di troppi giornalisti. Colombo verrà presto “licenziato”. Saranno i vertici dei Democratici di sinistra a esigerlo, su indiretta (o diretta?) richiesta del capo del governo. Furio dirà che, secondo loro, il giornale era troppo radicale.
Non sopportavano che fosse impegnato senza riguardi e senza sosta a denunciare le malefatte di B. e dei suoi. C’è persino qualche diessino importante che non può attaccare Berlusconi dal momento che ne dipende indirettamente: per esempio il senatore collaboratore fisso al settimanale “Panorama”.
-La Baia di Sistiana, il golfo più bello della costiera giuliana, è sempre sull’orlo del pericolo di gigantesca edificazione, anche se il WWF e Italia Nostra ottengono dal Tar la sospensione dei lavori nella parte occupata dalla cava di pietra. Ma l’orribile progetto di una “nuova Portofino” tornerà alla luce. È nota la collusione fra gl’imprenditori, il Comune di Duino (centrodestra) e la Regione FVG (centrosinistra), tutti decisi ad accordarsi in pro dello “sviluppo”.
Il presidente Illy propende a dire e a fare cose di destra, non di sinistra.
-Corridoio 5 dell’Alta velocità. Il prevedibile massacro di un buon tratto del Carso non richiama l’attenzione della sinistra. Anzi, il centrosinistra della Regione FVG sembra trovarlo inevitabile.
Oggi, mentre la Val di Susa è in subbuglio a causa dei lavori per la Torino-Lione, la sinistra, o il centrosinistra, invece che presentare una Mercedes irragionevole sostenitrice, dovrebbe negare decisamente un’opera di tale natura in un paese dove è l’intero sistema ferroviario “normale”, linee secondarie comprese, incompleto e in stato pietoso, ad aver bisogno urgente di interventi secondo un programma politicamente e tecnicamente preciso.
-Il centrosinistra locale vuole ostinatamente il porto da 500 barche, con relative case per 150.000 metri cubi, alla foce dell’Arno presso la tenuta di San Rossore. Esce un documento di opposizione radicale al progetto firmato, fra altri, da Salzano, Cervellati e dal soprintendente Paolucci.
Intanto la Regione Toscana, in specie il suo presidente diessino, rivaleggia col ministro Lunardi non per contrapporre l’adeguamento dell’Aurelia alla sua variante autostradale tirrenica che sconvolgerebbe il paesaggio collinare; ma per proporre un proprio tracciato che lo ferirebbe e corroderebbe un po’ più vicino alla costa.
Cosa c’è sotto l’attuale silenzio?
-All’Isola d’Elba, Marina di Campo, i cento grandi pini a ombrello già noti per minacce precedenti di abbattimento non hanno pace. L’amministrazione di centrosinistra vorrebbe, di nuovo, abbatterli adducendo ragioni cretine (danni delle radici, disturbo delle fronde…).
Le piante sono ancora lì, oggi. E’ forse servita, insieme alla mobilitazione degli ambientalisti locali, la lettera di protesta e opposizione inviata, già prima, da una trentina di professori del Politecnico di Milano.
Invece, sui monti di Bormio e della Valtellina, gli alberi sopravvissuti allo sterminio del 1985 voluto per favorire i campionati del mondo di sci, furono abbattuti grazie al nuovo campionato. Come prima la sinistra, è il centrosinistra ad aver rilasciato il decreto di morte.
-L’urbanistica sarebbe una cosa, i beni culturali sarebbero tutt’altra. La nuova normativa non scandalizza l’opposizione politica. Si mobilitano gli urbanisti “buoni” sollecitati da Vezio De Lucia, ma persino il nuovo presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica, neo-liberista, critica la legge delega per l’ambiente. La sinistra sembra non accorgersi che la nuova legge urbanistica Lupi è pensata al servizio degli imprenditori e speculatori privati. Anzi, nel centrosinistra sotto sotto non mancano consensi e compartecipazioni al progetto. “La forte integrazione fra urbanistica e tutela paesistica” (Fabrizio Bottini), negata dalla legge Lupi, appartiene alla migliore tradizione dell’urbanistica italiana dagli anni Trenta.
I nostri amici della politica non ne sanno nulla. La nuova legge, sostenuta esplicitamente da alcuni dei Dl e non ostacolata decisamente dalla sinistra, ha ottenuto l’approvazione silente della Camera. Spero che le vicende preelottorali costringano a rimandarla alla prossima legislatura. Vedremo.
-Un gruppo di urbanisti, professori universitari, ambientalisti, allarmati per il temuto destino di Baia Sistiana, scrivono al presidente Riccardo Illy e al sindaco di Duino Aurisina Giorgio Ret. Chiedono per l’immediato: negare ogni ripresa dei lavori alla cava di pietra, accantonare qualsiasi progetto di intervento nel luogo e nel contesto territoriale, avviare le procedure per conseguire il vincolo di inedificabilità totale e di conservazione assoluta della situazione paesaggistica esistente.
Sappiamo ora che né la Regione né il Comune hanno abbandonato l’alleanza con le imprese per realizzare l’orribile insediamento turistico-residenziale con relativo porto. Solo il WWf e Italia Nostra non mollano, ricorsi e controricorsi al Tar, campagna di stampa, mobilitazione incessante. Pensate a cosa costringe la condivisione del potere: i verdi friulani, alleati di Illy, hanno dovuto sostenere sempre la bontà dell’iniziativa.
-“Turismo inquinante”, Carla Ravaioli rompe un tabù cui soggiace da sempre anche la sinistra. La quale nel corso dei sessant’anni dal dopoguerra non è riuscita a delineare una chiara visione del problema turistico diversa da quella trionfalista e populista dei governi; del resto non è stata capace di costruire una propria politica nazionale riguardo a territorio città pianificazione. Distinzione della sinistra e del centrosinistra a scala locale? Troppe amministrazioni comunali e regionali hanno permesso anche loro vasti dissesti territoriali dal momento che non si volevano creare ostacoli alla ricca domanda.
Oggi tutto va avanti come sempre. Anzi, il forte decisionismo concesso a presidenti, sindaci, giunte dalla legge sui poteri locali di anni fa ha leso il diritto ai controlli democratici dei vecchi consigli; e il fascino del potere politico-amministrativo semi-assoluto ha talora travolto gli enti nella collusione con gli speculatori immobiliari.
-In evidenza la domanda: quale cultura possiede e trasmette il Pds? E quale la sinistra detta radicale, alias Rifondazione comunista? Osservatori che ragionano secondo una visione ampia dei problemi sociali e ambientali notano l’inadeguatezza culturale dei politici presunti di sinistra cui affidare il proprio consenso. La denegata politica culturale del Pci, si domandano, non contava molto di più entro il divenire sociale del paese e non aveva permesso di superare il modello del moderatismo e confessionalismo democristiano?
I nostri amici politici, presumendo di collocarsi nella modernità, si lasciano incantare da “sviluppo!”, “crescita!”, “sviluppo sostenibile”!: nauseanti nominalismi che vediamo ancor oggi coinvolgerli in discussioni economicistiche nulla c’entranti con la necessità di indicare una prospettiva riferita, anziché alla fuorviante aritmetica del Pil, all’effettiva diffusione di una buona qualità dell’esistenza per tutti.
-Estesi timori che l’opposizione, sinistra compresa, non colga la vera portata distruttiva del programma governativo, già in via di realizzazione, che definisce l’impiego delle enormi risorse di beni culturali e ambientali, ovunque esse si manifestino, per creare posti di lavoro, aumentare la ricchezza, distribuirla, così mentono. Dunque, crescita degli investimenti in infrastrutture, strade autostrade porti turistici, in impianti sciistici, alberghi, attrezzature di spiaggia, poi espansione di servizi commerciali nei musei, nei teatri, nelle grandi stazioni, e via via secondo un elenco infinito di iniziative private (e di privatizzazioni), da sostenere in quanto di "necessità" pubblica o da premiare attraverso concessioni a buon mercato. Collateralmente, inoltre, nuovi favori all’ulteriore proliferazione di case per vacanze e fine settimana, approfittando della scappatoia offerta dalla definizione di residence house.
Sentiamo il vagito del 2006 ma non ancora il rumore di una protesta montante e di una battaglia ad armi pesanti del centrosinistra per impedire il sacrificio dell’ultimo pezzo di ex Bel Paese. Solo sporadici moti di sorpresa, come da increduli di fronte a un avvenimento troppo sconvolgente per essere vero.
-Vezio De Lucia ricorda l’incessante lotta del Wwf e di Italia nostra nella difesa dell’ambiente: come quello speso a suo tempo per impedire la costruzione nella già sanguinante Ravello dell’auditorium niemeyeriano. Purtroppo vale la notizia circa la probabile fattibilità dell’intervento, gloriosamente condivisa anzi acclamata da Legambiente, il movimento finanziato dal ministro Matteoli, guarda caso alleato di un folto gruppo di entusiasti alleati del sindaco e di Bassolino (!), tutti sprezzanti verso la questione primaria della illegalità della costruzione.
Non mollano la presa, i nostri amici triestini del Wwf e Italia Nostra. Per parare eventuali colpi a sorpresa dei nemici della Baia di Rilke a Duino-Sistiana (la Regione illyana, il Comune di centrodestra e le imprese edilizie) hanno presentato un documento straordinariamente preciso al Commissario dell’ambiente della Commissione europea, chiedendo, di questa, l’intervento decisivo per salvare l’integrità di un Sito qualificato come di importanza comunitaria.
Ugualmente, a muoversi subito, alla fine del 2003, contro il Piano territoriale comprensoriale del Napoletano, fautore dell’edificazione per quasi metà dello spazio agrario e voluto dal centrosinistra, erano stati il Wwf e Italia Nostra, insieme a Gaia, Coldiretti e all’agronomo Antonio Di Gennaro.
-Ultimo gioco di parole promosso da Legambiente (il gruppo sospettabile giacché riceve finanziamenti dal ministro Matteoli), condiviso dall’ingannato, evidentemente, Giovanni Valentini e non dispiaciuto agli sviluppisti di sinistra: da una parte starebbe lo sviluppo sostenibile, dall’altra l’ambientalismo sostenibile! Spiegano: l’ambiente, la natura devono poter sostenere lo sviluppo prodotto dall’uomo, l’uomo deve poter sostenere l’ambiente e la natura troppo intatti, troppo invasivi, privi di umanizzazione (non sanno che non c’è al mondo un metro quadro di paesaggio non umanizzato?).
Ecco, di nuovo, è una cultura dialettica che avrebbe potuto insegnare ai nostri la giusta posizione svelatrice di una tale assurdità. Invece sembra che ne accettino le conseguenze, culturali e applicative.
-Nuove discussioni in merito alla questione giovanile. Per Giorgio Bocca, un mondo che ha cancellato anche la bellezza difficilmente avrà “un futuro accettabile”. C’è un presentimento di rovina. Ma “ai giovani questo mondo brutto può anche andar bene: si spostano di continuo, non fanno neanche tempo a vederlo, il loro mondo è fatto di cartelli che sfilano veloci. Siamo noi vecchi a vederne la irreparabile rovina… La gioventù è forte e avida di vita, digerisce tutto, mangia panini osceni e butta giù gazzose”.
Un grande partito come il Pci comprendeva un corposo settore giovanile. Insomma, i giovani di sinistra agivano politicamente come giovani, loro problemi loro specificità, e come uomini e donne appartenenti a una linea politica generale. Tutto questo, all’inizio del 2006, pare preistoria, mito. L’estraneità dei giovani dai partiti e, tutti lamentano, dalla stessa politica, non è essa stessa causa della mancanza di progetto sociale futuribile? Pasolini, scrivendo intorno alla condizione italiana dei primi anni Settanta, riconobbe che “gli unici che si battono ancora per una cultura e in nome di una cultura, in quanto si tratta di una cultura ‘diversa’, proiettata verso il futuro, e quindi al di là, fin da principio, delle culture perdute (quella di classe, borghese, e quella arcaica, di popolo) sono i giovani comunisti. Ma per quanto potranno difendere ancora la loro dignità?” (in “Corriere della Sera”, 1° agosto 1975). La risposta l’abbiamo avuta.
-Evidenza in Eddyburg del problema energetico. Curiosità: Edo Ronchi, responsabile della “politica della sostenibilità” [ma cos’è questa pds?], ritiene irrilevante l’impatto sul paesaggio delle macchine per la produzione di energia eolica poiché tanto, dice, di bei paesaggi non ce ne sono quasi più; così provocando l’irritazione di Vittorio Emiliani, il presidente del Comitato nazionale per la bellezza. Ingenuità, se non sprovvedutezza di Ronchi. Il paese ha mangiato in gran parte se stesso, ma bisogna preservarne a ogni costo gli avanzi buoni, difenderli dalle pretese sviluppiste reclamanti eccessivo impiego di energia e dunque proliferazione di impianti stravolgenti gli equilibri del territorio e dei paesaggi.
A ogni modo il primo punto di un progetto di sinistra per l’energia deve consistere nel risparmio energetico. Poi, parole chiare sui diversi sistemi, a partire dalla esclusione di un ritorno alle centrali atomiche.
-L’energia tiene banco. Non si può accettare così a lungo la mancanza di un piano energetico nazionale: quali fonti, quale calcolo del fabbisogno, quale attuazione accelerata del risparmio. Spreco significa consumo inutile; si lasci agli economisti (personaggi ormai pericolosi) di perorare più consumi, sempre più consumi per risolvere la crisi produttiva. Idioti. Dovrebbe essere per prima la sinistra, una volta madre del principio di pianificazione, a prospettare strategie. Per i liberisti è il caso a provvedere alle soluzioni; ma il caso corrisponde al dominio del profitto anche truffaldino, della rendita fondiaria ed edilizia, del lucro esoso commerciale.
Ad ogni modo è in causa anche il destino del territorio. Ugualmente il problema dello smaltimento dei rifiuti e degli scarti, a partire dalla diminuzione del consumo giornaliero: ambiente, urbanistica, piano e progetto dei luoghi vi sono implicati strettamente. Lo scontro nel Pds toscano in merito a un termovalorizzatore preteso dai compagni di Firenze e rifiutato da quelli di Campi Bisenzio la dice lunga sull’arretratezza di elaborazione anche a sinistra.
Oggi, 1.1.2006, niente di nuovo sul fronte.
-Sconcerto e rabbia fra le persone di sinistra ingenue. D’Alema sembra apprezzare certi intriganti finanzieri speculatori scalatori: dai loro affari, dice, conseguirebbero anche effetti positivi poiché produrrebbero in ogni caso plusvalenze. Come se quelli le investissero in progetti utili al paese anziché intascarle volgarmente, o impiegarle in ulteriori oscure manovre oppure direttamente nell’appropriazione territoriale e urbana. E al fisco pagano al massimo solo il 12,5%. Una volta la sinistra, con tutto il suo forte peso, era ostile alle rendite, soprattutto fondiarie ed edilizie, e criticamente attenta alla qualità dei profitti da produzione industriale. Ora, mentre la decadenza dell’industria italiana è forse giunta al punto di non ritorno, sembra non esserci più alcun ostacolo alla completa presa del potere di finanzieri troppo spregiudicati e, soprattutto, di immobiliaristi e di costruttori di cose inutili e …distruttive. Un Ricucci, immobiliarista sconosciuto fino a meno di due anni fa: come può impegnarsi nello stesso momento a scalare Ambronveneta, Banca nazionale del lavoro, Rizzoli Corriere della sera?
Siamo agli ultimi atti di una storia di pene infinite inflitte al territorio nazionale. Edoardo Salzano, a proposito delle lunghe battaglie degli urbanisti di sinistra per difenderlo, scrive: “abbiamo perso”. D’altronde: per Pasolini la situazione ambientale italiana era già disastrosa alla fine degli anni Cinquanta, il film di Francesco Rosi Le mani sulla città risale al 1963, l’invettiva dell’ingegner Martuscelli circa il disfacimento del territorio nazionale compresa nel documento-denuncia relativo alla frana di Agrigento al 1966.
Gli immobiliaristi colgono l’ultimo vento che soffia sulle città e sul territorio aperto residuale, costituiscono alleanze, si assicurano il legame con gli architetti internazionali, aspettano l’inevitabile chiamata; anzi, confortati dalla legge urbanistica in approvazione, si muovono prima e sottopongono il fare e l’affare agli amministratori, nuovi presidenti di Regione, nuovi sindaci e i nuovi presidenti di provincia. Questi, con le loro giunte cui appartengono anche presunti tecnici non eletti chiamati direttamente, godono del potere personale e oligarchico concesso da una legislazione (con quell’incredibile premio di maggioranza) che la sinistra ha avallato in omaggio al mito della stabilità governativa. I consigli degli eletti non contano nulla. Le piccole minoranze diventano patetiche. Ma ora che le amministrazioni sono in gran parte in mano al centrosinistra… Ebbene, quanto al nuovo decisionismo, quanto al fare e disfare nella città e nel territorio fuor di ogni piano, di ogni regola urbanistica, sulla base dei desideri e delle proposte dei padroni dei terreni e delle aziende di costruzioni, le differenze di comportamento non sono sempre evidenti.
…E, negl’ultimi giorni dell’anno, ci siamo sentiti di nuovo come disorientati, benché non fossimo così inesperti da credere in un effettivo ripensamento di un D’Alema, per il coinvolgimento suo e di altri massimi dirigenti del Pds in casi di finanza incauta. Dobbiamo rivolgerci al bravo Scalfari (31 dicembre) per leggere un richiamo alla figura di Berlinguer, alla sua supremazia morale. Purtroppo la speranza che i nostri lo ascoltino, il richiamo, è molto tenue.
-Notizie da Baia di Sistiana minacciata da una “nuova Portofino”. Eccezionale determinazione di Wwf e Italia Nostra triestini nei confronti degli amministratori, dei tribunali amministrativi, delle procure. Le autoritarie autorità regionali e comunali non sono riuscite ancora a completare il loro inciucio edilizio con l’immobiliare Santi Protaso e Gervaso e Santa Sistiana. Il progetto dell’insediamento turistico non è stato mai proposto alla discussione pubblica, si sono visti rendering dimostrativi dell’orrore urbanistico e architettonico. Illy dichiara di aver ottenuto (in segreto!) modifiche che renderebbero, secondo lui, il progetto “compatibile”, ma si rifiuta di sottoporre ad altri una fantomatica ultima versione.
Il solito potere locale sprezzante. Ora la Baia di Rilke è ancora salva; ma in Italia i promotori dei massacri ambientali sanno aspettare, hanno pazienza, tanto più quando trovano gli alleati fra chi dovrebbe contrastarli…
-La nuova legge urbanistica reazionaria passa alla Camera per azione comune di Forza Italia e Margherita, assente, disinteressata, o forse appartata e consenziente, una sinistra che dovrebbe distinguersi nell’analisi sociale-territoriale e nella pianificazione urbanistica pubblica per l’interesse della comunità. Tante nuove amministrazioni di centrosinistra: sembrerebbe una bella fortuna che siano esse a decretare il destino del territorio e della città. Invece non è affatto chiara la linea divisoria fra politiche urbanistiche di destra e di sinistra, fra i comportamenti delle amministrazioni di opposto colore. Che l’urbanistica non possa essere né di destra né di sinistra è un falso principio enunciato dai falsi liberali per giustificare lo sfasciamento del paese avvenuto grazie, appunto, ad azioni da noi ritenute di destra anche se effettuate talvolta da governi locali nominalmente di sinistra.
Sta scadendo per l’Unione il tempo di presentarsi apertamente agli elettori con un progetto contraddistinto dalla differenza in ogni campo, urbanistica esplicitamente compresa, non tanto dall’inesistente progetto della Cdl quanto dalla realtà dovuta alla sua quinquennale opera. Ma, circa l’urbanistica, come fidarsi dopo l’inghippo sulla legge Lupi?
-A Milano l’amministrazione comunale procede ad assegnare fior di luoghi a imprenditori/imprese e a loro servili architetti “internazionali” per realizzare le “nuove Milano”, colossali interventi fitti di metri cubi, di grattacieli, di infrastrutture, e poveri di parchi. Il sindaco si vanta di poter esibire nomi risonanti di autori che, poi, di Milano non sanno nulla. Così vanno le cose in questa città irriconoscibile rispetto alla sua storia sociale e architettonica. La sinistra ha contestato fino a un certo punto, anzi, in merito a questi interventi non ha saputo distinguersi, come non si era distinta al momento della rivoluzione fondiaria ed edilizia alla Bicocca sulla base del famoso accordo fra Tronchetti Provera/Pirelli e il Comune, chiara anticipazione dei meccanismi liberisti previsti dalla legge Lupi.
È bene ricordare che il sindaco diessino di Firenze, forse geloso del sindaco milanese forzista e delle previste opere di regime “firmate”, oltre un anno fa annunciava orgogliosamente la “svolta” nella politica urbana, “con l’arrivo di grandi progettisti, da Norman Foster a Jean Nuovel”. Ma…”sono ben quarantasette i comitati sorti a difesa del centro storico e di aree verdi minacciate” (Francesco Erbani, L’assedio degli architetti, Repubblica 20.11.04). E il dibattito democratico? E la ricerca del consenso? E il compito della sinistra per restituire la città rapita dagli speculatori e affaristi ai suoi veri cittadini?
-Esplode sulla stampa una nuova attenzione al problema della casa: riguarda le famiglie che non solo non possiedono un’abitazione propria ma nemmeno ne trovano una in affitto per un canone accettabile. Grande corteo di inquilini a Roma. Risuonano vecchi slogan sulla casa come diritto se non servizio sociale. Il sindaco della decima circoscrizione comunale viene sottoposto a indagine giudiziaria perché requisisce case a Cinecittà per fronteggiare l’emergenza della quale, dice, poco si occupa la politica. Il sindaco Veltroni sembra sorpreso. Un problema che riguarda una minoranza? Sì, ma nel paese le famiglie in difficoltà sono cinque o sei milioni.
La “questione delle abitazioni” ha da sempre richiamato l’elaborazione teorica e l’impegno sul campo della sinistra. Ma la diffusione della proprietà della casa, dapprima lenta poi quasi precipitosa, dimostrazione della necessità delle famiglie di proteggersi col primario bene rifugio dalle difficoltà vitali, ha prima diminuito poi quasi cancellato l’una e l’altro. Al contrario, la sinistra deve riappropriarsi del ruolo perduto e guidare la ricerca della soluzione in senso pubblico del problema, a partire dalle città dove partecipa all’amministrazione o dove incalza i sindaci con una forte opposizione. (Nelle metropoli come Milano e Roma ci sono addirittura migliaia e migliaia di Homeless, figura prima sconosciuta se non nella veste dei pochi barboni milanesi che sembrava creata apposta per poter essere protagonista in belle canzoni di Jannacci).
- Il moto popolare valsusino, forte di un’inaspettata unità e di molte ragioni sociali, ambientali e urbanistiche contesta la ferrovia ad alta velocità Torino Lione (un ventennale sconvolgimento del territorio e della vita) quale scelta sbagliata nel quadro dei progetti e degli interventi prioritari.
Buona parte della sinistra, confondendo, evidentemente, il giusto primato da assegnare al “ferro” avverso alla “gomma” con l’opportunità di non discutere comunque le opere “ferrose”, sembra non sapere che non può, non deve imporsi un’opera siffatta in un paese che: 1) ha continuato ad abolire o a sotto-utilizzare al limite della cancellazione normali ferrovie ritenute secondarie, bollate con la stupida e pretestuosa definizione di “rami secchi”; 2) che negli ultimi dieci anni ha menato colpi di scure su tutta la rete considerata principale, tagliandone parti, chiudendo stazioni, massacrando quelle grandi storiche mediante orribili interventi di commercializzazione degli spazi, gettando la conduzione dei treni – salvo la guida – nelle mani di pochi poveri giovani precari; 3) che ignora di detenere tratte fondamentali della rete dotate di un solo binario, e altre non elettrificate lasciate, come una qualunque strada, all’impiego di vecchi motori diesel.
Vogliamo che la sinistra trovi unità attorno a un programma appunto di sinistra per le infrastrutture di trasporto che vuol dire, per esempio in merito alle ferrovie, dedicarsi primariamente e risolutivamente alla drammatica situazione di cui ai tre punti qui indicati.
- “Distorta filosofia” della destra in materia di territorio, rendita, urbanistica condivisa nella sinistra (Salzano). Forse troppi dirigenti alti e bassi rappresentano una mutazione genetica rispetto ai caratteri degli antenati; così sono in linea coi tempi e i comportamenti producono effetti omologanti il modello di società dominante. Da anni, riguardo al tema città/territorio/pianificazione urbanistica si notano posizioni a sinistra noncuranti del rapporto con la questione sociale e, quindi, della necessità di contrastare i padroni privati del territorio, i manovratori del mercato fondiario ed edilizio. Una sorta di revisionismo edilizio-urbanistico ha portato all’accettazione di violazioni di leggi e norme, alla mancanza di un’opposizione incondizionata al massacro ambientale del paese.
Tutto questo pare coerente al generico revisionismo storico dichiarato dai massimi dirigenti del Pds. Fassino nel suo Passione cerca di sminuire la figura di Enrico Berlinguer, Violante riconosce ai fascisti di Salò ugual diritto che ai partigiani di essere celebrati quali combattenti leali, ancora Fassino accusa la sinistra di doppiezza nel caso delle foibe e D’Alema deplora l’uccisione di Mussolini. Infine, le confessioni di appartenenza alla fede cattolica o il desiderio di meditarvi.
Allora, speriamo nella revisione del revisionismo.
- Bella discussione in eddyburg nello scorcio d’anno su Pil, crescita, sviluppo… parole incomprensibili se rapportate a determinate situazioni reali delle persone e dei popoli. Criticare i modelli che rappresentano, dire parole diverse, dichiarare significati opposti: decrescita, benessere sociale, qualità di vita… Disvelare l’inganno di locuzioni assurde, insensate come quella di “sviluppo sostenibile”. E’ solo il famoso “pazzo oppure economista” di Kenneth Boulding che può credervi.
Lodo Meneghetti
Capodanno 2006
La sviluppite – forma malata dello sviluppo - è una malattia ben definita ma difficile da curare visto che il malato sviluppitico non sa d’essere malato e fugge dagli accertamenti. La sviluppite, come molte malattie, è democratica e non fa distinzioni. Così colpisce maschi e femmine, ricchi e poveri, individui di destra e di sinistra senza dimenticare quelli di centro.
L’unico farmaco attivo ad oggi – ma è una cura dolorosa come quella di Pinocchio – consiste nella somministrazione di un vincolo al giorno. Però è una cura lunga e alle volte ci vuole un ricovero forzato che però produce, si è visto, buoni risultati. Insomma sono essenziali i vincoli precoci e addirittura anche vincoli preventivi. Ma, alle volte, la malattia resiste alla cura e diventa cronica.
La terra sulla quale camminiamo è tutta ricoperta da vincoli, perfino quella sommersa.
Davanti ad un vincolo, la parte primitiva dello sviluppitico si ribella. Lo sviluppitico non vuole cure, prescrizioni, norme e regole.
Senza regole contro lo sviluppismo si è cercato di vivere nell’isola per molti anni e senza regole la vita sembra a molti più comoda. Ma è solo apparenza, un’illusione da Lucignolo che si prende un piccolo piacere subito e dopo sta male per sempre.
In una forma preoccupante si sono ammalati alcuni nostri borgomastri i quali continuano a considerare il mondo intorno come una cornucopia inesauribile.
E così perseverano nella svendita della loro terra sopra la quale sono nati e camminano, accettano forme di elemosine, continuano a violentare le coste ma non trascurano l’interno.
Balascia, massiccio del Limbàra,è un luogo di bellezza straordinaria. Bene, il sindaco di Oschiri, e la giunta sviluppista che lo sostiene, hanno ceduto una parte del monte - che dovrebbe essere sacro per chi lo abita - ad un’impresa dal nome verdissimo: enel green power. Hanno perfino scomodato il trattato di Kyoto ( ma se ne sono impipati della valutazione d’incidenza ambientale ) e permesso che tonnellate di granito venissero triturate. Hanno sventrato un’enorme superficie al solo scopo di costruire basi di cemento ciclopiche per un numero mostruoso di pale eoliche da installare in uno di luoghi più belli dell’isola. Tutto questo per un contratto di vent’anni. E in cambio hanno ottenuto 40.000 euro l’anno per i primi otto anni e poi 20.000 per gli altri dodici. Inoltre l’1,5 percento del valore dell’energia prodotta ammesso che se ne produca qualche chilowatt. Un’elemosina, appunto. Balascia ha un valore incalcolabile e Oschiri vende un suo pezzo per una manciata di monete. Posti di lavoro? Nessuno. Vantaggi? Solo danni irreversibili e il paesaggio mistico del monte alterato per sempre. Eppure è la loro terra, la stessa che li seppellirà e sotto la quale riposeranno in eterno.
Però le orride pale non sono ancora in piedi. Hanno perforato il monte, questo sì, ma le pale non ci sono ancora perché un tribunale le ha fermate.
Ecco un esempio di sviluppite che può guarire – salvo ricadute - con l’uso delle norme, in giusta posologia e debitamente somministrate. L’energia si può ricavare dal vento, certo, ma secondo le regole.
Le norme inducono alla riflessione e contengono in sé un effetto educativo duraturo che può condurre lo sviluppitico alla coscienza dell’errore. Questo ci auguriamo per il primo cittadino di Oschiri: la guarigione. Allora, risanato, salirà sulla cima del Limbàra, ascolterà il rumore del vento, contemplerà la meraviglia dei graniti del suo monte dopo avere coperto le voragini che ha fatto aprire e scriverà il suo “Infinito”.
La vicenda delle pale eoliche ad Oschiri è solo un esempio, ma è un paradigma.
L’isola, si sa, è assediata da grandi capitali che arrivano da altri mondi e da piccoli capitali locali, forse più affamati dei primi. L’isola è in pericolo per una visione aziendale del mondo, pericolosa nella testa di un popolo come il nostro che arriva dritto da genitori contadini e pastori. Un’idea che prevede un “efficace ed efficiente” sfruttamento del paesaggio.
E pensare che dall’impresa dovrebbe provenire la filosofia di una crescita che dura. Dovrebbe proprio l’impresa pensare uno sviluppo che non si esaurisca nello sfruttamento feroce della terra e delle acque proprio perché l’impresa sa bene che se finisce la propria “riserva” e se la costa diventa un unico lungo albergo vuoto e l’interno un deserto cosparso di pale eoliche e di paesi svuotati, arriverà il momento nel quale la stessa impresa non avrà più nulla da fare. Allora, come si dice, si delocalizzerà. Se ne andrà da altre parti, insomma, e abbandonerà l’isola ad un destino drammatico. Disoccupati, senza scuole, senza trasporti, senza economia e senza nessun futuro.
Proni, poco alfabetizzati, privi di orgoglio e di ragionevolezza, perfino vergognosi delle nostre origini, abbiamo accettato un modello di società a termine, a brevissimo termine. E abbiamo eliminato – con poche eccezioni – la nostra memoria salvo limitarla ad alcuni aspetti, solo apparenti, del passato che duplichiamo in modo artificiale e ossessivo. Noi non siamo quelli che riproduciamo nei nostri depliant.
Non c’è neppure una spiegazione affaristica all’esempio che abbiamo appena fatto, non c’è un guadagno che lo spieghi. Non arricchiscono Oschiri le ventidue pale di Balascia. Ne avrebbe vantaggio di certo la enel green power che ha un nome seducente ma non verdissimo. Si produce un danno che non ha speranza di essere riparato, non si fa bene a nessuno, non si crea neppure lavoro ma soltanto dolore per chi vede la propria terra scomparire dalla vista e dalla memoria. E chi perde il proprio paesaggio - per dolo o per stupidità le conseguenze non mutano - subisce un’amnesia tragica che lo porterà ad un’inevitabile, eterna e spaesata povertà.
Comparso in forma di articolo su La Nuova Sardegna del 14 novembre 2005
I materiali predisposti per il Programma dell'Unione sono noti, anche se distribuiti su scenari diversi per qualità e orientamento, in qualche caso molto diversi. Tutti però (di questo vorrei discutere) con una caratteristica comune: non poche delle politiche di cui si promette la messa in opera di fatto non sono praticabili. Certo molti dei provvedimenti previsti, spesso da più parti, sono non solo necessari ma anche possibili. Cancellare massima parte delle riforme Berlusconi, da quelle spudoratamente ad personam alle tante altre che offendono costituzione e democrazia; chiudere i Cpt e provvedere in modo meno infame a quella che impropriamente viene definita «accoglienza» dei migranti; impegnarsi seriamente contro l'evasione fiscale e perfino recuperare una qualche progressività dell'imposizione; impegnarsi a che scuola, ricerca e cultura ritrovino efficienza e dignità adeguate alla rilevanza della loro funzione; riorganizzare l'amministrazione della giustizia e abbreviare processi di lunghezza vessatoria; ritirare le nostre truppe da Iraq e Afghanistan.
Tutto questo un governo di buona volontà può farlo. Ma cose ben più impegnative si vanno variamente auspicando e promettendo: sconfiggere precarietà povertà disuguaglianza, promuovere occupazione, equità, solidarietà, coesione sociale, aumentare salari pensioni servizi; qualcuno va oltre, e parla di un'altra idea di sviluppo, di superamento del mercato, di una diversa economia. Mi pare necessario domandarci quanto queste cose abbiano possibilità di essere realizzate oggi in Italia.
La precarietà è ormai uno dei principali strumenti usati dalle imprese per competere e sopraffarsi nella gran guerra dei mercati planetari; la progressiva cancellazione dello stato sociale è obiettivo dichiaratamente perseguito dagli alfieri del neoliberismo; povertà e disuguaglianza sono apertamente teorizzate come la più efficace molla di competitività e crescita produttiva. Queste dovunque sono oggi le regole.
Il dettato neoliberistico
L'Italia è un piccolo territorio circondato dal grande mondo in cui giganteschi poteri economici furiosamente si affrontano con i mezzi di cui sopra, e al quale d'altronde essa stessa è strettamente legata: con la sua economia, del tutto obbediente al dettato neoliberistico, e col suo mercato che non si muove soltanto tra le Alpi e il mare nostrum. E' pensabile che, da sola, sia in grado anche solo di ridurre sensibilmente disuguaglianze e miseria? E l'interrogativo si fa più che mai cogente quando si nota che non pochi dei più ferventi sostenitori di solidarietà e giustizia (Prodi in testa) si contraddicono mostrandosi altrettanto ferventi sostenitori di crescita e competitività, e illustrando i modi ritenuti più acconci per «far ripartire l'Italia»: per dove, se non per la riconferma e il consolidamento del sistema dato, quello che appunto vive di precarietà, disuguaglianze, ecc.? Insomma è possibile, e quanto è utile, oggi proporsi - e promettere - mutamenti così sostanziosi nel proprio paese, senza uno sguardo alla realtà d'oltreconfine? E senza una strategia che si proponga di coinvolgere altri soggetti in un'azione di largo respiro e di percorsi comuni?
Facciamo l'esempio dei salari. Che vanno sostenuti per quanto possibile, tentando di avvicinarli ai migliori livelli europei, ma di cui temo sia difficile (non solo in Italia d'altronde) ancora a lungo affrontare le problematiche ignorando una situazione mondiale in cui il mensile di un nostro operaio è grosso modo sui 1.000 euro, quello di un cinese sta sui 100, quello di un nordcoreano spesso non supera i 10; mentre di continuo approdano ai nostri confini folle sempre più numerose di persone che nemmeno quei 100 o addirittura quei 10 euro riescono a mettere insieme. E' pensabile che tutto ciò non abbia ricadute sulle dinamiche salariali e occupazionali dei nostri mercati, e sul rapporto capitale-lavoro nel suo complesso?
Oppure il capitolo ambiente. Materia che dalla maggioranza dei nostri politici continua a essere ritenuta del tutto marginale, come la campagna per le primarie ha confermato: vedi Prodi che nella sua brochure elettorale l'ambiente si limita a citarlo, e non come problema ma come risorsa, da sfruttare al meglio. Per lo più comunque gli impegni annunciati in proposito non vanno oltre trattamento dei rifiuti, risanamento di fognature, rimboschimento e riassetto del territorio, ricerca per le energie rinnovabili: provvedimenti necessari, spesso importanti, e questi sì anche praticabili (come già da tempo accade in gran parte d'Europa).
Rivoluzione ecologico-sociale
Ma chiunque sappia qualcosa di ambiente mai direbbe che questa sia la via per superare la crisi ecologica planetaria, arrestare lo scioglimento delle calotte polari, ridare acqua al Rio delle Amazzoni inaridito, ridurre il numero e la violenza di tifoni e alluvioni. Già perché curiosamente, mentre in fatto di questioni sociali spesso si ascoltano ipotesi di una radicalità che non può alla fine non risultare mera demagogia, rispetto alla minaccia della catastrofe ambientale non sembra si riesca a immaginare più che inceneritori e mulini a vento. Secondo un'asimmetria di giudizio e di progetto, che non può non denunciare la debolezza complessiva della politica di sinistra. Ma ciò che sembra mancare è l'esatta percezione della gigantesca trasformazione del mondo verificatasi negli ultimi decenni, la quale investe, coinvolge e porta a dimensione planetaria anche situazioni e problemi interni a ciascun paese, riducendoli a questioni del tutto fuori misura rispetto alle capacità di intervento dei singoli governi: ormai divenute illeggibili con gli alfabeti di sempre, resistenti alle politiche consuete, cioè ingestibili isolatamente.
Non so se constatare che nemmeno le sinistre straniere sembrano in grado di produrre politiche più brillanti, possa consolarci. Specie se si considera che fuori dalla politica «professionale» sono ormai sempre più numerose le voci che parlano della necessità di una grande rivoluzione ecologico-sociale, capace di rifiutare di netto il paradigma neoliberista per sostituirlo con una diversa visione del mondo, e assumere in un'unica prospettiva l'impegno per arrestare la doppia minaccia sociale e ambientale. Voci che quanti reggono i governi non sembrano nemmeno udire. Miopie, egoismi, rigidezze nazionalistiche sopravvivono nel mondo globalizzato (acutamente ne parla Ulrich Beck in Lo sguardo cosmopolita, Carocci 2005) mentre convivono con un cosmopolitismo dal passo sempre più veloce, integrandone più o meno passivamente l'azione molteplice, i vantaggi e il danno, ma ignorando la rete di interdipendenze secondo cui alcuni problemi non possono ormai che essere problemi del mondo. Anzi lo sono già. Accade così che terrorismo, natura sconvolta, povertà in aumento, banlieues in fiamme, migrazioni bibliche, lavoro sempre più esosamente sfruttato, guerra normalmente usata come strumento economico, tutti i problemi la cui magnitudine e terribilità più accusano il mondo, restano senza soluzione possibile.
La sinistra europea
Per qualche tempo da più parti s'era guardato all'Europa come al soggetto forse capace di mettere a segno qualche risposta a queste non più eludibili urgenze. L'Europa, patria del capitalismo ma anche del socialismo, responsabile dei peggiori eccidi perpetrati nella storia ma anche produttrice di una parte senza dubbio pregevole della cultura umana, sul rifiuto della guerra nata all'unificazione, forse - si pensava - avrebbe potuto farcela. Anche i giovani dei movimenti ci avevano creduto. Purtroppo l'Europa d'oggi, tra le pastoie di una burocrazia farraginosa e ottusa e i vincoli di un economicismo acriticamente appiattito sul dettato neoliberista, non incoraggia ottimismi. E però circa un mese fa ad Atene ha svolto il suo primo congresso il partito della Sinistra europea. Ne fanno parte diciotto sinistre che, ormai del tutto sganciate da nostalgie veterocomuniste, altrettanto decisamente rifiutano il piccolo riformismo delle socialdemocrazie, e chiedono altro. La Dichiarazione pubblicata al termine dei lavori afferma tra l'altro la necessità di «un nuovo modello di produzione, distribuzione e consumo». Non male, come inizio. Proviamo a sperare?
Articolo pubblicato da il manifesto il 3 dicembre 2005
Ho partecipato di recente a un convegno di economisti, e non ho potuto tacere il mio stupore. Ho ascoltato e apprezzato con partecipazione gli sforzi di tanti studiosi di valore di immaginare un nuovo corso economico, non asservito alle vulgate dominanti, pensato per realizzare interessi collettivi e non per celebrare le magnifiche sorti della crescita. E tuttavia - ecco il mio stupore - in tante dotte ed anche appassionate elaborazioni nessuno si è ricordato dell’esistenza dell’ambiente. La rimozione del nome e della nozione della natura è stata totale.
Ora, voglio precisare che qui non rivendico la menzione ad honorem di un problema. Ormai all ’evocazione del tema ambiente, in qualunque circostanza pubblica, non rinuncia più nessuno. Non c’è, si può dire, discorso politico, da quello del capo dello Stato fino al sindaco del più minuto e sperduto paese, che non aggiunga il richiamo all’ambiente come componente corrente del proprio armamentario retorico.
Non è dunque questa la recriminazione. Nè rivendico la necessità di inserire il tema come un ingrediente necessario a completare un quadro di razionalità a suo modo completo. Non è il basilico necessario a rendere profumata l’insalata di pomodori. Solo l’enorme distanza che ancora separa alcuni saperi del nostro tempo - tra questi l’economia, oltre, naturalmente, la cultura media corrente - dai problemi e dalle conoscenze racchiusi nel temine ambiente, può indurre a percepirne la rivendicazione come il segno di una subalterna petulanza.
In realtà col termine natura e ambiente si evoca una diversa interpretazione dell’economia: più precisamente un suo più o meno completo capovolgimento. Quando si lamenta l’assenza di un qualunque orizzonte che includa le risorse naturali all’interno del calcolo economico si allude a un fatto oggi sempre meno occultabile: il processo di produzione della ricchezza non avviene soltanto grazie alla combinazione di lavoro e capitale. C’è un tertium, a lungo negletto, rimosso, che si chiama natura, risorse. Il linguaggio economico ha cancellato il ruolo e l’esistenza stesso di questo terzo soggetto, chiamandolo materie prime.
La realtà di quest’ultime viene esaurita in un costo, rappresentata e subito affondata nell’insignificanza di un prezzo. Ma oggi le materie prime disvelano la loro reale natura economica: esse sono in realtà risorse finite.Parti di un patrimonio che è esauribile. E tale realtà ha due esiti teorici di straordinaria portata. Essa, semplicemente, viene a imporre una verità, che dovrebbe già appartenere al senso comune: la crescita non può essere un processo infinito. Mentre al tempo stesso la finitezza delle risorse disvela il loro carattere di patrimonio comune dell’umanità. Il rame, il ferro, l’acqua, le foreste sempre meno appariranno proprietà e dominio dei privati e dei singoli Paesi detentori, e sempre più appariranno beni comuni universali, perché ad essi è affidata la sopravvivenza collettiva del genere umano. Risorse esauribili e proprietà privata diventano in prospettiva inconciliabili.
Di fatto, la grande maggioranza degli economisti continua ad ignorare questo terzo attore che è la natura, in parte perché l’esauribilità delle risorse è assunta come una questione dell’avvenire, e in parte per la fede implicita nella potenza dell’innovazione tecnologica che, prima o poi, troverà una soluzione alla finitezza delle materie prime. Per la verità tale fede ha trovato anche una formulazione teorica autorevole. Facendo la felicità degli economisti ambientali il premio Nobel Robert Solow ha valicato la misura del buon senso affermando: « non c’è in linea di principio alcun problema: il mondo può, in effetti, andare avanti senza risorse naturali». In realtà egli ha onestamente detto ciò che pensa la maggioranza degli economisti, quando pensa. E ha comunque dato formulazione ai comportamenti economici reali dominanti. Non ha avuto grandi difficoltà Mauro Buonaiuti a coprire di gentile scherno uno simile pretesa. "Se, come affermano i neoclassici, la funzione di produzione altro non è che una ricetta" egli ha scritto - allora Solow implicitamente afferma "che sarà possibile, riducendo la quantità di farina, cuocersi un pizza più grande semplicemente utilizzando un forno tecnologicamente più avanzato, oppure due cuochi al posto di uno" (M. Buonaiuti (a cura di ) Obiettivo decrescita, EMI, Bologna 2004, p. 26)
Tuttavia, pur avendo l’ambito teorico un’ovvia rilevanza, la riflessione deve essere trascinata sul terreno delle questioni concrete.Uno dei limiti di comunicazione dell’ambientalismo è sempre stato un eccesso di proiezioni dei problemi nel futuro, mentre la politica e l’economia vivono solo di presente. E’ facile che chi ammonisce sul deserto che rischiamo di lasciare alle nuove generazioni venga osservato come una petulante Cassandra. Ora è invece già oggi che il consumo di natura ai fini dello sviluppo mostra il suo lato irrazionale e distruttivo.E’ già oggi che la crescita economica è sempre meno produttrice di benessere sociale e sempre più dissipatrice di risorse scarse, generatrice di danni collettivi, di malessere reale.
Il caso più evidente che può esemplificare una tale situazione è quello che riguarda l’automobile. Nell’età dello sviluppo questo mezzo ha rappresentato simbolicamente e di fatto uno strumento di emancipazione, di movimento agevole nello spazio, di libertà individuale. Oggi una tale situazione appare esattamente rovesciata. Ogni nuova auto che entra nel mercato toglie un’ulteriore frazione di spazio a quello già ridotto oggi disponibile, rende più lento il traffico di una qualche unità di tempo, accresce l’inquinamento e il danno alla salute dei cittadini, dà il suo contributo alle piogge acide, accresce il danno agli alberi, agli edifici, e ai beni monumentali.E’ vero che una parte delle auto nuove svolge una funzione di sostituzione, con una sua utilità, perché attenua l’inquinamento. Ma essa non ferma l’aumento inarrestabile del parco macchine complessivo. Dunque, mentre è sempre più insignificante il soddisfacimento soggettivo e funzionale prodotto dal bene nel consumatore, appaiono sempre più crescenti le difficoltà e i danni sociali che esso scarica sulla collettività. L’automobile, d’altro canto, sempre più tradisce il suo fine originario, quello di accrescere la mobilità individuale sul territorio, anche in un altro modo.I suoi costi di acquisto e soprattutto di gestione sono infatti crescenti. Per una mobilità sempre più lenta, l’utente deve spendere sempre più in tassa di circolazione, assicurazione, parcheggio - chi ha girato in auto per le città americane o del nord Europa è bene informato - carburante, olio, riparazioni, sostituzioni di pezzi, multe sporadiche, ecc. Dunque egli è costretto a spendere una misura crescente di tempo di lavoro per poter godere di un mezzo sempre meno risparmiatore di tempo. Paradossalmente è costretto a rimanere fermo più a lungo al lavoro per poter pagare i costi crescenti della crescente immobilità del suo mezzo di trasporto.
Ma questa è solo una parte della riflessione. L’ industria automobilistica è la più vorace consumatrice di materie prime esistente al mondo.Secondo un calcolo della fine del secolo scorso tale settore assorbiva il 20% della produzione mondiale dell’acciaio, il 10% dell’alluminio, il 35% dello zinco, il 50% del piombo, il 60% della gomma naturale. E da questo calcolo sono naturalmente esclusi i cosiddetti flussi nascosti, una dimensione dei costi calcolata di recente dagli economisti ambientali. Noi siamo soliti infatti valutare la quantità delle materie prime nel loro stato finale di merce. Ma prima che esse divengano tali, in realtà, si realizza un processo nascosto e spesso grandioso di distruzione di natura vivente. Quando si consuma 1 litro di benzina occorre mettere nel conto 18 litri d’acqua necessaria per la sua depurazione. Per estrarre un q. di rame, o di un qualunque altro minerale, in realtà, si distruggono estesi territori, si alterano gli habitat circostanti, si consumano ingenti quantità di acqua, talora si inquinano fiumi, ecc. Finora, queste «esternalità» come le chiamano pudicamente gli economisti, non venivano considerate, perché i territori, la natura senza padrone, veniva considerata res nullius.
Naturalmente, questo genere di considerazioni vale per qualunque altra merce.Poichè i teorici dello sviluppo vedono nella crescita dei consumi un fattore della crescita generale della ricchezza, oggi occorre saper vedere quanta produzione di ricchezza fittizia e quanta distruzione di ricchezza reale si realizza, di fatto, attraverso l’atto del consumo. Valga per tutti l’esempio dei capi d’abbigliamento. C’è un consumo che appaia più innocuo ed economicamente positivo dei capi d’abbigliamento in cotone ? Eppure pochi sanno che l’uso di una maglietta ha alle spalle una lunga storia di inquinamento. Si comincia dai campi, dove il cotone, in quasi tutti i Paesi, riceve trattamenti intensivi di pesticidi - il 10% del totale consumato nel mondo - che inquinano le falde idriche, danneggiando fiumi e laghi, colpiscono la biodiversità delle campagne circostanti, consumano spesso ingenti quantità di acque, danneggiano gravemente la salute dei coltivatori. Ma anche quando è diventata materia prima, pronta per l’uso industriale, il cotone continua, in realtà, una seconda storia di degradazione di risorse, attraverso il consumo di acqua e la lavorazione chimica connessa ai processi di colorazione.
Dunque si comprende bene che il processo di produzione di merci non può più contare, com’è avvenuto sino a oggi, sulla rimozione dei costi fatti gravare sulla natura e sulla collettività.Un consumo sempre più forzato, artificiale e indotto, che distrugge masse crescenti di risorse naturali scarse, è una dissennatezza non più occultabile..E le dissennatezze - se mai il mondo sarà orientato da qualche senno - non andranno molto lontano.
Pil, crescita, sviluppo… parole finalmente in crisi d’impiego. Quantomeno messe in discussione quali rappresentative di modelli ritenuti incontestabili o fenomeni indubitabilmente positivi. Risuonano altre parole, contrarie, altri significati, oppositivi: decrescita, benessere sociale, qualità di vita… Il monologo ultra-liberista si è inceppato. I frequentatori di Eddyburg sanno (da Pierluigi Sullo) che il settimanale “Carta” e il mensile “Carta. Etc.” diffondono il pensiero di Serge Latouche, uno degli attuali sostenitori della decrescita, appunto. Ora possono leggere Piero Bevilacqua il cui articolo, L’economia conosce la natura?, li rassicura, se si sono liberati dagli incantamenti dello sviluppismo economico, l’insolente economicismo “naturalmente” distruttivo.Hanno potuto leggere qualche giorno fa nel sito la relazione di Carla Ravaioli alla presentazione dell’associazione Rosso Verde il 4 dicembre a Roma, dal titolo programmatico: La sinistra non vede il pianeta terra, un quadro delle gravissime conseguenze sociali, dei danni all’uomo e all’ambiente provocati da un capitalismo che si rispecchia nell’insensato “sviluppo sostenibile” che poi, penso, è a sua volta pena del taglione per i popoli vittime del sottosviluppo e dello scambio ineguale. La sconcertante acquiescenza del centrosinistra verso l’ossimoro s.s. è segno di arretratezza culturale dunque politica. Per questo preoccupa. La stupefacente intuizione di Kenneth Boulding, citata da Carla Ravaioli – “chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo oppure un economista”, in un testo parte di una raccolta collettiva uscita nel 1966 (!!) per la Hopkins University Press a Baltimora – è come un seme che dapprima ci pare non aver fruttificato per lunghi anni. Ma negli ultimi sembra che altri semi ne siano derivati, prima un brulicare disperso sotto la superficie percorsa in lungo e in largo dai topi saputi del neoliberismo, infine affiorati per unirsi con la vecchia madre in un globulo consistente che i topi hanno qualche difficoltà a rodere. Insomma, posizioni antagoniste si manifestano ognora di più e si tengono fra loro. Ancora. Lo storico Renato Monteleone ci offre una antologia dal titolo anch’esso emblematico, Il Novecento. Un secolo insostenibile. Civiltà e barbarie sulla via della globalizzazione (Dedalo 2005). Il vertice Onu di Rio, 1992, perorava per ecologia e ambiente uno sviluppo “sostenibile” quando l’intero secolo era trascorso senza che nessuno spiraglio si fosse aperto in questa prospettiva d’altronde falsa per definizione. Gli ossimori non sempre funzionano, anzi quasi mai. Torniamo al principio di Boulding per collegarci a un altro nodo del filo rosso che unisce i critici dello sviluppismo. Anche il biologo, fisiologo e biogeografo Jared Diamond ci avvisa che il nostro habitat è minacciato di distruzione; che stiamo perdendo le nostre limitate risorse; che siamo, noi moderni dei paesi ricchi, irresponsabili ignoranti consumatori-distruttori; che, se posso così esprimermi, ne facciamo di tutti i colori. Anche in questo caso il corposo libro, “una pietra miliare – scrive il recensore – che non potrà essere ignorata” (Einaudi 2005, originale 2004), ci investe con un titolo ben chiaro, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere. A essere sostenibile non può essere lo sviluppo bensì la decrescita. In una intervista Diamond, al consueto ammonimento di non cadere, rivolgendosi alla gente, nel cosiddetto effetto Cassandra, sbotta in una risposta stupenda: “ma vede, in primo luogo Cassandra aveva ragione...”. Il recensore (il geologo Mario Tozzi, in “L’indice” n. 12, dicembre 2005) mette in evidenza due passaggi che dovrebbero apparire originali e fondamentali a chi partecipa, anche in Edddyburg, alla battaglia contro la sessantennale vessazione cui è stato sottoposto il territorio del nostro paese e cui lo sono state, peraltro, le terre le acque e l’aria del mondo intero. Abbiamo continuato a perdere suolo utile, ignoriamo che per formarne qualche centimetro occorrono secoli. E i nostri ghiacciai, fonte di vita e di equilibrio per tanto suolo fertile? Lo scienziato americano racconta nell’intervista di aver osservato nel Montana il fenomeno della scomparsa dei ghiacciai: “l’ho chiamato ‘amnesia del paesaggio’ perché chi ogni giorno vede mutare lentamente il territorio non si rende conto di cambiamenti che sono invece enormi, ci si abitua giorno dopo giorno, e quando il problema emerge è troppo tardi”. Allora. In Italia, come altrove, non ci siamo accorti o ci siamo accorti in ritardo dei mutamenti lenti e continui, ma sarebbe stato facile occuparci delle trasformazioni macroscopiche, opporci a quelle palesemente scriteriate perciò dannose, vale a dire quasi tutte. Il signore del consumo irragionevole di suolo dal dopoguerra a oggi non ci ha dato tregua e procede incrollabile, proprio una crescita infinita, o finita allorquando il signore non troverà più terraferma e s’inabisserà e percorrerà il fondo marino. Aver dedicato la scuola estiva in Val di Cornia al tema del consumo di suolo è stato giusto, anzi un atto dovuto. La superficie dell’Italia è poco più di 300.000 Kmq. Quanti ne sopravvivono ancora relativamente liberi valutabili come suolo agrario o in qualche modo recuperabili a un utilizzo ecologicamente corretto e alla preservabile bellezza paesaggistica?. Non lo sappiamo; sappiamo che da quando si affermava che se ne dovevano salvare ad ogni costo, in prospettiva, almeno 100.000 netti per coltivazioni capaci di rispondere in primo luogo alla domanda interna e anche di sostenere la competizione nel mercato internazionale, è passato un mucchio di tempo durante il quale si sono imposti l’ideologia e il fatto di sviluppo del territorio. Locuzione ancor più assurda di altre dette. A Milano quello che una volta era denominato assessore all’urbanistica è diventato assessore allo sviluppo del territorio. Cosa significa sviluppare il territorio? Parole vuote, per un corretto uso della lingua, invece imbottite di un senso di credibile realtà giacché sviluppare coincide con edificare, occupare terreno con ogni genere di manufatti. Come gli economisti sono le sirene pazze della crescita economica, così troppi urbanisti confondono pianificazione territoriale con inevitabile occupazione di terra libera, aumento di ingombri, aggiunta di un più mai un meno, lo stesso che contraddistingue da sempre i proprietari dei terreni, gli imprenditori edili e fondiari, i commercianti di qualsiasi settore merceologico. Oggi non solo non possediamo di certo quella dimensione agraria altamente qualificata, ma abbiamo distrutto o rovinato gravemente quasi tutti quegli spazi ad ogni modo necessari per utilità ecologica e valore/funzione paesaggistica. Penso a due aspetti esemplari: l’immane sconvolgimento edilizio delle coste, negate per sempre a un progetto di cauta regolazione d’uso; il trattamento criminoso riservato alle montagne mediante migliaia e migliaia di impianti sciistici accompagnati dal corrispettivo alpestre dello “sviluppo” edilizio costiero, con effetti di devastazione finale di boschi e foreste, e delle terre storicamente destinate a pascolo da cui conseguivano prodotti peculiari. Se osserviamo l’entità della costruzione di edifici, limitandoci alle sole abitazioni, notiamo subito che il marcio della Danimarca è in Italia, non lì o altrove. Invito a rivedere, avendone voglia, l’articolo sulle abitazioni pubblicato nel sito il 10 novembre. L’enorme quantità di abitazioni non occupate – oggi quasi sei milioni – in stragran parte seconde case detentrici del primato europeo assoluto e relativo, collima con un ampio tratto dello sfacelo del territorio: che poi è stato maltrattato non poco dalle case supposte necessarie e invece dilagate ben al di là dell’utile. Cos’è infatti un’area metropolitana come quella milanese se non la dimostrazione di uno “sviluppo del territorio” come dilagamento di edificazione distruttiva del medesimo? Perché lo storico meraviglioso policentrismo milanese e lombardo si è trasformato in un magma orribile coprente ogni terra, negatore dei luoghi e dei loro nomi, quando sarebbe bastata un po’ di cultura “olandese” per comprendere quale modernità presentasse la conformazione territoriale donata dalla storia e che su questa si dovesse ricostruire l’habitat? Perché il nuovo piano regolatore di Roma, pur riconosciuto meritevole per il puro fatto di esserci, si è infine smollato a spandere troppe volumetrie a destra e a sinistra preventivando un largo nuovo consumo di terreno? Uno studio di Georg Frisch e Andrea Giura Longo del 2002 (Il consumo di suolo. La dinamica insediativa a Roma e il nuovo Prg) illustra l’andamento del consumo di suolo in quattro decenni. Non sembravano esserci ragioni convincenti di proseguire lungo la stessa strada, semmai contraddizioni anche rispetto al semplice parametro dell’andamento demografico. Temo che le numerose vaste aree per cosiddette nuove centralità, pensate come sperata garanzia di qualità dell’investimento immobiliare, costituiranno invece i cardini di quel processo secondo il quale perdiamo, attraverso mera speculazione edilizia, suolo utile, per formarne qualche centimetro del quale, ci dice Diamond, occorrono secoli. Intanto la maggioranza degli italiani, non solo la classe dirigente politica e imprenditoriale, sembra aver perso del tutto il sentimento del paesaggio, ossia è malata da tempo di quell’“amnesia del paesaggio” che preoccupa lo studioso americano. Se così non fosse non ci arrovelleremmo ogni giorno per scoprire dove persista qualcuno dei paesaggi aperti o urbani conosciuti al vero e ora, talvolta, reperibili solo nei dipinti. A ogni modo il Marchio Italia, ci informa Vittorio Emiliani, “è ancora primo nel mondo per due segmenti: l’arte e la storia. Mentre sta ormai tra il 10° e 15° posto per la natura ed è scivolato al di sotto del 15° per le spiagge”, cioè “laddove (natura e spiagge) si è molto distrutto, cementificato e asfaltato” (in “l’Unità” del 3 dicembre, in Eddyburg la stessa data).
Lodo Meneghetti
Milano, 16 dicembre 2005
Una proposta politica sollecitata dalla lettura di un bel lavoro: Il libro nero del governo Berlusconi. È un’opera di Guido Alborghetti appena pubblicata. 460 pagine dense di fatti, cifre, numeri, analisi, difficilmente contestabili, sul baratro nel quale è precipitato il nostro Paese. Molti dei frequentatori di eddyburg sanno chi è Alborghetti, per la sua lunga e apprezzata attività parlamentare nella commissione lavori pubblici della Camera (ha tra l’altro contribuito da protagonista alla trasformazione in legge del decreto Galasso). Prima del governo Berlusconi è stato capo del dipartimento per il coordinamento amministrativo della presidenza del consiglio dei ministri, attualmente presiede l’osservatorio politico e legislativo Italia Monitor. Il libro nero tratta anche, con rara chiarezza, e ripetutamente, del disegno di legge Lupi e delle nefandezze governative in materia di governo del territorio. Stavolta però non voglio occuparmi di questo, ma di un altro argomento ancora più grave, ben evidenziato da Alborghetti. Mi riferisco alla riforma costituzionale nota come devolution, che domani, 16 novembre, sarà definitivamente approvata dal Senato, e che dopo le elezioni di primavera sarà sottoposta a referendum confermativo. In breve, istruzione, sanità e polizia locale saranno di “competenza esclusiva” delle regioni, insieme a “ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Si profila così un’irriducibile lacerazione fra nord e sud (che contribuirà a spingere il sud verso un sottosviluppo malavitoso, e il nord verso un benessere effimero e pecoreccio). Non è una frattura marginale, è in discussione la stessa sopravvivenza degli istituti fondamentali della democrazia, a partire dal parlamento. Sono rimasto impressionato dal confronto (pag. 293 del libro nero) fra la stesura ancora vigente dell’art. 70 della Costituzione e quella destinata a sostituirla. L’attuale art. 70 così recita: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Meno di una riga. La norma riformata è trenta volte più lunga, incomprensibile, inverosimile, terrificante. Mi pare utile riportarla integralmente (art. 14 del disegno di legge in discussione al Senato):
“La Camera dei deputati esamina i disegni di legge concernenti le materie di cui all’articolo 117, secondo comma, fatto salvo quanto previsto dal terzo comma del presente articolo. Dopo l’approvazione da parte della Camera, a tali disegni di legge il Senato federale della Repubblica, entro trenta giorni, può proporre modifiche, sulle quali la Camera decide in via definitiva. I termini sono ridotti alla metà per i disegni di legge di conversione dei decreti-legge.
Il Senato federale della Repubblica esamina i disegni di legge concernenti la determinazione dei princìpi fondamentali nelle materie di cui all’articolo 117, terzo comma, fatto salvo quanto previsto dal terzo comma del presente articolo. Dopo l’approvazione da parte del Senato, a tali disegni di legge la Camera dei deputati, entro trenta giorni, può proporre modifiche, sulle quali il Senato decide in via definitiva. I termini sono ridotti alla metà per i disegni di legge di conversione dei decreti-legge.
La funzione legislativa dello Stato è esercitata collettivamente dalle due Camere per l’esame dei disegni di legge concernenti le materie di cui all’articolo 117, secondo comma, lettere m) e p), e 119, l’esercizio delle funzioni di cui all’articolo 120, secondo comma, il sistema di elezione della Camera dei deputati e per il Senato federale della Repubblica, nonché nei casi in cui la Costituzione rinvia espressamente alla legge dello Stato o alla legge della Repubblica, di cui agli articoli 117, commi quinto e nono, 118, commi secondo e quinto, 122, primo comma, 125, 132, secondo comma, e 133, secondo comma. Se un disegno di legge non è approvato dalle due Camere nel medesimo testo i Presidenti delle due Camere possono convocare, d’intesa tra di loro, una commissione, composta da trenta deputati e da trenta senatori, secondo il criterio di proporzionalità rispetto alla composizione delle due Camere, incaricata di proporre un testo unificato da sottoporre al voto finale delle due Assemblee. I Presidenti delle Camere stabiliscono i termini per l’elaborazione del testo e per le votazioni delle due Assemblee.
Qualora il Governo ritenga che proprie modifiche a un disegno di legge, sottoposto all’esame del Senato federale della Repubblica ai sensi del secondo comma, siano essenziali per l’attuazione del suo programma approvato dalla Camera dei deputati, ovvero per la tutela delle finalità di cui all’articolo 120, secondo comma, il Presidente della Repubblica, verificati i presupposti costituzionali, può autorizzare il Primo ministro ad esporne le motivazioni al Senato, che decide entro trenta giorni. Se tali modifiche non sono accolte dal Senato, il disegno di legge è trasmesso alla Camera che decide in via definitiva a maggioranza assoluta dei suoi componenti sulle modifiche proposte.
L’autorizzazione da parte del Presidente della Repubblica di cui al quarto comma può avere ad oggetto esclusivamente le modifiche proposte dal Governo ed approvate dalla Camera dei deputati ai sensi del secondo periodo del secondo comma.
I Presidenti del Senato federale della Repubblica e della Camera dei deputati, d’intesa tra di loro, decidono le eventuali questioni di competenza tra le due Camere, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti, in ordine all’esercizio della funzione legislativa. I Presidenti possono deferire la decisione ad un comitato paritetico, composto da quattro deputati e da quattro senatori, designati dai rispettivi Presidenti. La decisione dei Presidenti o del comitato non è sindacabile in alcuna sede. I Presidenti delle Camere, d’intesa tra di loro, su proposta del comitato, stabiliscono sulla base di norme previste dai rispettivi regolamenti i criteri generali secondo i quali un disegno di legge non può contenere disposizioni relative a materie per cui si dovrebbero applicare procedimenti diversi”.
Non ho parole. Mi pare di capire che è previsto una specie di silenzio assenso per i decreti legge, ma è soprattutto obliterato uno dei pregi della Costituzione del 1948, l’assoluta chiarezza espositiva. Come sanno i miei venticinque lettori, non scrivo mai di politica in generale. Non lo ho mai fatto. Non è mio mestiere. Mi occupo di politica solo in riferimento a fatti e circostanze derivanti dal mio lavoro di urbanista. Stavolta mi sento obbligato a farlo. Perché non riesco a sottrarmi alla sgradevole impressione che il tema della riforma costituzionale imposta dalla lega sia stato gravemente sottovalutato dalle opposizioni. Come se la questione dell’unità nazionale fosse imbarazzante per la sinistra, incapace di denunciare il tradimento della destra (le parole Italia e Nazionale campeggiano nei nomi dei due più importanti partiti della destra).
Conforta il fatto che per il referendum confermativo non è previsto il raggiungimento di un quorum di votanti come nel caso dei referendum abrogativi (l’ultimo, che non ha raggiunto il quorum, è stato quello della primavera di quest’anno, sulla legge per la procreazione assistita), e ciò dovrebbe agevolare il voto contrario alla nuova Costituzione. Ma non possiamo correre rischi. Dobbiamo mobilitarci subito, cercando anche d’imporre un’inevitabile drammatizzazione dello scontro. Una proposta che vorrei sottoporre a eddyburg – che il sito potrebbe a sua volta sottoporre alle organizzazioni della politica di centro sinistra – è il seguente: rifacciamo l’arco costituzionale,com’era una volta. I partiti contrari alla riforma leghista dovrebbero in sostanza impegnarsi a considerare improponibile qualunque intesa politica o amministrativa con chi ha condiviso la riforma leghista e insiste nel sostenerla in occasione del referendum. Un avvertimento e una discriminante, secondo me, moralmente ineccepibili. Doverosi. Con tanti saluti alla grande coalizione, a Follini e all’Udc. Discutiamone.
Un’ultima riflessione, che riporta sul terreno consueto dell’urbanistica. La legge Lupi è anch’essa in qualche modo un’espressione della devolution. Che cosa, se non la subcultura militante delle valli padane, può indurre a eliminare il principio degli standard urbanistici come diritti minimi di vivibilità garantiti in uguale misura a tutti i cittadini italiani?
Vezio De Lucia
(15 novembre 2005)
Il 63,2 per cento degli italiani teme la distruzione dell’ambiente molto più che il terrorismo, la criminalità, la perdita del lavoro, e praticamente tutte quelle che solitamente si ritengono oggi le principali cause d’angoscia: cos’ secondo un sondaggio apparso tempo fa su Repubblica,
La cosa non può stupire se si pensa alla tremenda accelerazione dello squilibrio ecologico: calotte polari che si sciolgono; il livello dei mari che sale a ritmo doppio rispetto all’ultimo decennio; cicloni tifoni alluvioni sempre più numerosi e violenti; desertificazione che avanza in Africa, Sudest asiatico, Sudamerica (dove perfino il Rio delle Amazzoni è a secco) e nella stessa Europa. La temperatura del mondo continua a salire: il 2005 è stato l’anno più caldo da quando si fanno misurazioni del genere; e questo secondo l’OMS causa ogni anno 150mila morti e 5 milioni di casi di malattia. Intanto le emissioni di gas serra, responsabili prime di tutto ciò, sono aumentate del 30% dal ’90. Di tutto questo la gente, sia pur in modo confuso, senza una precisa consapevolezza dei fenomeni e delle loro cause, avverte il rischio, non può non aver paura.
Di recente d’altronde sono numerose le allarmate denunce di questa situazione. E non più provenienti soltanto dal mondo ambientalista o dalla sinistra critica, quelli che da anni accusano la follia di un mondo che va distruggendo se stesso; che da anni pubblicano libri intitolati “Disfare lo sviluppo”, “Obiettivo decrescita”, “Sobrietà”, “Il vicolo cieco dell’economia” , e simili. Che danno vita ad accesi dibattiti su crescita e consumi su giornali come Liberazione e il manifesto, lavorano in associazioni come “Altreconomia”, “Per un’economia diversa”, “Finanza etica”, e così via.
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Ora, a schierarsi su posizioni analoghe sono personaggi non sospettabili di propositi antisistema. “La miopia delle élite“, è il titolo di un fondo di recente firmato sul Corriere della Sera da Tommaso Padoa Schioppa. In cui si legge: “Le risorse della Terra non potranno non rincarare drammaticamente e infine mancare, se il consumo che ne facciamo continua a espandersi come se fossero illimitate. L’equilibrio della vita non potrà non alterarsi, se continuiamo a ignorare l’effetto serra.“ Sempre sul Corriere Giovanni Sartori ha denunciato insufficiente informazione sul fatto che la “Terra che si autodistrugge”, e accusato la “colossale rete di interessi economici tutta proiettata nell’assurdo perseguimento di uno sviluppo illimitato, di una crescita infinita.” Quasi contemporaneamente su Repubblica appariva un impegnato articolo di Umberto Galimberti dal titolo “Smettiamo di crescere”, occhiello “Miti d’oggi”, sommario “Consumiamo per consumare in una spirale infinita”. Mentre importanti convegni internazionali sollevavano seri dubbi sulla ricchezza quale garanzia di felicità, e interrogativi sulla bontà della crescita venivano posti e discussi dalla più qualificata stampa internazionale, da Time al Guardian, ecc.
L’unico a non accorgersi di quanto sta accadendo, o almeno a non darlo a divedere, è il mondo politico. Di sinistra non meno che di destra. Durante la campagna per le Primarie Prodi faceva circolare una sua brochure elettorale, in cui l’ambiente veniva “nominato” una sola volta , e non come problema, ma come una risorsa da sfruttare al meglio, insieme ai beni culturali e paesaggistici del paese. La valanga di elaborati programmatici via via sfornata dai partiti e partitini dell’Unione, non va molto oltre l’orizzonte dello “sviluppo sostenibile”, vecchia formula abbandonata da tutto l’ambientalismo più qualificato, in quanto in sostanza allineato con l’imperativo della crescita, quello che è causa dell’insostenibilità ecologica. Senza analizzare in dettaglio i diversi programmi, posso dire che, una volta di più, l’ambiente rimane il grande assente, e che addirittura i partiti maggiori tendono a cancellare o peggiorare le proposte di Verdi e Rifondazione, i più attenti alla materia, e non mancano di strizzare l’occhio al nucleare, al ponte di Messina, alla TAV. Una volta di più si dimostra che nessun soggetto politico ha affrontato finora il problema alla radice, assumendolo nella sua valenza determinante della nostra vita e dell’intero nostro agire. Per tutti lo squilibrio ecologico rimane una sorta di “a parte”, una problema forse anche di qualche rilevanza, ma che non ha nulla a che vedere con i grandi temi della Politica.
La cosa non è nuova d’altronde. Fino a qualche anno fa non pochi tra i cosiddetti “grandi della Terra”, e insieme a loro quasi la totalità del mondo economico (sia quello scientifico che quello operativo) addirittura negavano l’esistenza della crisi ecologica planetaria, considerandola poco più che ubbie di cassandre catastrofiste, o al massimo liquidando il problema come un fatto di scarso peso, da risolvere con qualche intervento legislativo e qualche correttivo tecnico. Le sinistre su questa materia non hanno mai fatto eccezione. Anzi la loro critica nei confronti dell’ambientalismo è stata sovente anche più dura, motivata da una (malintesa) difesa del mondo del lavoro, che in qualche modo avvertivano messo sotto accusa, come luogo di processi inquinanti e di aggressione agli equilibri ecologici. Cosa che ha dato luogo a un conflitto apparentemente insuperabile - e in realtà non ancora pienamente risolto - tra le ragioni del lavoro e le ragioni della natura.
Da qualche tempo però una qualche attenzione all’ambiente si va manifestando tra politici e economisti: un paio di G8 sono stati dedicati alla materia, e di essa s’è discusso con fervore a Davos, celebre luogo di convegno annuale dei meglio cervelli della scienza economica. Ma non illudiamoci. Non s’è trattato di un’improvvisa conversione ambientalista: in tutte queste occasioni il tema di interesse centrale è stata l’imminente fine del petrolio, e la crisi dell’intero sistema economico mondiale che rischia di seguirne. La necessità di sostituire il petrolio con altre fonti energetiche si è imposta pertanto come obiettivo primario, al fine di poter garantire la continuità della produzione e della sua crescita, secondo la forma economica oggi dovunque attiva sul pianeta: cioè quella che, secondo la quasi totalità della comunità scientifica internazionale, è causa prima del sempre più grave guasto ecologico. Ora non può certo stupire che tutto questo accada tra le destre. Conservare, difendere e valorizzare al massimo il modello neoliberista, cioè il capitalismo nella sua versione attuale, è loro compito. E questo fanno. Ma le sinistre?
“Sinistra” è una parola che non pochi negli ultimi tempi hanno dato per superata e ormai priva di senso. E però, a dispetto di tutti i suoi aspiranti necrofori, la sinistra continua a dar prove inoppugnabili di vitalità. Le folle del pacifismo internazionale in marcia per il mondo; l’irruzione dei movimenti giovanili altermondialisti, puntuali contestatori del neoliberismo e dei suoi istituti; le masse di lavoratori che sfilano denunciando sfruttamenti sempre più esosi, lesivi della loro stessa dignità; le piazze piene di quella che viene chiamata “società civile”, gente che non si mobilita per giochi di partito o interessi personali, ma solo in sdegnata risposta alla democrazia offesa. Che altro è tutto questo se non “sinistra”, viva e attiva?
E però se guardiamo a quella che dovrebbe rappresentare la sintesi politica e operante di tutto ciò, cioè la sinistra istituzionale, quella dei partiti e dei governi (che tra centrali e locali non sono pochi in Italia e nel mondo) non si può negare che la risposta sia francamente deludente. E non in Italia soltanto. Nel radicale mutamento che ha investito il mondo negli ultimi decenni, in presenza di quel fenomeno senza precedenti che chiamiamo globalizzazione, disuguaglianze sfruttamenti povertà (cioè i problemi costitutivi delle sinistre, ragione del loro stesso esistere) non si sono affatto risolti, anzi per certi versi si sono aggravati. Molti di essi però sono andati trasformandosi, assumendo forme completamente diverse da quelle delle storiche agende operaie; mentre numerosi altri ne nascevano e s’imponevano, e in qualche misura interagivano con quelli precedenti. Tutto questo vorrebbe un’attenta rilettura di tutti i problemi, vecchi e nuovi, e la necessità di affrontarli in tutt’altro modo dal passato.
Per fare solo qualche esempio (e tralasciando per il momento la crisi ecologica, tremenda novità che mette a rischio il futuro stesso della specie umana) pensiamo al fenomeno migratorio, che in nulla più somiglia alle migrazioni dei secoli passati, che oggi coinvolge enormi masse, blocchi di popolazioni, interi strati sociali, che lasciano un paese per raggiungerne altri, con conseguenze che vanno ben al di là delle questioni di ordine pubblico cui solitamente si tende a ridurle. Oppure le prospettive smisurate e per ora inimmaginabili, aperte dall’evoluzione tecnologica agli effetti non solo di mirabolanti imprese spaziali transgeniche e simili, ma riguardanti produzione, occupazione, salari, mercato: ad esempio che cosa può significare nel mondo del lavoro, nel rapporto tra persona e lavoro, e tra lavoro e mercato, la messa in opera di un computer da nove miliardi di operazioni al secondo, cosa ormai non più eccezionale? E il terrorismo, da tutto l’occidente affrontato nel modo più stolido e criminale, e che però ci sovrasta, e limita e condiziona libertà e diritti di tutti. E la guerra, che sempre è stata usata per il rilancio di economie stagnanti e per la soluzione delle più gravi crisi produttive, ma che oggi senza pudori viene teorizzata e “istituzionalizzata” sotto la specie di “guerra preventiva” contro le tirannidi: la guerra, di fatto ormai rimasta unico strumento di continuità vitale per il capitalismo.
E questo è forse ciò che più spiazza le sinistre. Il fatto che da tempo un buon numero di esperti del calibro di Gorz, Chomsky, Severino, Wallerstein, Bello, Passet, Gallino, Stiglitz, Deaglio (per citarne solo alcuni) parli di meccanismi di accumulazione inceppati, di dinamiche capitalistiche in panne, insomma di crisi strutturale dell’economia-mondo. E che tutti costoro si interroghino sul futuro, ma concentrando le loro ipotesi non su come riparare e rimettere in moto la macchina neoliberistica, ma puntando su come muovere dalla situazione attuale per tentare di cambiare le cose, convinti come sono che esiste “un disperato bisogno di esplorare possibilità alternative” (Wallerstein), che un mondo diverso “può definirsi solo in opposizione al capitalismo” (Gorz), e che la crisi va colta come “opportunità per la trasformazione del regime economico attuale” (Bello).
Tra le sinistre istituzionali nessun tentativo di riflessione del genere sembra esistere. E’ vero, una parte (una parte non piccola) delle sinistre sacrosantamente accusa il neoliberismo di perseguire disuguaglianza e esclusione come normali mezzi di politica economica; di scaricare sul lavoro tutti i costi che il mercato non sopporta; di creare insicurezza e impoverimento nei ceti medi; e anche (ma di questo pochi e di rado si ricordano) di rapinare e sconvolgere a fini produttivistici l’ambiente naturale. Ma sono poi gli stessi partiti, a volte le stesse persone, a invocare più consumi, più domanda, più produttività, più competitività, più crescita. Esattamente come le destre. Di fatto spronando il mondo produttivo ad adeguarsi al modello neoliberistico, ai suoi parametri e alle sue regole, dunque in modo più o meno esplicito legittimando il sistema neoliberistico (capitalistico cioè) e direttamente o indirettamente rafforzandolo. Salvo poi impantanarsi tra proposte di operazioni correttive: più salari, più occupazione, meno precarietà e flessibilità, più stato sociale, ecc.: proposte del tutto incompatibili con l’impianto economico che sostengono, il quale proprio nel massimo sfruttamento del lavoro trova uno dei suoi punti-forza.
Il fatto è che le sinistre, nella maggioranza, si illudono di poter tenere ancora in vita una linea politica a lungo, e non senza successo, praticata nella loro storia. Un’illusione appunto. Per un lungo periodo (un secolo e mezzo circa) la crescita produttiva, nella forma dell’accumulazione capitalistica, ha avuto ricadute largamente positive sulle classi lavoratrici dei paesi industrializzati, oggettivamente (sia pure tra iniquità e sfruttamenti) migliorandone le condizioni di vita. E’ accaduto per tutto il tempo in cui il benessere dei lavoratori (la loro accresciuta capacità di consumo) è stato funzionale all’accumulazione capitalistica, e ciò ha dato spazio a una sorta di patto non scritto, che affidava al capitalismo la produzione della ricchezza e alle sinistre consentiva di distribuirla il meno iniquamente possibile. Questo oggi non è più vero. Oggi una politica di redistribuzione del reddito non ha più corso. Il patto è scaduto.
Questa è una verità che le sinistre, per ritrovare se stesse, debbono avere il coraggio di guardare in faccia. Riuscire a recidere quella sorta di antica complicità con il “sistema” che ha sempre sotteso le lotte dei movimenti operai: secondo cui “morte al capitale!” era il grido di battaglia, ma “viva la fabbrica!” era inevitabilmente l’asse dell’agire politico. Ripensare seriamente lo sviluppo, così come è stato tenacemente perseguito quale indiscusso fattore di progresso, senza vedere quel mutamento che via via velocemente ne accentuava i valori individualistici, i contenuti quantitativi e acquisitivi, impoverendone la qualità sociale: fino a stravolgerne il senso e segnarne di fatto la piena identificazione con la crescita produttiva. Una vicenda che in pratica conduceva all’accettazione dell’ordine dato, con il mercato al centro, referente e misura di ogni rapporto, e la supina assimilazione dei ceti lavoratori alle lusinghe del consumismo più insensato: un sostanziale adagiarsi delle sinistre nella logica del capitale. Solo riflettendo su tutto questo credo sia possibile rompere con le vecchie ma tuttora vive certezze di sviluppo salvifico, smetterla di sperare addirittura in “un nuovo modello di crescita”, come qualcuno propone. Trovare il coraggio non solo di constatare tutto ciò, ma di dirlo ad alta voce, credo sia indispensabile anche per assumere finalmente una posizione corretta e utile nei confronti dell’ambiente.
La scarsa considerazione, quando non l’ostilità, riservate – come dicevo – dalle sinistre ai problemi ecologici, in gran parte proprio in questa storia trova le sue ragioni e in qualche misura il proprio alibi. Come ridurre produttività e crescita quando il mondo è ancora pieno di disuguaglianze, povertà estreme, fame? Questa è sempre stata l’obiezione rivolta dalle sinistre ai critici dell’ iperproduttivismo: nella sottintesa certezza che un impegnato perseguimento della crescita risolverebbe prima o poi queste questioni inoppugnabilmente prioritarie. Chiudendo gli occhi sul fatto che gli ultimi decenni, che hanno registrato un costante, se anche disuguale, aumento del Pil , sono quelli che hanno visto in tutto il mondo un drammatico crollo dell’ occupazione, un attacco sistematico allo stato sociale, un aumento crescente della distanza tra ricchi e poveri sia a livello internazionale, sia all’interno stesso dei paesi più affluenti. Ignorando cioè che la vecchia equazione “più produzione = più benessere” non vale più. Oggi (sostengono Wallerstein, Gorz, Bello) il mondo è rimpicciolito, sempre più scarsi si fanno gli spazi utili alla valorizzazione dei capitali, solo puntando al massimo su precarietà, attacco al salario, taglio dei servizi, mostruoso sfruttamento del Sud del mondo, e – sul versante della strategia internazionale – contando sulla guerra, il sistema riesce ad assicurarsi qualche aumento del Pil. Come contare su di esso per risolvere i problemi sociali?
Far chiarezza su tutto ciò aiuterebbe anche a vedere un aspetto del problema ambiente, che per sua natura dovrebbe interessare particolarmente le sinistre: il fatto cioè che lo squilibrio ecologico, nelle sue innumerevoli forme, colpisce sempre soprattutto i più poveri. Sono i meno abbienti che non riescono a salvarsi da uragani e alluvioni; sono gli operai a trattare processi industriali altamente tossici e spesso cancerogeni; sono loro e le loro famiglie a vivere nei pressi di fabbriche a rischio; sono gli agricoltori - specie nei paesi cosiddetti in via di sviluppo - a manipolare quantitativi massicci di pesticidi; sono i poverissimi (un miliardo e 200 milioni) a non avere acqua; sono masse di contadini e pastori in fuga dall’avanzare dei deserti, dalla perdita di pescosità di fiumi e laghi inquinati, da paesi distrutti da alluvioni e cicloni, da intere vallate destinate alla costruzione di dighe gigantesche. Si calcolano oggi sui 35 milioni i profughi ambientali, le previsioni parlano di 50 milioni nel 2030. E’ difficile immaginare che tra loro ci siano dei ricchi. Non dovrebbe tutto questo interrogare le sinistre? E magari indurle a guardare all’ambiente con attenzione diversa da quanto è accaduto finora?
Il fatto è che finora nessuna sinistra (nemmeno all’estero d’altronde) ha avuto il coraggio di dire quello che parrebbe una incontestabile ovvietà. E cioè che la produzione di qualsiasi tipo è consumo di natura - minerale, vegetale, animale - e come tale è inevitabilmente soggetta a limiti non valicabili. Il nostro pianeta è una quantità data e non dilatabile a nostro piacere: in quanto tale non è in grado di alimentare una crescita produttiva illimitata, e nemmeno è in grado di metabolizzare e neutralizzare i rifiuti, liquidi solidi gasosi, che derivano in quantità crescente dall’aumento costante della produzione.
Questa è la causa prima della crisi ecologica planetaria. La contraddizione tra la popolazione umana che continua ad aumentare di numero e a moltiplicare i consumi, e un pianeta che crescere non può. E’ lo scontro tra i limiti fisici della Terra e il sistema economico dovunque operante, il capitalismo, fondato sull’accumulazione, cioè sulla crescita esponenziale del prodotto. Oggi si calcola che per mantenere il nostro livello di produzione e consumo, ci occorrerebbe un Pianeta e mezzo. Continuando a crescere, e tenendo conto del portentoso sviluppo dei paesi emergenti, presto sarebbero necessari quattro o cinque Pianeti.
Un paradosso che gli scienziati dell’ Ipcc (International Panel for Climat Change) hanno tradotto in cifre, calcolando sul lungo periodo un aumento della produzione industriale sulla base di un +3% annuo del Pil, come dai più auspicato: nel giro di 23 anni ciò comporterebbe il raddoppio del volume industriale; in un secolo lo moltiplicherebbe per 16; in due secoli lo moltiplicherebbe per 250; in tre secoli per 4000. E vien fatto di pensare a uno dei grandi padri dell’ambientalismo, Kenneth Boulding, il quale nel 1967 scriveva: “Chi ritiene possibile una crescita infinita in un mondo finito non può essere che un pazzo. Oppure un economista”.
Ciò dato, è possibile continuare a ignorare il rischio ambiente nella sua enorme portata? Continuare a considerarlo come una variabile marginale, che interferisce solo occasionalmente con l’economia, e non come qualcosa che la riguarda direttamente e la condiziona, che ne rimette in discussione i meccanismi e gli obiettivi, sia nella concretezza del suo operare, sia nel suo stesso impianto teorico, basato appunto sulla crescita esponenziale del prodotto, e sulla illimitata disponibilità della natura? Possibile non essere almeno attraversati dal dubbio circa la bontà del nostro modello economico e sociale? E chi dovrebbe porsi questi interrogativi se non la sinistra?
Francamente, di fronte a un problemi di questa portata si desidererebbe qualcosa di diverso dal nostro litigioso e asfittico politichese, intriso di personalismi, arrivismi, piccole rivalità, ma soprattutto pigramente aggrappato a vecchie certezze, incapace di uno sguardo adeguato alla realtà di oggi e al suo vertiginoso mutare. Si desidererebbe intravvedere non si dice un progetto alternativo definito e compiuto, ma almeno un’ipotesi da proporre e verificare via via, almeno la consapevolezza della sua necessità, almeno il coraggio di interrogarsi in proposito.
Difficile? Difficilissimo, certo. Anche perché, in un mondo globalizzato, un progetto di questa portata non è pensabile in un solo paese, e (come la maggioranza dei massimi problemi d’oggi d’altronde) può trovare soluzione solo a livello sovranazionale. Ed è probabilmente proprio la magnitudine dell’impresa a deviare lo sguardo della politica, a rinviare indefinitamente un possibile impegno in questa direzione.
E tuttavia, qualora si riuscisse a mettere a fuoco un’idea del mutamento necessario, che proponga valori diversi da quelli del mercato e del consumo, forse non sarebbe impossibile tenerla presente come una sorta di orizzonte stretegico a cui via via adeguare, per quanto possibile, le scelte minori operate sull’orizzonte ravvicinato dell’agire politico quotidiano. Il nostro non è tempo di sovversioni politiche traumatiche, di rivoluzioni armate e sanguinose. Di tutto ciò abbiamo avuto abbastanza. E d’altronde oggi non esistono Bastiglie da abbattere o Palazzi d’inverno da espugnare. Oggi occorre rimettere in causa e delegittimare un sistema-mondo che con il suo dogma iperproduttivistico e iperconsumistico, opportunamente usando la potenza persuasiva della comunicazione di massa, ha capillarmente penetrato e inquinato cultura, costume, coscienze, fino a determinare in sua funzione comportamenti, desideri, progetti di vita. Delegittimarlo è possibile solo mediante una rivoluzione dolce ma radicale, consapevole e decisa, da attuarsi per gradi ma con costante tenacia, con un’azione molteplice, continua e differenziata, presente anche nel quotidiano minore, fermamente orientata a contrastare i valori oggi dominanti, nel deciso rifiuto di una sinistra sostanzialmente incapace di una politica diversa da quella delle destre.
Un’azione del genere forse non sarebbe impossibile da attuare, soprattutto ad opera dei governi locali, comuni, province, regioni. Magari muovendo dal capovolgimento del dogma produttivistico che insegue una crescita del tutto indiscriminata (crescita non importa di che cosa, in risposta a quale bisogno, con quali conseguenze, purché il Pil aumenti); e dunque esigendo una politica economica severamente “discriminatrice”, che di volta in volta sottoponga ogni proposta operativa a una serie di domande: se e quanto serva ciò che si vorrebbe produrre, se la cosa risponda a bisogni reali o non si tratti di produzione destinata al consumismo più futile, oppure prevista in omaggio al dettato della modernizzazione ad ogni costo, e simili; se non esistano altre più importanti necessità insoddisfatte, quindi con diritto di priorità; e soprattutto quali siano le ricadute dell’ opera in questione, sul piano ecologico, sanitario, culturale, sociale, umano. Una molteplicità di scelte, anche minori e minime, operate a questo modo, potrebbero segnare i primi passi di una rivoluzione non traumatica ma incisiva, in quanto netta, continua e sistematica negazione dei criteri che guidano l’economia capitalistica, basati unicamente su quantità e profitto. Potrebbe forse essere l’avvio di una sorta di accumulazione sociale.
Per questa via, in una realtà come la nostra, straripante di merci ma gravemente carente sul piano dei servizi pubblici e sociali, sarebbe forse possibile progressivamente spostare il baricentro dell’economia dalla produzione di beni materiali alla produzione di beni sociali. Le conseguenze, anche se inizialmente limitate, sarebbero però tutt’altro che trascurabili, anche nell’immediato. Sul piano occupazionale innanzitutto: perché mentre nell’industria la tecnica sempre più largamente va sostituendo le persone, nessuna attività sociale può prescindere dalla presenza umana. E ai fini degli equilibri ecologici: perché la produzione sociale, a differenza di quella industriale, non inquina. Ma sarebbe anche l’avvio di un diverso modo di progettare, pensare, vivere il lavoro, e quindi la produzione e il consumo.
Vi sembrano sogni, pii desideri?
Certo sono ipotesi azzardate, in un mondo dominato da un lato dai grandi potentati economici, dall’altro dall’inquinamento sociale indotto, e quindi dalla resistenza delle stesse vittime del sistema che si vuole colpire. Ma soprattutto credo che un mutamento di questa portata, che certo richiede l’azione capillare di cui ho appena detto, abbia necessità anche di un’azione a dimensione sovranazionale. E questo - lo accennavo prima - non riguarda solo il problema ambiente, e il modello economico che ne è causa, ma tocca tutti i più grossi problemi d’oggi: terrorismo, guerra, migrazioni, povertà, disuguaglianze, rapporti tra Nord e Sud del mondo, non credo possano trovare soluzione se non livello sovranazionale. E credo (qua dovrei aprire tutto un altro grosso discorso, che posso appena accennare) credo che solo l’Europa - nonostante l’economicismo, il burocratismo, l’appiattimento totale sul paradigma neoliberista, che oggi la caratterizzano negativamente - potrebbe essere il soggetto in grado di farsi protagonista di questo obiettivo: non certo per contrapporsi allo strapotere degli Usa (cosa assurda e stolta al solo pensiero) ma per distinguersi dai valori che l’America esporta nel mondo, per tentare la messa in cantiere di un modello diverso. Come certo sapete, è nato di recente un partito internazionale che si chiama Sinistra Europea, e forse potrebbe avere una funzione non secondaria a questo fine.
Anche tutto questo è certo molto difficile. Però anche molto necessario. E non dimentichiamo i tanti che parlano di evidente, grave, ormai forse irreversibile crisi del capitalismo. Lo so, dire queste cose significa sentirsi rispondere da persone di non sospetta sinistra: “E’ una vita che contiamo sulla morte del capitalismo. E, guarda un po’, eccolo qua, sempre vivo e vegeto.” E però oggi, a me pare che proprio lo sconvolgimento degli equilibri naturali si ponga come evidenza indiscutibile dell’impossibilità per il capitalismo di continuare sugli stessi parametri, insomma come la dimostrazione della sua insostenibilità. Forse a riprova che crescita illimitata non può esistere, non è mai esistita, né in natura né nella storia. Forse anche a ricordarci che dopotutto il capitalismo è un fenomeno storico, e come tutti i fenomeni storici ha avuto una nascita e avrà prima o poi una fine. E’ una verità che le sinistre una volta tenevano presente, a supporto del loro stesso esistere e agire. Una verità forse da recuperare.
Relazione svolta in apertura della presentazione (Roma 4 dicembre) della neo nata associazione rosso-verdi
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Leggo l’afflitto eddytoriale n. 82 centrato sulla rendita immobiliare, fondamento della legge Lupi. Forse mi meraviglio meno, provo meno “sorpresa e amarezza” di Edoardo Salzano davanti alla “distorta filosofia” della destra condivisa nella sinistra. Appunto: se la mutazione genetica di buona parte della sinistra è avvenuta, se i gruppi dirigenti ai diversi gradi nei partiti e nell’amministrazione – dagli alti funzionari e dai parlamentari fino al trascurato sindaco dell’appartato comune – costituiscono oggigiorno un insieme antropologico in linea coi tempi, ossia estraneo ai caratteri degli antenati, allora pensiero e azione ne sono coerenti e possiamo aspettarcene di ulteriori.
Sono anni che notiamo l’incessante succedersi dei nuovi comportamenti, che ne denunciamo gli effetti omologanti il modello di società dominante. Riguardo al tema città/territorio/pianificazione urbanistica, e pure architettura, posizioni divelte dalle radici socialiste, ossia noncuranti del rapporto con la questione sociale e, di conseguenza, della necessità di contrastare i padroni privati del territorio, gli esclusivi ordinatori del mercato fondiario ed edilizio. “Facile” sì sarebbe “fare l’elenco degli episodi” dimostrativi del nuovo corso, ma sarebbe troppo lungo. Che poi nuovo non è: risalendo nel tempo troviamo che la collusione tra finanzieri-speculatori e politici-amministratori, o quantomeno la benevolenza dei secondi verso i primi, attinse sorprendenti risultati quando la sinistra non solo abbandonò ogni retaggio culturale ma anche il vantato primato di moralità. Restammo tramortiti, poveri fiduciosi milanesi di sinistra, dal colpo infertoci da qualche “compagno” che si allineò con i corrotti e corruttori nella Milano craxiana, dovendo poi sopportare l’onta di Mani pulite. (Non a caso Milano, dove l’architetto Lupi è ancora consigliere, anticiperà di anni una legge nazionale ultra-liberista attraverso la semplice abolizione di ogni pianificazione pubblica in favore e in onore delle scelte imprenditoriali nemmeno contrattate seriamente col sindaco e la giunta). Mele marce, si disse allora e in seguito. Non solo di questo si tratta, non delle singole violazioni della legge.
La dissoluzione del sentimento naturale di moralità comportò il rovesciamento delle teorie e della pratica sociale, la condivisione delle idee e delle pratiche lassiste, la subalternità ai poteri forti quando la classe operaia e il sindacato persero numerosità e potenza. Esisteva una volta un’urbanistica di sinistra. Un revisionismo insidiosamente giustificato con certi errori e rigidità (comprensibili queste!) della pianificazione e le difficoltà di tempestive attuazioni (questa, poi, altro che giustificata in un paese non da ora troppo riguardoso verso la proprietà privata) ha portato rapidamente all’accettazione o al tacito gradimento di violazioni di leggi e norme, infine alla mancanza di un fiera opposizione al massacro ambientale, dappertutto, città campagna coste monti. Salzano, davvero sconfortato, non riesce a designare che Renato Soru e Nicki Vendola quali eccezioni della sudditanza agli immobiliaristi; ci invita a segnalarne altre. Ma a che serve citare il bravo sindaco di Vicolungo? Secondo un’altra prospettiva, come avremmo potuto credere che l’Inu, l’istituto di Olivetti e di Astengo, sarebbe caduto nelle mani di colleghi consenzienti anzi sostenitori della totale privatizzazione dell’urbanistica?
Revisionismo della sinistra in urbanistica: in accordo col revisionismo storico latente e infine dichiarato ad alta voce dai dirigenti. Fassino nel libro Passione cercò di screditare la figura di Enrico Berlinguer, emblema indiscusso di moralità unita al prestigio. Proseguì Violante riconoscendo ai fascisti di Salò ugual diritto che ai partigiani di essere celebrati quali combattenti leali. Poi salgono in cattedra di nuovo Fassino per accusare la sinistra di omissione nel caso delle foibe e D’Alema per deplorare l’uccisione di Mussolini. E che dire dell’adeguamento all’andazzo odierno di confessare l’appartenenza alla Fede cattolica o il desiderio di meditarvi?. Perché proprio ora? Perché questa mancanza di riserbo? E taccio del papismo annidato nel centro e nella destra del centrosinistra.
“Segni di speranza”? conclude Edoardo. Speriamo speriamo. Con molti se e molti ma.
28 novembre 2005
Caro Eddy, come sempre, anche a proposito di Val di Susa, dici cose che non posso non condividere. Forse però a quanto dici si può aggiungere qualcosa.
D’accordissimo che interessi diversi debbono sapersi confrontare democraticamente e possibilmente trovare soluzione senza calpestarsi reciprocamente, specie quando i legittimi interessi di una piccola comunità contrastano con quelli di una comunità più vasta. D’accordo ovviamente anche su quella che è verità e regola indiscussa dell’ambientalismo: il trasporto su ferro è assai meno inquinante di quello su gomma, ciò che per noi dunque dovrebbe essere argomento decisivo a favore della Tav. Non mi soffermo su tutte le ragioni, frutto di quella severa valutazione tecnica di cui sacrosantamente tu affermi la necessità (ragioni illustrate in dettaglio da Guglielmo Ragozzino sul manifesto nell’articolo da te puntualmente ripreso su Eddyburg) per le quali forse il vantaggio ecologico del passaggio dalla gomma al ferro potrebbe risultare fortemente ridotto, se non cancellato. Tenendo conto anche del fatto che in Val Susa una ferrovia già esiste, e che forse, adeguatamente riattata, potrebbe assorbire buona parte del traffico su gomma senza bisogno di bucare la montagna per 54 chilometri.
Ma ciò di cui vorrei dire è un’altra cosa. Che in realtà si traduce in alcuni interrogativi. Siamo certi che realizzare la Tav, avviare su di essa tutto o gran parte del trasporto di merci, davvero rappresenti gli interessi della comunità più vasta? Facilitare e velocizzare al massimo il trasporto di merci non è soprattutto funzionale agli interessi del sistema di produzione e consumo oggi vincente nel mondo? Non rappresenta in realtà la “naturale” adesione all’ideologia dominante, che indica la modernizzazione come sempre e comunque positiva? E non ne deriverebbe alla fine un’altro incentivo alla moltiplicazione dello scambio di merci, quindi un ulteriore alimento alla bulimia iperconsumistica del nostro mondo, cioè un altro strumento di competitività, un altro modo di sostenere la crescita, in una parola un altro meccanismo omogeneo e funzionale all’ accumulazione capitalistica, come dire esattamente l’opposto di ciò che può rappresentare il tentativo di arrestare la spirale dello squilibrio ecologico, e dunque di cercare il benessere, di perseguire il reale interesse dell’intera comunità umana?
In effetti (come probabilmente sai) proprio lo scambio di merci analoghe o addirittura identiche tra un paese e l’altro, e tra un continente e l’altro, assurda quanto distruttiva regola dell’attuale commercio mondiale, è oggetto di riflessione tra ambientalisti di tutto rispetto, da Fabrizio Giovenale a Serge Latouche. I quali stanno lavorando sull’ipotesi del “ciclo corto”, cioè sulla possibilità di instaurare circuiti produzione-consumo all’interno di territori limitati, proprio allo scopo di ridurre l’inquinamento e il consumo energetico che lo spostamento di massicce derrate di beni su lunghi percorsi comporta. E’ un programma su cui spesso mi trovo a discutere con questi amici: mi pare infatti azzardato sperare di poter instaurare oggi, su una scala significativa, un modello di rifornimento merci che apertamente contraddice le logiche della competitività e della crescita, tuttora indiscussi vettori dei mercati globali. Non so chi abbia ragione. Certo è però che la Tav si pone sul versante opposto di queste ipotesi, e degli obiettivi da cui nascono.
Lunedì scorso, 24 ottobre, i fantasmi di una stagione bruciata in fretta e troppo in fretta sepolta sotto il tappeto dell’indifferenza cittadina e della sua voglia di tranquillità, si sono nuovamente affacciati sul crescentone di Piazza Maggiore, qui a Bologna. Il movimento del ’77, tuttora incompreso nella sua genesi e nei bisogni che esprimeva, è stato, in realtà, un preludio straordinariamente anticipatore - e molto più creativo - degli attuali movimenti (dai disobbedienti ai no-global).Gli indiani metropolitani hanno capito prima di tutti e anticipato essi stessi alcune trasformazioni delle società e della politica italiana: l’irrompere dei media nella comunicazione politica, divenuta essa stessa politica tout court e il conseguente sgretolarsi della pratica politica come esercizio della rappresentanza. Non credo che il parallelo possa essere condotto oltre la prima suggestione, ma quello che non avevamo capito allora, illudendoci troppo in fretta di poterlo semplicemente rimuovere e archiviare come un grumo di episodi contingenti, circoscrivibili e irrazionali, sta riemergendo adesso seppur in altre forme e in altri contesti e chiede udienza.
Lunedì in piazza si è consumato forse il culmine di una crisi che la città sta vivendo da mesi. Da prima dell’estate pende, sulla sinistra radicale in primis, la minaccia di un ordine del giorno sulla legalità imposto dal sindaco per sbaragliare qualsiasi tipo di opposizione interna alla maggioranza su alcune delle ultime decisioni assunte, spesso in assoluta solitudine, in materia di ordine pubblico. I controlli contro i lavavetri e le ruspe mandate a demolire le baracche dei nomadi accampati lungo il Reno, sono gli ultimi e più eclatanti episodi che hanno sollevato forti perplessità e critiche aperte oltre che nella sinistra radicale , anche in parte del mondo cattolico. Da molti, troppi mesi, la città vive un braccio di ferro e una polemica strisciante deflagrata in maniera dirompente negli scontri di piazza, con la polizia chiamata a difesa del palazzo.Ci è stato spiegato, dagli uffici stampa, che i clandestini, gli immigrati senza permesso, venivano colpiti per snidare le sacche di lavoro nero e le pratiche di caporalato di cui costituiscono bacino di raccolta primario e, in parallelo, i lavavetri multati per combattere il racket che li controlla: terapia d’urto contro i sintomi quando le cause si sanno altrove e per certo non saranno neanche scalfite da provvedimenti similari. ‘Difesa dei più deboli attraverso la repressione’ …degli stessi deboli, quindi.
Ma la parola d’ordine che da mesi attraversa la città e nelle ultime settimane rimbomba dilatata ed ossessiva su tv e organi di stampa tutti è: ‘legalità’. L’emergenza prima cittadina è quindi divenuta quella del ripristino della legalità e delle regole che, ohibò, tutti devono rispettare. Ho così scoperto, quasi all’improvviso, che vivevo, a mia insaputa, nel Bronx e per fortuna, però, era arrivato Rudy Giuliani a intimare ‘tolleranza zero’. Eppure Bologna, checchè ne dicano Pierferdinando Casini e Michele Serra non è la ‘capitale italiana del disordine pubblico’ (Serra, la Repubblica, 23/10/2005, p. 28). Soffre, come qualsiasi altra città medio-piccola di fenomeni di microcriminalità, ma ancor più di un disagio sociale forse acuito dal vedersi improvvisamente scoperta e messa a nudo in uno degli stereotipi che ne hanno fatto in passato un modello: Bologna città accogliente e ospitale non lo è più da tempo, se mai lo è stata fino in fondo e le ricette del passato – buona amministrazione e servizi – non bastano più a fronteggiare fenomeni nuovi per accelerazione e profondità d’impatto.
Il sindaco ha dalla sua parte tutta l’imprenditoria, la borghesia professionale, i commercianti compatti, oltre che, dal punto di vista politico, la sinistra perbene locale e nazionale, come di consueto alla perenne ricerca del lasciapassare per il salotto buono del potere, per ottenere il quale è capace di assumere posizioni più realiste del re e di macerarsi in autocritiche di sapore masochistico. Non a caso la vicenda bolognese è vista da più parti come speculare rispetto a quella nazionale che interessa il rapporto fra sinistra di governo e sinistra radicale. Elemento comune delle critiche, invece, consiste nel rilevare soprattutto l’intrinseca debolezza, dal punto di vista sociale, di un concetto, quello della legalità, se assunto come rigido stendardo ideologico e scisso dalla pratica della solidarietà che peraltro caratterizza da sempre la compagine cittadina. Da più parti è stata richiamata, come valore civico fondante, quella filosofia pragmaticamente esercitata, in vivo, da mio nonno Augusto che, di fronte ai parenti profughi che, nell’immediato dopoguerra, si accalcavano nel cortile della fattoria, tacitava la preoccupazione delle donne di casa sentenziando che in una famiglia i problemi ci sono quando si diminuisce, non quando si cresce. Bologna non è più da molto tempo un’accogliente grande famiglia, non può esserlo neanche volendo e lo spirito di solidarietà seppur indispensabile, non basta. I problemi di crescita ci sono, enormi, soprattutto perché i mezzi che abbiamo per fronteggiarli sono scarsi economicamente e risibili dal punto di vista culturale; le pratiche dell’inclusione sono ancora affidate esclusivamente al volontariato di pochi.
Eppure i sondaggi di questi ultimi giorni decretano all’operato del sindaco un consenso quasi bulgaro…che ci sta succedendo? Ad un’analisi non ideologicamente appannata non stupisce affatto che il nuovo corso law and order del sindaco sia così apprezzato anche dalle fasce popolari: le nuove povertà che si affacciano e l’incertezza verso un futuro ragionevolmente dignitoso espongono settori sempre più ampi di popolazione ad inconsuete fragilità comportamentali e ideologiche, scatenando meccanismi anche inconsci di egoismo sociale. La ricerca della sicurezza diventa un obiettivo prioritario, perseguibile anche a costo di danneggiare altre categorie sociali. Siamo più poveri e quindi più insicuri. Ma una politica che si adegua al sentimento popolare e rinuncia a governarlo, a renderlo più consapevole, non si avvicina pericolosamente ai concetti di populismo e demagogia? E gli stessi sondaggi ‘volanti’ così sapientemente pubblicizzati in queste ore, non erano la prerogativa di Berlusconi? E non l’avevamo sempre accusato di riferirsi e solleticare la ‘pancia’ dell’opinione popolare, per questo? Il nodo del problema (uno dei tanti) è che, se è vero, così come ha ammesso lo stesso questore, che i nostri problemi sono ancora governabili, la soglia della tollerabilità civica si è abbassata a dismisura e percepiamo come pericolosi e intollerabili fenomeni che in altri contesti sono giudicati entro i limiti del fisiologico.
Anche volendo ammettere che questi limiti siano, a volte, superati, la risposta che finora il governo cittadino, o meglio il suo governatore quasi monocratico, sta dando è sbagliata nei fini e nei mezzi. Prima di tutto perché ipocrita e distorta; se la legalità deve essere un fine per l’ottenimento della giustizia deve obbligatoriamente essere perseguita in ogni direzione e contro ogni infrazione delle regole. Perché quindi non agire finalmente e da subito contro le migliaia di locazioni in nero attraverso cui parte della città prospera da anni alle spalle degli studenti universitari, vampirizzando invece di coinvolgere nel proprio tessuto, una delle risorse culturalmente più preziose (su una popolazione di circa 370.000 abitanti, gli iscritti all’Alma Mater sono poco meno di 90.000). E perché non intervenire contro le mille, continue infrazioni tollerate (e da ieri parzialmente riammesse ufficialmente su pressione dei commercianti, la più potente lobby cittadina) alle limitazioni della circolazione, o contro lo spaccio che degrada intere aree del centro storico? Perché il pugno di ferro solo in una direzione? Esistono quindi trasgressori di serie A e trasgressori di serie B…o meglio trasgressori che votano e quelli che non votano?
Alla città perfetta, chiusa contro il mondo entro le mura del suo benessere e dei suoi riti, non torneremo mai più, né a Bologna, né altrove. Le nostre città sono cambiate. Nelle maglie allargate e sfrangiate delle nostre periferie tristi e negli spazi degradati dei nostri quartieri si è installata questa umanità impoverita e resa insicura che costituisce l’area, quanto mai variegata, del precariato sociale. Nei centri spopolati di notte perché vi abbiamo espulso gli abitanti per far spazio ad attività più redditizie, scorazzano bande multietniche che si prendono una miserevole rivincita rivendicando, nelle ore del buio, un possesso del territorio che è loro precluso negli altri momenti. Si tratta di quella schiuma del mondo che il Mediterraneo deposita ad ondate maleodoranti sulle nostre spiagge e che va ad ingrossare la massa senza volto di quelle ‘sfuggenti figure sociali’ cui Sandro Medici a Roma, ha cercato di dare tutt’altra risposta. Quindi un’altra strada è possibile, anche se al momento è, appunto, perseguita come illegale. Illegale era anche Rosa Parks, deceduta pochi giorni fa, quando su un tram di Montgomery, esattamente 50 anni fa, si sedeva sui sedili destinati ai bianchi e finiva in carcere per essersi rifiutata di tornare al suo posto, in fondo. Eppure in queste ore è celebrata come un’eroina della conquista dei diritti umani. Un’altra risposta dobbiamo cercarla appunto attraverso politiche e pratiche sociali alternative che già qualcuno, come a Roma , sta coraggiosamente sperimentando. E attraverso innovazioni culturali che finalmente si accorgano e cerchino di interpretare quello che sta succedendo non nel sud del mondo, ma dietro i nostri cortili. Dobbiamo pretendere tutti, da subito, che si lavori perché le politiche dei migranti siano ripensate a livello europeo, non solo e anzi soprattutto non, come politiche di repressione e contenimento. Domenica 16 ottobre ho partecipato alle primarie come volontaria dell’Unione: mi aspetto delle risposte a partire già dai prossimi giorni all’interno di quel programma del centrosinistra che non potrà non prendere in considerazione queste nuove emergenze sociali (la casa, le nuove povertà, le politiche verso i migranti) affinchè dal 2006 si possa costruire non un’alternanza, ma un’alternativa.
Un’ultima considerazione: in piazza, lunedì, non c’erano tanto i rumeni delle baracche, ma gli studenti strozzati dagli affitti in nero, non i lavavetri, ma i disobbedienti, occupanti di case sfitte sottoposti, da qualche mese a questa parte, a una pressione costante da parte delle forze dell’ordine. Sineddoche della massa di coloro che appartengono alla sfera sempre più ampia, sempre più composita, del disagio sociale, queste persone hanno manifestato per tutti, anche per noi. Dobbiamo loro delle risposte un po’ più articolate ed efficaci di quelle sinora imposte più che proposte.
Altrimenti, alla fine, i fantasmi del ’77 ritorneranno a gridarci in faccia il loro slogan: una risata vi seppellirà.
Bologna, 28 ottobre 2005
“Che succede in Val di Susa”?, “Ragioniamo: a che serve la TAV?”, “Sotto il treno”, “Ma io dico no all’Alta velocità”… La Grande Opera che ha provocato la sollevazioni degli abitanti e delle istituzioni locali apre belle discussioni: Edoardo Salzano la mette in un modo, Carla Ravaioli in un altro, Guglielmo Ragozzino e Giorgio Bocca in un altro ancora. Non credo che la virtù stia nel mezzo tra i favorevoli e i contrari, benché non mi senta affatto propenso, in generale, a rispondere solo sì o solo no a certe domande a meno che ciò sia l’unico modo di dichiarare la propria posizione. Voglio dire che non possono aver ragione entrambi, oppositori valsusani e sostenitori illuminati. Salzano fa benissimo a sollevare il problema della mancanza di democrazia nella decisione, quindi a ricordarci i fondamenti della pianificazione democratica: insomma le popolazioni, un po’grette difensori del bene locale devono essere convinte saggiamente dai riformisti agenti secondo gli interessi di tutta la nazione. Questa volta non mi schiero con te, caro Edoardo. Nessuno di noi urbanisti, sociologi, politici e altri, frequentatori permanenti del sito è sospettabile: per semplificare: stiamo tutti dalla parte del ferro contro la gomma – come si diceva una volta – e ci siamo battuti a favore di una politica delle infrastrutture che privilegiasse in assoluto la ferrovia/treno invece dell’autostrada-strada/auto, così come nelle città una politica del trasporto pubblico, in particolare i tram, avverso alle auto per ogni dove. Ma cerchiamo di non trascurare le domande del povero territorio nazionale come fosse una persona che implora con un filo di voce di salvargli le poche residue parti sane del corpo. Per parte mia ho anche pubblicato un pezzo sul sito, un anno fa (16 novembre 2004), del quale ripropongo il titolo programmatico Alta velocità. Morte delle ferrovie (e del paesaggio), alias morte del sistema arterioso, come dire morte del paese. Carla Ravaioli, con la consueta eleganza problematica, riconosce naturalmente l’obbligo del confronto democratico (chi di noi non lo vorrebbe?), tuttavia svolge un filo di pensiero molto originale che, sotto forma di una serie di punti interrogativi secondo un suo modo di dissertare che ben conosco, inerenti a un’alternativa “strutturale” (così le ho detto) nello scambio delle merci in territori ristretti anziché nel territorio globale, lascia intravedere la propria sostanziale opposizione intellettuale all’opera. Da Bocca e Ragozzino, soprattutto dal primo forse per la comune origine piemontese, mi sento ben rappresentato nel negare totalmente l’opportunità di una ferrovia che può sembrare in teoria non così assurda, direi provocatoria e fin da subito condannata come il ponte sullo Stretto o il veneziano Mose, ma che lo diventa nella data condizione del paese – di storia, di società. E di tempi. Come per le metropolitane concepite così in ritardo da renderne aleatoria la realizzazione oggigiorno per puro spavento davanti ai costi del tube svincolato dai tracciati stradali (a parte il prezzo della corruzione come nella craxiana linea 3 milanese), abbiamo perso il tren dell’avvenir e dobbiamo prenderne uno nostro, locale eppur senza cimici. Contestiamo l’AV (in verità denominabile ufficialmente AC – alta capacità – poiché il modello italiano, già verificato tra Firenze e Roma, non permette lo sfruttamento dei 350 Km/h alla francese o alla tedesca, bensì al massimo di 250) quale scelta sbagliata nel ventaglio dei progetti e degli interventi prioritari. Non può essere prioritaria un’opera di tale natura in un paese che ha continuato ad abolire o a sotto-utilizzare al limite della cancellazione normali ferrovie ritenute secondarie, bollate fin dal tempo del centro-sinistra democristiano/socialista con la stupida e pretestuosa definizione di “rami secchi”; un paese che negli ultimi anni ha menato colpi di scure alla cieca (anzi a occhiacci ben aperti da assassino) su tutta la rete considerata primaria, tagliandone parti, chiudendo stazioni, massacrando quelle grandi storiche mediante orribili interventi di commercializzazione degli spazi, gettando la conduzione dei treni – salvo la guida – nelle mani di pochi poveri giovani precari. Altro che nuove tratte “europee” superveloci finalmente anche per noi italiani! Avrebbero dovuto i governi, non se ne salva nessuno, farli rifiorire tutti quei rami, varare una vigorosa operazione di riassetto, completamento e modernizzazione dell’intera rete esistente (cominciando da elettrificazione, doppio binario, negazione delle motrici diesel sulle tratte considerate minori, eccetera). Sapete, cari amici, che, esempio a caso, uno dei trasporti ferroviari fondamentali per le relazioni Italia-Francia-Spagna, da Roma a Port Pou, non usufruisce del doppio binario per intero fra Genova e Ventimiglia? In ogni modo il completamento della rete normale è un obbligo anche per risolvere antiche discriminazioni verso vasti territori e popolazioni: la Calabria e la Sicilia, non prive di tracciati storici funzionanti meglio cent’anni fa (“… il treno si mosse. Vi fu il rauco segnale d’una tromba, poi lo strappo agli attacchi tra carro e carro, lo strappo alla ruote, poi un opaco chiarore che passò entro il vano di una porta, e poi la nera stazione già passata, la nera torre del serbatoio per l’acqua già passata. Comiso già passata nella nera notte di fichidindia cha passava via da sinistra a destra”, Elio Vittorini, La garibaldina); la Sardegna poi, dotata di servizio ferroviario quasi una finzione, tanto che gli abitanti, evidentemente abituati a ignorarlo, non sembrano nemmeno disponibili a protestare e a rivendicarne una riforma. Infine bisogna da una parte migliorare le comunicazioni ferroviarie trasversali nello stivale, dall’altra recuperare o reinventare la coerenza territoriale dei tracciati locali spesso di origine privata pervadenti capillarmente il territorio e persino risalenti le valli specialmente in Piemonte e Lombardia, man mano lasciati degradare, rovinare, sparire e, in qualche occasione dovuta a salvifico clientelismo politico, sostituititi malamente da un’esistente strada percorsa da un autobus affondato nel traffico automobilistico. Quest’ultimo recupero o ricostruzione contribuirebbe soprattutto a mitigare, e di molto, il patimento sopportato da una massa di pendolari per lavoro o studio.
Si osserverà: allora si doveva contestare anche la Bologna-Firenze e altro. Abbiamo condiviso la lotta degli amici triestini del Wwf contro la tratta che massacrerebbe il Carso. La prima invece poteva essere sostenuta quale radicale alternativa alla variante autostradale, sperando che davvero lo spostamento di gran parete delle merci dalla gomma al ferro potesse avverarsi: anche mediante una forte spinta politica, oggi assai dubbia, non bastando certamente di per sé la nuova occasione ferroviaria a convincere gli autotrasportatori. Peraltro non tutti i casi sono uguali. Circa la Milano Torino, oggi perfettamente verificabile nel tratto da Novara al capoluogo piemontese, Giorgio Bocca ha mille, un milione di ragioni, non meno che circa la Val di Susa. Non ripeto qui le sue vive denunce che sarebbe indecente attribuire a un suo presunto piemontesismo. Ma almeno questo voglio ricopiare: “per risparmiare un quarto d’ora di viaggio si è piantata nella più fertile e bella pianura d’Italia una gigantesca linea Maginot”. Mi ero mosso nello stesso senso scrivendo il pezzo a novembre dell’anno scorso. Inaccettabile non è solo la devastazione del paesaggio agrario, di sparizione di un larghissimo nastro di storiche risaie da Galliate a Santhià, ma anche il surdimensionmento ferro-cementizio delle opere d’arte per la ferrovia e il rifacimento di tutto il complesso autostradale che per lo più la fiancheggia: sovrappassi, entrate e uscite coi loro bravi quadrifogli, trifogli, anelloidi come nemmeno nei vecchi album di Gordon e l’imperatore giallo Ming, bordure, barriere, muraglie, pannelloni, reti, pilastroni tanto fitti da reggere non una rampa o un sovrappasso ma una petroliera carica: uno spettacolo impressionante di costruzioni palesemente inutili o esagerate al puro fine di distribuire o incassare denaro. Quindici minuti, forse solo dodici dicono tecnici non collusi con le imprese e certi politici non tutti di destra. Pagati cari.
Andate, andate a vedere; percorrete l’autostrada attenti a non spiaccicarvi perché distratti da tanto teatro dell’orrore. Poi spedite una e-mail a eddyburg.
Quanto alla Val Susa, se avrete l’età adatta la percorrete fra vent’anni potendo scegliere fra nuova e vecchia ferrovia, l’autostrada, due strade statali, varie strade locali, controllerete i tempi. Se vorrete potrete farmi conoscere le vostre impressioni telefonandomi o inviandomi un messaggio scritto: in paradiso naturalmente.
Lodo Meneghetti
11 novembre 2005
Non se ne parlava più, o pochissimo. Pareva che il problema della casa in Italia fosse stato risolto. Se capitava di leggerne sulla stampa notavamo la soddisfazione con la quale si pretendeva di collegare la presunta risoluzione alla diffusione della proprietà dell’abitazione, davvero notevole nel nostro paese. Si tendeva a esagerarne la portata trascurando la maggior precisione che la consultazione dei quadri statistici avrebbe permesso, così da rendere dubbioso chi volesse ragionare sul corso della condizione socioeconomica negli ultimi anni secondo cui è aumentata rapidamente la povertà e soprattutto il divario, giunto a livelli inaccettabili, fra i decili o i quintili o i terzili di famiglie più facoltose da un lato e più indigenti dall’altro. Poveri sì ma proprietari, dunque protetti e ben sopravviventi… Intanto si è consolidata lungo il tempo un’immagine convenzionale del paese che sociologi e giornalisti ci avevano più volte illustrato, un’Italia cosiddetta del 70 e del 30 %. Vale a dire una nazione in cui una bella maggioranza di persone o di famiglie costituirebbe un insieme molto differenziato ma che comprenderebbe, discendendo dal gruppo dei ricchissimi lungo la scala dei redditi – meglio dire delle classi o dei ceti – quelle in grado di vivere con parsimonia ma senza troppe rinunce ai consumi imposti dal modello economico-sociale dominante. Fuor del confine la minoranza estranea al gruppone, anch’essa disposta scalarmene fino all’ultimo gradino della pura sopravvivenza.
La proprietà dell’abitazione a partire dalla seconda metà del Novecento, riconosciuta importante componente appunto protettiva dell’esistenza produttiva e riproduttiva, non rappresenta automaticamente e totalmente appartenenza ai ceti abbienti, né, specialmente, coerenza della misura e della qualità dell’alloggio ai bisogni. Troppi sono i fattori variabili e le domande da introdurre nel tema dei bisogni entro la questione abitativa per affrontarlo qui. A ogni modo si può esser sicuri che una certa quota di alloggi posseduti non corrisponda a un buon abitare anche se il peggio sarà concentrato nelle affittanze.
… E, dimenticate le celebrazioni della proprietà, ecco esplodere improvvisamente sulla stampa una nuova attenzione al problema della penosità abitativa, che, si sa, riguarderebbe coloro che la casa non ce l’hanno non solo come propria ma nemmeno mediante un canone accettabile. A Roma un grande corteo di inquilini invade le strade e rilancia i vecchi slogan sulla casa come diritto se non servizio sociale; chiede il blocco degli sfratti, denuncia le distorsioni del mercato: la speculazione edilizia, il fermo alla costruzione o al riutilizzo di case popolari, la cartolarizzazione di beni pubblici che ha prodotto nuovi inquilini precari, il crescente debito delle famiglie con le banche a causa dei mutui. Sembra di tornare indietro nella storia urbana. Non siamo alla battaglia di Corso Traiano a Torino né al successivo sciopero generale per la casa (1969, altri tempi, altre situazioni), ma riguardo alle grandi città qualcuno suona l’allarme. Il sindaco della decima circoscrizione comunale romana viene sottoposto a indagine giudiziaria perché requisisce case a Cinecittà per fronteggiare, afferma, l’emergenza della quale poco si occupa la politica. Il Cresme diffonde i risultati di uno studio: l’affitto è una difficile alternativa alla proprietà dal momento che se il costo dell’acquisto è fortemente aumentato, non lo è di meno il prezzo dell’affitto, anzi nelle aree metropolitane ha potuto toccare l’85% di aumento fra 1998 e 2004 contro il 65% inerente agli acquisti. Affittare alloggi da privati potrebbe significare fra breve una taglia, in media, del 40 % per redditi di 20.000 euro. Quasi una coincidenza, in tutt’altro ambiente sociale: pochi giorni prima ad Alghero filosofi in convegno sul tema dell’abitare avevano riflettuto su una crisi vista, invece che soltanto come scarsità, quale perdita dell’appartenenza al luogo, a una “patria”-radice, un habitat. Pensiamo: chi più sradicato, o in pericolo di esserlo, di chi dis-abita nella paura di non conquistare o di perdere un diritto primario, chi deve lottare per poter vivere in pace in un suo piccolo spazio indubitato (“titolo di godimento” a parte)?
Osserviamo i rilevamenti del Censimento 2001. Forse non è un caso che la ripartizioni degli alloggi fra proprietà e affitto-più-“altro titolo” (gli alloggi relativi a quest’ultimo potrebbe mostrare persino una minor qualità) corrispondesse quasi a quel sociologico 70/30: nel totale nazionale 71, 4 % la proprietà, 28,6 l’affitto più l’”altro titolo”. La proprietà, secondo certe stime recenti, sarebbe faticosamente cresciuta ancora di qualche punto, specchio sicuro della difesa ad ogni costo avverso il ricatto dell’affittanza in una fase storica del moderno in cui il patrimonio abitativo pubblico disponibile sul mercato degli affitti tende a ridursi sempre di più. Faticosamente, ho scritto, pensando alle famiglie che danno il sangue alle imprese e alle banche e riducono tutti i consumi non essenziali – in primo luogo quelli culturali e di svago – per il possesso della casa (non illusorio, spero).
Minoranza tuttavia i privi di proprietà; perciò, mi dicono, il tema non sfonda nella politica nazionale. Se è per questo, nemmeno al centro di quella locale, come dimostra l’avventura romana di un semplice amministratore di circoscrizione. Destino delle minoranze. Che poi possono costituire una massa, come mostrano i numeri assoluti anziché relativi: il totale nazionale delle abitazioni in affitto al momento del censimento ammonta a 4 milioni e 325 mila; aggiungendovi gli alloggi occupati ad altro titolo siamo a 6 milioni 190 mila. Se procediamo dentro i dettagli dei rilevamenti e facciamo qualche semplice operazione, scopriamo il surplus di quasi 200 mila famiglie rispetto agli alloggi occupati, che significa quantomeno 400 mila coabitazioni, peraltro indicate cautamente in altra fonte in circa di 240 mila secondo la dizione “abitazioni con due e più famiglie”. Infine l’Istat, portata secondo una lunga tradizione democristiana a dipingere di rosa la situazione del paese, indica in 22 mila i senza casa definiti compuntamene “non in abitazione” (dove, se no? Baracche, rottami di tende, cartoni, sottoponti, portici, androni e così via): homeless che di certo era difficile contare nella loro presenza/residenza effettiva e che l’osservazione diretta urbana ci dice essere stati molti di più, allora, ed essere aumentati vertiginosamente negli anni successivi.
“Abbiamo prodotto troppe case o, meglio, abbiamo prodotto le case che non servono” disse Pier Luigi Cervellati al Convegno nazionale del Pci su Casa esodo occupazione tenuto a Venezia nel 1973. Era già vero e in seguito diventerà sempre più vero. Una gigantesca edificazione privata diretta alla moltiplicazione della rendita fondiaria e del profitto improduttivo in edilizia, che cedeva opportunisticamente la realizzazione della casa equa, per così dire, agli enti pubblici: invece sempre meno votati a un ruolo di questo genere e finalmente ridotti a non costruire più nulla e semmai a vendere i propri patrimoni immobiliari. Dobbiamo forse rimpiangere l’attività degli Istituti autonomi per la casa popolare (Iacp) prima e persino durante il fascismo, per esempio a Milano e a Roma?
La contraddizione più evidente del mercato in Italia è l’eccezionale quantità di abitazioni non occupate, cresciute senza soste dai primi anni Cinquanta in avanti secondo un andamento che in certi decenni ha provocato l’appropriazione di più dell’intero aumento degli alloggi. Un fenomeno impressionante, un primato: il Coordinamento europeo per l’alloggio sociale (Cecodhas) indica nel 24 % la quota odierna di appartamenti vuoti, quando la media europea sarebbe solo dell’11,8 % e quella relativa alla Francia addirittura di un misero 6,8% (notato sui quotidiani del 20 ottobre). Ma, per maggiori informazioni, torniamo al censimento e leggiamo anche i dati assoluti. 5 milioni e 640 mila le abitazioni non occupate, circa il 21 % del totale. Dunque una certa stabilizzazione proporzionale rispetto a dieci anni prima (21,3, grazie tante) con un ulteriore aggiunta di quasi 400 mila unità. Nuovo scatto negli anni fino a oggi, se ci affidiamo alla stima dell’ente europeo. In ogni caso mancano le parole per designare tale ennesima distorsione economica e sociale del paese. Il fenomeno è dovuto solo in piccola parte alla fisiologia della compra-vendita e degli affitti. La fetta di case vuote nelle città e al loro contorno comprende un patrimonio reso dalle immobiliare artificiosamente indisponibile al fine di provocare un effetto di compressione sulle abitazioni pronte per la vendita o l’affitto, così da aumentarne il prezzo. La stessa funzione svolge la trasformazione della destinazione – reale o formale – da abitazioni a uffici nei periodi convenienti. Ma l’insieme degli alloggi vuoti nelle città, nelle aree metropolitane e nelle aree non turistiche, insomma quelli non definibili “seconde case”, anche le case definitivamente abbandonate, per esempio nel mezzogiorno e dappertutto sulle montagne, non supera il 5-6 %, che del resto non è poco. (A Milano, da tempo maestra di deregulation, siamo quasi all’8 %, nella provincia al 6,7, nella regione lombarda a oltre il 14 %, evidente riflesso della presenza di ampie aree turistiche). Dunque la stragran parte del parco alloggi statisticamente non occupato è imputabile alle seconde, e terze, e quarte… case, cioè alle abitazioni che il linguaggio statistico definisce quali “destinate a vacanze e fine settimane” (ma l’Istat le conteggia erroneamente, in maniera incerta e insufficiente). I quasi cinque milioni di tali abitazioni accreditate per l’oggi, dopo cinquant’anni di recita da protagoniste del mercato, rappresentano l’essenza dello spreco, delle “case che non servono” e indicano un ulteriore divario sociale. Da una parte i possessori di una casa primaria, un’altra al mare, spesso una terza in montagna o ai laghi o in collina; da un’altra i poveracci che scendono in piazza e gridano dimenticati proclami del movimento operaio. Osservazione demagogica? Chiedo il permesso di immaginare un crudo contrasto fra una famiglia dei primi e un’abitazione-vita di un’altra che si adatta in un basso di Napoli, oppure una donna anziana sola, pensionata, che si arrabatta in una stanza di un’ultima residuale casa a ballatoio col cesso sul medesimo nel quartiere Ticinese-Genova a Milano: ormai tutto in mano ai padroni di un mercato rivolto alle élite che invadono le zone ex-popolari della città.
Lodo Meneghetti
9 novembre 2005
Il tribunale della UE, su richiesta della Commissione, ha di recente dato torto alle regioni che hanno dichiarato il proprio territorio Ogm free. Crediamo che si tratti di una sentenza grave, che non solo viola le autonomie regionali, ma contraddice il principio di precauzione che l’UE ha finora adottato in questa materia.
Vediamo in breve le ragioni molteplici e gravi per cui bisogna chiamare i cittadini alla vigilanza e alla protesta.
1. Gli Ogm sono piante che incorporano materiale genetico del mondo animale per combattere alcuni parassiti. Si tratta di un azzardo grave. Nel momento in cui l’opinione pubblica mondiale è in allarme per la possibilità che il virus dell’ «influenza dei polli» si possa trasmettere all’uomo, gli Ogm saltano le barriere naturali tra le specie e impongono all’alimentazione umana e animale un prodotto che non esiste in natura.
2. Non è mai stata condotta alcuna indagine epidemiologica che rassicuri sugli effetti degli Ogm sulla salute umana e animale.La Food and Drug Administration degli USA si è solo limitata a riconoscere l’equivalenza dei prodotti tradizionali con quelli geneticamente modificati. Mentre alcune indagini sperimentali hanno osservato danni agli organismi delle cavie. Nulla può rassicurarci sugli effetti di lungo periodo della loro assunzione.
3. Come viene ammesso anche da alcuni sostenitori degli Ogm, in campo aperto le nuove piante contamineranno le varietà tradizionali, creando situazioni di alterazioni ambientali che nessuno è in grado di prevedere.
4. L’ingresso degli Ogm nelle campagne europee sarebbe un colpo mortale alle nostre economie agricole, ai nostri prodotti tipici, alla nostra cucina, al nostro turismo.Nel giro di un paio di decenni, infatti, scomparirebbero le nostre varietà tradizionali (le viti del Chianti, le mele trentine, gli albicocchi vesuviani) sostituite da piante «patentate», manipolate nel loro corredo genetico e rese indistinguibili dalle stesse piante coltivate in qualunque punto del pianeta.Sarà sempre possibile aggiungere a piante e animali qualche nuova caratteristica biologica per sostituire gli esemplari tradizionali. Bisogna saper prevedere che la tendenza oggi in atto da parte di alcune grandi Corporations è di sottoporre l’intero mondo vivente ai processi di trasformazione e omologazione industriale. I profitti attesi sono enormi. Se non ci opporremo, tanto i nostri prosciutti che i formaggi francesi,i riesling tedeschi o le birre belghe saranno private del loro legame col territorio e le sue materie prime e consegnate al mondo indistinto degli alimenti manipolati in laboratorio. Non è allarmismo. Una volta che gli Ogm saranno penetrati nelle nostre economie, il processo di omologazione genetica diventerà inarrestabile.
5. Non è vero che gli Ogm risolverebbero il problema della fame . Come ricorda la FAO, nel mondo c’ è cibo a sufficienza per tutti : la presenza di milioni di affamati è dovuta all’iniquità della sua distribuzione. Al contrario di ciò che superficialmente si afferma, gli Ogm sono una grave minaccia per le società dei Paesi poveri. Perché la loro coltivazione risulti conveniente, infatti, essi richiedono una agricoltura capital intensive, cioè altamente meccanizzata, insediata in vaste superfici aziendali, sostenute da intense concimazioni chimiche e diserbanti. E’ esattamente l’agricoltura ipertecnologica che caccerebbe dalle loro terre milioni di contadini spingendoli ai margini di nuove e ingovernabili megalopoli.
7. Non abbiamo alcun bisogno dei prodotti Ogm. Tanto l’agricoltura europea che quella americana sono eccedentarie, cioè producono oltre il bisogno delle rispettive popolazioni e la collettività deve sostenere dei costi per limitare l’eccesso di derrate. Fare entrare gli Ogm in Europa, esponendo gratuitamente al rischio la salute dei cittadini, preparando l’erosione della biodiversità agricola delle nostre campagne, è una scelta suicida che nessuna superficiale ideologia del libero commercio può giustificare.
Roma, 12 ottobre 2005-
Pasticci, contraddizioni, assurdità nella protesta di un gruppo di architetti italiani contro gl’incarichi assegnati in questi ultimi anni ad architetti stranieri (vedi nel sito gli articoli riprodotti da giornali, gl’interventi, i documenti, date 10, 11, 18 settembre a partire dagli articoli di Pierluigi Panza sul “Corriere della sera” del 7 e 8). “Grandi” architetti contro “grandi” architetti, meglio “grandi” nomi contro “grandi” nomi? Sì e no. Infatti qualche firmatario dell’appello appartiene egli stesso, come i noti stranieri disputati, al jet set internazionale dell’architettura; il nome di qualcun altro, poi, è piccolo. Altri italiani non sottoscrittori (come Fuksas e Bellini), pieni di incarichi anche all’estero, vantano un proprio disinvolto internazionalismo privo di dubbi spendendo banalità sulla globalizzazione, un po’ mitigate da una certa differenziazione dai colleghi riguardo a questioni rilevanti, come la mancanza di opposizione all’abusivismo e ai condoni (dice il primo) o l’avvertimento a non cancellare le soprintendenze ma a riformarle e a qualificare maggiormente i concorsi (dice il secondo). Mi fermo subito alla motivazione più sconcertante contenuta nell’appello, appunto l’accusa alle soprintendenze di essere loro specialmente responsabili del mancato “sviluppo in Italia della nuova architettura”. Questa è davvero grossa. Qui si fanno carte false. Quali sarebbero le “molte opere significative rimaste sulla carta” a causa del “diritto di veto dei soprintendenti”? Non credo che a tal proposito si debba distinguere fra italiani e stranieri, e bado ai fatti. Una delle ultime contese ha riguardato, dal principio del 2004, la costruzione dell’auditorium progettato da Oscar Niemeyer per Ravello. Ampie discussioni in Eddyburg, documenti pro e contro, firme e controfirme… Per quasi tutti i frequentatori del sito l’opera violava le regole urbanistiche esistenti, inoltre danneggiava gravemente la funzionalità e la bellezza dell’ambiente, per parte sua già oltre i limiti della sopportabilità edificatoria. La soprintendenza, davanti all’arrogante decisionismo del Comune sostenuto da tanti nomi non tutti belli della cultura, del giornalismo, del management insofferenti della legalità, lasciò fare, l’auditorium vinse la partita. All’estremo opposto temporale una delle prime contese a vasta risonanza, quella relativa al progetto di Wright per il Memorial Masieri sul Canal Grande (vedi anche nel sito il mio Pirani non docet, 7 maggio 2004): un caso completamente diverso. Si intendeva inserire un edificio di modeste dimensioni in un breve tratto della cortina lungo il Canale. Le istituzioni locali e no, soprintendenza compresa, bocciarono il progetto, meravigliosamente (wrightianamente) ispirato alla storia alla natura ai sentimenti, accecate dal pregiudizio verso un’architettura moderna ritenuta comunque offensiva di un presunto inesistente stile del Canale: quando la cortina, lo sappiamo, espone architetture di cinque o sei secoli che è solo la forza della continuità e della partecipazione della strada d’acqua a tenere insieme. Fu il Comune, ossia la grettezza degli amministratori, più che la soprintendenza, a manifestare da subito il vero e proprio odio verso il progetto. Stessa sorte, per la medesima ragione, ebbe in seguito il progetto di Le Corbusier per un ospedale. Non è possibile un discorso risolutivo sui presunti impedimenti delle istituzioni contro la modernità in architettura. In sessant’anni è successo di tutto nel nostro paese, oggi lo abitiamo come fosse passata una terza guerra. Che ha devastato e soprattutto, come in un ossimoro, ha costruito costruito costruito, case e cose, al 99 per 100 estranee alla buona architettura e al disegno intelligente se non emblemi di inutilità, bruttezza e corruzione morale. È questo semmai che rivela la debolezza o la atarassia o l’opportunismo di certe soprintendenze, vuoi superate dai poteri dei politici e degli amministratori locali, vuoi strette anch’esse nel cerchio dei favori, delle collusioni e degli imbrogli pilotati dai proprietari fondiari e dagli imprenditori coi loro affidabili alleati dei governi e delle amministrazioni. La buona architettura, pochissima per definizione, praticamente invisibile girando il paese, si è introdotta dove ha potuto e le soprintendenze c’entrano poco. Tuttavia non sono mancati funzionari indipendenti, liberi e coraggiosi che hanno praticato la difesa a oltranza contro i nemici dei beni architettonici e artistici. Filippo Ciccone cita giustamente Adriano La Regina, il difensore di Roma inviso ai potenti (ha lasciato la carica, quasi costretto, a giugno dell’anno scorso), il difensore dei soprintendenti decentrati il cui “potere totalmente autonomo” (nell’appello), inaccettabile per gli appellanti sorprendentemente disinformati, non è più tale da anni a causa delle riforme strutturali (per esempio l’istituzione di direttori regionali di nomina politica) e delle forme di neo-centralismo governativo che però un “ministero ormai allo sfascio” (Ciccone) non riesce a gestire: La Regina, il soprintendente ai beni archeologici ritenuto inflessibile che in definitiva ha accettato la nuova sistemazione dell’ Ara Pacis in base al discutibile progetto di Richard Meier, anni fa membro di un gruppo il cui linguaggio fu definito da certi studiosi iper-razionalista.
Vado avanti con gli esempi. Il bravo architetto ticinese Mario Botta, straniero per modo di dire, condividendo l’appello, candido o furbo apprezza il centralismo e sprezza la figura del soprintendente. Grazie tante. Un po’ di pudore per favore! Jacopo Gardella, nell’articolo del 18 settembre in “la Repubblica” qui riprodotto, denuncia (senza far nomi, chissà perché) la scorrettezza, anzi la sostanziale illegalità dei due più importanti “interventi monumentali di questi anni” a Milano, la ristrutturazione della Scala e il nuovo teatro Arcimboldi, definiti e attuati senza concorso pubblico. Botta ebbe l’incarico comunale per la Scala su promozione di Sgarbi quando questi era sottosegretario, vale a dire del potere centrale, centralistico si vorrebbe dire. Ora, ripeto ciò che pochissimi nel nostro ambiente hanno osato obiettare: nessuna soprintendenza gli impedì di costruire la grossa inutile torta cilindrica che ci godiamo dalla piazza, volgendo le spalle a Palazzo Marino, di fianco all’imponente volume scenico e al di sopra del tetto del palazzo ex Biffi-Scala. Ma, si sa, criticare l’assurda costruzione vuol dire essere bollati come incapaci di comprendere la validità del linguaggio moderno parlato legittimamente accanto all’antico o ad altra lingua; inoltre è raro un giudizio critico da architetto ad architetto se entrambi appartenenti al gruppo ristretto degli italiani migliori e/o noti. Inutile, perché l’esigenza rappresentata dal volume destinato genericamente a sevizi era superata dall’acquisto dell’edificio in Via Verdi confinante con il complesso scaligero e perfetto, nella sua bruttezza da rimediare attraverso un bel progetto di riconfigurazione, per contenere quei misteriosi servizi (e perché misteriosi? Perché anche nelle visite guidate che la Scala offre la visione del cilindro all’interno è semplicemente non è ammessa). Suona male, caro Botta, il ricordo del vecchio divieto veneziano. Intanto, nel disinteresse delle soprintendenze ma anche degli architetti supposti colti, universitari e no, Mario Botta compreso, era stata distrutta la deliziosa Piccola Scala, opera Novecento di Piero Portaluppi indispensabile per le opere liriche appunto piccole, per quelle in forma di concerto e così via.
L’atteggiamento di Gregotti, progettista del teatro Arcimboldi oltre che di un intero pezzo di città sensazionale esempio di espansione urbana fuor di ogni piano o idea complessiva preventivamente dichiarata (più volte oggetto di riflessioni in Eddyburg), rivela le contraddizioni e le ambiguità che l’imprudente ricorso ad affermazioni radicali e corporative costringe a vivere. Lui firma l’appello, poi si mette da parte avvertendo l’esagerazione di aver incolpato le soprintendenze per un presunto mancato “sviluppo italiano dell’architettura” e ne richiede soltanto minor burocratizzazione e maggior qualificazione culturale, penso verso l’arte e la società: dotazione quest’ultima che forse non è troppo abbondante in suoi colleghi italiani o stranieri e che invece dovrebbe esigere, lui che colto è, quando osino dar lezioni di comportamento. Poi anche Gregotti dà un saggio di candore o di strana schizofrenia: la causa principale dell’invasione straniera, accanto al basso livello culturale di molte amministrazioni pubbliche, sarebbe dovuta alla “struttura dei concorsi”. Quale struttura quali concorsi, quand’egli, come ricorda Jacopo Gardella, ha partecipato all’infrazione delle regole europee e dell’etica professionale attraverso l’assegnazione privata del progetto Arcimboldi. Ad ogni modo il tema dei concorsi è quello sul quale gli appellanti avrebbero dovuto mobilitarsi seriamente e non solo per quei capestri verso i giovani denunciati ancora da Gardella. Mi riferisco soprattutto ai falsi concorsi come quello indetto dal Comune di Milano per l’area della Vecchia Fiera: non un confronto fra progetti autorali veri ma una gara fra imprese invitate che offrono un prodotto col suo prezzo quasi chiavi in mano (ma che poi potrà essere molto diverso). Ogni impresa o gruppo di imprese trascina con sé un architetto necessariamente famoso a scala di mercato globale dell’architettura (è questo che probabilmente fa privilegiare il ricorso a nomi stranieri altisonanti), lo utilizza come un’effige pubblicitaria, assume i suoi rendering o modelli quali informazioni figurative più o meno fantasiose per épater la impropria giuria dell’improprio concorso. Gli architetti avrebbero dovuto attaccare pesantemente il risultato: quell’indecente progetto Hadid-Isozaki-Lebeskind, i tre famosi al servizio della cordata vittoriosa Generali-Ligresti-Lanaro-Grupo Lar Desarrolos Residentiales: le tre torri ora note a quasi tutti i milanesi grazie all’impressionante battage della giunta municipale e contestate dai residenti nella zona, tre ognuna per sé dalle forme insensate, che non sanno organizzare lo spazio, che accettano l’incredibile scarsità di verde (altro che nostro Central Park propagandato dal sindaco Albertini), che rivelano la totale incapacità di ascoltare Milano, la sua storia, la sua crisi (per un quadro degli interventi in ballo a Milano vedi nel sito i miei Le nuove Milano estranee. L’architettura servile, 30 ottobre 2004, e Non- architettura a Milano, 19 luglio 2004). Ecco il punto debole che i più bravi architetti italiani e in particolare i milanesi, purché irreprensibili nei loro gesti professionali e culturali, dovrebbero denotare in colleghi stranieri chiamati da imprenditori e imprese di costruzioni a servirli: l’impreparazione o l’inettitudine a capire il contesto del progetto e dell’opera, a introiettarne la storia i valori e i sentimenti mentre lo si avvicina fin dal principio: non bastano le visite sul posto per risolvere il problema. Si obietterà che lo stesso varrebbe per architetti italiani molto attivi in altri paesi, come i globalisti Fuksas, Bellini, Benini… Beh, se rivendicano un internazionalismo architettonico indifferente, vuol dire che dei contesti se ne impipano. Le contraddizioni non hanno fine, peraltro: come può un Gregotti, che al massimo riconosce se stesso in un “internazionalismo critico”, formula di comodo d’altronde, progettare intere città in Cina? (Non so, apriamo finalmente una vera discussione sull’architettura, che forse è morta davvero come è morta l’urbanistica dalla quale si era separata, perciò indebolendosi anziché rafforzarsi come si era potuto credere: “è morta quale mestiere civile comunitario di lotta o almeno di avvertimento verso l’individualismo che ignora il contesto sociale-spaziale e pretende solo l’esaltazione del sé – anche quando il risultato appare, a chi esercita i propri sensi e dunque sa riconoscere proprietà e bellezza, irrimediabile errore e inopinabile bruttezza”, La partecipazione in urbanistica e architettura. Scritti e interviste, Unicopli, Milano 2003, p. 82. Cade a proposito qui il ricordo della pesante critica – finalmente! – dell’oscillante Gregotti ai progetti per Ground Zero: “… tutta la vicenda architettonica che ha accompagnato con solerte e interessata prontezza la tragedia dell’11 settembre è stata una rara collezione di stolti esibizionismi personali… sotto l’insegna del Guiness dei Primati – ha vinto naturalmente chi ha proposto il grattacielo più alto [Daniel Lebeskind] – e dell’assenza di ogni sobrietà espressiva”, in “la Repubblica”, 2 marzo 2003. Spero che l’autore del duro giudizio non se lo sia concesso stante la foreignness dell’architetto). Non peroro alcun regionalismo architettonico; ma non dimentico che la crisi del Razionalismo italiano ed europeo fu dovuta anche o soprattutto all’omologazione di uno stile internazionale posto al di sopra della storia e dello spirito dei luoghi, un pensiero senza sbocchi di fronte alle pressanti domande poste agli urbanisti e architetti dalle città, salvate o disastrate, appena finita la guerra.
Imprenditori/imprese e architetti: gli appellanti, invece che sparare su nemici inesistenti, dovrebbero combattere contro il predominio, purtroppo oggi ben consolidato, degli immobiliaristi e quindi denunciare l’umiliante sudditanza degli architetti sia in occasione dei falsi concorsi o gare, sia quando vengano scelti come da un padrone il suo maggiordomo. Come accettare, per esempio, la volgare arroganza di un qualsiasi Luigi Zunino, giovane personaggio inesistente per i cittadini se non i pochi attentissimi agli intrighi finanziari e fondiari e borsistici, arrivato tardi sulla scena milanese esibendo il mestiere di “sviluppatore”, che vanta di “scegliere il meglio”, di qua un Norman Foster di là un Renzo Piano quasi fossero marionette appese al filo? (articolo del “Corriere” dell’8 settembre). Si obietterà che è destino degli architetti, da sempre, di essere prescelti dai potenti e dai governanti per i maggiori progetti. Sì, ma Zunino o Ligresti o Lanaro o Tronchetti Provera non sono Giulio II o Sisto V, e il lombardo governatore Formigoni, che ha scelto Ieoh Ming Pei per il personale “grattacielo più alto d’Europa”, non è l’urbinate duca Federico di Montefeltro.
Milano, 22 settembre 2005
Raccontare la realtà crudele come se fosse una realtà radiosa è sempre stato un modo a buon mercato per rendere la vita meno dura. E dirsi bugie sino a convincersi che la bugia sia la verità, aiuta a sopportare il peso dell’esistenza. Chi non si racconta bugie conduce una vita crudele. L’illusione ha un così grande successo perché - come il valium, l’eroina e altre sostanze - aiuta a vivere.
Con lo scopo di creare un’illusione nasce la cosiddetta BIT che è nientemeno che la Borsa Italiana per il Turismo. Una, come si dice, convention di varie realtà regionali tutte rappresentate in modo fittizio, da rotocalco, addirittura mitologico e, in una parola, falso. Alla BIT ogni regione, anche la più devastata, si mostra con una mano di cerone spessa un dito, con tutte le vergogne nascoste e adornata da belle facce di giovani nel fiore degli anni che, si sa, è un fiore che dura poco. La BIT rappresenta una sfilata di luoghi comuni avvilenti.
La Calabria, che la mano dell’uomo ha trasformato in un’ininterrotta serie di orrori lungo la costa tirrenica - senza dimenticare quella ionica - si presenta alla BIT come una terra vergine e incontaminata. La Sicilia, che non possiede più un chilometro di costa conservato, è altrettanto vergine agli occhi della BIT anche se è deflorata da decenni. E tutte le regioni italiane sono, alla BIT, giovani intatte, mai toccate dalla mano volgare dell’uomo.
Cagliari, alla BIT, è la capitale del mediterraneo ma nel mediterraneo non lo sa nessuno. Marsiglia, Napoli, Barcellona e varie altre città non sono informate che la loro capitale è Cagliari.
Le nostre coste, alla BIT, sono uniche. Ma anche questa è una notizia della quale non sembra che tutti tengano conto e qualche eretico trova belli altri mari e altre coste.
E poi, oltre alla balla che viviamo nel migliore dei mondi, c’è un’idea mortificante che la BIT propaga: l’idea che un viaggio non è più un viaggio. Il viaggio si chiama “prodotto turistico”, il viaggio è diventato un prodotto.
Questa espressione, a rifletterci, è un’espressione drammatica. Il “prodotto turistico” annuncia un futuro privo di fantasia, privo di ogni processo di ideazione personale. L’idea stessa del “prodotto” asfissia anche la fantasia più libera. Immaginare, provare, sbagliare, arrivare alla conquista più piccola – anche la cottura di un uovo – attraverso la sperimentazione personale, avere un colpo di fantasia, e mettersi in viaggio liberamente, alla BIT non è accettato. Questa faccenda di inventarsi le cose, di cuocersi le uova da soli o di progettarsi addirittura un viaggio viene considerata come un male da estirpare. Non c’è più nulla da inventare, non è più necessario.
Tutto, alla BIT, è racchiuso in un marchio, fondato su un simbolo. E le regioni, per farsi riconoscere dalla gente, non utilizzano più le bandiere: utilizzano un marchio da appiccicare al prodotto.
La Sardegna si è procurata il suo marchio: una madre mediterranea circolare, con le pudende e tutto il resto. Il simbolo lo ha scelto un grande pubblicitario, tanto bravo che ha perfino resuscitato il senso estetico di alcuni consiglieri regionali i quali hanno discusso in aula e in televisione di cosa è arte e cosa non lo è, come in un dialogo di Platone. Un risultato rivoluzionario.
Però il fatto è che dietro ai simboli - geniali o no che siano - si trovano bugie.
La nostra isola alla BIT è stata rappresentata in bianco e nero e questo ha urtato il senso del bello di alcuni che vorrebbero la Sardegna sempre e tutta a colori. Ma il bianco e nero è l’unico modo possibile di rappresentarci.
Il pubblicitario – che alle volte è una specie di sensitivo – ha intuito bene quando ha scelto di non usare gli altri colori. Il verde, l’azzurro, il celeste e tutti gli altri colori gli sono mancati, ed è giusto così. Noi siamo un popolo in bianco e nero.
Sarebbe offensivo dimenticare in un tripudio di colori cosa succede da queste parti.
E noi alla BIT, per decenza, non dovevamo esserci.
La BIT è una caricatura, è un esempio perfetto di come il mondo non deve diventare.
Dell’isola non si deve mai più parlare, pochi devono sapere che esiste perché l’unico modo per conferirle un valore è il silenzio e l’invisibilità che l’ha sempre avvolta nei millenni.
Se oggi tragicamente un’intera generazione ha vissuto il dolore di un lavoro incerto perché si è pensato di costruire ciminiere e fabbriche che non avevano nessun passato e nessun futuro, se oggi qualcuno cerca di ingannare la generazione successiva con l’illusione di un’immensa Rimini di plastica dove i viaggi sono “prodotti” impacchettati, tutto questo si deve alla cosiddetta “visibilità” che è una malattia mortale, una strada senza ritorno.
Appena si diviene visibili si diventa anche un oggetto consumabile in tempi rapidi. E noi, sopravissuti per millenni, in pochi anni scompariremo ingoiati dalla “visibilità”.
Eravamo un piccolo popolo invisibile, nessuno ci conosceva e tutto avveniva da altre parti.
Ora la BIT ci vende come un prodotto e davanti a quest’idea si capisce che la distruzione è certa e molto vicina.
Alla prossima Borsa italiana per il turismo la Sardegna dovrebbe essere cancellata e noi non dovremmo più esistere per il mondo perché ci è sufficiente il danno che il cosiddetto mercato e le cosiddette borse hanno causato.
Ieri, a Villasimius, una giornata invernale e grigia, l’ansa della spiaggia, lo stagno pieno d’acqua e di vita erano bellissimi. Ma appena gli occhi si posavano verso il ripugnante albergo a tre piani che con violenza occupa ogni spazio sino ai margini dello stagno si poteva vedere cosa è in realtà un “prodotto turistico”. Poi, spostandosi di poco, si vedeva come, per procurare altri “prodotti turistici”, si sono fatte scomparire spiagge che, BIT dopo BIT, sono rimaste solo nelle fotografie.
L’unica possibilità di conservarci integri è che il silenzio e la dimenticanza ritornino ad essere gli unici padroni dell’isola. Zitti, dimenticati, impercettibili, invisibili.
Quest'articolo è comparso su la Nuova Sardegna nel luglio 2005
Sono amici a chiedermi in questi giorni la firma a favore di questo o quel candidato alle primarie; amiciche stimo e con i quali divido molte convinzioni. Ma, con rincrescimento, la mia risposta non può che essere negativa.
Per molte ragioni. Innanzitutto per quelle a più riprese lucidamente illustrate da Giuseppe Chiarante su queste pagine. Il rifiuto di un istituto che inevitabilmente comporta “una visione leaderistica e personalistica della politica” e funestamente richiama l’impianto autoritario e decisionista della destra berlusconiana, con i guai che ne sono seguiti. Il rischio dunque di approdare a un ulteriore indebolimento degli strumenti democratici anziché a quella vistosa prova di partecipazione diretta che si vorrebbe. E il non infondato timore che l’iniziativa pervenga poi a un esito opposto a quello cercato, con l’affollarsi di candidature fatalmente destinate a ridurre gli spazi delle presenze più forti in gara. E la gran confusione che ne è nata e che va scivolando verso una pericolosa deriva trasformista, per il rilancio nientemeno che di un “grande centro”.
Ma le mie ragioni sono anche altre. Il programma a ottobre, dopo le primarie, ha annunciato fin da subito Prodi. E ancora qualche giorno fa, interrogato in proposito, non è andato oltre generiche vaghezze del tipo “una cornice di valori comuni che abbiamo chiamato il progetto dell’Unione”, o “un filo comune sui grandi temi”: che sarebbero a suo dire “Bankitalia, risparmio, nuove regole, valori”. La cosa francamente mi riesce difficile da capire, e più ancora da accettare. Perché, insomma, un soggetto politico (e chiunque si candida a governare, partito o gruppo o singola persona che sia, è certamente tale) in che modo definisce la propria identità se non per la sua lettura della realtà, per il giudizio che ne esprime, e per il modo in cui vorrebbe modificarla così da avvicinarla il più possibile al modello da lui ritenuto ottimale? Se non, in una parola, per il programma che propone agli elettori nel momento in cui ne chiede il voto? Non si vede dunque perché mai si dovrebbe votare una persona, sia pure della migliore qualità, per la quale si nutra stima e magari amicizia, se non dice che cosa farà una volta eletto. Ed è stata infatti proprio la mancanza di programmi dell’Unione a provocare la scesa in campo di nuove candidature, specie della sinistra radicale, provviste di qualche corredo programmatico
Ma tra i tanti motivi per cui queste primarie non mi convincono, quello che subito m’è venuto a mente al loro annuncio, è che davvero di un'altra tornata elettorale in Italia non si sentiva il bisogno. Elezioni politiche e amministrative, referendum su questa o quella materia, hanno luogo periodicamente in tutti i paesi democratici. In più nel nostro continente abbiamo le “europee”. Sono momenti fondamentali della vita collettiva che naturalmente, doverosamente, assorbono per qualche tempo l’attività politica e polarizzano l’attenzione pubblica. Accade ovviamente anche in Italia. Non diversamente che in ogni altra nazione, parrebbe ovvio pensare. Eppure, a guardar bene, non è così. E non sembra gratuita la sensazione, non solo mia, di un paese in perenne campagna elettorale. Proviamo a fare il punto. C’è innanzitutto la proverbiale instabilità dei governi italiani. Una legislatura che giunga al suo termine naturale da noi è praticamente un’eccezione, e già questo moltiplica il numero delle consultazioni nazionali. Ma crisi tutt’altro che rare colpiscono anche comuni provincie regioni, esigendo nuovi ricorsi alle urne, e creando uno sfasamento rispetto alla data fissata per il grosso delle amministrative, che comporta non poche elezioni locali svolte in ordine sparso e in tempi diversi. Al tutto si somma la proliferazione dei referendum, che nessuno mai si sogna di accorpare con altri eventi elettorali.
Cose che accadono anche negli altri paesi? Certo, anche se certo con minore frequenza, e soprattutto agite in altro modo. Perché, a parte il numero degli episodi elettorali, proviamo a domandarci: anche in Germania, Francia, Inghilterra, ecc., il rinnovo di un piccolo gruppo di amministrazioni locali comporta, come da noi, l’interruzione dei lavori parlamentari e la mobilitazione non solo dei politici direttamente interessati ma di tutti i leader di prima grandezza? E ogni referendum, anche riguardante materie che dovrebbero interessare gruppi limitati, finisce, come da noi, per assumere valenze di portata universale, con richiami a valori eterni e sconfinamenti nel trascendente? E appena chiusi i seggi, spente le telecamere sugli exit poll, terminata la serie delle interviste in cui ognuno si dichiara vincente, immediatamente si incomincia a parlare delle elezioni prossime venture, in qualche modo avviando la nuova campagna? Non ho fatto ricerche in proposito, ma credo proprio si possa rispondere no.
E però le elezioni riaccendono il dibattito politico che altrimenti si affloscerebbe, mi faceva notare un amico. Vero. Ma che tipo di dibattito, che tipo di politica? Vincere, conquistare il governo o il seggio, raccogliere per sé e/o per il proprio partito il maggior numero possibile di voti, è in campagna elettorale l’obiettivo di quanti accendono e tengono vivo il dibattito. Un obiettivo estremamente ravvicinato, da conseguire passando per le esigenze, gli interessi, gli umori, la disponibilità, la capacità ricettiva, i condizionamenti pregressi, degli elettori; e pertanto inevitabilmente puntando su problemi (che si suppone) per loro prioritari, facendo leva su argomenti (che si ritiene) di sicuro gradimento, elencando promesse (che si spera) non difficili da mantenere, omettendo ogni ipotesi (che si teme) non agevolmente accettabile, e così via. Seguendo la precettistica del politichese corrente o affidandosi all’inventiva personale, ma sempre necessariamente attenendosi a una dimensione contingente delle questioni trattate, di fronte a ogni materia tralasciando di cercarne le radici, di rapportarle a fenomeni analoghi ancorché di terre lontane, di ricondurle al più vasto orizzonte della politica-mondo, quella che in misura sempre più cogente determina anche il nostro piccolo orizzonte quotidiano. Necessariamente scontando un drastico impoverimento del discorso, una brutale riduzione dei problemi all’utile più spicciolo e immediato.
E’ vero che in generale, anche quando ce ne sarebbero spazio e opportunità, i nostri politici (e, diciamolo, non i nostri soltanto) non sembrano gran che vogliosi di avventurarsi su sentieri che appena oltrepassino la siepe del giardino. Ma certo gli impegni elettorali che a ritmi accelerati si susseguono e si accavallano praticamente senza sosta, non sono d’aiuto. E penso con terrore che cosa accadrebbe qualora l’invenzione prodiana delle primarie facesse scuola, e ogni elezione si raddoppiasse. Dio non lo permetta.
Qualche settimana fa Pietro Citati descriveva su Repubblica l’ennesima violenza edilizia in un centro storico: la costruzione, inspiegabile nella sua assurdità, di un grosso albergo nel bel mezzo di una frazione del comune di San Candido/Innichen (provincia di Bolzano), finora rimasta intatta nella bellezza dovuta, come sempre, a un secolare equilibrio degli spazi e dell’architettura. Messo da parte il mito di un Alto Adige meglio amministrato di ogni altro territorio nazionale dal punto di vista paesaggistico, Citati collocava l’esempio di inaspettato scempio accanto a un breve scenario di rovine ambientali irrecuperabili. Fra queste, la costa ligure per l’intera parte occidentale e, a seguire, la Costa Azzurra (anche lei, la leggendaria nobile signora). Mi ha sorpreso – e soddisfatto – il riferimento alla Liguria perché raramente avevo sentito lamentarne l’attuale condizione derivata da oltre mezzo secolo di estesi interventi edilizi, per decine di milioni di metri cubi in continuità costiera e poi risalenti le colline: per la maggior parte concessi dai municipi, per il resto tollerati e in seguito oggetto di sanatoria. Il Ponente ha mangiato il proprio territorio, ha abolito quel fantastico e necessario paesaggio costituito da centri costieri largamente spaziati fra loro e dialoganti coi paesetti distribuiti sulle colline, questi come guardie del mare dall’alto e tramiti della risalita alle Alpi Marittime. Soddisfatto, dico: poiché alla fine del 2004 in Eddyburg avevo lanciato un avviso proprio riguardo alla Liguria: “è la regione primatista per data d’inizio e per quantità proporzionale della cementificazione costiera eccetto l’estremo lembo sud-orientale prima di La Spezia” cui appartengono le Cinque Terre patrimonio dell’umanità (Abusi incredibili, 24 dicembre 2004; ora in Parole in rete. Interventi in Eddyburg, giornale e archivio di urbanistica, politica e altre cose, Libreria Clup. Milano 2005, p. 169). Peraltro viene da Rapallo – la città a oriente di Genova vessillo della libera costruzione di ogni obbrobrio per seconde case – il terminerapallizzazione, sinonimo per distruzione totale come avvenne a Coventry, la città inglese sottoposta durante la guerra a spietati bombardamenti aerei “a tappeto”: coventrizzazione significa radere al suolo: così varrebbe l’ossimoro rapallese costruire per distruggere.
Torniamo a occidente. Un aspetto, un fenomeno specifico, tanto caratteristico da non trovarne altri di ugual portata nel paese, sono le produzioni floreali. Ricavo la locuzione da una vecchia, quarantennale Guida rossa del Touring club italiano, che impiega giustamente una parola, produzione – che suona fessa riferita ai fiori, a noi ancora infiltrati da infantili nessi fiori/poesia, fiori/gentilezza e così via –, giacché “è la statistica delle produzioni floreali a definire meglio di ogni altra l’economia agricola della Liguria”. Fiori recisi, a cui si aggiungano piante ornamentali, fiori e foglie per profumi, già allora il 73% del valore prodotto in Italia. Colture specializzate, si legge, “notissime le serrette mobili, con vetrate facilmente spostabili”. Ecco, man mano lungo i decenni questa forma di agricoltura che già evidenziava profonde zeppe e contraddittorietà del paesaggio agrario e del paesaggio tout court, tende a specializzarsi sempre più, ad abbandonare ogni componente artigianale, a diventare industria vera e propria priva del benché minimo rispetto del suolo naturale. Le “serrette” di allora diventano grandi serre conquistatrici, alla pari delle nuove case, di una larga fascia costiera da Albenga fino a Ventimiglia; occupano le colline e le poche conche risparmiate dalle costruzione di condomini, ville, casette. Sono esse la forma originale locale dell’espansione e pervasione edilizia aggiuntiva, queste serrone lunghissime, qualcuna isolata qua e là ma per lo più sovrapposte l’una all’altra sfruttando le chine o le balze, e in successione lineare sul pendio e in piano. Ogni fabbricato, perché di questo si tratta, lungo anche decine di metri, alto quanto è necessario, di colore biancastro e opaco come un muro a vederlo da lontano, si salda in alto e in basso, al capo e alla coda con gli altri o agli altri rimanda attraverso brevi vuoti come spazi perduti: per oltre settanta chilometri diverse serie verticali e orizzontali di ammassi di corpi crudamente estranei alle nostre attese di appaganti visioni e sensazioni paesaggistiche, muraglie vetrose o plasticose, in proiezione ortogonale. Un’”agricoltura” tra mille virgolette, senz’altro un grosso affare che ha conquistato i mercati internazionali, ha distrutto altre colture come la vite e l’ulivo, si è affermato a causa della tracotanza di imprenditori grossi medi piccoli nonché grazie al favore degli amministratori locali e al timoroso disimpegno delle soprintendenze.Per tacere del disinteresse degli urbanisti e degli architetti, salvo inascoltate critiche provenienti da tesi di laurea dimenticate. A ogni modo, un esempio unico di decostruzione del paesaggio, un esempio raro di ambiente sostitutivo che più brutto è difficile immaginare, un esempio di coltivazione falsificata lontanissima dalla concezione che identifica la coltura con la cultura, la cura, la ragione (colere artes et studia; curare: rationem habere). Gl’imprenditori turistici e i sindaci lamentano la diminuzione dei soggiorni. Bene. Detratte le cause economiche generali, da sempre scarsamente incidenti, saranno finalmente le masse dei ciechi in occhi, cervello e anima ad essersi accorti dell’imbroglio e a scegliere altrimenti?
Nelle città chioschi di fioristi li vedi a numerosi angoli di strade, nelle piazze, sotto i portici. Vedi mazzi di fiori divisi per specie, ogni fiore identico all’altro, prodotti a macchina in serie, come di plastica. Passi, noti i colori ma non senti il minimo profumo.
30 agosto 2005
Se avessi letto Galli della Loggia, probabilmente avrei fischiato anch’io, ieri, in piazza. Il 2 agosto per noi di Bologna è un rito doloroso che si rinnova con la stessa intensità anno dopo anno: per moltissimi bolognesi “le ferie” finiscono o iniziano prima o dopo il 2 agosto, perché in quel giorno abbiamo un appuntamento fisso con la memoria, qui, alla stazione. Altri anniversari pur altrettanto dolorosi e più recenti, come ad esempio la strage del Pilastro della uno bianca, non occupano nella gerarchia non scritta dei nostri sentimenti civici, lo stesso posto.
E anche a livello nazionale la strage della stazione di Bologna (la più sanguinosa in Europa prima del massacro di Madrid dell’11 marzo 2004) segna l’apice e per fortuna il finale di una stagione denominata non a caso “anni di piombo”, iniziata con piazza Fontana: la perdita d’innocenza del ’68. E in qualche modo, questo ruolo di ‘snodo’ cruciale rappresentato dalla strage del 2 agosto, qui, a Bologna, l’abbiamo sentito subito ed interpretato negli anni: nella commemorazione alla stazione era come se si assommassero le commemorazioni di tutte le altre stragi che hanno insanguinato un periodo nel quale si contano più di 1000 morti e feriti per terrorismo e quasi 15.000 atti di violenza con danni alle persone. “Piccola, grande ecatombe” l’ha definita Piero Ignazi in un suo recente studio sulla rivista del Mulino intitolato “Gli anni Settanta e la memoria monca”. Proprio a questo tentativo di menomazione della memoria ci siamo sempre ribellati, da quella piazza, per tutti, quello di ‘sistemare’ una incredibile sequenza storica di violenze, misteri, depistaggi, connessioni mai chiarite, segreti di Stato e di fatto, vicende giudiziarie surreali, con l’individuazione sporadica di alcuni esecutori materiali. Totalmente impunito è, a 35 anni di distanza, l’incipit, tenebrosissimo, di questa storia: la strage di Piazza Fontana, così Ustica e altri; foschissime nubi si addensano sulle troppo frettolose verità di quasi tutti gli altri episodi, a partire dal caso Moro per finire appunto con Bologna, a proposito della quale gli ultimi veleni distillati in tempi recentissimi da un ex Presidente della Repubblica a proposito di piste mediorientali, si assommano a ricostruzioni di ben altra parte e da anni ben poco allineate alle verità ufficiali (v. per tutti l’articolo di Andrea Colombo, il manifesto, 03/08/2005).
Eppure, secondo il celebre opinionista del nostro quotidiano principe quella piazza di così plateale ‘ineducazione politica’ (sic) dovrebbe finalmente rassegnarsi ad accettare che il passato vada ‘accolto nella memoria per ciò che esso è stato, e dunque anche con tutte le sue oscurità, le sue ambiguità, le sue contraddizioni’. I fischi di ieri sono quindi sintomo irrefutabile di ‘primitivismo ideologico plebeo’ e su essi, quasi esclusivamente, si concentra l’attenzione quasi ossessiva della stampa di oggi in maniera assolutamente bipartisan. In verità si è trattato di una contestazione esclusivamente verbale di pochissimi minuti che non ha di fatto impedito al vicepresidente del consiglio di leggere frettolosamente le due paginette stilate per l’occasione. E quei fischi, ampiamente prevedibili, si ripetono ormai da molti anni all’indirizzo non di un personaggio specifico e neppure di una sola parte politica, ma di chi, su quel palco, rappresenta uno Stato che in molti dei suoi apparati, dai politici di più alto livello ai servizi segreti, ha mostrato in questi 25 anni troppe incertezze, reticenze, connivenze.
Quei fischi rappresentano la vera componente irrituale di una cerimonia che la nostra comunità non vuole imbalsamare in uno scontato rito consolatorio: e in fondo anche a noi, ai tanti che non se ne sono andati, che non hanno fischiato, non è mica tanto piaciuta quell’insistente unanime deprecazione sul ‘fattaccio’ da parte dei nostri rappresentanti. Primo fra tutti il nostro Sindaco, evidentemente preoccupato soprattutto del sarcastico rimbrotto sulla ‘bella piazza’ sibilatogli dal vicepresidente del Consiglio: che disdetta dopo che il suo bel discorso aveva strappato solo applausi, magari facendo leva anche sul vecchio let-motiv dell’abolizione del segreto di Stato. Non è mai stato apposto il segreto di Stato sulla strage di Bologna, non poteva esserlo, ma regolarmente questa parola d’ordine viene sventolata e anche quest’anno puntualmente ripresa dal florilegio tutto del centrosinistra quasi a perpetuare, anche nella condanna, per demagogia o pigrizia intellettuale, quella pratica della disinformazione che attraversa questa storia sin dall’inizio. E come poteva essere altrimenti: a chi sta facendo della ‘legalità’ la madre di tutte le battaglie, che risolve il problema dell’immigrazione con qualche ruspa e ritiene incompatibile con la quiete cittadina una sfilata antiproibizionista, quei fischi in clamoroso contrasto con le severe raccomandazioni dei giorni precedenti, devono essere sembrati una disobbedienza degna della peggiore suburra.
Certo, come hanno notato soprattutto i familiari delle vittime, un così deflagrante scalpore sui fischi bolognesi è servito soprattutto a stornare l’attenzione dai fatti giudiziari (Fioravanti e Mambro in semilibertà), dalla vergogna delle continue pseudorivelazioni che ancora si succedono e montano, di anno in anno, così che, fra non molto, delle sfolgoranti verità giudiziarie rimarrà ben poco, oltre alla sensazione di una marea melmosa che continua a salire inesorabile. Ma ancora, questa condanna così unanimemente condivisa temo sia anche il sintomo di qualcosa di diverso e di peggiore: una piazza che si ribella è intollerabile, un dissenso che si manifesta così scompostamente, anche se del tutto non violento, è inammissibile nelle logiche oggi prevalenti della pratica politica, sempre più ‘normate’ e desiderose di espungere qualsiasi pratica di dissenso non prevista a priori: a una commemorazione non si fischia, si celebra e basta. Quei fischi sono, forse, al contrario, i veri misconosciuti eredi di quella solidarietà corale, di quel mitico ‘senso civico’ che fece accorrere i bolognesi 25 anni fa a scavare tutti insieme in quella collinetta fumante di detriti e resti umani e ritrovarsi tutti, ma proprio tutti in Piazza Maggiore in occasione dei funerali delle vittime. I tempi sono cambiati, forse la ‘dignitosa, ferma compostezza’ di allora, a 25 anni di distanza, ha bisogno di qualche aggiornamento e di qualche fischio per risvegliarsi dal torpore, prima che sia troppo tardi.
Ma ieri mattina, arrivando in quella piazza di fronte alla stazione, ancora una volta così piena e con tante facce giovani, si era rinnovato in molti di noi l’orgoglio di appartenenza a quella comunità così tenacemente attaccata ai suoi ricordi: bella quella piazza, sì, davvero, signor vicepresidente, così attenta e vigile, così poco ubbidiente e allineata, così poco ‘per bene’…
Maria Pia Guermandi
Bologna, 3 agosto 2005
Da quando i sindaci e le giunte comunali hanno diviso l’isola in fettine di diverso prezzo, in vendita come sul banco di una macelleria ( c’è un etto in più, lo lasciamo ? ), da quando i sindaci e le giunte si sono convinte di essere i padroni di questi bocconi di territorio e ne fanno commercio, da allora tutte le parti sono esposte su un bancone planimetrico e hanno un cartellino del prezzo, come il filetto, controfiletto, sottopancia, giù giù sino ai garretti. Una grande bottega.
Chia, comune di Domus de Maria, sud ovest dell’isola, da molti anni è un luogo interamente in vendita perché un ingegnere occhiuto aveva capito molti anni fa che la bellezza di Chia era un grande valore commerciabile come un vestito o un auto oppure, appunto, come un capocollo. E da allora anche il sindaco di Domus de Maria ha vestito il camice del venditore. E così tutto è in vendita a Chia, tutto è visto in forma di metro cubo. E così Chia, che era una vergine prudente, ora è divenuta una sfacciata e si prende malattie contagiose all’angolo di una strada perché, a modo suo, si è data un valore in monete sonanti.
Certo, con la parola valore sono incominciati molti dolori per l’Isola e, quindi, anche per le coste di Domus de Maria. Ma ogni volta che una vendita inizia finisce solo quando si è spolpato tutto l’animale.
La parola valore… La parola valore muta significato di continuo a seconda di chi la pensa e la pronuncia. Non si riesce a farne un uso oggettivo perché ognuno possiede, naturalmente, una sua idea di valore. Così il termine valore assume significati diversi a seconda della bocca che fa da passaggio al suono.
Se il sindaco di Domus de Maria usa la parola valore riferendosi alla bellezza della spiagge di Chia oppure se il giovane Werther, capitato da queste parti, parla anche lui del valore di Chia, i due stanno parlando di due diverse categorie di pensiero che sulle labbra hanno lo stesso suono però non risuonano nello stesso modo dentro la testa di chi parla e neppure di chi ascolta. Sulla bocca del sindaco imprenditore turistico la parola valore assume un suono tenebroso. Sulla bocca di Werther assume un valore ideale, filosofico e di principio.
Si può osservare che anche il sindaco avrà di certo un suo ideale di valore. Lui è un imprenditore turistico e, festosamente, vedrà il mondo come un grande, immenso villaggio dove si mangia, ci si unge di olio, si fa il bagno, si mangia ancora e si danza sino a notte. Ma le notti di Chia, sono divenute notti di Valpurga. Per questo, pronunciato da lui, il termine si impregna subito di un significato angoscioso che mette i brividi.
Se il sindaco sviluppista di Olbia, quello di Teulada che conta le stelle dei futuri alberghi, il sindaco edile di San Teodoro, quello di Arbus e della sua costa rosticceria, quello di Palau che, travolto dai metri cubi, murerà perfino sé stesso, se il sindaco di Villasimius perso in un labirinto di mattoni, e se i tanti nostri sindaci d’impresa utilizzano la parola “valore” allora la terra trema, la costa e le rive tremano e si sentono perdute. Addio pace e innocenza.
Ma restiamo all’esempio di Chia.
Chia è un luogo spirituale dove il bello naturale si avvicina al divino. Però è anche un luogo violentato che, come una giovane incantevole ma in agonia, conserva una bellezza pallida e più seducente proprio perché è in pericolo mortale.
Vediamo quale significato può possedere la parola valore applicata a Chia.
Chia è un valore assoluto e metaforico. Assoluto perché rappresenta, nella sua parte intatta, un patrimonio perenne e perciò da non sfiorare e neppure calpestare. Metaforico perché contiene in sé un’idea di violenza ( quello che le è stato fatto e che si cerca di farle ) insieme a un’immensa meraviglia ( quello che non è stato toccato ). Insomma, Chia rappresenta allegoricamente lo stato della nostra isola: metà distrutta e metà conservata.
Perciò, se siamo d’accordo che Chia è un valore che si accresce quanto più conserva la sua parte intatta, allora noi questo valore dobbiamo conservarlo. Conservare… Nell’idea stessa del conservare è contenuta un’intera filosofia. Conservare significa anche comprendere il valore di quello che troviamo, comprenderlo e poi disporlo in un unico sapere.
La Conservazione, mentre tutto viene consumato selvaggiamente, è una novità rivoluzionaria, una conquista civile, l’unica difesa possibile della nostra terra, di noi stessi, perfino del nostro corpo. La Conservazione è una difesa contro il feroce sviluppismo che è la peste dell’isola e che come la peste si manifesta in maniera epidemica gonfiando sino alla mostruosità il modello metrocubico delle coste. La Conservazione dell’intatto giustifica la nostra stessa esistenza che ha una spiegazione solo se troviamo il filo che ci unisce al passato. E se non conserviamo noi stessi e il Creato intorno non lo troveremo più il nostro passato, come un malato che ha perduto la memoria delle cose lontane perché il cervello si è ammalato.
Senza Conservazione restiamo sciocchi che però non otterranno il regno dei cieli, smemorati che si illudono di diventare più ricchi con le minutaglie delle ricchezze altrui, divoratori di resti. Saremo consegnati alle generazioni future come i volgari devastatori di un paesaggio che era meraviglioso ma troppo mite e innocente per opporsi.
E tutto perché, creduli e ignoranti, ma non innocenti, abbiamo dato alla parola valore lo stesso significato che il macellaio da al quarto di bue appeso al gancio, sanguinante e pronto per essere tagliato come il cliente ordina. E noi verremo ricordati, se questa distruzione continua, come i macellai della nostra terra.
Articolo pubblicato su la Nuova Sardegna l'8 agosto 2005
Passano i giorni le settimane e i mesi; per l’Unione il tempo di presentarsi apertamente agli elettori con un progetto contraddistinto dalla differenza in ogni campo non dall’inesistente progetto della Cdl ma dall’esistente realtà dovuta alla sua diavolesca opera sta scadendo. Tempo perduto negli scontri fra e dentro i partiti, litigi messi in vetrina ad arte o trattenuti senz’arte nello scuro visibile dei retrobottega, tempo impiegato malamente da onesti e imprudenti a cercar di agguantare scivolose pesciformi sirene capitaliste, come a mostrare di essere moderni, innovativi, competitivi (ah! le indecenti parole da vietare nella sinistra), tempo disatteso delle dichiarazioni nette e convincenti circa l’obiettivo di governare svuotando il carbone dalla calza della befana berlusconiana e rivoltarla per riempirla di buoni doni. Ma cos’hanno nella testa i nostri? Che dirigenti abbiamo se non fanno caso ai diversi commentatori politici – quelli seri e amici – quando li avvisano che la vittoria elettorale non è scontata se non risolveranno fin d’ora i conflitti fra le forze principali dell’alleanza? C’è una verità di fondo che non possiamo ignorare. Le divisioni, rapportabili anche a disegni politici altrui e alla propaganda giornalistica (es. Michele Salvati sul Corriere, contraddetto da Furio Colombo domenica scorsa sull’Unità, quel Salvati che ci innervosiva quando scriveva su Repubblica – e oggi vi si aggiunge Mario Monti) in favore della costituzione del CENTRO, sono tali che dovremmo perfino correggere le definizioni. Vi ricordate la diatriba (apparentemente ridicola) su centrosinistra e centro-sinistra (col trattino)? Vinse il primo, quale insegna di formazione unitaria costituita da due anime tuttavia capaci di ritrovare una ragione comune. Oggi dovremmo ritornare al trattino, anzi, più correttamente, alla locuzione centro e sinistra. Cosa designa? Una effettiva divisione culturale, per ora, e politica in prospettiva: là una buona parte delle bianche brattee della Margherita, l’intero inapparente biancofiore martelliano e un bel mazzo di fronde della Quercia; qua il resto dei vegetali, o a dire dei vegetanti. Vorrei solo verificare il modellino in relazione al problema che sta al centro del dibattito in Eddyburg: urbanistica paesaggio ambiente.
Ricordiamolo: la nuova legge urbanistica ultra-reazionaria è passata alla Camera per azione comune di Forza Italia e Margherita, assente, disinteressata, se non furbescamente appartata e consenziente, una sinistra la cui cultura dovremmo poter collegare a una nobile tradizione dell’analisi sociale - territoriale e della pianificazione pubblica per l’interesse della comunità. Qualcuno può citarmi un alto dirigente nazionale del Pds o dei Dl a cui sia scappata per una volta, in un discorso politicoimportante, la parola urbanistica? Come se tutto il discutere di economia, di gran lunga predominante ai piani alti della politica e dell’informazione, potesse approdare a una qualsiasi conclusione astraendo dalle questioni e soluzioni territoriali, alias urbanistiche, così connesse sia per cause che per effetti a economia e società, benché non esclusivamente, contando a pari grado la cultura e la politica. (Nei titoli degli otto capitoli del Progetto dell’Unione l’ambiente appare di straforo nel quinto sub specie di “nuova qualità ambientale”, fortunatamente mescolata a “nuova economia” e “nuova società”). Al contrario, ai piani inferiori, più vicini alla percezione dei cittadini, presidenti e sindaci parlano e soprattutto agiscono anche troppo. Si dirà che da sempre in Italia il livello comunale ha rappresentato la condizione appropriata al progetto urbanistico. La storia dell’urbanistica fino a pochi anni fa si identificava quasi esclusivamente con la storia del piano regolatore comunale. Non è questo il punto. Preoccupano i nuovi eccessivi poteri assegnati dalla riforma di qualche anno fa ai sindaci, ai presidenti, alle giunte…, insieme al privilegio del maggioritario, insomma poteri ampi e controllo consiliare debole. Pericoli e danni, di frequente è proprio il decisionismo urbanistico ed edilizio a provocarli. Abbiamo citato nel sito molti esempi, a partire dal mai abbastanza deprecato caso milanese anticipatore delle modalità previste dalla nuova legge urbanistica: ossia le scelte degli interventi spettano agli imprenditori e agli speculatori immobiliari; i sindaci potenti, i presidenti, i governatori convalidano senza rendere conto a nessuno, contrattano, se va bene, qualche presunto beneficio per la comunità, non obbligando ad alcunché se non già messo in conto dai padroni del territorio; urbanisti e architetti compiacenti disegnano e motivano scrivendo saggini in coerenza e convenienza. Piani non ne esistono, idee di città e di assetti territoriali l’ente pubblico non ne ha né vorrebbe enunciarle. Gli urbanisti che ne abbiano sono tenuti fuori dal salotto buono. Si dirà che, ora, con tante amministrazioni di centrosinistra, è una bella fortuna che siano esse a decretare il destino del territorio e della città. Eh! No. Abbiamo verificato che non è affatto chiara la linea di confine fra politiche urbanistiche di destra e di sinistra, fra i comportamenti delle amministrazioni di opposto colore. Dire che l’urbanistica non può essere né di destra né di sinistra è un falso per giustificare lo sfasciamento del paese avvenuto grazie, appunto, ad azioni da noi ritenute di destra, anche se effettuate talvolta da governi locali nominalmente di sinistra. Distruggere paesaggi consolidati attraverso le cementificazioni denunciate già trent’anni fa da Antonio Cederna, violare con manufatti mostruosi per quantità e consistenza ambienti umani nella città e nel territorio depositari di memorie storiche e forme irripetibili, trasformare coste, monti, rive di laghi e fiumi, colline, pianure agricole attraverso lo scarico di milioni e milioni di metri cubi edili, tutto questo è stato per così dire amministrato; non fare piani regolatori a tempo debito o farli perfettamente adatti agli scopi della rendita fondiaria ed edilizia rappresentano i due corni del binomio regolatore del massacro conveniente a pochi – forse non sempre e dappertutto a pochi. Il primato spetterà sicuramente alle amministrazioni di destra, ma a noi di Eddyburg è capitato più volte di denunciare malefatte di amministratori di centrosinistra. Conterà anche il fascino del potere per se stesso. Di qui il decisionismo, spesso arrogante, rivolto a opere inaccettabili. Un decantato Illy alleato della sinistra: come immaginarsi, prima, che avrebbe concertato con sante immobiliari (vedi nel sito il mio articolo di Ferragosto) e un sindaco di An una repellente edificazione cosiddetta turistica in uno dei pochi e bellissimi tratti di costa italiana restati quasi intatti, la Baia di Sistiana? Non scrivemmo qui una dura lettera di protesta e di proposta per la conservazione del luogo? Ci saremmo mai aspettati di dover intervenire anche noi frequentatori di Eddyburg, alla fine del 2003, contro l’amministrazione provinciale di Napoli per farla recedere dal sorprendente progetto di ridimensionamento del magnifico spazio agrario storico? Un Ptcp che consentiva l’edificazione su due quinti delle aree agricole dell’intera provincia! E quando sentimmo il dovere, trenta professori del Politecnico di Milano, di inviare una lettera all’amministrazione comunale di Campo nell’Elba che intendeva tagliare cento grandi pini a ombrello per “migliorare” il transito su certi marciapiedi, non è a un sindaco dei Ds che dovemmo rivolgerci? Non fu il Comune di centrosinistra a de-regolare, sconquassare la struttura edilizia storica di Venezia concedendo indiscriminati mutamenti di destinazione degli edifici residenziali e ristrutturazioni dei loro begli spazi, a puro servizio di speculatori e di acquirenti alloctoni e a puro danno dei veneziani pregati di accomodarsi in terraferma? Non ci opponemmo con le nostre firme alla logica berlusconiana adottata dagli insospettabili sindaco e giunta di Ravello, cioè modificare la legge del piano approvato per poter far costruire ad ogni costo il famoso auditorium niemeyeriano? (“Sono spaventato, perché la logica è quella stessa di Berlusconi”, Edoardo Salzano, 19 gennaio 2004). Cosa spinge lo stimato presidente della Toscana, Martini, a condividere col ministro Lunardi la decisione di costruire la variante autostradale tirrenica, salvo la preferenza per un tracciato un po’ meno lacerante il territorio collinare? Perché ignora l’unica soluzione plausibile, “di sinistra” nella misura in cui appare logica e leggera dal punto di vista paesaggistico e funzionale, l’adeguamento dell’Aurelia senza eccessi dimensionali (il traffico previsto da calcoli attendibili sarà in ogni caso molto contenuto)? Non abbiamo predicato per decenni la necessità, anzi l’obbligo direi morale di trasferire gl’investimenti primari dalla strada alla ferrovia?
Quanto potrei proseguire? Molto, ma mi fermo perché sento risuonare l’obiezione “tu elenchi certe colpe – se di colpe poi si tratta – e dimentichi i numerosi meriti della amministrazioni di centrosinistra”. Grazie tante. Nelle attuali circostanze politiche e nella personale speranza di ritrovare a breve un centrosinistra effettivo teso a distinguersi totalmente dalla destra e dal desiderato nuovo centro, mi sembra saggio, come consigliato dagli psicologi in ordine alla meditazione su di sé, discutere i difetti riposti piuttosto che vantare i pregi soleggiati.
Lo so, per un Illy che spiana la strada ai mostri abbiamo un Soru che li ricaccia. Spero che siano tutti della Cdl e annessi quei sindaci che offrono in osceno pasto belle terre sarde ancora intatte, come ci racconta Giorgio Todde nei suoi mirabili e agghiaccianti articoli. Lo spero, Body and Soul.
Lodo Meneghetti
23 agosto 2005
Baia di Sistiana nel comune di Duino-Aurisina, la Baia di Rilke (Elegie Duinesi), il più bel tratto della costiera giuliana fino a Trieste, ci ha visti impegnati più volte in Eddyburg. A chi non li aveva già aperti, gli occhi li aprì l’articolo di Francesco Erbani, Colata di cemento nella baia di Rilke (Repubblica, 9 marzo 2003).Si voleva sostenere l’incessante battaglia del WWF e di Italia Nostra triestini in difesa dai reiterati assalti della immobiliare che vuole edificarvi la “Nuova Portofino”, altrimenti detta “Villaggio istro-veneto”, con il consenso anzi l’apprezzamento, anzi la spinta del governo regionale (centrosinistra) guidato da Riccardo Illy e della giunta comunale (destra) di Duino guidata da un sindaco di AN, Giorgio Ret. Ho già ricordato nuovamente la questione nell’articolo del 3 agosto. Inoltre i frequentatori del sito si ricorderanno la lettera sottoscritta da persone qualificate inviata ai due il 4 febbraio scorso (ora nel mio Parole in rete. Interventi in Eddyburg, giornale e archivio di urbanistica, politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2005, pp. 182-185). Si richiedeva l’immediata promozione di procedure per stabilire il vincolo di inedificabilità totale e di intangibilità della condizione paesaggistica esistente. La funzione della lettera sarà stata trascurabile, fu ad ogni modo interessante far suonare campanellini nelle orecchie dei potenti, come si vide da qualche articolo de “il Piccolo” di Trieste. Ma dobbiamo alla incredibile volontà delle nominate associazioni, in particolare al WWF, espressa da persone (perché è sempre ragione primaria di persone) come Dario Predonzan, Wilma Diviacchi, poi Carlo Dellabella, Dusana Valecich…, di non mollare giorno dopo giorno la presa del bavero degli amministratori, dei tribunali amministrativi, delle procure, e alla non meno incredibile capacità di ottenere sentenze favorevoli. Breve: salvo la prosecuzione dei lavori nella grande cava, ora sospesi, le autoritarie autorità non sono riuscite finora a far approdare alla riva (è la parola) il loro inciucio edilizio con l’immobiliare Santi Protaso e Gervaso e Santa Sistiana, mistici nomi programmatici di una sperato perdono di peccati mortali. “La cava veniva rimodellata e rivestita di edifici, mentre il piccolo approdo si trasformava in una grande marina” (Erbani) con bordure densissime di altre case e sevizi vari. Particolarmente consolante, a questo riguardo, che le due imprese, artefici dello scempio dei lavori indiscriminati nella cava, ora sequestrata, siano indagate “per aver deturpato e distrutto bellezze naturali” e che il sindaco e un dirigente regionale, firmatari della concessione, lo siano “per abuso di atti d’ufficio”.
Il progetto dell’insediamento turistico non è stato mai proposto alla discussione pubblica, si sono visti rendering dimostrativi dell’orrore urbanistico e architettonico (Eddyburg potrebbe pubblicarli, semmai chiedendo documentazione agli amici nominati), Illy ha dichiarato più volte di aver ottenuto (in segreto!) modifiche che renderebbero, secondo lui, il progetto “compatibile”, ma si è rifiutato di sottoporre ad altri una fantomatica ultima versione. Siamo alle solite: il potere locale sprezzante. Ma ora la determinazione delle associazioni nominate ha costretto gli amanti dell’illegalità a ricollocare il progetto in un quadro quantomeno rispettoso delle procedure previste dagli strumenti che loro stessi possiedono. Infatti non può darsi un tale progetto senza un piano particolareggiato approvato appartenente alla cosiddetta variante urbanistica 21 (altra variante è la 18, “modellamento della cava”, scontato preludio all’insediamento). Ebbene, finalmente il Piano particolareggiato è all’ordine del giorno del Consiglio comunale di Duino-Aurisina per il prossimo 31 agosto. A questo punto, come procedere nell’opposizione secondo il contenuto della lettera citata? A mio parere bisogna evitare – mi rivolgo alle associazioni che verranno chiamate a interloquire e a tutti i frequentatori di Eddyburg – di farsi trascinare in una discussione nel merito del piano, per non parlare del progetto nella Baia se mai verrà successivamente presentato, qualsiasi sarà la versione sapendola o zuppa o pan bagnato. Allora? Il Piano particolareggiato dev’essere in primo luogo negato laddove indichi, nelle forme predisposte “opportunamente” dal Comune, la possibilità d’intervento nell’area della Baia e della cava corrispondente a quanto il progetto delle immobiliari ha già anticipato; poi dev’essere smontato per intero il contesto nella misura che sia stato definito in tutte le sue forme proprio in funzione dell’accordo per realizzare la Nuova Portofino. Un diverso Piano particolareggiato potrà essere studiato in funzione del riscatto paesaggistico del contesto duinese, non potendosi eludere, d’altronde, l’obbligo derivante dalla qualificazione di Sic fin dal 2000. Entro il Pp, l’indicazione specifica per la Baia e la cava consisterà in un progetto di restauro del territorio, di riparazione della violenza subita (naturalizzazione della cava), di definizione degli elementi leggeri, non edilizi, utili, ancorché non necessari, a una fruizione turistica e culturale libera, non privatistica, non aggressiva. Si potrà indire un concorso nazionale per il progetto solo se il bando si esprimerà in questo senso. (“La soluzione urbanistica e architettonica riguardo a un ambiente naturale persistito benché leso deve essere il contrario dell’edificazione di qualsiasi tipo, salvo le opere, non edifici destinati ad alcunché, necessarie per la cura: delicate come quelle praticabili su un malato che l’eccesso di medicamenti porterebbe alla morte” – 10 aprile 2003, in idem, pp. 20-21).
Si obietterà che il territorio in causa è di proprietà privata, che gli enti pubblici non hanno armi sufficienti per…eccetera eccetera. Bravo il sindaco Ret a rimpiangere “Ah, se l’avessimo comprata noi la Baia trent’anni fa!” (da “il Piccolo”, 10 agosto). Bravo bene! Non credo che oggigiorno sia davvero impossibile risolvere il mancato dovere di allora, caro sindaco. Provi. L’Unione europea, la Commissione per l’ambiente, distribuisce fior di quattrini per iniziative conformi. Se, soprattutto si ricorresse, penso, all’esproprio: perché non avere il coraggio di dirlo? Utopie utopie…velleità velleità…dite. Ma basterebbero le indicazioni e i vincoli del nuovo progetto conservativo e coerenti ordinanze del Comune o della Regione per l’uso del luogo di proprietà privata. Come nella categoria urbanistica di verde privato di uso pubblico o suolo privato di uso pubblico. Una bella, sostenibile, perdonabile marcia indietro. Beh, in ogni caso, meglio che, procedendo lei, signor sindaco, e il presidente Illy lungo la brutta strada già percorsa per un tratto, finire in una trappola, dopo aver più volte incespicato.
Lodovico Meneghetti
Bonassola, Ferragosto 2005
Il materiale su Baia Sistiana e Portofinto è nella cartella SOS Carso
Alla corte di Luigi sedici, in un film molto visto alcuni anni fa, c’era il personaggio del “garçon pipì”, un poverino che avvicinava l’orinale ai ricchi durante le feste perché i ricchi non fossero costretti ad allontanarsi dalla festa per un bisogno banale.
Ci sono state tante rivoluzioni e il ruolo del “garçon pipì” si è trasformato. Oggi si chiama in altri modi più aggiornati ma esiste sempre qualcuno che per un moto dell’anima si sente un “garçon pipì” e resterà “garçon pipì” sino al momento del trapasso dopo aver messo al mondo altri “garçon pipì” che tramandano questa attività insostituibile.
Ovviamente l’isola, come ogni luogo, ha generato i suoi “garçon pipì” i quali svolgono l’attività nella loro terra e alla terra restituiscono il prodotto del loro lavoro. E nel continente, nei luoghi dove ce n’era bisogno, sono emigrati dei “garçon pipì” isolani. Però molti sono rimasti in patria perché l’attività per loro non va male da queste parti. Il “garçon pipì” non conosce la cassa integrazione e di norma sostiene, insieme all’orinale, anche un suo modello di sviluppo.
Beh, quello che vogliono fare alle nostre coste da queste parti, esige un rilevante reclutamento di persone che tengano il pisciauolo a chi genera - stando lontano - certi affari in nome di un interesse economicamente superiore e moralmente inferiore.
Questo ricordo cinematografico del “garçon pipi” ci è venuto in testa vedendo la lugubre mappa – esiste una mappa – dei campi da golf nella nostra isola dove tutto potevamo immaginare salvo che una proliferazione di green con buche, mazze e tutto il resto.
Per un magro campo da golf in una pineta di grande valore, in un sito di (insufficiente) importanza comunitaria, in un luogo protetto (poco) dalle direttive habitat, sono state abbattute molte migliaia di pini in un’area di 20 ettari di pineta. Nel drammatico sito internet del golf di Is Arenas vengono glorificate alcune caratteristiche del percorso. Si raccomanda la buca 14 che non è, pare, una buca come tutte le altre. E’ un’apertura di charme e sembra che i golfisti si emozionino quando arrivano a certi buchi. Si segnala la 16, percossa dal maestrale scortese che devia le palline in volo, mentre la 17 è definita addirittura una buca maestosa.
Altrettanto melanconici sono gli altri siti sul golf nella nostra isola assolata, dove tenere la mazza al giocatore è molto più faticoso che da altre parti.
Però attenzione, ché i veri garzoni non sono i caddy ( che speriamo non esistano più come gli spazzacamini ) ma sono quelli che creano qua - nella propria terra - le condizioni perché qualcuno lontano, nella forma di fantasma che non appare mai, affermi la propria forza e costruisca mura e castelli orrendi intorno alle buche. Gruppetti d’affare locali i quali, a forza di buchi in un suolo che non dovrebbero neppure calpestare, corrono dietro ad altri affaristi molto più grandi che albergano lontano, in silenzio, avvolti solo da fruscii delicati. Irraggiungibili.
Ma la buca, si sa, è solo un mezzo.
Ora, intorno alle buche magiche, qualche metrocubista vorrebbe, a pochi metri dalle acque sacre di Is Arenas, costruire ancora centinaia di migliaia di metri cubi che avrebbero per epicentro proprio la fascinosa buca 14. Eppure già troppa distruzione è avvenuta intorno a questa buca.
Per fortuna qualcuno si è opposto, ha sopportato denunce e processi, uscendone vincitore e ristabilendo un principio che dalle nostre parti non è chiaro a tutti ossia che esistono le armi del diritto: esistono le leggi. Perciò non si possono impunemente disboscare ettari di pineta, inquinare falde acquifere in una zona già oppressa dalla siccità, alterare il profilo di dune che erano là da chissà quanto tempo, sconvolgere un paesaggio credendosi un semidio, tutto per costruire un misero campo da golf.
Nell’isola – dove il sole a picco cuoce i cervelli – ci sono molti campi costruiti e molti campi da costruire. L’ex sindaco di Sassari ne aveva annunciato uno perfino nella Nurra che sembrava non poterne fare a meno. Una stravaganza che, secondo l’ex borgomastro, lancerebbe la Nurra nei circuiti planetari del golf. Fantastico. Ma il bandito Giovanni Tolu, si sa, gira ancora da quelle parti in forma di spettro e farà inciampare nelle buche della Nurra qualche golfista che vi scomparirà dentro, ingoiato dal centro della terra.
Chi metterebbe un fico d’india nella foresta nera oppure un nuraghe in central park? Neppure il più depravato urbanista. Invece qualcuno vuole, per l’isola, campi da golf desolanti che sono, appunto, proprio come un prato di stelle alpine in mezzo ai fichi d’india. E di campi ne vengono fuori dappertutto, con buche descritte come tabernacoli davanti ai quali si cade in ginocchio mentre sono solo buchetti per terra.
Il ragionamento è semplice. Costruiamo un campo da golf e allora ci servirà almeno una club house e poi, secondo logica, ci servirà un albergo, ci serviranno residenze, cemento, mattoni ecc. ecc. I nuovi comuni saranno fondati su una buca, cresceranno intorno a campi da golf e avranno il loro sindaco golfista con la mazza in pugno.
Ogni paese, salvo quelli scoscesi e a rischio di frane, vorrà il suo campo, il suo assessore al golf e la sua buca sarà più bella delle altre buche.
Ogni buca moltiplicherà il destino eterno e melanconico dell’indigeno cameriere, caddy, portamazze, muratore, schiavo in tutti i casi. Ogni green intossicherà il paesaggio soffocato dall’erba cannibale che incenerisce le altre piante innocenti.
Il padrone lontano, nei giorni e nei momenti giusti, si materializzerà nell’isola per prendere un poco di sole, e troverà il suo piccolo regno conservato e difeso dal proprio “garçon pipì” il quale mantiene in ordine le cose quando il padrone non c’è. La sua vita è una vita di mezzo, levitante tra la ricchezza che non otterrà mai e la povertà alla quale può ritornare da un momento all’altro.
Ha ragione il “garçon pipì”e a tremare anche davanti a corone di latta e troni di cartapesta. Senza la protezione del principe può precipitare dentro una buca che non è la 14, né la 16 o la 17, ma una buca molto più grande e tragica che gli si richiuderebbe sopra. Coperto, per sempre, da un mantello di edelweiss.
Articolo pubblicato da la Nuova Sardegna nel luglio 2005
Un apprezzamento di D’Alema a proposito di lotte, intrighi, scalate attorno a banche e giornali in quest’ultime settimane ha sconcertato gl’ingenui. Il succo del suo giudizio è: …eppure ne conseguono anche effetti positivi poiché si producono in ogni caso plusvalenze (questa la parola magica!). Come se i moderni speculatori investissero le plusvalenze in progetti utili al paese anziché intascarle volgarmente, semmai impiegarle in ulteriori oscure manovre borsistiche (per non dire di borseggio dei risparmiatori) o direttamente nell’appropriazione territoriale e urbana. Magari pagassero il dovuto al fisco, ha osservato Guglielmo Epifani ricordando che, secondo le regole attuali, le plusvalenze, per qualsiasi ammontare, pagano solo il 12,5% mentre i redditi da lavoro sono tassati dal 20 % in su e quelli d’impresa del 33% (nell’Unità del 22 luglio). Ma allora: una volta la posizione della sinistra era chiara verso il peggior carattere dell’economia nazionale: abnorme peso delle rendite, soprattutto fondiarie ed edilizie, rispetto ai profitti da produzione industriale; ugualmente, squilibrio relativo fra eccessivi investimenti fondiari ed edilizi e scarsi investimenti industriali o ad ogni modo socialmente produttivi. Naturalmente non si dava sempre, nella realtà, una effettiva separazione fra i renditieri e i capitalisti in senso classico (coltivatori del solo profitto), anzi; sono ancora note, credo, le vecchie analisi relative all’alleanza fra rendita e profitto, spesso confuse in un’unica impresa industriale se non persona (non ne furono esenti la stessa Fiat e la famiglia di Gianni Agnelli, benché quest’ultimo venga ricordato ancor oggi da qualcuno abbastanza vecchio per il famoso – e falso – attacco ai rentier in un’intervista all’Espresso). Oggi, mentre la decadenza dell’industria italiana nel suo complesso è forse giunta al punto di non ritorno, sembra non esserci più alcun ostacolo alla completa presa del potere non tanto dei finanzieri duri e puri quanto, in un paese che la sa lunga quanto a terreni e “cemento”, degli immobiliaristi e dei costruttori di cose inutili e …distruttive (qualche esempio? L’Alta Velocità Milano-Torino, l’autostrada della Maremma, il ponte sullo Stretto, il Mose, le Nuove Milano firmate che grattano il cielo, le vecchie che ne distruggono la linea, le sfortunate opere torinesi per le Olimpiadi invernali, l’”antropizzazione” della Sardegna – Giorgio Todde nel sito, 25 luglio – , i cento porti e porticcioli turistici e i mille villaggi per vacanze…). Ci sono industriali residuali che ripetono a distanza di trent’anni l’anatema agnelliano, come Diego Della Valle, questa volta scatenato contro gli immobiliaristi (e la Consob): ma perché sconfitto nella turpe e noiosa contesa di scalate e annessi che ha riempito le pagine dei giornali per un mese, e dalla quale lucrerà comunque, come ha calcolato qualche attento commentatore, fior di plusvalenze (250 milioni di euro?). Li investirà nelle sue belle scarpe da bravo cultore, appunto, del profitto? Non sappiamo. Ma che ce ne importa delle Tod’s? Non un posto di lavoro in più è in causa. D’altra parte, sebbene il nostro non appaia membro ufficiale della nuova potente corporazione che ha nelle mani il destino del territorio e delle città italiane, non pare che abbia dedicato una qualche strofa del dichiarato disprezzo verso gli speculatori immobiliari alla difesa, appunto, dall’aggressività dei medesimi anche verso le restanti belle terre ascolane e, più in generale, terre costiere marchigiane.
Intanto gli avvenimenti si rincorrono, sembra che il settimo sigillo stia calando sugli ultimi atti in svolgimento da un quadriennio, a loro volta epigoni di una storia infinita di pene inflitte al territorio nazionale che pare essere stata orchestrata da diavoli e diavolesse. Stefano Fatarella mi ricorda che Edoardo Salzano l’ha già fatta quella inevitabile affermazione che ci siamo tenuti dentro, tutti quelli schierati sul fronte contro l’impero: “abbiamo perso”. Per Pasolini la situazione ambientale italiana era già disastrosa alla fine degli anni Cinquanta. Il film di FrancescoRosi Le mani sulla città, soggetto una Napoli già largamente massacrata dalla speculazione edilizia, risale al 1963. L’invettiva accorata dell’ingegner Martuscelli sullo stato del territorio nazionale compresa nel documento-denuncia relativo alla frana di Agrigento è del 1966. Antonio Cederna ha scritto La distruzione della natura in Italia esattamente trent’anni fa. Sappiamo il seguito. Tre decenni di continue accelerazioni quadratiche come nella caduta di gravità. Ne conosciamo le ragioni, i responsabili, in diversi campi. Negli anni recenti, quando è sembrato inutile o difficile contare sulla buona urbanistica del piano di sinistra (che poi era il piano tout court), abbiamo cercato di lottare con l’unica fornitura bellica che possediamo, le parole. Il gruppo che si ritrova in Eddyburg potrebbe verificare se è valsa la pena di combattere le buone battaglie verbali, almeno per gli effetti a lungo termine di tipo culturale e morale, anche quando si sapeva che si sarebbero perdute. Oggi ci sentiamo circondati da cose, istituzioni, persone, gesti come nemici mortali; siamo come il nostro territorio e le nostre città, il nostro paesaggio qua e là resistito.
Da un lato gli immobiliaristi stravincenti.
Al Tronchetti Provera spetta il primato storico per la gigantesca operazione immobiliare alla Bicocca milanese, ne abbiamo parlato spesso: caso emblematico del rovesciamento dei poteri a livello locale, ossia resa degli amministratori pubblici al nuovo magnate della città; attuazione in anteprima secondo i meccanismi del nuovo commercio urbanistico voluto dalla Legge nazionale Lupi; cinica dimostrazione del passaggio diretto dalla produzione industriale storica (le fabbriche Pirelli) alla rendita fondiaria. E gli spetta anche il primato della estrema modernizzazione, per così dire, dei comportamenti: acquisto della Telecom, abbandono dell’ultima “produzione strategica come i cavi” (Epifani), per approdare – ecco lo scopo finale – alla gestione e commercializzazione degli immobili a scala mondiale mediante la Pirelli Real Estat, cioè Pirelli Beni immobili. A seguire, altre mani si stendono sulla città (potreste rileggere qui Le Nuove Milano estranee. L’architettura servile, 30 ottobre 2004), quelle delle cosiddette cordate in cui ritroverete i Ligresti, le Generali, i Lanaro…, o dei parvenu tipo quel Luigi Zunino che agirà da grande affarista e “sviluppatore” (così lo hanno denominato) in una zona, Montecity-Rogoredo, più estesa della Bicocca, al quale inoltre spetterà la “giunta”, come quando compravamo il castagnaccio toscano, dello scalo ferroviario di Porta Vittoria. Ma c’è posto per tutti e dappertutto alla tavola per mangiare il dessert del suolo nazionale. Un Ricucci immobiliarista sconosciuto fino a meno di due anni fa: come può impegnarsi nello stesso momento a scalare Ambronveneta, Banca nazionale del lavoro, Rizzoli Corriere della sera? Chi e cosa c’è dietro, a parte certi presunti appoggi politici a sinistra di cui si è malignato in maniera anche troppo capziosa? Si legge dei sospetti in direzione del gruppo romano Caltagirone, il potentato nel campo delle costruzioni che, per chi possiede una discreta memoria, ha recitato per decenni la parte di protagonista nel film non girato e non diretto da Francesco Rosi intitolato Le mani sulla Capitale (e altrove) oppure Il penultimo sacco di Roma (vale a dire prima del prossimo che il nuovo piano regolatore permetterà, spiace per Campos Venuti).
Da un altro lato i politici e gli amministratori locali, loro amici.
La nuova legge urbanistica nazionale, ultraliberista, padronale, commerciale, classista, ce la siamo trovata di fronte dopo che quatti quatti la destra camerale e il centro margheritino del centrosinistra l’avevano ben disegnata (Lupi del resto è l’autore del modello milanese) nella totale, colpevole, stupida disattenzione (con punte di inespresso consenso tuttavia!) della sinistra, quasi che quest’ultima niente avesse mai avuto a che fare, almeno dal punto di vista culturale, con la miglior tradizione dell’urbanistica proveniente dalle fertili lontananze di un Adriano Olivetti e un Giovanni Astengo, ma pure dalle esperienze sul campo di quegli urbanisti che si erano duramente impegnati anche nell’amministrazione locale (come l’ultimo Astengo del resto). E vennero i nuovi presidenti di Regione e i nuovi sindaci e i nuovi presidenti di provincia, con le loro giunte costituite spesso da presunti tecnici non eletti e chiamati direttamente dal sindaco, a godere del potere personale e oligarchico concesso da una nuova legislazione (con quell’incredibile premio di maggioranza) che la sinistra avrebbe dovuto boicottare invece che avallare in omaggio al mito della stabilità governativa. I consigli degli eletti non contano nulla, le piccole minoranze diventano patetiche quando recitano l’opposizione già sapendo che il prodotto sottoposto alla falsa discussione per finzione democratica non potrà essere scalfito. Si dirà, ma ora che le amministrazioni sono in gran parte in mano al centrosinistra… Ebbene, quanto al nuovo decisionismo arrogante, quanto al fare e disfare nella città e nel territorio fuor di ogni piano, di ogni regola urbanistica, sulla base dei desideri e delle proposte del padroni dei terreni e delle aziende di costruzioni, le differenze di comportamento non sono sempre evidenti.
A Milano il sindaco e la giunta, dopo l’operazione Bicocca, con le Nuove Milano perseguono sempre la scelta delle aree indipendentemente da un disegno complessivo o quantomeno da un’idea generale della città. Ma credono di scagionarsi chiamando a progettare i “grandi” architetti, peraltro inerti personaggi succubi delle imprese: sono queste a vincere le pseudo-gare trascinando con sé il Nome, autore di rendering e modellini ineseguibili che sarà l’impresa, la cordata di imprese a interpretare e trasformare in tutt’altro progetto esecutivo. Architetti del mercato globale dell’architettura completamente estranei ai problemi di contesto, proprio a Milano dove la nozione e la realtà di contesto, ereditate dal Movimento moderno, è da sempre un punto d’onore della progettazione all’università. E a Firenze, cari miei, non abbiamo sentito mesi fa il potente sindaco Domenici proporre la stessa linea albertiniana quando ha perorato la chiamata, guarda caso, di grandi architetti (insieme alle altrettanto grandi imprese) per donare alla città nuovi luoghi di modernità e alto valore rappresentativo?
Gli immobiliaristi hanno colto il nuovo vento che soffia sulle maggiori città, costituiscono alleanze, si assicurano il legame con gli architetti internazionali, aspettano l’inevitabile chiamata ma spesso, ora confortati dalla legge urbanistica, si muovono prima e sottopongono agli amministratori il fare e l’affare. Dove, nella città? in qualsiasi punto, dove siano minori le difficoltà fondiarie e le prevedibili opposizioni dei cittadini. Dove, nel paese? Ovunque il territorio e il paesaggio sopravvissuti alla rovina generale presentino occasioni allettanti.
Il presidente Illy e la giunta friulana, in alleanza col sindaco di Duino-Aurisina (AN) non mollano la presa su Baia di Sistiana. I frequentatori di Eddyburg conoscono la vicenda più volte raccontata nei suoi sviluppi, conoscono il tentativo di influire sulle amministrazioni col noto documento critico proponente l’intangibilità del bellissimo luogo. Oggi il pericolo della spaventosa costruzione lì di “una nuova Portofino” sembra incombere sotto nuova luce. L’esempio duinese resta uno dei più chiari riguardo alla collusione del potere pubblico con imprese immobiliari particolarmente aggressive. Sono anni che l’impresa sottopone i suoi progetti. Gli amministratori li approvano quando l’ingannevole apparenza di qualche piccola modifica, specialmente parolaia, sembra onorarli quali saggi gestori del territorio.
Ricordate la nostra battaglia contro l’auditorium di Ravello? L’arroganza del sindaco, sprezzatore delle nostre ragioni e violatore delle regole vigenti sul “suo” territorio? Ha vinto, l’opera incompatibile sotto ogni riguardo si fa; quali imprese in campo non so, so che il vecchio Niemeyer è stato usato come un magatello.
Ho sollevato il caso delle regioni a statuto speciale nell’articolo del 15 settembre 2004. In una situazione già ricca di privilegi per gli abnormi trasferimenti dallo stato, l’autonomia ha svolto le sue fila in una indissolubile collusione fra amministratori e imprese immobiliari. Cosa ci ha dato di “speciale” la Sicilia è inutile ricordare, lì la mafia ha vinto, ma, per assurdo, non sarebbe occorsa nemmeno questa per denegare l’ambiente siciliano e massacrarlo tutto, città e coste; bastava la megalomania dei presidenti e la volontà popolare, penoso dirlo; bastavano le scorribande delle imprese in qualche modo redistributrici al popolo di pezzi dei trasferimenti statali e briciole delle enormi rendite immobiliari. Diversamente, ma non troppo, lo “speciale” che ci ha dato la Valle di Aosta serenamente amministrata ai due livelli, regionale e comunale, ci mostra che, trasferimenti a parte, per distruggere l’ambiente ereditato sano e bello, ha funzionato un perfetto meccanismo legale: piani regolatori molto compiacenti, relativi a terre sempre più ampie, hanno permesso a speculatori medi e piccoli, qualche volta grossi, di lucrare rendite e reddito edilizio enormi, anche qui redistribuibili par la parte che garantisse il sostegno alla persistenza del modello. Nella valle gli immobiliaristi avevano già vinto la corsa negli anni Sessanta: basta citare il caso di Cervinia, rovinoso e caotico manifesto di urbanistica borghese felice.
A Torino, notizia recentissima, gli enti locali acquistano dalla Fiat per settanta milioni circa trenta ettari di aree a Mirafiori. Ammirevole lo scopo di soccorrere l’azienda malata. Per che farne, di un territorio semi-vuoto? Per riempirlo, per edificarlo, naturalmente secondo le buone destinazioni d’oggigiorno (ricerca, università, rilocalizzazione di imprese, eccetera). Il sindaco Chiamparino ci vuol tranquillizzare: “Non è un’operazione immobiliare”, dichiara all’Unità (31 luglio). Forse per i dubbiosi, che fortunatamente mi sembrano abbondare nel castello di Edoardo, potrebbe essere proprio questo “non è” (perché dirlo?) a preoccupare.
Purtroppo si potrebbe continuare con un elenco lunghissimo di amministratori di ogni colore che, fiduciosi della propria cultura e come eccitati per voler e poter realizzare, edificare, modernizzare, adeguare, vendere spazi, si sono gettati o stanno per gettarsi in mano a imprese che propongono risposte chiavi in mano. In vece, a questo punto, vi invito, cari attivisti di Eddyburg, a rileggere il fantastico e doloroso articolo di Giorgio Todde citato all’inizio, Antropizziamoci, inerente al comportamento di certi sindaci della dimenticabile Sardegna.
Esiste certamente la possibilità di redigere un altro elenco, a scala nazionale, di sindaci et similia preparati, attenti, capaci perfino di difendere il proprio territorio dagli incantatori del fare. Temo che non potrebbe affatto rivaleggiare in lunghezza, benché probabilmente, spero e grazie a Dio, esporrebbe una maggioranza di amministratori della sinistra.
Da un terzo lato collusioni di istituti culturali.
L’Istituto nazionale di urbanistica, il suo presidente, i colleghi iscritti vecchi o recenti, portato a termine il tradimento delle funzioni storiche dell’istituto scendendo la scala della vergogna fino al basso della subalternità inequivoca al governo della destra e ai maestri della rendita fondiaria ed edilizia, sono felici. La legge liberista, che è anche una buona assicurazione per ottime commesse professionali agli urbanisti obbedienti, è stata approvata; manca il timbro del Senato, è vero, ma cosa volete temere dal Senato?
Intanto anche l’università si adegua al vento dello sviluppo inteso come espansione delle costruzioni di ogni tipo e, interattivamente, dell’occupazione di tutti i lotti urbani inedificati e dei terreni esterni aperti e liberi, obiettivo gl’incommensurabili guadagni del tutto indisponibili per reimpieghi socialmente significativi. Incredibile: la Bocconi e il Politecnico milanesi (ricopio dal modello ricevuto) “hanno preparato un programma dedicato al settore immobiliare e che si pone all’avanguardia nel livello internazionale: il “STRONG [sic] Master in Real Estate”, guarda la cinica spregiudicatezza. Proseguo. “Il programma vuole soddisfare la crescente domanda di figure professionali con competenze specifiche in un settore che ha conosciuto nell’ultimo quinquennio una forte espansione, non solo in termini economici, ma anche e soprattutto in termini di complessità delle operazioni in atto”. Ah! Tutto si tiene, i tre lati si riuniscono a formare un triangolo scaleno, come un simbolo gnostico buono per la minoranza di eletti designata all’autentica conoscenza del divino potente.
Lodovico Meneghetti
3 agosto 2005
Un candidato sindaco di un paesino dell’isola, vista mare, ha affermato in campagna elettorale che lui, se lo avessero eletto, avrebbe antropizzato gli uffici del comune e l’intera giunta. E ha spiegato, per gli elettori meno istruiti, che antropizzare, secondo lui, significava “umanizzare”. E così, siccome esiste un po’ di giustizia, si è giocato l’elezione e non antropizzerà mai un bel nulla salvo, forse, sé stesso.
Antropizzare significa lasciare il segno dell’uomo sul Creato. Fatto sta, però che, a causa degli urbanisti i quali fanno un uso sfrenato di questa parola, il verbo antropizzare si sta diffondendo e assume significati molteplici, alle volte inventati come nel caso del candidato sindaco antropomorfico. E qualche raffinato parla di impatto antropico oppure di forza antropica o di energia antropica ecc.ecc.
Anche nell’isola si antropizza l’antropizzabile.
Un bell’esempio è costituito dalla giunta antropica di Narbolia che per antropizzare intende, con ossessiva costanza che dura anni, costruire qualsiasi cosa oppure distruggere qualsiasi cosa. Tanto, sempre antropizzazione è.
Guardate cosa vogliono fare della costa di Santa Caterina di Pittinurri. Alberghi per i golfisti che accorrono affascinati dalle diciotto buche del campo di Is Arenas. Il responsabile della srl Is Arenas, dice che con le diciotto buche si richiamano dodicimila vacanzieri l’anno, la bellezza di settecento turisti per buca, tutti di prima scelta, i quali verrebbero qua per le buche e il mare accuratamente antropizzato. I turisti non vanno, per una loro regola, in posti poco antropizzati e più buche e alberghi trovano, più numerosi là si affollano. Così l’srl Is Arenas antropizza una pineta immensa, considera una procedura europea di infrazione come un “fastidio” antiantropico e vuole antropizzare sempre di più, ossia usurpare con i mattoni un luogo perfetto ma senza difesa dagli affaristi d’oltremare e dai camerlenghi locali. La stessa stoffa antropologica dei camerlenghi che avevano già servito, anni fa, i “filosofi” dell’industria nell’isola i quali hanno condannato un’intera generazione all’incertezza del lavoro, alla sofferenza di uno stipendio sfuggente come un’apparizione. Anche quei sapienti antropizzavano l’isola, e i loro maggiordomi li definivano filantropici.
Così oggi abbiamo un’industria che deturpa il golfo detto degli Angeli, antropizzati, ciminiere spente e licenziamenti dappertutto. E cercando nuova ricchezza dissipiamo in un attimo – curvi davanti alla prima srl che arriva – il tesoro enorme dell’intatto che ancora ci resta.
Che delicatezza nel verbo antropizzare. Si evita, con una parola, di usare sinonimi duri, poco eleganti come, ad esempio, distruggere, speculare, arricchirsi in pochi, dissipare il patrimonio naturale che possediamo. Un intero dizionario sgradevole riunito in un solo vocabolo elegante e snello che dice tutto.
L’isola, dal capo di sopra sino a quello di sotto, si antropizza e si conduce da sola al patibolo, contenta di stringersi il cappio da sola.
Narbolia è uno dei comuni che sarebbe ricco se solo si fermasse a riflettere. L’srl Is Arenas vuole costruire sulle sue coste, dove non si deve. Tutto qua è il succo. L’srl Is Arenas vuole antropizzare le coste di Narbolia. Non comprende, il sindaco di quel comune, che l’unico patrimonio in suo possesso, l’unico vero valore economico durevole, l’unico diamante di famiglia non può essere svenduto in un folle saldo. E’ chiaro: se conserva il paesaggio intatto, come per i diamanti, il valore risiederà tutto nella sua purezza e aumenterà.
Ma non c’è nessuna speranza.
Ad Oristano il temerario consiglio comunale ha detto sì ad una struttura turistica che si chiama spiritosamente “Su mattoni”. Ora, chiamare un’opera architettonica “su mattoni” è, almeno, un segno di franchezza. Spiega qual è l’orientamento vero della giunta il cui ago magnetico è rivolto in una sola direzione: cemento per tutti. E’ bastata una variante goliardica al Puc ( che ci vuole? ) e ora si costruiranno 500 posti letto, campi da gioco, una cosiddetta area spettacoli. Beh, si può già immaginare quanto sarà bello “Su mattoni”. Non c’è valium o alcol che lo renderanno sopportabile. Non ce lo invidierà neppure il più disperato degli uomini. La trasformazione dell’isola in una Rimini dei poveri è un segno raccapricciante di un declino dei costumi e, soprattutto è un impoverimento definitivo e irreversibile.
Chi è stufo di Rimini viene nell’isola perché gli hanno detto che ci sono acque terse e spiagge intatte. Viene e cosa trova? Un luogo che si chiama “Su Mattoni”. Un luogo antropizzato dalla giunta umoristica di Oristano che vorrà antropizzare anche il Sinis perché così è solo un deserto senza case e senza mattoni. E poi, questo Sinis, produce troppo poco e potrebbe dare molto di più che quattro uccelli, stagni con zanzare e qualche muggine.
Ogni sconcezza verrà definita come un segno di antropizzazione e la raffinata parola farà fare una bella figura al sindaco che la pronuncia. E’ una parola da tenere d’occhio. Hanno antropizzato il Poetto, Villasimius, Chia, la Gallura intera, la Costa Verde, monti e lagune, isole e arcipelaghi. Antropizzano tutto quello che trovano.
Per antropizzarci completamente ci manca di antropizzare l’amore che è ancora troppo naturale, troppo lasciato al caso: bisogna umanizzarlo, organizzarlo e renderlo fruttuoso. Bisogna investire sull’amore, è necessario un amore efficace e antropizzato, appunto. Ma siamo già sulla buona strada e chi ben inizia, si sa, è a metà dell’opera. Tra poco, questione di mesi, qualche giunta proporrà un villaggio color confetto dedicato al turismo sessuale che colpevolmente curiamo troppo poco ed è ancora rudimentale dalle nostre parti. E chissà come questo luogo di svago verrà battezzato. Migliaia di posti letto con letti di ogni tipo e a meno di due chilometri dalla costa.
Così nell’isola, già antropologicamente prostituita da anni, si concluderebbe il processo sottile dell’antropizzazione totale. Se porta turisti va bene anche il turismo sessuale. Tanto, chi ha dato via la propria terra e la propria memoria può dare via anche tutto il resto. Purché ci antropizziamo in fretta e la facciamo finita.
Articolo pubblicato da la Nuova Sardegna domenica 17 luglio 2005