I begli articoli di Fabrizio Bottini su metropoli megalopoli città esortano a verificare vecchi e nuovi pensieri. Fra molto d’altro ho selezionato, per ora, il tema dello spazio pubblico urbano e ho ritrovato la piazza. Ecco, l’ho sentita così:
Quando e fino a quando vige nella sua costituzione materiale e sociale uno spazio denominato “piazza”? La parola è antica. In greco platêia, sostantivale da platys,‘largo, ampio, vasto’. L’ agorà era assai ampia. Secondo Camillo Sitte (1889) nel Medioevo e nel Rinascimento le piazze urbane avevano una fervida e pratica utilizzazione per lo svolgimento della vita pubblica, e presentavano una stretta concordanza con gli edifici circostanti. Mentre oggi - scriveva - servono tutt’al più come posteggi di veicoli e perdono sovente ogni collegamento artistico coi fabbricati.
A mio parere il momento della fine dovrebbe retrocedere nel tempo. La piazza italiana vivente una straordinaria completezza d’architettura e di socialità culmina nel Medioevo e muore alla fine del Trecento o al principio del Quattrocento, salvo rari sprazzi di vitalità nei secoli successivi: nelle parti popolari della città, ma si tratterà di strada piuttosto che di piazza; non esisterà affatto il senso di platys. Oppure sarà una città eccezionale, Venezia, che esibirà i suoi campi e campielli.
Poteva essere uno slargo, come una lacerazione del tessuto di stradette e case fittissimo, un chiarore desiderato e trovato dalla comunità. Per esempio, a Gubbio, non il magnifico alto terrazzamento prospiciente il Palazzo dei Consoli, ma, appena lì sotto, la piazzetta della Chiesa di San Giovanni Battista. Oppure, come il Campo di Siena o la Piazza del Popolo a Todi, era spazio appunto vasto, conchiuso dalle cortine edilizie, in ogni caso fortemente progettato: perlomeno nel significato di un concerto della popolazione per una comune scelta, diremmo ora “urbanistica”. Uno spazio altamente organizzato e certamente identificato dalle singole persone, dai gruppi sociali, dall’insieme della cittadinanza quale luogo riassuntivo della città intera, quasi fosse esso la città intera.
Il fondamento della piazza posava su determinati contenuti sociali. E’ infatti per la mancanza di questi che oggi non la possediamo, anche laddove esiste uno spazio congruo, persino spazio antico persistito uguale. In primo luogo il recinto di case, talora interrotto solo dalla Chiesa o dal Palazzo Comunale, era intensamente abitato, vi risiedevano numerose persone che vi entravano e ne uscivano da e verso lo spazio comunitario. Le finestre “abitate” erano occhiuta costante presenza. Al livello del lastricato si aprivano miriadi di attività, magari collegate con gli alloggi superiori, artigianato, commerci, trasporti, e ancora stanze per persone... o per animali. C’era andirivieni, incrocio, incontro, conoscenza: gente di lì e gente di altri quartieri contrade sestieri. Si facevano affari, contratti chiacchiere. Non sto mitizzando, penso a cosa abbiamo perduto: la possibilità di praticare rapporti sociali in uno spazio pubblico riconosciuto, appagante e affabile perché intimamente tuo in quanto percepito da tutta la comunità come massima espressione di ricchezza funzionale e infine di bellezza.
Peraltro si dispiegavano quei rapporti non tanto perché esisteva la piazza quanto perché di essi necessitava una specifica formazione economico-sociale che nel contempo li determinava. Oggi non possiamo o non sappiamo praticare rapporti sociali umanizzati e umanizzanti perché la società è costituita in un modo che non li favorisce, anzi li rifiuta. Né costruendo oggi una bella piazza, disabitata o abitata che sia, li determineremmo. Lo spazio-piazza di allora si presentava a sua volta come necessario. La comunità l’aveva voluto perché sentiva di aumentare così le occasioni di espandere se stessa, non solo sul piano economico.
Nell’immaginabile itinerario attraverso le piazze italiane quale potrebbe rappresentare il punto di snodo, anzi di frattura? Emerge un luogo emblematico, La Piazza Pio II Piccolomini di Pienza (potremmo considerarla oppostamente alla Piazza del Mercato di Lucca, altrimenti emblematica). Uno spazio urbanistico-architettonico di grande bellezza, dimostrativo del contrario rispetto alla vera piazza, il modello medievale che ho descritto. Il popolo abitante è sparito. Mancavano quei contenuti, quel modo di esistere sociale funzionale estetico del recinto e della plateia. Palazzo Comunale, Palazzo Vescovile, Cattedrale, Palazzo Piccolomini. Bernardo Rossellino colloca oggetti architettonici nello spazio, li giustappone con raffinata sapienza, li fa dialogare senza troppa familiarità nel loro consistere di massa-volume e composizione architettonica. Istituisce un luogo insigne dei poteri che sembrano trarre forza e accentuare superiorità proprio dall’armonia numerica di rapporti calcolati sul filo d’equilibrio fra reale e irreale. (L’ispirazione dello spazio metafisico di Giorgio De Chirico retrocede nella storia fin qui?). E’ la piazza in cui non si abitava, si andava, per funzioni religiose o civili, per necessità di richieste e di suppliche ai poteri, forse preoccupati e intimiditi...
Ancor oggi si va in piazza, forse disperatamente. A Milano Piazza del Duomo è non-piazza per eccellenza. Singole persone e piccoli gruppi vi si ammassano, nei fine settimana è una folla. Provengono dalle periferie, dal circondario, dalle città prossime (non parlo dei turisti, di giapponesi o svizzeri). Nessuno abita il sito. Tutti sono estranei, tutto lo spazio e tutti gli edifici sono stranieri. Nemmeno i capannelli di immigrati riescono a portare un segno nuovo, anzi antico. Restano seduti sui gradini del Sagrato, qualche parola dentro il gruppo, forestieri, come tutti gli altri.
Di qui potrebbe cominciare un altro discorso. Dal punto di vista adottato in questo commento tutte le piazze esistenti sarebbero spazio perduto e non più ritrovato. Anche la veneziana Piazza San Marco è non-piazza per eccellenza, proprio come la milanese; anzi, l’appartenenza e la frequentazione sono ancor meno riferibili a un qualche residuo di sentimento personale e collettivo della città. “Abitata”, posseduta da cittadini comuni, non i potenti procuratori e i loro subordinati, non lo è stata mai. Mi domando: tuttavia la grande differenza di architettura urbana, o semplicemente la bellezza architettonica di Piazza San Marco e la mediocrità di Piazza del Duomo (la facciata della chiesa è muta, anzi il post-gotico ottocentesco, soprastante alla maniera cinquecentesca tebaldiana, emette suoni falsi, inoltre accompagnati dai versacci del fascistico Arengario) non distinguerebbero una possibilità? Ossia, l’architettura urbana delimitante gli spazi pubblici potrebbe trovare oggi una peculiare capacità di influenzare le occasioni di concordanza sociale, di pensamento collettivo? O è vero che ormai le persone devono rassegnarsi a praticare come piazza deprivata di antichi valori, vale a dire falsa piazza che separa invece di unire, gli spazi interni dell’ipermercato con il loro silente, indifferente ma brutto contorno?
Milano, 24 novembre 2006
“Giacimenti culturali”: indimenticata locuzione di qualche lustro fa respinta con sdegno dal mondo culturale tutto, in quanto scopertamente portatrice di una logica mercantilistica. Eravamo nei tardi anni ’80. A quegli stessi anni, non a caso è da far risalire l’esplosione del fenomeno delle esposizioni temporanee, per il quale si è arrivati a parlare di ‘mostrite’, a sottolinearne il carattere vagamente patologico dovuto alla proliferazione invasiva che ha man mano assunto. Quei processi di spettacolarizzazione finalizzati alla costruzione di eventi costruiti, per lo più, sui soliti noti eternamente esposti (da Caravaggio agli impressionisti o Picasso) conoscono attualmente una nuova stagione di fasti. Il sospetto, sempre più rafforzato, è che questa spropositata offerta di iniziative e manifestazioni dall’etichetta culturale, sempre più dilatate nel tempo, più ricche di offerte, più mediaticamente rilanciate e promosse abbia una finalità quasi esclusivamente “acchiappaturisti”: il nostro patrimonio è quindi utilizzato come magnete turistico in grado di raggiungere l’agognato obiettivo del “tutto esaurito”. Nessuno si azzarda più a proporre la bieca equazione beni culturali come petrolio, ma con ipocrita slittamento lessicale il combustibile fossile ha lasciato il posto a termini ben più glamour e politically correct quali “volano”, “risorsa”, “occasione di sviluppo”, “attrattore”, “asset dello sviluppo economico”.
Questa tendenza si coniuga perfettamente con quanto è successo, al passaggio del testimone governativo, al Ministero competente per i Beni Culturali, al quale le competenze sullo Sport, senza troppi rimpianti, sono state sostituite con quelle relative al Turismo, un compagno di strada apparentemente più consono, ma potenzialmente assai più pericoloso. Liaison quasi inevitabile, questa, e già adombrata nelle ripetute statistiche degli ultimi anni che confermano per l’Italia una buona tenuta, a livello mondiale, solo nel settore del turismo culturale, laddove in altri comparti dello stesso ambito la nostra offerta soffre ormai la concorrenza di molti altri paesi.
Che il turismo, ormai da alcuni anni prima industria a livello mondiale, sia uno dei settori prevalenti verso il quale si stanno reindirizzando molte economie europee e del bacino del Mediterraneo è un dato di fatto. E non è più tempo per puristi: la legittimità e opportunità di un uso turistico del nostro patrimonio culturale non può essere messa in discussione. Il problema è piuttosto di governare un fenomeno con strumenti più efficaci di quelli finora proposti, considerate le caratteristiche quantitativamente espansive che lo connotano. Come tutte le risorse fragili e irriproducibili, il bene culturale non può essere sottoposto ad uno sfruttamento che non sia monitorato costantemente e passibile di interdizione, qualora le condizioni di conservazione del bene stesso non ne consentissero più l’uso, o lo permettessero solo in condizioni limitate o di particolare protezione. Eppure l’uso a fini turistici del nostro patrimonio culturale è tuttora caratterizzato da elementi di improvvisazione e superficialità di analisi che tendono ad appiattirsi su di uno sfruttamento acritico, non programmato della nostra risorsa più importante, considerandola già “pronta per l’uso”.
In un’ottica di sostenibilità ambientale il settore turistico non differisce, quanto ad approccio, da qualsiasi altra attività ed è stato dimostrato come sia erroneo considerarlo una sorta di settore produttivo “light” - la così detta ‘industria bianca” - di minore impatto sull’ambiente rispetto ad altre; al contrario l’industria turistica quanto più si sviluppa in un luogo, tanto più consuma le risorse ambientali e culturali sulle quali poggia la sua fortuna economica. Suoi effetti collaterali ormai noti sono, oltre al depauperamento del patrimonio dovuto alla pressione antropica, la cementificazione e la speculazione da invasione di seconde case, il collasso di mobilità e, in generale, un’impronta ecologica pesantissima.
Dietro le città turistiche, le folle transumanti delle notti bianche e dei mille eventi che si riproducono per clonazione e senza alcuna innovazione, è in agguato la dissipazione del nostro “petrolio”, la congestione dei nostri centri storici e lo stravolgimento dell’intero territorio. Firenze e Venezia già da tempo conoscono i problemi dell’essere divenute città monoculturali le cui economie si reggono solo sul turismo: primo fra tutti lo snaturamento dei loro centri storici ormai trasformati in parchi a tema ad esclusivo consumo turistico. In questa direzione pare avviata Roma stessa, a proposito della quale non passa giorno senza che non ci vengano sbandierati nuovi record economico-turistici (maggiore crescita del PIL a livello nazionale, percentuale di presenze turistiche prossima a Parigi). Dietro i toni entusiastici che accompagnano il modello espansivo capitolino pare però mancare una strategia che invece miri ad un riequilibrio complessivo degli assetti sociali: così la rincorsa ad una visibilità fondata sulle quantità e indifferente ai contenuti (almeno a giudicare dal livello complessivo delle offerte), porta a lustrare le eccellenze (e allora mostre, inaugurazioni, feste) per il turista e a nascondere o rimuovere le sgradevoli, imbarazzanti disarmonie (mobilità, periferie, emergenza casa) con cui si confronta il cittadino.
Come e più di Roma, Napoli. Delle ipocrisie mediatiche e le distorsioni che questi meccanismi stanno innescando nelle nostre città, la metropoli partenopea sembra condensare in sé un paradigma completo. Una città che non ha risolto alcuno dei problemi strutturali che storicamente la caratterizzano e che anzi in questi ultimi mesi continua a restare sotto i riflettori per il ripetersi dei fenomeni criminosi e per l’emergenza rifiuti; metropoli in evidente declino sociale ed economico, estranea dalle produzioni immateriali tipiche delle città postindustriali, Napoli sta cercando un difficile rilancio come “normale città d’arte”. Allo sfruttamento turistico del suo patrimonio culturale è da alcuni anni indirizzato lo sforzo più cospicuo dell’amministrazione. Ma qui, ancor più che a Roma, questo sforzo appare come il frutto di una politica metropolitana incapace di innovazione e di invenzione. Da questa estate percorsi protetti sono stati predisposti dai pubblici amministratori affinché i turisti possano degustare le bellezze artistiche della città senza fare i conti con il degrado che continua ad attanagliarla: escamotage velleitario che consacra un fenomeno inquietante di suddivisione della città in aree privilegiate. E il riflesso di questa maniera sgangherata di arrivare ad una città a vocazione prevalentemente turistica è più che mai evidente nelle operazioni connesse alla promozione privilegiata dell’arte contemporanea. A imitazione di quanto sta avvenendo in molte città europee, oltre ai percorsi ‘classici’ legati alla celebrazione del patrimonio monumentale del centro storico,nel giro di pochi anni sono stati inaugurati ben due spazi espositivi vocati alla contemporaneità, il Madre e il PAN, il secondo dei quali, già in affanno con una media di dieci visitatori giornalieri, appare ancora totalmente privo di una programmazione di largo respiro. Da alcuni anni si susseguono poi le installazioni in spazi privilegiati quali Piazza Plebiscito e le mostre monografiche dedicate ai grandi nomi dello star system artistico al Museo Archeologico e a Capodimonte. Sedi nelle quali l’osticità e sovente la sgradevolezza dell’opera d’arte contemporanea sono opportunamente calmierate dal “dialogo con l’antico” o, nel caso di Piazza Plebiscito, dall’inserimento in una sorta di spazio contemplativo ormai definitivamente musealizzato.
Esempio culminante, per molti aspetti, della distorsione banalizzante cui l’arte contemporanea può essere sottoposta quando interpretata come momento di seduzione estetica o peggio come momento promozionale e politico-celebrativo, è rappresentato dalla cosiddetta metropolitana dell’arte. Pluricelebrata da una costante campagna mediatica, consiste nella presenza di opere di artisti contemporanei, alcuni dei quali di livello internazionale, negli spazi interni ed esterni di alcune stazioni - quelle centrali - della metropolitana tuttora in costruzione.
Nessuno nega la validità di talune opere d’arte inserite (ma già sul livello scarsamente significativo di altre occorrerebbe interrogarsi): ma tale valenza è spesso appiattita se non annullata dalla collocazione non solo antigerarchica, ma avalutativa e direi addirittura acognitiva della scelta espositiva. Al contrario di quanto avviene negli esiti più riusciti di public art, in questo caso la scissione dal contesto espositivo tradizionale ha purtroppo conservato le connotazioni negative della musealizzazione, intesa come macchina di riproduzione del consenso estetico. Il museo non è però solo una collezione di opere - altrimenti è un magazzino - ma attraverso i rimandi fra opera e opera diviene un vero e proprio strumento cognitivo e così la mostra ha un senso proprio perché estremizza e coagula attorno ad un tema una serie di oggetti prescelti a dimostrazione di un’ipotesi di ricerca precisa. Nelle stazioni napoletane ciascuna è concepita come un insieme di oggetti di contemplazione a sé stante, ma anche all’interno di uno stesso spazio le opere sono semplicemente giustapposte e spesso il loro inserimento non riesce a far scattare quella restituzione di senso tale che il contesto e il testo ne siano arricchiti e non depotenziati. Questa aporia espressiva deriva dal fatto che le installazioni solo in pochi casi possono davvero essere definite site specific nel senso che la critica più avvertita attribuisce al termine: il loro significato non si forma in relazione alle sue condizioni di cornice e raramente queste sembrano possedere una reale intimità di legame col luogo, ‘incorporano’ cioè il contesto di esibizione.
Senza ripensare, ad esempio, alle complesse elaborazioni museologiche che sottostanno agli allestimenti di una Tate Modern, prescindere da tutto questo costringe ad oscurare parte preponderante dei meccanismi e dei significati che presiedono al processo artistico. A commento del caso napoletano allora ritornano alla mente le definizioni di un viaggiatore disincantato e tendenzialmente diffidente nei confronti di musei e città belle quale Giorgio Manganelli era: le “cooperative di capolavori”, i “lager di squisitezze” i “parcheggi della nostra anima di gusto colto e raffinato”, non più strumento per leggere il reale e la sua complessità, bensì pubblicizzazione di se stessi e di una concezione da politica autocelebrativa dell’opera d’arte.
Quanto poi alla apodittica affermazione, più volte ripetuta, che questi interventi così come altri episodi di installazioni di arte contemporanea in altre aree pubbliche producano effetti significativamente positivi sul tessuto sociale della città e fungano da vere e proprie operazioni di trasformazione urbana, oltre che smentita dalla violenza del reale, pare improntata ad una concezione provinciale che ha trascurato i noti e ormai pluristudiati problemi dell’”indifferenza” con cui si scontra la public art soprattutto se concepita, come in questo caso, come segno di attardato mecenatismo da parte del regista politico di questa operazione (il ‘governatore’ Antonio Bassolino) e come disegno pedagogico imposto (il ‘museo obbligatorio’ di Achille Bonito Oliva, regista culturale). Che con queste opere si regali un momento non trascurabile di osservazione estetica è di per sé positivo, ma per innescare vere e proprie operazioni di riqualificazione urbana occorrono interventi culturali di ben altro impatto, oltre che inseriti in un programma comunicativo ed educativo specifico e prolungato.
Ulteriore elemento che contribuisce a svelare la valenza prevalentemente turistica dell’operazione è costituito dalla collocazione delle opere: presenti solo nelle stazioni centrali, contribuiscono all’abbellimento e alla lucidatura estenuante solo dei luoghi –vetrina del centro storico: quale maggiore sfida concettuale e sociale sarebbe stata collocare un Sol LeWitt o un Jannis Kounellis non a Piazza Dante, ma a Scampia. L’utente privilegiato della metropolitana dell’arte come del Madre, come di Piazza Plebiscito e di gran parte del centro storico è quindi il turista, non il cittadino:attraverso la seduzione puramente visiva dell’arte di fatto si sancisce la trasformazione della città da spazio per i cittadini a quinta scenografica per i turisti.
Come stupirsi allora che il grandioso e pluriannunciato sistema infrastrutturale da alcuni lustri in fieri nel sistema metropolitano partenopeo, lungi dall’apportare significativi miglioramenti in quella che è una delle aere più congestionate del territorio nazionale e in mancanza di dirompenti risultati - quali ci si aspetterebbe soprattutto a fronte di altrettanto dirompenti risorse economiche utilizzate e di tempi ormai dilatati - rilanci in continuazione in termini di grandiosità artistica? Ormai nel catalogo dei progettisti delle stazioni napoletane la panoplia delle archistars internazionali è pressochè completa: da Siza a Rogers, da Fuksas a Botta e via elencando. In effetti pare proprio che questa metropolitana così bella finora abbia tutt’al più scalfito quella che rimane una delle emergenze cittadine (Napoli al 95° posto su 103°, nella classifica Aci-Eurispes sui livelli di mobilità, ultima delle grandi metropoli) tanto da far richiedere al sindaco i poteri speciali e la dichiarazione dello stato di emergenza per traffico e viabilità.
Una città non è più moderna per l’inserimento di opere contemporanee, anzi queste divengono un’operazione passatista se introdotte con finalità puramente estetiche o estetizzanti e svuotate di quella carica dirompente che spesso le pervade.
E’ questo un modo alquanto povero, dal punto di vista culturale, di intendere l’arte, quasi fosse un lusso, una fuga in avanti con la quale una città dai mille problemi si pavoneggia.Al contrario l’arte contemporanea non è un lusso, ma anzi, nella sua forma migliore una modalità comunicativa in grado di sovvertire le gabbie del quotidiano, la vera arte è sovversiva in quanto ci costringe ad uno sguardo diverso sul reale, lo reinterpreta, lo ridefinisce e ci aiuta a comprenderlo e a superarlo. Negli episodi della metropolitana, al contrario, l’impressione è di un addomesticamento, di una banalizzazione dell’opera artistica e del suo significato. Nella vulva di Kapoor progettata come accesso alla futura stazione di Montesantangelo non c’è sovversione, ma solo scandalo, peraltro già così pubblicizzato in anteprima da aver perso ormai quel carattere dirompente che connota la grande arte.
A Napoli, come in altre realtà, è mancato quasi completamente, come a tratti comincia ad essere denunciato, un processo di elaborazione culturale intorno al senso dell’arte e al rapporto fra arte e politica. Questo fallimento appare in tutta la sua evidenza quasi grottesca, adesso che anche le aree monumentali privilegiate, ripulite non tanto per i cittadini, ma per i nuovi consumatori quali sono i turisti, sono investite da nuove violenze e da nuovi disagi di antica origine che erompono dai vicoli dei rioni e da periferie allucinate.
Non è un esito scontato: altre realtà stanno a dimostrare la possibilità di percorsi diversi. In Italia Torino su tutte (dove, fra l’altro, in tempi assai ridotti è stata costruita la metropolitana tecnologicamente più avanzata d’Italia) è ormai la città più vivace sul piano della contemporaneità. Il circuito culturale dell’arte contemporanea disegnato in anni di attenta programmazione, si ispira a soluzioni ben più organiche e strutturalmente convincenti, collegando fra di loro una serie di istituzioni i cui palinsesti espositivi si rimandano l’un l’altro e privilegiando manifestazioni non estemporanee, ma di alto livello e consolidata organizzazione. L’understatement sabaudo ha favorito l’uso di strategie culturali capaci anche di sacrificare tattiche mirate al perseguimento di visibilità politica a favore di un impianto culturale mirato a costruire e non solo ad abbellire.
E’ a partire da queste esperienze, che dobbiamo in ogni caso ripensare le regole, proporre nuovi modelli affinchè le percentuali di crescita economica di alcune delle nostre città turistiche siano il risultato di un premeditato modello di sviluppo capace di restituire sul medio-lungo periodo un miglioramento percepibile e maggioritario della nostra qualità della vita.
Perché la cultura non resti un bisogno privato, soggettivo, quasi voluttuario, senza alcun valore collettivo, ma divenga un patrimonio comune, una risorsa che deve rendere non tanto in termini di profitto o di visibilità del politico di turno, ma di benessere sociale.
Perché il turismo culturale sia davvero una conquista sociale, una nuova opportunità cognitiva, un’espansione delle esperienze di ciascuno.
Perché il turista torni ad essere un viaggiatore o almeno non sia solo un consumatore.
Il testo è pubblicato su IBC, rivista dell'Istituto de Bni Culturali dell'Emilia-Romagna, XIV, 2006, 4
Ancora due rapide riflessioni intorno all’urbanistica contrattata, alla deregulation o, se volete, agli “atti negoziali” del disegno di legge Lupi (il quale ha ripreso la corsa verso l’approvazione alla Camera dei deputati, il che rende urgente una nuova mobilitazione come quella promossa da Eddyburg all’inizio dell’anno). Che deregulation e simili siano a favore della rendita fondiaria e che la rendita fondiaria in Italia sia in vertiginosa espansione sono cose note, almeno ai nostri lettori, e non mancano notizie in proposito. Meno nota e documentata è la questione opposta: da chi è pagata l’espansione della rendita? Si sa che se aumenta la rendita diminuiscono le risorse per impieghi produttivi. Ma sarebbe importante un’analisi e un’approfondita documentazione sul prezzo pagato alla rendita dai ceti sociali più sfavoriti. Sarebbe importante, in altre parole, un’analisi di classe, come si diceva una volta, delle nuove tendenze in materia di governo del territorio.
Prendiamo il caso dell’edilizia pubblica. I Peep sono ormai archeologia (per i lettori più giovani, l’acronimo significa Piani per l’edilizia economica e popolare). Le case popolari non sono più titolari di politiche o di finanziamenti ad hoc e la mancanza di risorse fornisce il pretesto per inedite, ulteriori agevolazioni agli operatori immobiliari e alla speculazione fondiaria. Io ti rendo edificabile un suolo agricolo, tu mi cedi qualche alloggio per l’emergenza abitativa (non importa dove, non importa come). Iniziative del genere sono in corso a Roma. Ed è noto l’esempio di urbanistica contrattata bolognese denunciato dalla Compagnia dei Celestini, quello di via Due Madonne, dove un edificio per l’edilizia pubblica funge da schermo, lungo l’autostrada, per proteggere dal rumore e dall’inquinamento i retrostanti edifici per famiglie meno sfortunate. Che dire poi degli standard urbanistici? Una conquista epocale, un diritto alla vivibilità garantito a tutti i cittadini italiani negli anni del primo centro sinistra, occasione di memorabili vertenze sociali, che si propone di smantellare e che in molti luoghi si sta smantellando. Sarebbero molto utili indagini mirate e osservazioni sistematiche, che questo sito potrebbe raccogliere.
La seconda questione sulla quale sarebbe utile che Eddyburg sviluppasse un confronto riguarda il rapporto fra le nuove tendenze dell’urbanistica e il mondo dell’illegalità. È indubbio che deregulation e affini tendono, oggettivamente, ad affermare una concezione dell’urbanistica come regno del tutto è possibile, dove la trasgressione è bella, la spregiudicatezza è un valore. Secondo i propagandisti della new wave, quest’impostazione doveva aiutare, tra l’altro, a contrastare le spinte agli abusi e all’uso selvaggio del territorio favoriti dai lacci e laccioli di un’opprimente e insensata normativa edilizia. Mi pare che succeda l’esatto contrario. A Roma, per esempio, sono 85 mila le domande di condono. Riguardano i nove anni (1994 – 2003) che intercorrono fra le due ultime leggi per la sanatoria edilizia. Proprio gli anni del “pianificar facendo” e della contrattazione, pratiche che dovevano arginare l’illegalità e che invece sembra siano state il brodo di coltura dell’abusivismo e dei fuorilegge.
Nei comuni del Mezzogiorno strozzati dalla malavita servirebbero, in edilizia come in ogni altro campo dell’azione pubblica, politiche di assoluto rigore, anche per fornire a operatori e cittadini modelli di comportamento alternativi alle sregolatezze di tanti interventi governativi. La legittimazione della contrattazione a oltranza e in ogni dove, asseconda, invece, inevitabilmente, le peggiori tendenze e la formazione di un personale politico che assomiglia, sempre più spesso, anche a sinistra, a Cetto La Qualunque, strepitoso protagonista di una trasmissione (e di un libro) di Antonio Albanese, quello che propone di piantare un pilastro di cemento armato per ogni bambino che nasce.
La carta ha avuto, nella storia, un ruolo rivoluzionario e il mondo è progredito vertiginosamente quando le macchine a vapore hanno prodotto carta per tutti. Alle volte più carta che idee.
Ma per la carta sono scomparse foreste e intere regioni hanno cambiato il loro paesaggio. La Sardegna, dice qualcuno, ha subito un disboscamento selvaggio e forse possedeva più boschi di oggi anche se il geografo Le Lannou sostiene che l’Isola non è stata mai granché ricca d’alberi.
Questa piccola riflessione sulla carta ha subìto un approfondimento improvviso dopo un diluvio tropicale di ricorsi al nostro Tribunale Amministrativo. Si favoleggia di quattrocento ricorsi contro il nuovo Piano Paesaggistico che mette regole - perfino tardive - al consumo sfrenato della terra e delle coste. Insomma una quantità straordinaria di carta che ha danneggiato foreste e ha fatto barcollare i messi giudiziari.
Alcuni di questi ricorsi risultano di grande peso e anche noi incompetenti apprezziamo come ciascuno si esprima secondo uno stile giuridico personale. Qualcuno procede con un bel passo forense, qualcuno zoppica. Ma ce n’è di consigliabili. Ne circola, per esempio, uno decorato con bei fregi rossi e adeguato ai fregi anche nei contenuti. Qualcuno ha scelto uno stile minimalista e stinto. Se ne possono vedere altri colmi di metafore avvolgenti, di parabole e di dottrina. Ce n’è che promettono sventura, epidemie, povertà, fame e ce n’è che nascono già ricoperti di sottile pulviscolo giuridico.
Ma tutti concordano sul fatto che le norme ci volevano, sì, però queste norme, proprio queste, non vanno bene. Non si poteva andare avanti come prima, questo no, e qualche precetto serviva, ammettono. D’altronde loro sono avvocati e quindi, per conseguenza, amano le norme e vi si immergono come in un fiume sacro, le studiano, ne ricavano il pane con il quale comprano la carta. Le norme sono, in uno studio legale, come il bisturi per il chirurgo e sono venerate. Ma queste nuove norme, dicono, sono senza misura, esagerate e perfino sgraziate. E non vanno bene ai clienti i quali contrastano il Piano Paesaggistico familiarmente indicato con il brutto suono di Ppr.
Le migliori teste giuridiche isolane non hanno lasciato le proprie scrivanie per mesi, e sono incappate inevitabilmente nel tema Autonomia, parola che ricorre in questa grande massa di fogli legali. Il dibattito sull’Autonomia muta col mutare degli anni ma oggi, a leggere una parte dei ricorsi, l’Autonomia è rimasta nuda, spogliata di ideali e appare ridotta alle sue vergogne, ossia ad una forma primitiva di autonomia inferiore che possiamo chiamare edilizia.
Alcuni comuni isolani infatti ricorrono contro la madre Regione perché il Piano Paesaggistico li priva, a sentirli, dell’autonomia che, in questo caso, consisterebbe nel costruire, edificare, utilizzare il proprio territorio con regole dettate da sé stessi in un’anarchia amministrativa nella quale ciascuno fa quello che vuole e il territorio è frantumato in microscopici regni autonomi, piccoli feudi arcaici.
E l’Autonomia, ridotta a autonomia, si confonde con il potere di rilasciare licenze edilizie, di definire lottizzazioni, di costruire a piacimento, confondendo l’amministrazione con gli affari i quali, invece, per andare d’accordo con gli ideali dovrebbero uniformarsi a regole, norme e leggi.
Chissà cosa penserebbero i padri dell’Autonomia a sentire che alcuni nostri comuni, per sentirsi autonomi, si ritengono padroni assoluti delle terre che amministrano e rifiutano limiti e regole.
Quest’idea, si sa, ha radici nella proprietà perfetta e in quella comune, nel viddazzone e negli ademprivi, radici in un tempo lontano. Ha spiegazioni ma non giustificazioni.
Vedere come un esercito di giureconsulti concorre, frugando nelle proprie dispense legali, a sostenere la terribile tesi del separatismo edilizio, beh, vedere questi studiosi del diritto lanciati al galoppo giudiziario contro le nuove regole procura dolore e toglie speranza.
Il rimbombo legale delle scrivanie giuridiche è sconfortante, ma neppure il più cinico cultore del diritto può negare che senza regole severe la nostra Isola diventerà rapidamente una muraglia di mattoni con vista a mare e morirà soffocata. Come le coste perdute senza rimedio di altre regioni già violentate dalla speculazione. E quelli che vedevano l’Isola come un’eccezione alla drammatica distruzione nazionale cercheranno l’intatto da altre parti. Magari in Corsica dove hanno fatto un referendum per conservare i vincoli che ai nostri sindaci edificatori suonano come un insulto. Là i vincoli li hanno invocati e là, evidentemente, chi amministra ama la propria terra. E quello si chiama amor patrio.
L'articolo è stato pubblicato oggi, 20 novembre 2006, anche su la Nuova Sardegna.
Era il simbolo dell’efficienza economica unita al sentimento di moralità; aveva il primato della cultura e dell’arte moderne unito alla ricchezza del tessuto industriale; confidava nell’unica borghesia degna del nome e in una forte classe operaia conscia del proprio compito; era riconosciuta per l’affabilità degli spazi civili e la signorilità delle case e dei giardini, ma anche per la ricchezza del patrimonio pubblico in abitazioni popolari; impressionava il funzionamento dei trasporti pubblici, ma sorprendeva la disciplina del traffico privato; esibiva con discrezione l’eleganza misurata dei negozi e intanto offriva bei locali pubblici tradizionali o popolari aperti agli incontri e a consumi sensati; era orgogliosa del miglior teatro lirico del mondo, anche di altre storiche sale di spettacolo non solo nel centro; il ceto degli amministratori pubblici, benché non esente dai peccati apparentemente inevitabili per una tale categoria, pareva meno propenso a impigliare la città nella confusione fra interessi privati e pubblici; infine conservava ancora qualche tratto dell’eredità in materia di pianificazione non avendo dimenticato, in specie, l’insegnamento del Piano regolatore (1884-89) di Cesare Beruto, ingegnere di reparto nel Comune dal 1877, unitamente alla determinazione del sindaco Gaetano Negri “uomo deciso ed energico che poneva la questione del piano regolatore come uno dei punti centrali del suo programma” (così lo storico).
Chi ricorda questa Milano, ovvero gli anziani dotati di cervello e di memoria, è accusato dai nuovi emergenti degli affari e del governo urbano di esercitare l’arte del rimpianto inutile ostile alla modernizzazione: solo perché si permettono (si deve dire) di confrontare la città odierna con quella di altri tempi: un passato prossimo, non remoto. Infatti gli interpellati si riferiscono alla città durata fino all’inizio degli anni Settanta, secondo la valutazione più favorevole, sebbene pecche in ogni campo, disfunzioni e imbruttimenti fossero germinati da venticinque anni, a partire dall’immediato dopoguerra. Una Milano sentita come propria dai cittadini, compresa e amata, presente anche nei momenti più difficili delle lotte sociali e degli scontri politici, nonostante i terribili episodi di morte e di ingiustizia che non ho bisogno di ricordare. L’innegabile perdita di una buona qualità complessiva della vita milanese è l’oggetto del rimpianto, che giustamente diventa critica e poi protesta intellettuale verso i poteri pubblici e privati che hanno comandato la trasformazione.
La città era fervida e ci teneva a mostralo ma senza troppo battage. Aveva ancora una popolazione residente numerosa, non erano spariti gli operai e le loro abitazioni, e nemmeno altri ceti diversamente produttivi estranei all’esosità e grettezza commerciali che sarà poi uno degli stigmi milanesi. Il salasso di sangue vivo degli abitanti (diminuzione di 500.000) non era cominciato, o se ne intuiva appena un segno: sarà il 1974 l’anno cruciale d’avvio di una crisi demografica in continuo avvolgimento su se stessa per tre decenni. Il contrasto fra la città del risiedere e la città del lavorare – deserto notturno e caos diurno – era ancora lontano dal livello insostenibile attuale, epitome lo spaventoso traffico d’automobili e motociclette. L’assetto sociale e fisico descritto pareva resistere, le funzioni e l’estetica sembravano garantite.
E oggi, intendo proprio in questi giorni? Penso che bastino gli articoli riguardanti Milano da me scritti per Eddyburg a legittimare, dopo le critiche e contestazioni, questo lamento. Sì, come una lamentazione funebre, anzi una Leichenreden – dice il poeta – propriamente un discorso, un’orazione davanti alla salma quando dello scomparso si enumerano le bontà e le bellezze. Così sia della nostra città, morta e sepolta.
Milano 27 ottobre 2006
Ancora un piccolo omaggio alla memoria di Antonio Cederna. A dieci anni dalla scomparsa, si sente il peso della sua assenza. Di lui si rimpiangono l’assoluta indipendenza di giudizio, la concretezza degli argomenti, la fermezza dei principi. Per quanto mi riguarda, ho sempre ammirato anche l’esattezza geometrica delle sue descrizioni. Cultore di una scrittura al tempo stesso semplice e raffinata, non si è mai preoccupato di esporre aridi elenchi di dati. Ecco un esempio da un articolo su Il Mondo dell’aprile 1964, dove si confrontano le politiche urbanistiche di Roma e di Amsterdam:
“Considerando il verde esistente (parchi e giardini), Amsterdam ha una dotazione più che quadrupla di quella di Roma, che ha una popolazione più che doppia di quella di Amsterdam: e una media per abitante più che decupla. Senza naturalmente nemmeno paragonare la qualità e la distribuzione (a Roma terra bruciata, aiuole spartitraffico, zone verdi invase dal traffico, quattro quinti della popolazione senza un filo d’erba, eccetera), osserviamo che in trent’anni Roma passa da una media di mq 2,7 nel 1930 a mq 1,8 nel 1961 a mq 1,5 oggi, mentre Amsterdam passa da una media di mq 2,2 nel 1930 a mq 15,9. Tenendo conto dell’aumento della popolazione, si osserva che, ad Amsterdam, ad un aumento di 133.000 abitanti ha corrisposto un aumento di verde di 1.240 ettari, pari a una media di mq 93 per ogni nuovo abitante: mentre a Roma a un incremento di oltre un milione di abitanti ha corrisposto un incremento di meno di un centinaio di ettari, pari a una media di mq 0,8 per ogni nuovo abitante!”
Non è una sfida alla pazienza del lettore: anzi, Cederna è animato da una sorta di etica dei numeri, se così posso esprimermi, che si avverte distintamente e dà corpo al suo rigore e alla sua trascinante indignazione.
(1° ottobre 2006)
Comunità del cibo, cuochi, università: questi i tre temi che ho trattato in una relazione scritta per l’edizione 2006 di Terra Madre, che sarà pubblicata sul n. 1 di Scienze Gastronomiche, la rivista dell’omonima Università. . Li affronto in questa “opinione” che vuole essere anche un mio omaggio ai partecipanti alla Scuola di Eddyburg, che inizia il 26 settembre prossimo.
Non senza ragione qualcuno si può domandare: che cosa tiene insieme, e pone in relazione, le comunità del cibo ai cuochi – tanto i grandi creatori di piatti quanto i semplici ristoratori - e queste ultime realtà, a loro volta, alle Università? Quale può essere il fine di un incontro e di un dialogo tra mondi apparentemente così lontani e diversi? A dispetto di qualche possibile iniziale incomprensione l’incontro di Torino nasce, a mio avviso, da un’idea fertile e di grande respiro e corrisponde perfettamente all’orizzonte progettuale di Slow Food oggi: alle sue attuali strategie di ricerca e di movimento oltre che al complesso delle sue istituzioni, prima fra tutte l’ Università di Scienze Gastronomiche.
Partiamo dalle comunità del cibo, dai contadini, allevatori, pescatori che, venuti da ogni angolo del mondo, sono stati protagonisti del raduno senza precedenti di Terra Madre 2004 e ora ripetono, in forme nuove, l’esperienza. Spesso a tale multiforme realtà dei produttori primari – che costituisce una parte preponderante dell’attuale popolazione mondiale – si assegna un confuso e unilaterale profilo: quello della sua marginalità sociale rispetto al mondo e ai redditi dell’industria.Se si usa il termine contadini, poi, molti pensano addirittura a una realtà arcaica e remota. L’accusa “infamante” di terzomondismo è pronta a scattare per svalutare anche la più generosa e lungimirante delle idee. Non è qui il caso di mostrare analiticamente quanto sia miope e superficiale una tale valutazione. Ma vale la pena rilevare il dato fondamentale che essa dimentica. Poche persone, anche fra i ceti colti dell’Occidente, sono infatti informate e consapevoli di quale inestimabile e insostituibile ricchezza sono portatori i ceti produttivi delle campagne.Una ricchezza che oggi è così ripetutamente gloriata ed enfatizzata nelle società postindustriali: il sapere. E tuttavia, in questo caso, non si tratta di un sapere meramente tecnico, che si può apprendere sui libri, ma di un sapere storico, risultato di una trasmissione millenaria tra le generazioni. Nessuna industria o istituzione può riprodurlo.Esso fa tutt’uno con le culture e le realtà sociali che lo hanno elaborato nel tempo. In realtà le comunità del cibo sono presidi di saperi che ancora sopravvivano e resistono alla marea dell’omologazione culturale che assedia ogni angolo del pianeta. Sono la riserva di sapienza da cui è emersa la nostra storia.
Diciamolo con la chiarezza e l’energia che la cosa merita. La cultura storica contemporanea è vissuta e vive tuttora sulla cancellazione di una incontrovertibile verità: l’agricoltura industriale è nata e si è sviluppata in Europa e negli USA quando, nelle campagne del mondo, tutto era stato già scoperto.Nel XIX secolo, allorché parte quell’avventura, i contadini delle varie regioni del pianeta avevano già da qualche millennio selezionato pressoché tutte le piante e gli alimenti che comporranno la cucina in età contemporanea. Essi avevano infatti già “creato” il grano e gli altri cereali minori nel Vicino e Medio Oriente e in Africa, il riso nel Sudest asiatico, il mais in America Latina.Non meno creatori essi erano stati nel campo degli ortaggi, dalla patata americana alla melanzana asiatica, dai carciofi agli asparagi, dai pomodori alle zucche. E così anche – ma è il caso di ricordarlo? – per l’infinita varietà della frutta selezionata nel bacino del Mediterraneo, nel Medio Oriente, nelle regioni situate lungo la fascia dei tropici.[1] Dunque, l’agricoltura industriale ha ereditato questo immenso patrimonio di conoscenze, - che nessuno aveva mai brevettato e patentato, frutto di millenni di anonime sperimentazioni - e l’ ha diffuso su larga scala accrescendone enormemente la capacità produttiva, selezionando e migliorando alcune nuove varietà, ma riducendo progressivamente, nel corso del ‘900, la biodiversità di quel grande lascito.Non ho la competenza e la sicurezza per essere cosi perentorio come Claude Bourguignon: « Da 2000 anni non è più stata addomesticata una sola pianta agricola».[2] Ma è certo che, se qualche cosa ci sfugge nella lunga vicenda agricola dell’era volgare, essa non ha alcun carattere decisivo. I contadini avevano, in effetti, già selezionato pressoché tutto.
Ebbene, una delle “scoperte” su cui la ricerca storica ci permette oggi di riflettere è che la selezione millenaria delle piante è avvenuta a stretto contatto con il loro uso culinario. A spingere verso la sperimentazione di nuovi semi o di nuovi metodi, all’interno delle comunità, erano le figure che si occupavano della preparazione del cibo. Erano queste che saggiavano la riuscita alimentare delle diverse piante, dei modi di coltivarli, dei diversi terreni utilizzati.. Studi recenti, ad esempio, hanno mostrato il ruolo avuto dalle donne delle Ande nella creazione di migliaia di varietà di patate. Esse conoscevano tuberi in grado di resistere ai geli di oltre 3000 metri di altezza, ma questi erano di gusto amaro, ben diverso da quello dolce delle valli e delle pianure. E così hanno lungamente operato, insieme ai loro uomini, per trovare le varietà in grado di resistere alla molteplici avversità e garantire al tempo stesso uno gusto sempre più gradito ai palati.[3]Del resto tanto gli studi antropologici che le testimonianze contemporanee[4] ci dicono che ancora oggi in genere sono le donne ad avere il compito di selezionare i semi nelle agricolture dei Paesi a basso reddito, e sono sempre loro a occuparsi della preparazione dei pasti.
Allora, da questi rapidi cenni si dovrebbe almeno intuire l’importanza di fare incontrare i cuochi con i saperi originari di cui sono custodi le comunità del cibo.Per i maestri dell’arte culinaria si tratta della possibilità di un contatto diretto con la ricchezza e varietà delle piante, dei sapori, degli aromi, delle combinazioni molteplici elaborati lungo un arco millenario.Può essere qualche cosa di simile alla scoperta che l’avanguardia pittorica europea ha fatto dell’arte africana agli inizi del ‘900.Un incontro rigeneratore, dunque, fra l’arte del cucinare, anche la più raffinata, e lo scrigno primigenio della tradizione, la grande arca di Terra Madre.Ancora più agevolmente si comprende l’interesse di contadini, pescatori, allevatori, per il mondo della grande elaborazione gastronomica, che apre nuovi orizzonti e suggestioni alla sperimentazione agricola.Da qui, davvero, può ripartire, in forme nuove, una storia antica.
Si prospetta dunque un incontro che può arricchire reciprocamente le parti, piccoli e grandi,oscuri lavoratori e stelle del firmamento culinario, e può fornire un contributo al tempo stesso universale alla gloria del cibo: questo bene primordiale e gioia irrinunciabile alla base della nostra vita, realizzabile solo attraverso una cooperazione di comunità, veicolo possibile di equità sociale e di pace, secondo il progetto ventennale di Slow Food. Ma c’è un altro interesse, più largamente politico, alla base di tale possibile dialogo.I cuochi, soprattutto quelli circondati da più universale prestigio,dovrebbero oggi scoprire – e taluni hanno già scoperto -un nuovo impegno nel difendere la biodiversità agricola di cui le comunità del cibo sono gli ultimi custodi. La base stessa della loro arte è in pericolo.La crescente uniformità industriale dei prodotti agricoli minaccia, infatti, anche il loro avvenire.
E l’ Università? Che cosa ha a che fare il mondo accademico con tutto questo, a parte il fatto noto che anche i professori mangiano?Qui risiede, a mio avviso, il nesso apparentemente meno visibile dei tre mondi che saranno protagonisti a Terra Madre 2006. Il meno visibile, ma anche il più necessario e certo frutto del pensiero più ardito di tutto il progetto.Peraltro, esso sta alla basedelle ragioni che hanno portato alla istituzione dell’Università di Scienze Gastronomiche. Le Università, com’è noto, sono centri di ricerca, di elaborazione e trasmissione dei saperi alti delle società del nostro tempo.Ma esse sono state – e in parte, per fortuna, continuano a esserlo – il luogo della libertà del pensiero critico, le cittadelle indipendenti al di sopra dei conformismi e degli interessi sociali dominanti. Ebbene, tale realtà è da tempo soggetta, soprattutto nei Paesi industriali e postindustriali, a un processo di accelerata erosione, che qui non si pretende certo di prendere in esame, ma a cui occorre far cenno.
Intanto, è all’interno degli stessi saperi che si verificano mutamenti di cui non si valuta quasi mai la portata sociale generale. E’ vero, la conoscenza scientifica non fa che accrescersi in termini di singole scoperte, di esattezza dei risultati, di potenza delle sue singole e specifiche applicazioni.Ma è una conoscenza sempre più specialistica, chiusa nei confini della propria disciplina, che non dialoga con le altre e che soprattutto si muove entro il limitato - e ormai distruttivo - paradigma novecentesco di promuovere la crescita economica qualunque essa sia. Per giunta – per un fenomeno interno all’evoluzione della scienza e già segnalato da alcuni pensatori sin dai primi del ‘900 - i saperi scientifici tendono progressivamente a perdere il loro sguardo universale e tradursi sempre più velocemente in applicazioni tecnologiche operative. Da saperi degradano a strumenti.Il contenuto di pensiero generale che un tempo animava le diverse discipline tende a essiccarsi, a esaurirsi nel suo fine utile.Un processo accelerato, peraltro, dalla pressione che il mondo dell’industria esercita sulla cittadella della scienza per avere dispositivi immediatamente inseribili nel ciclo economico.
Questa fenomenologia del sapere non è senza conseguenze sul mondo delle Università. Almeno in alcuni ambiti essa produce professioni forse più agguerrite sul piano strettamente disciplinare – un dato che andrebbe, tuttavia, valutato caso per caso – ma sempre più prive di un collante progettuale generale. Il nesso tra i saperi professionali – spesso sostenuti dall’impegno delle Università pubbliche – e le loro ricadute civili tende ad affondare in una indistinta foschia.Qual’è oggi l’interesse generale che le istituzioni accademiche sono chiamate a favorire e promuovere?Una domanda radicale che, significativamente, non ci poniamo più. Dalle Università, infatti, escono quadri tecnici e figure delle future classi dirigenti che non sembrano possedere altro orizzonte operativo che riprodurre le condizioni di una accresciuta potenza della macchina economica.Oggi possiamo osservare giovani laureati in economia che posseggono le conoscenze più sofisticate in marketing o in gestione aziendale, ma che non hanno neppure una conoscenza superficiale, ad esempio, di come il mercato agricolo mondiale, dominato da USA ed Europa, condanni alla stagnazione o alla rovina le agricolture dei Paesi poveri.Ed essere informati su tale aspetto non è semplicemente un imperativo di carattere morale. Bisogna infatti chiedersi: può un giovane economista europeo ignorare il fatto che la crescente e disordinata immigrazione di disperati provenienti dai vari angoli del mondo – uno dei grandi problemi sociali dell’Europa d’oggi e di domani – è il risultato dell’ iniqua ragione che domina da decenni gli scambi mondiali ? A che serve la sua laurea se non sa questo?Certo potrà svolgere bene il suo lavoro in azienda, ma come cittadino europeo la sua ignoranza è uno scacco collettivo.In questo caso l’arricchimento strettamente professionale coincide con un immiserimento civile. Allo stesso modo possiamo osservare tanti giovani agronomi che sanno tutto sulle patologie della patata o sulla fertilizzazione minerale dei terreni, ma ignorano completamente l’isterilimento e talora l’avvelenamento subito dai suoli agricoli negli ultimi 50 anni di concimazione chimica intensiva .E’oggi in atto un grandioso processo di erosione – risultato anche delle pratiche agricole industriali – che ci fa perdere ogni anno milioni di ettari di suolo fertile in tutto il mondo. Ebbene, le Università devono ancora produrre tecnici che continuano a teorizzare metodi e filosofie produttive destinati a perpetuarlo? L’ossessione economicistica che agita oggi i gruppi dirigenti di gran parte dei Paesi del mondo tende a subordinare ogni sapere e ricerca alle loro immediata utilità economica. Cosi, mentre spesso, in passato, è stato motore storico dell’innovazione e della trasformazione sociale, promotore di arricchimento e di liberazione umana, il sapere accademico rischia oggi di trasformarsi in fonte di alimentazione del più gigantesco processo di conformismo culturale dei tempi moderni. E qui sta, come ognun vede, un nodo rilevante del nostro tempo.Si tarda, infatti, a prendere atto del drammatico mutamento globale che abbiamo di fronte a noi: i dirigenti, i tecnici, gli esperti, che escono dalle Università non possono più limitarsi a rendere più produttive le aziende. Essi devono cercare di rendere le loro economie compatibili con risorse generali sempre più scarse, con equilibri globali sempre più fragili e complessi, essere consapevoli delle ricadute sociali collettive della ricchezza prodotta. Serve un altro sapere, non per produrre di più, ma per produrre meglio, e per distribuire meglio la ricchezza, con una nuova consapevolezza della natura che manipoliamo, e per conservare e valorizzare i patrimoni che abbiamo ereditato.
Ecco, le idee e le conoscenze con cui le Università e i singoli docenti dovrebbero dialogare con le comunità del cibo e i cuochi a Terra Madre è quello che definirei una sapienza delle connessioni. Certo, l’Università mette a disposizione un ventaglio molto ampio di discipline, ma io credo che lo sforzo comune di queste dovrebbe essere indirizzato a mostrare i legami storici, economici, sociali, biologici, ambientali che connettono i produttori agricoli con i creatori di cibo e questi con l’insieme delle comunità umane. Mentre a loro volta i docenti possono apprendere i legami insospettati tra i vari fenomeni della vita che gli altri mondi, quello della produzione e della manipolazione, conoscono per pratica quotidiana. E’ questo, del resto, l’orizzonte davvero nuovo e incoraggiante verso cui sta muovendosi una folta avanguardia del sapere scientifico dei nostri anni. Personalmente considero come la più grande intuizione dell’ecologia in età contemporanea la sua idea base: la scoperta della complessa inscindibilità del vivente. La vita, la Terra, tutta la realtà che abbiamo intorno è un complesso di connessioni e di infinite e mutue relazioni.La rottura di un punto si ripercuote su tutto l’insieme. Per questo gli studi che indagano sui terremoti, sui mutamenti climatici, sulla biodiversità, sulle trasformazioni ambientali, sono oggi ricerche fondate sulle cooperazione delle discipline, sulla alleanza dei saperi.Essi mostrano come la ricerca dell’interesse generale, il perseguimento del bene comune, possa spingere la scienza a uscire dal proprio unilaterale riduzionismo, dalla propria separatezza disciplinare, dal proprio asservimento ad interessi particolari e limitati, e trasformarsi in dialogo e cooperazione. Del resto, anche l’Università di Scienze Gastronomiche istituita da Slow Food nel 2004 è dentro questo orizzonte. Essa non è una nuova Università privata qualsiasi che si aggiunge – com’è avvenuto negli ultimi anni - a tante altre in Italia e nel mondo. La sua ambizione, del tutto inedita, è di creare una figura di gastronomo, che non limita le sue competenze alla preparazione del cibo, ma è anche consapevole che la sua materia prima viene dalle varie campagne del pianeta, frutto dell’oscuro lavoro degli agricoltori, spesso mal pagati, privi di mezzi, svolto in un ambiente sempre più minacciato da inquinamento e distruzione.Il nuovo gastronomo è gravato da una nuova responsabilità – quella che deve accompagnare oggi l’opera di ogni portatore di saperi - che è insieme etica e di conoscenza, al fine di produrre un cibo buono, pulito e giusto, come suona saggiamente il titolo del libro manifesto di Carlo Petrini.[5] Egli non può, infatti, dimenticare che la materia su cui opera è condizionata dalla salubrità ambientale dell’agricoltura, e dai rapporti sociali, dalle condizioni di necessaria equità di cui il lavoro agricolo dovrà godere per continuare a esercitarsi. Non può dimenticarlo anche per la semplice ragione che le basi stesse della sua opera e ragion d’essere potrebbero venire distrutte nel prossimo avvenire.
Le comunità del cibo di Terra Madre rappresentano un concetto nuovo. La comunità del cibo è formata da tutti quei soggetti che operano nel settore agro-alimentare, dalla produzione delle materie prime alla promozione dei prodotti finiti, e che si caratterizzano per la qualità e la sostenibilità delle loro produzioni. La comunità del cibo è strettamente legata – dal punto di vista storico, sociale, economico e culturale – al proprio territorio.
Le comunità del cibo sono di due tipi:
di territorio: la comunità produce più prodotti, anche diversi tra loro, ma tutti legati a un’area geografica delimitata o a una etnìa indigena
di prodotto: la comunità è composta da tutti quegli agricoltori/allevatori, trasformatori e distributori che concorrono, a diverso titolo, alla produzione di uno stesso prodotto su un preciso territorio. In questo caso la comunità del cibo coincide con la filiera produttiva.
I prodotti delle comunità sono realizzati in quantità limitata, da aziende agricole o di trasformazione di piccole dimensioni. Il prodotto o i prodotti delle comunità si distinguono inoltre per la loro qualità:
organolettica: il prodotto è buono;
ambientale: il prodotto è pulito, naturale, sostenibile;
sociale: i produttori ricevono un giusto compenso; inoltre, all’interno delle comunità non sono praticate discriminazioni di alcun genere, né si ricorre al lavoro minorile.
Le comunità del cibo sono i protagonisti principali della rete di Terra Madre, ma è solo attraverso il reciproco scambio di esperienze e competenze con le università e i cuochi che i valori di Terra Madre riusciranno ad avere un’eco significativa presso il grande pubblico.
Dal sito di Terra Madre 2006
[1] Una mappa sintetica di questa geografia delle produzioni agricole originarie in C.Boudan,Le cucine del mondo.Geopolitica del gusto, Donzelli Roma, 2005, p. 95 e ss.
[2] C. e L.Bourguignon, Il suolo.Un patrimonio da salvare,Prefazione di M. Smith, Slow Food Editore, Bra 2004, p.98
[3] Cfr. M.Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi Torino 2005, p. 249
[4] Si veda per l’India la testimonianza di V.Shiva, L’industria biotecnologia si basa su fondamenta di menzogne e illegalità, in L.Silici( a cura di ) Ogm. Le verità sconosciute di una strategia di conquista, introduzione di F.Pratesi, Editori Riuniti, Roma 2004, p. 52.
[5] Buono, pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia, Einaudi Torino 2005.
Sono tornata sull’Appia Antica, al termine di una arroventata giornata romana. Un po’ per caso, un po’ per desiderio.
Mentre gli ombrelli dei pini incupivano, la Regina Viarum ha di nuovo dispiegato il suo fascino davvero inesauribile, quello che la fece prescegliere, quale inarrivabile quinta seduttiva, da Roberto Rossellini per l’ingresso in Roma al fianco di Ingrid Bergman appena sbarcata, per lui, dall’America (era il 1949).
Mio obiettivo era la visita alla nuova sede del centro di documentazione dedicato ad Antonio Cederna, finalmente alloggiato in quella che era la sua strada. Quasi una sorta di pellegrinaggio in un luogo da lui così amato, tanto da essere definito, fin dai tempi del Mondo, “appiomane”, luogo percorso e ripercorso, studiato e annotato in ogni metro, strappato lembo a lembo, dalla forza delle sue parole e dei suoi interventi, alla speculazione e al degrado.
In queste settimane, in preparazione di un volume di saggi che l’Istituto Beni Culturali intende dedicargli, i suoi scritti mi hanno accompagnato soprattutto durante gli spostamenti; letture in ordine sparso, senza criterio e senza metodo, riprese in più tempi e in situazioni diverse: in viaggio sui treni, ad alcune riunioni (molto noiose), durante le attese degli aeroporti, ai tavolini del Gambrinus (molto scomodi), a cala Garibaldi.
La produzione letteraria di Cederna, costituita per lo più da articoli su quotidiani e settimanali, poteva ben prestarsi ad un esercizio così frammentario. Eppure rileggendo quelle pagine, assieme al disagio crescente spesso provocato da certe descrizioni, risultato certo dell’efficacia della sua prosa, ma ancor più dell’ineluttabilità e dell’evidenza, così attuale e così scomoda, di certe conclusioni e di molte previsioni, uno dei caratteri che mi hanno più colpito è che l’opera di Cederna, pur procedendo per episodi circoscritti - per carattere editoriale e diversificazione di soggetti - possiede una propria straordinaria organicità tanto da risultare persino monolitica quanto a coerenza ideologica.
Cederna tende, fin dalla prima fase della sua attività, a inquadrare gli episodi che descrive, i fenomeni che analizza, in un orizzonte più vasto, per risalire alle cause, certo, e perché possiede una concezione sistemica del territorio e dei suoi problemi. Il territorio è quindi un sistema complesso e fragile in quanto tale, perché in esso ogni elemento che vi viene alterato ne scompone tutto l’equilibrio come nel più delicato degli ecosistemi. E di conseguenza i centri storici sono da interpretare non come insieme di monumenti eccellenti, ma nell’insieme del loro tessuto connettivo, come articolazione organica, complesso contesto di strade e palazzi e così i beni culturali non come emergenze isolate, ma inseriti nel problema più complesso delle città e del paesaggio.
Allo stesso modo Cederna contesta, come arretrata e dannosa, la visione della natura come paesaggio, a sua volta inteso come sommatoria di panorami e quindi quasi esclusivamente interpretato nelle valenze estetiche. Possiede, è stato detto, una visione strategica dell’urbanistica nella quale individua lo strumento privilegiato per il governo del territorio.
Questi elementi si coniugano del resto all’evidenza della sua attualità, tante volte proclamata e raramente interpretata, forse perchè fastidioso sintomo della nostra cattiva coscienza di cittadini distratti e della nostra pigrizia intellettuale. Ma Cederna non è attuale solo perché molte delle sue battaglie sono purtroppo ancora aperte, perché molte delle sue accuse e delle sue descrizioni potrebbero essere riproposte tal quali a 20, 30 40 anni di distanza, lo è ancor più proprio nella capacità di inquadrare i tanti episodi e fenomeni, per lo più negativi, riportandoli sempre ad una analisi complessiva e a ragioni strutturali con le quali ci ritroviamo a fare i conti ancor oggi.
E bisogna leggerle, le date di questi articoli in cui sulla stampa periodica e quotidiana Cederna veniva componendo il suo ritratto - Iliade e Odissea assieme - dell’Italia del dopoguerra, del boom economico, di tangentopoli.
Fra i primi a capire, con assoluta tempestività di analisi, che le arretratezze delle nostre città in campo urbanistico sono il perverso effetto della costante difesa della rendita fondiaria a livello politico – legislativo; in anticipo su tutti, a livello di comunicazione di massa, diffuse concetti come quello della irriproducibilità e fragilità del suolo. E in controtendenza con il provincialismo che caratterizzava la nostra stampa (e la nostra cultura) pose da subito grande attenzione alle esperienze più avanzate, in campo urbanistico, di ambito europeo - Amsterdam, Stoccolma, Copenaghen, Zurigo - a più riprese additate come modelli a cui ispirarsi.
Né apocalittico, né integrato, Cederna, come è stato ricordato in questi giorni, non fu mai solo un critico e un oppositore del mutamento, ma studioso in grado di proporre anche soluzioni operativamente efficaci e concretamente realizzabili (il parco dell’Appia, la proposta di legge per Roma Capitale). E i suoi scritti di sintesi si concludono quasi sempre con un’agenda propositiva, in cui il primo punto è invariabilmente dedicato alla necessità di censire, studiare, documentare: conoscere di più per fare meglio. La sua azione sempre combattiva e dispensatrice di idee, di iniziative, di alternative non è quella di un semplice conservatore: è per lo sviluppo guidato dalla mano pubblica, per una città moderna ispirata ai criteri dell’urbanistica di stampo nordico che vive accanto alla città storica e per questo ne permette la conservazione nella maniera migliore e più congrua per uno sviluppo ordinato e vitale delle proprie funzioni e in cui la qualità della vita sia garantita a livelli decorosi per tutti.
Proverbiale la sua pignoleria nella documentazione e nell’elaborazione scritta (7 ore a cartella, il minimo prescritto per ottenere un risultato decente) e l’attenzione che si percepisce per il materiale iconografico, non accessorio, ma parte integrante delle sue analisi.
Nel 1949 comincia la collaborazione al Mondo sulle cui pagine prende a denunciare, fra l’altro, l’urbanizzazione selvaggia che si scatena negli anni delle ricostruzioni postbelliche. L’attività di Cederna, così come è stato messo in rilievo da Francesco Erbani, è perfettamente complementare all’ideologia progressista e laica del periodico di Pannunzio, che in quegli anni veniva denunciando le arretratezze culturali della classe politica e di quella accademica quando non la loro acquiescenza agli interessi privati più retrivi ed aggressivi e i guasti di un capitalismo distorto che si poneva al riparo dal rischio d’impresa rifugiandosi nella passività della rendita immobiliare e fondiaria o nella corruzione.
Intanto nasce Italia Nostra (è il 1955) e Cederna ne è tra i fondatori e sarà sempre uno dei soci più attivi: per Italia Nostra, negli anni, scriverà alcune delle sue sintesi più efficaci e di assoluto rilievo storico.
Nel 1956 esce la prima raccolta degli articoli pubblicati sul Mondo, I vandali in casa: dove ritroviamo le tesi di fondo incessantemente ripercorse e riproposte nell’arco di oltre quarant’anni: quelle per una pianificazione come metodo imprescindibile e garanzia di trasparenza e democraticità; per la tutela della natura e del territorio nel suo complesso perché bene “non reintegrabile”; il nesso di complementarietà fra antico e moderno per cui, per salvare l’antico, bisogna saper costruire il moderno secondo i criteri di un’urbanistica modernamente intesa. L’incipit dei Vandali in casa è una chiamata alle armi a partire da una separazione netta fra chi è vandalo e chi non lo è. Cederna si propone di organizzare contro i distruttori del bello una vera e propria ‘persecuzione metodica e intollerante’. E inizia una delle battaglie di fondo che caratterizzerà la sua attività nel tempo: quella per la diffusione di una cultura, urbanistica e non, più moderna e per l’incremento di una sensibilità più attenta e profondamente motivata per i temi della tutela dei beni culturali e, in sostanza, per l’allargamento, nell’opinione pubblica, del sentimento di riappropriazione del patrimonio collettivo di città e paesaggio.
Ma nell’introduzione ai Vandali è anche l’esposizione di uno dei suoi temi privilegiati: la conservazione integrale dei centri storici, premessa obbligata alla loro tutela: la città è cultura, “civiltà stessa del vivere e del costruire”. Da questi assunti trovano linfa, ad esempio, le straordinarie vittorie contro gli sventramenti capitolini di via Vittoria.
Nella furia accusatoria Cederna non fa sconti a nessuno: gerarchie ecclesiastiche, organi di tutela deboli e neghittosi, amministrazioni pubbliche (quella capitolina in primis), classe politica e accademica nel loro complesso, fra cui spiccano, per ignoranza e boria, gli architetti.
Ma oltre che per la solidità e la novità dei contenuti, la polemica cederniana si distingue e si distinguerà sempre per la cifra stilistica che la connota e che ne costituisce elemento di efficacia e riconoscibilità immediato. Nella sua prosa di carattere oratorio e dall’aggettivazione incalzante, i toni variano dall’indignazione all’ironia più acuminata, al sarcasmo vero e proprio: in certi casi Cederna predispone, con le sue descrizioni, quasi una scenografia di una commedia all’italiana di stampo monicelliano, quando non si apparenta alle disarmonie inquietanti di Hieronymus Bosch.
Nei suoi scritti egli dà sfoggio di un uso sapiente degli strumenti retorici finalizzati a dar voce ad uno sdegno in cui l’icasticità della scrittura riproduce la forza emotiva che anima i contenuti. Quelli dell’ironia: tropoi, metalessi, domande retoriche, antifrasi e quelli dell’invettiva: anafore, iperboli, amplificazioni e accumulazioni caotiche, enumerazioni e climax in progressione semantica. E nella reiterazione non esiste quasi mai ripetizione pedissequa, fra un testo e il successivo: Cederna aggiunge sempre qualcosa, approfondisce un’analisi, incrementa i dati documentali, colora di nuovi aspetti la descrizione di un evento, di una situazione, ne definisce più in profondità le conseguenze, ne amplia i paralleli e i confronti. E potremmo in fondo riconoscervi anche in questo caso, l’uso, per così dire espanso, della figura retorica della “commoratio”: l’indugio ripetitivo sulle idee comunicate finalizzato al loro arricchimento concettuale. Certo i concetti ritornano, e Cederna stesso ammetteva, con civetteria provocatoria: “Scrivo da sempre lo stesso identico articolo, finchè le cose non cambieranno continuerò imperterrito a scrivere le stesse cose”, ma il ricorrere dei concetti è una sorta di necessità reiterativa dovuta al loro carattere episodico, ma ancor di più all’intento pedagogico che lo anima.
Parafrasare Cederna è una sfida linguistica piuttosto frustante, perché si finisce piuttosto per ricopiarlo, arrendendosi all’evidenza che meglio di così quel fenomeno, evento, meccanismo, luogo non poteva essere descritto o definito. L’Italia è, di volta in volta, ‘paese a termine’, ‘espressione topografica delle manovre della speculazione e della rapina privata’, ‘crosta repellente di cemento e asfalto’. E la ‘città a macchia d’olio’ costituisce la prima definizione italiana di sprawl urbano. Gli sventramenti urbani sono come i clisteri per i medici di Molière, gli obelischi di via della Conciliazione come vecchi candelieri su un comò di campagna. L’assimilazione del Colosseo ad uno spartitraffico è di Cederna, in Mirabilia Urbis. I beni culturali sono vacche sacre: intangibili, ma indesiderati; crosta Adriatica è la riviera romagnola. Espressioni che abbiamo usato tutti, prima o poi, tanto efficaci e lapidarie da diventare insostituibili.
E così le sue unità di misura costruite per evidenziare l’enormità di eventi, progetti e situazioni e la gravità delle loro conseguenze: l’albergo Hilton come misura di ecomostri e lottizzazioni in genere: due sigarette la spesa annuale dello Stato per abitante destinata alle indagini geologiche; mezzo foglio di carta protocollo la dotazione di verde per ogni cittadino romano fra il ’45 e il ’60.
All’inizio degli anni sessanta Cederna diviene strenuo sostenitore del disegno di legge urbanistica Sullo (è il 1962) di cui sottolinea la novità e la capacità di riallineamento con le più progredite normative e prassi europee, riconoscendone anche il merito di aver inserito, per la prima volta, la tutela del paesaggio e dei centri storici all’interno della pianificazione urbanistica.
Nel frattempo continua a dedicare molta parte della sua attività giornalistica e non, a Roma, da lui amatissima, pur non essendone la città d’origine e pur così lontana dalla sua impostazione culturale ispirata ad un’etica severa, ma senza moralismi. E a Roma è dedicata la seconda raccolta: Mirabilia Urbis (è il 1965). In essa scopriamo fin da subito l’analista di spietata acribia di documenti ministeriali, il narratore satirico di interminabili sedute comunali capitoline e il ritrattista di feroce sarcasmo di personaggi politici o accademici: valga per tutti l’insuperabile descrizione del “sindaco nero” Cioccetti.
In Mirabilia Urbis è la cronaca sempre più dolente dello stravolgimento del piano urbanistico del 1957, ‘il piano degli urbanisti’, elaborato da tecnici competenti e che avrebbe potuto ridare una dignità di pianificazione ad una città preda della speculazione e dell’anarchia edilizia postbellica. Su quel fallimento si innesta la decomposizione urbanistica di Roma ed il definitivo assalto speculativo dei grandi costruttori oltre che l’ammasso delle periferie più tetre e degradate di Europa (le borgate di pasoliniana memoria).
La raffinata sovracopertina einaudiana anticipa il testo dei risvolti e nel volume la sequenza fotografica iniziale sintetizza visivamente, con tecnica panoramica precinematografica, l’assunto di fondo dell’insieme testuale: la degradazione della capitale in cui si è già realizzato, nel 1965, lo stravolgimento ironicamente preannunciato nel titolo. E Cederna denuncia anche il totale disinteresse dell’amministrazione nei confronti del problema del verde urbano, la svendita dei parchi delle ville patrizie, lo scempio della costruzione dell’Hilton. E continua la battaglia per l’ Appia.
Agli esempi romani sono infine dedicati i primi Mirabilia Urbis: sorta di vademecum turistici al contrario, di guide rosse dello sfacelo e del degrado che Cederna andrà compilando, nel tempo, col puntiglio del topografo (Appia Antica, Campi Flegrei, Palermo, la penisola sorrentina), segnalando abusi, incurie, rovine.
Con l’arrivo al Corriere, durante gli anni di Giulia Maria Crespi (dal 1967 al 1982), il suo raggio d’azione si allarga, anche perché nel frattempo è divenuto il vero e proprio collettore di denunce, segnalazioni, proposte che gli provengono da ogni parte d’Italia, il punto di riferimento di quella opinione pubblica ‘qualificata’ (adesso la chiameremmo ‘società civile’) che va cominciando a formarsi anche per merito della sua attività.
Palermo, Venezia, Firenze, Lucca, Selinunte, Bologna, la situazione dei parchi naturali, delle coste, dei musei. Vere e proprie pagine di storia urbanistica di esemplare documentazione sono gli articoli inchiesta su Napoli del 1973 (Napoli, città omicida).
La Distruzione della natura in Italia, raccolta a tematica più dichiaratamente ambientalista, è del 1975 (dieci anni prima della Galasso): Cederna, che ironizza sugli ecologisti e guarda con sospetto al termine ‘paesaggio’, vi antepone la sintesi ‘Lo sfacelo del Bel Paese’ in cui si scaglia contro il paese delle eterne emergenze, delle calamità che ‘naturali’ sono solo per ipocrita convenzione, che scopre l’urbanistica solo dopo il crollo di Agrigento e la geologia dopo l’alluvione di Firenze. In quelle pagine bacchetta anche i padri costituenti perché disinteressati, nella stesura dell’art. 11, al problema della conservazione della natura, nelle sue implicazioni urbanistiche e sociali; denuncia ancora “la privatizzazione sistematica del suolo nazionale in nome della rendita parassitaria e della rapina privata”, il rifiuto delle politiche di piano in ogni settore e la rincorsa, da parte di una classe di governo miope e ottusa, ad un profitto facile e immediato per lo più a vantaggio del privato. Quale rimedio vi contrappone – ancora e sempre – la pianificazione urbanistica come regola suprema di governo del territorio e la conservazione della natura come obiettivo primario di ogni società civile. Talune considerazioni paiono persino anticipare temi degli studiosi della postmodernità (Rifkin in particolare).
A seguire un’analisi senza sconti dei parchi nazionali dell’epoca e della loro gestione, la denuncia della cementificazione delle coste ridotte, per chilometri e chilometri, a informi “città lineari”, del dilagare insensato dei porti turistici e degli impianti di risalita e infine, un tema a lui caro, il verde urbano, ridotto nelle nostre ‘città omicide’ a percentuali da prefisso telefonico. Evidenzia, ancora una volta in anticipo su tutti, i danni della ‘valorizzazione (termine che non gli piace) turistica’ in Costa Smeralda, del turismo elitario e di rapina che non regala che briciole all’economia locale e si trasforma in una forma di colonizzazione (fra i tanti rimpianti che ci ha lasciato, vi sarebbe anche la descrizione cederniana della categoria antropologica dei Briatore).
E non manca l’attenzione alle implicazioni economiche: è più vantaggioso risanare, conservare che costruire ex-novo, è più economico prevenire, studiare, che fronteggiare i danni del dissesto idrogeologico. Il recupero dei centri storici creerà nuovi posti di lavoro in quantità maggiore e più qualificati rispetto alla nuova edilizia.
Intanto si schiera a sostegno delle iniziative bolognesi di Sarti e Cervellati per il recupero dell’edilizia abitativa in centro storico e nella battaglia - vittoriosa - contro la cementificazione della piana di Castello a Firenze. Sua l’idea, assieme a Paolo Ravenna, dell’addizione verde di Ferrara che porterà al restauro delle mura cittadine.
Accusatore implacabile del carattere retrogrado e passatista della nostra archeologia della prima metà del ‘900: un coacervo di eruditi incapaci di ergersi a difensori dell’antico contro la montante speculazione e assertori di una concezione retriva e nazionalista della romanità di impronta spesso scopertamente fascista. Per questo lui, archeologo, si scaglia, fin dai primi interventi, contro i retori della archeologia e dell’antichità (summa delle sue battaglie il volume monografico del 1979, Mussolini urbanista).
Al volgere del decennio partecipa all’elaborazione del progetto Fori che lo vedrà impegnato, quale protagonista, accanto ad Argan prima e a Petroselli poi e a un drappello di urbanisti e intellettuali, nel sostegno del più innovativo progetto urbanistico che Roma abbia conosciuto nell’ultimo secolo, connesso topograficamente e ideologicamente alla creazione del Parco dell’Appia Antica, battaglia che continua dopo il successo (temporaneo) del decreto Mancini di destinazione a parco di 2500 ettari di campagna dell’Appia (è il 1965). Nel progetto Fori, al contrario di altri intellettuali, Cederna vede l’archeologia - quella stratigrafica, ‘progressista’, che ereditando la lezione di Bianchi Bandinelli, prende piede in Italia a partire dai tardi anni sessanta e si raccoglie soprattutto attorno alla rivista I Dialoghi di Archeologia - come mezzo per perseguire una finalità urbanistica e come parte di un ragionamento sull’insieme dell’assetto urbano. Il progetto costituirà uno dei punti cardine della proposta di legge per Roma Capitale presentata da Cederna nel 1989 in veste di deputato della Sinistra indipendente: in esso ci si misurava non solo con una visione nuova di Roma, ma la forma urbis diviene l’immagine di una rinnovata ideologia del governo della città.
Più difficili gli anni di Repubblica (è il 1983), più complicati, frastagliati i rapporti. Come lo stesso Cederna rileva ormai nell’amarissima introduzione a Brandelli d’Italia, l’ultima raccolta (è il 1991), l’attenzione della stampa quotidiana è spasmodicamente tesa alla notizia intesa come evento, catastrofe, disastro. Al contrario Cederna disprezza il “culto maniacale della notizia”, il giornalismo per lui è sempre stato “battaglia costante, continua, tempestiva e preventiva”, non semplice registrazione e al più deplorazione di un tragico evento. La continuità della sua denuncia, lo slancio che vi immette avevano fatto dei suoi articoli delle vere e proprie campagne stampa. Negli anni del Corriere in specie, Cederna riesce ad imporre un livello di attenzione per questi problemi impensabile per la stampa odierna, non solo quella quotidiana (nel 1972, in 5 giorni 3 articoli sui centri storici e il caso bolognese ). Adesso, negli ultimi anni, lui, urbanista ad honorem, comincia a scontrarsi con il muro di opacità nei confronti dei problemi dell’urbanistica e si deve adeguare ad un sistema mediatico ormai incapace di proporre visioni e analisi complessive e dove è finito il giornalismo d’inchiesta, ma ci si limita a richiamare solo gli eventi spettacolari e mediaticamente spendibili, relegando per lo più i temi urbanistici alle cronache locali.
Persino il linguaggio muta, l’ironia sarcastica e che si esaltava nell’aggettivazione a volte feroce e nell’accumulo definitorio in crescendo, lascia il posto ad una amarezza dolente e senza sorriso, come si avverte nei commenti di Brandelli d’Italia.
“Conosciamo i giornalisti, si stancano presto”: così la previsione di un funzionario della P.I., riportata da Cederna stesso, sulle polemiche da lui innescate a proposito del degrado della regina viarum sul Mondo (è il 1953). Oltre 140 gli articoli che scriverà sull’Appia in quarant’anni di infinita battaglia. Censita in ogni metro, ogni centimetro, come quando (L’Appia in polvere) Cederna compila da perfetto archeologo il puntiglioso catalogo dei frammenti archeologici abusivamente impiegati a decorazione del muro di cinta della villa di una nota attrice, al civico 223. Sull’Appia seppe mantenere alta l’attenzione fin dai primi anni ’50, quando più arrembante era l’assalto della speculazione, fino alle prime, contrastate vittorie e all’istituzione del Parco Regionale (è il 1988). Ancora oggi si succedono sull’Appia gli episodi di degrado, mentre ancora intatte - anche in presenza di ordini di demolizione - permangono alcune delle costruzioni abusive contro cui egli si battè. Solo il 5% del Parco dell’Appia è di proprietà pubblica e continua lo stillicidio delle costruzioni abusive che ha tratto nuova lena dal condono del 2003. A questo le risibili risorse della soprintendenza poco possono opporre. Però quando Cederna cominciò la sua battaglia l’Appia era sentita come terreno privilegiato per l’urbanizzazione di alto livello, mentre ora, nella coscienza dei romani, è ormai vissuta come il Parco dell’Appia: patrimonio della città e dei suoi cittadini.
‘Cederna non ha vinto. Non poteva vincere’. Così scrisse nel suo necrologio Nello Ajello (è il 1996). Certo nello scorrere di una contabilità spicciola tante sono state le sconfitte e, per propria natura, più rumorose delle vittorie e se la sensibilità della cultura nei confronti delle distruzioni dei singoli monumenti e dei beni culturali nel loro complesso è sicuramente aumentata, in altri campi le sue battaglie sono ancora apertissime.
Il prevalere della rendita fondiaria è ancora un tarlo che mina nel profondo non solo la nostra economia, condannandola in un limbo di arretratezza, ma anche una più sana dinamica sociale e financo democratica. E molto Cederna si preoccuperebbe di questa liaison dangereuse che oggi collega i nostri beni culturali al turismo in un abbraccio soffocante e in cui riaffiora, al di sotto della nuova patina garantista, la nefasta equazione beni culturali come petrolio di una indimenticata, ma non indimenticabile stagione politica e culturale che egli combattè aspramente.
Però la diffusione di una più matura consapevolezza culturale della fragilità del nostro patrimonio e del nostro territorio è da annoverare come uno dei risultati più importanti e duraturi della sua attività. Cederna in fondo rappresenta, ante litteram, uno dei migliori esponenti di quella società civile che egli stesso contribuisce a creare e che pur faticosamente si affaccia sulla scena politica e culturale italiana, società civile intesa come insieme di cittadini che credono che perché l’Italia possa divenire un paese moderno e progredito occorre che ciascuno dia il proprio contributo.
Anche grazie a lui, certi scempi non sono più possibili e molto Cederna si sarebbe rallegrato dell’abbattimento del Fuenti (tre asterischi nella sua guida rossa al contrario).
E infine ci piace pensare che avrebbe apprezzato la legge di eddyburg che ribadisce principi da lui tanto difesi e che egli elenca, nell’introduzione di Brandelli d’Italia: “mettere fine all’espansione, alla crescita indiscriminata delle città, e puntare ogni risorsa sulla loro riqualificazione- trasformazione qualitativa: quindi risanamento conservativo dei centri storici […] e ristrutturazione delle periferie costruite nell’ultimo mezzo secolo […].Tutela rigorosa delle aree “irrinunciabili” agricole e verdi, per creare sistemi e cinture verdi. Conservazione delle aree ancora libere nei centri e nelle periferie e destinazione a fini pubblici degli immobili che vengono dimessi, a cominciare da quelli militari”.
Ed eddyburg, in fondo, se avrà il coraggio di evolvere è lo strumento e insieme la comunità che, per consonanza ideologica e continuità d’intervento, si presta più compiutamente a raccogliere il testimone e ad essere l’erede di tante sue battaglie, alcune delle quali già hanno trovato ospitalità proprio sulle pagine virtuali del sito.
Un altro antitaliano, Giorgio Bocca, ha scritto qualche giorno fa: “l’educazione generale della specie è una leggerissima patina sopra una ribollente millenaria bestialità”. Credo che Cederna, in questa sua lunga inesausta battaglia contro la barbarie, nella quale ogni conquista è faticosissima e immediatamente reversibile e ogni sconfitta rimarginabile solo a carissimo prezzo, coltivasse in sottofondo proprio questa consapevolezza. Causa prima di quella malinconia di fondo che traspare in filigrana in tutti i suoi scritti, ma mai pretesto per desistere, perchè lui, come noi, sapeva anche che non c’è alternativa e, come l’amatissimo Shakespeare, che “come arrivano lontano i raggi di una piccola candela, così splende una nobile azione in un mondo malvagio”.
Bologna, 27 agosto 2006
Poco prima di alzarsi dalla poltrona occupata per quasi dieci anni il sindaco di Milano Gabriele Albertini vantava gli effetti degli “interventi urbanistici voluti dall’amministrazione comunale”. Parlò di “enorme processo di riqualificazione” instaurato grazie al “lavoro dei migliori architetti del mondo, i Brunelleschi e i Bernini dei nostri giorni” (Corriere della Sera, 20.4.06). A quel momento, in verità, non si potevano ancora giudicare opere compiutamente realizzate nei nuovi luoghi: nuovi rispetto al famoso intervento alla Bicocca concertato quasi dieci anni prima con l’industriale passato immantinente, come si usa dire, dal profitto alla rendita fondiaria e finanziaria. Luoghi designati dalla contrattazione (o, secondo l’attuale termine liberista, negoziazione) fra la giunta comunale e i potenti immobiliaristi che a Milano trovano le migliori occasioni politiche e il miglior spazio finanziario per indisturbate, illegittime operazioni giacché fuor d’ogni piano e regola approvati pubblicamente in precedenza. Parti del territorio comunale come cardini di un affare edilizio che negano la strategia urbanistica motivata da una necessità sociale e d’organizzazione coerente dello spazio urbano. Procedimenti rispettosi, possiamo oggi dire, dell’insegnamento impartito dalla madre della nuova maniera urbanistica e architettonica, appunto l’espansione stupefacente della città sulle aree Pirelli proprietà di Tronchetti Provera. In testa ai nuovi interventi – una cinquina quelli praticamente avviati ma ancora soggetti a proteste o mugugni dei cittadini – sta la molto remunerativa speculazione territoriale e fondiaria sull’area della ex Fiera. Gli altri, già descritti anch’essi in Eddyburg: Montecity-Rogoredo, ex industrie chimiche e metallurgiche (il giovane speculatore Zunino asservisce nientemeno che Norman Foster); Portello, ex Alfa Romeo; Porta Vittoria, ex scalo ferroviario; Garibaldi Repubblica, ex concorso ignorato in favore di un grattacielo (e molto d’altro) desiderato primatista europeo in altezza dal presidente Formigoni per la sede della Regione (pre-progetto, o meglio visione di Ieoh Ming Pei). Lascio da canto, fuor dei confini municipali milanesi: la Fiera a Pero-Rho, frettolosamente inaugurata prima delle elezioni, dove fra gli otto padiglioni l’onda volatile e volubile di Massimiliano Fuksas, illustrata più volte anche sui quotidiani, rappresenta come una festa dell’architettura caduca; la previsione, non ancora in veste progettuale vera e propria, di un grandissimo quartiere a Sesto San Giovanni sull’area della Falk, architetto Renzo Piano.
La vicenda della ex Fiera, nota fino ai penultimi passaggi e raccontata nel nostro sito, sta precipitando in un finale divertente se non ridicolo. Albertini vaneggiava di “nostro Central Park”, uno stretto e sconnesso residuo in mezzo ai grattacieli degli odierni Brunelleschi e Bernini, quando lo storico parco newyorkese misura (mi vergogno di rammentarlo) un chilometro per quattro, vale a dire 400 ettari. I tre architetti neo rinascimentali e barocchi, Hadid, Isozaky e Lebeskind, al servizio del furbo coacervo d’imprese (conviene rinominarle) Ligresti, Generali, Lanaro, Grupo Ler Desarrolos Residentales, esponevano mediante plastici e rendering vari le tre torri personali assistite da diversi edifici medio-alti. A loro non interessa lo spazio pubblico, non il destino di Milano lì, dove è corsa storia urbana, dove ci sono abitanti legati al loro ambiente; non sono in grado di ascoltare la città, se ne fregano del contesto, della concezione di contesto: un perno della cultura architettonica milanese, almeno fino al momento della scissione ideale e pratica fra architettura e urbanistica e di dominio di un’architettura estranea al principio affermato dalla rivoluzione moderna circa la saldatura fra valore sociale dell’architettura, coscienza morale, senso collettivo della professione.
Voglio ricordare agli amici di Eddyburg qual era in altri tempi la posizione dell’architetto di fiducia di Tronchetti Provera, Vittorio Gregotti, progettista dell’insediamento alla Bicocca, un fuor di contesto e di previsione condivisa che più non si può. Iniziava l’anno 1981 e Casabella, diretta da Thomas Maldonado, dedicava il fascicolo di gennaio a Venezia – già proposta tre anni prima – considerata appunto come speciale contesto. L’articolo sottostante al fondo di Maldonado, firmato da Vittorio Gregotti allora ancora esterno alla rivista, titolo La nozione di ‘contesto’, perorava la traslazione dagli studi dell’”ambiente lagunare” ad altri più generali, anche teorici, sulla “nozione di contesto” costituendosi essa “come fatto centrale per la costituzione dell’architettura” (Casabella, n.465, gennaio 1981, p.9). Mutano i tempi, le condizioni sociali, delle arti e delle professioni, le persone cambiano la ragione e il sentimento, la coerenza ad ogni costo non è né un obbligo né sempre un vantaggio; è pero essenziale verificare se non sia troppa la differenza fra il proprio dire e il proprio fare. È interessante, ora, che Gregotti, in occasione della decima edizione della Biennale Architettura, si auguri, secondo le promesse del titolo stesso, Città. Architettura e società, l’abbandono dei “vuoti formalismi delle ultime due o tre edizioni tutte concentrate sulle bizzarre estetiche dell’oggetto-edificio” e invece affronti “le questioni della forma della città e delle sue parti… che sono cruciali per il senso stesso della cultura architettonica” (La Repubblica, 4 settembre 2006). Oh, bene, qui ritorniamo persino ai vecchi tempi della simbiosis fra architettura e urbanistica e della relativa competenza professionale complessa. Quanto all’architettura vuota, formalista, bizzarra tuttora imperversante, giusto sarebbe che il nostro, lo sappiamo capace di fine critica, parlasse specificamente delle opere firmate, per esempio quelle introdotte sopra e quelle che lo saranno nel seguito. Anche per corroborare la fiducia espressa da Edoardo Salzano: “condivido pienamente quello che dicono persone come lui [Gregotti], Carlo Melograni e pochi altri, e che cioè l’architettura svolge il suo ruolo se rende migliore la città” (AL, mensile degli architetti lombardi, n.7, luglio 2006).
Il nuovo sindaco Letizia Moratti, in continuo movimento per rendersi gradita ai milanesi, anche a quelli che non l’hanno votata, sembra reagire alle preoccupazioni degli abitanti. Vorrebbe tagliare un pezzo dei tre invisi grattacieli! Sarà vero? Che novità è mai questa? Si possono correggere pesantemente i “migliori architetti del mondo”? Penso che essi accetterebbero qualsiasi modificazione poiché non terrebbero affatto a difendere ad ogni costo edifici apparentati con l’oggettistica ingrandita duecento o trecento volte piuttosto che con l’architettura. E poi a decidere sono le imprese detentrici dell’accordo; possono variare ogni genere di progetto ma senza rinunciare nemmeno a un metro cubo o a un metro quadro commerciabili sopra o sotto la terra. Probabilmente non vedremo ergersi difficoltosamente il grattacielo tòrto e sciancato, pencolante, della Hadid: forme rientranti in una sottospecie di decostruzionismo se se ne confondesse la pratica con le esperienze di O’Gehry. Il Guggenheim di Bilbao, tuttavia già in regresso accademico per ripetitività altrove, può essere almeno interpretato come propaganda di un nuovo cubo-espressionismo chiaramente legato alla tradizione artistica modernista: si conosce infatti una maquette del monacense Hermann Finserlin per un mausoleo (1919) che pare una familiare antenata del decostruttivo museo.
Hadid non è sola d’altronde. Altri hanno in mente costruzioni insensate, tese solo a sorprendere, a cercare primati nella gara aperta dai sindaci di città grandi e piccole (indifferente l’etichetta partitica). Vogliosi di lasciare segni profondissimi indubitabilmente edilizi, paiono insensibili di fronte alle necessità reali dei loro amministrati e invece eccitati dalla speranza che l’architettura osé funga da richiamo a foranei visitatori ipotetici propulsorî dei commerci urbani. Così leggiamo che in una città appartata anche se prospiciente il mare come Savona potrebbero darsi prossimamente due eventi straordinari: Fuksas contenderebbe all’autrice della scombinata torre milanese la divaricazione dalla verticale del tipo edilizio grattacielo gobbosamente pendulo, a rischio di precipitare in acqua (“intervento… al porticciolo della Magonara al confine con Albissola, con tanto di grattacielo ricurvo a strapiombo sul mare: una specie di banana alta 120 metri”, M. Preve e F. Sansa, in Micromega dal 7.7.06); Bofil si scatenerebbe vicino al porto turistico della Torretta “per un intervento residenziale mastodontico con un crescent (un palazzo muraglia disposto a semicerchio), un grattacielo da quasi cento metri e altre costruzioni sparse” (idem). Allora anche a Savona, come nell’esemplare Milano, architettura nulla c’entrante con il contesto, architettura divistica ossia sprezzante la città, la società, architettura in definitiva disumana. Capita anche nel meno immaginabile dei territori disponibili, se persino a Mola di Bari (l’abbiamo saputo a maggio da Andrea Laterza di Mola Democratica e se ne è scritto) i due fronti a mare, di sud e di nord, saranno sacrificati alle potenti cubature, dotate come al solito di nuovo porto turistico e di grattacielo, ideate da Oriol Bohigas, grazie tante al contesto. Possiamo forse consolarci con quel che c’è di peggio in Europa, progettato e costruito e illustrato (celebrato) su riviste e giornali in questi anni: è il great gherkin di Norman Foster il campione; il grande cetriolo sede della Swiss Re nella city londinese. Un idroponico vegetale che dovremmo assegnare, invece che alla cieca logica della tecnica, alle buone forme della natura? Penso in definitiva a una colossale bomba che potremmo assumere come metafora di un atteso scoppio devastante della falsa architettura di tali autori dal quale rinascerebbe faticosamente, come da un big ben, l’architettura.
I migliori architetti razionalisti attivi nella redazione della rivista Quadrante definivano “arrogante” l’architettura mercantile o tronfiaopposta al razionalismo sincero, cioè l’architettura ragionevole. Sono passati quasi ottant’anni: potremmo, oggi, senza alcuna intenzione revivalistica, affiggere un cartiglio con la medesima parola sulle opere d’architettura (o non-architettura) di cui stiamo parlando?
Leggo qua e là impressioni e commenti sulla decima Biennale. Non posso visitare la mostra. Il bell’articolo di Pippo Ciorra sul manifesto dell’8 settembre (pubblicato in Eddyburg) slarga il cuore. Sembra davvero lontana l’esposizione precedente quando Peter Eisenman (Leone d’oro alla carriera) e Kurt Forster (curatore) non nascondevano il medesimo disprezzo del pubblico e la medesima celebrazione del sé, figure – ha detto un critico che non ricordo – estranee alla funzionalità, al contesto e persino alla costruibilità. La città e l’architettura sembrano finalmente riscoprire i rapporti che la storia della società le ha per così dire obbligate a intrecciare. L’urbanistica e l’architettura riprenderanno l’antica strada comune? Un problema urgente delle nostre città o metropoli che siano è di riconquistare lo spazio pubblico quale spazio civile. Ecco, l’architettura, liberata dalla stupida arroganza d’autore, che infine è grettezza d’animo e bruttezza di forma, diventa architettura civile, appartiene, come da sempre la grande architettura, alla società.
Attenzione, a proposito di metropoli e megalopoli presentate a Venezia. Quegli affastellamenti di grattacieli, quegli ammassi di edifici contenitori degli sbiancati e inanimati operai del nostro tempo – gl’impiegati del terziario commerciale mondializzato – non possono parlare la nostra lingua. Globalizzazione e omologazione delle metropoli, tutto uguale dappertutto – ci dicono certi sociologi e i nostri internazionalisti dell’architettura contraffatta. No, grazie. Le nostre Milano e Torino, benché afflitte dallo sprawl, non sonoShangai o Caracas o Città del Messico.
Milano, 11 settembre 2006
il territorio e le città continueranno, come oggi e non per colpa della mancanza di leggi, a riprodursi secondo procedimenti estranei a un onesto, legale principio di progettazione urbanistica? Estranei a interventi edilizi e infrastrutturali giusti non solo perché previsti nel dato piano vigente ma perché verificati come indispensabili per la società a quel momento o, al contrario, a un corretto malthusianesimo riproduttivo necessario alla preservazione dello stato ambientale raggiunto? Liberi da una concezione provinciale dell’architettura?
Ogni giorno conosciamo novità orribili: sindaci, giunte, presidenti, governatori e così via ai vari gradi dell’amministrazione urbana e territoriale ne decidono di tutti i colori, sbandierano grandi progetti, vantano soluzioni avveniristiche. Se non esiste lo strumento adatto lo creano immantinente, basta un nuovo compiacente Piano urbanistico comunale, oppure – il caso più frequente – scelgono la comoda politica della variante di un piano esistente, oppure ancora se ne impipano di vere o false coerenze strumentali (intanto vige lo scandaloso elenco delle sigle più fantasiose, p…a seguire ) e approvano i progetti per interventi proposti da imprenditori immobiliari spesso collegati a subalterni architetti di gran nome. Pronti, questi, a qualsiasi macello ambientale pur di costruire roba edile grossa e secondo girandole di destinazioni, o gigantesche infrastrutture come fronti a mare connessi al proliferare dei porti turistici, campi di golf in bei territori ancora intatti, grimaldello di desiderate speculazioni edilizie al contorno, “servizi” d’ogni genere purché non poveramente sociali. E avanti così senza respiro nelle città e nei centri grandi e piccoli secondo una specie di gara per richiamare più residenti, più transitanti, più soggiornanti, più studenti (vedi anche le indecenti contese fra le sedi universitarie), più commerci, più danaro, più speculatori.
Urbanistica vilmente contrattata che più non si può, allieva cresciuta del primo insegnamento milanese impartitoci dal Tronchetti Provera e dal sindaco Albertini al tempo dell’operazione immobiliare concertata alla Bicocca. Che ora ci pare modesta mentre scrutiamo l’orizzonte nazionale dei continui soprusi urbanistici pubblici/privati. E quelli, capi politici amministratori con varie etichette partitiche, che vogliono il loro personale tracciato di autostrada, strada, ferrovia, tramvia, metropolitana fuor dall’obbligo di discuterlo, valutarlo sotto tutte le visuali, politiche tecniche sociali paesaggistiche? E che intanto evitano di prendere immediati provvedimenti regolatori dello spaventoso traffico motorizzato privato temendo di perdere qualche voto?
Ma perché lo fanno? Approderà a un traguardo quella specie di gara col relativo elenco? Come potranno diventare realtà utile tanti progetti pretenziosi privi tra l’altro di una serio controllo costi/benefici? Probabilmente pensano al costruire costruire costruire come “sviluppo”, hanno quella visione falsa che lo confonde con l’espansione fisica urbana e territoriale quando la locuzione “sviluppo del territorio” (ci sono persino assessorati con tale titolo) è priva di senso; come può “svilupparsi” un territorio? Abbiamo verificato mille volte che, appunto, l’espansione fisica può coincidere col sottosviluppo economico demografico sociale e comunque non centra nulla con l’effettivo progresso di una società verso mete elevate, vale a dire almeno equamente ridistributive del benestare.
E se fosse che a comandare l’urbanistica del fare tanto e fare presto, un’urbanistica finalmente sciolta dagli ultimi freni morali, è anche il riciclaggio di una parte dell’enorme massa di denaro mafioso che cerca sbocchi dappertutto, in attività commerciali, industriali, finanziarie e piuccheperfette immobiliari? I nostri sindaci, presidenti, governatori credono forse che la mafia investa soltanto in pizzerie?
L’8 marzo 2003 Francesco Erbani ci informava in “Repubblica” che la Baia di Sistiana, comune di Duino Aurisina, ancora pressoché intatta quale residua testimonianza della bellezza costiera italiana, “vista dall’alto del sentiero che porta il nome di Reiner Maria Rilke, [avrebbe dovuto] sembrare una nuova Portofino, con l’insenatura, la piazzetta, il porticciolo, le casette e i portici”. I frequentatori e i collaboratori di Eddyburg conoscono la vicenda. La Baia è ancora lì nella sua veste originaria benché stropicciata e con qualche strappo. Una lunga battaglia condotta senza tregua da Wwf e Italia Nostra, sostenuta anche da alcuni di noi attivi in Eddyburg, ha impedito finora la realizzazione del progetto concertato in torbida alleanza fra le imprese proponenti, l’amministrazione regionale guidata dal pervicace presidente Riccardo Illy, l’amministrazione comunale duinese impersonata dall’altrettanto pervicace sindaco Giorgio Ret. Oggi sappiamo come la triplice stia approssimandosi alla meta. L’incredibile bravura di Dario Predonzan e del suo gruppo (Wwf e Italia Nostra) a contenderle in questi anni ogni passaggio della battaglia probabilmente non basterà.
Perché riproporre qui la questione di Baia Sistiana conosciuta e commentata dalla stampa nazionale? Per proporne un’altra analoga, però mancante finora di risonanza forte nell’opinione pubblica nazionale, riguardo a uno degli ultimi tratti costieri preservati quasi nel loro stato antico, sul mare per così dire simmetrico al Golfo di Trieste, il Mar Ligure. Siamo nella parte orientale della provincia di Spezia: che non sembra appartenere a una Liguria per il resto resa irriconoscibile da quasi un secolo di violenze ambientali d’ogni tipo. Quella che vanta le Cinque Terre patrimonio dell’umanità. Quella in cui c’è l’appartato comune di Framura (Sp) costituito da quattro piccoli centri separati e aggrappati alla china montuosa ricca di pini, lecci, ulivi, viti: uno (Anzo) alto sui primi dirupi a mare, due a mezza via (Ravecca e Setta), il quarto in costa di monte con la chiesa-fortezza (Costa, appunto). Il suo destino sembra segnato a causa dell’avvento, anche lì, del nuovo manierismo urbanistico locale. Riproduco dall’edizione genovese di “Repubblica” del 27 luglio, inserto “Il Lavoro”, il pezzo inerente a Framura di una tristissima rassegna regionale dal titolo “Il nostro mare oggi non vale una pista di motocross”. Scrive Giovanni Maina di Italia Nostra: “Ovunque si presenti un progetto o un Puc (Piano urbanistico comunale, il vecchio Piano regolatore tanto per capirci), o si lavora in deroga alla vigenti norme o si chiede che possano essere abbassati i vincoli conservativi in quanto considerati ‘vessatori’ per i cittadini. Esempio emblematico è proprio il nuovo Puc presentato dall’Amministrazione comunale di Framura. Su un territorio relativamente piccolo sono previsti ben 22 progetti con un rilevante impatto, 4 distretti di trasformazione di enormi dimensioni (due dei quali incidenti su un territorio incontaminato) con una previsione di raddoppio sia della popolazione residente che di quella fluttuante. Su 44 ambiti di intervento in ben 17 si chiede di abbassare i vincoli dettati dal Ptcp. Sul territorio interessato da progetti insistono ben due Sic (Siti di interesse comunitario). Con tutto questo spazio a disposizione come farsi mancare una pista di motocross per gare internazionali?”. In attesa della buona legge urbanistica nazionale. Così sia l’ultimo sigillo sulla realtà del Malpaese.
Quando leggo interventi come quello di Fabrizio Bottini del 17 scorso, mi si allarga il cuore. Perché le energie alternative, di qulsiasi tipo, sono diventate, in tutti gli ambiti dello shieramento politico e dell’opinione pubblica in genere, una sorta di luminosa stella cometa, che infallibilmente ci condurrà fuori dalle minacce della crisi ecologica planetaria e ci regalerà il sorriso di una natura ritrovata nel suo antico splendore. E sono rarissimi coloro che hanno il coraggio di sollevare qualche obiezione in materia, sfidando i fulmini, o nel migliore dei casi la paziente sopportazione che si riserva a vecchi e noiosi passatisti, privi di fede nelle magnifiche sorti e progressive, peraltro con clamorosa incongruità puntuali utenti (alla pari di qualsiasi altro abitatore del nostro tempo) di quanto la tecnica, sostenuta da massiccie dosi di energia, offre al nostro conforto. Bottini ha questo coraggio e ad esso aggiunge una buona dose di intelligente ironia, che non guasta mai.
Ma in particolare l’intervento di Bottini è apprezzabile perché non si limita a considerare, come non pochi già hanno fatto, il lato estetico dell’”operazione ventole”, cioè di interventi che in un paesaggio come quello italiano non possono non risultare un guasto, e (come commenta Eddy) rischiare un costo difficilmente compensato dai benefici. Considerazione che d’altronde Bottini accantona, con eleganza demandandone ad altri opportuna discussione. Solleva invece la questione decisiva dell’indotto, cioè di quanto la fabbricazione l’impianto e la messa in opera delle ventole, oltre al trasporto dell’energia prodotta al luogo del suo impiego, comporta di degrado dell’ambiente non solo circostante. Con un discorso generalmente trascurato e che invece, anche se in termini diversi, vale per ogni tipo di energia alternativa: e a questo infatti (benché polemizzando con Valentini si occupi soprattutto di windfarm) Bottini chiaramente allude quando accenna alla possibile riconversione di vaste culture agricole in vista di produzione di energia da biomasse.
Ma la critica all’impostazione del problema energetico, così come oggi da tutti praticamente viene affrontato, vale soprattutto in quanto alla sua soluzione si guarda come alla felice possibilità di seguitare ad alimentare e mantenere indefinitamente immutato l’attuale regime economico, anche in vista di un ormai prossimo esaurimento delle fonti energetiche fossili. Non è un caso che questo sia l’unico argomento di carattere ambientale che interessa anzi entusiasma Bush, affossatore di Kyoto e noto denigratore di ogni iniziativa ecologica. L’ha detto in tutte lettere ad uno degli ultimi G8: la nostra sfida è quella di sostituire i fossili, così da bloccare il mutamento climatico e serenamente continuare a puntare sulla solidità e l’espansione delle nostre economie.
Con la parola del leader non solo le destre, ma tutti più o meno sembrano concordare. Ignorando che l’inquinamento da idrocarburi è certo il più pericoloso per l’equilibrio ell’ecosfera, ma non è il solo; che ogni ritrovato capace di aumentare l’efficienza non serve gran che quando la produzione continua ad aumentare come accade, anzi come si vorrebbe accadesse; soprattutto che il pianeta Terra ha dei limiti precisi e non estensibili a piacere, e soltanto una politica mondiale che si fondi su questa incontrovertibile verità potrebbe (potrà?) evitare il peggio.
Ma non voglio insistere. Sono cose che ho detto più volte, sovente riprese anche da Eddyburg (ad esempio con un pezzo dell’8-4-05, titolo “Innovare non basta più”, un altro del 14-7-05, titolo “Energie rinnovabili e capitalismo”, ecc.) Comunque le battaglie mirate sono fondamentali e perfino più utili in quanto più facilmente accessibili a tutti. Un sentito grazie a Fabrizio Bottini.
Bellosguardo, sarebbe troppo facile giocare con la toponomastica e fare ironia sulla nuova visione che ci apparirà se il progetto di costruire case a quattro piani verrà realizzato; se i cittadini, impegnati a difendere l’integrità di un ambiente che non è bene loro esclusivo ma lo è di tutti noi, saranno sconfitti dall’arroganza del municipio fiorentino e di quanti altri poteri pubblici abbiano condiviso se non promosso lo scempio. Molto più giusta l’arrabbiata protesta e denuncia di Stefano Fatarella, urbanista pubblico che sa bene cosa è in gioco quando si tratta di paesaggio, di bellezza degli ambienti storicamente consolidati, in particolare nella amata Toscana. Ma che conosce altrettanto bene le malefatte delle amministrazioni pubbliche in materia di città e di territorio, di pianificazione urbanistica mancata o effettuata, quando non è più la patente di destra o di sinistra a distinguere. Lo ringraziamo (pluralis concordiae) per la lettera del 30 giugno e la chiara documentazione con la passeggiata attraverso “luoghi famigliari a tutti i fiorentini e agli amanti della natura”. E ringraziamo l’articolo di Tommaso Galgani (Tre palazzine a Bellosguardo? I cittadini non ci stanno, l’Unità 30.6.06), che non fa caso, appunto, alla patente di chi guida ma guarda dove costui andrebbe a sbattere (ad ogni modo l’offesa l’abbiamo già subita). Veniamo informati che “nel cuore di una zona protetta… non si potevano nemmeno costruire delle serre o piantare alberi ad alto fusto” e che “pur di concedere la licenza edilizia un paio d’anni fa è stato modificato il piano regolatore”. La soprintendenza è d’accordo, hanno detto. Allora?
Con il caso Bellosguardo siamo in pieno dentro alla tipica italica atmosfera avvolgente persone e istituzioni che accettano qualsiasi comportamento indecoroso quando non si tratti di reato (poi, al contrario, reati ne approvano a iosa declassando preventivamente la violazione delle regole). I poteri locali dei diversi gradi, aumentati enormemente a seguito delle pesanti riforme normative ed elettorali la cui pericolosità non si è mitigata con gli anni trascorsi dall’adozione, usano in maniera perfino provocatoria la possibilità di segnare il destino del territorio e della città a loro piacere. Vale a dire a piacere di chi nella città e nel territorio comanda davvero o è il partner più “qualificato” (doverose virgolette). Dimenticati o rimpianti i tempi degli obbligati dibattiti e controlli dei Consigli.
“A Firenze come a Bologna il nemico delle colline delle nostre città ha un solo nome: speculazione edilizia” (presentazione in Eddyburg dell’articolo di Galgani). Bisognerebbe togliere il termine solo. La speculazione non cade dal cielo come malefica pioggia acida, nasce dal suolo “privato” ma anche “pubblico” previo allevamento nella pancia di politici, amministratori pubblici, industriali e finanzieri, con primaria responsabilità, però, di chi ha il mandato di governo anche sul suolo, si presume secondo gli interessi sociali e culturali della collettività, non di una corporazione o di una cricca o di un caporione, o anche del pur incorrotto partito.
Come sopportare ancora il linguaggio insensato frequente in certa sinistra (o centrosinistra) per mistificare fior di operazioni lesive dell’ambiente storico, di quel poco che resta più o meno intatto nel nostro paese? E’ possibile che in una città ritenuta colta, o quantomeno memore di alta cultura, un multiassessore – Riccardo Conti – ci ricordi che le colline sono aggredite, la rendita immobiliare domina, le seconde case proliferano e poi vaneggi (“si perde dietro cose vane”, Garzanti, p.1918) di valori del passato quali “ingredienti per uno sviluppo sostenibile e per una competitività che si fonda sull’eccellenza e l’innovazione, due obiettivi del nuovo Piano di indirizzo territoriale”? (“Newsletter” dell’assessorato, n. 5 del giugno 2006, avuta da Fatarella – sottolineature mie). Basta con l’ossimoro s.s.! E cosa sarebbero ‘ste competitività eccellenza innovazione in materia di territorio e paesaggio? Cosa fare di un vecchio paesaggio intatto per renderlo competitivo? Diamine, basta ringiovanirlo, modernizzarlo, innovarlo (altra parola d’insopportabile impiego ripetitivo nel centrosinistra), ossia rimpinzarlo di quella roba ben nota che ha cancellato la bellezza paesaggistica italiana.
Ci siamo battuti sempre nei tempi andati per l’autonomia locale contro il sopruso prefettizio e governativo. Che sia giunto lo strano tempo del contrario e di augurarsi interventi di saggi governi nazionali per drizzare vassalli valvassori e valvassini?
Bellaciao, collina toscana; è arrivato l’invasor. È il falso amico tuo paesano. Forza cittadini di Bellosguardo, dategli una botta
La proposta di legge di eddyburg sui principi di pianificazione del territorio è stata presentata e consegnata ufficialmente ai nostri rappresentanti parlamentari qualche giorno fa, il 28 giugno: atto iniziale di un cammino istituzionale che ci auguriamo non troppo dilatato nel tempo e contemporaneamente suggello di una prima intensa fase di elaborazione.
L’irreale clima artico della Sala delle Colonne della Camera dei Deputati è stato tuttavia mitigato dalla intensa partecipazione dei presenti, e dalla appassionata adesione registrata in tutti gli interventi le cui argomentazioni, nella loro ricchezza e profondità, hanno ancor meglio definito il contesto politico, sociale e istituzionale dal quale la proposta trae origine.
Gli autori della legge hanno più volte evidenziato su questo sito e in altre sedi quelli che sono i principi ispiratori e i numerosi elementi innovativi che caratterizzano il testo. Alle loro considerazioni, molto meglio argomentate, si rimanda in toto: le poche righe di questo commento derivano piuttosto dal desiderio di sottolineare alcune coincidenze temporali più o meno apparentemente casuali, ma spesso chiamiamo ‘caso’ ciò che i limiti della nostra intelligenza non riescono a decifrare.
Quasi ovvia risulta la prima coincidenza, legata alla genesi della legge stessa, la cui prima, ancor allusiva menzione compare nell’ eddytoriale n.87 del 12 aprile 2006, con il quale eddyburg celebrava la soffertissima vittoria elettorale.
Proprio nei mesi, nelle settimane che avevano preceduto quella data era stata avviata l’elaborazione vera e propria della legge stessa, sulla base di precedenti materiali: quando non appena sconfitta l’ipotesi prefigurata dalla legge Lupi, l’auspicio di una nuova stagione politica e culturale sembrava farsi sempre più concreto e con esso la possibilità di un’inversione di tendenza anche per quanto riguardava i temi del governo del territorio.
Come era scritto in quell’eddytoriale, appariva essenziale che il nuovo governo non si limitasse a nascondere i detriti del berlusconismo sotto il tappeto o peggio cercasse di inglobarne gli aspetti meno scopertamente eversivi e antidemocratici, ma si dedicasse, in primissima battuta, alla ricostruzione del sistema delle regole, smantellate o svilite da un quinquennio di decostruzione dello Stato e del pubblico.
In questa direzione la proposta di legge si poneva come un primo, concreto contributo. Ai cavalieri che fecero l’impresa (Berdini, De Lucia, Salzano, Scano, Storto, Tamburini) altri se ne sono aggiunti nel cammino. La stessa scrivente ne è stata coinvolta, in modo del tutto tangenziale, poco più che da lettrice partecipe o meglio da vicino di casa che aggiunge e sposta qualche virgola dal regolamento condominiale, un po’ indispettito perché si è sentito accessorio e marginale (ma noi dei beni culturali soffriamo da sempre della sindrome del parente povero).
Però ne rivendico la scelta del logo che la accompagna: i tre porcellini che costruiscono la loro casa di mattoni, rifugio finalmente solido e sicuro contro gli attacchi del famelico lupo Ezechiele, sempre pronto a tutto distruggere nella sua avidità insaziabile. Casa di mattoni/principi, la legge, destinati a fornire in primo luogo una barriera contro speculazione edilizia, degrado abitativo e rendita parassitaria.
Della prima versione, poi rielaborata, ho molto amato la lapidarietà del primo articolo, che recitava: “il territorio e le sue risorse sono patrimonio comune non negoziabile”. In questa icasticità programmatica che continua a costituire, anche nelle redazioni successive, lo stile del testo nel suo complesso, si voleva affermare che il principio della proprietà collettiva e condivisa del bene territorio non può, mai, essere oggetto di ‘negotium’.
A partire da tale principio cardine, gli altri a seguire: il rilancio della cultura della pianificazione come metodo di gestione del territorio e al contempo la sua titolarità pubblica, la necessità del contenimento del consumo di suolo, il diritto alla città e all’abitare, della partecipazione sociale ai processi pianificatori, figlia di un processo di trasparenza decisionale e di diffusione non effimera delle informazioni e molto altro ancora, come altri hanno meglio spiegato.
Ma il cambio di passo culturale e politico è evidente anche nel riallineamento complessivo che l’articolato opera su più fronti (consumo di suolo, recepimento delle normative Vas, partecipazione) alle direttive più aggiornate ed evolute che in sede comunitaria caratterizzano le tematiche del governo del territorio. Finalmente, dopo il provincialismo oscurantista della passata stagione politica, torniamo in Europa.
Del tutto casuale invece, sembrerebbe la seconda coincidenza temporale: la legge di eddyburg è stata presentata alle forze politiche dell’attuale maggioranza a pochi giorni dallo svolgimento del referendum sulla nostra Costituzione, dagli esiti così inaspettatamente perentori.
Il dibattito culturalmente più avveduto che ha accompagnato la campagna referendaria a favore del ‘no’ ha più volte sottolineato il valore ancora attualissimo della nostra Carta che, lungi dall’essere superata e passatista, si ispira a principi di inalterata modernità e, piuttosto, non ha ancora trovato una compiuta, consolidata attuazione nella legislazione successiva e nella pratica politica e sociale di questi decenni. Testo a forte connotazione ideologica, la nostra Costituzione è ispirata alla visione di un assetto istituzionale capace non solo di rappresentare, ma addirittura di guidare il mutamento sociale sulla base di intransigenti presupposti di uguaglianza e garanzia democratica.
Come ci ha lucidamente raccontato Mario Tronti, nel faticoso, incompiuto cammino in sessantanni di storia repubblicana, l’attuazione della nostra Carta ha conosciuto fasi alterne: a un primo arresto negli anni Cinquanta, è succeduto un periodo di ripresa, negli anni Sessanta, epoca di reale evoluzione sociale del paese. Negli anni Ottanta il nuovo momento di crisi: l’asse del discorso si sposta dalla rappresentanza alla governabilità e parte l’onda del revisionismo costituzionale che nel decennio successivo sfiora la crisi costituzionale, quando al governo arrivano forze anti e post-costituzionali e l’ossessione diviene quella di ridefinire l’assetto dei poteri. Percorso che appare del tutto parallelo allo svolgimento delle vicende urbanistiche italiane del dopoguerra, così come è raccontato in alcuni testi che gli autori della proposta di legge ben conoscono…
Anche alla luce di queste considerazioni, la legge di eddyburg si colloca in assoluta continuità con la nostra Carta Costituzionale, legge di principi anch’essa, nella quale si intendono indicare i fondamenti normativi di strumenti più aggiornati ed efficaci per il perseguimento di diritti vecchi e nuovi. Nell’articolo 4 si parla, appunto, di diritto alla città e all’abitare, quale nuova espressione dell’allargamento della sfera della dignità umana: diritto universale quant’altri mai e mai sufficientemente perseguito (addirittura il testo dell’articolo contiene un’inaspettata- anche se temo inconsapevole – citazione lacaniana in puro stile Zizek, laddove si parla di “godimento” delle risorse del territorio…).
Un’ultima coincidenza, infine, minimale: il giorno prima della presentazione romana è stato pubblicato per i tipi della BUR un piccolo prezioso libretto che contiene le riflessioni, tenute in una serie di lezioni magistrali svolte a Bologna, da parte di alcuni studiosi (Zagrebelsky e Canfora fra gli altri) a partire da alcuni famosissimi testi classici. Tema del ciclo di interventi: la legge sovrana – nomos basileus. Nel suo commento a Tertulliano, Luciano Canfora sottolinea la modernità del testo antico che per la prima volta prefigura l’idea che da nuovi bisogni nascono nuovi diritti, e dai nuovi diritti, nuove leggi. Dal canto suo Gustavo Zagrebelsky, rileggendo uno dei testi canone della nostra civiltà, l’Antigone, cita, fra gli altri, l’Euripide delle Supplici: “quando le leggi sono poste per iscritto, il povero e il ricco hanno pari giustizia, e il debole può ribattere a chi è potente, se viene offeso”.
In fondo, se qualche critico accuserà la legge di eddyburg di ispirarsi a vecchi principi, avrà colto nel segno più di quanto immagini…
Finalmente il dibattito sul prossimo referendum si sta animando. Personaggi di rilievo levano la loro voce contro lo scempio costituzionale, ultimo retaggio dal governo Berlusconi. E che Dio ce la mandi buona.
A quanto è stato detto finora in proposito vorrei aggiungere qualche parola su un aspetto particolare della materia, che non mi pare sia stato trattato. Aspetto particolare ma non secondario, in quanto riguarda le donne, che – come noto, anche se raramente considerato – non costituiscono un gruppo minoritairo, ma sono più della metà del popolo italiano,:qualcosa cioè di cui tener conto anche solo per .brutale calcolo elettorale.
Ora le italiane, nella loro specificità di genere, sono forse coloro che, grazie alla Costituzione nata dalla sconfitta del fascismo, hanno compiuto il più vistoso passo avanti nella loro condizione civile e sociale. Non mi riferisco solo al diritto, finalmente loro riconosciuto, di votare e di essere votate, conquista di per sé basilare. Penso all’impianto complessivo della nostra Carta Costituzionale, fondata sul reciso rigetto di disuguaglianze e discriminazioni di ogni tipo. Ciò che è stato garanzia, anzi presupposto indispensabile, di tutte le conquiste via via conseguite dalle donne in questi sessanta anni di vita della Repubblica italiana.
Penso alla cancellazione di norme giuridiche che con tutta chiarezza sancivano disparità civile e penale tra uomo e donna (basti ricordare il “delitto d’onore”). Penso al varo di un nuovo Codice di famiglia, enormemente più aperto e moderno rispetto alla normativa precedente. E alla legge di parità nel lavoro, al diritto di accedere a tutte le professioni, alla conquista del divorzio, alla possibilità di interrompere la gravidanza, alla legge sulla violenza sessuale, e a tutta una serie di provvedimenti anche minori, intesi a eliminare, a ridurre, a erodere via via quella disparità di diritti e di condizione che lungo tutta la storia ha caratterizzato il rapporto tra i sessi.
Certo, gran parte di queste novità legislative non erano formalmente previste dalla Costituzione del ’46. Molte sono frutto della stessa evoluzione sociale, con l’aumento della scolarità per tutti, la maggiore mobilità orizzontale e verticale, il veloce complessivo mutamento del costume: tutte cose che hanno inciso fortemente sulla realtà delle donne, hanno contribuito a risvegliarne le coscienze e animarne la protesta, fino alla loro partecipazione di massa alla rivoluzione femminista. E però tutto questo trovava legittimazione e supporto nei diritti esplicitamente riconosciuti alle italiane, come agli italiani, dalla Carta costituzionale. Che a questo modo consentiva alle donne di realizzarsi nella pienezza della loro responsabilità personale e sociale. O quanto meno consentiva loro di pretenderlo, di combattere per ottenerlo. Ciò che prima, e non solo durante il fascismo, era inconcepibile.
Ora (dicono i fautori del SI’) tutto questo attiene alla prima parte della Carta costituzionale, quella che la riforma non modifica. Ma questo è vero solo tecnicamente. In realtà le due parti sono strettamente connesse. Anzi è previsto che la seconda debba essere la coerente attuazione della prima. Intervenire pesantemente sulla seconda (come nella riforma in questione) significa indebolire o addirittura rimettere in causa i principi base dell’intero documento.
E ciò è tanto più facile nei confronti di una materia, come la parità civile e sociale tra i sessi, in realtà ancora lontana da una piena attuazione. Una materia su cui pesa tutta la storia umana, sempre e dovunque – seppure in misure e in modi diversi – caratterizzata dalla subalternità femminile; e contro la quale è sempre pronta a risvegliarsi, dalle viscere del corpo sociale, l’antica misoginia.
Nella fattispecie, alcune norme previste dalla riforma berlusconiana, come l’affidamento alle regioni di materie importantissime, tra cui istruzione e sanità, creerebbero (come è stato ampiamente illustrato dai più qualificati costituzionalisti) pesanti disuguaglianze, fatalmente destinate a ricadere sulle spalle delle donne.
Dicevo prima come la parità tra uomo e donna affermata dalla Costituzione sia ancora lontana da una piena realizzazione. E indubbiamente la divisione del lavoro tra i sessi rappresenta tuttora, nonostante gli innegabili progressi, uno dei momenti di più grave sperequazione. Casa, famiglia, figli, lavoro di cura, impegno riproduttivo nelle sue molteplici forme, ancora sono dati dal senso comune come “naturale” compito della donna: anche quando è regolarmente inserita nel mercato del lavoro, e magari titolare di un’attività meglio retribuita di quella del marito.
La cosa non sta più scritta nelle leggi, ma sì nella tradizione, nella cultura, nella consuetudine, nelle rigidità mentali che governano tanta parte dell’agire maschile, e talvolta anche femminile. Ora, nel caso di una riduzione degli orari scolastici, o di tagli alle prestazioni sanitarie (eventi tutt’altro che improbabili, specie nelle regioni più povere, se la riforma dovesse avere corso) è facile immaginare a chi toccherebbe sopperire a queste mancanze. Senza dubbio alcuno, alle donne. E potrebbe essere una grave battuta d’arresto nel loro cammino verso la libertà. Altro che svecchiamento, modernizzazione, progresso, dalle destre vantati come obiettivi primari e dati come risultati sicuri della loro riforma.
Le donne hanno insomma una ragione in più, e non da poco, per andare alle urne e votare NO. Una ragione che le riguarda direttamente. E questo, poiché le donne sono “più della metà”, può fare la differenza. Per
Molto ho contestato, al suo autore, l’uso reiterato del termine ‘valore’in uno degli ultimi eddytoriali, ripescando a memoria dalle lucidissime lezioni sulla laicità di Carlo Galli: “chi parla di valori cerca qualcuno a cui rompere la testa. Il termine ‘valore’ è polemogeno”.
Sarà perché nelle ultime settimane è rimbombato con troppa assiduità sulle cronache nazionali soprattutto per le continue esortazioni di un autorevole transtiberino e locali, per la ripresa dell’offensiva sulla legalità da parte di Cofferati, con la quale il nostro sindaco ha finalmente riconquistato le prime pagine nazionali. Nelle ultime settimane, con nuovo vigore dopo i clamori autunnali, ormai ogni giorno si succedono i suoi diktat e si rincorrono amplificati sulle cronache di una città ormai avviata ad un sonnacchioso destino di paesone provinciale a cui non si rassegna. Divieti, sgomberi, chiusure di centri sociali e di nuovo quel vessillo agitato a suggellare un nuovo rinascimento (sic!) urbano: la legalità.
La legalità come valore in sé, dunque: trasversale, nè di destra, nè di sinistra.
La questione, che aveva fatto irruzione nel dibattito politico nazionale alcuni mesi prima delle elezioni, non meriterebbe una ripresa, se non fosse che dietro questo vessillo ideologico si sono accasati settori ormai maggioritari del centro sinistra e la partita in gioco non appare in realtà limitata ai problemi di sicurezza urbana.
Negli episodi bolognesi i poveri, gli emarginati o semplicemente coloro che propongono un uso diverso delle strutture urbane sono colpiti in quanto illegali: di una illegalità palese e a volte provocante che in ampie aree sociali ha creato un consenso diffuso al richiamo alla legalità come valore non discutibile. Anche qui, come in molte situazioni a livello globale, dietro l’apparente neutralità ideale vi è una sostanziale scelta sociale. Che consiste nel tentativo di circoscrizione, di espulsione, in una parola di rimozione, della società marginalizzata. Di quelle figure sociali che Zygmunt Baumann ha definito come gli ‘scarti umani’ prodotti in misura sempre più ampia dalla globalizzazione economica e da un modello di ordine sociale sempre più selettivo. Consegnati (ma non sempre, ma non tutti) alla comprensione della carità, ma di fatto estranei alla rappresentanza politica. Si tratta, qui a Bologna come ormai in tante città del civilissimo Occidente, del tentativo del tutto velleitario, ma tenacemente perseguito, di governare su base locale un fenomeno globale. Con modalità scopertamente repressive, ma non solo: a Bologna come nella maggioranza delle nostre città alcune fasce sociali vengono tagliate fuori dai contatti con la città tramite specifiche politiche immobiliari (la ‘riqualificazione speculativa’, è stata chiamata), ma a Bologna, diversamente che altrove, le zone ‘illegittime’ non sono solo relegate alla periferia. Anche per peculiari caratteristiche urbanistico architettoniche (i portici) e per la presenza di un Ateneo ancora in massima parte collocato intra moenia, il centro della città dapprima esautorato progressivamente dalle funzioni amministrative e abitative è ora invaso, soprattutto in talune aree o periodi del giorno, dall’onda di ritorno della marginalità. E l’unica soluzione proposta dagli organi di governo per opporsi al ‘degrado’ consiste in provvedimenti repressivi, nell’apertura di nuovi esercizi commerciali e nella programmata trasformazione del centro storico in un luna park della cultura, uno degli esempi di quella che Wenders chiamava ‘confetteria urbana’.
Nello stesso orizzonte semantico si collocano d’altronde le ultime notizie riportate con neutralità cronachistica sugli organi di stampa: a Napoli percorsi protetti per i turisti sono stati predisposti dai pubblici amministratori, a ribadire una suddivisione fra la città di serie A, sicura, pulita, ordinata ed esteticamente apprezzabile e una di serie B, dove a chi è costretto ad abitare o a lavorare, tutto può succedere. Si porta qui alle estreme conseguenze un fenomeno al contempo sinistro e velleitario di suddivisione della città in aree privilegiate che già aveva trovato espressione negli episodi della ‘metropolitana per l’arte’ coi quali, attraverso la seduzione puramente visiva dell’arte, il valore del bello, appunto, di fatto si sanciva esteticamente la fine della città, trasformata da spazio per i cittadini a quinta scenografica per i turisti. E in cui il diritto alla sicurezza è garantito solo ad una categoria di cittadini, o meglio di consumatori (e che altro sono i turisti se non i consumisti per eccellenza?).
Davvero le città di quarzo di Mike Davis non sono poi così lontane.
Città dove l’ineguaglianza, insomma, è sancita da chi le governa in nome della legalità.
Senza riprendere posizioni già espresse a suo tempo in questo sito, basti ricordare come qualche mese fa, Gustavo Zagrebelsky così concludeva una autocritica per aver isolato, in un precedente intervento, la legalità nel mondo del diritto positivo: “il primo compito di chi agisce per la Costituzione è per l’appunto di trascendere l’artificio per trasformarlo in forza culturale, vivente nella natura della società”. Il problema non è l’affermazione astratta di un principio (di un valore), ma la costruzione di una pratica capace di adeguare il diritto alla realtà. Così mentre i valori tendono ad essere statici, decisi una volta per tutte, la legge, storicamente determinata, in quanto tale può e deve evolversi perché la legalità aspiri alla legittimità.
Eppure in questa tensione fra legge e diritto vasti settori della così detta sinistra stentano a trovare soluzioni che non siano palliative, quando non apertamente repressive dell’area della marginalità che si va allargando e, ormai troppo spesso, si pongono al contrario al servizio di una legalizzazione progressiva dei meccanismi dell’emarginazione: nelle città come sul lavoro.
In una recentissima intervista alla Stampa, Walter Veltroni ha ribadito la correttezza di impostazione e la necessità della legge Biagi. Talune delle forme contrattuali sancite dalla legge 30, fino a pochi anni fa, erano illegali per uno dei diritti del lavoro più avanzati al mondo: non possiamo più permettercelo, ci viene detto. Con ciò ribadendo non solo l’idea che sia tramontata per sempre l’epoca dello stato sociale, ma con essa anche l’idea che i soggetti collettivi abbiano la capacità di limitare in qualche modo lo sviluppo storico-sociale anonimo e impersonale e di guidarlo nella direzione desiderata.
La flessibilità è un termine ingannevole (come quello della sicurezza): significa prima di tutto inflessibilità del capitale a negoziare e a fare compromessi. Come ci ha insegnato ormai trent’anni fa Richard Sennett, l’uomo flessibile è solo più fragile e meno consapevole, più incapace di rivendicare i propri diritti. Perchè la soluzione proposta, anche in questo caso, sta in un arretramento sul piano dei diritti. E la lotta per i diritti è lastricata di illegalità.
Nelle città, come sul lavoro si sta giocando, adesso, una partita non tanto a favore o contro la legalità, la flessibilità, la sicurezza, la competitività ma per restringere o allargare (mantenere) gli spazi di democrazia reale.
E occorrerà ribadire agli smemorati, impauriti rappresentanti della nostra parte politica che democrazia e liberalismo non sono affatto sistemi equivalenti come acutamente sottolineava, già negli anni ’30, Carl Schmitt poiché la prima è un’ideologia di eguaglianza e l’altro della differenza. Se la sinistra non è solo un modo di osservare il reale ‘ideologicamente’ cioè con falsa coscienza, ma un diverso sguardo sul mondo, il cui obiettivo finale è l’uguaglianza conseguita attraverso il progressivo allargamento della sfera dei diritti, allora questo sguardo è per sua natura fazioso, non neutrale, perché critico. E culturalmente agguerrito, molto più di quello che è accaduto sinora, perché se questa è una prospettiva di lungo periodo bisogna cominciare da adesso non solo ad opporre una resistenza, ma a costruire proposte alternative credibili anche nel breve-medio termine.
Quello che è in ballo è la capacità della nostra rappresentanza politica di affrontare gli sconquassi del mondo e proporre soluzioni diverse.
Anche per quanto riguarda l’urbanistica.
Certo l’alterità del caso europeo, come ribadiva De Lucia in una recente intervista, è evidente rispetto alle forme inquietanti di urbanizzazione, ad esempio del sud–est asiatico, ma se ci limiteremo a tutelare le nostre città con divieti, espulsioni e CPT non faremo che riaffermare la nostra marginalità culturale anche di fronte alla comprensione dei fenomeni urbani (e per che cosa poi, per l’estetica dei nostri centri storici?). Anche l’urbanistica ha bisogno di una nuova stagione di impegno politico se vuole rendere credibile e perseguibile la pratica democratica della pianificazione pubblica come mezzo per il raggiungimento dell’uguaglianza.
Altrimenti all’affermazione che comunque “l’aria delle città rende liberi” si potrà continuare a contrapporre la famosa risposta di Lenin: “Libertà sì, ma per chi? E per fare cosa?”
Prendo spunto dall’articolo di Vezio De Lucia, Grave errore resuscitare l’abusivismo di necessità, e dalla lettera di Andrea Laterza (Movimento “Mola Democratica”), Progettati nuovi ecomostri a Mola di Bari. Considerati insieme confermano localmente il modello sessantennale dell’urbanistica italiana, la storia moderna del nostro territorio. Abuso e rispetto delle regole, casualità e pianificazione, iniziativa privata e iniziativa pubblica: uno zigzag incessante che ha segnato il destino dell’ambiente, la caduta dall’angelico Bel Paese al diavolesco Malpaese. Ischia e Mola sono il recto e il verso di una moneta tante volte spesa e cambiata. Abusivismo di necessità? Un aspetto secondario e “storico” dell’abusivismo strutturale, il quale, spiega De Lucia, è connaturale al processo di produzione edilizia; anzi, a mio parere, si è radicato ben presto in una specifica forma dell’urbanistica del “fare”.
L’effettivo abusivismo di necessità si manifestò subito nel primo dopoguerra secondo quantità rilevanti, oltre che nella periferia romana, soprattutto a Milano, nei comuni dell’hinterland milanese prossimi alla città centrale. La costruzione (in parte autocostruzione) di casette, tollerata dalle amministrazioni che non sapevano come risolvere il bisogno di abitazione degli immigrati ignorato dal comune di Milano e favorita dai proprietari terrieri attraverso vendite frazionate, produsse il fenomeno insediativo, unico in Europa, definito col nome di Corea (con riferimento all’epoca – Vedi il saggio di Alasia e Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli 1960). Poco a poco i sindaci regolarizzarono gli edifici sulla base di progetti minimi “di sanatoria” presentati da geometri locali. Nacquero come dei quartieri poveri attorno a Milano e addossati ai centri storici dei comuni; case a un piano o due radunate attraverso lotti piccolissimi a configurare “per caso” una griglia più o meno sbilenca. Stradette miserevoli, nessun sevizio primario a un primo momento. Decine di migliaia di meridionali, veneti, bergamaschi delle valli e altri lombardi, sfruttati e sfiancati nel mercato del lavoro, trovarono riparo. Una singola Corea poteva ospitare migliaia di abitanti verso la fine degli anni Cinquanta, addirittura 10.000 la più popolosa, quella di Limbiate a una quindicina di chilometri dal centro di Milano verso nord.
Perché ho indugiato su un fenomeno tipico del Milanese nel tempo dei primi grandi flussi migratori? Perché niente di simile è avvenuto qui o altrove, a sud o a nord, a ovest o a est nei decenni successivi. Niente che potesse giustificarsi come abusivismo di reale necessità. Confermo con De Lucia: esclusa la forma datata relativa ai casi eccezionali di Roma e di Milano, la massa di costruzioni illegali nelle città e nel territorio aperto rappresenta una forma edificatoria intrinseca al processo sociale, parallela alla forma dovuta alla pianificazione urbanistica pubblica e alla gestione comunale dell’edilizia, oppure alla forma voluta dall’urbanistica privata per così dire sostitutiva.
Siamo propensi a identificare l’abuso edilizio con le regioni meridionali, dapprima riferendoci alle grandi città come Napoli e Palermo (pro memoria: il film di Francesco Rosi, Le mani sulla città, è del 1963), poi all’inconcepibile enorme espansione dei centri minori e soprattutto al massacro edilizio delle coste. Ma anche Milano e Roma hanno sopportato una illegalità edilizia silenziosa, nascosta. Testimonio per Milano: lo si diceva nell’ambiente di urbanisti e architetti, poi lo si è scoperto al momento del primo e dei successivi condoni: al di sopra delle linee di gronda delle case esiste un’altra città, intravedibile solo in piccola parte dalla strada, costruita illecitamente (attenzione, non parlo dei sopralzi concessi nel dopoguerra sulla base degli incentivi previsti dalla norme sulla Ricostruzione, né delle nuove oscene elevazioni mediante i falsi sottotetti promossi da certe assurde norme della legge urbanistica regionale). Quando nel 2003 funzionari del municipio contarono “i primi casi di neo-condono in 16.000” dichiararono che intanto “era lontana dalla conclusione la regolarizzazione dell’enorme abusivismo anteriore”. A Roma dev’essere stato peggio se un collega ha potuto ricordarmi che già prima della fase condonistica abitavano in spazi abusivi 500.000 persone, anche lì molte negli “arretrati”.
Certamente una rassegna esauriente dell’abusivismo strutturale nell’intero paese sarebbe lunghissima e amplierebbe il quadro ottenuto unendo i tasselli forniti da tanti ammirevoli critici succedutisi a denunciare le malefatte urbanistiche ed edilizie, quali i Borgese, i Cederna, gli Erbani…Eppure: leggiamo increduli il programma sviluppista per Mola di Bari; Andrea Laterza ci sottopone un elenco impressionante di opere previste o di piani approvati o in fieri: tutto regolare, tutto legale, tutto desiderato, tutto entro una seria “linea di finanziamento”, tutto rivendicato come necessario: una globale cementificazione direbbe Cederna. Davanti all’esempio di Mola dobbiamo ripetere a noi stessi, urbanisti, architetti, soprintendenti, artisti, amministratori pubblici, politici, imprenditori, che la violazione, la costruzione e infine la distruzione del territorio è stata causata in primis da processi legali, da decisioni ritenute legittime, dal gioco delle parti pubbliche e private in chiaro o in scuro ma sempre infine accettato e convalidato, inoltre consenzienti le popolazioni. Ecco cos’è stato ed è lo “sviluppo edilizio”, stolta locuzione, purtroppo impiegata anche da bravi colleghi, certo non attinente alle opere illegali o abusive. Uguale la responsabilità della pianificazione urbanistica pubblica e dei progetti privati, dell’accordo fra l’una e gli altri.
Tutto in regola, a Mola di Bari. La novità semmai consiste nella partecipazione di un architetto di gran nome (Oriol Bohigas) all’insensato disegno edificatorio anche nel meno immaginabile dei luoghi disponibili . Sappiamo delle scelte milanesi. I “grandi progetti” urbani cari al sindaco Albertini demandati alla triplice alleanza fra impresa, architetto (appunto, per lo più straniero, vedi Hadid, Isozaki, Lebeskind, Foster, Pei) e giunta comunale appaiono “in regola” e ne deriverebbero gigantesche cubature fuor di ogni effettivo bisogno della città reale. Le “Nuove Milano estranee” (così le ho definite altra volta), perfetto rispecchiamento del “rito ambrosiano” (così ha sempre insistito De Lucia) la cui gran madre fu l’operazione Bicocca/Tronchetti Provera/Sindaco, sono considerate legittime perché si è negato l’obbligo di un’effettiva regolarità urbanistica basata su un piano regolatore deliberato o almeno un’idea generale di città enunciata pubblicamente.
Il modo milanese, procedura peculiare per un’edilizia speculativa travestita da architettura coerente a un comportamento definito moderno per non dire liberistico anarcoide, si è diffuso ed è piaciuto anche alla sinistra. Ricordo un articolo di Francesco Erbani del novembre 2004 su Firenze, L’assedio degli architetti. L’esistenza del piano regolatore non pareva distinguere le scelte esecutive. Erano sorti ben quarantasette comitati a difesa del centro storico e di aree verdi minacciate dal caterpillar edilizio mentre il Comune annunciava l’arrivo di noti progettisti stranieri, da Norman Foster a Jean Nuovel, pronti a coprire con il loro nome imponenti operazioni immobiliari proprio come a Milano. E a Roma? Mi sembra che oggi, forse per comprensibili motivi elettorali, vinca il silenzio circa le realizzazioni conseguenti o no al piano regolatore. Conosco poco delle cosiddette nuove centralità. Ho visto tempo fa sui giornali una prospettiva aerea inerente a un progetto per un vastissimo insediamento in un primo di tali luoghi. Destini milanesi a Roma?
Abusivismo sconosciuto e rovina territoriale programmata. Penso al Nord, penso per esempio alla Valle d’Aosta, regione autonoma che potremmo considerare (insieme all’Alto Adige) all’opposto dell’autonoma Sicilia epitome di tutti gli abusi. Una regione a statuto speciale, la Valle, caso perfetto di legalità locale fruttuosa: centomila abitanti tutti ricchi grazie, oltre ai pingui trasferimenti statali, alla rendita e al reddito edilizi, estesi e capillari, assicurati da piani regolatori compiacenti che entrambi i poteri pubblici, comunale e regionale, varano da decenni coerentemente all’obbiettivo economico e sociale. Cosa ha comportato questa legalità valdostana tipica come i residuali prodotti caseari locali? La violazione poi la distruzione dei caratteri storici, paesaggistici e architettonici della regione.
Abusivismo quasi sconosciuto e rovina ambientale condivisa. Penso ancora al Nord, alla Liguria, alle sue coste soggette senza tregua al dilagamento delle seconde case e di ogni genere di infrastrutture al servizio di maneggioni immobiliari grandi e piccoli. Penso a come fu indifferente, dal punto di vista dei risultati, che i Comuni rilasciassero miriadi di licenze edilizie singole, alla spicciolata, approvassero lottizzazioni prive degli elaborati obbligatori o comunque necessari, favorissero ultimamente la realizzazione nei tratti di litorale ancora liberi di finti paesetti progettati da architetti corrivi in “stile ligure” e atti ad ospitare migliaia di foranei con le loro auto, le loro barche, le loro attrezzatureda golf.
Tutto in regola, signori. Come fu in regola la “rapallizzazione” legittimata da licenze edilizie in verità rilasciate in regime di illegalità urbanistica sostanziale. Lo scempio edilizio di Rapallo creò il termine entrato nell’uso per designare, come la “coventrizzazione” riferita ai terribili bombardamenti della città inglese di Conventry, la completa distruzione di una città mediante l’edificazione.
Milano, 10 maggio 2006
Perché l’Unione sul tema tasse continua a rispondere alle brutali bordate di Berlusconi allineando numeri, spiegando che il suo programma non prevede stangate, promettendo che saranno colpiti solo i grandi patrimoni, ecc., col tono di chi si senta tenuto a discolparsi? Perché invece non sostiene con orgoglio la propria politica fiscale, e non dice che le tasse sono il necessario supporto dello stato sociale, cioè di un complesso di servizi destinati a correggere in qualche misura le disuguaglianze? Perché non ricorda che infatti nei paesi socialmente più avanzati, come quelli scandinavi e per buona parte quelli del nord Europa, le tasse sono molto più alte che da noi, e in qualche caso toccano il 50% dei redditi maggiori? E che proprio questo garantisce sistemi sanitari efficienti, asili per tutti, scuole di qualità, università e ricerca scientifica di buon livello, giustizia funzionante, città vivibili?
Perché non dice che la riduzione delle tasse è una politica tipica delle destre, che va a beneficio soprattutto, a volte soltanto, dei ceti più abbienti, con la difesa delle grandi fortune, delle rendite, della speculazione? Perché non grida che politiche di questo tipo non fanno che allargare la forbice tra ricchi e poveri, proprio come è accaduto e continua ad accadere negli Stati Uniti, e come è accaduto anche in Italia con il governo Berlusconi?
Perché non insiste a ricordare che Berlusconi non soltanto con una serie di condoni ha favorito e apertamente incoraggiato l’evasione fiscale, ma ha avuto l’impudenza di dichiarare pubblicamente il diritto all’evasione; diritto che ovviamente non può appartenere ai lavoratori dipendenti? Perché non mette sotto accusa quanti (a destra soprattutto, ma non solo) di fatto sembrano ritenere le tasse null’altro che un furto perpetrato dallo stato ai danni dei cittadini, e fanno di tutto per diffondere questa convinzione? Perché non denuncia l’uso corrente di frasi come “mettere le mani nelle tasche dei cittadini”, che proprio questa convinzione più o meno consapevolmente esprimono e ribadiscono?
Perché non dice insomma con chiarezza e, ripeto, con orgoglio: le tasse non sono un furto, sono uno strumento necessario a ridurre, almeno un po’, la vergogna di enormi e crescenti iniquità sociali?
[testo pubblicato anche su l'Unità, 3 aprile 2006, p. 26 col titolo: "Lorgoglio di volere uno Stato Sociale"]
Case! (non l’ho visto, ho abolito la televisione da anni), manda una breve nota, La città proibita, (riportata in calce) in cui accenna ai punti essenziali della trasmissione tra i quali l’ingiustizia del mercato milanese dell’abitazione e in particolare la scandalosa politica dell’Aler (Azienda lombarda edilizia residenziale). Danneggiati, anzi dannati e condannati soprattutto “gli anziani pensionati” e le famiglie a basso reddito. In Eddyburg ci sono numerosi miei interventi su Milano lungo gli anni di partecipazione al sito; diversi gli aspetti considerati, anche il problema dell’abitare. Ora voglio allargare la bozza di Stefano.
Milano, intendo lo spazio entro i confini comunali, presentava i cittadini residenti secondo classi sociali differenziate, agli estremi – se così posso dire – una borghesia produttrice ancora depositaria di una certa consapevolezza civile e una forte classe operaia con la quale la prima doveva confrontarsi. Persino durante il fascismo la città non poteva ignorare la sopravvivenza di una cultura locale popolare, doveva preservarne i luoghi deputati – le fabbriche e le case operaie – mentre riconosceva a qualche spezzone di borghesia e funzionariato non corrotti, memori delle tradizioni liberal-umanitarie e socialiste, la capacità di far funzionare la macchina urbana. Nulla tuttavia potette ostacolare l’attuazione di una grave politica demaniale riguardo a una grossa fetta del patrimonio pubblico in terreni, cioè la loro vendita o svendita. Invece nel campo dell’abitazione pubblica l’Iacpmf (Istituto autonomo case popolari milanese – la effe, fascista, apparve tardi), il potente istituto già operante estesamente prima della guerra mondiale, esibiva buoni risultati benché non potesse, o non volesse o glie lo impedisse l’alta gerarchia fascista, provvedere da solo alle condizioni abitative di quegli operai, in parte pendolari settimanali, costretti a vivere in stalle abbandonate, baracche e peggio ai margini della città e nei comuni limitrofi. (Forse per un’astuzia della storia le famose e impressionanti – specialmente grazie all’apparato fotografico – Indagini sul problema delle abitazioni operaie in provincia di Milano, di Piero Bottoni e Mario Pucci, furono loro commissionate nel 1938 dalla fascista amministrazione provinciale e pubblicate l’anno seguente).
Dall’immediato dopoguerra il pretesto dell’urgenza trasforma la ricostruzione in un’edificazione privata d’ogni genere e una speculazione immobiliare che non avranno mai fine, nemmeno quando la città sarà diventata tutt’altra, una sorta di pasticcio urbano, indistinguibile nel retaggio storico, dentro un enorme sprawl metropolitano deposito delle sue contraddizioni irrisolte. Gli architetti razionalisti vedono giusto. Subito, nel 1945, Ernesto Nathan Rogers avverte che “ricostruire con criterio significa rispondere con la tecnica alle esigenze della morale”. Un popolo può dirsi realmente civile se ricostruisce secondo un ordine di precedenze coerente agli interessi della società, ossia se risponde con chiarezza alla domanda per chi ricostruire. Rogers non ha dubbi, si deve ricostruire per i lavoratori, per i loro bisogni, casa e lavoro, ma anche scuole, ospedali, musei. Sulla stessa lunghezza d’onda e nello stesso momento Piero Bottoni pubblica da Görlich il libretto La casa a chi lavora, estensione di un lungo articolo apparso in “Domus” dell’agosto 1941, Una nuova previdenza sociale: l’assicurazione sociale per la casa. La mancanza di abitazioni per i lavoratori è la massima emergenza della ricostruzione e deve collegarsi ai problemi di settore, dall’agricoltura all’industria al commercio all’artigianato. Purtroppo, a chi credeva in un forte rilancio della politica sociale basteranno tre anni per decretarne il fallimento. Il decano dei razionalisti italiani Enrico Griffini, in un saggio su “Edilizia moderna” del dicembre 1948, scrive di orrendo disastro milanese, di decadenza morale e civile, di ordine edilizio sostituito dal caos: “Tutto il problema edilizio è deformato dalle speculazioni con abusi di ogni genere a dispetto delle soprintendenze, delle leggi, dei decreti”. Infine un’invettiva che altra volta invitai ad assumere attualmente per il suo attuale valore pedagogico rapportandola alla sessantennale storia di rovina edificatoria dell’intero paese: “una licenziosa e babelica febbre costruttiva che conduce questa nostra città a imbruttirsi oltre ogni previsione, perdendo tutta la sua organicità e l’unitaria bellezza formata e difesa dai nostri padri nella pazienza dei secoli”.
Eppure, grazie alla fiduciosa vocazione di qualche persona “resistente” in amministrazioni pubbliche o sul fronte della cultura urbanistica e architettonica, la casa popolare cercò, come una buona pianticella che riesca a spuntare e a vivere fra la sgradita lappolosa bardana, di farsi largo nella città. Non poteva contrastare e bloccare l’edilizia privata che sarebbe montata sempre più su se stessa come la marea – uffici di ogni tipo, non solo abitazioni – ma potette occupare quello spazio per così dire inevitabile e pubblico non ancora svenduto o ancora privo di attrattive per le bande armate della speculazione immobiliare. E si sarebbe potuto rilanciare il patrimonio pubblico esistente, anch’esso danneggiato dai bombardamenti o impedito durante la guerra. Tutto considerato, non c’era altra città italiana, forse esclusa Roma, che potesse vantarne proporzionalmente di eguale. Oltre alle case dell’Iacpm, quelle comunali, numerosissime, e degli altri istituti esistenti o nascenti delegati a possederne o a realizzarne. Doverosa, esemplare e bastevole, a questo punto, la citazione della nascita del QT8, il quartiere sperimentale dell’ottava edizione della Triennale, con la nomina di Piero Bottoni a commissario da parte del Comitato di liberazione l’11 maggio 1945. Troppo noto il QT8 per indugiarvi, va detto però che se fossero conseguiti negli anni altri interventi della stessa portata per localizzazione, dimensione e qualità, insieme a una dedizione degli amministratori pubblici uguale a quella che aveva permesso la rivoluzione della funzione stessa della Triennale, probabilmente non saremmo costretti a considerare come scritte oggi le denunce di Rogers e di Griffini. Nuovi quartieri di edilizia popolare se ne realizzarono specialmente negli anni Cinquanta e Sessanta grazie alle leggi note, ma gl’interventi furono ultra-periferici e malamente progettati; unica eccezione il quartiere Feltre, favorito sia da a una progettazione coordinata da Ignazio Gardella sia dalla prossimità del parco urbano del torrente Lambro. Nella raccolta di scritti di Aldo Rossi sull’architettura e la città tra il 1956 e il 1972 (Clup, 1975) troviamo del tutto logico leggere che “l’architettura dei quartieri non è andata oltre la proposta di Bottoni con il QT8 e il Monte Stella [la grande collina-parco costruita utilizzando le macerie dei bombardamenti e i materiali delle demolizioni], così che questi due fatti rimangono certamente come gli esempi più importanti, e senza seguito, della situazione milanese”.
Il drastico cambiamento sociale di Milano nel corso di mezzo secolo è mostrato da qualche dato dei censimenti semplice e chiato. Secondo il primo rilevamento del dopoguerra, 1951, nel territorio comunale risiedevano 1.274.000 persone. La città, pur sospinta verso l’accentuazione del proprio ruolo finanziario e commerciale già significativo negli anni Trenta, presentava una corposa quantità di operai e assimilati oltre che di posti di lavoro industriali: residenti attivi in totale 606.000, attivi operai e simili 329.000, addetti all’industria 366.000. Degli attivi in totale, 47,5% dei residenti, ben il 54,3 % erano operai; gli stabilimenti industriali in città, poi, dovevano richiamare un po’ di forza lavoro da fuori. Dieci anni dopo: forte crescita dei residenti, 1.582.500, diminuzione relativa dei tassi di attività, 45 % complessivo, per circa il 50% operaio (347.000 unità); aumento degli addetti all’industria sicché il tasso di industrializzazione urbano cresceva dal 28,5 al 31% (484.000 addetti. N.b: secondo un’altra fonte questi sarebbero stati addirittura 550.000, per un tasso di industrializzazione del 35%). Milano era (anche) città industriale a tutti gli effetti con notevole pendolarismo in entrata di lavoratori occupati nell’industria e abitanti fuori del comune magari molto lontano. La fotografia dopo altri dieci anni illustra sostanziali novità. La popolazione è tanta quanto non è mai stata e mai più sarà, 1.732.000 persone, gli operai residenti sono solo 288.000 (41 % degli attivi totali a loro volta avviati alla diminuzione), appaiono sintomi evidenti di deindustrializzazione sebbene gli addetti siano ancora quasi 435.000, segno della persistenza di una forte domanda verso l’esterno e dell’assurda estraneità fra i mercati del lavoro e dell’abitazione, è ormai molto intensa la domanda di lavoro del terzo settore che d’ora in avanti sarà sempre più travolgente e sempre meno risolta all’interno della città.
Nei decenni successivi a Milano imperversa il rivolgimento demografico, economico, sociale. Gli abitanti residenti continuano a diminuire, 1.605.000 nel 1981, 1.369.000 nel 1991, 1.182.000 nel 2001 (si darà un’inversione di tendenza negli anni recenti dovuta esclusivamente all’ottenimento della residenza di immigrati extra-comunitari, così che la città riconquisterà una consistenza demografica leggermente superiore a 55 anni prima). Gli operai stabili per abitazione, occupati in città o altrove, che a suo tempo superavano la metà della popolazione attiva e dunque imprimevano un potente marchio di classe lavoratrice “tradizionale”, diminuiscono molto più velocemente dell’intera popolazione e degli attivi totali, così che il loro peso classista e, se permettete, politico, già ridotto al 10 % della popolazione quindici anni fa, risulta oggi quasi trascurabile. L’industria sembra sparita da Milano, vuoi per abolizione pura e semplice vuoi per delocalizzazione, ma il processo di azzeramento lungo gli anni ha colpito molto più pesantemente il risiedere operaio che il lavorare, mentre si susseguivano ondate di terziario che allagavano spazi di ogni specie, in primis quelli residenziali.
I quartieri popolari di una volta non bastavano ma servirono. Al contrario: da un lato, amministratori comunali prima estranei a una cultura del tipo socialdemocratico europeo in materia di case popolari, poi, da tre quinquenni, fedeli interpreti dei principi fondiari ed edilizi ultraliberisti, vale a dire ostili ai diritti dei ceti meno ricchi, da un altro lato la terziarizzazione selvaggia: queste le cause essenziali che hanno provocato l’espulsione da Milano di famiglie e persone di quei ceti ma, ormai avvenuta la rivoluzione strutturale e occupazionale, hanno anche impedito nuovi ingressi in città per risiedervi ai lavoratori del terzo settore che avrebbero potuto diminuire la penosità del rapporto casa lavoro. Non da oggi non occorre essere operai per essere poveri o comunque inidonei a fronteggiare gli oneri imposti da una città come Milano. Il terziario milanese, si sa, è pieno di lavoro a termine, precario, faticoso anche se franco dalla tuta blu sporca d’olio di macchina; se non è provvisorio è comunque spesso sotto la minaccia del licenziamento.
Le famiglie e le persone a cui si riferisce Stefano Fatarella, residenti in città nonostante tutto, rappresentano il rimanente della classe d’antan, non più propriamente “classe” mancando uno specifico rapporto di produzione, infatti sono per lo più pensionati anziani – compresi gli ex occupati in lavoro non operaio ma a basso salario – soprattutto donne. La struttura della popolazione milanese è sbilanciata fortemente verso le fasce d’età elevate. Anni fa, quando la popolazione era maggiore, demografi e sociologi descrissero in maniera fulminante uno dei caratteri dominanti della struttura demografica milanese: essere donne, essere vecchie, essere sole: Le donne sole erano ben l’80 % dei residenti ultrasessantenni soli, a loro volta una presenza relativa forte, pur essendo ancora nettamente maggiore il peso della fasce giovanili in seguito man mano sempre più ridotte per le cause dette. Non disponiamo oggi di statistiche aggiornate. L’amministrazione comunale se ne frega di fornire dati certi per non farsi cogliere in fallo di rigore in relazione alle politiche sociali coerenti ai bisogni reali. A ogni modo sappiamo che entro la decadenza demografica milanese la struttura della popolazione è ancor più squilibrata nella stessa direzione (per ora è troppo scarsa l’incidenza dovuta ai giovani immigrati), la malaresidenza, oltre alla malasanità, infierisce più che nel passato; la proporzione conta più della numerosità assoluta e proprio per questo la città ne risente maggiormente l’effetto. I pensionati, le donne sole anziane, i nuovi poveri, gli ex affittuari di case popolari costretti all’acquisto o ad arrangiarsi in un mercato libero criminoso rappresentano il volto niente affatto oscuro di una Milano che crede di accecarci con le luci violente della moda, delle fiere, delle strade di negozi e atelier in buona parte in mano alla mafia “legale” degli investimenti commerciali e finanziari.
L’Aler (“Azienda” invece che “Istituto”) e il Comune: la prima, traditrice della migliore eredità dell’Iacp, coerentemente al cambiamento del nome, il secondo, guidato da un sindaco industrialotto lombardo, deciso da subito, disse dieci anni fa, ad amministrare il municipio come un condominio: l’Aler ha privatizzato le migliori delle sue case estromettendo i vecchi inquilini mentre ha lasciato degradare quelle affittate alle famiglie dal reddito per così dire inadeguato; la giunta comunale libera (mai verbo è stato così appropriato) begli edifici in zone pregiate affittati da decenni a “popolo” residente con il pretesto di ristrutturarli, poi, trascorsi persino due decenni come nell’incredibile caso dei 157 alloggi di Piazza Dateo, nega il diritto al rientro e decide di guadagnarci vendendoli a prezzi di mercato possibilmente a un unico imprenditore-speculatore: altro pretesto quello di reinvestire in alloggi popolari nell’estrema periferia “meno costosi di tre volte” dice, quando come dove non si sa.
Mi è rimasto impresso un principio sostenuto oltre trent’anni fa da uno studioso di programmi per la riduzione della mortalità nei paesi non ad alta ma a bassa mortalità. Poiché la grande maggioranza delle morti avviene oltre i 65 anni, occorre privilegiare i programmi sanitaricheaggiungono vita agli anni piuttosto che anni alla vita. Allora il problema principale, osservo, è quello di quale vita assicurare agli anni ancora da vivere. Per questo dobbiamo combattere non solo la malasanità ma anche, oggi a Milano soprattutto, la malaresidenza.
Milano, 17 marzo 2006
La città proibita, nota di Stefano Fatarella
Domenica 12 marzo, ore 21,30. Televisione. Rai 3. “Case !” di Riccardo Iacona. Della città proibita, dell’ingiustizia sociale, del diritto alla casa negato. Finalmente qualcuno si occupa di problemi veri, reali, concreti. Di anziani pensionati a 500/700 euro netti al mese e di lavoratori dai salari di fame che vengono buttati fuori dalle loro case dal “mercato”, questo sconosciuto senza volto, perchè poco redditizi. Ci parla di ALER (Azienda Lombarda Edilizia Residenziale) che sfratta e di una gestione del patrimonio abitativo pubblico indegno di un paese civile, di proprietà immobiliare privata che sfratta e che segrega gli sfrattati nelle periferie più squallide di Milano, allontanando uomini e donne dal diritto alla città, dal diritto alla dignità. Ci mostra di istituzioni assenti, di politiche abitative pubbliche di classe, che non si fanno carico di risolvere una questione sociale che solo lo Stato deve affrontare. Ci mostra violenza e sopruso, ci fa vedere il mercato che fa male e rovina gli uomini e le donne. Ci fa vedere la politica edilizia e urbanistica a-sociale e di classe. Qualcuno dirà che questo è un programma fatto apposta in prossimità delle elezioni. Ben venga se la politica tace. Ma non è forse scandalosa e provocatoria la questione dell'immoralità dell'assenza di una politica sociale dell'abiatazione ? Brava Rai 3, bravo Riccardo Iacona. W l’Italia scomoda
Non era certo inevitabile che accadesse da noi. Poteva benissimo succedere, ad esempio, nella vicina Francia, che sul cibo – per lo meno in età contemporanea - ha elaborato culture più sofisticate delle nostre. Ma è certo in profonda coerenza con la storia del nostro Paese, se in Italia è fiorito un fenomeno culturale che oggi fornisce all’ambientalismo internazionale un contributo di evidente peculiarità e un ricco spettro di motivi e di suggestioni. La parabola storica di Slow Food, nato ufficialmente nel 1987 a Bra, piccolo e grazioso centro nei pressi di Cuneo, costituisce infatti forse il contributo più originale che l’Italia abbia dato a quel vasto e multiforme movimento di idee che da oltre 30 anni sottopone a critiche radicali lo sviluppo industriale e il mondo sconvolto che esso ci consegna. Anche se – non c’è bisogno di dirlo – la storia di questa associazione, che oggi ha soci sparsi in tutto il mondo, non si esaurisce certo in tale singolare e recente apporto.
Slow Food non è partito dall’ambiente, dalla denuncia dei danni dell’inquinamento,dalla recriminazione per la distruzione di risorse spesso non rinnovabili, dalle minacce che incombono sul nostro futuro. Alla sua nascita hanno presieduto altre ragioni. Molto semplicemente e modestamente questa associazione è partita dal cibo, dal bene elementare, ma universale, che sta a fondamento della vita. Il mangiare. Un atto primigenio che ci spoglia di ogni arroganza tecnologica e ci riporta alla nostra ineliminabile animalità, ma ad un tempo alla nostra più profonda storia: quella che ci lega alla terra, al millennario e sapiente uso dei suoi frutti. Per la verità – in opposizione evidente al modello di alimentazione industriale dilagante negli USA – insieme al cibo genuino Slow Food rivendicava anche la lentezza del suo consumo. In quello slow, quale rovesciamento polemico di fast, c’era anche la riscoperta di un altro bene minacciato e travolto dalla frenesia industriale: la convivialità, il mangiare secondo ritmi non imposti, con le lentezze di un tempo non misurato, non scandito, non programmato. Sottolineo quest’ultimo aspetto non solo per rammentare che, in origine, Slow Food aveva individuato un motivo di critica radicale dell’intera civiltà industriale. Ma anche per fare osservare che quest’ultimo motivo non ha avuto negli ultimi anni la diffusione e la popolarità che merita. E’ vero, ci sono qua e là piccoli e sparsi segnali. Negli USA e in Canada, negli ultimi anni, sono apparsi gruppi intellettuali all’insegna della rivendicazione del take back your time, in Germania sono circolate pubblicazioni sporadiche sull’ Ökologie der Zeit. E anche in Italia il tema si fa strada timidamente (1).Ma siamo ancora lontanissimi dall’analizzare in maniera diffusa e sistematica come la società attuale stia soggiogando la stoffa stessa del nostro vivere, tenda a impossessarsi anche degli angoli più remoti del nostro tempo personale,modifichi i ritmi della nostra più intima biologia. Per il tempo della vita umana, per il consumo e l’uso del nostro tempo, occorre pensare una nuova critica radicale, rammentando che anch’esso – come i combustibili fossili – non è riproducibile, non è rigenerabile, si consuma una volta per sempre
Ma torniamo a Slow Food. Rivendicando la genuinità del cibo, questo gruppo guidato da Carlo Petrini, ha inevitabilmente dovuto scoprire la centralità dell’agricoltura: la grande madre delle risorse da cui il cibo prende vita. E naturalmente scoprire l’agricoltura di oggi partendo dal suo esito finale, il bene alimentare, non può non condurre a una critica profonda e radicale di un modello industriale per molti versi inaccettabile. L’agricoltura dei nostri anni, che certo ci dà cibo abbondante e a buon mercato, ha tuttavia trasformato le campagne nei luoghi più insalubri e inquinati della Terra. Il suo avanzare riduce la biodiversità – quello sterminato patrimonio di piante e animali donatoci dalla natura e selezionato da innumerevoli generazioni di contadini – inquina la terra, l’aria e l’acqua, uccide la vita animale che ha intorno, con un processo di artificializzazione tecnica sempre più spinta. Come si può conciliare tale forma di produzione con il cibo destinato agli uomini, cioè a degli esseri viventi che, per quanto immersi in contesti ipertecnologici, non cessano, per questo, di essere natura? Ecco, è, credo, dal cuore di questa insanabile contraddizione – e insieme per un ambizione più alta cui accenneremo – che nasce il nuovo libro di C.Petrini, Buono, pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia, Einaudi Torino 2005, pp. 259. Si tratta di un ampio saggio che è anche un resoconto di viaggio nelle cucine, nelle agricolture, nelle comunità di varie regioni del mondo, con un partecipazione appassionata agli umili eroi che producono il cibo assai rara da trovare in altri testi “ gastronomici” Il libro si presenta, infatti, come un originale montaggio letterario in cui si alternano, distribuiti in vari capitali, il bilancio di oltre un cinquantennio di agroindustria, con dei diari – così li chiama l’autore – che sono il resoconto di incontri con agricoltori o con comunità del cibo: come vengono definite con felice espressione quei contadini o piccoli imprenditori che producono beni agricoli e alimenti integrati in un contesto popolare più ampio di cui sono espressione. Così, esperienze agricole e culinarie singolari, fatte nel cuore della Francia rurale o in California, presso i Sami (meglio noti come Lapponi) o nel Messico delle tortillas di granturco, sono raccontate da Petrini come percorsi originali e alternativi alla massificazione industriale, e testimonianza al tempo stesso delle potenzialità esistenti nel mondo di praticare un ‘agricoltura che non violenti la natura. Allo stesso modo, l’esperienza diretta o la riflessione sui guasti provocati dalla rivoluzione verde, a partire dagli anni ’60,nelle campagne del Terzo Mondo, si accompagna al racconto delle nuove consapevolezze che si stanno diffondendo nel realtà contadine di quelle terre.
A noi, tuttavia, interessa qui sottolineare il rapporto fra cibo e ambiente che Slow Food è venuto valorizzando negli ultimi anni. E nel testo di cui parliamo Petrini porta un contributo di prim’ordine a questo grande tema.Egli è molto setto su tale punto,sul nesso indisgiungibile tra cucina e qualità dell’habitat dove si producono i beni agricoli: “ Il gastronomo deve sapere di agricoltura, perché vuole sapere del suo cibo e perché vuole favorire i metodi agricoli che salvaguardano la biodiversità, i sapori e i saperi a essa connessi. Va da sé che, visto lo stato in cui abbiamo ridotto la Terra, è anche automatico che il gastronomo debba avere una coscienza ambientale, intendersi di ecologia. Ci tengo a ripetere che un gastronomo che non abbia coscienza ambientale è uno stupido, perché così si fa ingannare in ogni modo possibile e lascia che la terra, dalla quale trae l’essenza del suo lavoro, muoia” (pp.63-64). Non poteva essere detto più chiaramente. Ma vale anche l’inverso, che suona come una sfida innovatrice allo stesso ambientalismo:” Alla stessa maniera, si potrebbe inferire che un ecologista che non sia anche un po’ gastronomo è un personaggio triste, che oltre a non saper godere della natura, a perdersi il piacere alimentare, è disposto indirettamente a perpetrare danni all’ecosistema con il solo atto di nutrirsi in maniera sbagliata.”(p.64)
Ecco, in poche battute, venire alla luce un groviglio di connessioni sotterranee, spesso poco pensate: e al tempo stesso anche il nucleo originario della filosofia di Slow Food (che a mio avviso è alla base del suo successo mondiale).La gioia del mangiare genuino non è la mania, un po’ snob, dell’edonista solitario. Questa umanissima ricerca di felicità attraverso il cibo, appartiene a tutte le classi sociali e a tutte le genti che popolano la Terra. Pungola il misero proletario delle periferie del mondo, ma non abbandona gli agiati cittadini delle metropoli. E tutti hanno interesse – al di là della mistificazione pubblicitaria - a un cibo genuino, fatto di elementi non inquinati dalla chimica, uscito da un ambiente salubre, dove la manipolazione dell’agricoltore esalta e non mortifica la creatività della natura. Vivere bene, mangiare sano, essere più felici, non è la colpevole ricerca di un vantaggio privato e solitario, ma richiede, per realizzarsi, uno straordinario vantaggio collettivo: la salubrità ambientale delle campagne, la decontaminazione di una vasta parte del nostro mondo, la difesa della salute degli agricoltori e di tutti noi. Ecco così venir fuori il nucleo di un’intuizione geniale: un principio insopprimibile della vita, la molla primigenia dell’agire individuale(la ricerca della gioia) diventa la base per un progetto ambientalista di portata generale. A caricarsi sulle spalle il generoso programma di cambiare il mondo non sono solo i pur meritevoli e mai sufficientemente lodati “ guerrieri del no”, ma anche i più silenziosi “ signori del si”:gli innumerevoli esseri umani che vogliono continuare a fare del mangiare – come accade da millenni – una gioia inestricabile dalla vita.
Ma l’accenno che Petrini fa ai nessi e alle responsabilità del consumatore merita almeno una breve considerazione.Siamo infatti entrati in un epoca in cui il consumo di ogni individuo riveste sempre più apertamente una responsabilità generale, tanto sociale che ambientale.In un mondo che appare ormai in tutta la sua finitezza queste relazioni si vanno facendo sempre più nitide. Se io, cittadino italiano, consumo banane irrorate ancora con il DDT, non danneggio solo la mia salute, ma di certo, molto più gravemente, anche quelle dei contadini che nelle campagne del Terzo Mondo usano quel pesticida. Allo stesso modo, se consumo caffè di corporation che affamano i contadini produttori acquistando la materia prima a prezzi irrisori, dò una mano alle tante e clamorose ingiustizie che lacerano il mondo. In questo modo Petrini incontra la cultura dei movimenti che negli ultimi anni si son fatti promotori del commercio equo e solidale (2). Ma – arricchito anche dell’esperienza di Terra Madre, il grande raduno contadino a Torino, nel 2004 - lo fa con una visione più coinvolgente del ruolo mondiale dei consumatori. Come il buon gastronomo, anche il consumatore, infatti, è “un coproduttore” (p.164). Egli influenza e partecipa con le sue scelte personali, con il suo consumo, con la ricerca della sua gioia, alle scelte del contadino, al suo comportamento e al suo impegno di produttore. Ecco, dunque, una via possibile di nuova solidarietà, attraverso il cibo, con tutti i contadini della terra. Perché, a dispetto di tutti i dispositivi tecnici messi oggi in campo dall’agricoltura industriale, è pur sempre dai contadini che dipende la produzione degli alimenti.E il cittadino consumatore, che pretende salubrità e qualità dai suoi cibi, se é veramente consapevole, non può non pretendere che esso sia anche “giusto”: cioè che esso premi col giusto reddito anche gli agricoltori che l’hanno prodotto. Ovviamente, la giustizia e l’equità per i produttori è un esito meno automatico, rispetto a quello della salubrità e della qualità. Per ottenerla il consumatore deve fare un maggior sforzo di discernimento e di scelta. E occorre anche metterlo nella condizione di poterlo esercitare. Su questa strada, com’è noto, c’è ancora molto cammino da fare. Il libro di Carlo Petrini, insieme a tante informazioni e racconti, ci aiuta oggi a percorrerla con passione e lungimiranza. Abbiamo oggi una “guida” che ci mancava.
Questo articolo è in corso di pubblicazione nella rivista I Frutti di Demetra, bollettino di storia e ambiente
(1) Cf. J.de Graaf( a cura di) Take back your time. Fighting overwork and time poverty in America, Berret-Koehler, San Francisco 2003.Per questo movimento americano-canadese molto utili i siti www.newdream.org e www.simpleliving.net. In Germania è dagli inizi degli anni Novanta che il tempo comincia a essere studiato da una prospettiva ambientalista. Cfr M.Held, K.A.Geiβler(a cura di ) Ökologie der Zeit. Vom Finden der rechten Zeitmaβe, Wissenschaftiche Verlagsgesellschaft, Stoccarda 1993, e, sempre a cura degli stessi autori, Von Rhytmen und Eigenzeiten, Wissenschftliche Verlagsgesellschaft, Stoccarda 1995. Si veda anche il n. unico di “Politiche Ökologie”, del 1995, ripubblicato nel 2000, dedicato al tempo in agricoltura e soprattutto negli allevamenti: Zeit-Fraβ zurÖkologie der Zeit in Landwirtschaft und Ernärung. In Italia, in traduzione,. L.Baier, Non c’è tempo! Diciotto tesi sull’accelerazione, Bollati Boringhieri Torino, 2004. Chi scrive ha inaugurato la Third Conference of European Society for Environmental History and Sustainability (Firenze 16-19 febbraio 2005 ) con una relazione dal titolo Ecology of time( cfr. P. Bevilacqua, Ecologia del tempo. Note di storia ambientale, in “Contemporanea”, 2005, n.3.) Si veda da ultimo F. Crespi ( a cura di ) Tempo vola. L’esperienza del tempo nella società contemporanea, il Mulino Bologna, 2005
(2) Su tali aspetti cfr. F.Gesualdi, Manuale per un consumo responsabile. Dal boicottaggio al commercio equo e solidale, Feltrinelli, Milano 2002; e, più specificamente per il mercato alimentare( e per il ruolo positivo che possono svolgere le pubbliche amministrazioni) B.Halweil e D. Nierenberg, Attenzione a quel che si mangia, in Worldwatch Institute, “State of the World 2004, Consumi”, edizione italiana a cura di G.Bologna, Edizioni Ambiente Milano, 2004, p113 e ss.
Pletorico, generico, troppo o troppo poco sbilanciato su certe posizioni: comunque lo si consideri il programma dell’unione è divenuto nelle ultime settimane oggetto di commenti infiniti. Limitatamente allo specifico ambito (i beni culturali) cui è riservata questa nota, non mi annovero fra i detrattori ad oltranza, soprattutto perché preferisco piuttosto una sospensione di giudizio in considerazione del carattere del tutto prevalente di opportunismo elettoralistico che occorre riconoscere al documento e che nell’hinc et nunc della nostra situazione politica era inevitabile. Durante l’elaborazione, consigli e suggerimenti gli estensori del programma ne hanno ricevuti moltissimi, a partire dall’opuscoletto dell’onorevole Melandri (recensito più dell’ultima opera di Saramago).
Fin dalla prima lettura, poi, le critiche hanno preso di mira la genericità dei contenuti, per la verità non particolarmente eclatanti per novità di proposizione (ma non è tempo per coups de théatre e alcune linee guida ben argomentate e ispirate ad una visione complessiva chiaramente delineata, sarebbero state più che sufficienti). Si poteva pretendere di più? Sicuramente, ma è anche vero che c’è tempo per migliorare e proprio in questa direzione e con le cautele sopra richiamate, qualche spunto di lettura per favorire la discussione su eddyburg, proviamo a lanciarlo.
Esercizio di esegesi semiologica prima che semantica, ricollegato all’assunto che una parte del senso si nasconde nel non detto del testo, ovvero, come direbbe Derrida, nei vuoti tra le parole, nei significati sottintesi ai segni, nei silenzi. Ma prima del testo, il contesto. A partire dalla collocazione: in fondo (ma concediamogli il beneficio del “last, but not least” o, più verosimilmente, del ‘beati gli ultimi perchè saranno i primi’...), come a rispettare una gerarchia mentale della politica ormai trasversalmente radicata. A ‘La ricchezza della cultura’ nel suo complesso vengono riservate una decina di paginette, mentre al patrimonio culturale, nello specifico, 3: in tanta sintesi, inevitabili le critiche di lacune e omissioni (e invero per lo meno trascurati, per usare un eufemismo, appaiono interi settori e istituzioni culturali, biblioteche e archivi, tanto per non far nomi).
Rattrista poi la pigrizia intellettuale leggibile nella riproposizione dell’accorpamento beni culturali – spettacolo – sport introdotta da Veltroni e destinata a rimanere, in tutti questi anni, una giustapposizione incapace di apportare alcuna sinergia significativa. E stucchevole per non dire indigesta soprattutto a chi opera nel settore, la retorica del ‘riportare la cultura (genericamente intesa) al centro del quadrante del Paese’ (pag. 269). Che si operi verso un’inversione di tendenza rispetto all’attuale governo è evidentemente più che auspicabile, ma per agire in senso risolutamente alternativo occorrono un chiaro progetto complessivo d’insieme e una definizione altrettanto certa delle risorse da mettere in campo: probabilmente troppo da richiedere ad uno strumento come questo improntato, forse un po’ troppo scopertamente, sull’ottica pubblicitaria del tutto subito e ‘a gratis’. Però il rischio è che se da un lato si rinnega a gran voce la logica mercantilistica dell’equazione ‘beni culturali come petrolio’, dall’altro affermare che ‘la cultura è una fonte unica e irripetibile di sviluppo economico’ e ‘porta evidenti benefici all’industria del tempo libero e del turismo’ (pag. 269) appare tutt’al più un esercizio di eleganza verbale.
Per quanto riguarda la parte introduttiva in ambito culturale, d’altronde, il nesso chiave appare quel ‘distretto culturale’ di troppo evidente conio da ‘distretto produttivo’ per non indurre in cattivi pensieri. E del resto cosa significhi questo new deal della bellezza per citare il testo della Melandri, ce lo spiega molto bene lo stesso ex-ministro: ‘un grande progetto per rendere il tu rismo una carta vincente e unica’ (Panorama, 2 marzo 2006). Concediamo quindi che vi sia, nel nostro schieramento, un ondeggiamento ancora da chiarire fra visione economicista e visione costituzionalista, nel senso ineccepibilmente fornito in una sentenza della Corte Costituzionale (151/1986), laddove non solo si sancisce che il valore estetico culturale non può essere ‘subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici’, ma addirittura deve poter ‘influire profondamente sull’ordine economico-sociale’.
Intendiamoci, come ci esorta l’ex ministro Melandri, non è il momento di fare gli schizzinosi o i puristi, insomma quelli per cui l’arte è al di fuori di qualsiasi meccanismo economico. E del resto, che il nostro patrimonio sia comunque letto come funzionale allo sviluppo del settore turistico anche dai nostri auspicabilmente futuri governanti, ci pare affermazione di tale scontata evidenza da non poter essere rimessa in discussione: basterebbe però, allora, interrogarsi caso mai su quale modello di turismo si voglia puntare, avendo ben chiaro il lapalissiano assunto che se è il nostro patrimonio culturale e paesaggistico – irriproducibile ed irrisarcibile - il motore primo del nostro successo turistico, il meno che si possa fare è salvaguardarlo al meglio, affinchè frutti il più a lungo possibile.
Al di là di queste considerazioni di sapore amarognolo, però, qualche elemento positivo si può recuperare, a partire dalla chiara volontà di ampliamento delle risorse da mettere in campo, così, ad esempio, viene chiaramente espresso (pag.270) l’obiettivo di ricondurre l’impegno finanziario pubblico al livello previsto per il 2001 e quindi dallo 0,5 all’1% del PIL (un po’ poco per riportare la cultura al centro del quadrante del paese, ma indispensabile per restituire quel minimo di ossigeno a strutture ormai asfittiche). Personalmente trovo largamente positivo anche il reiterato accenno (pag. 272) alla necessità di un superamento della dicotomia tutela / valorizzazione che pare prefigurare una revisione della riforma (mai a sufficienza criticata) del titolo V; in questa direzione pare allinearsi anche l’affermazione che propugna ‘l’estensione delle funzioni di tutela a livello di governi territoriali’. Pur in una formulazione resa ambigua dalla forzata sintesi, viene qui ribadita la volontà di superamento di quella contrapposizione stato-regioni che ha caratterizzato in maniera crescente questi ultimi anni in un contenzioso in cui l’unico vero perdente è sicuramente il nostro patrimonio culturale nel suo complesso. Del tutto opportuno, quindi, il tentativo di impedire il replicarsi paranoico di questo corto-circuito perverso per cui, come ha ben sintetizzato Marco Cammelli (‘Diritto Pubblico’, 1, 2002): lo Stato produce regole senza fatti e le regioni producono fatti senza regole. La collaborazione Stato-Regioni non deve essere letta come un vezzo federalista , ma come una scommessa istituzionale obbligata che va guidata, ‘blindata’ attraverso regole e garanzie di alto livello, anche costringendo le regioni a riassumersi quel ruolo di programmazione e coordinamento che negli ultimi lustri hanno troppo spesso preferito delegare ad altri enti locali.
Altrettanto positivamente non può che essere accolto il ritorno al concetto di ‘conservazione preventiva e programmata’ (pag. 272) teorizzato da Giovanni Urbani in anni passati, ma di inalterata attualità.
Per concludere con lo spirito construens che caratterizza eddyburg, provo a mia volta a suggerire alcune indicazioni per il programma che verrà (quello vero), senza pretese di straordinaria invenzione; d’altronde alcuni imprescindibili passaggi sono ormai stati reiterati, da studiosi e operatori del settore, fino alla noia, nella discussione che, pur in maniera frastagliata e disomogenea, si è venuta a creare in tutti questi mesi e che, in questo ambito, ha trovato (complice l’elaborazione prima e gli emendamenti poi al nuovo Codice) nuovo vigore e ricchezza di voci e posizioni (v., per una prima rassegna, www.patrimoniosos.it).
In generale l’asse principale cui vorremmo ispirata la politica culturale del centro-sinistra dovrebbe essere l’erogazione di servizi culturali al cittadino senza fini di lucro perché di interesse pubblico, che incentivino la partecipazione sociale e in grado di ottenere fra le maggiori ricadute positive, oltre a quelle economiche connesse all’attività turistica, altre di non minore importanza sociale, quali il ‘controllo’ della disoccupazione giovanile e dell’esproprio della città ai cittadini.
In questa direzione, prima operazione fra tutte, sarà quella mirata al riequilibrio delle risorse del Ministero, snellendo un centro scarsamente giustificabile nelle sue articolazioni bizantine e potenziando il più possibile strutture e attività sul territorio, anche conferendo ad esse forme di autonomia organizzativa e contabile (a tali fini non trovo inutili, anche se da ripensare, le direzioni regionali, al contrario vivacemente criticate da molta parte della sinistra con motivazioni, a mio parere, non inoppugnabili).
Occorrerà poi imparare a fare delle gerarchie, dei programmi in cui le priorità, condivise fra più attori, siano però chiarissime su tutto il territorio e regione per regione. Uno dei problemi che hanno caratterizzato questi ultimi anni di gestione del patrimonio, dilatato a dismisura dall’ipertrofia che ha conosciuto il corpo centrale del Ministero e le sue direzioni consiste proprio nel rincorrersi, duplicarsi, sovrapporsi di progetti e ricerche del tutto simili per ambito tematico e per finalità, reiterati dalle varie direzioni, spesso in contrapposizione fra di loro e con sperpero di tempi e risorse non più accettabile. Così, sul piano di un allargamento delle risorse, come ha più volte ribadito in particolare, Salvatore Settis (da ultimo in Battaglie senza eroi. I beni culturali tra istituzioni e profitto, Electa, 2005, passim) si dovranno introdurre non più in maniera episodica, ma sistematica, provvedimenti di defiscalizzazione che incentivino le donazioni, mentre assai opportuna potrebbe risultare una revisione della normativa sulle fondazioni bancarie.
Grandi assenti del programma risultano i musei. Fra i più numerosi sul territorio in Europa e nel mondo, fra i meno visitati, fra i meno fruibili, i nostri musei, nella grande maggioranza, non esprimono una visione chiara e palese della propria missione culturale, né della politica culturale che intendono perseguire; mentre note a tutti risultano le scarse capacità progettuali della media delle nostre istituzioni museali. Ora di fronte alla tendenza sempre più dilagante di un loro utilizzo strumentale che, in contrasto con la risaputa scarsità di risorse, tende a sollecitare nuove aperture e faraonici progetti, bisognerà porsi seriamente il problema della funzione culturale e sociale dei nostri musei nel tempo: che senso ha ostinarsi nell’apertura di strutture destinate, in breve volgere d’anni, all’abbandono? Meglio concentrarsi su ciò che può essere recuperato per divenire un servizio (ai cittadini, oltre che ai turisti…), puntando a sistemi più efficaci proprio sul piano culturale prima che economico (nessuna istituzione museale, in nessuna parte del mondo, è in grado di sostenersi esclusivamente con i propri introiti).
Infine, perché davvero, come recita il programma dell’unione, ‘la rinascita culturale divenga strategia per la crescita’ rimane ancora non solo da vincere, ma da combattere la prima di tutte le battaglie: in uno degli ultimi rapporti Censis sull’industria culturale la situazione italiana era così descritta: “i bisogni culturali stentano a trovare una cittadinanza anche a livello istituzionale (…) la soddisfazione dei bisogni culturali primari è demandata alle agenzie educative e scolastiche ma, al di fuori di tale ambito di diritto e di dovere (…), la cultura resta un bisogno privato, soggettivo, quasi voluttuario, senza alcun valore collettivo, un valore esterno all’area della responsabilità sociale”. In più occasioni il nostro Presidente della Repubblica ad esemplare commento dell’articolo 9 della Costituzione, oltre a sottolinearne il carattere assolutamente innovativo rispetto ad altre Costituzioni, ne ha ribadito il ruolo di principio fondamentale della nostra comunità, segnalando, con grande incisività, che ‘la tutela, dunque, dev’essere concepita non in senso di passiva protezione, ma in senso attivo e cioè in funzione della cultura dei cittadini, deve rendere questo patrimonio fruibile a tutti’ (discorso ai benemeriti della Repubblica, 5 maggio 2003).
In questa direzione il lavoro da fare è immenso e appare come una sfida per affrontare la quale serviranno strumenti non comuni. Così, se da un lato occorre acquisire, a partire dal livello politico, una logica della manutenzione continua, imprescindibile base sulla quale fondare tutto il resto occorrerà, però, anche il coraggio di affrontare grandi operazioni culturali. In questo senso non mi ritrovo fra i detrattori (assolutamente prevalenti a sinistra) della società ARCUS: come del resto il programma dell’Unione segnala (pagg. 270 e 273), questo organismo va del tutto riorganizzato, ma un’agenzia che sia in grande di sovrintendere ad opere e progetti di particolare interesse e complessità sul territorio nazionale può avere un’utilità non marginale.
Un esempio a caso? Il progetto fori, buco nero dell’urbanistica capitolina (v. per tutti, su eddyburg, De Lucia) come operazione di rilancio dell’area archeologica forse più famosa al mondo e come volano straordinario di ripensamento della forma non solo urbis ma civitatis.
Inquinamento atmosferico nelle città causato dal traffico privato. Tutti dicono la loro. Nessuno esige di conoscere dati statistici relativi alla qualità dell’aria più estesi e precisi, dimostrativi dello stato effettivo in un determinato spazio.
Prendiamo il caso di Milano e delle famose polveri sottili (Pm10. Particelle incombuste sospese nell’aria o depositate al suolo e sollevate): nel 2005 la soglia di sopportabilità è stata superata per circa metà dell’anno, mentre il numero di giorni limite stabilito dall’Unione europea è di 35. Quest’anno, poi, lo è stata finora in quasi tutte le giornate, sempre in misura molto superiore al livello ammissibile, spesso di tre, quattro, cinque e persino sei volte. Per i non residenti o non frequentatori darò qualche informazione topografica. Sono solo due le centraline funzionanti anche per il rilevamento delle polveri. Le poche altre controllano gli ossidi d’azoto e di carbonio e l’anidride carbonica, componenti peraltro trascurate; l’attenzione sarebbe concentrata esclusivamente sulle Pm10 poiché ritenute causa di danni particolarmente gravi alla nostra salute (ma gli ossidi e l’eccesso di anidride fanno bene?). Le prime sono situate: l’una in via Juvarra, una bella strada residenziale alberata del quadrante urbano orientale, appena al di là – verso Città Studi – della circonvallazione “filoviaria”, ossia la terza cerchia dopo la cerchiolina interna al centro storico (Naviglio interno) e la circonvallazione “spagnola” che lo delimita; l’altra al Verziere, l’ampio slargo (una volta mercato) per lo più a destinazione terziaria sul quale si riversano gli spazi di Largo Augusto, del municipio (una volta Palazzo dei Giureconsulti), di Piazza Fontana e, di qui, dell’abside del Duomo. Comparando le due serie storiche di numeri si deduce che il primato negativo spetterebbe alla prima strada. Ma non sono certo queste, né di via Juvarra né del Verziere, le arie milanesi maggiormente intaccate dai prodotti di scarico degli automezzi a quattro e due ruote, i massimi responsabili del nostro mal respirare, assai più che le emissioni delle caldaie per il riscaldamento degli edifici (salvo il parere opposto del sindaco Albertini, troppo impegnato a non contrastare il traffico privato). Il passaggio di auto, camion, camioncini, moto, eccetera in Via Juvarra non può essere molto intenso; non ce n’è ragione, vale a dire che la strada non appartiene ad alcun primario percorso obbligato a frequenza ininterrotta. Il Verziere, invece, vi appartiene; ma la frequenza e la “massa” non sono quelle di numerosi altri tragitti o sezioni di transito: infatti la direttrice di provenienza dal circondario metropolitano (est) non riguarda zone d’abitazione e d’attività così dense come altre specialmente di N/O, N, N/E; lo spazio non è racchiuso da quinte d’ogni parte.
Voglio dire che le misurazioni disponibili sono ingannevoli, e lo sono con piena consapevolezza dei poteri pubblici. Sono miriadi i tratti e punti della città dove un’eventuale controllo delle polveri (e altro) rivelerebbe quantità talmente elevate da costringere le autorità comunali e prefettizie a richiedere lo stato di calamità “artificiale”, non c’entrando nulla la natura ed essendo gli uomini gli esclusivi colpevoli, per cosa hanno costruito e per come si comportano. Basti l’esempio della cerchia del Naviglio interno, calibro modesto, nessun albero, senso unico salvo per l’autobus. Il torrente dei mezzi è continuo o ristagna ininterrotto come davanti a una diga, le cortine edilizie corrono sui lati senza interruzioni a designare una tipica rue corridor o, nomen omen, strada canale. Una centralina in Via Senato, il segmento nord-orientale della cerchia, se ne sta inerte davanti all’enorme volume di gas pieni di particelle solide emessi da quante decine di migliaia di transitanti motori ogni giorno non si sa, giacché il Comune, che lo sa o potrebbe facilmente stimarli, non lo vuol comunicare: forse per esonerare i milanesi e i foranei city user dai propri spaventi se non dai complessi di colpa quali avvelenatori autorizzati. Insomma, una strada come Juvarra è giornalmente sbandierata come caso di massimo inquinamento da traffico, un’altra come Senato è ignorata mentre ogni milanese ne percepisce lo stato effettivo gravido di rischio svenimento per lo spaesato pedone (e il bambino nel carrozzino?).
È l’intera città a vivere morendo entro una gigantesca nuvola di quasi-solido smog, con larghi grumi di intensificazione incommensurabile in punti tratti aree che un buon urbanista conoscitore del territorio milanese può elencare facilmente (non occorrono specialisti del traffico, talvolta esclusivi pericolosi amanti di tecnicismi). Analoga è la condizione della cosiddetta – dal governo regionale – area omogenea o area critica, ossia le aree di Milano, Bergamo, Como, Brescia e Sempione; ma sappiamo che è tutta la Lombardia a partecipare all’abbuffata, come hanno dimostrato da un lato il Consiglio regionale votando all’unanimità (assente il presidente Formigoni) la richiesta alla giunta di designare come “area critica” l’intera regione, da un altro lato molti sindaci dichiarando consenso a misure di scala regionale anche drastiche avverso il traffico privato, a condizione che riguardino davvero l’intera Lombardia o un territorio poco meno vasto. D’altronde la situazione di altre regioni è simile e tutte le città italiane sono condizionate dall’eccesso di automezzi privati, anche le piccole che solo vecchi slogan ormai privi di senso fanno ritenere meglio vivibili.
I pareri circa i provvedimenti, a parte i rari e occasionali già presi da autorità pubbliche in maniera da farli sembrare inutili, sono svariati e quasi tutti volti a diminuire l’inquinamento dell’aria come fenomeno in sé e perciò pensando alle automobili appunto quali mezzi inquinanti. Tant’è vero che si discute di marmitte catalitiche e no, di carburanti sporchi e puliti, di motori da Euro 0 a Euro 4-5, di orari di transito, di ticket d’ingresso al cuore della città, di targhe alterne e così via secondo un mucchietto di idee che, anche quando sembrano superare il mero problema dell’aria come il ticket o le targhe alterne, non riescono a precipitare in un progetto semplice ma chiaro e conseguente rapida attuazione. Mi sbaglio, in verità esiste una posizione unificante conclusiva dei dispareri: ognuno dice che la tal misura è solo palliativa, provvisoria, di emergenza, se non inutile in attesa di interventi strutturali, allo scopo, ripeto, di respirare aria migliore. Allora, se tutti i mezzi motorizzati non scaricassero fumi dannosi, se, per esempio, funzionassero ad alcol, o, prospettiva meno irrealistica, se tutte le auto fossero dotate di motori ultimo grido, nessun provvedimento “strutturale” occorrerebbe per limitare il trasporto privato? Ebbene, proprio questa è la pensata degli amministratori pubblici nei Comuni e nelle Regioni, e anche di certi esperti sé-designati e liberisti. Cosa significa “intervento strutturale”? I nostri non lo sanno o, immaginandolo, tacciono.
Un bell’articolo di Guido Viale (Repubblica del 21 gennaio, p.18) la dice finalmente giusta in materia di inquinamento urbano e di traffico. Non potrebbero essere considerati interventi strutturali – ossia risolutivi, ma anche urgenti – né parcheggi sotterranei (una mania milanese, annoto, che sta contagiando altri Comuni) o in elevazione, né semafori ‘intelligenti’, né sotto o sovrappassi: tutte soluzioni “che non fanno altro che richiamare più auto, più congestione più inquinamento”. Né serve discutere ora di idrogeno o metano, cioè rinnovo di parco macchine e di reti distributive fra 15-25 anni. L’inquinamento dell’aria non è di per sé il principale nemico degli abitanti della città, lo è soprattutto “l’occupazione delle strade da parte delle auto”, in movimento e, ancor peggio, parcheggiate. Insomma “è il traffico privato a essere incompatibile con la vita urbana e l’unico intervento strutturale che può funzionarie è ridurre – il più drasticamente possibile, anche se in modo graduale – il numero dei veicoli in circolazione”. D’altra parte, in vista di probabili crisi energetiche “i blocchi del traffico potrebbero essere una scuola per allenarsi e abituarsi gradualmente al mondo di domani”. In questo modo i mezzi pubblici attuali potranno muoversi agevolmente e nuovi moderni mezzi a richiesta rendersi disponibili, gli abitanti ritornare a camminare e a pedalare, penso su ciclopiste facilmente realizzabili grazie alla riconquista di spazio stradale. Bisogna “sperimentare, un po’ per volta , come far funzionare bene – e meglio – le nostre città; anche senza obbligare i loro abitanti a possedere e utilizzare un’auto propria”.
Musica per le mie orecchie o festa per i miei occhi l’articolo di Viale. Ritorniamo a Milano. Già oltre vent’anni fa entravano in città ogni mattina attraverso i confini comunali 500.000 automobili. Fu la giunta di sinistra, allora, a resuscitare la politica dei parcheggi sotterranei nel cuore urbano (dopo la costruzione negli anni Sessanta dell’orribile silos multipiano sotterraneo nella storica piazza Borromeo) attraverso concessioni di diritto di superficie su suolo pubblico a imprese private. Non ci fu possibilità di far capire agli amministratori comunali il colossale errore, dal momento che costruire parcheggi in centro significava richiamare sempre più traffico automobilistico nelle aree dove avrebbero dovuto limitarlo se non espellerlo. Oggi si discute se le entrate di auto superino di molto o di poco le 500.000, due anni fa funzionari della vigilanza urbana parlarono di 800.000. La giunta di centrodestra, da dieci anni dedita a una politica uguale ma assai più energica, tuttavia rallentata dalle contestazioni degli abitanti, l’ha intensificata dal 2004-2005 con una decisione e violenza costruttiva che pare terrorismo urbanistico e ambientale (si può leggere nel sito l’articolo Perché no, un parcheggio dentro il Duomo?, 25.6.05).
Poiché il traffico dei mezzi privati, inquinanti o no, è il nemico numero uno della vita urbana, le amministrazioni comunali che vogliano identificarsi con una politica progressista, opposta al moderatismo liberista che ha lasciato le nostra città in loro balia (contrassegno dei governi locali di destra ma non solo), dovrebbero da subito prendere le seguenti misure, inquadrandole però nella riaffermazione della pianificazione urbanistica e nella prospettiva dell’istituzione delle aree metropolitane:
-negare la politica dei parcheggi sotterranei, ma anche di superficie, nel cuore della città;
-localizzare parcheggi esterni in relazione alle diverse zone periferiche, al circondario extra-comunale e alle direttrici stradali, realizzarli evitando terreni agricoli e scegliendo gerbidi o aree di risulta non recuperabili né per agricoltura né per giardini, oppure integrarli nella ristrutturazione a destinazione sociale di eventuali aree dismesse;
-abolire l’obsoleto principio di “far scorrere, facilitare” le automobili, invece ostacolarle, render loro la vita difficile, se così posso dire; regolare ordinatamente il loro transito dove è plausibile accettarle adottando il metodo del calming traffic, evidentemente sconosciuto in Italia e applicato in diversi contesti europei e americani;
-impedire ogni forma di parcheggio non regolamentata e non onerosa, prima di tutte l’occupazione dei marciapiedi e dei parterre nei viali;
-realizzare aree pedonali in ogni quadrante della città ammettendo il transito dei soli mezzi pubblici, e zone semi-pedonali destinate a calmino traffic;
-costruire, utilizzando anche lo spazio sottratto alle automobili, piste ciclabili come rete di effettivo trasporto alternativo capace di assorbirne almeno il 10-15 %;
-rifondare la rete e i mezzi del trasporto pubblico, vale a dire aumentarne l’estensione, la durata e la frequenza sulla base di alcuni punti fissi: riproporre, come nella tradizione migliore, linee interperiferie passanti per il centro città; evitare linee troppo corte attestate nel centro; proteggere i percorsi dal traffico privato; impiegare mezzi di capacità di trasporto non troppo elevata, contraddittoria rispetto alla frequenza (questi punti rappresentano l’esatto contrario delle scelte attuali di Milano e certamente di altre città);
-ricorrere alle targhe alterne, alle giornate franche dai mezzi privati e ai ticket d’ingresso nel cuore urbano finché non si sarà ottenuta una forte diminuzione della loro circolazione;
-contrastare, esigendo il rispetto delle regole e delle limitazioni, un doppio anarchismo non secondario nemico della vita urbana: di motociclette e motorini, di mezzi commerciali per il carico e lo scarico delle merci (per Roma Milano Napoli Firenze Bologna… si possono accusare i municipi di tolleranza scandalosa).
Milano, 1 febbraio 2006
CR
“Una pista. Stretta, impervia, difficile.” Così, in occasione della recente nascita di una sezione italiana della Sinistra Europea, Bertinotti ha descrittto il cammino che attende il nuovo soggetto politico. “E tuttavia senza alternative,” ha aggiunto. Pista che è necessario percorrere, imposta dalla gravissima crisi - della politica, della civiltà, del capitalismo - che il mondo attraversa.
Impresa comunque formidabile e di fatto tutta da inventare. Se in tanti ormai siamo convinti che un mondo diverso è necessario e forse anche possibile, e più o meno concordemente indichiamo nelle crescenti disuguaglianze e nella devastazione della natura l’inaccettabilità del mondo attuale, la sua intrinseca incurabile insostenibilità, resta il fatto che nessuno finora ha detto in che modo sostituirlo. Anche perché a dissestare gli equilibri ecologici e a reggere un sistema sempre più iniquo, sono gli stessi meccanismi economici che a lungo hanno migliorato la vita dei popoli industrializzati, e ancora oggi, sebbene a costi sociali vergognosi, creano enormi ricchezze. Ciò che fornisce alibi alla peggiore destra, ma anche tra le sinistre crea illusioni sbagliate, rigidità, contraddizioni.
E questo a me pare un nodo cruciale per la giovanissima Sinistra europea. Perché la necessità di dare (provare a dare) contenuti a “un’alternativa di società”, a quel “diverso modo di produrre, distribuire, consumare” proposto nel documento conclusivo del recente congresso di Atene, non può prescindere da un altro cogente impegno, relativo alla definizione del proprio corpo sociale. Che non basta nominare, indicando i movimenti come interlocutori privilegiati, e allargare e diversificare, aprendo a una molteplicità di soggetti - persone, associazioni, gruppi - come la neonata Sezione italiana prevede, ma che solo il collante dei contenuti può in definitiva trasformare in un “corpo” appunto, pensante e operante per un obiettivo condiviso. E’ sicuro che esistano già le premesse di un processo di questo tipo? Che, dopo le necessarie e intelligenti scelte fondative già operate, non occorra una serie di verifiche, di confronti, e magari di scontri, tali da far chiarezza su una serie di problemi decisivi per un’idea di società “altra”?
Non è un segreto che all’interno delle sinistre radicali su certi temi esistano dissensi e anche opinioni nettamente diverse, da cui nascono scissioni, frazionismi, stanchezze, fughe. Il dibattito su crescita e consumi svoltosi l’estate scorsa su queste colonne ne è stato un test significativo. E ha confermato il fatto, anch’esso ben noto, che una certa parte delle sinistre antagoniste resta tuttora fedele a dogmatismi e certezze veterocomuniste, che paradossalmente la portano a condividere - seppure da prospettive opposte - alcuni aspetti dell’impianto teorico sostenuto dalle vituperate socialdemocrazie, in sostanza coincidenti col paradigma economico neoliberista. E’ il caso dello “sviluppo”, fermamente difeso da consistenti fascie di queste sinistre, ivi compresi non pochi giovani dei movimenti, come irrinunciabile viatico al progresso sociale; valore non di rado esteso a un’indifferenziata crescita produttiva. Mentre sembra ignorararsi il fatto che da sempre, e oggi più che mai, sviluppo e crescita sono strumento dei meccanismi di accumulazione, base imprescindibile della macchina capitalistica, e dunque del neoliberismo, forma attualmente attiva del capitale; che non è pertanto pensabile combattere questo accettando o addirittura promuovendo quelli. E mentre (anche a causa della tradizionale grave sottovalutazione della crisi ecologica da parte di tutte le sinistre) manca ogni considerazione del fatto che ormai la totalità della comunità scientifica internazionale pone lo squilibrio ecologico planetario in diretto rapporto con un’ economi di cui regola e fine è la crescita del prodotto appunto. Così che in questi ambiti ogni critica del consumismo spesso trova forti resistenze, che non sono solo sacrosanta difesa di un benessere da poco raggiunto, ma rifiuto a distinguerlo dai vizi indotti dall’iperproduttivismo capitalistico e dal sistema mediatico al suo servizio. Un’approfondita discussione su questi temi credo sarebbe indispensabile prima di tentare un’ipotesi di società che non accetti più merce e mercato come base della propria determinazione.
Accennavo sopra alle vituperate (dalle sinistre radicali) socialdemocrazie. L’area cioè nel cui grembo dopo il disfacimento dell’Urss sono confluite in gran massa le sinistre - quelle rimaste attive in quanto tali - ivi compresa buona parte dei partiti ex-comunisti. Area accettata oggi come unica opposizione possibile da quanti recisamente rifiutano adesione alle destre ma trovano difficile anche riconoscersi nelle sinistre radicali, e tuttavia vedono l’ambiguità e la pochezza di un’opposizione per lo più limitata a rivendicazioni minori, che in nessun modo mettono in causa l’ordine dato ed esse stesse nascono con ben poca possibilità di successo; un’opposizione insomma del tutto priva di idee proprie, come dimostra, spesso nel modo peggiore, quando le accade di governare. Forse non sarebbe fuori luogo dedicare attenzione a questo vasto elettorato, fatto di gente che in passato votava - o addirittura militava - comunista o socialista, fuggita dai partiti dopo la caduta del muro, disgustata della politica attuale, che però riempie le piazze contro la guerra e in difesa dei diritti civili, che quando vota una qualsiasi formazione soacialdemocratica lo fa soltanto per non dare spazio alle destre, ma spesso non vota affatto per la mancanza di una convincente ipotesi “altra”. Il possibile recupero di una parte almeno di questa sinistra solo in apparenza assente, non è estraneo al convergere tra “contenuti” e “corpo sociale” cui accennavo sopra come a un problema di cruciale rilevanza nel progetto della Se; e potrebbe diventare decisivo quando a questo progetto si guardi non come all’ultima utopia di pochi temerari, ma come a una concreta proposta politica, sostenuta da un nutrito “popolo di sinistra”.
E anche di questo credo meriterebbe discutere collettivamente. Dicendosi con tutta chiarezza che, se cambiare il mondo è da sempre l’obiettivo delle sinistre, è altrettanto vero che le strade indicate in passato a questo fine oggi non servono più, non solo perché il mondo da allora è radicalmente mutato, ma perché quelle strade si sono rivelate (talora catastroficamente) fallimentari. Insomma i vecchi sogni di assalto al Palazzo d’Inverno che qualcuno ancora coltiva, oggi non sono solo impossibili ma nemmeno più desiderabili; e proprio la fedeltà di alcuni a quei sogni rischia di allontanare non pochi che potrebbero essere attratti dal programma Se. Oggi non è più tempo di rivoluzioni traumatiche e cruente: oggi occorre sì una rivoluzione ma di tutt’altra natura, capace di disintossicare passo passo la società da un inquinamento culturale e mentale che, in nome del mercato e delle sue “leggi”, l’ha penetrata capillarmente, alla dimensione della merce omologando ogni scelta e ogni rapporto, per creare consenso a un sistema che vive sul crescente sfruttamento del lavoro, sulla spoliazione della natura e sulla guerra.
Sono solo accenni a una serie di questioni che credo la Se debba affrontare prima di avventurarsi su quella “pista” che si annuncia irta di enormi difficoltà. A cominciare dai rapporti con la stessa Unione Europea, che per prime le sinistre antagoniste con ragione criticano severamente: corpaccione sovradimensionato, iperburocratizzato, indebolito da risorgenti nazionalismi, interamente appiattito sul modello neoliberistico, di fatto privo di identità, malgrado le periodiche rivendicazioni di vano sciovinismo, i saltuari sobbalzi di autocelebrazione, i rari e subito rientrati tentativi di autonomia in politica estera. Possibile che questa nuovissima sinistra plurinazionale, certo una delle più felici iniziative politiche oggi in corso, dotata di una vitalità rara di questi tempi, ma inevitabilmente ancora gracile, riesca a “smuovere il pachiderma”?
C’è però un altro modo di vedere le cose. L’Europa, con tutte le sue tremende colpe (colonialismo, shoà, due spaventose guerre mondiali, ecc.) è madre di uno dei massimi patrimoni culturali del pianeta; è sì culla del capitalismo, ma anche del socialismo e dello Stato sociale; è patria dell’illuminismo, del diritto alla libertà di pensiero, del valore della cittadinanza. Sono conquiste fondamentali della vicenda umana. E chi si interroghi su un possibile soggetto capace di caricarsi dei tremendi problemi che squotono il mondo oggi, non può non pensare Europa. Una grande potenza per vastità, popolazione, capacità economica, la sola che sarebbe in grado non certo di sfidare l’impero Usa sul piano militare e strategico (cosa insensata quanto indesiderabile), ma sì di provare a pensare, programmare, vivere se stessa secondo valori e fini diversi da quelli dominanti, tentando di distinguersi dalmodelloimposto dagli Usa al mondo; cui inevitabilmente seguirebbe una diversa razionalità nel dividere e organizzare il lavoro, nel creare e distribuire ricchezza, nel produrre e consumare. Come è stato detto, potrebbe significare per l’Europa “iniziare a cambiare il mondo partendo da se stessa”.
Le cose d’altronde non avvengono per caso. La nascita della Se si colloca in un momento in cui, se tanti e duri sono gli ostacoli pronti a sbarrarne il cammino, non pochi sono però i segnali che sembrano poterlo favorire o addirittura sollecitare. Provo a citarne alcuni. La recente vittoria di Morales in Colombia è l’ultima di una serie elettorale che con il Brasile di Lula, il Venezuela di Chavez , l’Argentina di Kirchner, ha cambiato la faccia politica dell’America latina, confermandone la tendenza a sottrarsi all’antico controllo Usa, da anni emersa con il moltiplicarsi di movimenti indigeni in Messico, Bolivia, Ecuador, Guatemala, Perù, che hanno accolto con pubbliche proteste la recente visita ufficiale di Bush. E’ un fatto enorme, non solo per la sua vastità che in pratica coinvolge mezzo continente, ma per la sua qualità che va oltre le questioni strettamente economiche, riguarda diritti umani, problemi ambientali, indipendenza culturale, e - sostiene Chomsky - abbozza modelli socioeconomici alternativi. Inoltre in Sudamerica è ormai pratica diffusa intrattenere rapporti commerciali preferibilmente con paesi del sud del mondo, come India e Sudafrica. Insomma, per una Cina furiosamente impegnata a riprodurre su scala gigante e spingere a ritmi mai visti la gran macchina del capitalismo occidentale, non sono pochi i popoli emergenti che sembrano invece defilarsi dal dettato americano e sfuggire all’attrazione fatale del suo modo di vivere.
Altri eventi, sebbene di natura tutt’affatto diversa, sembrano muoversi in direzione analoga. Penso al fatto che con crescente frequenza la brutale scelta della Casa Bianca a favore della prosperità economica contro ogni salvaguardia ambientale, viene bocciata anche da paesi alleati (vedi il divieto canadese a trivellazioni di compagnie Usa in cerca di petrolio in Alaska) o addirittura da Stati dell’unione (non pochi di essi, California in testa, hanno optato per l’applicazione autonoma delle direttive di Kyoto, respinte dal governo centrale). Ma penso soprattutto alle tante iniziative “dal basso”, dalle manifestazioni di agricoltori contro il recente G8 di Montreal sul mutamento climatico alle nostre Scanzano, Acerra, Mugello, ecc. Battaglie di popolo, che non solo contestano l’irresponsabile indifferenza dei governi verso l’emergenza ambientale, ma sempre più tendono a supplirla. Esemplare in questo senso la vicenda TAV, che ha trasformato il dibattito su un problema locale in decisa e argomentata critica non solo di operazioni devastanti quanto non necessarie, ma dei concetti che ne sovraintendono la scelta, e quindi dei presupposti che guidano l’intero impianto economico. In realtà una nuova consapevolezza su questa materia, inesistente nel mondo politico, sembra stia nascendo tra la gente. Un recente sondaggio apparso su Repubblica ci dice che il 63,2 per cento degli italiani teme la catastrofe ambientale molto più (con un distacco di oltre 10 punti) che terrorismo, criminalità, perdita del lavoro, e quant’altro di solito maggiormente preoccupa.
E in questo complesso panorama del dissenso può collocarsi anche un’altra, diversissima, categoria di eventi, come lo sciopero prenatalizio dei mezzi pubblici di New York, e quello di recente realizzato su scala planetaria dai dipendenti della gigantesca catena di distribuzione Wall – Mart: eventi da più parti letti come ripresa del conflitto, ma con modalità che non hanno precedenti, come è logico che accada in un mondo radicalmente mutato. Una Sinistra europea che colga e porti a sintesi politica questa serie di segnali “anti-sistema” (peraltro assai più ampia di quanto sia qui possibile dire) forse potrebbe farsi battistrada per l’intera Unione nel tentativo di affrontare i tanti problemi che - dalla crisi ecologica planetaria, alle migrazioni, all’aumento della povertà, alla trasformazione del lavoro e dei rapporti economici - solo a livello sovranazionale oggi possono sperare soluzione. In un impegno che apporterebbe chiarezza anche ai problemi interni dei singoli paesi, essi pure in massima parte ormai inscindibili dalle vicende del mondo.
Tentare di mettere a punto fin d’ora il modello “alternativo” per cui lavorare sarebbe presuntuoso quanto vano. Progetti di questa portata non possono trovare definizione se non nel loro farsi, pur tenendo fermi alcuni obiettivi strategici. E l’indicazione della non-violenza, che va assai oltre il rifiuto e la condanna della guerra, di per sé in qualche misura prevede scelte decisamente “altre” rispetto a quelle oggi imperanti: la perdurante asimmetria del rapporto tra i sessi, l’abuso del lavoro, la spoliazione della natura, la privatizzazione dei beni comuni, la competitività come regola che dal mercato dilaga e invade la vita, che altro sono se non violenza?
[ Questo scritto è stato pubblicato anche da Liberazone , il 7 gennaio 2006]
Nota: per i temi fondativi della Sinistra Europea discussi ad Atene, su Eddyburg anche questo articolo dal Guardian (f.b.)
Cerco di non pensare, ma poi penso, ai principi che contraddistinguevano la posizione della sinistra tanti anni fa, sia quando ci accingevamo alla lotta per la conquista di un Comune, sia quando esercitavamo, per così dire, il potere nell’amministrazione municipale: potere che peraltro doveva misurarsi con determinate forti limitazioni oggi sconosciute. Anzi oggi, a seguito delle norme varate unanimemente dai partiti anni fa, i poteri di sindaci e giunte (di presidenti e giunte di Regione) sono talmente ampi e spesso non confutabili da suscitare preoccupazione in merito all’esercizio della democrazia.
Da un lato, allora, le assemblee comunali erano luoghi e tempi reali del dibattito e nulla, nessun problema, nessun progetto poteva essere sottratto alla discussione pubblica e al controllo democratico dei Consigli; da un altro lato l’occhiuta rappresentanza locale del governo, il prefetto, più che verificare l’ammissibilità legale delle deliberazioni, cercava ogni modo per interdire le scelte democratiche adottate dalle amministrazioni di sinistra quando tali scelte, distinguibili per essere “qualcosa di sinistra” (come richiese il regista Moretti ai dirigenti diessini di dire durante una famosa manifestazione dell’opposizione), non erano gradite al governo centrale e, specificamente, al Partito democratico cristiano locale.
Altri tempi, altre condizioni si dirà. Vero, ma chi ha agito nelle battaglie politiche di allora e nel confronto consiliare secondo principi che non sono stati travolti dalla corrente della storia giacché principimoralmente alti, deve oggi sopportare un doppio disagio: per l’eccesso di poteri concentrati in persone e gruppi ristretti, di destra o di sinistra che siano; per essere ricorso, il centrosinistra a Milano, a un ex prefetto quale candidato a sindaco. Attenzione: l’ex prefetto milanese Ferrante, per quanto si conosce, è una persona ed è stato un funzionario statale estraneo ad atteggiamenti e azioni scorretti. Ma: è sorprendente e tristissima cosa che i due maggiori partiti del centrosinistra abbiano dovuto rivolgersi al di fuori della cultura progressista dopo l’affossamento della candidatura dell’uomo di scienza Veronesi; è imbarazzante, per me e tanti altri, dover per così dire negare il sentimento del passato come arcaico rottame per accedere al “nuovo” presente. E’ chiaro che sarà Ferrante il prescelto alla fine, soprattutto dopo il recente esplicito invito (un ordine per gli iscritti) dei dirigenti Ds, irriguardoso verso gli altri candidati, a votarlo alle primarie del 29 gennaio. Tuttavia, per non ridursi a uno stupido rito, l’occasione di tale votazione può essere colta al meglio, vale a dire non trascurando l’apporto di tutti i designati a illustrare e poi attuare il programma per un’altra Milano da quella odierna dominata da finanzieri, immobiliaristi, commercianti, personaggi e classi rispecchiate perfettamente nell’attuale amministrazione e senza dubbio da una temuta futura giunta Moratti.
Così, propongo di votare alle primarie Dario Fo, che, a parte il sostegno direi ovvio di Rifondazione comunista, rappresenta l’alternativa più autentica agli attuali amministratori. Questi, pericolosi decisionisti illiberali per parte loro o spettatori verso l’appropriazione della città da parte dei detti personaggi e classi, l’hanno ridotta a quel coacervo di abbandono produttivo, decadimento commerciale, dissoluzione sociale, disordine urbanistico e bruttezza ambientale che può valutare solo chi ha conosciuto l’affabile Milano d’antan e oggi può illustrarla ai giovani inesperti e disattenti.
Dario Fo, conoscitore della nostra città come pochi altri, non ha bisogno di essere raccontato, lui il più grande narratore esistente in Italia, premio Nobel meritato per eccellenza d’arte letteraria e d’impegno sociale, spesso offeso dai piccoli quaracquacqua di qui, raduna nelle sue proposte elettorali (che sono già note, anche per la passione con cui le ha diffuse) ciò che la sinistra culturale, in mancanza di una forte dedizione di quella politica, ha dichiarato necessario attuare, per risolvere, senza velleitarismi, le attuali difficoltà vitali di gran parte dei cittadini, non solo quelli a minor reddito.E’ certo, lo ripeto, che dalle primarie sortirà Ferrante quale rivale di Letizia Moratti. E, a quel momento, gli altri candidati del centrosinistra e noi tutti lo sosterremo con la massima decisione. Ma il voto per Dario Fo, a mio parere, può rappresentare molto di più che un gesto amicale e sentimentale; potrà servire per spingere la futura formazione di centrosinistra se al governo della città a pensare e a realizzare quel ”qualcosa di sinistra”, appunto, con tutto ciò che questo oggi significa, che tanti non ne possono più di aspettare.
Milano, 13 gennaio 2006
Non un bilancio, un semplice richiamo alla memoria, per annotazioni quasi cronologiche, di casi e cose da me e altri proposti in eddyburg, per ragionarvi brevemente ora, Capodanno 2006.
-Dopo l’esplosione dello tsunami molti sembrano riscoprire l’esistenza del rapporto fra l’uomo e la natura secondo un senso dimenticato, quello del rispetto dovuto dal primo verso la seconda. Ciampi nel discorso di fine d’anno accenna chiaramente al “dovere di difendere la natura”, una pratica in disuso.
Sorprendente, riguardo al problema improvvisamente imposto dalla tragedia, la mancanza di una sostanziosa rielaborazione della sinistra, quantomeno quella parte che non aveva negato totalmente la formazione culturale marxista. Furono Darwin e Marx-Engels a trovare il centro della questione uomo/natura e, chiudendo la porta a determinismo, meccanicismo, necessarismo, a offrire la possibilità di porsi in modo nuovo davanti alla storia del mondo.
Dov’erano, penso, i capi eredi della “vecchia sinistra” (Salzano)?.
-Forzisti, fascisti, centristi, moderati e riformisti accusano l’Unità e in particolare il direttore Furio Colombo di essere gl’istigatori del lancio del treppiedi a Berlusconi. Silenzi o consensi di troppi giornalisti. Colombo verrà presto “licenziato”. Saranno i vertici dei Democratici di sinistra a esigerlo, su indiretta (o diretta?) richiesta del capo del governo. Furio dirà che, secondo loro, il giornale era troppo radicale.
Non sopportavano che fosse impegnato senza riguardi e senza sosta a denunciare le malefatte di B. e dei suoi. C’è persino qualche diessino importante che non può attaccare Berlusconi dal momento che ne dipende indirettamente: per esempio il senatore collaboratore fisso al settimanale “Panorama”.
-La Baia di Sistiana, il golfo più bello della costiera giuliana, è sempre sull’orlo del pericolo di gigantesca edificazione, anche se il WWF e Italia Nostra ottengono dal Tar la sospensione dei lavori nella parte occupata dalla cava di pietra. Ma l’orribile progetto di una “nuova Portofino” tornerà alla luce. È nota la collusione fra gl’imprenditori, il Comune di Duino (centrodestra) e la Regione FVG (centrosinistra), tutti decisi ad accordarsi in pro dello “sviluppo”.
Il presidente Illy propende a dire e a fare cose di destra, non di sinistra.
-Corridoio 5 dell’Alta velocità. Il prevedibile massacro di un buon tratto del Carso non richiama l’attenzione della sinistra. Anzi, il centrosinistra della Regione FVG sembra trovarlo inevitabile.
Oggi, mentre la Val di Susa è in subbuglio a causa dei lavori per la Torino-Lione, la sinistra, o il centrosinistra, invece che presentare una Mercedes irragionevole sostenitrice, dovrebbe negare decisamente un’opera di tale natura in un paese dove è l’intero sistema ferroviario “normale”, linee secondarie comprese, incompleto e in stato pietoso, ad aver bisogno urgente di interventi secondo un programma politicamente e tecnicamente preciso.
-Il centrosinistra locale vuole ostinatamente il porto da 500 barche, con relative case per 150.000 metri cubi, alla foce dell’Arno presso la tenuta di San Rossore. Esce un documento di opposizione radicale al progetto firmato, fra altri, da Salzano, Cervellati e dal soprintendente Paolucci.
Intanto la Regione Toscana, in specie il suo presidente diessino, rivaleggia col ministro Lunardi non per contrapporre l’adeguamento dell’Aurelia alla sua variante autostradale tirrenica che sconvolgerebbe il paesaggio collinare; ma per proporre un proprio tracciato che lo ferirebbe e corroderebbe un po’ più vicino alla costa.
Cosa c’è sotto l’attuale silenzio?
-All’Isola d’Elba, Marina di Campo, i cento grandi pini a ombrello già noti per minacce precedenti di abbattimento non hanno pace. L’amministrazione di centrosinistra vorrebbe, di nuovo, abbatterli adducendo ragioni cretine (danni delle radici, disturbo delle fronde…).
Le piante sono ancora lì, oggi. E’ forse servita, insieme alla mobilitazione degli ambientalisti locali, la lettera di protesta e opposizione inviata, già prima, da una trentina di professori del Politecnico di Milano.
Invece, sui monti di Bormio e della Valtellina, gli alberi sopravvissuti allo sterminio del 1985 voluto per favorire i campionati del mondo di sci, furono abbattuti grazie al nuovo campionato. Come prima la sinistra, è il centrosinistra ad aver rilasciato il decreto di morte.
-L’urbanistica sarebbe una cosa, i beni culturali sarebbero tutt’altra. La nuova normativa non scandalizza l’opposizione politica. Si mobilitano gli urbanisti “buoni” sollecitati da Vezio De Lucia, ma persino il nuovo presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica, neo-liberista, critica la legge delega per l’ambiente. La sinistra sembra non accorgersi che la nuova legge urbanistica Lupi è pensata al servizio degli imprenditori e speculatori privati. Anzi, nel centrosinistra sotto sotto non mancano consensi e compartecipazioni al progetto. “La forte integrazione fra urbanistica e tutela paesistica” (Fabrizio Bottini), negata dalla legge Lupi, appartiene alla migliore tradizione dell’urbanistica italiana dagli anni Trenta.
I nostri amici della politica non ne sanno nulla. La nuova legge, sostenuta esplicitamente da alcuni dei Dl e non ostacolata decisamente dalla sinistra, ha ottenuto l’approvazione silente della Camera. Spero che le vicende preelottorali costringano a rimandarla alla prossima legislatura. Vedremo.
-Un gruppo di urbanisti, professori universitari, ambientalisti, allarmati per il temuto destino di Baia Sistiana, scrivono al presidente Riccardo Illy e al sindaco di Duino Aurisina Giorgio Ret. Chiedono per l’immediato: negare ogni ripresa dei lavori alla cava di pietra, accantonare qualsiasi progetto di intervento nel luogo e nel contesto territoriale, avviare le procedure per conseguire il vincolo di inedificabilità totale e di conservazione assoluta della situazione paesaggistica esistente.
Sappiamo ora che né la Regione né il Comune hanno abbandonato l’alleanza con le imprese per realizzare l’orribile insediamento turistico-residenziale con relativo porto. Solo il WWf e Italia Nostra non mollano, ricorsi e controricorsi al Tar, campagna di stampa, mobilitazione incessante. Pensate a cosa costringe la condivisione del potere: i verdi friulani, alleati di Illy, hanno dovuto sostenere sempre la bontà dell’iniziativa.
-“Turismo inquinante”, Carla Ravaioli rompe un tabù cui soggiace da sempre anche la sinistra. La quale nel corso dei sessant’anni dal dopoguerra non è riuscita a delineare una chiara visione del problema turistico diversa da quella trionfalista e populista dei governi; del resto non è stata capace di costruire una propria politica nazionale riguardo a territorio città pianificazione. Distinzione della sinistra e del centrosinistra a scala locale? Troppe amministrazioni comunali e regionali hanno permesso anche loro vasti dissesti territoriali dal momento che non si volevano creare ostacoli alla ricca domanda.
Oggi tutto va avanti come sempre. Anzi, il forte decisionismo concesso a presidenti, sindaci, giunte dalla legge sui poteri locali di anni fa ha leso il diritto ai controlli democratici dei vecchi consigli; e il fascino del potere politico-amministrativo semi-assoluto ha talora travolto gli enti nella collusione con gli speculatori immobiliari.
-In evidenza la domanda: quale cultura possiede e trasmette il Pds? E quale la sinistra detta radicale, alias Rifondazione comunista? Osservatori che ragionano secondo una visione ampia dei problemi sociali e ambientali notano l’inadeguatezza culturale dei politici presunti di sinistra cui affidare il proprio consenso. La denegata politica culturale del Pci, si domandano, non contava molto di più entro il divenire sociale del paese e non aveva permesso di superare il modello del moderatismo e confessionalismo democristiano?
I nostri amici politici, presumendo di collocarsi nella modernità, si lasciano incantare da “sviluppo!”, “crescita!”, “sviluppo sostenibile”!: nauseanti nominalismi che vediamo ancor oggi coinvolgerli in discussioni economicistiche nulla c’entranti con la necessità di indicare una prospettiva riferita, anziché alla fuorviante aritmetica del Pil, all’effettiva diffusione di una buona qualità dell’esistenza per tutti.
-Estesi timori che l’opposizione, sinistra compresa, non colga la vera portata distruttiva del programma governativo, già in via di realizzazione, che definisce l’impiego delle enormi risorse di beni culturali e ambientali, ovunque esse si manifestino, per creare posti di lavoro, aumentare la ricchezza, distribuirla, così mentono. Dunque, crescita degli investimenti in infrastrutture, strade autostrade porti turistici, in impianti sciistici, alberghi, attrezzature di spiaggia, poi espansione di servizi commerciali nei musei, nei teatri, nelle grandi stazioni, e via via secondo un elenco infinito di iniziative private (e di privatizzazioni), da sostenere in quanto di "necessità" pubblica o da premiare attraverso concessioni a buon mercato. Collateralmente, inoltre, nuovi favori all’ulteriore proliferazione di case per vacanze e fine settimana, approfittando della scappatoia offerta dalla definizione di residence house.
Sentiamo il vagito del 2006 ma non ancora il rumore di una protesta montante e di una battaglia ad armi pesanti del centrosinistra per impedire il sacrificio dell’ultimo pezzo di ex Bel Paese. Solo sporadici moti di sorpresa, come da increduli di fronte a un avvenimento troppo sconvolgente per essere vero.
-Vezio De Lucia ricorda l’incessante lotta del Wwf e di Italia nostra nella difesa dell’ambiente: come quello speso a suo tempo per impedire la costruzione nella già sanguinante Ravello dell’auditorium niemeyeriano. Purtroppo vale la notizia circa la probabile fattibilità dell’intervento, gloriosamente condivisa anzi acclamata da Legambiente, il movimento finanziato dal ministro Matteoli, guarda caso alleato di un folto gruppo di entusiasti alleati del sindaco e di Bassolino (!), tutti sprezzanti verso la questione primaria della illegalità della costruzione.
Non mollano la presa, i nostri amici triestini del Wwf e Italia Nostra. Per parare eventuali colpi a sorpresa dei nemici della Baia di Rilke a Duino-Sistiana (la Regione illyana, il Comune di centrodestra e le imprese edilizie) hanno presentato un documento straordinariamente preciso al Commissario dell’ambiente della Commissione europea, chiedendo, di questa, l’intervento decisivo per salvare l’integrità di un Sito qualificato come di importanza comunitaria.
Ugualmente, a muoversi subito, alla fine del 2003, contro il Piano territoriale comprensoriale del Napoletano, fautore dell’edificazione per quasi metà dello spazio agrario e voluto dal centrosinistra, erano stati il Wwf e Italia Nostra, insieme a Gaia, Coldiretti e all’agronomo Antonio Di Gennaro.
-Ultimo gioco di parole promosso da Legambiente (il gruppo sospettabile giacché riceve finanziamenti dal ministro Matteoli), condiviso dall’ingannato, evidentemente, Giovanni Valentini e non dispiaciuto agli sviluppisti di sinistra: da una parte starebbe lo sviluppo sostenibile, dall’altra l’ambientalismo sostenibile! Spiegano: l’ambiente, la natura devono poter sostenere lo sviluppo prodotto dall’uomo, l’uomo deve poter sostenere l’ambiente e la natura troppo intatti, troppo invasivi, privi di umanizzazione (non sanno che non c’è al mondo un metro quadro di paesaggio non umanizzato?).
Ecco, di nuovo, è una cultura dialettica che avrebbe potuto insegnare ai nostri la giusta posizione svelatrice di una tale assurdità. Invece sembra che ne accettino le conseguenze, culturali e applicative.
-Nuove discussioni in merito alla questione giovanile. Per Giorgio Bocca, un mondo che ha cancellato anche la bellezza difficilmente avrà “un futuro accettabile”. C’è un presentimento di rovina. Ma “ai giovani questo mondo brutto può anche andar bene: si spostano di continuo, non fanno neanche tempo a vederlo, il loro mondo è fatto di cartelli che sfilano veloci. Siamo noi vecchi a vederne la irreparabile rovina… La gioventù è forte e avida di vita, digerisce tutto, mangia panini osceni e butta giù gazzose”.
Un grande partito come il Pci comprendeva un corposo settore giovanile. Insomma, i giovani di sinistra agivano politicamente come giovani, loro problemi loro specificità, e come uomini e donne appartenenti a una linea politica generale. Tutto questo, all’inizio del 2006, pare preistoria, mito. L’estraneità dei giovani dai partiti e, tutti lamentano, dalla stessa politica, non è essa stessa causa della mancanza di progetto sociale futuribile? Pasolini, scrivendo intorno alla condizione italiana dei primi anni Settanta, riconobbe che “gli unici che si battono ancora per una cultura e in nome di una cultura, in quanto si tratta di una cultura ‘diversa’, proiettata verso il futuro, e quindi al di là, fin da principio, delle culture perdute (quella di classe, borghese, e quella arcaica, di popolo) sono i giovani comunisti. Ma per quanto potranno difendere ancora la loro dignità?” (in “Corriere della Sera”, 1° agosto 1975). La risposta l’abbiamo avuta.
-Evidenza in Eddyburg del problema energetico. Curiosità: Edo Ronchi, responsabile della “politica della sostenibilità” [ma cos’è questa pds?], ritiene irrilevante l’impatto sul paesaggio delle macchine per la produzione di energia eolica poiché tanto, dice, di bei paesaggi non ce ne sono quasi più; così provocando l’irritazione di Vittorio Emiliani, il presidente del Comitato nazionale per la bellezza. Ingenuità, se non sprovvedutezza di Ronchi. Il paese ha mangiato in gran parte se stesso, ma bisogna preservarne a ogni costo gli avanzi buoni, difenderli dalle pretese sviluppiste reclamanti eccessivo impiego di energia e dunque proliferazione di impianti stravolgenti gli equilibri del territorio e dei paesaggi.
A ogni modo il primo punto di un progetto di sinistra per l’energia deve consistere nel risparmio energetico. Poi, parole chiare sui diversi sistemi, a partire dalla esclusione di un ritorno alle centrali atomiche.
-L’energia tiene banco. Non si può accettare così a lungo la mancanza di un piano energetico nazionale: quali fonti, quale calcolo del fabbisogno, quale attuazione accelerata del risparmio. Spreco significa consumo inutile; si lasci agli economisti (personaggi ormai pericolosi) di perorare più consumi, sempre più consumi per risolvere la crisi produttiva. Idioti. Dovrebbe essere per prima la sinistra, una volta madre del principio di pianificazione, a prospettare strategie. Per i liberisti è il caso a provvedere alle soluzioni; ma il caso corrisponde al dominio del profitto anche truffaldino, della rendita fondiaria ed edilizia, del lucro esoso commerciale.
Ad ogni modo è in causa anche il destino del territorio. Ugualmente il problema dello smaltimento dei rifiuti e degli scarti, a partire dalla diminuzione del consumo giornaliero: ambiente, urbanistica, piano e progetto dei luoghi vi sono implicati strettamente. Lo scontro nel Pds toscano in merito a un termovalorizzatore preteso dai compagni di Firenze e rifiutato da quelli di Campi Bisenzio la dice lunga sull’arretratezza di elaborazione anche a sinistra.
Oggi, 1.1.2006, niente di nuovo sul fronte.
-Sconcerto e rabbia fra le persone di sinistra ingenue. D’Alema sembra apprezzare certi intriganti finanzieri speculatori scalatori: dai loro affari, dice, conseguirebbero anche effetti positivi poiché produrrebbero in ogni caso plusvalenze. Come se quelli le investissero in progetti utili al paese anziché intascarle volgarmente, o impiegarle in ulteriori oscure manovre oppure direttamente nell’appropriazione territoriale e urbana. E al fisco pagano al massimo solo il 12,5%. Una volta la sinistra, con tutto il suo forte peso, era ostile alle rendite, soprattutto fondiarie ed edilizie, e criticamente attenta alla qualità dei profitti da produzione industriale. Ora, mentre la decadenza dell’industria italiana è forse giunta al punto di non ritorno, sembra non esserci più alcun ostacolo alla completa presa del potere di finanzieri troppo spregiudicati e, soprattutto, di immobiliaristi e di costruttori di cose inutili e …distruttive. Un Ricucci, immobiliarista sconosciuto fino a meno di due anni fa: come può impegnarsi nello stesso momento a scalare Ambronveneta, Banca nazionale del lavoro, Rizzoli Corriere della sera?
Siamo agli ultimi atti di una storia di pene infinite inflitte al territorio nazionale. Edoardo Salzano, a proposito delle lunghe battaglie degli urbanisti di sinistra per difenderlo, scrive: “abbiamo perso”. D’altronde: per Pasolini la situazione ambientale italiana era già disastrosa alla fine degli anni Cinquanta, il film di Francesco Rosi Le mani sulla città risale al 1963, l’invettiva dell’ingegner Martuscelli circa il disfacimento del territorio nazionale compresa nel documento-denuncia relativo alla frana di Agrigento al 1966.
Gli immobiliaristi colgono l’ultimo vento che soffia sulle città e sul territorio aperto residuale, costituiscono alleanze, si assicurano il legame con gli architetti internazionali, aspettano l’inevitabile chiamata; anzi, confortati dalla legge urbanistica in approvazione, si muovono prima e sottopongono il fare e l’affare agli amministratori, nuovi presidenti di Regione, nuovi sindaci e i nuovi presidenti di provincia. Questi, con le loro giunte cui appartengono anche presunti tecnici non eletti chiamati direttamente, godono del potere personale e oligarchico concesso da una legislazione (con quell’incredibile premio di maggioranza) che la sinistra ha avallato in omaggio al mito della stabilità governativa. I consigli degli eletti non contano nulla. Le piccole minoranze diventano patetiche. Ma ora che le amministrazioni sono in gran parte in mano al centrosinistra… Ebbene, quanto al nuovo decisionismo, quanto al fare e disfare nella città e nel territorio fuor di ogni piano, di ogni regola urbanistica, sulla base dei desideri e delle proposte dei padroni dei terreni e delle aziende di costruzioni, le differenze di comportamento non sono sempre evidenti.
…E, negl’ultimi giorni dell’anno, ci siamo sentiti di nuovo come disorientati, benché non fossimo così inesperti da credere in un effettivo ripensamento di un D’Alema, per il coinvolgimento suo e di altri massimi dirigenti del Pds in casi di finanza incauta. Dobbiamo rivolgerci al bravo Scalfari (31 dicembre) per leggere un richiamo alla figura di Berlinguer, alla sua supremazia morale. Purtroppo la speranza che i nostri lo ascoltino, il richiamo, è molto tenue.
-Notizie da Baia di Sistiana minacciata da una “nuova Portofino”. Eccezionale determinazione di Wwf e Italia Nostra triestini nei confronti degli amministratori, dei tribunali amministrativi, delle procure. Le autoritarie autorità regionali e comunali non sono riuscite ancora a completare il loro inciucio edilizio con l’immobiliare Santi Protaso e Gervaso e Santa Sistiana. Il progetto dell’insediamento turistico non è stato mai proposto alla discussione pubblica, si sono visti rendering dimostrativi dell’orrore urbanistico e architettonico. Illy dichiara di aver ottenuto (in segreto!) modifiche che renderebbero, secondo lui, il progetto “compatibile”, ma si rifiuta di sottoporre ad altri una fantomatica ultima versione.
Il solito potere locale sprezzante. Ora la Baia di Rilke è ancora salva; ma in Italia i promotori dei massacri ambientali sanno aspettare, hanno pazienza, tanto più quando trovano gli alleati fra chi dovrebbe contrastarli…
-La nuova legge urbanistica reazionaria passa alla Camera per azione comune di Forza Italia e Margherita, assente, disinteressata, o forse appartata e consenziente, una sinistra che dovrebbe distinguersi nell’analisi sociale-territoriale e nella pianificazione urbanistica pubblica per l’interesse della comunità. Tante nuove amministrazioni di centrosinistra: sembrerebbe una bella fortuna che siano esse a decretare il destino del territorio e della città. Invece non è affatto chiara la linea divisoria fra politiche urbanistiche di destra e di sinistra, fra i comportamenti delle amministrazioni di opposto colore. Che l’urbanistica non possa essere né di destra né di sinistra è un falso principio enunciato dai falsi liberali per giustificare lo sfasciamento del paese avvenuto grazie, appunto, ad azioni da noi ritenute di destra anche se effettuate talvolta da governi locali nominalmente di sinistra.
Sta scadendo per l’Unione il tempo di presentarsi apertamente agli elettori con un progetto contraddistinto dalla differenza in ogni campo, urbanistica esplicitamente compresa, non tanto dall’inesistente progetto della Cdl quanto dalla realtà dovuta alla sua quinquennale opera. Ma, circa l’urbanistica, come fidarsi dopo l’inghippo sulla legge Lupi?
-A Milano l’amministrazione comunale procede ad assegnare fior di luoghi a imprenditori/imprese e a loro servili architetti “internazionali” per realizzare le “nuove Milano”, colossali interventi fitti di metri cubi, di grattacieli, di infrastrutture, e poveri di parchi. Il sindaco si vanta di poter esibire nomi risonanti di autori che, poi, di Milano non sanno nulla. Così vanno le cose in questa città irriconoscibile rispetto alla sua storia sociale e architettonica. La sinistra ha contestato fino a un certo punto, anzi, in merito a questi interventi non ha saputo distinguersi, come non si era distinta al momento della rivoluzione fondiaria ed edilizia alla Bicocca sulla base del famoso accordo fra Tronchetti Provera/Pirelli e il Comune, chiara anticipazione dei meccanismi liberisti previsti dalla legge Lupi.
È bene ricordare che il sindaco diessino di Firenze, forse geloso del sindaco milanese forzista e delle previste opere di regime “firmate”, oltre un anno fa annunciava orgogliosamente la “svolta” nella politica urbana, “con l’arrivo di grandi progettisti, da Norman Foster a Jean Nuovel”. Ma…”sono ben quarantasette i comitati sorti a difesa del centro storico e di aree verdi minacciate” (Francesco Erbani, L’assedio degli architetti, Repubblica 20.11.04). E il dibattito democratico? E la ricerca del consenso? E il compito della sinistra per restituire la città rapita dagli speculatori e affaristi ai suoi veri cittadini?
-Esplode sulla stampa una nuova attenzione al problema della casa: riguarda le famiglie che non solo non possiedono un’abitazione propria ma nemmeno ne trovano una in affitto per un canone accettabile. Grande corteo di inquilini a Roma. Risuonano vecchi slogan sulla casa come diritto se non servizio sociale. Il sindaco della decima circoscrizione comunale viene sottoposto a indagine giudiziaria perché requisisce case a Cinecittà per fronteggiare l’emergenza della quale, dice, poco si occupa la politica. Il sindaco Veltroni sembra sorpreso. Un problema che riguarda una minoranza? Sì, ma nel paese le famiglie in difficoltà sono cinque o sei milioni.
La “questione delle abitazioni” ha da sempre richiamato l’elaborazione teorica e l’impegno sul campo della sinistra. Ma la diffusione della proprietà della casa, dapprima lenta poi quasi precipitosa, dimostrazione della necessità delle famiglie di proteggersi col primario bene rifugio dalle difficoltà vitali, ha prima diminuito poi quasi cancellato l’una e l’altro. Al contrario, la sinistra deve riappropriarsi del ruolo perduto e guidare la ricerca della soluzione in senso pubblico del problema, a partire dalle città dove partecipa all’amministrazione o dove incalza i sindaci con una forte opposizione. (Nelle metropoli come Milano e Roma ci sono addirittura migliaia e migliaia di Homeless, figura prima sconosciuta se non nella veste dei pochi barboni milanesi che sembrava creata apposta per poter essere protagonista in belle canzoni di Jannacci).
- Il moto popolare valsusino, forte di un’inaspettata unità e di molte ragioni sociali, ambientali e urbanistiche contesta la ferrovia ad alta velocità Torino Lione (un ventennale sconvolgimento del territorio e della vita) quale scelta sbagliata nel quadro dei progetti e degli interventi prioritari.
Buona parte della sinistra, confondendo, evidentemente, il giusto primato da assegnare al “ferro” avverso alla “gomma” con l’opportunità di non discutere comunque le opere “ferrose”, sembra non sapere che non può, non deve imporsi un’opera siffatta in un paese che: 1) ha continuato ad abolire o a sotto-utilizzare al limite della cancellazione normali ferrovie ritenute secondarie, bollate con la stupida e pretestuosa definizione di “rami secchi”; 2) che negli ultimi dieci anni ha menato colpi di scure su tutta la rete considerata principale, tagliandone parti, chiudendo stazioni, massacrando quelle grandi storiche mediante orribili interventi di commercializzazione degli spazi, gettando la conduzione dei treni – salvo la guida – nelle mani di pochi poveri giovani precari; 3) che ignora di detenere tratte fondamentali della rete dotate di un solo binario, e altre non elettrificate lasciate, come una qualunque strada, all’impiego di vecchi motori diesel.
Vogliamo che la sinistra trovi unità attorno a un programma appunto di sinistra per le infrastrutture di trasporto che vuol dire, per esempio in merito alle ferrovie, dedicarsi primariamente e risolutivamente alla drammatica situazione di cui ai tre punti qui indicati.
- “Distorta filosofia” della destra in materia di territorio, rendita, urbanistica condivisa nella sinistra (Salzano). Forse troppi dirigenti alti e bassi rappresentano una mutazione genetica rispetto ai caratteri degli antenati; così sono in linea coi tempi e i comportamenti producono effetti omologanti il modello di società dominante. Da anni, riguardo al tema città/territorio/pianificazione urbanistica si notano posizioni a sinistra noncuranti del rapporto con la questione sociale e, quindi, della necessità di contrastare i padroni privati del territorio, i manovratori del mercato fondiario ed edilizio. Una sorta di revisionismo edilizio-urbanistico ha portato all’accettazione di violazioni di leggi e norme, alla mancanza di un’opposizione incondizionata al massacro ambientale del paese.
Tutto questo pare coerente al generico revisionismo storico dichiarato dai massimi dirigenti del Pds. Fassino nel suo Passione cerca di sminuire la figura di Enrico Berlinguer, Violante riconosce ai fascisti di Salò ugual diritto che ai partigiani di essere celebrati quali combattenti leali, ancora Fassino accusa la sinistra di doppiezza nel caso delle foibe e D’Alema deplora l’uccisione di Mussolini. Infine, le confessioni di appartenenza alla fede cattolica o il desiderio di meditarvi.
Allora, speriamo nella revisione del revisionismo.
- Bella discussione in eddyburg nello scorcio d’anno su Pil, crescita, sviluppo… parole incomprensibili se rapportate a determinate situazioni reali delle persone e dei popoli. Criticare i modelli che rappresentano, dire parole diverse, dichiarare significati opposti: decrescita, benessere sociale, qualità di vita… Disvelare l’inganno di locuzioni assurde, insensate come quella di “sviluppo sostenibile”. E’ solo il famoso “pazzo oppure economista” di Kenneth Boulding che può credervi.
Lodo Meneghetti
Capodanno 2006