L'impresario cagliaritano, padre del progetto di 270.000 metri cubi a Tuvumannu e a ridosso della necropoli di Tuvixeddu, ha affermato, a questo proposito, di aver subìto, oltre che numerosi torti, anche un danno di immagine. Questa faccenda dell'immagine è una diavoleria moderna e corrisponde, più o meno, alla vecchia e superata reputazione. Prima e dopo la lettura di queste dichiarazioni ci è apparso chiaro di averlo patito noi il danno di immagine. Noi e tutti gli abitanti dell'Isola che si è dimostrata un luogo dove si divora quello che da altre parti sarebbe sacro. Il mondo è proprio a testa in giù. Noi, proprio noi, dovremmo richiederli i danni per la reputazione guastata, chiederli a chi ha fatto conoscere la nostra città al mondo - perfino il Times ne ha parlato - per il cemento intorno alla necropoli e per una strada di scorrimento in un bellissimo canyon, accanto ai sepolcri. Siamo rinomati per le 431 sepolture scomparse sotto il cemento di un garage.
I templi di Agrigento circondati da metri cubi volgari, il Parco dell'Appia antica zeppo di abusi, Pompei a rischio, ascensori alle Cinque Terre. Cagliari è colpita allo stesso modo. Un elenco interminabile di danni all'immagine e al patrimonio di chi abita i luoghi e li vede violentati. Il danno di immagine è dell'intero Paese che si sbrana da sé. Il lamento del costruttore ricorda "s'attitidu" della nostra tradizione, il pianto funebre, ed è in tono con la necropoli, ma distorce le parti sino a stravolgerle perché il "morto" non è il progetto di Coimpresa. Il "morto", se si può dire, è la necropoli. Forse, mutati i tempi, qualche giure astuto otterrà un risarcimento dalle imprese che rendono ogni giorno più insopportabile la città sopprimendone la bellezza. Ma sarà una giustizia postuma.
Pubblicato anche su La nuova Sardegna, 10 agosto 2008
Fra i traguardi di cui potrà gloriarsi l'attuale governo, da venerdì scorso rientra anche la dichiarazione dello stato di emergenza per l'area archeologica di Pompei. E' la prima volta in tutta la storia d'Italia che un tale provvedimento viene decretato per un sito culturale e, in mancanza di recenti straordinari accadimenti che abbiano interessato l'area (nessun terremoto, nessuna eruzione dal 79 a questi giorni, ci risulta), stupisce che di una decisione tanto clamorosa si sia reso autore il ministro Bondi, da molti accreditato, fino a tempi recenti, di una certa moderazione nei toni, improntati per lo più ad una curiale genericità dei contenuti.
Nelle dichiarazioni riportate sui giornali del 5 luglio scorso il ministro ringrazia uno degli organi di informazione nazionale, il Corriere della Sera, per avergli segnalato la gravità della situazione per quanto riguarda il sito campano: e d'accordo che il quotidiano milanese ha ormai assunto il carattere di house organ governativo, ma davvero i flussi informativi del Ministero Beni Culturali sono ridotti così male da aver lasciato nell'ignoranza di una situazione a dir poco annosa addirittura lo stesso Ministro? Sì, perchè se c'è un elemento che contraddistingue le vicende pompeiane è la loro totale, disperante, mancanza di eccezionalità: caratteristica essenziale di ogni stato di emergenza, almeno fino all'avvento dell'attuale legislatura.
Come ogni lettore, anche distratto, di cronache culturali sa bene, gli scavi di Pompei sono attanagliati da una crisi strisciante per quanto riguarda le condizioni di fruibilità del sito in termini di servizi, corrette regole di accesso, manutenzione, che si protrae da anni e che è il risultato perverso di concomitanti fattori a partire dall'atteggiamento arrogante della potentissima lobby dei custodi, sindacalizzata con modalità di rara protervia clientelare e che da sempre condiziona pesantemente il corretto svolgimento delle modalità di accesso e fruizione del sito stesso, rafforzata da una asfittica situazione contestuale di economia parassitaria, e connotata da contiguità ricorrenti con settori malavitosi - e sappiamo bene in Campania questo cosa significhi – e latitanze, o addirittura connivenze funeste da parte di esponenti dell'amministrazione locale e nazionale. Si tratta di una situazione ormai incancrenita nel tempo, quasi inestricabile in questo come in altri ambiti sociali di questi territori.
Con l'arrivo di Pietro Giovanni Guzzo, qualche lustro fa, alla guida della Soprintendenza di Pompei, uomo al di sopra di ogni sospetto e studioso di riconosciuta competenza, a molti sembrò che in quella situazione fosse il massimo cui si potesse aspirare. E certo i risultati positivi non sono mancati, soprattutto sul piano scientifico, ma l'azione del Soprintendente frenata da molti convergenti ostacoli interni ed esterni non è riuscita ad imprimere quella svolta decisiva, possibile, come si è capito da tempo, solo in presenza di una volontà politica di cambiamento fermissima, continuata nel tempo e sostenuta dai più alti livelli governativi: circostanze mai verificatesi almeno da trent'anni a questa parte.
In questo contesto, quindi, la dichiarazione dello stato di emergenza appare semplicemente una scorciatoia di sicuro impatto mediatico e di risibile efficacia in re.
Eppure moltissimi e bypartisan si sono levati i consensi all'iniziativa, in nome di una coralmente auspicata svolta contro il degrado della zona: tra i fautori più entusiasti anche quel sindaco di Pompei che, con assoluto sprezzo della coerenza etica è, nel suo ruolo professionale di avvocato, difensore ufficiale dei fratelli Italiano, proprietari del famosissimo ristorante abusivamente costruito e abusivamente gestito per anni all'interno degli scavi, per rimuovere il quale la Soprintendenza ha ingaggiato una lunghissima battaglia legale.
Di fronte a questi atteggiamenti si è facili profeti nell'affermare che la “militarizzazione” di Pompei non servirà a riportare l'area in un alveo di piena legalità e di rispetto delle regole, a meno di non essere accompagnata da mutamenti non solo radicali, ma soprattutto frutto di un progetto politico-culturale meditato e perseguito con continuità negli anni a venire, progetto che, al momento, non è dato riconoscere.
A meno che come tali non si vogliano definire i proclami di un altro dei grandi sostenitori dell'azione del Ministro, l'agguerritissimo assessore campano al turismo e beni culturali Claudio Velardi che, sottolineando un'assoluta condivisione politica col governo nazionale, va ripetendo da settimane la sua soluzione ai mali di Pompei: indovinereste mai? In perfetto allineamento con il collega siculo Antinoro, ma soprattutto con lo Zeitgeist che percorre paese e parlamento, la magica pozione risanatrice consiste nell'affidamento della gestione del sito vesuviano ai privati, gli unici in grado di innalzare la “produttività” (sic!) di Pompei. Perchè sia chiaro che per il neoesponente della giunta Bassolino, il problema determinato dalle carenze, dal degrado, dai disservizi non è quello di limitare fortemente e per più aspetti, la completa fruizione dell'area monumentale e di minare la salvaguardia del patrimonio culturale nel suo complesso, ma casomai di impedire che il numero dei turisti-consumatori aumenti, con qualsiasi mezzo, a qualsiasi costo.
Di fronte a questi obiettivi la decisione del ministro assume un diverso, più inquietante significato.
Come per altre iniziative analoghe che si sono susseguite in queste settimane, il sospetto forte è che si tratti di decisioni destinate soprattutto a ribadire quell'aura di decisionismo pragmatico con cui il governo attuale intende connotare la propria azione politica e aumentare, grazie a qualche coup de théatre a basso costo, il consenso popolare. Ma dietro la fin troppo smaccata e devota mimesi del Ministro nei confronti del suo capo (“farò per Pompei come Berlusconi ha fatto per Napoli”, Corriere della Sera del 5 luglio) si intravede dell'altro: nell'ipocrisia della reiterata (ma accortamente delimitata all'ambito scientifico) fiducia espressa da Bondi al suo funzionario si nasconde una trappola che va al di là dell'episodio specifico. Se si riteneva che l'azione di Guzzo fosse stata carente, il Soprintendente andava rimosso e sostituito, in caso contrario andava semmai aiutato, nella sua opera, in maniera concreta e politicamente esplicita. Con la nomina di un commissario chiamato a gestire lo stato di emergenza, al contrario, il Soprintendente, funzionario operante in nome dello Stato, sarà messo sotto tutela, le sue prerogative limitate e decisamente circoscritte a vantaggio di un emissario nominato dal governo. Sarà di fatto compromessa la sua auctoritas di tecnico super partes, non perchè neutrale esecutore di volontà governative, ma perchè difensore di un bene comune la cui salvaguardia è posta costituzionalmente al di sopra delle alternanze politiche di schieramento. In questo modo viene sovvertita una regola fondamentale della vita democratica che pone chi, per competenza tecnica e scientifica ricosciuta tramite pubblici processi di verifica, è posto a custode di un patrimonio collettivo nell'esclusivo servizio delle leggi dello Stato e al di sopra delle volontà di chi è espressione di interessi di parte. Sta accadendo a Pompei, ma non solo: nel suo bellissimo articolo sulla metamorfosi della democrazia italiana di qualche giorno fa, Giuseppe D'Avanzo scriveva: “l’obiettivo primario e dichiarato di Berlusconi è la riduzione di poteri plurali e diffusi”. Lo scopo finale di questo attacco, nella vicenda qui presa a commento è chiaramente espresso, con perfetto gioco di squadra, negli entusiasmi neoliberisti di un esponente dell'”opposizione”: la svendita del nostro patrimonio culturale e del bene pubblico più in generale a vantaggio del privato.
Di fronte alle trasformazioni disneyane prefigurate da Velardi &C (v. Corriere del Mezzogiorno del 5 luglio) c'è da temere davvero che quasi duemila anni fa il Vesuvio non sia stato il liquidatore più spietato.
Salvatore Settis, all’inizio della sua brillante e molto applaudita relazione al convegno della rete dei comitati del 28 giugno a Firenze, ha ricordato il complicato intreccio fra legislazione di tutela e legislazione urbanistica. Ha contrapposto le norme di tutela del 1939 (leggi 1089 e 1497) alla legge urbanistica del 1942 , sostenendo che la tutela si è fermata alla porta delle città, lasciando queste ultime alla disciplina urbanistica (ma la legge del 1942 stabilisce che il piano regolatore deve considerare la totalità del territorio comunale). Credo che serva qualche precisazione. Credo soprattutto che si debba chiarire che la legislazione urbanistica italiana, dal 1942 a tutti gli anni Settanta, ha sempre racchiuso in sé anche contenuti di tutela, molto spesso esercitati con efficacia. Anzi, per farla breve, almeno fino alla legge Glasso del 1985, quel tanto di tutela che si è praticata in Italia è stata dovuta alla legislazione urbanistica e ai piani regolatori e non a specifici provvedimenti di tutela. Ricordo al riguardo, in primo luogo, che dei piani paesistici del 1939, fino alla legge Galasso, ne erano stati formati soltanto una dozzina (Ischia, S. Ilario Nervi, Osimo, Portofino, Appia Antica, Versilia, Gabicce Mare, Argentario, Sperlonga, Assisi, Ancona Portonovo, Procida, Terminillo), alcuni limitati a esigue porzioni di spazio, tutti disattesi. Come furono disattesi piani paesistici patrocinati alla fine degli anni Sessanta dalla cassa per il Mezzogiorno nelle aree turistiche del Sud.
Il caso sicuramente più clamoroso di pessimo piano paesistico è quello dell’Appia Antica del 1960 che prevedeva l’edificazione di quasi 5 milioni di metri cubi ai lati della regina viarum. Tant’è che, come molti sanno, si deve al decreto di approvazione del piano regolatore di Roma del 1965 (firmato dal ministro dei Lavori pubblici Giacomo Mancini) la cancellazione di quelle inaudite previsioni e la dichiarazione di inedificabilità di tutti i 2.500 ettari del comprensorio poi destinato a parco regionale.
Né vanno dimenticati i piani regolatori di Firenze del 1962 (sindaco Giorgio La Pira, assessore all’urbanistica Edoardo Detti), che proteggeva la piana fiorentina poi avviata al disastro dalla famigerata variante Fiat Fondiaria degli anni Ottanta; il piano di Bologna e moltissimi piani dell’Emilia Romagna degli anni Sessanta e Settanta; i piani coordinati dei comuni della maremma livornese degli anni Sessanta e Settanta; il piano di Napoli del 1972 (e anche quello del 2004); eccetera.
Si deve infine ricordare che si deve alla legge ponte urbanistica del 1967 la sostanziale salvezza dei centri storici italiani. La legge, raccogliendo le proposte della Carta di Gubbio del 1960 (succedeva allora che le leggi facessero proprie la migliori acquisizioni del mondo della cultura), affermò l’integrale intangibilità dei centri storici. Posiamo perciò vantarci di essere l’unico Paese al mondo che ha energicamente posto un freno alla sistematica distruzione del suo patrimonio urbano storico che aveva avuto inizio subito dopo la guerra. Si poteva fare meglio e di più e non mancano, anche recentemente, e in luoghi eccellenti, dolorose eccezioni, come a Fiesole. Ma tant’è.
In conclusione, la legislazione urbanistica italiana “storica” (cioè fino ai condoni e alle norme derogatorie dagli anni Ottanta in avanti) non può considerarsi alternativa alle leggi di tutela del ministero dei beni culturali. In Italia vige da sempre una sorta di doppio regime nel governo del territorio e del paesaggio, ma non mi pare che ciò sia un danno. Certamente, come auspica anche Salvatore Settis, è indispensabile un effettivo, efficace e finora mai operato coordinamento. Dovrebbero pensarci Stato e regioni nell’attuazione del Codice del paesaggio, ma non mi sembra che si sia presa la giusta direzione di marcia.
29 giugno 2008
Ha toccato tutta la tastiera delle professioni dell’urbanista. Ha lavorato in un’azienda privata (la Beni Stabili, dalla quale si dimise quando capì che il più alto stipendio che gli avevano proposto avrebbe corrisposto a un suo ruolo di “facilitatore” di affari nei confronti delle amministrazioni comunali), funzionario pubblico (come giovane architetto vincitore di concorso al Ministero dei lavori pubblici all’inizio della sua carriera e come direttore generale, fino a quando il ministro Prandini lo rimosse), ha lavorato come eletto (consigliere regionale nel Lazio, consigliere e assessore comunale a Napoli), consulente di amministrazioni comunali, provinciali e regionali (in numerose città e territori del Lazio e della Toscana e in Emilia Romagna), membro attivo, da militante o da dirigente, in numerose associazioni della società politica e di quella civile (dal PCI a Italia Nostra, per esemplificare sui due versanti), ha lavorato infine come giornalista, pubblicista, saggista. Scrive bene, con chiarezza e semplicità. Il suo Se questa è una città è forse, tra i libri italiani dell’ultimo ventennio, quello che ha insegnato più urbanistica ai non urbanisti. È anche per questa sua qualità che l’ho pregato di scrivere sistematicamente per i frequentatori di Eddyburg, ma soprattutto per lo spessore delle sue esperienze e il rigore delle sue posizioni culturali.
Il significato letteraledi sentire nell’accezione estesa è: avere coscienza delle impressioni ricevute attraverso i sensi, o avvertire una sensazione fisica e psicofisica, o essere sensibile a una sollecitazione affettiva o morale, o avere un’impressione confusa, o, infine, essere in grado di apprezzare, comprendere appieno qualcosa: sentire implica una generale animazione dei sensi: ma anche nel significato del solo ascoltare può spezzare l’unicità delle relazioni. La stessa funzione di udire, in apparenza nodo stretto a una pura funzione d’organo, si apre a ventaglio verso le altre, in primo luogo appunto al vicino ascoltare, la cui proprietà originale è udire con attenzione. Di qui l’ulteriore apertura ai più straordinari e in parte misteriosi effetti prodotti dai suoni della natura, del paesaggio, dell’architettura e specialmente della musica-musica. Sentire udire ascoltare la musica rimanda al valore più alto di tali verbi, poiché la ricezione (sapendo), richiede una mobilitazione sensoria molto complessa.
La musica è architettura non solo in forma traslata, lo è in quanto costruzione, struttura: basi e sostegni, finiture e decorazioni. John Cage aveva proposto di mutarne il nome in “organizzazione dei suoni”; noi architetti abbiamo introdotto per l’architettura la funzione “organizzazione dello spazio”; peraltro il compositore americano aveva composto Construction I, Construction II, Construction III. La musica è paesaggio sonoro come la natura, talora calmo e a linee semplici, orizzontali o a leggere ondulazioni (Calma di mare e viaggio felice, di Mendesshon Bartholdy...), talora accidentato, a linee contrastanti, guerra e pace insieme, violenza e dolcezza (le sinfonie di Mahler, la settima “di Leningrdo” di Schostakovic...). La musica sentita agisce sul cervello, sull’animo-cuore, sul corpo. Questi reagisce al ritmo (lascio da parte la danza, naturale suo rispecchiamento, e accenno appena alle discusse vibrazioni provocate dal rock più pesante; temi entrambi al di fuori del senso del presente scritto), prova brividi e stupori, avverte umidore agli occhi. Tutto ciò quando la musica è, ci intendiamo, “buona musica”. Identiche espressioni potrei usare circa la natura, l’architettura e le arti figurative, avvisando inoltre che la sindrome di Stendhalè un fenomeno reale.
Ognuno ha sperimentato la differenza fra l’ascolto di un disco e la partecipazione all’avvenimento musicale. Nel primo caso gli effetti non sono molto intensi. Nel secondo tutto si esalta, ancor più poiché interviene la visione. Ai concerti con l’orchestra esposta vedi la struttura architettonica di questa, approntata secondo gruppi timbrici o, qualche volta, speciali incroci; vedi, mentre li ascolti, l’origine dei suoni, altezze e timbri, che confluiscono, separati o in diversi insiemi, nella progressiva costruzione dell’opera: la nascita di un paesaggio da elementi primordiali crescenti fino alla compiutezza di forme appagate della loro evoluzione. La funzione visiva è importante anche se l’esecuzione riguarda pochi strumenti, perfino uno solo. Nella musica il vedere rende completo il sentire. Nell’architettura il vedere accresce la sua ragione dall’ascolto dei suoni silenziosi che l’architettura ci invia se sappiamo ascoltarla, vale a dire amarla. Del resto il silenzio in musica ha pari dignità del suono: nella notazione alle figure di durata determinata delle note corrispondono altrettantente figure omonime di pari durata delle pause.
Infine nel teatro lirico musica e architettura non abbisognano di metafore per presentarsi coniugate. Il trinomio di Giancarlo Consonni Teatro corpo architettura forse trova nel teatro lirico occasione di affermazione unificante maggiore che nel teatro di prosa, poiché là c’è la musica, che aggiunge frasi sonore al commosso dialogo fra il corpo e l’architettura.
Diciamo armonia parlando sia di architettura che di paesaggio, armonia fra opere dell’uomo e opere della natura. Di armonia ed equilibrio fra arte e natura scrive Pietro Citati per spiegare la propria commozione davanti alla foresta di Founteins Abbey in Inghilterra. Non si fraintenda: tali parole, è la musica a insegnarcelo, non significano consonanza, proporzione, equilibrio come in fisica quando le risultanti delle forze applicate a un corpo e dei loro momenti sono nulle; poiché vale anche il contrasto, la differenza, il contraddittorio fra le parti, perfino il caos (Cage, ancora), sia nelle forme artificiali che naturali. Sappiamo che non esiste la regola assoluta della bellezza. Non sono ammissibili pregiudizi qualificativi “di massa” basati sulle divisioni a priori, per esempio in musica fra tonale e atonale, fra consonante e dissonante, fra melodismo facile e quello creduto difficile perché liberato dalla sottomissione alla tonica e alla dominante. Nell’accoglimento dell’arte l’alternativa è: pigrizia e inerte acquiescenza, sotto la cappa di modelli pietrificati, o disponibilità selettiva al godimento spirituale e corporeo grazie alla conoscenza e all’educazione dei sensi, e ai conseguenti netti ripudi.
L’armonia in musica, intendo la specifica scienza e arte degli accordi, semplice o enormemente complessa organizzazione di suoni simultanei sovrapposti in verticale, è in sé costruzione architettonica: lo si comprende ascoltando e, potendo, osservandone il disegno nello spartito. Si ritiene l’armonia struttura di sostegno della melodia, ma una composizione può consistere in una pura successione di accordi, come quando in architettura non esista un sovrappiù di rifinitura: i clusters, p.es. Volumina di Ligeti, titolo volutamente architettonico: musica per organo solo le cui molteplici misteriose costruzioni sonore rinviano a un segreto interposto fra architettura e natura, a un paesaggio arcano non visibile eppure vero all’ascolto.
L’armonia secondo Adorno è colore in quanto arte della strumentazione che la realizza appieno. Colore in musica come colore in architettura se intrinseco al processo costruttivo-compositivo e non orpello. Wagner è un precursore ed è con la musica contemporanea che “la scelta del colore non dipende da alcuna regola ma si prova solo con le esigenze concrete dello specifico contesto compositivo, per la dimensione armonica e per la costituzione della melodia”. Il colore perciò, appartenendo in primo luogo all’armonia-strumentazione, non è per definizione un’aggiunta superficiale. A questo proposito, in architettura si impone Bruno Taut perché con lui il colore, ingrediente primario di quella natura a cui egli improntava il suo pensiero e il suo progetto, entra nell’ineluttabilità architettonica, e la supera per espandersi in un totalizzante paesaggio urbano: colore strutturale della città intera. Taut inoltre, ne tratterò più avanti, è l’architetto che comprende nella sua sintesi, oltre all’architettura e al colore, la musica, non quale metafora o parziale pedagogia per l’architettura, ma effettivo elemento pari agli altri due. Da un punto di vista storiografico poi, attribuisco particolare importanza al dialogo fra Le Corbusier e il giovane Piero Bottoni nel famoso scambio di lettere del 1927-28. Ponendo a confronto il modo impiegato nel quartiere di Pessac-Bordeaux, superfici del parallelepipedo edilizio a colori puri differenti (“intervenire energicamente nell’affermazione stessa del volume delle case”, scrive L-C nella lettera) coi Cromatismiarchitettonici bottoniani (intervento sulle pareti degli edifici nelle strade e piazze della città per mezzo di colori digradanti di diverso tono sfumanti l’uno nell’altro), il progetto di Bottoni pare originale e avanzato grazie al ricorso a un sistema di relazioni fra colori e loro intensità, tono, posizione, digradazione (tutte locuzioni queste proprie del linguaggio musicale) tale da moltiplicare le possibilità di raggiungere determinati scopi in ordine alla percezione dello spazio-volume, della “struttura” del costruito. A questa stregua il ‘sinfonismo’ e l’’effetto lirico’ di cui scrive Le Corbusier è già oltrepassato. Non è casuale l’uso della parola ‘cromatismo’, che ci propone il confronto fra le enormi risorse della scala cromatica temperata e la relativa ristrettezza della scala diatonica-naturale. Bruno Taut procede dall’architettura alla musica. Moisej Ginzburg, come Taut, trova nella musica radici e ragioni dell’architettura, o le simiglianze o, questa è la novità, l’arte a cui ricorrere per fare architettura per così dire completa, senza vuoti di significato. Fra le proprietà grammaticali della musica Ginzburg utilizza soprattutto il ritmo, quasi come manualistica perl’architettura. Penso che egli ragionasse più o meno così: se l’architettura contiene elementi propri della musica (nella storia dell’evoluzione umana i suoni hanno preceduto l’edificazione), conoscerli diventa essenziale per realizzarla. Bruno Taut invece, con Der Weltbaumeister. Spettacolo architettonicoper musica sinfonica (1920, due anni prima del testo di Ginzburg) pratica un rovesciamento: non la musica supporto, ma l’architettura fondamenta della musica, come rivela quel per. In realtà si tratta di completa pariteticità: infatti nella sceneggiatura disegnata e scritta si susseguono le immagini e scorrono insieme le precise indicazioni sonore e la descrizione dell’evolversi di forme colori luce. La sintesi sognata da Taut con Der Weltbaumeister è un particolare del grande quadro dei progetti utopici, sintesi naturale di architettura e paesaggio, nient’affatto in contraddizione, col sentimento del Taut realizzatore di quartieri popolari. Partendo dall’architettura egli scopre che la musica doveva essere strumento indispensabile per conquistare quell’unità artistica superiore che possiamo ritenere essere ai vertici del suo pensiero anche quando si occupa dell’architettura concretadelteatrod’opera. Chi fra i compositori, partendo dalla pura musica al di fuori del teatro lirico, ha cercato di pervenire a un’unità artistica superiore? Ho scelto il moscovita Alexander N. Skriabin, colui che più di altri riuscì a realizzare con le opere sinfoniche un fantastico, onirico eppur vero paesaggio d’arte totale. La musica procede verso un’architettura di suoni e di colori reali, non allegorici; un’atmosfera e uno spazio luminosi policromi. Poème divin, Poème de l’Extase e Prométhée-le”Poéme du feu” sarebbero dovuti sfociare nel Misterium destinato a rigenerare l’umanità attraverso una mistica comunione dei sensi prodotta dalla sinestesi delle arti, il contrario della scissione sensoriale secondo le funzioni delle singole forme d’espressione artistica, e dalle relative corrispondenze cosmiche (il cosmo era ancora, all’inizio del Novecento, il più naturale e misterioso dei paesaggi non-umani).
Prométhée, se ascoltato e visto nell’integrità della sua concezione sinestetica, avrebbe prodotto sensazioni nuove e assai più complete di quanto avesse mai potuto la musica sinfonica da sola: questa la certezza utopica di Skriabin.
“Luce” è il nome di una parte supplementare della partitura notata meticolosamente come le altre, ma rivolta, anziché a uno strumento acustico, alla tastiera di controllo di un impianto elettro-luminoso capace di inondare, come gli splendori policromi nel Weltbaumeister di Taut, l’ambiente dell’esecuzione di una luce diversamente colorata nei diversi momenti del processo compositivo, tinte prescritte accuratamente come le note. Sul piano musicale, ormai sottratto al sistema tonale, primeggia, al posto della funzione dell’accordo di dominante tipica dell’armonia tradizionale, il “suono centrale”, l’“accordo Prométhée”, un accordo sestuplo, imponente costruzione architettonica, una stratificazione di cinque intervalli di quarta: per l’artista reductio ad unum di tutta la sua filosofia, ma anche simbolo del caos originario da cui sortirà, nel farsi della composizione, l’opera d’arte totale.
Ecco, noi crediamo che una delle grandi battaglie culturali da condurre sia ridare autonomia alla politica, liberarla dai ceppi e dalle grettezze dell’ economicismo, fornirle indipendenza e capacità di visione strategica. Compito certamente arduo e forse utopico. Ma noi confidiamo nella forza delle utopie. E soprattutto confidiamo nel fatto che l’economicismo è una ideologia da poveri, da ossessionati dalla necessità di arricchirsi. Quanto a lungo esso può costituire l’autorappresentazione dei Paesi ricchi? Una società che ha messo insieme tanta opulenza materiale potrebbe permettersi il lusso di una visione meno feroce della vita, potrebbe guardare alla realtà con maggiore disinteresse e generosità. E invece, come Caronte, risospinge le anime nell’inferno dei bisogni senza fine, nella fossa della miseria che di continuo si rigenera.
Certo, l’economicismo si combatte non solo con la critica, ma anche promuovendo culture antiutilitaristiche, facendo soprattutto spazio ai saperi umanistici, oggi sempre più negletti. La letteratura, la poesia, la storia, la filosofia non creano brevetti, lo sappiamo, non producono nuovi gadget da immettere sul mercato, non fanno andare avanti l’economia e dunque vengono banditi come Cenerentole inservibili. Ma possiamo rassegnarci a questo? Possono le società ricche del nostro tempo gettare in un angolo la bellezza, il pensiero, la riflessione sulla nostra vita e il nostro stare al mondo? Ma c’è anche un compito critico da svolgere. Occorrerebbe, ad esempio, che l’economia, la scienza dominante del XX secolo, venisse ricondotta al rango degli altri saperi. Non sussiste più alcuna ragione perché essa conservi il dominio che ha conseguito su tutti gli ambiti della nostra vita sino a oggi. Rischiando l’ovvio, riconosciamo tutti i grandi meriti che l’umanità le deve. Eppure, quei meriti non ci appaiono oggi sono senza ombre. Come scienza, col suo riduzionismo, con la rimozione della natura, l’economia ha incoraggiato lo sfruttamento illimitato del pianeta, ha separato la produzione della ricchezza dal mondo vivente, ha fallito nella capacità previsionale dei danni globali e incalcolabili che essa ha favorito. Costituirebbe perciò un segnale di rilevanza storica se la reale Accademia delle Scienze di Stoccolma abolisse dalla sua agenda annuale il premio Nobel per l’economia., istituito del resto, tardivamente, nel 1968, su iniziativa della Banca centrale di Svezia. Tale premio non ha oggi più ragione di esistere. Non certo perché non ci siano e non ci saranno economisti meritevoli, impegnati a difendere l’interesse dell’umanità e non quello dell’economia. Negli ultimi anni sono stati premiati studiosi come Joseph Stiglitz e Amartya Sen, che certo non sono esponenti della scuola di Chicago. Del resto alle ricerche di tanti economisti liberi dobbiamo molte delle analisi che ci aiutano nella critica del tempo presente. Ma l ‘impatto simbolico dell’abolizione sarebbe di sicuro notevole. E l’umanità ha bisogno di segnali di svolta. L’istituzione, in alternativa, di un premio per la protezione dell’ambiente e della biodiversità sarebbe certamente più appropriato alla tradizione umanitaria del Nobel, più rispondente ai bisogni universali e drammatici del nostro tempo. Sappiamo davvero tanto su come produrre e consumare ricchezza. Sappiamo ancora troppo poco su come proteggere e conservare le ricchezze della Terra, che l’economia ha contribuito a trasformare in territorio di saccheggio.
Scrivo in merito al progetto e, ormai, alla realizzazione del restauro (se si più definire così una cosa che non lo è o non lo è per gran parte) del Castello visconteo-sforzesco e della cinta spagnola. Dalla abbondante documentazione ricevuta mi era già chiaro quale sarebbe stato il risultato. Inoltre la rassegna stampa e le diverse discussioni o prese di posizione mostravano che il problema, benché grave, non era approdato alle pagine nazionali dei grandi quotidiani, insomma non era diventato un caso paragonabile a tanti altri simili susseguitisi lungo i decenni della storia urbanistica e architettonica del nostro paese dal dopoguerra. Storia di un disastro, del resto, se lo si guarda sapendo come l’Italia era prima.
Sì, era intervenuto Sgarbi, nel suo solito modo teso a scompigliare un po’ le carte con apparente anticonformismo e rientrare presto nei ranghi (fa sempre così a Milano in rapporto alla stantia anzi reazionaria posizione culturale del sindaco e della giunta di cui fa parte). Sì, s’era notata qualche firma di architetto “di nome” a favore del progetto (i “ben 37 famosi architetti” li lasciamo, meno quei pochi, all’opinione del giornalista), ma, a leggere le scarse motivazioni, sembrava posta affrettatamente senza aver troppo approfondito la questione (si poteva dubitare che sarebbe stata in seguito confermata alla verifica della realtà). Unica evidenza di rilievo nazionale quella di Italia Nostra. L’associazione si era rivolta al presidente del Consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici, Salvatore Settis, e ai diversi Comitati presumibilmente interessati al tema in causa, manifestando decisa opposizione al progetto e nel contempo riaffermando l’importanza del Castello quale storica fabbrica dalla “struttura complessa”, dunque da toccare, se mai lo si dovesse, molto cautamente.
Struttura, tuttavia, da sempre ignorata negli itinerari culturali e turistici: la guida dettagliata del Piemonte del Touring Club nell’edizione 1961 dedica ai resti dell’antica costruzione una riga e un quarto; la Guida Rapida d’Italia – Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, ed. 2002 – un po’ di più, giacché accenna a qualche data e alle opere degli spagnoli sotto il cui dominio la città decadde per crisi demografiche ed economiche. Forse l’unica notorietà per così dire extra-provinciale la città l’ebbe quando Sebastiano Vassalli pubblicò con Einaudi (1990) il bellissimo romanzo La chimera: una Novara degli anni a cavallo del 1600, proprio l’ultimo tratto del periodo in cui gli spagnoli eressero la cintura fortificata sventrando il contesto urbano e distruggendo i borghi. Certi personaggi diventarono famosi nei circoli letterari, l’Antonia o “la strega di Zardino” (Zardino, villaggio sulla Sesia sparito nelle nebbie della storia o della favola), il vescovo Bascapè, il boia Sasso, i poveracci, “i camminanti”…
Allora. Il Castello, la Piazza dei Martiri della Libertà, una volta dedicata a Vittorio Emanuele II il cui immancabile monumento sta lì al centro. Guardiamola, questa piazza, questo grande spazio tipicamente piemontese anch’esso retaggio della storia della città interna lambita dai bastioni spagnoli. Fortunata soluzione urbanistica insieme all’ampio parco, col nostro bel rudere a far da legaccio e da tramite quando lo si potrà attraversare. Dal dopoguerra mai si è discusso tanto circa il destino del sito dei conquistatori e vessatori dopo l’epoca del libero Comune. Prima i colonizzatori milanesi, poi gli occupanti e sfruttatori militareschi spagnoli. I novaresi sempre inerti e mugugnanti? E quando venne Mussolini, di quanto l’entusiasmo dei cittadini che si assieparono nella piazza copriva il fondo di antifascismo che c’era, già vitale e che sarebbe affiorato e poi esploso con la lotta partigiana e la Liberazione? Ah, la piazza piena di bandiere, quasi tutte rosse, quelle che in questi tempi pochi osano ancora sventolare. La piazza dei grandi comizi nell’immediato dopoguerra, poi nel ’48 (ricordate la “Madonna pellegrina”?), nel ’53 la battaglia contro la “legge truffa” (pensate, siamo daccapo, ora c’abbiamo la “porcata” !); e le forti contese delle elezioni comunali? L’indimenticabile sindaco socialista Pasquali, l’amministrazione democristiana del discusso sindaco Allegra, la riconquista della sinistra nel 1956...
Ecco, il 1956 è una data cruciale nella storia moderna della piazza. Pochi possono ricordarlo, pochissimi non anziani lo sanno: in quel momento l’insieme urbanistico e architettonico fu in gravissimo pericolo di sovversione. Descriviamolo, il quadrilatero: lato sud, i resti del Castello; lato est, il Teatro Coccia, un impianto che nella la storia del melodramma “dato” nelle città di provincia non è meno significativo dei più conosciuti teatri di Parma e di Reggio Emilia; lato ovest, il Palazzo ex Assicurazioni Venezia, realizzazione di tipo stilistico, alta almeno un piano più dell’ammissibile, progettata da un Angelo Crippa che perlomeno divise il corpo di fabbrica in due parti così da lasciare in mezzo un passaggio dalla piazza all’Allea e un buon volume d’aria e di luce; infine lato sud, dirimpetto al Castello il Palazzo del Mercato, l’edificio insigne, magnifico esempio di architettura neoclassica del secondo ventennio dell’Ottocento, di solito designato come Palazzo Orelli dal nome dell’architetto progettista: una vasta, compatta ed elegante costruzione a sua volta quadrilatera, completamente porticata, dotata di un solo piano al disopra delle arcate e di un potente stilobate atto a ripianare le differenze di quota del terreno lungo i fianchi e il lato di Corso Italia (quello con la doppia scalinata).
Ebbene, l’amministrazione di sinistra appena insediata si trovò a sfogliare l’inconcepibile progetto di sopralzo di un piano del Palazzo Orelli per l’intero quadrato; progetto voluto e approvato dagli amministratori precedenti e pressoché avallato in maniera definitiva dal Direttore generale delle antichità e belle arti presso il Ministero della pubblica istruzione, Guglielmo De Angelis d’Ossat. Sandro Bermani era il nuovo Sindaco, chi scrive giovane assessore a “tutto” ciò che concerneva urbanistica, lavori pubblici, edilizia privata. Comunque la battaglia per “tornare indietro” fu subito iniziata col pieno sostegno dei nostri compagni della maggioranza consiliare e dovette implicare anche un difficile e non poco imbarazzante confronto romano del sindaco e dello scrivente col principe dei soprintendenti. Come si vede e spero si vedrà per sempre passeggiando nella piazza ammirando il palazzo (incresciosa presenza delle automobili permettendo), la battaglia fu vinta. Davvero un successo incredibile, eppure i rapporti di forza a livello politico nazionale non erano favorevoli.
Se il Palazzo sopraelevato consistesse lì, ora, irremovibile vilipendio della bella architettura e della buona urbanistica, mi occuperei della ricostruzione del Castello? Non me ne importerebbe un fico! La piazza rappresenterebbe da mezzo secolo uno dei peggiori casi di rovina dell’ambiente urbano nazionale, del tutto in accordo con la generale rovina dei paesaggi naturali, dei territori agricoli, delle coste, delle montagne e via a elencare fino, da ultimo, a dire di un piccolo lacerto d’ambiente dimenticato dal caterpillar che cerchiamo di conservare come in una teca di cristallo antiurto per lasciarlo all’esame curioso delle future generazioni.
Dopo la visione delle immagini del plastico, in diversi passaggi a Novara ho potuto consolidare in certezza le prime impressioni. Quel che rimane solo a livello di queste ultime è relativo all’edificio nuovo previsto lungo il lato occidentale del quadrato. Secondo Italia Nostra (a cui mi unisco) e altri certo non meno competenti dei “famosi” esso non c’entrerebbe nulla con le indicazioni in pianta di un corpo preesistente e irreparabilmente perduto. Tuttavia non è questo l’aspetto che mi preme marcare, ma un altro, ossia la resa del progettista e del committente alla mania d’oggigiorno di trasformare pretesti di restauro in ristrutturazioni pesanti e inserimenti di volumi nuovi giustificati mediante le più varie e fantasiose destinazioni indicate col noto disarmante linguaggio (valorizzare… far vivere… far rendere…) senza sapere se l’eccesso di roba estranea al motivo d’esistenza del manufatto storico servirà davvero.
Mentre aspetto il resto, è la nuova torre che non riesco a sopportare. Non ritengo di entrare nella diatriba, vecchia come il cucco, circa l’eventuale inserimento di opere moderne accanto o ad assetti spaziali e architettonici di alto valore storico estetico o in ogni modo degni di forte attenzione e rispetto. Concedendomi un altro accenno autobiografico cito la presenza nel centro storico di un edifico con la facciata in ferro e vetro inserito nella cortina di case in Via San Gaudenzio: opera (1960-61) dello scrivente, associato prima a Novara e poi a Milano fino al 1969 con Vittorio Gregotti e Giotto Stoppino, pubblicata in diverse riviste di architettura.
Macché torre! Perché questa invenzione presuntuosa? Perché un tale falso di 24 metri d’altezza? Perché voler disturbare lo stare e muoversi in piazza, guardare e ascoltare lo spazio attorno, obbligandoci a volgere gli occhi verso un perno su cui si vorrebbe farla girare, la nostra piazza? La torre insensata, sarebbe un buon titolo. Senza senso, dunque senza sentimento, quella parte in alto con gli orecchioni; di certo non si sapeva in qual modo concludere un volume già di suo forzoso. Senza senso quel parallelepipedo, e quell’altana un formalismo scriteriato (una stüpidada – la signora Franca Ciampi la direbbe “deficiente”, così bollò la televisione) priva di destinazione: cosa potrebbe essere? Un osservatorio fra tre muraglie erette per volere essere molto alti mentre si è piccoli e inguaribilmente provinciali? Una visione dall’alto ma vietata su tre lati?
Altri tempi rispetto a mezzo secolo fa, quando salvammo Palazzo Orelli. Peggiori.
Milano, 20 marzo 2008
E’ apparso un articolo dal tono mezzo apostolico e mezzo giuridico a firma dell’ex Soprintendente archeologico, Vincenzo Santoni, che ha avuto una parte a nostro avviso negativa nelle disavventure di Tuvixeddu. Lo scritto mescola il Papa con massime giuridiche, omelie con la sentenza del Tar sulla necropoli. Ci ricorda con un tono da Paolo di Tarso, che dobbiamo camminare insieme sostenuti da “una ferma inquietudine per la verità”. Poi prende il tono tenebroso del giure.
L’ex Soprintendente parla anche di tutela. E proprio sulla tutela del colle ci siamo interrogati dopo la gravosa lettura dell’articolo.
Sappiamo dalla stampa che qualche giorno fa la Guardia Forestale ha controllato con un sopralluogo se a Tuvixeddu c’è corrispondenza tra il progetto del giardino a gradoni babilonesi e la sua realizzazione.
I ranger – così oggi chiamano le guardie forestali - hanno rilevato differenze importanti tra il disegno degli architetti e quanto, invece, l’impresa ha realizzato. Insomma, sembra che durante l’esecuzione del progetto il costruttore abbia fatto di testa propria. La stampa ha parlato dei camminamenti che da 80 centimentri si sono allargati a 4 metri, delle fioriere in stile babilonese - ma questa faccenda dello stile è una sciagura già presente nel progetto - che esorbitano le dimensioni prescritte. In sostanza la realizzazione del progetto è diversa dal progetto originale.
Ci chiediamo come sia potuto accadere che la Soprintendenza archeologica, rappresentata all’epoca proprio dallo stesso Vincenzo Santoni, abbia trascurato il controllo dei lavori nel giardino che confina con l’area di maggior valore archeologico. Ci domandiamo se è normale che ci sia voluta la benemerita Forestale per eseguire delle semplici misurazioni. Ci chiediamo se non sarebbe bastato un Soprintendente armato solo delle proprie gambe, di occhi, occhiali e di un metro lineare. Ci domandiamo dove fosse la Soprintendenza archeologica quando la dimensione dei camminamenti si quintuplicava, dove fosse il Soprintendente quando le fioriere crescevano oltre misura.
D’altronde ci siamo già posti la stessa domanda in altre occasioni.
Ci siamo chiesti perché la stessa Soprintendenza abbia permesso la copertura dell’anfiteatro, la cementificazione dell’antico camminamento scavato nella roccia a Buoncammino. Ci siamo chiesti dove era la Soprintendenza quando il colle di Tuvumannu e i suoi reperti sono stati ricoperti da desolanti costruzioni di cemento armato, dove era quando un tempio punico è stato ricoperto da un’agenzia di viaggi, dove era quando a Santa Gilla scomparivano i segni preziosi della città fenicia e di quella giudicale affogati da una volgare città mercato, tanto sempre città sono. Ci chiediamo con amarezza quale tutela ricevano oggi le tombe di Viale Sant’Avendrace che saranno nascoste alla vista da un nuovo palazzo di cinque piani.
Beh, noi crediamo che l’azione di tutela debba essere esercitata esclusivamente per quello che la parola significa. Pensiamo che la tutela non ammetta vie di mezzo e che in nessun caso debba consistere in una mediazione. Altri sono chiamati a mediare.
Il compromesso tra parti impari ( Tuvixeddu fragile e l’impresa piena di forza ) è causa di un danno irrimediabile al bene più debole. Questa consuetudine disastrosa fa sì che il bene, limitato ed esauribile, perda ad ogni mediazione un pezzo di sé, sino all’esaurimento. Noi ci aspettiamo dalle Soprintendenze una lineare e coraggiosa azione di pura tutela e protezione, senza vie di mezzo.
La valorizzazione di un patrimonio culturale viene dopo la sua salvezza. Farlo conoscere e divulgarlo spetta alle regioni, non alle Soprintendenze. La conoscenza di quel patrimonio, dice il nostro ordinamento, deve in ogni caso privilegiare la tutela che resta l’esigenza primaria. Insomma, prima si tutela e poi, solo poi, si valorizza.
Dalle nostre parti si procede al contrario, come i gamberi. E la tutela è poco praticata. Nell’Isola viene prima la “fruizione” dei luoghi. E per renderli “fruibili” i luoghi vengono di fatto alterati e distrutti. Poi, quando è troppo tardi, si procede alla tutela. Un esempio su tutti. L’Anfiteatro romano è stato ricoperto con tavole e tubi proprio a causa della “fruibilità” e della “valorizzazione”. Lo si è falsificato, alterato, reso invisibile e si racconta che così lo si tutela.
L’articolo dell’ex Soprintendente ci ha tolto un altro po’ di speranza. Tuvixeddu è anche una metafora del rapporto tra noi, la nostra storia e un distruttivo presente che qualcuno confonde con la modernità.
Durante la campagna elettorale qualcuno accenna finalmente al dimenticato tema dell’abitazione. Allora ”il problema della casa” – locuzione cara per decenni alle battaglie della sinistra – sembra esistere ancora. Vogliamo però, nella misura in cui esista, sentir dire con chiarezza che l’abitazione equa deve essere un principio basilare, come il salario adeguato, come l’assistenza sanitaria pubblica per tutti, un impegno attuativo obbligatorio per i governanti d’ogni livello territoriale, dai ministri ai sindaci. Finora, più che commuoversi dinnanzi al problema della casa i politici si sono impigliati a riassestare quella casa della politica fracassata per colpa loro. Per non parlare della Cdl, una “Casa della libertà” che con Berlusconi decantava la fortuna degli italiani diventati tutti proprietari (mentre a sinistra non mancavano i creduloni).
Così, certi avvenimenti sembrano inverosimili. Come quando, poco più di due anni fa, un imponente corteo di inquilini rilanciava nelle strade di Roma vecchi slogan operai e chiedeva provvedimenti urgenti: no agli sfratti, no alla liquidazione delle case popolari pubbliche, no al giogo del debito con le banche, sì a un mercato degli affitti controllato dall’ente pubblico e accessibile ai redditi da lavoro subalterno. O quando pochi mesi prima il candidato sindaco Letizia Moratti aveva incautamente promesso 45.000 alloggi popolari dinnanzi allo scandaloso livello dei prezzi milanesi. Una promessa falsa, una quantità impossibile: si è visto come l’impegno della signora sia approdato a festeggiare l’alluvione di milioni di metri cubi edili privati, lussuosi, cagionata dal predominio di speculatori vecchi e nuovi, compresi noti violatori di leggi e norme (e oggi, immemore, propone genericamente la costruzione di 3.000 alloggi in dispersi terreni comunali periferici da concedere a imprese private disposte all’accordo, procedendo lungo la strada del fare e disfare senza pianificare). O quando al principio di febbraio, di nuovo a Roma, un’improvvisa invasione del municipio da parte di cittadini disperati per la loro condizione abitativa, anzi non-abitativa, era silenziosamente ricacciata e ignorata dai mezzi di informazione. O quando recenti articoli sulla condizione lavorativa di immigrati africani nel Sud, messi a raccogliere patate a tre euro l’ora dagli intoccabili mercanti di bracciantato, potevamo collegarli agli articoli di un anno e mezzo prima che insieme alla condizione salariale raccontavano del loro habitat: certi gruppi vivevano in un boschetto in condizioni peggiori che nei crudeli slum sudamericani e africani.
Per la verità, ogni tanto, per ragioni contingenti dovute ad allarmismi circa la cosiddetta sicurezza scatta un gioco al rimpallo di responsabilità riguardo al bisogno di alloggio di immigrati nelle grandi città, o dei tartassati Rom, o dei senza alloggio per così dire assoluti, quegli homeless la cui morte civile in città come Milano e Roma pare non meno certa di quella dei loro compagni della Bowery newyorkese. Ma niente si attua, oppure si adotta la soluzione criminale (e “finale” secondo il messaggio nazista) del comune milanese di Opera nei confronti dei Rom baraccati, tanto nota da non doverla ricordare qui.
Situazioni di piccole minoranze si dirà, poco significative della effettiva consistenza del problema casa. Perché occuparsene?
E tra le famiglie residenti sarebbero talmente poche quelle non proprietarie dell’abitazione da non doversene interessare? Quante saranno veramente? Tutti proprietari anche i poveri? La proprietà dell’abitazione non significa sicuro benessere sociale, né conformità della misura e qualità dell’alloggio ai bisogni reali primari. Ma il peggio si concentrerà nelle affittanze. L’ultimo censimento della popolazione e delle abitazioni (2001) è troppo lontano, tuttavia da lì si deve partire per le valutazioni odierne senza eccedere in indagini campionarie. Di 27,3 milioni di abitazioni ben 5,6 non erano occupate (quasi il 21%!), 6,2 (29%) erano in affitto o assimilate. Scopriamo inoltre da un confronto semplice che un forte surplus di famiglie rispetto alle abitazioni occupate voleva dire almeno mezzo milione di famiglie coabitanti.
Oggi le abitazioni occupate in proprietà saranno circa l’80 %, un aumento notevole dal 71% relativo a sette anni fa. Le famiglie danno il sangue, si indebitano per ripararsi, mettersi al sicuro dalle vessazioni del mercato a meno che poi il mutuo non diventi un’ossessione e infine una condanna. Il 20% di alloggi in locazione o comunque non goduti in proprietà (una percentuale inferiore a quella degli alloggi vuoti, ora stimati nel 24% dal Coordinamento europeo per l’alloggio sociale), esclusa la piccola parte di famiglie che preferisce l’affitto riguarda le famiglie, cinque o sei milioni, che si arrabattano ogni giorno dentro un mercato dai prezzi spropositati, oltretutto nettamente scisso dal mercato del lavoro, motivo non secondario di penosità del vivere.
Il riformismo socialdemocratico europeo, quando attuava potenti programmi sociali per la casa, sapeva che per lo stesso capitalismo moderno la riproduzione doveva assicurare la produzione e che della prima l’abitazione era una componente necessaria. Ora la globalizzazione disloca la produzione, muove i lavoratori dappertutto, usufruisce della loro riproduzione ma potendo fregarsene di farli abitare degnamente. Non mi meraviglio che anche in Italia i modelli salariali e abitativi possano sfiorare i confini della sopravvivenza, se non valicarli come nella Manchester studiata da Engels.
Allora, vogliamo, sinistra arcobaleno, unica sinistra sopravvissuta al tradimento veltroniano, dar largo spazio anche a tutto questo nello scontro elettorale?
Milano, 4 marzo 2008
Guardo l’apocalisse napoletana da un punto di vista urbanistico generale. Destino del territorio, del paesaggio, degli spazi aperti, di quel poco di campagna produttiva rimasta in Italia. Il nostro territorio consiste in una specie di deposito incustodito buono per tutte le stagioni e per ogni roba. Cosa non facciamo al territorio, cosa non gli scarichiamo sopra e sotto senza chiedergli il permesso. Abbiamo coperto le superfici libere con miliardi di tonnellate di pattume: in primo luogo costituito dai 120 milioni di stanze d’abitazione delle quali più di un quinto vuote (ma capaci di devastare le coste marine e lacustri, le chine montane e collinari), un altro quinto superflue e il rimanente, detratte le case d’anteguerra, responsabile delle rovinose brutture di centri urbani e periferie. E poi tutti gli altri tipi di edifici di cui buona parte abbandonati come gl’inservibili capannoni di industrie in crisi o abolite, come i giganteschi fabbricati per attività terziarie morti per manifesta inutilità. E vari generi di infrastrutture fra cui autostrade clientelari e sbagliate, un affare gonfiato ad arte mediante il sopradimensionamento delle opere, cemento e ferro moltiplicati per tre rispetto al necessario (esempio la ricostruzione della Milano-Torino). E la spazzatura vera e propria, l’immondizia che ogni cittadino produce, noncurante, come fosse un robot dedito a prendere le cose da una parte e a depositarle dall’altra: dove? Diamine, da qualche parte, appunto completando l’occupazione della terra libera. Così la raccolta realizza altri colossali edifici costituiti dalla miriade di prefabbricati che sono le stupide “ecoballe”; costruzioni come gigantesche mastabe che gli egiziani non sarebbero stati in grado di erigere. Oppure disloca sterminati profondi vasconi dove gli strati successivi della ricompressa materia presenteranno agli archeologi del 3000 curiose e pericolose testimonianze di una speciale inciviltà distrutta dalla proprie deiezioni.
E arrivarono i sospettabili inceneritori e i “progressisti” termovalorizzatori (valorizzare, parola la cui sola pronuncia dà ai nervi, figurarsi quando diventa azione concreta). Altri potenti invasori dello spazio libero, altri sovvertimenti territoriali. E’ buona cosa non buttare il calore, è cattiva inferire altri duri colpi al nostro personaggio-territorio che non può sostenerne più. Installazioni come queste sono veri e propri insediamenti industriali complessi, massivi, imponenti, inquinanti ammorbanti infestanti in diversi modi; andirivieni incessante di automezzi, strade per farli muovere, condotte, rumori. Insomma un enorme carico territoriale degli impianti che si trascinano dietro la necessaria violenza di varie infrastrutture.
L’Italia è un paese perso, ha mangiato in gran parte sé stesso. Tuttavia cerchiamo di trasmetterne i lacerti nobili alle nuove generazioni, sperando che circa l’intero paesaggio siano loro ad avviare l’unica azione sensata: demolire demolire demolire, restaurare restaurare restaurare. Per questo dobbiamo ad ogni costo difenderli, quei residui, da ogni insolenza sviluppista. Il tema dei rifiuti e il tema energetico si tengono insieme. Ci domandiamo, per dirne una relativa ai compiti della politica: che fine ha fatto l’impegno per un piano energetico nazionale, effettivo, non parolaio? e perché la sinistra non ha affrontato seriamente il problema della produzione delle merci e del consumo? Parlano di termovalorizzatori e tacciono delle cose da bruciare. Allora, la nozione di spreco e del consumismo riguarda tutto, merci ed energia. Spreco significa consumo superfluo, eppure ridurne anche il più stupido terrorizza a destra e a sinistra giacché il pensiero unico si fonda sulla perorazione di più consumi più consumi più consumi, sembrando questa l’unica scelta possibile per sostenere la produzione. Ricordo l’articolo di Carla Ravaioli del giugno 2005, Energie rinnovabili e capitalismo. Lo spreco è connaturato al modello di sviluppo capitalistico. Per risparmiare energia e merci occorre “un forte e progressivo contenimento della crescita razionalmente pianificato e gradualmente attuato: insomma un modello economico e sociale diverso da quello oggi vincente”. Eh, già; penso che dovremmo rilanciare le vecchie convinzioni. Cominciamo dai peggiori beni di scambio rappresentativi del consumismo: li negherebbero cittadini che aspirino davvero ai più alti livelli di civiltà e, in conseguenza, di autentica modernità. Nelle questioni relative al territorio e alla città serve di nuovo, come cinquant’anni fa, un’analisi di classe in senso marxiano. Non diversamente, circa la prospettiva di produzioni e consumi da cui possa derivare un’effettiva riduzione degli oggetti e dei loro detriti, dei prodotti vitali e dei loro avanzi, connaturandovi il risparmio energetico, vuol dire privilegiare i beni d’uso necessario di per sé limitati di numero. Ma bisogna imparare a disdegnare, oltre ai puri beni di scambio, coloro che ce li vogliono imporre.
Milano, 19 gennaio 2008
Sino a non molti anni fa la Sardegna non possedeva, per fortuna, un’immagine. Nessuno ci conosceva, nessuno sapeva nulla di noi. Poi, di colpo, ci è precipitata addosso l’Immagine, senza la quale, sino ad allora, avevamo vissuto bene, benino.
In questi giorni, durante il dibattito sull’immondezza, alcuni Consiglieri regionali, e un piccolo coro di Sindaci metrocubisti ( cinque sindaci solitari su più di trecento ) hanno tirato in ballo l’Immagine dell’Isola. Hanno detto, nientemeno, che dallo smaltimento di immondezza altrui la Sardegna avrebbe ricevuto un danno grave, appunto, di immagine.
I Consiglieri e i sindaci si sono preoccupati della nostra bella immagine costruita con sofferenza e molto sangue, anche a Orgosolo, con il sangue recente di Peppino Marotto, con quello degli omicidi che lo hanno seguito e dei moltissimi che lo hanno preceduto. Hanno temuto, i Consiglieri, che il nostro impegno secolare nel campo dei sequestri di persona, bambini compresi, finisse in un nulla per un poco di immondezza. Che finisse in una bolla di sapone l’impegno profuso nel devastare i nostri paesi, nella distruzione delle nostre coste, nello spopolare l’interno, nel trasformare in una landa nera la spiaggia del Poetto, nel rendere orribili le periferie di Cagliari, di Sassari, Olbia, Alghero, nel fare di Nuoro un’unica periferia, nel rendere una trappola mortale la nostra strada più importante, mai finita. Che andasse in fumo lo sforzo della nostra criminalità per restare la criminalità d’un tempo che però, in nome dell’immagine, si è adeguata alla modernità con ruspe per i bancomat. Che si vanificasse l’impegno di mantenere gli indici di abbandono scolastico tra i più alti e il numero dei laureati tra i più bassi perché servono camerieri e muratori. Insomma, si sono preoccupati, pochi Sindaci e pochi Consiglieri, di difendere un’immagine costruita con pazienza e cura.
E mentre il resto dell’Italia indicava l’Isola come buon esempio di civiltà, i nostri pochi Consiglieri e Sindaci trasformavano l’immondezza (non scorie radioattive ma immondezza comune) in una bandiera politica. Che la politica si possa trasformare in immondezza è noto. Ma che un cassonetto possa essere di destra o di sinistra è difficile da comprendere.
Però, siccome alla fine tutto torna all’equilibrio, la nostra vera immagine è stata presto ristabilita. Tutta l’Italia ha visto le bandiere con i quattro mori sventolare insieme alle fiammelle tricolori e poi la teppaglia prezzolata assediare un’abitazione privata. Così anche Cagliari ha avuto, come si dice, la sua visibilità in prima serata sino al premio dell’apertura dei telegiornali nazionali. Un successo. Sono stati arrestati sei ideologi antispazzatura per reati vari e sono stati condotti in carcere due maestri di pensiero per un attentato incendiario all’abitazione privata del Presidente della Regione. Massima visibilità e immagine salvata, dunque. E se i nostri indipendentisti irsuti e Consiglieri appassionati all’immagine continueranno a “battersi” con questa energia otterremo risultati ancora migliori, sino all’eccellenza. Basta insistere, la strada è quella buona e l’immagine sarà salva.
Pubblicato anche su La nuova Sardegna, 16 gennaio 2008
I “super-architetti” (definizione di “Repubblica”, 8.11.2007), ovvero gli architetti internazionalisti presenti dappertutto nel mondo con opere di ogni genere, edifici pubblici – musei, auditori, università, stazioni, ponti…, o building privati per uffici e abitazioni (poche) per lo più in forma di grattacielo, parevano immuni da critiche. Chiamati da istituzioni pubbliche e private, da finanzieri e imprenditori per fornire prestigio e rendite mediante costruzioni grandiose o/e fantasiose piuttosto che effettiva soluzione di un problema, detengono un seducente potere individuale volto a segnare il destino di luoghi urbani senza attenzione alcuna ai bisogni sociali prioritari. In Italia i sindaci, non solo delle città maggiori, sembrano contendersi o dividersi le prestazioni di questi speciali progettisti solitamente collegati, o collegabili nel giusto momento, ai consorzi di imprese edili e ai grandi proprietari fondiari. E mai, mai la scelta dell’intervento voluta in comunione dai diversi soggetti in campo ha accettato i vincoli del piano regolatore esistente, o è quantomeno derivata da un’idea di città e organizzazione territoriale dichiarata prima dagli amministratori pubblici.
È superfluo ricordare nuovamente il caso di Milano, peggior esempio più volte discusso in Eddyburg e riassunto esemplarmente da Oreste Pivetta sull’Unità (23 e 28 ottobre). E Firenze? Il sindaco toscano che nel 2005 cerca di copiare il collega milanese perorando la chiamata di architetti stranieri famosi per donare alla città (questo il senso delle sue parole) punti singolari di presunta modernizzazione attraverso forme architettoniche inusitate di certo irriguardose dei tanti problemi irrisolti della città; per esempio il traffico insopportabile o lo sconvolgimento estetico delle strade commerciali. E l’appartata, benché esposta al mare, Savona? Amministratori e speculatori edilizi, davanti alla comunità attonita e forse in maggioranza consenziente, si accordano come uno strumento a suonare l’accettazione di due progetti diversamente firmati – grattacieli sformati e muraglie di palazzi – del tutto avulsi da regole e norme locali: luoghi coinvolti lo storico porticciolo della Magonara e il porto turistico della Torretta.
E quante altre città, regioni e provincie si potrebbero elencare perché sottoposte nel temibile XXI secolo, come in una guerra dei sette anni, alla potenza delle imprese immobiliari e al decisionismo di sindaci e presidenti di regione servile verso le prime anziché servitore del bene sociale? Ma il poderoso intervento edile extra-regole desiderato dai due poteri alleati riesce ad affermarsi, acquisendo anche i titoli per approdare ai giornali e alle riviste, solo grazie alla propensione dei super-architetti ad accettare ogni tipo di incarico professionale senza alcuna incertezza, senza sofferenza, per così dire, riguardo a ciò che sta davanti e dietro allo svolgimento dell’affare; senza alcuna riflessione, poi, verso le immancabili problematicità relative a qualsiasi azione nel vivo della città, ossia della società urbana. Pronti a tutto, si espongono anche al peggior fallo culturale e professionale pur di realizzare una clamorosa testimonianza del proprio divismo, edificare una cosa nulla c’entrante col contesto storico-sociale, dunque spregiativa della città e della comunità. Architettura in definitiva disumana: infatti a nessuno fra autori, esecutori, amministratori e compagnia importa il contenuto. Cosa c’è dietro il vetro? Uomini, macchine, farfalle? Vuoto?
Quali città e territori si salveranno dalla falsificazione della modernità architettonica se persino nello sconosciuto comune di Mola di Bari – già nelle mira di Eddyburg lo scorso anno – i fronti a mare di sud e di nord dovevano essere maltrattati dalle colossali e grattacieliche cubature progettate dall’architetto internazionalista di passaggio? Quali delle poche città ancora dotate di uno scampolo di bellezza d’architettura urbana, vale a dire paesaggio architettonico d’insieme oltre che singolo monumento, se anche Torino dovrà accettare anch’essa obbligatori ma insensati grattacieli non potendo resistere alla necessità del potere finanziario-bancario di rappresentarsi come alto, forte, imponente e prepotente? Perché l’italianissimo progettista del primo gigante a Porta Susa si comporta come fosse autorizzato a trasgredire le buone regole esistenti? Perché ignora un piano regolatore recente? Come può rivendicare una sorta di virtù sacrale assoluta, intoccabile del proprio progetto quando, al contrario, è la città a dover essere interdetta alle azioni promosse all’improvviso senza conoscerne a fondo il corpo e l’anima?
Quei super-architetti possono farne di tutti i colori. Non esistono i critici d’architettura, non vige alcuna autorevole critica paragonabile alla critica d’arte. La dimostrazione di quanto sia vera la frivolezza di certi autori risiede nella incredibile disponibilità ai cambiamenti del progetto riguardo alle forme: solo esse, giacché non si sognano di ridiscutere, poniamo, la volumetria espressione di sfruttamento fondiario speculativo, nemmeno quando spropositata (e lo è sempre per l’intrinseco carattere delle operazioni immobiliari proposte quali alternative a limiti esistenti); o, tantomeno, l’assurdità dell’intervento dal punto di vista urbanistico. Milano, area dell’ex Fiera: i tre progettisti superstar, tra l’altro del tutto estranei alla nozione di contesto così distintiva della scuola milanese di architettura, erano pronti a ridurre appena le altezze dei tre grattacieli su richiesta del sindaco Letizia Moratti rigonfiando altre parti per conservare la cubatura totale. Delle forme definitive non si sa nulla, è probabile che l’edificio sciancato e il pendente lo saranno meno o non lo saranno affatto. La densità fondiaria altissima, essa primario impedimento alla realizzazione di un parco benché piccolo ma non falso come nella menzognera propaganda, è garantita. Sempre a Milano gli edifici previsti nel quartiere Isola (parte dell’operazione immobiliare di Garibaldi-Repubblica) sono cambiati più volte, ma il divieto dell’imprenditore-proprietario di concedere anche un solo centimetro cubo in meno alle proteste degli abitanti è irremovibile. Forse per burlarsi dei mugugnanti, a un certo punto del confronto il rendering di due grattacieli presentava sulla copertura pali e rotori per l’energia eolica. Del resto il divertissementdei rendering relativi al porticciolo della Magonara a Savona è passato da un grattacielo curvo a strapiombo sul mare, una banana di 120 metri, a una specie di tortiglione, come un tubo di plastica semi-rigida tenuto in mano ai due estremi e ruotati in senso opposto così che la parte centrale si deformi stringendosi.
| Savona. Seconda proposta di Fuksas |
Ci deve essere una qualche sciagurata legge di comportamento nell’impiego del computer per restituire facili immagini in prospettiva di edifici e complessi edilizi. Viviamo in un’epoca della progettazione architettonica in cui troppo spesso, e sempre nel caso delle grandi opere di super-architetti, il progetto di massima è sovvertito. Una volta (e forse ancora oggi presso certi studi organizzati artigianalmente) era elaborazione chiara molto impegnativa per l’autore, già risolutrice delle diverse opzioni, delle contraddizioni e dei ripensamenti, perciò approdava agevolmente al rigoroso progetto esecutivo non demandabile ad altri. Oggi si riduce a figure informatizzate più o meno scintillanti ma generiche, irreali, messe insieme dai mozzi dell’ufficio; per forza prive di principi basilari relativi a proporzioni, destinazioni, funzioni, relazioni con la complessità urbana e la sua storia.
E il progetto esecutivo? Il passaggio non interessa al super-architetto. Varranno le prestazioni di gruppi specialistici abili nei più sofisticati metodi di disegno al computer e nel reperimento delle tecniche “impossibili” atte ad affrontare le forme edili astruse per statica e funzionalità. Gruppi talvolta appartenenti agli atelier professionali del maestro (peraltro un Norman Foster, si narra, è servito da cinquecento dipendenti), oppure impiegati o fatturisti delle imprese di costruzione. Queste, a loro volta, cercheranno di realizzare quelle forme ricorrendo ai più aggiornati espedienti tecnologici. Insomma, cos’è uno qualsiasi degli edifici più insensatamente arditi (per così dire) o il più scompigliato saggio di decostruzionismo? Se non esistesse l’informatica sarebbe una maquette, un oggettino, una scultura, un sopramobile ingrandito cinquecento volte, trasalito a un’architettura priva di visceri, di sangue. Di verità.
Allora in questi giorni vorrei festeggiare: dall’articolo di “Repubblica” citato nella prima riga, titolo “Le grandi opere fanno acqua, vacilla il mito dei super-architetti” (p.31), sappiamo che due dei protagonisti del mercato architettonico mondiale, Gehry e Calatrava, dovranno rispondere a pesanti accuse, denunce al magistrato e richiesta di danni a causa di gravi errori di progettazione ed esecuzione in opere note in tutto il mondo: rispettivamente il nuovo centro Ray and Maria Stata del Massachusetts Institute of Technology e il Palau de les Arts commissionato dalla città di Valencia. Alberto Flores D’Arcais ricorda molti altri casi dello stesso genere. Abbiamo la conferma che l’architettura di moda, come i vestiti le scarpe la biancheria, sembra concepita per la breve durata, scene fragili di uno spettacolo temporaneo, “forme gastronomiche” ha detto qualcuno. Evidentemente i super-architetti (“’star’ come Renzo Piano… Richard Meyer… Arata Isozaki… Daniel Lebeskind…”), noncuranti della solida architettura della realtà, non son fatti della stessa carne di un Brunellesco (benché un sindaco pazzo proprio al maestro del Rinascimento li abbia paragonati); lui che, ci racconta Julius von Schlosser, “sale attivo sulle impalcature” (1929, poi in Xenia, Laterza, Bari 1938, saggi tradotti da Giovanna Federici Ajroldi).
Milano, 14 novembre 2007
Il pianeta degli slum , Feltrinelli 2006. - Ne conoscono qualche immagine, gli studenti avranno visto su giornali e riviste o casualmente alla televisione (che però, lo sappiamo, nell’informare è falsa come Giuda) il modo di abitare e di vivere cui devono soggiacere milioni di persone in molte megalopoli: le gigantesche proliferazioni urbane cancerogene e metastatiche nel Terzo mondo cui sarebbe sbagliato assegnare il termine urbanistico di “espansione urbana”: troppo dolce, troppo collegato al processo normale e per così dire occidentale che la città ha da sempre introiettato nel suo puro consistere. Per la verità il concetto di espansione e la realtà cui è riferibile sono mutati profondamente nel corso del tempo. Oggi per esempio, riguardo al territorio milanese, come a molti altri contesti italiani, europei e americani, designiamo col termine sprawl un tipo di espansione, o di aggressione (per dire che l’una vien da dentro, l’altra da fuori) che non ha niente della tendenziale crescita fisica della città fino a tutta la prima metà del XX secolo. Lo sprawl è la scomposta periferia metropolitana, (to sprawl, propriamente, significa ”adagiarsi in modo incomposto”), il confuso spazio una volta in gran parte campagna nel quale gli abitati non sono più riconoscibili nella loro conformazione storica ma sono mischiati, unitamente al margine della città centrale, in un magma entro il quale non riusciamo più a ritrovare né confini né toponomastica né chiare direzioni stradali. Uno spazio, un’edilizia irragionevoli, privi di dignità civica, estranei ai caratteri della vecchia periferia aggrappata al cuore della città e non del tutto differente. Lo slum periferico è un’altra cosa. Non lo erano le insane e orribili parti delle città industriali ottocentesche descritte da Engels e Marx; né parrebbe del tutto convincente assegnarne il titolo alle strade e vicoli della Napoli descritta da Frank Snowden (Naples in the Time of Cholera, 1884-1911, Cambridge 1995) che tuttavia Davis definisce “pittoresca ma tragica anticipazione della situazione odierna a Lima o a Kinhasa” (p.158), a Città del Messico o a Dakar.
Ad ogni modo per avvicinarsi alla conoscenza del fenomeno slum allo stato attuale della sua manifestazione e delle cause originarie la lettura del libro è, a mio parere, indispensabile. In buona parte del mondo in via di sviluppo (che vorrei tornare a definire sottosviluppo, essendo ormai incontestabile, nel generale processo globalizzante, l’approfondimento del solco che separa i paesi più ricchi da quelli più poveri) la città continua a crescere benché in assenza di capacità di produzione manifatturiera per l’esportazione (che, invece, possiedono Cina, Corea e Taiwan). Persino grandi città con tradizioni industriali come Buenos Aires, Bombay, San Paolo del Brasile… colpite da chiusure di fabbriche e cadute nel noto processo di deindustrializzazione senza contropartita, sono epitome di un fenomeno che peraltro riguarda, benché in forma del tutto diversa, anche città europee e statunitesi: separazione tra urbanizzazione e sviluppo capitalistico. Lo vediamo nel nostro paese: l’esplosione edilizia nell’epoca del decentramento-ridimensionamento industriale e della dominanza del settore finanziario non significa altro che spostamento dell’accumulazione dal profitto alla rendita fondiaria e finanziaria, a costo di produrre edilizia inutile.
Mentre le città del Terzo mondo non riuscivano più a creare posti di lavoro, la politica di deregulation agricola e di dura disciplina nei bilanci economici degli stati e degli enti continuavano a provocare surplus di manodopera rurale che doveva per forza emigrare verso la città, andare ad aumentare la popolazione insediata negli slum o a crearne di nuovi, utilizzando i margini urbani più degradati, privi di infrastrutture e servizi, “inabitabili” secondo qualsiasi canone igienico anche di infima pretesa. Quanto alla “casa”, sappiamo che il termine di “abitazione impropria”, talvolta impiegato nelle statistiche, non solo è insufficiente, ma è ingannevole e capzioso; è difficile immaginare come la soglia del peggio, del più incredibile arrangiarsi con ogni genere di materiali discaricati dalla città possa essere superata per giungere a forme di riparo che nemmeno i nostri fratelli mammiferi accetterebbero.
La ricerca di Mark Davis da una parte conferma che la portata del fenomeno con i tremendi problemi umani che coinvolge è quasi fuori della portata di reale affrontamento. Ci sono paesi nei quali la popolazione urbana è quasi totalmente costituita da slumsman e slumswoman (si accetta questa personale denominazione improvvisata?) e non da townsman e townswoman (locuzione corretta per l’abitante di città). L’Africa detiene il tristissimo primato. Queste le percentuali di popolazione di slum rispetto al totale di popolazione urbana (2003) in Sudan, 85,7, Tanzania, 92,1, Etiopia, addirittura 99,4 (fig. n.6). Vuol dire che in Etiopia pressoché nessuno vive in condizioni abitative anche lontanamente paragonabili alle nostre di cittadini d’Occidente, la parte di mondo che ha storicamente imposto il sottosviluppo ai fini del proprio sviluppo (ripassare, per favore, le note analisi sullo scambio ineguale). In una rassegna di trenta fra i maggiori megaslum (fig. 7) il numero di persone coinvolte va dalle 500.000 di Kinshasa (slum di Masina) alle 800.000 del Cairo (Città dei morti), al milione e mezzo di Lagos (Ajegunle), ai quattro milioni di Città del Messico (Neza-Chalco-Izta).
Da un’altra parte la ricerca offre interpretazioni originali, coraggiose. È impossibile riassumerne il contenuto e il significato anche politico. Mi limito a una specie di sommario:
- in certe città, i residenti in normali case private o pubbliche costruiscono abusivamente nei cortili baracche altri ricoveri, e li danno in affitto a famiglie giovani povere (p.45);
- è assai diffuso dappertutto nel terzo mondo il fenomeno dei “padroni degli slum” che spremono “profitti osceni ancora oggi dalla povertà urbana. Per generazioni le élite possidenti rurali del Terzo mondo si sono trasformate in proprietari di slum urbani”, una “tendenza al latifondo urbano che affonda le sue radici nella crisi e nel declino dell’economia produttiva” (p.80-81);
- da decenni si è affermata nelle maggiori città di Africa, Asia e Sudamerica la concezione di “ostacoli umani”, attributo degli occupanti delle aree marginali che occorre rimuovere per “ridisegnare i confini spaziali a favore della proprietà immobiliare, degli investitori stranieri, delle élite dei proprietari di case e dei pendolari delle classi medie” (p.93). Di qui la politica e la pratica dello “sgombero”che ha riguardato durante quarant’anni centinaia di migliaia di persone per volta, per esempio a Seoul nel 1988, 800.000, Rangoon nel 1995-96, un milione, Harare nel 2005, 750.000 (vedi fig.10, con dodici casi);
- l’equazione marginalità occupazionale = marginalità urbana a partire dal 1980 è dimostrata; la vita penosa dello slum corrisponde al lavoro penoso informale, sommerso o alla disoccupazione irreversibile (p.159);
- sembra ormai senza ritorno il processo tardo-capitalista di “cernita dell’umanità”. Il surplus di lavoratori e di poveri, ovvero (secondo la vecchia definizione materialista) l’esercito di riserva, rappresenta un carico eccessivo nel quadro dell’economia-mondo globalizzata: non sarà mai più compreso nell’economia e nella società, continuerà a sopravvivere ai margini della città e della società come “discarica umana” (p. 47), proprio come l’immondizia discaricata su cui molti slum sorgono. D’altronde, oggi, se arrivano nuovi wretched nel margine urbano “si trovano di fronte a una condizione esistenziale che non si può definire altrimenti che una marginalità entro la marginalità o, con il termine più bruciante usato dall’abitante disperato di uno slum di Baghdad, una ‘semimorte’” (p.178).
Conclusione guardando al polo opposto dell’habitat urbano. I residenti della classi ricche della metropoli cercano ossessivamente sicurezza, isolamento sociale a fronte del pericolo rappresentato dall’assedio dei sottoproletari, indifferente che sia dall’esterno o dal cuore degradato della città vecchia. Nasce la Edge City, l’insediamento suburbano, peraltro usuale da tempo negli Usa, ben protetto da barriere, cinte, cancellate, blocchi stradali. Case come fortezze che uno studioso nigeriano ha definito “architettura della paura” (p.109). A renderla adatta per essere illustrata sulle riviste frequentate dagli studenti, questa architettura, potrebbero pensarci i Libeskind, le Hadid, i Fuksas… e la compagine pronta a fornire la propria immaginosa versione: purché non chiamata a misurarsi con la superata pretesa di coinvolgere nella ricerca dell’architettura la ragione e il sentimento dei contrasti sociali. (Milano, 10 ottobre 2007)
Si veda anche, in eddyburg, B. Vecchi, Viaggio alla fine della città e J. Press, La corsa allo spazio
Dopo la carneficina di Genova del 2001, credo che sia impossibile dir bene del G8. Comprendo appieno le perplessità, le preoccupazioni, le ansie, i no a prescindere, che pervadono gli interventi del “manifesto sardo” per il G8 del 2009 nell’isola della Maddalena. Tuttavia, mi sento obbligato a ricordare che il G7 di Napoli del 1994 fu un'altra cosa (G7 e non G8 perché la Russia allora non faceva parte dei grandi). Senza il G7 non ci sarebbe stata quella stagione di fiducia e di speranza che fu chiamata il rinascimento napoletano. Un rinascimento dissennatamente dissipato negli ultimi anni e poi sepolto sotto una montagna di rifiuti.
Un po’ di cronaca. Alla fine del 1993, Antonio Bassolino era stato eletto sindaco, vincendo al ballottaggio un duello con Alessandra Mussolini che per mesi aveva appassionato l’Italia. Napoli era in ginocchio, stremata dal malgoverno, dagli scandali, dalla corruzione degli anni precedenti. Non funzionava più nulla, dai rubinetti usciva acqua marrone. Il comune era stato dichiarato in dissesto, cioè fallito, si riusciva solo a pagare gli stipendi. Come facemmo a restituire condizioni di vita decenti e ad avviare il riscatto della città è stato raccontato altre volte. Qui è importante ripetere che, senza il G7, i nostri obiettivi non sarebbero stati raggiunti. Non tanto per le risorse finanziare stanziate per l’occasione: disponevamo solo di 20 miliardi di lire, ai quali mi riuscì di aggiungerne altri 35, con un’operazione contabilmente eretica, anticipati dal ministero dei Lavori pubblici dai fondi per l’edilizia popolare. Alla fine spendemmo meno di 50 miliardi con i quali furono pavimentate le strade che i protagonisti del vertice avrebbero percorso; furono restaurate la villa comunale e le fontane delle piazze più importanti da lustri all’asciutto; fu tirata a lucido la galleria Umberto. Ma l’intervento più ambizioso fu il ripristino della piazza del Plebiscito che, prima del G7, era un luogo da incubo, in parte occupata da un cantiere abbandonato della metropolitana, il resto un immenso, terrificante parcheggio. La nuova pavimentazione, e soprattutto la decisione – contrastata da quasi tutta la stampa, da sedicenti esperti (mai fidarsi degli ingegneri del traffico) e dalla maggioranza degli intellettuali – di rendere permanente la pedonalizzazione della piazza, furono la carta vincente. La città si schierò compatta in difesa della giunta, cominciò il rinascimento di Napoli. “Napoli la deforme, Napoli l’incurabile, la disperata, il recinto ribollente, amarissimo del degrado. E adesso, di colpo, Napoli la rinata, Napoli la sfolgorante. La sue sterminate difficoltà sopravvivono, tutte. Ma da qualche settimana questo luogo di fastose meraviglie ritrovate sembra somigliare pochissimo alla patria dei De Lorenzo e dei Pomicino. Si intuiscono le emozioni di un riscatto non solo di superficie ma di coscienze”: così scrisse Donata Righetti su La Voce, allora diretta da Indro Montanelli.
Può servire il ricordo dell’esperienza napoletana nel dibattito sul G8 della Maddalena? Forse no, sono situazioni incomparabilmente diverse. Ma una riflessione sul metodo può essere utile. A Napoli, furono realizzati interventi assolutamente ordinari sfruttando sapientemente (penso di poter dire così) le procedure e i finanziamenti straordinari resi disponibili dal G7: questa credo che sia stata la ragione essenziale del buon risultato. L’occasione non fu sprecata, né si dette spazio a miraggi o peggio, come succedeva prima. Per Italia 90, a Napoli si erano spesi oltre 600 miliardi in opere inutili o delittuose. Penso che abbia ragione Sandro Roggio che ci sarebbe dar far festa se si riuscisse a impedire il vertice sardo. “Ma così non sarà – scrive Roggio – il G8 si farà e porterà denari, molti denari, che potranno essere usati male o bene in un ambiente che vive di turismo e poco altro”. E giustamente propone che si metta mano subito a un’attività di pianificazione partecipata e sostenibile “che tenga insieme tutte le questioni aperte per evitare che si disperda il senso unitario di uno dei paesaggi più importanti del Mediterraneo”.
In alternativa, il G8, oltre a essere, nel migliore dei casi, una stucchevole esibizione dei presunti padroni del mondo, può trasformarsi in una formidabile occasione a favore di vecchi e nuovi speculatori immobiliari.
Cinque anni dal mio primo intervento in eddyburg.it. È passato un lustro da quando, dopo un soggiorno a Venezia, inviai a Edoardo Salzano una copia delle lettere scambiate con l’Istituto veneto di scienze, lettere e arti (Ivsla). Chiedevo all’istituto di ascoltare certi miei rilievi e impressioni relativi ad alcuni orribili aspetti, probabilmente ritenuti minori, della condizione della città; volevo “avere una spiegazione delle ultime sconfitte” e sollecitavo l’Ivsla a promuovere iniziative “per fermare i vandali”, a rivolgersi all’università e a “coloro che conoscono e amano davvero Venezia”. La risposta fu gentile e dichiarante “incompetenza” (!). Né diedero segnali di interessamento l’Istituto universitario di architettura e la Facoltà di architettura di Milano. (Il mio intervento è forse ricuperabile nell’archivio del sito, annata 2002, titolo Mascherata veneziana. Chi possedesse Parole in rete, la prima delle due raccolte dei miei scritti in eddyburg pubblicate da Libreria Clup, lo troverà subito a p.15). Ritornai nel nostro sito (se posso dire così) solo nel 2003, e uno dei primi argomenti fu di nuovo il destino di Venezia. Presi spunto da unarticolo di Francesco Erbani, Se la laguna si trasforma in un Club Méditerranée (Repubblica del 13 aprile). Oggi, nel quinquennale ricordato, mentre forse la maggioranza dei veneziani residui si incanta del ponte di Calatrava (“la grande cazzata”, Salzano) mentre stanno loro sottraendo l’ultima Venezia da sotto i piedi, ho voluto rimettere insieme certi pensieri sulla città conosciuta, e ho deciso di comunicarli ai frequentatori del castello edoardeo.
Il buon piatto di risebisi (così ci suonava risi e bisi)al ristorante-albergo all’Angelo, quasi al fondo di Calle Larga San Marco, pochi passi e si era sul ponte del Rio di Palazzo. Un netto ricordo dell’infanzia, il primo viaggio nella città unica a otto-nove anni d’età, coi genitori e la sorella. Certo non il solo: gli altri, i canali i battelli le gondole, i campielli coi giochi e le voci dei nostri coetanei; correre fra le calli e su e giù per le scale dei ponticelli; stare un’ora almeno sul battello, o sulla gondola lungo i canali stretti guardando scorrere le persone e le case sulle rive; c’impressionava il gondoliere. Ma quel risotto coi grani di riso mescolati ai pallini verdi, un po’ di prezzemolo e di parmigiano (la mamma aveva richiesto di limitare la cipolla) a noi ragazzi era piaciuto specialmente, diverso ma buono per semplicità. Eravamo abituati al risotto alla milanese. Dicevamo spesso alla mamma fa’ il risotto giallo. Semplice, con lo zafferano e senza midollo. Ai bambini non piacevano i cibi ricchi, troppo elaborati. Amavamo il risotto e la cotoletta impanata (senza il “manico” cioè l’osso, una milanese declassata) con le patatine. Sempre quello, giallo. La potente paniscia novarese, coi cavoli e i fagioli, la carota e il sedano, pezzetti di cotica o di costine, solo poche volte all’anno. Risebisi, forse mai più mangiato a Venezia in seguito (dove lo fanno bene, oggi, chiedo a Edoardo).
La città meravigliosa. Presi a frequentarla nel dopoguerra con qualche amico, specialmente in occasione delle Biennali d’Arte. Commissario straordinario della prima edizione postbellica, 1948, era Giovanni (Giò) Ponti che l’anno seguente sarà mio insegnante al corso di Architettura degli interni, arredamento e decorazione. Segretario generale per le arti decorative, Rodolfo Pallucchini. Seguivamo gli avvenimenti dell’arte quanto ci fosse concesso dalle misere condizioni economiche. Riuscivamo a passare qualche giorno a Venezia dormendo in brutte locande e limitando i pasti a quasi niente, mai ci sedevamo a un tavolo di qualche locale, questo fino a metà degli anni Cinquanta. Venezia era piena di segni dell’età e della guerra, ma era dritta secondo la sua storia di città rara e salva per il bene del mondo, non l’avevano ancora rovesciata. La città era vera, non una finzione per turisti; i veneziani esistevano numerosi e resistevano.
Ci tornerò spesso in seguito, potremo (plurale dovuto alla condizione di coppia) goderla senza faticose restrizioni economiche. A un certo punto, mentre tutte le altre città crederanno di aver raggiunto i vertici della modernizzazione riempiendosi di automobili e di veleni, di traffici d’ogni genere invadenti gli spazi civili, Venezia si presenterà alla mente e al cuore delle persone sapienti come l’unica città davvero moderna, la città che si sognava mentre ci si districava nella giungla metropolitana. Mancavano le automobili gli autocarri i camioncini le moto i motorini! Le altre, mortifere, cercavano disperatamente di circoscrivere qualche spezzone del centro (più o meno storico) per renderlo esclusivamente pedonale e non sempre ci riuscivano se non malamente, al contrario Venezia era lì bella e pronta, tutta pedonale, tutta aperta alla persona invece che alla macchina. I canali, poi, come fossero coerenti ai moderni manuali di classificazione delle strade, servivano secondo i mezzi e comunque la cosiddetta motorizzazione per via d’acqua costituiva una taglia, una pena cento volte minore di quella usuale nelle città.
Dal punto di vista urbanistico e architettonico non erano mancati gli obbrobri (per esempio il nuovo Danieli in Riva degli Schiavoni, il Bauer a San Moisè, la Cassa di Risparmio in Campo Manin…), ma la forza coesa dell’organizzazione storica dello spazio, essa stessa totalmente architettura, non aveva perso la guerra contro i vandali come era accaduto a Milano, Roma, dappertutto.
Poi la modificazione da città più moderna del mondo a nonluogo oppresso dal più volgare consumismo estraneo è proceduta senza tregua. Da quando? Ho calcolato, in base alla mia esperienza, a partire da trentacinque, quaranta anni fa. I frequentatori di eddyburg conoscono gli avvenimenti o possono ritrovarne il racconto. Ricordo però che all’inizio degli anni Novanta nacque una nuova speranza. Fu Antonio Cederna a sostenerlo in un articolo su Repubblica del 25 aprile 1990, La rinascita di Venezia (ora pubblicato come “scelto da Luigi Scano” in Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna, a cura di Maria Pia Guermandi e Valeria Cicala, Bonomia University Press). Il piano per il centro storico, “un grande progetto di restauro” varato dalla giunta rosso-verde (sindaco Casellati, assessore Stefano Boato, consulente Scano) sulla base del lavoro precedente avviato da Salzano quand’era assessore all’urbanistica, avrebbe potuto mutare il destino della città, soprattutto fermare l’esodo degli abitanti e riportali almeno a centomila unità (oggi sono meno di settantamila). Sarebbe spettato alla nuova amministrazione dopo le elezioni “attuare il piano e sventare quell’autentica disastrosa calamità che sarebbe l’Esposizione universale del Duemila”. Quest’ultimo, l’unico obiettivo raggiunto. Il progetto è stato tradito e il futuro prossimo renderà irreversibile l’omologazione di Venezia alle altre città. Al posto suo la nuova AIZÉNEV:
- venti milioni all’anno di turisti;
- palazzi storici e belle case normali ristrutturati, fracassati, frazionati, per ottenere alberghi, residence, alloggi da affittare per una settimana o per un week end, negozi e grandi magazzini;
- poche migliaia di abitanti residenti non resistenti, larve atte a “portar fuori il cane” dei nuovi proprietari stranieri;
- laguna sconvolta dal gigantesco macchinismo del Mose (l’“isola intermedia”, il “porto rifugio”, i nuovi moli e le barriere, le paurose “paratoie” diavolesco moloch addormentato sul fondo);
- metropolitana, ossia la terribile “cosa dall’altro mondo” che piomberà (giustamente…) sulla città rovesciata, la più inconcepibile (“incompatibile con la ragione”, Garzanti…et al.) idea che i nemici di Venezia potessero manifestare, fra loro persino l’intelligentone sindaco Massimo Cacciari (non posso capacitarmi pensando alla gente che sale da sottoterra alle previste fermate di Murano, Misericordia, Ospedale Civile, Arsenale);
- e i danni denunciati da me cinque anni fa, continuati fino all’esaurimento della materia da trattare: pareti di edifici di qualsiasi genere dipinti di “rosa e rosa rossi di ogni gamma… assurdi color fragola o giallo polenta… accostamento fra diversi anche su pareti ortogonali” - “finestre in alluminio anodizzato-oro applicate sul filo esterno della muratura al posto dei bellissimi antoni di legno” - “cornici, sporti, segnapiani, colonnine e altri elementi architettonici in pietra d’Istria, rinnovati, anziché con leggera lavatura a getto secondo le buone regole, mediante verniciatura color bianco splendente…”.
(Il cerchio aperto dal corsivo iniziale si richiude su AIZÉNEV: la città da odiare).
12 agosto 2007
Per i biologi e gli ecologi la pianificazione, o comunque le scelte effettuate di volta in volta uniformate solo all’imperativo della crescita illimitata – cui è intrinseca l’enormità della speculazione finanziaria e fondiaria – danneggiano e poi distruggono l’impronta ecologica: la superficie necessaria a garantire le esigenze di una popolazione umana riguardo ai differenti aspetti della sua vita tra i quali hanno importanza prioritaria e i maggiori effetti ambientali la produzione di cibo, lo smaltimento dei rifiuti, l’assorbimento dell’anidride carbonica liberata dai combustibili fossili. Senza territorio aperto agricolo-alimentare, senza il coerente riutilizzo degli avanzi e senza la sintesi clorofilliana dovuta alle stesse coltivazioni oltre che ai grandi spazi boschivi o in ogni modo alberati, vincerebbe la morte, non la vita.
L’impronta ecologica si esprime in termini spaziali. Nella condizione economico-sociale odierna lo spazio in crisi di iper-consumo non è rinnovabile; lo sarebbe solo mediante processi rivoluzionari, ovvero tornando indietro, modificando profondamente i rapporti produttivi, sociali e politici. Il giovane Marx dei Quaderni (taccuini) etnologici pensa che la crisi sociale contemporaneapossa risolversi solo ritornando alla proprietà comunitaria arcaica, e non si spaventa delle parole. Per Fernand Braudel ogni realtà sociale è per prima cosa spazio; gli spazi sono legati da rapporti di dipendenza sia nelle geografie umane vaste sia negli ambienti socio-spaziali piccoli (dunque il giusto progetto, penso, deve mettere in relazione assetti dello spazio e assetti sociali). Marc Augè, nel notissimo Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, sembra lanciare un avvertimento in particolare agli urbanisti e agli architetti: “quando i bulldozer cancellano il territorio […] è nel senso più concreto, più spaziale che si cancellano, con i riferimenti del territorio, anche quelli dell’identità”.
In Braudel e in Augé, come in tutti gli studiosi delle società storiche in rapporto all’identificazione in un luogo, lo spazio è organizzazione consapevole o spontanea volta al bene della collettività; l’opposto di cosa ci racconta la storia/cronaca del contemporaneo nel nostro paese. Scopriamo ogni giorno gli sconvolgimenti territoriali insieme allo scompiglio di piccoli e grandi raggruppamenti sociali (irrilevante se da loro stessi percepiti o no). Impariamo dalla storia, dall’etnologia e dall’antropologia che all’interno di società ben riconoscibili nei caratteri relazionali “l’organizzazione dello spazio e la costituzione dei luoghi rappresentano una delle poste in gioco, una delle modalità delle pratiche collettive e individuali” (Augè). Spazio organizzato, appunto, ossia il territorio vitale per la collettività. Il modo di trattare lo spazio esprime il bisogno della collettività di pensare all’identità, alla relazione e anche ai relativi elementi simbolici. Attenzione: la costituzione dei luoghi non riguarda solo lo spazio d’insediamento fisico aggregato della popolazione, del gruppo, ma innanzitutto lo spazio della necessità assoluta, la base vitale della vastità agro-silvo-pastorale.
Queste constatazioni confermano che il consumo di terra comporta l’abolizione nuda e cruda degli esseri viventi. Si obietterà che l’uomo oggi sta meglio che mai, vive più a lungo. Può darsi che il nostro turno non sia ancora giunto, però segnali ce ne sono, a scala planetaria. Intanto guardiamo nella nostra casa, dove vivono i nostri fratelli mammiferi che ci nutrono. Secondo il Cnr al principio degli anni Ottanta esistevano in Italia 28 razze autoctone di bovini. Vent’anni dopo i nostri fratelli avevano già pagato un duro prezzo alla distruzione delle risorse ambientali. L’Unione europea segnalava che 21 delle 28 razze bovine censite allora erano in via di estinzione.
Osserviamo ora i dati censuari Istat inerenti alle superfici agrarie, sapendo che il territorio nazionale è di circa 300.000 Kmq. Tra il 1981 e il 2000 la diminuzione della Sau (Superficie agraria utilizzata) è stata pesantissima: da quasi 200.000 a circa 130.000 Kmq. Si dirà che la Sat (Superficie agraria totale, comprendente anche i boschi dentro il perimetro aziendale, gli incolti, gli edifici, i fossi, le strade poderali, eccetera) era maggiore (di oltre 60.000 Kmq). Ma è proprio tale differenza a mostrare l’incessante processo di impoverimento. Quanto sarà oggi lo spazio aperto davvero utilizzabile per una buona agricoltura e dunque per fondarvi anche la conservazione incondizionata del restante paesaggio italiano? Quale il ricetto dinnanzi al potere del caterpillar?
Pressappoco nel periodo in cui l’Istat eseguiva i propri rilevamenti, altri avvisarono che si dovevano salvare in prospettiva ad ogni costo almeno 100.000 Kmq netti per coltivazioni capaci di rispondere alla domanda interna e di sostenere la competizione nel mercato internazionale. Quanti saranno oggi? Non lo sappiamo. Sappiamo che il settennio trascorso corrisponde a una decisiva intensificazione dell’ideologia e della pratica di “sviluppo del territorio”, locuzione insensata invece piena di senso reale giacché in questo caso sviluppare significa edificare edificare edificare, occupare terreno con manufatti di ogni genere. Se adottassimo un’ottica valutativa capace di separare il loglio dal grano, vale a dire evidenziare il paesaggio agrario effettivamente in piena salute, una stima intorno alla metà sarebbe forse la più credibile.
Gli economisti, secondo Kenneth Boulding – preciso riferimento di Carla Ravaioli nella sua incalzante critica al modello economico dominante – sono le sirene pazze della crescita economica. Molti urbanisti e architetti sono sirene perfettamente savie della pianificazione o della libera azione incentrate sull’espansione fisica, sull’occupazione di terra libera, sulla crescita infinita dell’ingombro: uguali uguali ai proprietari fondiari, agli impresari edili, agli improduttivi imprenditori di iper-mercati e centri commerciali, ai politici e amministratori pubblici fautori di grandi interventi liberisti e di infrastrutture inutili. E i cittadini, “la gente”? Come hanno potuto accettare la continua sottrazione della risorsa originaria? Il suolo, il terreno, la terra… Jarred Diamond, il biologo fisiologo biogeografo americano autore di Collasso. Come le società scelgono di morire o di vivere (2004, Einaudi 2005) definisce “amnesia di paesaggio” la malattia di intere popolazioni. Vedono mutare il territorio e non si rendono conto “che i cambiamenti sono enormi; ci si abitua giorno dopo giorno e quando il problema emerge è troppo tardi”. Si ignora che per formare un centimetro di quel “suolo utile” perduto occorrono secoli.
Che fare? Potranno nuove leggi incidere decisamente sul futuro del territorio italiano? Ribaltare il destino dello scampolo sfuggito al caterpillar? Il passato e la contemporaneità disegnano il futuro se non avvengono rilevanti fratture politiche e sociali. Non abbiamo già sperimentato condizioni legislative decenti benché incomplete? Non sono state costantemente eluse e negate fin da subito nel dopoguerra? Non è vero che la rovina dell’ex Bel Paese (“Malpaese”, Giovanni Valentini) è dipesa da una triade procedurale, se così posso esprimermi, della quale è parte forse maggioritaria, insieme al piano mancato e all’abusivismo, la pianificazione per lo più locale corredata dalle sue sottomarche indipendenti: il piano parziale, il falso piano particolareggiato, la variante urbanistica, il lottizzamento, le iniziative stampigliate da una miriade di acronimi con base P(piano)… e svariate iniziali appiccicate, fino al singolo stranito progettone edilizio decisionista?
A proposito di consumo o risparmio di suolo, cosa ci ha offerto recentemente la cultura di certi progettisti? L’incredibile proposta della nuova città di VeMa, una scorpacciata nella più fertile campagna padana fra Verona e Mantova. I Comuni e le Regioni, quali politiche territoriali stanno praticando? Come il favoloso serpente mercuriale che si forma nell’acqua e divora se stesso, loro mangiano la propria terra. Un esempio recente proveniente dalla Lombardia: la Regione realizzerà un’autostrada di quasi settanta chilometri a 2+1 corsie per senso di marcia da Broni a Stroppiana (mai sentiti questi nomi, amici non lombardi?) in pieno Parco regionale del Ticino: area di riserva Mab (Man and biosphere) dell’Unesco, Zps (zona di protezione speciale), coltivazioni di altissimo pregio (vigneti e soprattutto risi superfini Carnaroli e Arborio).
Accetto l’accusa “sei ripetitivo, conosciamo i tuoi argomenti “ e non mollo: buone leggi nazionali relative al territorio non servono se non si affronta il problema dei poteri in Regioni e Comuni. I sindaci e i presidenti affiancati da giunte infarcite di tecnici subalterni agiscono sulla base del potere personale e oligarchico assicurato da una normativa condivisa dalla sinistra in omaggio alla mitizzata stabilità di governo. I Consigli? Ferrivecchi, memoria di vecchie battaglie democratiche. Non contano nulla, si torcono fra impotenza e frustrazione. Il nuovo potere fa e disfa nelle città e nel territorio aperto, dentro o fuori dai piani, dentro o fuori dai vincoli ambientali. Il decisionismo indiscutibile è diventato esso stesso il piano. La battaglia a difesa del territorio aperto e del paesaggio deve allargarsi alla necessità di risolvere il problema del potere ad ogni grado dell’assetto democratico. Difficile? Certamente, giacché stanno covando nuovi accordi fra i partiti per garantire poteri molto più ampi anche al primo ministro eletto. Ma valga per la sinistra discordante il principio che le buone battaglie vanno sempre combattute anche se si sa che se ne perderanno la maggior parte, forse tutte.
Questo articolo uscirà nella rivista trimestrale “il Grandevetro”, edita a Santa Croce sull’Arno (Pisa). Può essere letto come completamento riguardo allo spazio aperto dell’articolo Alla ricerca dello spazio perdutoriguardante le piazze della città,apparso in Eddyburg il 25 novembre 2006 e pubblicato sul fascicolo n. 78, marzo-aprile-maggio 2007, della rivista L.M.
Articolo 9
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Articolo 114
La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato.
Delle molte o poche disillusioni alle quali l’attuale governo ci ha costretto sinora, ci pare che questa dell’Albero del Programma, sia da ascrivere ai peccati veniali.
Che la riforma del Titolo V abbia costretto il sistema istituzionale ad una continua fibrillazione è stato affermato in moltissime occasioni, anche su eddyburg.
Allo stesso modo più volte, sulla stessa linea di Salvatore Settis, è stata sottolineata l’artificiosità della scissione fra tutela e valorizzazione, frutto di quelle modifiche, e le conseguenze in termini di conflitto che in mancanza di linee di confine certe tra competenze centrali e regionali e ancor più di una definizione dei livelli essenziali di qualità della valorizzazione si sono puntualmente verificate.
Ancora, che il sistema locale sia costituito da realtà fra loro profondamente differenziate, che in taluni casi stentano a trovare, non solo nel settore culturale, livelli di autonomia del tutto accettabili, è evidenza che non merita ulteriori sottolineature.
Ciò detto, ci pare che nell’articolo di Settis si tenda ad accreditare una visione dell’orizzonte regionale come del vero, grande nemico da combattere. In realtà questa contrapposizione strisciante Stato/Regioni è il tarlo che mina l’efficacia di governo della Repubblica, nel suo complesso, estenuando in una conflittualità protratta i soggetti pubblici competenti, a diverso titolo, impegnati da ormai troppo tempo in una sterile rivendicazione di attribuzioni e di ruoli.
L’oggetto della tutela e della valorizzazione è unico – il nostro patrimonio culturale e paesaggistico – e la sua vastità e complessità richiedono al contrario una cooperazione progettuale e operativa di tutti gli operatori pubblici coinvolti, che sola può contrastare l’endemica scarsità di risorse da sempre assegnate ad un settore che, al di là delle tuttora ripetute e altisonanti affermazioni di principio, è caratterizzato da politiche di costante marginalizzazione.
Se allo Stato va garantito, così come costituzionalmente prescritto, il ruolo di “alta garanzia” in grado di assicurare “l’esercizio unitario delle funzioni”, tale unitarietà sarebbe da perseguire non tanto attraverso un esercizio di funzioni centralistico (peraltro sempre più velleitario nell’attuale situazione organizzativa), ma attraverso un sistema generale di garanzie legislative e soprattutto elaborando, a livello centrale (ma magari in maniera condivisa, prima garanzia di efficace e durevole applicabilità…), una unitarietà di regole e metodologie, di procedure e codici di comportamento e di indirizzo scientificamente mirati che, soli, possono decretare una reale omogeneità di obiettivi e di risultati. E organizzando, sul territorio, un sistema costante di monitoraggio e di verifica del raggiungimento di tali risultati.
Le Regioni non hanno dato sempre prove brillanti, ma è pur vero che laddove, come nel settore dei beni librari, la delega delle funzioni di tutela è ormai pratica consolidata da oltre trent’anni, il risultato complessivo non ci pare descrivibile come uno scenario alla Fahrenheit 451. E, tanto per riferirci al casus per eccellenza attualmente additato come esempio della lascivia governativa regionale, a Monticchiello le Soprintendenze competenti nulla avevano eccepito sui progetti edilizi, in nessuna fase del percorso amministrativo, regolarmente attivato e perseguito in perfetta concordia Stato –Regione fino alle denunce, a posteriori, da parte, non di pubblici funzionari, ma di privati cittadini.
La troppo spesso rimpianta l. 1089/1939 si fondava su premesse istituzionali ampiamente mutate già dal 1970. Ma non è solo l’impianto istituzionale ad essere, nel frattempo, totalmente cambiato, l’evoluzione concettuale intervenuta del termine “bene culturale” ha condotto ad una dilatazione dell’insieme del patrimonio, aumentato a dismisura sia in termini quantitativi che di interrelazione e di contestualizzazione. E via via più articolata e stretta si è fatta l’interdipendenza tra gli interventi in materia e le restanti politiche pubbliche. Così è il concetto stesso della tutela che oggi deve confrontarsi con esigenze ben più complesse di una semplice “gestione della conservazione” quali erano quelle cui si ispirava quell’impianto legislativo.
Oggi, in un momento che vede il territorio di nuovo al centro degli interessi economici e politici, altre esigenze si affacciano, prima fra tutte la fruizione di massa, da controllare, da contrastare spesso, ma con mezzi più efficaci delle armi ormai insufficienti dei vincoli.
E’ una sfida a cui la Repubblica, nel suo complesso, è chiamata a rispondere con modalità nuove e spirito unitario, per perseguire non solo una tutela reale del proprio patrimonio, ma per raggiungere quell’obiettivo costituzionale che, proprio lo stesso Settis, a volte ha ricordato citando l’allora Presidente della Repubblica. Carlo Azeglio Ciampi, ad esemplare commento dell’articolo 9 della Costituzione ne ha spesso ribadito il ruolo di principio fondamentale della nostra comunità, sottolineando, con grande incisività, che ‘la tutela, dunque, dev’essere concepita non in senso di passiva protezione, ma in senso attivo e cioè in funzione della cultura dei cittadini, deve rendere questo patrimonio fruibile a tutti’ (discorso ai benemeriti della Repubblica, 5 maggio 2003).
Quarant’anni dalla “legge ponte”. Passati come attraverso una lunga guerra, vissuti nel paese dinnanzi a immani distruzioni. In mezzo alle macerie il ponte sul fiume “del tempo e del disinganno” non è stato ancora costruito totalmente. L’anniversario del progetto cadrà il prossimo 6 agosto. Legge 765/1967: seguirà, otto mesi dopo, il decreto “degli standard urbanistici”, così lo denominavamo (l’incipit del testo dice “limiti inderogabili di…”) . Eddyburg se ne è occupato, si è persino discusso dove, in quale anfratto del sito incasellare l’argomento. Ponte: due le interpretazioni: la prima, ponte lungo un anno per collegare i dispositivi della legge fino all’atto della loro concreta applicazione rimandata appunto a un anno dopo; la seconda, ponte lungo alcuni anni o decenni o secoli fino all’approvazione di una nuova legge urbanistica generale a sessantacinque anni dalla legge 1150 del 1942. Per la seconda, tempo pontiere lungo quattro decenni mancante delle ultime pietre o delle ultime gettate di calcestruzzo armato. Non possiamo ancora scendere sull’altra riva. La prima da opinione divenne presto testimonianza allibita di fatti gravissimi, di avvenimenti urbanistici ed edilizi di segno uguale a quelli che l’articolo 17 della legge intendeva bloccare, ovvero un’edificazione rovinosa nei comuni privi di piano regolatore o piano di fabbricazione ma anche, per certi aspetti diversi, nei comuni dotati di tali strumenti. L’inconcepibile anno “vuoto” dal 6 agosto 1967 al corrispondente giorno del 1968, dunque oltre il decreto degli standard del 2 aprile, è stampato nella memoria degli anziani, forse solo in loro, sfortunatamente.
In quei dodici mesi bastava gettare un pilastro di calcestruzzo a caso in un fondo, persino alla vigilia della scadenza, per assicurarsi la costruzione di un edificio, nel caso migliore progettato falsamente. Nel paese imperversava una specie di banditismo edilizio autorizzato; un bislacco comportamento delle amministrazioni pubbliche sguarniva le città e le campagne d’ogni possibile difesa. Altro che “limiti inderogabili” a venire. I provvedimenti legislativi, indipendentemente dal rinvio dell’obbligo, furono comunque facilmente aggirabili a causa della loro gracilità. La decantata fantasia italiana potette scatenarsi nelle forme più ardite, né mancò l’intensa partecipazione dei tecnici campioni di opportunismo e servilismo. Gli speculatori d’altronde proseguivano tranquillamente nella loro azione cominciata prima che la guerra fosse terminata. Fu un diluvio di metri cubi edili, come un’enorme frana da sotto in su, all’incontrario e un milione di volte più vasta di quella di Agrigento (19 agosto 1966, a dicembre la relazione-denuncia dell’ingegner Michele Martuscelli sul n. 48 di “Urbanistica”), ragione preminente della legge 765: da un lato tentativo di tamponare in qualche maniera la ultraventennale libertà concessa agli imprenditori di ricavare dal territorio e dalle città il massimo di rendita e profitto, dall’altro dimostrazione della impossibilità politica di volerlo fare davvero. La costituzione ambientale storica del paese era già in buona parte sovvertita. Antonio Cederna aveva cominciato a scrivere nel 1949 gli articoli su “il Mondo” in seguito confluiti nel libro I vandali in casa (1956) e i vandali avevano già scorrazzato in lungo e in largo, Leonardo Borgese aveva scritto sul “Corriere della Sera” i primi articoli della sua campagna in difesa del Bel Paese fin dal 1946, Cesare Brandi era intervenuto senza tregua a denunciare la distruzione del paesaggio naturale e artistico a partire dal 1956. Il destino di una Napoli come rappresentata nel film di Francesco Rosi Le mani sulla città, 1963, appariva segnato in maniera irrimediabile.
Rileggiamo la conclusione della commissione Martuscelli (con Ambrosetti, Astengo, Di Paola, Guarino, Molajoli, Russo e Valle), per non dimenticare (perorazione a coloro che vi propendono): “la commissione sente il dovere di segnalare la gravità della situazione urbanistico-edilizia dell’intero paese, che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite… E non può non auspicare che da questa analisi concreta parta un serio stimolo nel porre un arresto – deciso e irreversibile – al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico”. Dopo un attimo di sosta attonita, i girgentini, fors’anche ammirati da alloctoni di molle carattere, ripresero la lena e posero mano più ferma anche alla dirimpettaia Valle dei Templi, l’antica e da loro malvoluta Akragàs, reclamandola come proprietà ereditaria e dunque atta ad essere meglio impiegata, invece che mediante il classico statico, mediante il moderno dinamico, ovvero la costruzione in successione di buona edilizia compensativa dell’ingiusta perdita. E vennero mano a mano le 700 costruzioni di vario genere nella Valle a ridefinire il paesaggio, il secondo nuovo dopo il primo dominato dallo spaventoso prospetto dell’insensata espansione urbana destinata al crollo.
Chi potette visitare l’eccezionale ambiente storico e archeologico di Agrigento fino alla metà degli anni Cinquanta non si trovò nella medesima situazione di Alexis de Tocqueville e di suo fratello Eduard che videro, “là giunti, l’immensa cerchia delle mura di Girgenti… e quasi tutto quel che resta dei monumenti antichi schierato sul bastione naturale che dà sul mare” (AdT, 1827). Tuttavia non vide quasi niente di spaventoso. Poteva godere di un paesaggio che giustapponeva la ricca città greca morta e la povera città storica viva in uno scenario nel quale le due realtà parevano ignorarsi ma, a saper ascoltare, potevano dialogare. Quando ritornò ai templi negli anni Sessanta prima della frana cercò di procurarsi ad arte un qualche godimento dando le spalle all’orrida immanenza della città e osservando la residua Akragàs da sud; se non avesse resistito e, come Orfeo, avesse girato la testa, la nuova città non sarebbe sprofondata al fondo dell’Ade come Euridice e lui avrebbe vomitato.
Quale nuova esperienza visiva e percettiva per chi vorrebbe trovarsi lì oggi? Altro ambiente altro paesaggio? La Valle piena di robaccia? Girgenti più brutta di prima? Mettiamo che il visitatore abbia quarant’anni, proprio l’età della legge influenzata dal disastro dimenticato. Sarebbe talmente abituato ad aggirarsi nella merda di città e territorio che troverebbe normalità la merda agrigentina, uguale al fiume puzzolente che ha invaso ogni parte del paese e che scorre ognora più gonfio. Perché insistere sul caso siciliano? Perché voler ricordare la determinazione del bravo direttore dell’Urbanistica al Ministero dei lavori pubblici? Perché l’auspicio suo e della commissione fu subito tradito, la disgregazione e il saccheggio urbanistico, del resto esaltati nel tempo dell’assurdo o del surreale concesso dal legislatore, continuarono come e più di prima, vissero trionfali gli anni, i lustri e i decenni. Ora tagliano il traguardo del 2007 e si fanno ammirare pronti a future avanzate benché sconcertati dinnanzi alla sorprendente scarsità di materia disponibile.
Gli urbanisti democratici confidarono negli standard urbanistici quale soluzione di rottura in contesti privi di adeguate dotazioni di servizi e attrezzature, quale panacea dei mali urbani. Facile calcolarli, prevederli nel complesso e anche distribuirli nel disegno del piano; difficile tradurli nella realtà urbana. La separazione fra intenzione-progetto e mancanza di realizzazione resero più sicura e rapida la privatizzazione della città. Dove i Comuni, specie alcuni delle regioni rosse già propensi alla pianificazione, dedicarono maggior impegno a collegare disegno e attuazione forse ottennero condizioni urbane un po’ più “svedesi” ma non poterono scalfire, da una posizione puramente amministrativa, la contraddizione cruciale che sarebbe stato compito politico della sinistra dipanare. L’urbanistica tradizionale ferma alla cultura delle dotazioni non poteva servire a spostare benefici sostanziali verso la massa dei lavoratori senza collaborare, con mezzi propri dell’intellighenzia, a modificare il rapporto fra classe dominante e classe lavoratrice riguardo, per così dire, all’appropriazione della città e del territorio. Sancita la frattura fra astrazione e concretezza, il fervore dotale dell’urbanistica approdò non sempre involontariamente all’assurdo o alla falsificazione.
Leggo l’intervista di Edoardo SalzanoStandard urbanistici fra tempi e spazi (22 marzo, presa da Eddyburg il 27), con accenni anche all’attesa della nuova legge urbanistica. Mi sembra di ascoltare voci di allora: “Una legge sul governo del territorio deve essere in grado di modificare i rapporti di forza e le regole di trasformazione urbana in favore di chi esprime un uso sociale della città come bene comune”.
Intanto nella Milano una volta epitome di affabilità e generosità (o così s’era dipinta) oggi non esistono asili nido bastanti al bisogno delle giovani mamme. Destino dello standard, quando il tasso di natalità è meno della metà rispetto al 1968.
Intanto altre voci ascoltate nelle ultime settimane, tutte dal suono alto e intenso, ci hanno investito. Voci che raccontano delle ultime violenze d’ogni genere verso le parti del paese sfuggite finora al caterpillar. Una cascata di allarmi e denunce. Ho qui accanto una pila di ritagli dai giornali e stampe da Eddyburg, recenti. Dalle città alle campagne, dalle coste ai territori interni: sembra che lacerti di un’Italia riuscita finora a ritrarsi dalla guerra non ce la facciano più a resistere alle botte, stiano gettando la spugna e accettino il comune destino, la perdita di sé per sempre.
Le parole. Ecomostri lombardi speculazione Fiera Milano speculazione corre sul treno metrò sotto laguna abusivismo e incuria Unesco boccia Toscana infelix quanto cemento intorno Mantova battaglia parco Portofino litiga Liguria sul cemento salvare Monticchiello pesante impatto Napoli 400 appartamenti senza permessi stop cemento mappa degli scempi cemento Orbetello sindaci ignavi fermate cemento salvare Toscana territorio violentato Campania Recco condomini sulla via romana Fuksas fermatelo riviera di torri paesaggio deturpato territorio consumato resa dei conti porticciolo foce Arno San Rossore 200000 mc ecomostro Bologna Romilia Vema Padana orrore Navigli come Bombay senza difesa natura farsa Bagnoli chi ferma cemento ville a schiera nel parco non si demolisce così Paese… la pila è ancora altissima.
Allora. La proposta di legge urbanistica è approdata al Parlamento. Tre a due, per Salzano, il rapporto mi piace/non mi piace. Quali saranno gli esiti alle Camere? Dal punto di vista della questione territoriale esistono posizioni d’ogni genere. Aspettiamo. Tuttavia non possiamo ignorare che la frattura fra realtà territoriale e progetto legislativo nazionale, come nella storia dello standard, è decretata da tempo. Come potrà una legge nazionale, probabilmente attenta agli interessi degli imprenditori, ai cosiddetti diritti edificatori, all’opportunità – magari un po’ meno obbligata che nella legge Lupi – della contrattazionefra ente pubblico e proprietà privata, come potrà imbracciare lo scudo imperforabile a difesa degli ultimi pezzi d’Italia storica dal pericolo di soluzione finale? Ora dominano le leggi regionali; devo ripetere ciò che i frequentatori di Eddyburg conoscono circa il disinteresse o l’ambiguità delle amministrazioni verso la battaglia incondizionata in difesa del paesaggio residuo? Lamentare nuovamente la loro sordità (esemplare il comportamento del governo regionale toscano) verso le critiche per l’irragionevole trasferimento del problema ai comuni grandi e piccoli e piccolissimi? Oggi, oltre ai presidenti di Regione, dominano sindaci e giunte sbeffeggianti i Consigli: coi loro interventi edilizi mangiano il territorio quando ne esista ancora, se ne ingozzano insieme alle imprese di costruzione-distruzione. Tutto legale (più o meno). Come potrà una legge nazionale impedirlo se i partiti politici non vogliono affrontare il problema cruciale – da me più volte trattato – dei poteri nelle Regioni e nei Comuni, le sedi della storica autonomia democratica trasformata in decisionismo personale? Preoccupazione e tristezza prova chi le battaglie per l’autonomia locale le ha fatte ai tempi delle diuturne discussioni nei Consigli e dei duri controlli prefettizi volti, più che al rispetto della normativa, al merito di pubbliche deliberazioni delle maggioranze di sinistra. Questa la giusta battaglia per la democrazia, non la pretesa odierna d’indipendenza in decisioni che, relative alla località, riguardano l’intera comunità nazionale.
La difesa dei beni artistici e paesaggistici è scritta nelle leggi d’anteguerra e nella Costituzione. Come potrà lo stato, con o senza nuova legge urbanistica, rafforzare il proprio compito in questa materia quando una brutta specie di smaccato liberismo non solo si è consolidato nella legislazione e pianificazione locale ma ha impresso la coscienza di politici e amministratori? Cosa gl’importa a quest’ultimi di leggi generali vecchie e nuove mentre possono muoversi disinvoltamente dentro le molteplici occasioni offerte da un’urbanistica falsa designata dagli insopportabili acronimi normalmente indecifrabili dai cittadini? Oggi uno dei più miti dal punto di vista del linguaggio, Pgt, Piano di governo del territorio, costituisce invece la mensa preparata, penso, per l’ultima abbuffata degli obesi imprenditori e proprietari fondiari.
Conoscete gli obiettivi dichiarati dalla giunta milanese, d’altronde in linea con una prassi in atto da oltre dieci anni? “Deregulation… liberalizzazione… autoregolazione del mercato… no alle destinazioni d’uso… sviluppo delle capacità insediative… perequazione mediante la Borsa dei diritti volumetrici (compravendita dei diritti)… volumetrie aggiuntive al legittimo possesso… densificazione… valorizzazione [ah!] delle aree degradate nei parchi… grattacieli…”.
Eh, già… gli standard e i bisogni dei cittadini, la legge urbanistica nazionale, la preservazione del paesaggio, il risparmio di terra, la difesa dello spazio pubblico… eccetera eccetera.
Milano, 1 aprile 2007
Questo articolo è stato pubblicato contemporaneamente su eddyburg.it e su la Nuova Sardegna (27 febbraio), quest'ultimo ha titolato "Col decreto salvacoste in Sardegna ora cresce una nuova coscienza civile"
Con l’entrata in vigore del decreto salva coste un indimenticabile consigliere regionale argomentò, con una logica tutta d'un pezzo, che il danno della legge già si avverava e che la dimostrazione consisteva in una drammatica diminuzione degli ordinativi degli infissi. Gli infissi fermi nelle fabbriche rappresentavano, secondo il consigliere, un segno certo di come la crescita si sarebbe inesorabilmente fermata. L’argomentazione conferisce all’infisso un folgorante valore simbolico e essa tratteggia un modo non isolato di ragionare.
Si creò, in reazione al decreto, un immediato clima da controriforma che oltre a fornire una rendita perpetua a pensosi studi legali, ha determinato la divisione della cosiddetta opinione pubblica in due parti. Si è scritto, si è discusso, si sono organizzati convegni interminabili contro le regole e a favore delle regole e, mentre anche le poltroncine sbadigliavano, si cercavano scappatoie e si ragionava di vulnus mortali, proprio così, ai Comuni, di autonomie soffocate oppure, sosteneva la parte avversa, rispettate. Intanto, per fortuna, alcuni punti fermi restavano decisi e stabiliti.
Per esempio.
Tutti sanno che le cosiddette zone F dei piani regolatori erano quelle aree destinate allo sfruttamento turistico, le zone più belle, puntigliosamente perimetrate nelle carte. Oggettivamente più belle, visto che esiste un bello assoluto sul quale tutti i contendenti, guarda caso, sono d’accordo. Ma il fatto è che sommando le volumetrie previste nelle zone F la nostra Isola sarebbe stata, in assenza di regole, ricoperta di 70 milioni di metri cubi. Lo sarebbe stata, questa era l’intenzione disgraziata, se le zone F non fossero state provvidenzialmente cancellate dalle nostre cartografie attraverso le nuove norme.
Si arrestò di colpo la sbornia cementificatrice destinata ad arricchire pochi e a produrre un danno irreparabile e eterno. Il territorio sarebbe stato definitivamente consumato e reso irriconoscibile e con esso saremmo stati irriconoscibili anche noi. Altro che Popolo Sardo, altro che identità senza uguali, sepolti sotto i mattoni. Si mobilitò un piccolo esercito di garçon pipì al servizio delle imprese, innumerevoli pesci pilota navigavano nervosi nelle nostre acque terse. Si moltiplicarono i mediatori, i conciliatori pronti a tutto. E l’onorevole preoccupato per gli infissi - archetipo di un ragionare diffuso – continuò, pare, a preoccuparsi.
Secondo la parabola sviluppista quei 70 milioni di metri cubi avrebbero costituito una quantità equivalente di lavoro e di benessere, la pietra filosofale dello sviluppo, il mattone filosofale.
Un’argomentazione falsa alla quale gli economisti ( perfino la banca mondiale ) hanno da tempo fornito una risposta. Per quanto sia vero che paesi ( piccoli, di solito isole ) prosperino per il turismo è ancora più vero che il modello di crescita sostenuta dal metro cubo ha creato in buona parte del nostro meridione una diffusa povertà intrecciata con la delinquenza organizzata, ha cancellato migliaia e migliaia di chilometri di coste. E questi 70 milioni di metri cubi avrebbero ripetuto una realtà drammatica già vista. Avrebbero consolidato rendite, sì, ma non sviluppo. Si sarebbero arricchiti i già ricchi. Si sarebbe creato un lavoro facile, certo, ma di bassa specializzazione e, principalmente, di breve durata. Poi, daccapo, tutti poveri. Ma, soprattutto, avremmo esaurito il territorio e creato 70 milioni di metri cubi di interminabile dolore. Il contrario di uno sviluppo durevole.
Ma nelle discussioni infinite intorno all’argomento c’è un aspetto importante che anche i sostenitori degli infissi dovrebbero, guardando oltre gli infissi, tenere in considerazione.
Il responsabile di questo processo di civilizzazione non è un solo un governo e non è una legge per quanti insegnamenti possano essere contenuti dentro un codice. Quel governo e quella legge sono l’espressione di un mutamento storico nella percezione che la nostra società ha dei grandi valori, anche economici, connessi al paesaggio e al territorio. Ed è questo mutamento avvenuto nell’opinione pubblica che ha determinato la necessità di regole certe e ha dato forma a un governo. Non il contrario.
In altre parole la cosiddetta opinione pubblica ha richiesto un cambiamento nel governo del territorio e quello che avviene è quello che è stato richiesto. La maggioranza desidera che l’Isola sia conservata, protetta e tutelata dalle norme.
Il simbolo dell’infisso abbandonato nei magazzini contiene una sua sostanza. Ma l’argomentazione che la disoccupazione scompare con l’apparizione e la moltiplicazione degli infissi - metafora di un’economia che funziona – è fasulla. Quando tutto sarà costruito e ogni angolo colmato di metri cubi non sapremo più dove cercare lo sviluppo. Così gli infissi e tutto quello che essi rappresentano nell’allegoria concepita dall’onorevole, torneranno a giacere nei magazzini, per sempre.
P.S.: Nel 1834, quando la Sardegna era lontana dal “grand tour” Antoine Valery scrive di Cagliari e della necropoli di Tuvixeddu. Decanta la bellezza del colle e delle sepolture che però, dice Valery, “ gli abitanti della città notano appena”. Beh, evidentemente le vicende e le parole di oggi hanno origini lontane. Noi siamo sempre gli stessi. Interessati agli infissi sui quali fondiamo il futuro e il passato non ci interessa.
Per quattro o cinque decenni fino a oggi la figura di Cesare Chiodi (1885-1969), ingegnere e urbanista, insegnante universitario, autore e attore nel divenire della cultura di città e territorio fra le due guerre, durante la ricostruzione e le successive vicende, sembra non aver ricevuto l’illuminazione necessaria per poter essere ri-conosciuta anche dalle nuove generazioni di studiosi e progettisti. Al Politecnico di Milano è stato costruito l’Archivio Cesare Chiodi, la cui guida, per opera di Renzo Riboldazzi, è disponibile dal 1994. Ma la critica e la relativa pubblicistica hanno trascurato questo professionista milanese, peculiare rappresentante della borghesia liberale produttiva, colta e onesta, ormai scomparsa e dimenticata. Forse ignorato proprio per questo? O a causa di una presunta esclusività localistica dell’impegno culturale? Cercherete invano il suo nome nel primo dei sei volumi del Dizionario enciclopedico di architettura e urbanistica diretto da Paolo Portoghesi ed edito nel 1968 dall’Istituto Editoriale Romano. Chiodi aveva allora 83 anni (morirà l’anno seguente), non era più il suo tempo: non una buona ragione per cancellarne la presenza fra tante altre, molte a mio parere insignificanti.
Oggi il volume Cesare Chiodi. Scritti sulla città e il territorio 1913-1969 (Unicopli, Milano 2006), una mirabile raccolta curata dallo stesso Renzo Riboldazzi, riempie il vaso vuoto, anzi travalica i bordi e va ad alzare il livello nel recipiente della cultura riguardante la città e il territorio. Prima di leggere il saggio introduttivo – “Armonia e calcolo, necessità e bellezza”. Città e progetto urbanistico negli scritti di Cesare Chiodi – conviene impadronirsi anche delle altre parti. Così, proprio gli elenchi esaustivi di scritti editi e di altre forme di partecipazione al confronto pubblico sui problemi territoriali e urbani, suddivisi in cinque parti secondo la loro tipologia, cominciano a stupirci circa l’incessante vocazione dell’ingegnere a porsi con attenzione davanti al torrente di fatti urbanistici, progetti e idee che gli scorre davanti in sessant’anni a Milano, in Italia e altrove: poi scendere la riva e far navigare i propri pensieri nella corrente.
La durata e la portata dell’attività di urbanista (e “architetto”) appaiono differenti, in diminuendo, coerentemente ai periodi in cui le suddivide il curatore: il periodo fra le due guerre, la ricostruzione, gli anni del boom economico. Il lavoro professionale e culturale si infervora nel primo periodo, non presenterà segni di stanchezza nella ricostruzione mentre il tempo dell’impegno sarà relativamente breve stante il rapido fallimento delle speranze, non potrà che offrire testimonianze di alcune personali sensibilità davanti alle contraddizioni e confusioni urbanistiche e al trionfo della speculazione edilizia dalla metà degli anni Cinquanta agli anni Sessanta, con susseguente decadenza della dedizione di tutti al bene sociale.
“Armonia e calcolo, necessità e bellezza” (in Lo sviluppo periferico delle grandi città, in “Rassegna di architettura”, n.7, luglio 1929): la citazione potrebbe rappresentare l’intero senso dell’attività di Cesare Chiodi. Il presupposto dell’operare bene e insieme la conseguenza (almeno per armonia e bellezza) definiscono l’entità dell’urbanistica accanto a “scienza e arte” (idem). Urbanistica come costituzione disciplinare non racchiusa nel ricetto preteso ultra-specialistico, invece sintesi aperta; non luogo d’isolamento ma contrada dell’incontro dove la scienza l’arte il calcolo la necessità l’armonia la bellezza “si danno la mano”(idem). Allora l’urbanistica comprenderebbe le questioni dell’architettura, del paesaggio, dell’ambiente costruito e no. Il disegno del piano regolatore non può fare a meno del disegno urbano relativo al progetto di quartiere o porzione della città, ma anche delle designazioni fondamentali nel contesto geografico dove la città deve misurarsi con la campagna e gli insediamenti del circondario.
Tutto questo è ben chiaro negli scritti del periodo fra le due guerre integrati dalle immagini selezionate dal curatore. Se mai avessimo avuto, prima, dubbi irrisolti circa la possibilità di assegnare la figura dell’ingegnere milanese a un posto di merito nella cultura della prima metà del Novecento, ora dobbiamo renderle il dovuto. Cesare Chiodi è architetto novecentista quando si dedica alla costruzione di case (p. es. l’edificio di Via Podgora a Milano, 1930-34, parente non lontano della Ca’ Brüta di Muzio e Colonnese) o vi collabora con altri ingegneri o architetti, ma è quasi-razionalista nel disegno di quartieri dei primi anni Trenta; non può, nella data situazione culturale nazionale, ottenere un nuovo disegno di piano regolatore della città esistente, come d’altronde non l’ottengono i maestri razionalisti italiani con pochissime eccezioni, ma riguardo alla pianificazione a scala superiore propone il modello territoriale policentrico ispirato alla cultura europea confutatrice dell’irragionevole espansione della città a macchia d’olio. Insomma, anche in questo esemplare rappresentante dell’attivismo professionale e culturale milanese possiamo riconoscere una sorta di reductio ad unum dei problemi urbanistici ed edilizi aperti allora nel nostro paese.
Ancora presente negli anni successivi in ogni principale circostanza della discussione critica, Chiodi è però efficace in special modo con la partecipazione al dibattito prima e durante la ricostruzione. Il grave problema della casa in Italia e soprattutto a Milano mobilita le riflessioni e le proposte di soluzione del nostro non meno di quanto impegni gli architetti milanesi più sensibili a quel dramma sociale: Enrico Griffini, Piero Bottoni, Ernesto Nathan Rogers. A mio parere il famoso saggio del primo su “Edilizia Moderna” del dicembre 1948, comprendente pesanti accuse contro gli errori e gli orrori provocati dall’edilizia disordinata e profittatrice voluta da impresari banditeschi, “conseguenza di decadenza morale e civile”, potremmo rileggerlo quale necessaria ricapitolazione degli interventi dell’ingegnere particolarmente tempestivi: a partire dalla conferenza tenuta al Sindacato ingegneri della provincia di Milano il 2 marzo1944, pochi mesi dopo il più rovinoso dei bombardamenti aerei che la città aveva dovuto sopportare.
Dello stesso libro di Cesare Chiodi, qui su Edyburg vedi anche la recensione di Fabrizio Bottini con pdf scaricabile
Questo articolo è pubblicato contemporaneamente su eddyburg.it e su la Nuova Sardegna del 6 febbraio 2007
La necropoli di Tuvixeddu, a Cagliari, cerca di resistere a ingegneri, architetti valorizzatori, giunte comunali, progettisti, manager e managerini. I nostri antenati che sono stati sepolti nel colle, alla fine, si difenderanno.
Il rettore a vita dell’università di Cagliari ha dichiarato, a proposito della “questione” Tuvixeddu, che nella nostra capitale non si riesce a cambiare mai nulla. E siccome non ci sono eccezioni a questa regola, da quasi un ventennio non cambia neppure lui. Ha ragione il rettore-urbanista il quale ha molte responsabilità nel progetto originario che prevedeva più di 600.000 metri cubi sparsi su Tuvixeddu, ha ragione. Una città così cristallizzata in piccoli poteri fissi non combinerà mai nulla di buono. Questa rigidità minerale si riverbera su ogni attività, su università e intelletti, progetti e intraprese, politica ed economia, e anche sull’opinione pubblica. Questa sostanziale anima paurosa le impedisce perfino di essere considerata capitale dell’isola. La città segue un orologio a sé stante, che misura una sua ora diversa. E quando qualcosa si muove accadono disgrazie, mandiamo in frantumi pezzi preziosi e proteggiamo con cura il peggio, sempre.
Il tentativo di speculazione delle imprese che vogliono costruire sul colle lo avevano previsto perfino i nostri morti. E avevano immaginato come qualcuno avrebbe fatto scomparire i costoni bianchi e abbaglianti del colle coprendoli con palazzine dozzinali in cambio di un guadagno immediato e di un danno eterno. Si inizia col ricoprire i costoni di metri cubi, si urbanizza (già fatto) un versante della collina e poi, magari, nasceranno altre palazzine sino a che il sudario di cemento ricoprirà tutto. E si parla di impresa, di diritti dell’impresa, di pregi dell’impresa trascurando che per la nostra Costituzione i beni culturali, paesaggistici e archeologici sono un valore primario, un’immensa ricchezza, e vengono prima dell’impresa. Così è in un paese civile. Si grida addirittura che, sospesi i lavori, non c’è più certezza del diritto perché le carte sarebbero a regola d’arte. Le solite carte, non sempre in regola, con le quali si è devastata mezza isola. E si dimentica che, invece, è stato un giudice - espressione vivente del diritto - che ha stabilito, secondo legge e in modo esemplare che il cantiere doveva fermarsi. La certezza del diritto c’è, per fortuna, e la esercita chi deve esercitarla.
Il progetto che attenta a Tuvixeddu è un progetto integrato, prevede cioè una cooperazione tra pubblico e privato. E così il privato, non contento di cancellare le falde candide del colle, ha fatto dono al comune del più volgare giardinetto pubblico che sia dato vedere accanto a un parco archeologico. Lungo i dirupi bianchi del colle, dove fioriscono orchidee, nidificano i falchi, accanto alle tombe scavate nella roccia, in un grande catino che aveva un fascino raro, beh, là un progettista ha sfigurato l’area costruendo un cosiddetto parco attrezzato, un giardinetto che se ne impipa del contesto e ha l’aria di una Milano 2 . Muri e muretti grigi, fioriere, senza dimenticare un laghetto artificiale zen, un totale sovvertimento del luogo che è irriconoscibile, sfregiato. Nessun rispetto del sito, nessun rispetto della storia. Il rispetto mancava prima quando il catino era ridotto ad una discarica e manca ora che il catino sembra una piazzetta di periferia. Si passa dallo stupore allo sconforto davanti alla squallida trasformazione di un’area sacra per millenni, diventata un “parco attrezzato” da sobborgo. Bisogna vederlo questo “parco” : hanno spianato la vecchia cava, resa docile e levigata. Lo si vede e di colpo si capisce che la nostra Isola, il suo patrimonio di paesaggi e di resti del passato non hanno nessuna speranza di sopravvivere.
Non potevano i defunti della necropoli prevedere che alcuni funzionari deputati a proteggere le loro tombe gli si sarebbero rivoltati contro. Essi vedevano uno scudo nella Soprintendenza. Invece la Soprintendenza ha dato il suo assenso a questa spartizione di un’unica area omogenea. E i responsabili degli uffici di tutela, anziché pattugliare il colle giorno e notte, anziché difenderlo per intero, hanno assecondato lo spezzettamento in tre parti, hanno dato l’assenso ad un’alterazione grave dei luoghi e difeso pubblicamente il progetto sino a permettere un laghetto artificiale. D’altronde un autorevole rappresentante della nostra Soprintendenza ha dichiarato che sua funzione è “mediare”. E a Tuvixeddu questa disastrosa teoria della mediazione (che significa cedere ogni volta una parte non riproducibile di un bene) ha prodotto un danno irreversibile che fa il paio con il Poetto, stesso grigiore dove prima splendeva il bianco. Hanno cambiato perfino il colore del posto che, si vede, non era gradito al progettista del giardinetto pubblico. Un paesaggio è fatto di linee e di colori e quando si falsificano, appunto, le linee e i colori allora lo si sta privando con violenza dell’identità, lo si distrugge per il capriccio di un architetto.
Nessun progettista possiede l’autorità di ridisegnare secondo il proprio ghiribizzo un sito di quell’importanza. I luoghi li distruggiamo per mancanza di cura o per eccesso di cura e sul colle c’è un accanimento atroce, davvero doloroso.
Le sue falde candide diventeranno la solita sfilata di palazzine per il ragionamento distruttivo che se c’è un angolo libero lo si riempie di mattoni, perché “fare e fare” produce benessere. Un equivoco tragico, la perdita del controllo dello sviluppo che si è ammalato e ha causato la sparizione del paesaggio nella maggior parte di questo paese governato e ossessionato dal mattone.
Che scoperta! Ci voleva Monticchiello 1 e poi 2 (vedi le ultime notizie sui quotidiani con lo stop a un nuovo lotto di lavori quando ne sono stati approvati e sono in corso di realizzazione i quattro quinti) per mostrare agli italiani che il loro Bel Paese è ridotto a pochi lacerti anch’essi in procinto di essere cancellati? E ieri l’assessore regionale Riccardo Conti, già conosciuto come accorato propugnatore dell’edificazione sull’intatta collina fiorentina di Bellosguardo (ved. nel sito Bellaciao, Toscana!, 4 luglio 2006, ora anche in L’opinione contraria, Libreria Clup, Milano, dicembre 2006), per giustificare il nuovo oltraggio ripete il ritornello del territorio come “risorsa”, l’opposto di un “territorio inerte e imbalsamato” (lettera in Repubblica del 24 gennaio).
Ci voleva Monticchiello per verificare che anche i sindaci, fra i quali in altri tempi molti erano i primi garanti di una democratica discussione consiliare riguardo ai problemi urbanistici, sono diventati caporioni dotati di poteri enormi, grazie a una rivoluzionaria legislazione condivisa da tutti i partiti pensosi della cosiddetta stabilità di governo. Decidono, i nostri, di fare e disfare nella città e nella campagna, ossequienti ai presunti diritti dei privati costruttori. Diritti inoltre valutati puntigliosamente sull’orlo dei minimi buchi nelle disposizioni per la tutela ambientale, nonché sull’indiscusso utilizzo di norme e prassi urbanistico-edilizie “moderne” la cui confusa molteciplicità, coperta dalla miriade di orribili acronimi, fu dovuta alla comune insidiosa volontà dei politici, degli urbanisti, degli amministratori locali, del complesso di autori e attori del teatro edilizio.
Per Monticchiello ferita, quanti non hanno riesumato la banale definizione di Toscana felix, e cominciato ora a lamentare un triste futuro del paesaggio nazionale invero già quasi tutto passato? Una firma come quella di Asor Rosa ha slegato campane nuove. Ma lui, perché non ha suonato prima, molto prima mentre gran parte del paesaggio italiano indifeso veniva riplasmato dalle benne di un milione di caterpillar? Forse perché i bei luoghi scassati erano per così dire d’altri, non suoi, non l’amata Val d’Orcia? Stimo moltissimo Asor Rosa; per questo la mia lamentazione, benché poco o nullacontante, non può, come forse avrebbe dovuta vista l’altezza del nome, fermarsi nel fondo della gola.
Difficile non disperare. Penso: sindaco di Pienza! Saprà che la dimensione del proprio “governar territorio” comprende il luogo pubblico dovuto al più eminente progetto urbanistico della storia italiana? Il miracolo riuscito al Papa Pio II Piccolomini e al maestro d’architettura e d’arte Bernardo Rossellino non ha iniettato il bacillo del dubbio nella mente del nuovo principe di Pienza e dei suoi cortigiani? No. Così, ignoranza da un lato e presunzione dall’altra hanno permesso a lui e ai suoi consulenti di considerare indipendenti due questioni culturali invece intimamente collegate, rappresentative di una questione generale ovunque si presenti: la famosa piazza, una specie di fenomeno misterioso, incomprensibile, per forza intoccabile; la collina di terra libera, un incontrario rispetto a quella, un possesso manipolabile in pro dell’altrettanto famoso principio di “crescita” del territorio, di “sviluppo” del medesimo spacciato come conveniente agli abitanti residenti: quando si tratta di repellente affare di ville e palazzotti progettati da Nonrossellini d’oggi per garantire lavoro ai caterpillar e far guadagnare menefreghisti alloctoni.
D’altra parte, perché scandalizzarsi se il tutor maximus del paesaggio, il rutelliano ministero, ha ripiegato su posizioni di extrema defensio consistente in “correggere”, “mitigare”? (“Mitigazione”, la nuova brutta parola entrata persino nella buona urbanistica insieme all’altra non meno fastidiosa, “valorizzazione”; vedi la proposta di legge urbanistica di Eddyburg, negli articoli 1°/3 e 4°/5).
Altrettanto, e ancor più potenti i presidenti di Regione. In Toscana, poi, i due gradi del potere si tengono saldamente, si alimentano reciprocamente secondo una sorta di scorrevole amicizia. Il potentissimo presidente Martini batté il pugno sul tavolo quando qualcuno mise in dubbio l’opportunità di concedere ai Comuni (ai sindaci e loro giunte) libertà di risoluzione in materia di paesaggio, beni ambientali, eccetera. Il pretesto? I principi di autonomia locale, l’esigenza di democrazia capillare, la garanzia di libertà dai gioghi del controllo superiore. Come affermato nelle vecchie battaglie della sinistra. Eh, no. Quando ci battevamo per una vera autonomia locale erano i prefetti i controllori. Intanto, tutte le deliberazioni dovevano essere approvate dai Consigli. E tutte dovevano sottostare al taglieggio della giunta provinciale amministrativa, alias prefettizio. Controllo di legittimità, la formula. Invece l’oggetto era il merito, e lo scopo ostacolare, respingere le decisioni legittime delle amministrazioni di sinistra (approvate in Consiglio comunale) su pressione delle opposizioni democristiane. Preistoria, certamente; meglio ricordarsene però, e non speculare capziosamente sul tema del cosiddetto esercizio democratico.
Ho scritto di Toscana e ora mi viene in mente Lombardia. Monticchiello da una parte, Milano dall’altra. Non voglio di certo assimilare l’orribile situazione politica lombarda e milanese a quella toscana e senese (l’asse governatore Roberto Formigoni–sindaco Letizia Moratti insegna a regola d’arte come si debba amministrare il territorio in favore di finanzieri, imprenditori, costruttori edili). Case costruite nelle meravigliose colline pienzane finora inviolate, ville previste in uno degli ultimi luoghi non edificati di Milano, il Parco delle Cave: magnifico risultato di un’eccezionale azione di riconquista pubblica di territorio aperto condotta per anni e anni da Italia Nostra.
Eppure. Ecco come, grazie alle nuove diciamo possibilità assicurate dalla normativa urbanistico-edilizia cui mi sono riferito prima, una certa società immobiliare Canova 2000 capeggiata da un certo Lamberto Frugoni potrà realizzare nel Parco, d’altronde inserito nel più noto Parco agricolo Sud, “ville uniche nel loro genere; 180 mq composti da taverna, salone, cucina, lavanderia, tre camere, tripli servizi, box doppio, giardino privato; vista unica dei laghetti del parco, consegna 2008” (dalla pubblicità aziendale). E perché potrà farlo? Semplicissimo: sfruttando la preesistenza di un vecchio capannone industriale ora demolito, e presentando al Comune una richiesta di ristrutturazione (di che, se non c’è nulla in piedi?) insieme alla Dichiarazione di inizio attività (la famigerata Dia – comprensiva del silenzio/assenso di soli sessanta giorni – epitome di quel falso riformismo urbanistico-edilizio volto a facilitare, dicevano, l’iter burocratico delle pratiche edilizie e invece risolto in qualsiasi realizzazione priva di tempestivi controlli. Notate che la destinazione dei 2.500 mq in causa è industriale, non residenziale.
Non si preoccupa l’affarista, che fa il suo mestiere e prevede puntualmente il finale della leggera diatriba col municipio (una diffida rilasciata per merito esclusivo del consigliere dei Verdi Enrico Fedrighini, presentatore di un’interpellanza): “tutto si sistemerà con un accordo sugli oneri di urbanizzazione. Pagheremo di più, quindi pagheranno di più i nostri clienti. Ma le ville si faranno. Abbiamo il pieno diritto… la destinazione d’uso non cambia, visto che lì ci saranno dei laboratori”. Cosa dice l’assessore competente? “Anche se l’immobiliare avesse ogni diritto di costruire dove sta costruendo” (allora i lavori sono già cominciati!) “e questo lo capiremo” (oh bella, nessuno ha mai dato un’occhiata!), “dovremo fare qualche ragionamento sugli oneri di urbanizzazione, in certe aree”. Tutto chiaro, cari miei. (Citazioni da Repubblica/Milano, 23 gennaio 2007)
Milano, 25 gennaio 2007
Domani è Natale. L’albero di casa Guermandi troneggia già da alcuni giorni in un trionfo di addobbi, di luminarie e di colori (detesto gli alberi monocromi, inconfutabile sintomo di sciatteria spirituale ed estetica): un po’ più ricco del precedente con i decori e i ricordi derivati dai viaggi dell’anno, da Boston a Berlino, da Cipro a Parigi; fedeli ad un rito rassicurante e apotropaico nella sua intangibilità, il 13 dicembre abbiamo appeso per prima la decorazione eponima – sonora da qualche anno a questa parte – e da ultimo il puntale. Un solo rametto è stato tenuto spoglio per appendervi il ricordo del viaggio che sta per iniziare, dopodomani.
Il nostro presepe, al contrario, è opus in fieri: per alcune settimane si arricchisce e si modifica di giorno in giorno, perché la scenografia è complessa e tutt’altro che statica, i meccanismi vanno sorvegliati (fra mulini, ninfei, succedersi astrale e artigiani laboriosissimi abbiamo un ingorgo elettrico da blackout ricorrente), ciascuno di noi aderisce ad una diversa scuola di pensiero prospettica e quest'anno c’è chi si è inguaiato con piani di fuga barocchi un po’ megalomani e di periclitante solidità. E infine, come da copione, l’ultimo corteo arriverà a destinazione solo il giorno dell’Epifania, a compimento fugacissimo, ma solenne dell’opera nel momento stesso in cui sta per essere nuovamente distrutta. Metafora teatrale del destino comune a molte imprese umane.
Fra i riti immutabili e insopprimibili di stagione vi è ovviamente quello dei bilanci: anche se pochi mesi non sono una distanza sufficiente per discernere, nel magma confuso delle tante vicende che si sono sovrapposte, gli elementi di snodo da quelli di sfondo, i passaggi fondanti dalle scorie; come di consueto in questa mescolanza difficile da interpretare si accavallano, con gerarchie fallaci e ancora contraddittorie, luci e ombre, disillusioni e speranze, qualche faticosa vittoria, qualche irritazione bruciante, un po' di amarezza e alcuni episodi piacevoli. Questo tempo sospeso fra rimpianti e ricordi è comunque privilegiato per una epoché dedicata ad una prima memoria improvvisata, ma molto partecipe.
L'orizzonte mondiale non appare granchè rasserenato rispetto ad un anno fa: il fallimento della politica americana ha aperto soprattutto nel Medio Oriente una situazione di conflitto endemico da cui, a breve, non si intravedono vie d’uscita. Il mondo arabo si è radicalizzato, in Palestina, in Iran, in tutto il Medio Oriente, incapsulando lo stato d'Israele in uno spazio sempre più islamizzato e ostile. La guerra è perduta in Iraq, sta naufragando in Afghanistan dove somiglia sempre più al disastroso intervento sovietico. Tutta la politica americana appare ora, più che mai, come il risultato di scarsa conoscenza, visione strategica distorta e ricordi storici annebbiati e confusi, mentre la minaccia terroristica, lungi dall'essere compressa, si è dilatata su innumerevoli fronti. Al posto dello state-building, obiettivo dichiarato delle azioni militari, vi sono ora una serie di Stati disastrati. Comincia a farsi strada, a più livelli, l’idea che la soluzione a questa empasse lacerante potrà venire solo attraverso un ribaltamento delle modalità politiche di gestione della crisi post 11 settembre: sarebbe allora il caso di ripensare agli appelli, fra gli altri, di Judith Butler che invitava ad elaborare quel passaggio cruciale in termini di fragilità e di interdipendenza piuttosto che di forza e di vendetta.
La crisi attuale ci ribadisce, una volta di più, che il modello occidentale che sembrava essere universale, appare sempre meno capace di governare il mondo.
Fra le contraddizioni di questo modello, assieme all’America, si dibatte l’Europa, chiamata a confrontarsi con sfide simili, ma non uguali: a partire da una identità definita ancora solo da frontiere e confini, in cui è ambigua l'affermazione dei diritti fondamentali, e che si mostra incerta nel fronteggiare le decisive questioni della guerra globale permanente e il perdurante deficit di partecipazione democratica. Un’Europa che rimuove il convitato di pietra di un processo costituente interrotto e nella quale le forze politiche, di qualunque schieramento, sembrano rincorrersi sul terreno della paranoia securitaria e sullo sperimentalismo ondivago nelle politiche sociali.
Per uscire da queste secche, molto è il cammino da compiere, a partire dalla definizione di una politica dell'immigrazione non più asservita all'utilizzo dei flussi migratori per flessibilizzare e precarizzare l'economia e quindi della costruzione di uno spazio in cui possa essere possibile aumentare il tasso di civilizzazione dell'economia.
Il compito che attende gli europei è quello di reinventare la democrazia e i diritti delle persone e dei popoli dopo lo Stato nazionale. E di fondare l'interdipendenza derivata dalla globalizzazione sull'etica del limite delle risorse, allargando il campo dei diritti non solo alle attuali, ma anche alle future generazioni.
E ancora, l'Europa come attore politico dello scenario mondiale potrà avere un ruolo decisivo solo se riuscirà a superare un concetto di multiculturalismo che si risolve in un pluralismo delle identità e che riproduce e alimenta la fissazione identitaria. Come ci ha insegnato Amartya Sen, il mondo globalizzato non è una federazione di religioni e civiltà e non è vero che le culture si muovano compattamente l'una contro l'altra: lo spazio culturale e sociale in cui agiamo è molto più complesso e ognuno di noi avrà sempre più patrie mentali e spirituali.
A partire da questo, sarà possibile creare legami e alleanze trasversali su battaglie che siamo chiamati a combattere con il numero più ampio di compagni di strada: la questione energetica, quella ecologica, la povertà del mondo che ci entra in casa, i sistemi di welfare spiazzati, l'insicurezza del reddito, il futuro incerto delle giovani generazioni, il ritorno della guerra come risposta a ciò che viene visto come il caos post guerra-fredda.
L’Europa potrà operare un duraturo ed efficace contrasto contro i modelli oggi imperanti di potenza e di forza economica solo se fondata sui pilastri dello stato di diritto e dello stato sociale, della cultura e della memoria.
Senza dimenticarsi mai, che, come ci ricordava George Steiner, ci sono solo duecento metri tra il giardino di Goethe e la porta di Buchenwald.
In quest'anno che declina i temi della biopolitica hanno conosciuto momenti di scontro asprissimo e mai come adesso abbiamo riconosciuto la lezione di Michel Foucault che già trent'anni fa asseriva come la vita sia divenuta, nel mondo moderno, un oggetto di potere determinato dal passaggio dal potere di dare la morte e lasciar vivere, al potere di far vivere e lasciare morire. Fra le ultime angoscianti immagini dell'anno, quelle dello sguardo severo di Welby ci hanno costretto a prendere atto del corto circuito palese nelle prerogative costituzionali dei nostri stati di diritto occidentali che impongono la protezione della vita anche contro il diritto del vivente, della sua volontà, della sua dignità. In questo scontro la Chiesa cattolica, attribuendosi un ruolo di legislatore etico universale, pretende di fatto un'esclusiva, quasi che l'etica del vivere e del morire (ma anche del convivere e della famiglia) appartenesse di diritto alla gerarchie ecclesiastiche. L'ingerenza religiosa sempre più massiccia, che tende a trasformare il messaggio cristiano in un prontuario di comportamenti politici, si inserisce nei vuoti della prassi democratica, soprattutto in Italia, dove il potere temporale del Vaticano e quello politico dello Stato non fanno che annodarsi sempre più, lontani ancora dal comprendere che è solo la laicità che può presiedere anche le ragioni del sacro.
Tale interferenza, d'altro canto, è conseguenza anch'essa di quell'arroccamento che già temevano un anno fa e che si è fatto via via più tangibile, più asfissiante: papa Ratzinger, in questa preoccupante ostilità al mondo contemporaneo e alla modernità, sta perseguendo una chiusura del cattolicesimo in un orizzonte culturale e sociale sempre più limitato. A partire dal discorso di Ratisbona, il dialogo fra religioni è ammesso solo se concepite come due integralismi che si fronteggiano e non si contaminano. Nell'attuale visione vaticana il dialogo appare quindi possibile solo a partire da una identità rafforzata, quando è invece sempre più chiaro che solo mettendo in discussione le proprie certezze identitarie si può avere un reale scambio.
Le grandi domande sulla vita e sulla morte richiedono nuove risposte o meglio di saper imparare da chi queste risposte le ha date e le dà nella pratica quotidiana della solidarietà e della pietas. Come le donne ribelli e autonome di Volver, il film dell'anno che ci è rimasto nel cuore, che vivono la loro vita complicata e faticosa, attraversata da eventi terribili, ma sanno trovare le risposte ai grandi problemi della vita: la malattia e il dolore, la morte, la violenza. E al male di vivere che sono costrette a subire, ma da cui non rimangono schiacciate, trovano una via d'uscita nella solidarietà complice e affettuosa con cui si muovono nei cortili interni delle loro case, ombrosi e quieti, dai giardinaggi asimmetrici e casuali, dove non entrano né gli uomini, marginali e inutili, nè il vento della Mancha, invadente e ossessivo, e dove la disarmonia esterna trova una sua ricomposizione.
Quanto al quadro politico italiano, esso ci appare a sua volta non privo di elementi di perplessità: la vittoria di aprile è stata presto assorbita da comportamenti che non abbiamo sempre condiviso. Le avvisaglie già c'erano, a partire dai meccanismi di utilizzo della legge elettorale usata per assecondare le profonde pulsioni conservatrici e autoreferenziali degli apparati di governo dei partiti e sono state spesso confermate da decisioni e iniziative seguite in apertura di legislatura.
Il senso di delusione nei confronti del governo attuale è tema di sondaggi e analisi quotidiane e si sintetizza nell'assioma del ‘cambiamento senza svolte’. E’ stato sottolineato da più voci che se Berlusconi è stato sconfitto, non altrettanto appare il berlusconismo inteso come degenerazione della democrazia, primato degli interessi privati, disprezzo delle norme e delle regole. Il populismo solleticato dal passato governo che adotta i codici dei media, semplifica i temi e banalizza il messaggio, non è svanito, ma anzi appare come un sottofondo ricorrente, come una minaccia che serpeggia nel profondo della nostra società, pronta a riapparire in maniera dirompente. Esso va di pari passo con l'essiccamento degli spazi della rappresentanza, di un sempre debole civismo democratico e del declino dell'etica della responsabilità politica.
Il corpo sociale italiano appare suddiviso secondo un modello familistico-corporativo in lobby, comitati, gruppi di interesse, associazioni, ognuna delle quali spasmodicamente presa dai suoi interessi settoriali e dal mantenimento di una rendita di posizione ed indifferente ai problemi della corruzione, della trasparenza e della fine dello stato. Le tasse continuano ad essere percepite non come il prezzo della cittadinanza, necessario a garantire servizi e tutele, ma come un vessatorio balzello. Zagrebelsky ha parlato di un paese diviso non fra destra e sinistra, tra laici e credenti, ma piuttosto tra coloro che sanno interessarsi solo al presente e coloro che sanno concepirlo come premessa di un avvenire comune. Il paese appare bloccato non tanto sul piano economico, quanto su quello sociale: blocco della mobilità di classe, inefficienza della formazione scolastica e universitaria, ricambio generazionale lentissimo, autoriproduzione delle élites: fenomeni tutti che rimandano ad un deficit politico. E' quindi soprattutto la politica, la nostra politica a dover proporre quelle mediazioni capaci di diffondere un senso del generale nei soggetti sociali, trasformandoli da soggetti passivi ed indifferenti ai problemi comuni, in soggetti attivi e dissenzienti, a far riemergere, in contrapposizione all'interesse esclusivo nel particulare che esclude e non include e che si traduce pressochè sempre nell'interesse del più forte, la necessità di tutelare il bene pubblico, cioè di tutto quello che il singolo non può tutelare da solo e diviene quindi compito della res publica salvaguardare. E assieme combattere la precarietà, la nuova precarietà che genera nuove paure e insicurezze e si traduce spesso, troppo spesso, in egoismo sociale e xenofobia. Come scrive Baumann: “Le persone spaventate a morte da una misteriosa, inesplicabile precarietà dei loro destini e dalle nebbie globali che nascondono alla vista la loro prospettiva, cercano disperatamente i colpevoli delle loro tribolazioni e delle prove cui sono sottoposti. Le trovano, non sorprende, sotto il lampione più vicino, nel solo punto obbligatoriamente illuminato dalle forze della legge e dell'ordine”.
Per lasciarci alle spalle questa opaca sensazione mista di delusione e smarrimento, abbiamo bisogno di nuove idee e di nuove armi culturali e di tutte le risorse del nostro campo: anche per questo dobbiamo reagire ad una logica di contrapposizione fra riformisti e radicali che non può che condurre ad un sistema di veti reciproci fra blocchi contrapposti e dobbiamo piuttosto tendere ad una radicalità di obiettivi perseguita con riformismo di metodi. E anche la discussione sul futuro partito democratico ci piacerebbe che ci dicesse qualcosa non su problemi di ingegneria partitica, ma sulle scelte fondanti, a partire da quella fra l'accettazione dell'egemonia del mercato, calmierata da un risarcimento dei danni sociali più macroscopici o il ristabilimento, in qualche modo, dell'egemonia della politica sull'economia.
Le scelte da compiere nei prossimi anni, nei prossimi mesi, nell'anno che verrà, sono di grande portata: investono le tematiche genetiche, le fonti di energia, la tutela dei beni comuni, la ridefinizione del concetto di cittadinanza e riguardano non più solo noi, ma per la prima volta con questa urgenza, le generazioni future: si tratta di un percorso difficilissimo, che al momento attuale appare addirittura improbo.
Però ieri, ascoltando qui a Bologna il nostro premier attorniato, per i tradizionali auguri natalizi, dagli amici e concittadini, il suo discorso, così scopertamente non mediatico, dall'oratoria così poco carismatica, ci è apparso però così pacatamente intriso di passione civile e di una visione sociale così onesta e condivisibile da rinnovargli, lì per lì, la fiducia e il consenso. Almeno fino al prossimo anno.
Forse non è molto più che una sensazione coadiuvata da un pignoletto birichino, ma va comunque rinforzata con un’analisi non prevenuta dell'attuale contesto politico e sociale, di rara difficoltà, come anche degli elementi positivi che pure esistono: fra gli auguri più belli di ieri, quelli di una giovane meridionale, da anni a Bologna per impieghi precari che, grazie alle disposizioni della vituperatissima finanziaria, avrà fra pochi mesi un lavoro a tempo indeterminato: “Grazie, presidente, di avermi regalato il futuro”.
Non è pochissimo, e su questo si può costruire.
Per quanto ci riguarda più direttamente, all'affossamento della legge Lupi registrato come un'indubitabile vittoria ad inizio d'anno, fa da corona la recentissima presentazione, in Parlamento, della legge di eddyburg sul governo del territorio che rappresenta il contributo collettivo di eddyburg alla discussione per una nuova normativa in materia urbanistica; discussione che si sta aprendo in queste settimane e nella quale si percepisce, da parte di esponenti del centrosinistra, qualche elemento di continuità con le politiche della precedente legislatura sul quale occorrerà vigilare. Ancora fra i segnali positivi di questa seconda parte dell'anno, potremmo riconoscere un'indubitabile ripresa del dibattito su questi argomenti che si accompagna ad un aumento progressivo della partecipazione sui temi urbani e del territorio registrata anche a livello demoscopico. E la così detta battaglia di Monticchiello, pur con qualche distorsione mediatica, ha avuto il pregio di focalizzare l'attenzione su aree del nostro territorio, quelle rurali, sulle quali si stanno concentrando operazioni speculative di ampiezza tale da sconvolgere, nel loro assieme e in breve tempo, assetti territoriali dati per scontati.
Ulteriore sintomo di una ripresa di interesse anche a livello non solo nazionale, può essere riconosciuto nella Biennale veneziana di Architettura che pur con qualche svarione, non poche dimenticanze e qualche semplificazione, ha indagato, con questa edizione, il tema della città e i suoi paradossi fra coesione sociale ed esclusione, ricchezza urbana e intensa miseria, luogo dell’interazione per eccellenza e, storicamente, del rinnovamento politico. L'indagine del gruppo di lavoro, coordinato da Richard Burdett, ha sottolineato la necessità di concentrare l'azione politica sulla costruzione di città socialmente più compromesse e morfologicamente più leggibili, città,
per dirla con Benjamin, 'porose', nelle quali le comunità si intersechino, anche nel conflitto. Va detto che questa lettura ci pare però insufficiente se applicata alle grandi megalopoli terzomondiali, ormai vicine ad un punto di rottura del rapporto tra urbanizzazione e possibilità di sviluppo: per le masse di inurbati diseredati, di cui ci parla, ad esempio, Mike Davis, le città rischiano di essere solo enormi bacini di raccolta di una povertà globale in espansione.
A ribadire la complessità del fenomeno urbano, nella Biennale ha trovato invece posto la ricerca di Philipp Oswalt sulle shrinking cities, le città in contrazione che stanno cioè subendo un drenaggio di popolazione. Fra queste, molte quelle segnalate sul nostro territorio, caratterizzate da fenomeni di spopolamento e dismissioni prodotti da un'accelerazione del processo di rifunzionalizzazione economica, per affrontare i quali occorrerà adottare strategie non solo urbanistiche, ma soprattutto politiche, nuove.
E infine noi di eddyburg: siamo qui, pur con qualche acciacco dovuto ad un anno vissuto pericolosamente – comme d'habitude – ma con qualche risultato raggiunto, a partire, come ricordato, dalla legge di eddyburg: solo l'inizio di un cammino che prevediamo assai complesso e non privo di insidie e che ci vedrà, come al solito, in prima linea. Per noi, in realtà, discussione e analisi sono gli strumenti quotidiani con i quali interveniamo, spesso suscitandolo, nel dibattito nazionale sulle vicende urbanistiche, sulla tutela del paesaggio e dei beni culturali, a partire dalla difesa del nuovo Codice che, pur certamente perfettibile, appare però uno strumento da sostenere soprattutto in rapporto alla montante marea di normative regionali lacunose quando non decisamente discutibili. Ci sono valide eccezioni: il piano paesaggistico della Sardegna, fortemente voluto da Renato Soru, che si colloca sulla linea interpretativa del Codice.
Assieme alle analisi, agli appelli, alle iniziative sul territorio fra le quali la scuola estiva, consolidatasi con successo in questo secondo anno di attività, questo è stato anche un anno di memorie di eventi e persone. A partire dal decimo anniversario della scomparsa di Antonio Cederna che eddyburg ha affettuosamente ricordato attraverso i suoi scritti e molti interventi di compagni di viaggio reali e ideali: a ribadire il filo di continuità che, come ho scritto in questa sede, vorremmo che ci legasse a questa figura, alle sue idee, alle sue battaglie, molte delle quali ancora da combattere. In quest'anno di ricordi ci siamo molto interrogati sulla sua attualità, da taluni sprezzantemente negata anche in recenti occasioni commemorative. E certo il 'metodo Cederna', questa sua reiterazione documentatissima e quasi ossessiva su alcune grandi questioni, sempre quelle, non appare poi molto 'attuale' in tempi di disinvolto assorbimento e rapida digestione di temi e problemi, di svagata memoria e di postmodernità liquida e flessibile che tutto rimescola e annulla. E però quei temi non sono scomparsi perchè non più attuali, ma sono stati semplicemente rimossi, occultati perchè ingombanti dal punto di vista politico e culturale. Per riemergere, in tempi recenti e recentissimi, nella loro urgenza irrisolta: il consumo di suolo, lo sprawl urbano, le periferie, la tutela delle coste. O ipocritamente travestiti: la risistemazione dell'area archeologica centrale a Roma come riproposizione edulcorata del progetto Fori, o nell'emergenza delle infinite battaglie tuttora in atto: la tutela dell'Appia Antica per la quale eddyburg, nelle scorse settimane, ha speso la sua voce.
Il 20 settembre a eddyburg è stato assegnato, dalla provincia di Roma, uno dei premi Cederna 2006; ripercorrendo a ritroso le pagine del sito di questo anno che si conclude tra poco, ci sembra proprio di essercelo meritato: l'azione di documentazione, di denuncia, di segnalazione, di analisi è stata costante, anche se a volte in affanno. Lacune, omissioni, forse qualche forzatura la mettiamo in conto, ma già si annunciano mutamenti, evoluzioni, ampliamenti, pur nelle renitenze di chi scrive. Adesso, comunque, è tempo di pensare al molto che si è fatto al meglio che si poteva, e di guardare avanti, al moltissimo che si potrà fare.
O meglio in alto, come questo pastore della meraviglia, ultimo recentissimo acquisto napoletano per il mio presepe, che, allargando le braccia, guarda in su, estatico, verso la cometa e rapito dall'incanto di tanta bellezza, vi si abbandona.
“Chi non si aspetta l'inaspettato non troverà la verità”. Eraclito
Buon Natale.
Bologna, 24 dicembre 2006
A casa sua, pallido, il turista, guarda le fotografie della vacanza mentre fuori piove e piove. E guardandosi mormora: “Sarà… ma questo non sembro io, questo è un altro… ”
C’è qualcosa di molto triste e perfino drammatico nei villaggi vacanze, anche in quelli dell’isola, così alla deriva dal continente. C’è qualcosa che lascia inebetiti nella vita sintetica del villaggio dove si mangia si dorme, si balla, si nuota in piscine irreali, poi si mangia di nuovo, si dorme di nuovo in un ciclo rotondo e animale di cibo, deiezione e sonno. Qualcosa che non si riesce a comprendere del tutto.
Neppure gli animatori incaricati di ravvivare l’ospite sott’olio solare e di affrancarlo dalla tristezza riescono a liberare il turista dai residui del dolore. Eppure l’animatore è stato concepito proprio come un essere metafisico addestrato a trasferire i patimenti dell’ospite sul proprio corpo, istruito per disinfettare il cervello dell’ospite, per farlo regredire sino all’infanzia sacrificando la propria età verde. L’animatore invecchia ad ogni stagione perché la sua essenza viene risucchiata dal vacanziere il quale perde rughe, cammina più dritto e ha uno sguardo meno opaco che all’arrivo. Ma neppure il sacrificio dell’animatore è sufficiente.
Così la sera, sgrassato e deodorato, fermo davanti ad un immenso buffet, il turista sente di continuo il peso di una brutta idea che gli arriva dal profondo e che non riesce a cacciare via né col cibo, né con l’alcol e neppure con le danze propiziatorie.
La notte, nella stanza bianca, la paura di qualcosa di imminente non gli scompare neppure con molte gocce di sonnifero. E la mattina, arenato in spiaggia, non riesce ad essere contento sotto il sole che lo consuma.
Il fatto è che al ciclo del villaggio manca qualche cosa per essere davvero perfetto e lui, l’ospite, non riesce a comprendere il perché di questa incompletezza dolorosa. A volte, però, di colpo, magari proprio l’ultimo giorno, capisce.
Beh, al villaggio, per essere davvero un villaggio, mancano due eventi fondamentali che renderebbero naturale il ciclo vitale del turista. Nel villaggio si dovrebbe nascere e morire.
Sì, sporadicamente qualcuno, stupito dall’ insolito vigore che si sente addosso, muore all’improvviso. Ma è raro, non si usa nei villaggi. Muore perché il cuore non ce la fa, troppi cambiamenti, troppi. La vacanza è una crudeltà, è dura, bisogna faticare.
Per il momento la morte nel villaggio è solo un’eccezione non prevista. La nascita, poi, è ancora più insolita.
Peccato, perché il parto turistico sarebbe un parto felice e la morte turistica sarebbe la migliore delle morti, il valore della vita nel villaggio aumenterebbe e i defunti, accompagnati dall’animatore gentile, se ne andrebbero in un aldilà turistico e senza più pensieri.
Sepolti nel cimitero del villaggio dove un’anagrafe uguale alle altre anagrafi registra tutto e dove si viene interrati rivolti verso il mare.
E niente più vacanze prive del soffrire naturale. Senza soffrire non c’è felicità possibile. La sofferenza non la si può lasciare a casa. Non si prova piacere se non si sa di dover patire e se non si è patito. Non si può ballare o guardare un tramonto felici se si dimentica di poter morire là dove ci si trova. La vacanza deve essere proprio questo: una paura appassionata di perdere il mondo intorno. Piacer figliod’affanno… provare pena per gustare la gioia di uscire per un po’ dal dolore e godere della dolcezza amara della vacanza.
Saggio il viaggiatore pellegrino morto in canoa davanti alle coste smisurate e divine di Cala Luna, fortunato quell’altro morto in bicicletta con negli occhi la strada orientale e il mare. Loro avevano capito che il bello naturale assume un valore incalcolabile proprio perché in fondo al bello ci si trova la morte che gli conferisce valore e significato, finalmente.
Ecco perché il villaggio turistico, così com’è, deve essere riformato oppure abbattuto con le ruspe.
L ’orto concluso all’interno del quale non penetrano la malattia e la morte, non arrivano epidemie e la peste viene lasciata fuori, l’ orto concluso non deve esistere più. Il dolore deve arrivare dappertutto e per ognuno.
Povero il turista che, senza comprendere, è traslato, poco più che vivo, dall’aeroporto al villaggio dove viene ingozzato come un oca e poi traslato di nuovo dal villaggio all’aeroporto e da lì a casa sua dove ora riguarda, con le lacrime agli occhi, le fotografie del luogo dove è stato sequestrato per una settimana. Quella, forse, non era vita.
E può darsi che, osservando le foto, comprenda che il turista - cioè lui stesso - è solo un oggetto inanimato mentre il viaggiatore viandante possiede la capacità del pensiero con la quale decide cosa vedere, dove andare, cosa mangiare ma, soprattutto, non si fa imprigionare in nessuna fiaba perché le favole - tutte piene di spaventi e paure - gliele hanno già raccontate quando era bambino.
Questo testo è stato pubblicato da la Nuova Sardegna alla fine dell'estate del 2005