Nel balletto di ipocrisie che nasconde ferocissimi scontri di potere all’interno del governo sulla manovra finanziaria in discussione in queste ore, spicca quest’oggi la “protesta” di Bondi sui tagli indiscriminati alla cultura.
E già, perché a tutti – in maniera bipartisan - una presa di posizione critica da parte di un ministro da sempre appiattito fino al masochismo sulle decisioni del governo è apparsa novità da sottolineare a riprova delle storture della manovra stessa.
Eppure, quando due anni fa la scure di Tremonti si abbattè, pesantissima, sul bilancio del suo Ministero, Bondi difese l’operato del governo sostenendo l’inefficienza ministeriale nella gestione delle risorse e sbandierandone come prova lampante l’elevato ammontare dei residui passivi. In quella occasione ad economisti anche non di parte fu facile smontare la versione del ministro: la realtà a tutti nota è che nessun governo di alcun colore politico ha mai investito seriamente sul nostro patrimonio culturale e il Ministero è da sempre mantenuto in una sorta di bagnomaria che gli permette solo di sopravvivere.
Ma è altrettanto vero che in questi ultimi due anni è stata messa in atto, consenziente il Ministro, una vera e propria strategia di asfissia progressiva e sempre più accelerata.
Pensionamenti anticipati, girandola di trasferimenti, sostituzione, nei ruoli di maggiore ruolo decisionale sul territorio come le Direzioni regionali, di personale amministrativo al posto di tecnici del settore, e, soprattutto, quella politica dei commissariamenti sotto l’egida della Protezione Civile che ha interessato via via le Soprintendenze e poli museali principali e i cui meccanismi distorti solo le inchieste giudiziarie sono riuscite a bloccare.
Mentre per quanto riguarda il paesaggio gli organi politici del ministero hanno posto in atto, da un anno a questa parte, una sistematica operazione di depotenziamento dell’intero sistema delle tutele sul quale torneremo a breve, sul piano politico, è giunta pressoché a compimento l’espulsione progressiva di tutte le voci di dissenso, avviata in grande stile con le clamorose dimissioni di Salvatore Settis da Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, trasformato poi, in pochi mesi, in un organismo tanto consenziente sul piano politico quanto ininfluente su quello culturale.
Anche in questa occasione, del resto, le dichiarazioni del Ministro sono in realtà molto più coerenti di quel che non possa apparire ad una prima lettura: nulla Bondi ha detto sull’ulteriore taglio del 10% al bilancio del Mibac previsto dalla manovra. Briciole in termini assoluti, ma ad un organismo sottoposto, come detto, ad una dieta draconiana, se gli si sottrae anche il tozzo di pane secco, se ne decreta di fatto la soppressione.
E nel comunicato di precisazione diramato in giornata, Bondi ribadisce anche, sulla stessa linea, la necessità di quella “riforma” degli enti lirici che ha scatenato proteste a livello internazionale.
Il dissenso del Ministro riguarda invece la soppressione dei finanziamenti statali ad una lunga serie di istituzioni culturali del più vario tipo che, inaspettatamente, egli si trova a difendere, almeno in parte, rivendicando – unico caso nel suo mandato – la competenza del proprio Ministero a decidere sui tagli.
Su eddyburg abbiamo pubblicato da subito le molte ragioni che si oppongono, in linea di principio, ad ulteriori tagli su enti di ricerca, ma adesso leggetevi la lista delle istituzioni cui verrebbero (condizionale d’obbligo) sottratti i fondi statali. Sfido chiunque a non riconoscere fra quelle che, a seconda delle proprie competenze, ci sono maggiormente note, alcuni (molti) carrozzoni polverosi e da anni sonnecchianti in iniziative di basso profilo: uno o due convegni l’anno in amene località, una pubblicazione patinata e poco altro.
Si tratta, in molti casi, di istituzioni dalla storia gloriosa, a volte pluricentenaria, ma che da alcuni decenni ormai vegetano in un’assoluta irrilevanza culturale (sul tema, sempre su eddyburg).
Eppure sono sopravissute sempre alle minacce che periodicamente i governi, preferibilmente di centro destra, scagliano contro i famosi “enti inutili”: spauracchio demagogicamente agitato ad ogni manovra finanziaria. La ragione, tutta italica, della loro sopravvivenza risiede nel fatto che molte di queste istituzioni si sono di fatto trasformate in comode sinecure per amici, sodali e congiunti.
Anche la sinistra, e qui vengo al punto centrale della questione, ha favorito questo andazzo, sicura di mantenere, garantendo elemosine di Stato a questi rifugi per intellettuali a riposo e per il loro corteggio, sacche di consenso spendibili alla bisogna. In molti casi questo calcolo di bassa cucina si è rivelato pure sbagliato, poiché, come noto, al cambio della guardia, i vari responsabili, direttori, presidenti, ecc. si sono in larga parte allineati al padrone di turno, al grido di “la cultura (archeologia, geografia o storia che fosse) non è di destra, né di sinistra”.
Appunto. Ciò che un governo realmente consapevole dell’importanza della ricerca e della cultura quale strumento strategico di progresso sociale e anche economico di un paese avrebbe dovuto fare, sarebbe stato quello, internazionalmente affermato, di costituire un sistema di controlli e verifiche periodiche e realmente autonome sull’attività di tali enti, in modo da premiarne quelli (non molti, ma pure presenti nella black list tremontiana) di reale eccellenza, facendo anzi confluire su questi le poche risorse disponibili.
Perché un’altra delle ipocrisie che si celano dietro questa operazione è quella di sottolineare l’esiguità delle elargizioni statali a riprova della loro ininfluenza in termini di risparmio complessivo delle risorse. Va detto, piuttosto, che la ricerca di alto livello ha dei costi non comprimibili al di sotto di una certa soglia e che, per converso, la scarsità di risorse cui sono costrette tante di queste istituzioni diviene prova evidente della miserevole incidenza culturale raggiungibile dalle loro attività.
Così, invece di contribuire a consolidare, con una politica di finanziamenti culturali trasparente e fondata sul merito, le istituzioni di ricerca di eccellenza che, nonostante tutto, sopravvivono nel nostro paese, la sinistra può annoverare anche questa colpa: nella bagarre che già si è scatenata sulla lista nera, vi sarà un arrembaggio giocato esclusivamente su prove di forza di bassa politica e dal calderone nel quale tutti sono appiattiti, saranno salvati non i migliori, ma quelli legati ad interessi o anche solo conoscenze di maggior potere.
Amaramente pertinenti appaiono le considerazioni di Barbara Spinelli nell’odierno editoriale: “Quello che urge da noi non sono sacrifici, ma un’autentica disintossicazione […] Si tratta di uscire dallo show, di entrare nella realtà, di vederla. Si tratta di rompere con gli usi e costumi vigenti dietro le comunità transennate”.
Si accettano scommesse sul finale di partita.
Perché mai i popoli del Sud del Mondo, che sacrosantamente accusano i paesi occidentali di averli invasi schiavizzati deportati sfruttati, brutalmente e sistematicamente umiliati e offesi, oggi si impegnano a riprodurne fedelmente il modello economico e culturale? Perché, tornando a distanza di pochi anni in città e paesi asiatici, africani, sudamericani (che ricordavamo come seducenti prodotti di storie e civiltà a noi sconosciute, documenti carichi di senso, testimonianze non solo di valori perduti ma di possibili diverse ipotesi future) ci si ritrova puntualmente di fronte a tante, piccole o grosse, ma quasi sempre brutte, Manhattan, fatte di palazzoni e grattacieli copiati dai nostri, di negozi carichi degli stessi prodotti in vendita da noi, di gente vestita esattamente come noi, di pizzerie e Mac Donald’s, di Tv e pubblicità imperanti, di auto per lo più di marche occidentali e puntualmente, come da noi, immobili o quasi in strade congestionate e irrespirabili? Perché, questi popoli, riflettendo sulla loro storia e più ancora sul loro presente, non provano a immaginare un mondo diverso, magari da proporre anche a noi?
A questa domanda, cui più volte ho accennato in articoli e pubblici dibattiti (ricordo in particolare un incontro di un paio d’anni fa a Modena, in cui inutilmente la proposi a Wandana Shiva) non avevo avuto finora risposte significative. La conferenza di Cochabamba, per la prima volta, non solo mostra consapevolezza del problema, ma su di essa fonda la novità del suo discorso; e traccia le ipotesi di una strategia forse capace non solo di affrontare alla radice la crisi ecologica, ma di rapportarla alla realtà sociale, in una lettura complessiva delle iniquità e storture del mondo.
In effetti, benché ufficialmente dedicato al “cambiamento climatico”, da posizioni di forte critica dell’insuccesso di Copenhagen, fin dall’inizio il meeting sudamericano ha impresso al discorso un respiro ben più vasto, in cui il clima si pone non come “il problema”, ma solo come uno - certo importantissimo - dei tanti problemi che si sommano nella crisi planetaria, non soltanto ecologica . E ciò in modo inequivocabile è apparso fin dai primi documenti ufficiali proposti dalle varie delegazioni. “La Terra è malata”, “Questo sviluppo è insostenibile”, “Cambia il sistema non il clima”, “Giustizia sociale e ambientale”, “Contro il capitalismo”: tali sono gli slogan in essi ricorrenti, che si esplicitano poi in abbozzi di sintesi quali “La Terra è malata a causa del modello economico sostenuto dal capitalismo”. Un discorso in cui la conferenza ha non solo ritrovato una critica totale del capitalismo, quale da gran tempo mancava anche dalle posizioni delle sinistre più avanzate, ma ha tracciato l’abbozzo di un’analisi complessiva, che ha soprattutto il pregio di mettere a fuoco una attendibile scala sia di priorità che di interdipendenze nella fenomenologia della realtà ecologica e sociopolitica.
Muovendo dall’inquinamento causato dalle produzioni industriali più diverse, da loro stessi direttamente vissuto e sofferto, questi popoli accusano la molteplicità pressoché sterminata di attività squilibranti dell’ordine naturale. Ad esempio, agricoltura industriale, cioè raccolti largamente soddisfacenti, certo, ma ottenuti mediante deforestazione intensiva e forti dosi di concimi chimici; cioè rottura di antichissimi equilibri vegetali e biologici; cioè anche milioni di disoccupati, costretti ad emigrare e alimentare la crescita di mostruose megalopoli; cioè ancora tossicità che entra nella catena alimentare, raggiunge ortaggi, frutta e perfino latte materno, cui segue il moltiplicarsi di malformazioni e affezioni tumorali. E alla medesima logica innaturale obbedisce poi lo stesso rimboschimento “riparatore”, con piante tutte uguali che negano la necessaria equilibratrice biodiversità.
Oppure. Trivellazioni in cerca di petrolio, gasolio, metano, minerali preziosi, interventi devastanti su estensioni vastissime, inquinamento di terre e mari, sconvolgimenti irrecuperabili di ecosistemi e antichi insostituibili paesaggi. E allevamenti industriali di polli maiali ovini abbacchi pesci ecc., sottoposti a sviluppo artificiale a base di ormoni o altre sostanze chimiche: complessi spesso giganteschi, che alterano l’intero ecosistema e le tradizionali proporzioni paesistiche. E fabbriche di sempre più sofisticati beni “immateriali”, basati sulle conquiste scientifiche più avanzate, di cui tutti andiamo orgogliosi, che creano però rifiuti per la loro nocività definiti “speciali”, ma solo raramente avviati a speciali trattamenti.
Tutto ciò e molto altro rappresentanze di gran parte dell’America Latina hanno detto a Cochabamba. Denunciando le ferite di popoli offesi da un’economia estranea che li invade e prevale mediante lo strapotere delle multinazionali, delle grandi banche, degli stessi governi locali sovente ad esse ambiguamente corrivi, e a tutti impone l’ideologia del consumo e della crescita fine a se stessi; accusando i mercati di farsi misura di ogni confronto, e perfino “privatizzare l’atmosfera attraverso la compravendita di emissioni”; lanciando slogan significativamente propedeutici alla battaglia programmata, come “Recuperare e fortificare la propria identità”.
Tutte le rappresentanze presenti a Cochabamba si sono date appuntamento per fine anno alla Conferenza di Cancun, impegnandosi a portare avanti gli stessi temi. Chissà mai che possa essere il Sud del mondo a salvare il mondo intero?
Questo articolo esce contemporaneamente su Liberazione , oggi 29 aprile 2010
C’era una volta una Regione simbolo del buon governo, dove l’efficacia dell’attività amministrativa si sposava con l’etica dell’operare politico. Eravamo negli anni ’70 e il modello delle amministrazioni “rosse” raccontava al mondo anche di un modo diverso di intendere il governo del territorio. Fra queste un ruolo guida lo assunse la regione Emilia Romagna capace, in quegli anni, di costruire, sulla base di un’ampia condivisione popolare, un sistema di governo che si affidava, nel metodo, ad una ricognizione approfondita del proprio territorio e negli strumenti, alla pianificazione su area vasta: i risultati di rilievo non mancarono, dalla creazione del Parco del Delta del Po, all’elaborazione di uno dei primi e più efficaci piani paesaggistici regionali elaborato in adeguamento alla legge Galasso. Nel 1986 il PTPR dell’Emilia Romagna rappresentò certamente un punto di innovazione e di avanzamento della cultura ambientalista in Italia e come tale fu ampiamente apprezzato, fra gli altri, da Antonio Cederna, anche perchè costituì il risultato concepito, coordinato ed elaborato dalle strutture interne di un'amministrazione pubblica.
Molta acqua è passata sotto i ponti, mano mano che la tensione ideale dei primi anni si allentava, contestualmente il carattere esemplare dell’esperienza emiliano romagnola andava diminuendo. Al pari di altre amministrazioni regionali, gli ultimi lustri hanno sancito una rinuncia sempre più marcata, sul piano politico e su quello amministrativo dalle funzioni di programmazione e pianificazione su area vasta. Progressivamente si è sempre più diffusa la delega di tali funzioni in campo urbanistico a livello provinciale e comunale con tutti i fenomeni di svendita del paesaggio per finalità di cassa economale che questo meccanismo ha comportato. L’ultima legge sul governo del territorio (n.6 del 6 luglio 2009) sancisce di fatto questo passaggio, inglobando, quale naturale corollario, il recepimento a livello regionale, del famigerato piano casa. Intendiamoci, come eddyburg sta documentando, esistono versioni largamente peggiori di tale provvedimento che in talune declinazioni regionali è stato pensato come un vero e proprio condono mascherato, ma a chi ricorda il dibattito culturale e politico che accompagnò l’elaborazione del PPTR, oltre 20 anni fa, appare dolorosamente evidente la rinuncia ad un’operazione di strategia territoriale su area vasta e quindi a ripensare il proprio territorio in termini complessivi non collegati esclusivamente a modelli di sviluppo culturalmente arcaici ed economicamente poco innovativi.
In compenso, gli ultimi mesi della legislatura che si conclude in queste ore sono stati caratterizzati dalla pubblicizzazione di un Piano Territoriale di ben altra natura: il PTR, non piano urbanistico, ma pomposamente definito “come l’atto più rilevante della Regione, la sua visione strategica”, è a tutt’oggi un documento persino imbarazzante sul piano dell’elaborazione politica ed amministrativa: oltre all’immancabile (e stucchevole) panoplia lessicale di termini quali competitività, economia della conoscenza, sviluppo sostenibile e valorizzazione, l’immagine della regione viene definita quasi solo per contrasto, a rimarcare, in perfetto stile leghista, le differenze, soprattutto economiche, in positivo rispetto ad altre aree del paese e l’unico obiettivo che emerge da una cortina fumogena e spesso contradditoria di affermazioni è quello dell’”attrattività territoriale”, bramata nelle sue conseguenze economiche, ma piuttosto vaga nei contenuti .
L’ancora più recente legge sul paesaggio (n.23 del 30 novembre 2009) senza affrontare minimamente il problema dell’adeguamento della pianificazione regionale vigente al Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, rappresenta, rispetto agli anni ’80 un deciso arretramento culturale, a partire dalla sciatteria linguistica che la connota e che non riesce a nascondere la totale mancanza di qualsiasi elemento se non proprio prescrittivo, financo definitorio rispetto alle azioni chiaramente identificate dal Codice (in particolare all’art. 143) quali elementi fondanti della copianificazione paesaggistica. A tal punto il testo di legge elude qualsiasi funzione pianificatoria da non prevedere la redazione di alcuna cartografia: torna alla mente il fulminante parallelo di Luigi Piccinato che definiva un piano senza carte come “calligrafia orale”.
Naturalmente questo decisivo abbassamento a livello di qualità normativa, ha ampio riscontro con quello che sta succedendo sul territorio: il fenomeno dello sprawl urbano dilaga così come il degrado complessivo del paesaggio dovuto anche alla costruzione delle tante infrastrutture che attraversano la regione (dall’alta velocità ai passanti autostradali), mentre sono state recentemente riviste anche alcune delle norme cardine sulle quali il PTPR degli anni ’80 aveva cercato di fondare un’inversione di tendenza rispetto al massacro urbanistico che aveva ridotto la costa romagnola, nei decenni precedenti, a un’ininterrotta città lineare di grottesca qualità architettonica, distruggendo per sempre decine e decine di chilometri di dune e pinete. E si moltiplicano i vulnera inferti al contesto monumentale di centri storici fino ad ora studiati e tutelati come in poche altre situazioni italiane e in molti centri, a partire da Bologna, disastrosa appare la situazione del traffico. Certo, c’è di peggio in Italia, il territorio dell’Emilia Romagna non ha conosciuto, se non in piccola parte, fenomeni di devastazione come il Nord-Est o l’abusivismo diffuso che come un cancro dilania vaste aree del Meridione.
Ma il “meno peggio” non è buona politica e, in tempi come questi, la rinuncia a divenire un esempio alternativo di governo del territorio, a sperimentare pratiche di contenimento del consumo di suolo, dello sprawl, di infrastrutture invasive la cui utilità si rivela soprattutto sul piano della speculazione edilizia , ad affrontare in maniera radicale e complessiva il problema della mobilità in una delle regioni più inquinate d’Europa è ammissione di incapacità politica con gravi conseguenze sul piano sociale. L’appiattimento di fatto ad un modello, quello del cemento, come motore principale dello sviluppo economico si è coniugato poi con una sempre maggiore opacità delle decisioni politiche e non ha mancato di produrre degenerazioni pericolosissime se è vero, come purtroppo risulta anche dalle recentissime cronache giudiziarie, che l’Emilia è terreno privilegiato di infiltrazioni camorristiche. I soldi dei Casalesi, insomma, alimentano la speculazione edilizia dei principali centri abitati sulla via Emilia, a partire dalla conurbazione Modena- Reggio Emilia, sulla quale si stanno concentrando gli interessi delle cosche, copiosamente alimentati da liquidità inesauribili.
Tali operazioni speculative, un tempo marginali, sono purtroppo ora avallate, quando non elaborate direttamente, dalle amministrazioni pubbliche comunali sulle quali l’ente regionale non esercita alcuna forma di controllo né a priori, né a posteriori: non siamo più da tempo un’isola felice, ma occorre scuotersi dal torpore in fretta, a partire dal prossimo governo regionale che si insedierà fra qualche settimana, per non diventare qualcosa di molto peggio e perché quell’unità d’Italia che ci apprestiamo a festeggiare, non sia nei fatti soprattutto il frutto di una condivisione di interessi illeciti.
L’articolo costituisce la rielaborazione del testo uscito sul Bollettino Italia Nostra, n. 449, 2009.
Il punto di partenza fu, nell’estate del 1994, il restauro e poi la pedonalizzazione di piazza del Plebiscito. Giornali, intellettuali, esperti di mobilità, esponenti politici di destra e di sinistra, tutti sostanzialmente contrari, previdero il traffico impazzito e la città in rivolta. Fu invece un trionfo, la piazza era un incanto, diventò lo sfondo preferito per le foto ricordo, e si cominciò a parlare di rinascimento. Ma il simbolo più forte della nuova Napoli fu il progetto per la trasformazione dell’area ex industriale di Bagnoli, circa 200 ettari, ai piedi della collina di Posillipo, di fronte all’isola di Nisida. Un luogo di suprema bellezza, noto dalla più remota antichità, carico di storia e di significati, collocato proprio al centro della sterminata area metropolitana che si estende da Caserta a Salerno e oltre, quasi ne fosse l’ombelico. La scelta di fondo fu di restituire la spiaggia alla balneazione (com’era stato prima dell’industria) e di destinare la maggior parte della superficie disponibile a un grande parco pubblico, anche con l’intento di rendere evidente l’avvio del riscatto della città–simbolo della speculazione, mostruosamente cresciuta nel dopoguerra, senza spazio per respirare, solo cemento e asfalto. Oltre al parco, molto limitate previsioni di attività ricettive, per la cultura, la ricerca scientifica, residenze e servizi, un porto turistico per circa 350 posti barca.
Tutto ciò fu oggetto di un’apposita variante urbanistica approvata nel 1998 e di un successivo piano attuativo. La realizzazione fu affidata a una società di trasformazione urbana formata ad hoc, la Bagnoli futura che, in effetti, finora ha concluso ben poco. L’unica opera condotta a termine è la spettacolare, e subito frequentatissima, passeggiata a mare ottenuta dalla trasformazione del pontile dove attraccavano le navi che scaricavano le materie prime per la produzione dell’acciaio. Ci saranno sicuramente ragioni che spiegano i ritardi, legati soprattutto ai finanziamenti e alle complicate procedure per la bonifica, ma non riesco a sottrarmi al convincimento che ci sia dell’altro. E cioè che 120 ettari di parco siano considerati uno spreco, un vuoto insopportabile, un insulto al valore assoluto rappresentato dai volumi edificabili. Se ne sono lette e sentite di tutti i colori, che un’area così bella non può non essere intensamente utilizzata, che il portafogli viene prima del verde, che il comune non avrà mai le risorse per un parco così vasto (non mi stanco mai di ripetere che il comune di Ferrara gestisce benissimo la sua “addizione verde”, un parco dieci volte più grande di quello di Bagnoli). In sostanza, secondo me, si cerca e si aspetta l’occasione buona per rimettere tutto in discussione. Come fu al tempo della Coppa America, nel 2003, quando Napoli partecipò alla gara, poi vinta da Valencia, per ospitare l’importante manifestazione velistica: i piani urbanistici furono considerati carta straccia e si scatenarono i peggiori istinti cementiferi. Da allora, opinionisti, industriali, economisti, architetti, politici in lista d’attesa, continuano a proporre alternative, infischiandosene delle decisioni e delle prerogative dell’amministrazione comunale, che peraltro sembra poco interessata. L’ultimo a intervenire è stato Vincenzo De Luca che ha proposto, da candidato alla presidenza della regione Campania, di impiantare nel parco di Bagnoli un campo da golf, non servono commenti. E adesso esplode lo scandalo dei pini insensatamente abbattuti dalla Bagnoli futura, di cui ha trattato il Corriere del Mezzogiorno ripreso ieri da eddyburg. Insomma, l’impresa pubblica il cui precipuo fine sociale sarebbe la realizzazione di un grande parco verde comincia la sua opera con la distruzione del verde esistente. Una vicenda inverosimile, vertiginosa. (Mi ha ricordato un’altra storia paradossale, quella raccontata da Letizia Battaglia, la nota fotografa palermitana, quando era assessore ai giardini del comune di Palermo, sindaco Leoluca Orlando. Le fu sottoposto un progetto che prevedeva di spiantare l’agrumeto del parco della Favorita, per sostituirlo con ilmuseo dell’agrumeto.)
Qui adesso interessano molto poco gli argomenti addotti dalla Bagnoli futura nel tentativo di salvarsi. Che l’abbattimento degli alberi fosse imposto per ragioni di bonifica, che sia o no previsto dal piano attuativo, non mi pare che abbia importanza. Conta la verità dei fatti: il parco di Bagnoli, che dovrebbe essere aperto ai cittadini da almeno un lustro, ancora non c’è (e i napoletani continuano ad affollare gli esigui spazi della villa comunale). Va avanti invece la realizzazione di opere edilizie, di cui non si avverte l’urgenza e, per favorirle, si elimina il verde esistente.
Ce n’è abbastanza perché il comune di Napoli intervenga liberandosi finalmente di una compagine inadeguata e incapace.
Era meraviglioso intatto paesaggio archeologico in un contesto di pianura agraria espanso fino all’arco della vicina costa sabbiosa dove sfocia il Sele, altrettanto incontaminato. Eppure Paestum diventaterà uno di quei luoghi che ci vietiamo a un futuro ritorno, tanto sono stati sconquassati da inconcepibili interventi al contorno, tanto sono cambiati così da cancellare, se non possiedi memoria sicura, l’immagine e il sentimento originari.
Al contrario, il giovane neolaureato in visita non trova scandaloso ciò che vede; non riesce a collegare l’eccellenza urbanistica e la perfezione architettonica dei tre templi a un’esigenza di insieme coerente, partecipe dell’unitaria bellezza di paesaggio e architettura. Paestum profanata è normalità, consuetudine. Il giovane non si smarrisce, non si inquieta. È abituato. Quand’era bambino il territorio italiano si presentava in condizione molto avanzata della propria distruzione. Nemmeno se lo incontrassimo ad Agrigento, il più spaventoso esempio di rovina in ogni senso - dalla città franata e peggio riassestata alla Valle dei Templi ripiena di obbrobri edilizi - avrebbe un moto di disgusto. Guarda tranquillo l’attualità per lui oggettiva e indiscutibile, né bella né brutta; nulla sa dei viaggiatori del XIX secolo che vedono «là giunti, l’immensa cerchia delle mura di Girgenti… e quasi tutto quel che resta dei monumenti antichi schierato sul bastione naturale che dà sul mare» (Alexis de Tocqueville, 1827) e non colgono alcuna discordanza nella musica del luogo. Potevano ammirare un paesaggio unico al mondo che opponeva equamente la ricca città greca morta alla povera città storica viva in uno scenario nel quale le due realtà del tutto diverse, a saper ascoltare, parevano dialogare.
Il nostro giovane è cieco e sordo, per lui va bene così. Anche se ha studiato, non distingue; dovrebbe gettar bombe contro questa verità menzognera, per così dire, invece non ne è minimamente infastidito. È talmente assuefatto ad aggirasi nel fango becketiano di città e territorio che trova naturale e godibile il fango agrigentino.
Esiste un peculiare silenzio giovanile entro il generale silenzio della popolazione dinanzi al sovvertimento dell’ambiente italiano; ininfluenti, eppur notevoli, le battagliere piccole minoranze che denunciano e protestano. I cittadini hanno apprezzato, spesso sospinto politici, amministratori pubblici, imprenditori, costruttori, progettisti che guidavano il caterpillar contro l’intero patrimonio di territori, città e monumenti che la storia sociale e materiale aveva assicurato. È vero che la gigantesca operazione (mistificata per sviluppo) a favore delle classi detentrici della rendita fondiaria e finanziaria ha concesso una modesta o ingannevole redistribuzione ad altre classi ma una formidabile funzione l’ha svolta il consumo inutile intimato alle masse. Il consumismo, assuefazione a una forma aberrante di consumo, unito all’impressionante mancanza di cultura crea la condizione disarmata per il consenso a ogni scelta dei poteri di cui sopra; nello stesso tempo il consenso incontrastato è causa del consumo acritico.
I giovani sono campioni in massa dell’acquisto esagerato di ogni cosa voluto dai padroni del mercato anche perché partecipi del consenso: più o meno convinto, forse soprattutto noncurante. Loro non hanno sospinto, hanno tranquillamente accettato la distruzione del Bel Paese. Invece i consumi di cose superflue o disperatamente nuove sono imposti a tutti, ma non si dice che i giovani le acquistano in maniera entusiasta ed eccitata, come in festa.
In una città come Milano, ricchi e pazzi per l’abbigliamento e per il divertimento leggero, spensierato, conformisti consumisti consenzienti ci appaiono questi giovani. Come potrebbero reggere le centinaia e centinaia di magazzini dallo specifico look giovanile che si inseguono l’uno dietro l’altro lungo le strade del centro storico, i grandi assi radiali e persino nella periferia storica, che si moltiplicano ogni giorno sulle ceneri di precedenti commerci privi dell’ultimissima merce omologata dal desiderio? Come in tanti spezzoni di città esclusivamente loro, questi tali giovani o giovani-maturi, dai tredici ai trentacinque anni, frequentano vedono comprano, ne parlano (le ragazze discorrono sempre di vestiti). Cosa sanno della ridotta città vera, che pur esiste ancora, o della metropoli discesa nel pozzo del puro gioco commerciale e finanziario dall’altezza delle proprie capacità di creare cultura oltre che merce-denaro? E le centinaia di locali creati apposta a Porta Ticinese e sui Navigli o in anfratti di semi-centro e vecchie periferie: come potrebbero vivere e riprodursi se non fossero totalmente disponibili quei destinatari tenuti a condiscendere, mai a contestare? se questi non avessero interiorizzato il modello comportamentale che unifica silenzio consumo consenso?
Articolo pubblicato anche in il Grandevetro n. 197, gennaio-febbraio 2010
É il titolo del programma della coalizione democratica. Di un programma elettorale, più che i cosiddetti ‘punti concreti’, è interessante capire i sentimenti che intende accendere, il senso comune che vuole evocare e quindi il consenso che si propone di ottenere. D’altra parte, ormai pochi prendono sul serio gli ‘impegni precisi’, sia perché, al contrario, sono spesso espressi in termini generici, sia perché vi sono sempre delle buone ragioni - la crisi, il governo, le emergenze – per disattenderli. Chi potrebbe ritenere – tanto per fare un esempio - un impegno concreto (come tale viene, infatti, presentato a p. 4 del documento) “Difendere il principio del ‘lavoro buono’ e della ‘buona impresa’che ha successo ed è orientata allo sviluppo economico locale, al rispetto dei diritti dei lavoratori e delle comunità di riferimento, in collaborazione con le parti sociali e gli enti locali”. Mi limito perciò a commentare il senso generale del documento, la cultura che vuole esprimere, le speranze che vuole suscitare, in riferimento al solo secondo punto del programma, quello dedicato ad ‘ambiente e territorio’. D’altronde, il territorio, oltre ad essere il tema centrale di eddyburg, è la grande ricchezza della Toscana, il suo ‘cavallo di battaglia’, l’eredità preziosa che deve essere spesa cautamente in termini di sostenibilità e di sviluppo.
Nei punti del programma leggiamo: “Accelerare i tempi per il completamento del ciclo integrato dei rifiuti”. “Valutare anche la sperimentazione di tecniche innovative come gli impianti a freddo e la bio-digestione anaerobica”. “Favorire nelle zone montane una corretta gestione del patrimonio boschivo”. “Sviluppare una pianificazione integrata energia-ambiente-sviluppo economico”. “Migliorare la gestione di parchi ed aree protette”. Ma, meglio ancora, la filosofia del programma è spiegata dalla premessa che recita “L’ambiente e il governo del territorio deve continuare ad ispirarsi ad una logica di utilizzo e preservazione. Sostenibilità energetico-ambientale e sviluppo economico sono infatti due obiettivi resi reciprocamente compatibili dalla crisi attuale. I toscani hanno necessità di tutelare il loro territorio come fattore di sviluppo turistico e agroalimentare, ma al tempo stesso hanno bisogno di produrre lavoro e ricchezza.”
Sono punti condivisibili, per carità. Ma, tutto qui? Il territorio è solamente fattore di sviluppo turistico e agroalimentare (che evidentemente non producono ricchezza per l’estensore del programma). E la necessità di tutelare il territorio dipende soltanto dal turismo e dall’industria agro-alimentare? La filosofia del programma è ribadita anche nell’ultimo punto: “Siccome poi l’agricoltura nella nostra regione non è finalizzata solo alla produzione ma svolge un ruolo plasmante del cosiddetto paesaggio toscano (sic), occorre fornire sostegno al settore …, perseguendo una strategia di sviluppo economico dell’intero settore in grado di favorire l’emergere di un’industria agroalimentare caratterizzata dalla multifunzionalità … , dalla tutela delle biodiversità, dalle agrienergie, dall’innovazione organizzativa di filiera, ma anche da una migliore governance operativa …”.
Di nuovo, a prescindere dalla perla del ‘cosiddetto paesaggio toscano’, lo sviluppo economico, sembra essere l’unica preoccupazione dell’estensore del programma che non comprende come sia l’articolazione del territorio la diversificazione dei paesaggi (non riducibili al ‘cosiddetto paesaggio toscano’), la conservazione di alcuni loro caratteri tradizionali, non l’industria agro-alimentare a tutelare la biodiversità.
Riassumendo: nel documento programmatico il territorio e il paesaggio, la grande ricchezza che abbiamo avuto in eredità, sono interamente assorbiti nell’idea di risorse da sfruttare. La loro tutela viene sentita in opposizione allo sviluppo. L’ambiente è coniugato come inceneritori e produzione di energia. Il documento è arretrato prima di tutto da un punto di vista culturale, non scalda il cuore di chi ama la Toscana. Enrico Rossi è stato un ottimo assessore alla sanità e come futuro presidente della Regione Toscana confidiamo che sia molto migliore, più intelligente, più innovativo, più moderno, di queste linee di programma; che abbia ben capito che la tutela del paesaggio è fonte di ricchezza non solo per ‘lo sviluppo turistico’ (magari inteso come proliferare di villaggi e residence), ma per la produzione di ricerca, conoscenza, servizi, tecnologia e - perché no? - per le stesse attività manifatturiere. A volte ‘avanti tutta’ significa in realtà andare indietro, mentre guardare indietro, avere attenzione alla storia, alle radici, alla profondità e non solo alla superficie del territorio, significa andare avanti.
Nelle scorse settimane erano ripetutamente circolate voci sul possibile inserimento, all’interno del così detto decreto mille proroghe, provvedimento approvato in via definitiva ieri, dell’ennesimo rinvio dei termini di entrata in vigore dell’art.146 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Si tratta dell’articolo che assegna fra l’altro (comma 5) al parere del Soprintendente un carattere non solo obbligatorio, ma vincolante nel merito, in materia di autorizzazioni paesaggistiche. Non solo: agli organi preposti alla tutela paesaggistica viene assegnata una competenza consultiva interna al procedimento, vale a dire che il parere del Soprintendente interviene nel pieno della procedura di autorizzazione e non più, come è accaduto fino al 31 dicembre 2009, in un momento successivo con un potere di annullamento limitato ai motivi di legittimità degli atti e risultato nel tempo di assai scarsa efficacia sul piano della tutela.
Il carattere vincolante delle Soprintendenze, come stabilito dal Codice, è destinato a restare in vigore fino al momento in cui i piani paesaggistici e, a cascata, gli strumenti urbanistici, saranno adeguati alle prescrizioni del Codice stesso e in particolare alla disciplina dell’art.143, ovvero sia nel momento in cui, terminata l’elaborazione congiunta da parte di Stato e Regioni di piani paesaggistici improntati a pratiche di governo più aggiornate del proprio territorio si sarebbe potuta avviare una fase di tutela attiva da alcuni auspicata come superamento di un regime meramente vincolistico.
L’entrata in vigore del 146 è stata a lungo contrastata, in particolare dagli enti locali che ne hanno ottenuto il rinvio, rispetto ai termini sanciti dal Codice, fino alla fine del dicembre scorso: la cessazione del regime transitorio, il 1° gennaio di quest’anno, non ha mancato di sollevare preoccupazioni, soprattutto nel mondo dell’imprenditoria, anche se nel frattempo appare giunto alle ultime battute (Consiglio di Stato) l’iter di approvazione di un regolamento predisposto dal Mibac sullo snellimento dell’autorizzazione in caso di interventi edilizi di lieve entità.
E non sono mancate le perplessità di parte opposta, determinate dalla constatazione delle oggettive difficoltà strutturali in cui operano le Soprintendenze, chiamate per di più, con questa innovazione legislativa, ad un impegnativo cambio di passo operativo, ma soprattutto culturale.
Uguale situazione di impasse sembra peraltro caratterizzare la struttura organizzativa regionale che, dal 1° gennaio, si troverebbe a dover affrontare la decadenza delle deleghe agli enti locali dei procedimenti autorizzativi.
Delega fino a questo momento generalizzata, ma che il Codice prescrive debba cadere nel caso in cui le Regioni non abbiano provveduto a verificare il possesso, da parte dei soggetti delegati, “dei requisiti di organizzazione e di competenza tecnico-scientifica” (art. 159): requisiti stabiliti sempre all’art. 146.
Tale riscontro, in molte Regioni ancora non completato, praticamente in tutte, a quanto risulta, non ha condotto ad un adeguamento alle norme prescritte, tanto che si è parlato di una media di un comune su tre non più in regola per il rilascio delle autorizzazioni (Il Sole 24 Ore, Norme e Tributi, 4 gennaio 2010) e la situazione di incertezza creatasi ha ribadito l’ormai conclamata desuetudine degli enti regionali alle pratiche di governo del paesaggio. A tutt’oggi non risulta, d’altro canto, che il Ministero abbia fatto alcunchè per pretendere l’osservanza di quella decadenza, né tantomeno l’annullamento delle autorizzazioni rilasciate nel frattempo da organi privi di titolarità.
Questa situazione di inadempienze generalizzate si innesta sulla vicenda della copianificazione: l’operazione cardine cui erano chiamati Stato e Regioni assieme per ridefinire, secondo gli obiettivi stabiliti dal Codice (e prima ancora dalla Costituzione) i destini del nostro territorio e che, al di là di qualche boutade mediatica di talune Regioni, a due anni dall’approvazione del codice stesso, appare ancora ben lontana dall’aver conseguito risultati territorialmente significativi. Nessun piano paesaggistico che possa fregiarsi di questo nome ai sensi del Codice è stato approvato e per la maggioranza delle Regioni questo è un obiettivo ancora lontanissimo.
In questa opaca vicenda in cui le responsabilità politiche sono equanimemente ripartite fra centro e periferia potrebbe non risultare, quindi, così stravagante la pulsione ad un nuovo rinvio dell’entrata in vigore dell’art. 146, tesa a garantire un’operatività di routine che in tempi di mediocrità amministrativa appare l’unico standard perseguibile.
Ma nell’esortazione che la Commissione Ambiente della Camera ha espresso lo scorso 18 febbraio 2010 in sede di parere al decreto mille proroghe e che propugna la reintroduzione della proroga, vi è molto di peggio: tale proroga, infatti, è finalizzata non al superamento delle inadempienze che abbiamo fin qui elencato, bensì, molto più radicalmente, perché “consentirebbe di procedere ad una modifica complessiva del citato articolo 146 del codice dei beni culturali e del paesaggio” e gli onorevoli membri della Commissione specificano anche in che senso: per “restituire agli enti locali le competenze in materia di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica” e quindi in sostanza per disattivare completamente uno dei dispositivi peculiari della normativa paesaggistica.
Il cerchio si chiude ed appare finalmente chiaro l’obiettivo reale del minuetto ipocrita di reciproche inadempienze e inadeguatezze che si sta svolgendo da alcuni anni a questa parte ai danni del nostro paesaggio: annullare quel disegno di costruzione corale di un modello di tutela del paesaggio incardinato su un sistema di regole reciprocamente riconosciute perché collegialmente elaborate.
Il Codice comincia ad essere rimesso in discussione ancor prima di aver trovato, per quanto riguarda la parte paesaggistica, reale applicazione.
La suggestione indicata dall’VIII Commissione della Camera (e quindi bipartisan), pur non avendo trovato concreta attuazione per i ristretti tempi che vincolavano l’approvazione del decreto mille proroghe, appare di gravità eccezionale per l’atteggiamento di sostanziale smentita dei principi del Codice che sottointende.
Un bene collettivo, il nostro paesaggio, sulla carta tutelato secondo normative aggiornate e rigorose, il Codice, appare nuovamente in balia di pratiche politiche compromissorie ispirate ad un deciso arretramento culturale: occorre tornare a mobilitarsi non solo per scongiurare quanto suggerito dalla Commissione parlamentare, ma per pretendere un deciso rilancio dell’azione di copianificazione paesaggistica.
(e riprodotto in eddyburg) «Caserme, castelli e spiagge saldi di Stato per il territorio» riguarda il trasferimento di questi beni agli enti locali («federalismo demaniale»), che provvederanno alla loro commercializzazione. Non è una novità quella della distruzione del patrimonio immobiliare pubblico attraverso varie procedure. Né, in tempi di predominio della cultura liberista contraria a qualsiasi sorta di pianificazione, l’andazzo è sorprendente. La vecchia urbanistica, che rivendicava l’indispensabile legame, nel piano regolatore, fra esistenza di riserve immobiliari di proprietà pubblica e possibilità effettiva di attuare il piano (e teorizzare di pianificazione non illusoria), è stata sconfitta. La pratica odierna è coerente con la supremazia politica della destra e con la debolezza della sinistra se non della sua rinuncia ai propri modelli che ne giustificherebbero l’esistenza stessa. Tuttavia sorprende, della sinistra, l’assoluta mancanza almeno di un contrasto, di una qualche barriera alla smaccata liquidazione, totale in prospettiva, del demanio di ogni livello istituzionale. Purtroppo lo stesso principio di «privato è bello» si è introdotto non furtivamente fra i suoi ideali.
Penso agli anni fra i Cinquanta e i primi Sessanta del Novecento. Erano i Comuni allora detti «democratici», in accordo con i progettisti di sinistra o da questi sollecitati, a voler preservare la proprietà pubblica di suoli e di edifici destinati a funzioni sociali e culturali o a residenza (case comunali, dell’Iacp e di altri istituti); nei casi migliori a volerla aumentare mediante precise indicazioni nel piano urbanistico non solo dei servizi singolarmente definiti, ma anche di aree vincolate a una nuova esplicita destinazione appunto a riserva demaniale. Forse lo permetteva il contesto politico culturale poi contraddistinto dalla legge 167 e dai Piani di edilizia economica e popolare per la parte relativa all’acquisizione dei terreni al prezzo vigente due anni prima della deliberazione consiliare. Qualche progettista osò infatti prospettare nel piano regolatore, a parte le consuete e larghe dotazioni di servizi, aree vincolate a «Centri di iniziativa pubblica» (CIP), da acquisire per mezzo di esproprio o conveniente accordo bonario, per fronteggiare future esigenze non al momento prevedibili. Appunto, una riserva demaniale. Ora tutto questo è sepolto nella memoria di pochi e nessuno nel centrosinistra ma nemmeno nel residuo della sinistra si sognerebbe di proporre, anziché alienazioni, incremento di demani statali e locali.
Trasferimento di beni dello stato a Comuni, Province Regioni: fosse solo questo. La realtà locale rispetto alle proprietà pubbliche mostra che i Comuni stanno provvedendo per conto loro a vendere se stessi. Il giornale «Milano finanza» del 19 dicembre scorso illustra un «piano di alienazioni immobiliari» dei Comuni e ne seleziona sedici in una tabella in cui i valori immobiliari riferiti ad ognuno di essi derivano dai bandi delle aste previste per il triennio 2009-2011. Vale la pena di elencarli, casi emergenti di un insieme più numeroso che certamente risulterà ben presto: Aosta, Bari, Bologna, Cagliari, Firenze, Genova, Milano, Padova, Perugia, Pescara, Pisa, Reggio Emilia, Trieste, Venezia, Verona, Viterbo. Il malloppo totale, al quale appartengono sia i «gioielli di famiglia» appetiti dai grandi speculatori, sia buone occasioni per qualsiasi imprenditore o anche semplice cittadino abbia a disposizione qualche milione o persino poche centinaia di euro, è di 5 miliardi e 638 milioni. Quale il piatto più ricco dell’intero servizio? Naturalmente quello di Milano, ben 4 miliardi e 700 milioni.
La giunta ha deciso di disfarsi entro il 2011 di 134 immobili ubicati dentro o fuori la città. Fra essi, palazzi di altissimo valore finanziario, funzionale e simbolico in pieno centro cittadino, come l’enorme sede dell’anagrafe in Via Larga prossima a piazza Duomo, la sede centrale dei vigili urbani in piazza Beccaria/piazza Fontana, ossia l’ex palazzo dei Giureconsulti di origini cinquecentesche, l’esattoria comunale di via San Tomaso a due passi dal Castello. E così via: nodi strategici di una rete di luoghi della città pubblica vengono sciolti per ridurla a magazzino delle aste per i migliori affari del mercato. Venezia è, dopo Milano e, a grande distanza per valori in causa, Verona, l’inatteso terzo «fronte immobiliare». Su 230 milioni di euro di dismissioni, dopo il conferimento di diverse proprietà per un valore di 82 milioni al Fondo immobiliare Città di Venezia, «Est Capital si è aggiudicata tramite gara l’intero pacchetto in vendita, comprensivo di numerosi edifici non residenziali, tra cui alcuni di prestigio o strategici per lo sviluppo della città, oltre a terreni dove sono previsti importanti interventi residenziali». Fra il resto: basta un’offerta di 81 milioni di euro per aggiudicarsi l’intero complesso dell’ex Ospedale al Mare.
Nessuno può sapere quale sarà il destino urbanistico (per modo di dire) ed edilizio di questo violento passaggio dalla città pubblica alla città privata, se non che si assisterà all’ennesima vicenda disastrosa dal punto di vista degli interessi sociali cittadini. Nessuna condizione, nessun vincolo sulla destinazione futura e sulle trasformazioni fisiche regola le vendite. I Comuni fanno cassa in questo modo per pareggiare i bilanci, anziché, fra le azioni possibili, pretendere dal governo la restituzione dell’Ici. E gl’immobiliaristi, grandi medi piccoli come i pupazzi di Dario Fo, si sentiranno sempre più liberi, col ringraziamento dell’autorità pubblica, di continuare e portare a compimento il programma di appropriazione della città, dunque anche di abolizione di quel che rimane del sentimento di comunanza urbana vantato dagli abitanti.
Milano, 8 gennaio 2010
. Non so quanto esatto sia il calcolo alla base di questa affermazione, da me colta casualmente nel corso di un rapido ascolto di notiziari radiofonici diversi. Ma - anche scontando una valutazione in qualche misura partigiana - è senza dubbio una fondata quanto significativa lettura di un evento in cui quantità e spreco (inquinamento quindi) sono stati dominanti.
Più di centomila persone convenute nella capitale danese; più di venticinquemila tra delegati, giornalisti, osservatori, rappresentanti di organismi vari, ammessi al Bella Center, luogo del meeting; schiere di organizzatori, funzionari, sorveglianti, addetti ai servizii; migliaia di dimostranti in azione per la città, alle porte del Centro e talvolta al suo interno, controllati e manganellati da migliaia di poliziotti. Tutta gente arrivata da luoghi lontani e lontanissimi, in aereo o comunque mediante veicoli divoratori di energia. Gente che esigeva nutrimento; il quale veniva fornito da uno straordinario numero di bar, ristoranti, tavole calde, il tutto per lo più efficiente e di buona qualità, ma senza eccezione impostato sull’”usa-e-getta” di piatti bicchieri posate e quant’altro. Senza dire dei giganteschi globi, raffiguranti lo sventurato nostro Pianeta, che in ogni angolo della capitale segnalavano luoghi di informazione sul problema clima: tutti di purissima plastica. Eccetera.
D’altronde (tralasciando i contenuti del dibattito e il sostanziale nulla dell’accordo finale) era lo stesso allestimento del summit - spazi, decoro, immagine complessiva - a dichiarare la politica e la cultura che lo animavano, di cui la quantità era dimensione precipua, senso e valore. Questo dicevano le vistose scritte che si rincorrevano sulle pareti: nomi di grandi industrie, proposte di nuove tecnologie, lancio di miracolose invenzioni, ma soprattutto accattivanti slogan a illustrare le virtù delle energie rinnovabili, non quale mezzo destinato a sostituire i carburanti fossili e consentire una produzione meno inquinante (secondo l’idea che presiede alla loro nascita) ma come strumento di rilancio della produttività capitalistica. Ciò che peraltro non solo sulle pareti del Bella Center, ma nella più diversa stampa distribuita in sovrabbondanza, come in ogni esternazione verbale (incontri, dibattiti, conferenze stampa, spesso promossi e gestiti da grandi gruppi industriali e commerciali) veniva apertamente dichiarato.
A Copenhagen, senza infingimenti, la “green economy” era ormai “green business”, “green new deal”, “green competitivity“, “green power“, “green growth”. Serenamente, con corale entusiasmo si affermava che il ”verde” sarà volano di una nuova la crescita economica, che sul “verde” può nascere una nuova “sfida” per la creazione di un nuovo “sistema di potere”, mediante un nuovo modo di condurre gli affari e fare soldi: soprattutto vendendo “green economy” al sud del mondo, industrializzandolo con la promessa di una produzione sostenibile, e portando dovunque la “sfida” di una “competizione globale”. “Il business danese delle tecnologie verdi va molto bene: s’è attribuito circa il 10% dell’intera esportazione del paese per il 2008,” dichiaravano all’unisono alti rappresentanti del governo e dirigenti di Nokia, Siemens, Microsoft Green Technology, Solar energy industries association. “Non c’è contraddizione tra crescita economica e politiche climatiche”, inopinatamente si poteva leggere su “Our Planet”, rivista dell’Unep; anzi “evitare il riscaldamento climatico è il solo modo per sostenere la crescita”.
Come stupire. Conosciamo il mondo in cui ci tocca vivere. Ciò che riusciva meno comprensibile (a me almeno) è come gli organizzatori del meeting, persone che, proprio per il compito loro affidato, la crisi ecologica dovrebbero conoscerla nella sua interezza (cause, manifestazioni, rischi), abbiano accettato di ridurla al mutamento climatico: indubbiamente fenomeno di dimensioni, conseguenze e pericolosità gigantesche, ma che non è il solo (basti ricordare la sempre minore disponibilità di acqua potabile; l’accumularsi in quantitativi sempre meno gestibili di rifiuti, spesso tossici o radioattivi; la dilapidazione delle foreste; l’inquinamento ormai gravissimo di mari e territori, le allarmanti conseguenze sanitarie).
D’altra parte (fatta eccezione per Greenpeace, WWf, pochi altri) l’intera massa dei convenuti non pareva avere obiezioni di fondo sugli inni alla crescita e sull’intera impostazione del Summit, dimenticando che proprio l’aumento continuo di produzione e consumi è causa prima della crisi ecologica, squilibrio climatico in primis. Mentre ovviamente di tutt’altra - sacrosanta - natura era la protesta dei paesi poveri; anch’essi peraltro ormai conquistati alla logica dello stesso produttivismo che li sfrutta. E questo è forse il più drammatico problema d’oggi: la sostanziale omologazione di tutti o quasi al modello che il capitale impone.
I due articoli (la Repubblica e il Tempo 2.XII.2009) sulle minacce incombenti sull’agro romano riportati nella nostra rassegna stampa, di contenuto e tenore molto simile, segnalano nella loro ripetitività la convergenza di interessi che si sta minacciosamente addensando sugli ultimi lacerti non edificati di quel territorio. Certo gli accenti sono diversi: più smaccatamente orientati a sostenere le ragioni della lobby di riferimento – quella dei palazzinari – per quanto riguarda il Tempo, ove si definisce “sospiro di sollievo per la città”, la possibilità della decadenza dei vincoli e “uomo nero” chiunque osi proporre provvedimenti di tutela. Di tono più “neutrale” la Repubblica che si spinge a riportare, a corollario delle posizioni politiche, il dissenso di Legambiente sull’operazione complessiva.
In ambedue gli articoli, l’obiettivo prevalente è evidentemente solo quello di riferire una querelle politica che sta producendo alleanze trasversali: centrodestra e centrosinistra uniti nell’intento di scongiurare gli aborriti vincoli paesaggistici, da ambedue gli schieramenti considerati null’altro che inammissibili lacciuoli al libero esplicarsi del sacrosanto diritto alla cementificazione e quindi insostenibile freno allo sviluppo da tutti invocato.
I problemi urbanistici e di salvaguardia del paesaggio che questo martoriato territorio presenta e su cui eddyburg ha più volte puntato la sua attenzione, divengono quindi non più “il” tema della discussione, uno dei più importanti per il destino dell’agro romano nel suo complesso e per la qualità di vita dei cittadini non solo romani, ma uno dei tanti terreni di scontro/accomodamento sui quali si gioca la partita elettorale e la guerriglia dei riposizionamenti del sottobosco politico capitolino.
Illuminante, da questo punto di vista, la posizione di colui che rappresenta, assieme al Ministro, la vision politica del Mibac: il sottosegretario Giro. Costui, lungi dal sostenere le ragioni dei funzionari che, cercando di contrastare le fortissime pressioni economiche esterne, null’altro svolgono se non il proprio compito di difensori di un bene comune prezioso come il nostro paesaggio, contrasta gli attacchi ai vincoli solo in quanto provengono da avversa parte politica ed anzi si spinge a negare quasi con indignazione il sospetto dell’emanazione di un ulteriore provvedimento di tutela.
Leggendo le cronache riportate, torna alla mente una analogia con quanto sta accadendo in questi giorni sul piano politico nazionale: i boatos di avvisi di garanzia al premier, negati a mezzo stampa dai procuratori chiamati in causa.
Ecco, allo stesso modo, in questi articoli i vincoli di tutela sono di fatto equiparati a provvedimenti infamanti e lesivi dei prevalenti interessi economici: nessun dubbio è sollevato, da tutti gli attori e decisori politici di qualunque parte coinvolti, neanche sull’opportunità di un ripensamento del destino dell’agro romano.
Il costante riferimento dei politici in questione agli “imprenditori” quale unica categoria di riferimento cui render ragione del proprio operato di rappresentanti eletti dai cittadini e l’equiparazione del Mibac ad uno dei tanti portatori di interessi (e non certo di quelli prevalenti), completano il quadro desolante di un’inversione ormai esplicitata anche a livello mediatico: agli interessi economici, anche se di pochi, anche quando non democraticamente discussi, anche quando in contrasto con gli interessi della maggioranza dei cittadini, occorre sempre e in ogni caso fare strada.
Scommettiamo?
Allo scadere dei termini per l’approvazione definitiva, un Direttore Generale di moderna flessibilità e sensibile alle esigenze della qualità architettonica contemporanea, consentirà ad “ammorbidire” consistentemente i vincoli già posti su Laurentina e Ardeatina.
1- Italia povera di parchi, solo il 12% del territorio nazionale contro, per esempio, il 59% della Germania. Solo ventiquattro i parchi nazionali; poco più di un migliaio tutti gli altri per lo più istituzionalmente deboli o privi di un’effettiva gestione oculata, troppo piccoli o dai confini troppo intricati.
2- Parchi sconciati. Portofino perde i tre quarti della propria superficie; al Circeo si restringe la zona protetta; al parco naturale di Bracciano vince la cubatura (30.000 mc) nella tenuta di Vicarello e nella riserva Odescalchi; il parco del Ticino cede alla vessazione autostradale: bretella Boffalora Malpensa, terza pista dell’aeroporto, autostrada Broni Mortara (e non è finita).
3- Destra e sinistra unite in Liguria per l’ultima mazzata a quel che resta di buono e di bello lungo la costa dopo un secolo di “sviluppo edilizio” e di rapallizzazione. Il Pdc, “Partito del cemento” fatto di politici, imprenditori, banchieri in azione da Ventimiglia a Sarzana, al loro servizio architetti internazionalisti come Bofill (Savona), Fuksas (Magonara/Savona), Consuegra (Albenga), Botta (Sarzana e Albaro), Piano (Genova/Erzelli), insensibili al tema della conservazione e cura del paesaggio residuo
4- Autostrada della Maremma fra Grosseto e Civitavecchia: silenzio sull’unica alternativa possibile per non distruggere il paesaggio maremmano: l’adeguamento dell’Aurelia.
5- Progetto di un nuovo hotel e di quaranta posti auto nell’intangibile borgo di Portofino.
6- Primo concorso degli ecologisti per fotografie degli ecomostri lombardi. Dalle montagne dell’Aprica a Mandello Lario un museo degli orrori.
7- Scempio di Arquà Petrarca. Villette di fronte alla casa del poeta, costruzioni sulle colline del Sassonegro, 30.000 metri cubi nella Valle a sud del centro antico, 90.000 metri cubi nel territorio delle Valli Selvatiche , tra Villa Selvatico e Villa Emo dello Scamozzi.
8- Per incuria, manomissioni, abusivismi: dal Veneto alla Sicilia siti italiani messi in discussione dall’Unesco: ambiente delle Ville Venete, Cinque Terre, San Gimignano, Amalfi, Ercolano, Cilento, Lipari, Piazza Armerina, Agrigento…
9- Gran notorietà nella Toscana non più felix per le lottizzazioni rovinose a Monticchiello di Pienza e a Castelfalfi di Montaione: e la sconosciuta Grassina di Bagno a Ripoli, coi gruppi di case a schiera proprio davanti alle antiche mura?
10- “Quanto cemento intorno a Mantova” (Erbani). Grosso insediamento di fronte alla città, con relativo paradosso fra i democratici: la dimenticata lotta del bravo sindaco Fiorenza Brioni contro la propria maggioranza “disponibile”.
11- La realizzazione del programma per la ferrovia ad alta velocità costerà almeno sessantasei miliardi, una cifra spropositata, che non risolverà il vero problema, quello dell’arretratezza della rete normale e dei relativi treni.
12- Persa la lunga battaglia per salvare l’integrità di Baia Sistiana a Duino Aurisina (“la baia di Rilke”); sorge la “Nuova Portofino”, ignobile falso paesetto “istriano”.
13- I sindaci paiono ignari di fronte a un mare di nuove costruzioni in Valpollicella, intanto incassano gli oneri di urbanizzazione…
14- L’ecomostro di Alimuri a Vico Equense sulla costa sorrentina e il complesso alberghiero abusivo di Castelsandro in Cilento: resteranno lì nonostante le vecchie proteste di Rutelli?
15- “Questa Italia di cemento” (Asor Rosa): negli ultimi dieci anni si è costruito in ragione di 53 metri cubi per ogni cittadino. Che significa un totale di circa 3 miliardi e 200 milioni di metri cubi! Come dire 200.000 corposi edifici da 15.000 metri cubi ognuno.
16- Esiste un disegno di legge del luglio 2007 (poi approvato o no?) riguardante venti paesaggi rurali (caratterizzati da colture di pregio) da salvare, anzi da “valorizzare” (ehm ehm…): dalle campagne valdostane (ma dove sono intatte?) al Tavolato degli Iblei in Sicilia. Scelta molto pericolosa. Se questi sono paesaggi da salvare sembra che non lo siano altri reperibili nel mare magno del territorio nazionale pur in buona parte rovinato in varie maniere. E “valorizzare” sappiamo cosa vuol dire, poco meno che edificare quanto più possibile per “far rendere” turisticamente il posto.
17- Abusi edilizi scoperti persino nel parco delle Cinque Terre, a Rio Maggiore e a Vernazza. Ma si può? Certo, tutto è possibile nel nostro disgraziato paese.
18- Il business delle isole Eolie. Nuovi alberghi in barba all’Unesco. “Se il piano regolatore delle Eolie salta come un’onda, anche il piano paesistico è facilmente aggirabile, fra leggi, leggine e siculi intrighi” (l’Unità).
19- Non suona più l’allarme alla foce dell’Arno, vicino alla tenuta di San Rossore? Porto di cinquecento barche, alberghi, ristoranti appartamenti… e l’ampliamento dell’ippodromo dentro la tenuta con massacro di alberi e compromissione del terreno…
20- Giorgio Bocca: “Ma io dico no all’alta velocità. La pianura padana da Torino a Novara è stata squarciata, devastata, cementata dalla linea ferroviaria dell’alta velocità… Per risparmiare un quarto d’ora di viaggio si è piantata nella più fertile e bella pianura d’Italia una gigantesca linea Maginot”.
21- Persiste l’abuso edilizio diffuso nel paese? 10% nel 2006; 331.000 unità, 30.000 abusive. Infrazioni per chilometro di costa: media nazionale, 2,6, Campania 5,9, Veneto 5,4, Romagna 4,3, Lazio 3,7. Difficile che sia drasticamente diminuito in un paio d’anni.
22- Minacciosi eventi all’orizzonte del sistema di parchi della Val di Cornia. I Comuni, come spesso accade, in disaccordo con i fermi principi di tutela custoditi dal presidente Massimo Zucconi.
23- Secondo Mario Pirani noi Italiani, non avendo statue di Budda da distruggere ci sfoghiamo sui paesaggi intatti, come quelli ancora esistenti in Toscana. Dove, tra l’altro, dovremmo guardarci dalla cosiddetta “conservazione attiva”, tanto cara a troppi amministratori pubblici.
24- Il trucco delle Rta (Residenza turistico alberghiera). Si chiedono e si ottengono permessi per costruire alberghi, che diventano seconde case grazie all’ambiguità della definizione, voluta dal legislatore.
25- Un altro elenco dai giornali dei paesaggi “più” minacciati: Parco di Monza, Lago di Garda, Area delle Ville venete, Paesaggio palladiano, Parco del Delta del Po, Campagna senese, Parco dell’Appia Antica, Necropoli di Tuvixeddu (già massacrata…), Murgia Materana, Paesaggio dello Stretto… Ne mancano mille...
26- Ma il Delta del Po è già in mano ai costruttori di villette e di “regni del kitsch”.
27- Dietro ai piani del governo per battere le crisi mediante il business del mattone, a cominciare dal’incredibile (in un’Europa civile) piano casa, non c’è altro che l’ennesimo, forse più violento “sacco edilizio”.
28- Ad ogni modo il mondo della speculazione immobiliare ha vinto sui settori produttivi, instaurando una indissolubile alleanza tra politica e affari. Le amministrazioni locali, in contatto immediato con gli imprenditori, “possono spostare ingenti ricchezze” (Berselli).
29- Muore il fiume di D’Annunzio, fango, veleni e colate di cemento. Speculazioni ed ecomostri sulle rive del Pescara in Abruzzo.
30- Le velleità speculative sulle montagne lasciano macerie. Impianti abbandonati, alberghi chiusi degradati, condomini mai finiti (deprimenti foto su “Repubblica”).
31-Una notizia buona: rivolta della gente contro il grande edificio a forma di mezzaluna (architetto Riccardo Bofill) che chiuderebbe, come una nuova Punta Perotti, il mare di Salerno.
32- Un tentativo di censimento regionale degli abusi edilizi in Calabria: 5210 edifici illegali sul mare, uno ogni 150 metri di costa.
33- A proposito dell’Italia governata dai re degli appalti, il giornalista Statera ricorda il fulminante slogan di Manlio Cancogni “Capitale corrotta = nazione infetta” (gennaio 1956).
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Appendice urbana. Una sola segnalazione, fra le centinaia possibili, per ognuna delle due città diversamente simboliche ma entrambe “città della cazzuola” (vecchia denominazione di Roma):
34- la lobby romana del cemento, che ha speculato con eccessi di opere inutili sui campionati mondiali di nuoto lasciando un buco di otto milioni, si appresta a nuovi vandalismi per le auspicate Olimpiadi del 2020. Abbiamo sperato che Milano perdesse la gara per l’Expo 2015, facciamo fervidi auguri per una sconfitta nel caso di competizione cui partecipasse Roma. Ma intanto i piatti alla romana che danno da mangiare agli immobiliaristi sono sempre ben pieni; l’ultimo in offerta l’intatta Riserva di Decima-Malafede (88 ettari), pronta per il fiero pasto (vedi Giuseppe Pannuccio in eddyburg 30.11.09);
35- la lobby milanese del cemento, già sempre in festa, è in gran giubilo per i piani dell’amministrazione comunale che prevedono un aumento di 700 mila abitanti nel comune, ossia 70 milioni di metri cubi di sole case. Sì, settanta Milioni!
Milano, 3 dicembre 2009
Bisogna riconoscere che stavolta è stata Legambiente a lanciare per prima l’allarme. Con inusitata durezza, il presidente dell’associazione Vittorio Cogliati Dezza ha dichiarato che, se approvato, il disegno di legge sugli stadi in discussione alla Camera può dare il via alla più grande speculazione urbanistica nelle città italiane dal dopoguerra. E che parlare di europei di calcio e di miglioramento degli impianti è un’ipocrisia. I disastri di Italia ’90 sono niente di fronte alle prospettive spalancate dal nuovo provvedimento. Mirko Lombardi e Roberto Musacchio hanno scritto su Gli altri che l’enormità della proposta in discussione fa impallidire la famigerata legge Lupi del precedente governo Berlusconi.
Eddyburg ha già dato trattato l’argomento, ma è bene riprenderlo. Dunque, la commissione cultura del Senato, il 7 ottobre scorso, ha approvato all’unanimità, il disegno di legge intitolato “disposizioni per favorire la costruzione e la ristrutturazione di impianti sportivi e stadi anche a sostegno della candidatura dell’Italia a manifestazioni sportive di rilievo europeo o internazionale”. L’approvazione all’unanimità evita il passaggio in aula e trasferisce il testo di legge direttamente alla Camera, dove è in corso la discussione, anche qui in commissione cultura.
Gli europei di calcio, i tifosi, lo sport sono un paravento, il cuore del provvedimento sono i “complessi multifunzionali” che si possono costruire insieme agli stadi e possono comprendere interi pezzi di città: attività commerciali, residenziali, ricettive, direzionali, di svago, culturali e di servizio. Perfino in aree non contigue allo stadio che dovrebbe legittimarle. Tutto ciò con procedure derogatorie, come al solito e più del solito. A promuovere le iniziative sono le società sportive o soggetti a esse collegati che presentano uno studio di fattibilità, il sindaco promuove un accordo di programma che determina le necessarie varianti urbanistiche e, nientemeno, la “dichiarazione di pubblica utilità e di indifferibilità e urgenza”, quasi fossero opere pubbliche. Non basta, sono previsti addirittura agevolazioni e contributi finanziari e, infine, gli interventi possono essere realizzati con una semplice Dia – dichiarazione di inizio attività –, istituto in origine pensato per semplificare la costruzione di opere interne alle abitazioni, a mano a mano dilatato fino alla scala urbanistica.
Opportunamente, Legambiente ha fornito anche i dati relativi al confronto tra il nuovo stadio del Bayern di Monaco inaugurato nel … – e considerato un autentico gioiello, uno degli impianti più funzionali del mondo – e quelli di cui si discute nella capitale per le squadre della Roma e della Lazio. Riporto qui solo le quantità riguardanti il consumo del suolo: a Monaco, tutto compreso, 14 ettari; a Roma i nuovi stadi (insieme agli inevitabili complessi polifunzionali) dovrebbero occupare rispettivamente 150 e 600 ettari, con il consenso di regione e comune.
Che devo dire? Mentre è ancora aperta la drammatica vicenda delle leggi regionali per il piano casa, scatta quest’altra immonda e unanime proposta. A generare il mostro è ancora una volta l’atteggiamento di resa senza condizioni del potere pubblico. Il governo del territorio è ormai legalmente e dichiaratamente passato nelle mani della speculazione fondiaria. Possiamo andare avanti così? Che dobbiamo fare? A chi dobbiamo dirlo? Siamo sfiniti. Non è più un problema di urbanistica, è un problema di democrazia e di regole fondamentali della società.
Nota: per la legge Stadi si vedano anche gli articoli da La Gazzetta dello Sport dell'aprile 2009; da Terra dello scorso ottobre e di pochi giorni fa quello dal Corriere della Sera (f.b.)
Leggendo Alle sorgenti della Metropoli di Fabrizio Bottini su eddyburg (24.10.09) torna in mente il modello insediativo di William Morris, come traspare da News from Nowhwere (1), che ci autorizza a parlare di dimensione metropolitana mentre non ci importano le altezzose accuse di ingenuo utopismo che gli sono toccate. Nell’«Inghilterra comunista» immaginata al 2003 non sarà più necessaria l’abnorme concentrazione della popolazione nei termini propri della grande città industriale poiché la renderebbe inutile il radicale mutamento nello sfruttamento della forza meccanica. Il movimento della popolazione fra le grandi città e la campagna porterebbe a nuovi equilibri tanto per organizzazione territoriale che per rapporti fra le componenti sociali. Si ridimensionerebbero le città enormi come Londra, invece diventerebbero cardini del sistema territoriale «socialista» le città piccole, ricomposte in modo da collegare strettamente le periferie alle aree agricole, da conservare ampie fasce separatrici di «campagna integra» e da assegnare al centro anche le funzioni di «giardino». L’alternativa deriva la propria certezza da una dura critica della realtà di allora e nello stesso tempo presagisce le nostre odierne valutazioni di determinati processi sociali e territoriali. Già anni prima Morris aveva scritto:
«Pensate alla dilagante congestione di Londra, che inghiotte con la sua detestabilità e campi e boschi e brughiere senza pietà e senza speranza, che divide i nostri deboli sforzi per fronteggiare anche i suoi mali minori quali il cielo fumoso e i fiumi torbidi; […] la stessa campagna aperta viene invasa da miserabili costruzioni che scacciano le solide e grigie costruzioni che ancora esistono […]. In breve, il cambiamento dall’antico al moderno comporta la certezza di un peggioramento nell’aspetto del paese» (2).
Morris incontestabile anticipatore: è infatti vero che oggi le città sono dilagate e che le aree metropolitane, laddove siano tali per essere luogo di relazioni complesse, consistono in detestabile distruzione dello spazio agrario, e laddove manchi tale complessità presentano agglomerazioni anche peggiori per uso dello spazio e dell’edificazione; è infatti vero che a deboli sforzi è corrisposto un aggravamento dei mali e che il problema ecologico appare insolubile; è infatti vero che le costruzioni invasive nella campagna sono, ora, miserabili, da un punto di vista diverso da quello di allora ma coincidente coi principi morrisiani se il giudizio riguarda la qualità urbanistica e architettonica nelle nuove sterminate periferie: volgarità, squallore e arroganza si alternano e si intersecano, così esaltando la dignità delle vecchie costruzioni e dei coerenti insediamenti storici in pericolo di essere travolti dall’aggressione edilizia. Il progetto, possiamo denominarlo così, del socialista inglese assume significati ancor più stimolanti le nostre attuali meditazioni se lo osserviamo attraverso l’ottica del rapporto fra l’uomo e i tempi e i modi del vivere: il lavoro, il tempo libero, il riposo…
«William Morris è il primo pensatore socialista che ha introdotto la filosofia del lavoro e del tempo libero direttamente nelle questioni di formazione degli insediamenti» (3).
Non vige contrapposizione fra lavoro e tempo libero nella misura in cui il lavoro debba essere degno di essere eseguito in condizioni ambientali appropriate e il tempo libero possa contenere tempi di lavoro piacevole e utile alla società; in altri termini: le necessità e i diritti dell’uomo si articolano in lavoro onorevole, ambiente circostante confortevole e bello, riposo per la mente e il corpo. L’armonizzazione delle funzioni vitali in un unitario senso della vita corrisponde all’organizzazione territoriale. Il modello, come possiamo ricostruirlo teoricamente e perfino disegnarlo, è policentrico e come tale oppositivo al dilagare della grande città e alla distruzione della campagna. Il ruolo sociale e spaziale della grande città ridimensionata e delle circostanti città piccole (e medie, pare a noi) assettate, diremmo ora, a misura d’uomo, si risolve nel contrario di quello di «divoratrici dei campi»: entità ben delimitate, secondo un disegno che non temiamo di definire propriamente urbanistico relativo sia alle relazioni fra edificato nelle diverse funzioni e la campagna, sia fra le diverse realtà urbane costituenti l’ordine policentrico emergente dal contesto agrario.
| fot f. bottini |
Ordine che sarà «il vecchio tricheco baffuto Ebenezer Howard» (Bottini) a prospettare in maniera più circostanziata e non meno convincente. Mi riferisco non alla città giardino di per sé ma all’ipotesi di sistema insediativo mediante «grappoli di città», cioè non l’espansione a macchia d’olio da una città madre, ma un decentramento secondo entità urbane distaccate di misura contenuta, riproducibile quando si tocchino determinate soglie limite. Ne sorte una struttura policentrica integrata da sistemi di trasporto pubblico e da spazi ben definiti di città e di campagna. Una dimensione metropolitana alternativa a quell’abnorme crescita così ben descritta da Morris con l’esempio di Londra che inghiotte «campi e boschi e brughiere…». Una dimensione e un’organizzazione territoriali non rinunciatari dei valori urbani, anzi apportatori di nuove e maggiori possibilità di utilizzo proprio grazie alla ricchezza del policentrismo e al connettivo agricolo che lo garantisce. Rifacciamoci al «Diagram» (4) di Howard.
Come si sa, il grappolo, ripetibile più volte, sarebbe costituito da una città-campagna centrale di 58.000 abitanti e da altre sei di 32.000 dislocate all’intorno. Nell’insieme un organismo urbano-rurale di 250.000 unità in cui «ogni abitante del complesso, pur vivendo in una piccola città, sarà in realtà l’abitante e potrà godere dei vantaggi di una città grande e bellissima; e tuttavia le fresche delizie della campagna saranno a pochi minuti di cammino o di carrozza» (5). La rapidità di spostamento è garantita da una rete ferroviaria (“metro”) che unisce tutte le città satelliti fra loro e a quella centrale. Più grappoli possono designare un ampio territorio, sempre policentrico, a scala grande-metropolitana e regionale. Facciamo un po’ di conti per smentire il luogo comune relativo a presunti difetti consistenti in una densità umana troppo bassa.
Prendiamo uno dei satelliti di 32.000 unità, 30.000 appartenenti al territorio urbanizzato vero e proprio e 2.000 insediate nella campagna produttiva. Secondo lo schema howardiano la città, 1.000 acri (400 ha, 4 kmq), presenterebbe una densità di 7.500 ab/kmq, circa quella del territorio comunale di Milano. La densità propriamente territoriale media dell’ insieme di città e largo spazio agrario pertinente, 6.000 acri (2.400 ha, 24 kmq), sarebbe di 1.143 ab/Kmq, un indice né troppo basso né troppo elevato che esteso a tutto il complesso metropolitano di 250.000 abitanti e alla relativa moltiplicazione a scala regionale rispecchierebbe, insieme alla notevole densità urbana, la straordinaria attitudine del modello policentrico ad assicurare urbanità e ruralità ugualmente forti. (Come la proposta howardiana abbia influenzato l’urbanistica inglese dagli ultimi anni di guerra, poi diversi piani di Mosca e tutta quella pianificazione in Europa rivolta a decongestionare la grande città mediante centri satellite, è ben noto).
Cosa mi risponderebbe «il vecchio tricheco» se potessi raccontargli che avremmo potuto realizzare in Lombardia e nel Milanese un magnifico sistema metropolitano policentrico, operando al tempo giusto (almeno dall’immediato dopoguerra), senza bisogno di fondare dal nulla varie Garden City (o Concord…), ma valendoci del persistente eccezionale policentrismo storico distribuito nella vasta campagna secondo diversi ordini di grandezza dei centri urbani? E che, invece, abbiamo realizzato l’osceno sprawl?
Milano, 11 Novembre 2009
(1) News from Nowhwere, Pubblicazione a Londra 1890, a Boston 1891. Edizione Italiana Notizie da nessun luogo, Garzanti, Milano 1984.
(2) W. Morris, Architettura e socialismo (1881-1892), Sette saggi a cura di M. Manieri-Elia, Laterza, Bari 1963, p. 119.
(3) E. Golzamt, L’urbanistica dei paesi socialisti (1971), Mazzotta, Milano 1977, p. 177.
(4) E. Howard. Garden Cities of Tomorrow(1902). Edizione italiana L’idea della città giardino, Calderini, Bologna 1962, p. 121. La prima pubblicazione dell’opera avvenne nel1898 con un titolo completamente diverso e forse più significativo: Tomorrow, a peaceful path to real reform.
Il piano paesaggistico della Toscana tutela efficacemente il territorio della regione, in particolare il suo patrimonio collinare? Si può discutere fin che si vuole sui principi, ma sono i fatti a dare le vere risposte. Circa due anni fa ho scritto su eddyburg.it a proposito di un caso esemplare di cattiva urbanistica: un villaggio turistico di circa 25.000 mc. – spacciato come complemento di un ‘parco’ di pochi ettari - da realizzare nel comune di Serravalle pistoiese, sul Montalbano, un territorio collinare delicato e di grande qualità paesaggistica. Si trattava di un insediamento che appariva nel regolamento urbanistico ma non era dimensionato nel piano strutturale, dove veniva adombrata tortuosamente l’eventualità che il RU prevedesse una struttura turistica ricettiva, “senza che ciò costituisse variante al PS (!)”. Procedura irregolare non solo per il mancato dimensionamento, ma perché, guarda caso, il RU localizzava l’intervento proprio in un’area di proprietà di un importante vivaista pistoiese, escludendo altre localizzazioni, possibili se si fosse seguita una procedura regolare.
Finalmente nell’ottobre 2009 la vicenda può dirsi conclusa: il piano attuativo del villaggio è stato approvato, ed è interessante vedere come e in qual modo. In risposta ad una mia lettera pubblicata su Repubblica in cui segnalavo il caso all’assessore al territorio della regione Toscana, Riccardo Conti, questi, sempre su Repubblica, rispondeva nel novembre 2007 “non trovo scandalosa una previsione di piano che in un parco immagina un intervento edilizio da destinare ad una limitata capacità di accoglienza per studenti o studiosi di passaggio. Cosa diversa è se mi trovo di fronte a un complesso turistico vero e proprio. Il Pit pone una riserva tale fino a prevedere specifiche procedure di contrasto” e aggiungeva l’assessore “Abbiamo da mesi concordato una linea con il Comune di Serravalle che prevede che non si proceda all'adozione del piano attuativo prima che, in accordo con la Provincia di Pistoia e con la Regione, il Comune non abbia provveduto a una ricognizione dei propri strumenti urbanistici, nel senso di un adeguamento alla legge 1 e al Pit. Questo lavoro in corso nei prossimi mesi porterà a un adeguamento normativo degli strumenti urbanistici e a un'adeguata dislocazione dell'intervento”.
Vediamo dunque in cosa consista l’adeguamento alla legge 1/2005 (la legge di governo del territorio) e al PIT che nel marzo del 2009 è stato adottato come piano paesaggistico e quali siano state le procedure di contrasto e l’adeguata dislocazione. Per ciò che riguarda la legge 1/2005, il comune di Serravalle ha formalmente sanato l’illegittimità della procedura con una variante al PS in cui viene dimensionato l’intervento, senza alcuna ulteriore specificazione e rimanendo ferma la localizzazione già prevista nel RU.
Quanto al piano paesaggistico, questo prescrive che nel patrimonio collinare “gli strumenti della pianificazione territoriale dei comuni possono prevedere nuovi impegni di suolo a destinazione d’uso commerciale, ovvero turistica o per il tempo libero, … a condizione che dette destinazioni d’uso siano strettamente connesse e funzionali a quella agricolo-forestale (art. 21). Sempre secondo la disciplina del PIT, gli strumenti urbanistici comunali devono rispettare le direttive e prescrizioni contenute nelle ‘schede dei paesaggi’. Ma nella scheda 6, relativa all’ambito Pistoia, il Montalbano semplicemente non esiste. Un fatto stupefacente perché si tratta di un rilievo collinare posto ai margini della piana che va da Firenze a Pistoia, di grande valore paesaggistico, un patrimonio naturale e culturale che, secondo numerosi studi e progetti, dovrebbe diventare un’ area protetta.
Nel febbraio 2009 il comune di Serravalle ha adottato il piano attuativo del villaggio turistico. Nella valutazione ambientale del piano (una volta tanto fatta con serietà) si afferma che “le zone interessate dai cantieri potrebbero alterare la composizione specifica, la struttura e la densità delle zone effettivamente coperte da bosco” (VA, p. 96). Inoltre, per quanto riguarda il paesaggio la VA sottolinea che “la realizzazione della struttura turistico-ricettiva prevista determinerà inevitabilmente, in un ambiente praticamente libero di edifici, impatti visivi dovuti agli ingombri di nuove sagome e la modifica del contesto locale, pur in un’ottica di progetto che limiti e mitighi tali effetti” (VA, p. 98). Ulteriori elementi di criticità sono rilevati nella VA per ciò che riguarda la viabilità di accesso, lo smaltimento dei rifiuti, la mancanza di acquedotto, metanodotto e fognature, e soprattutto per il rifornimento idrico che dovrà esser effettuato tramite nuovi pozzi; inoltre, “eventuali infiltrazioni di acque dagli strati superficiali a quelli sottostanti potrebbero causare interferenze significative con l’acquifero”, una falda classificata di pericolosità da media ad estremamente elevata (VA, p. 95). In aggiunta la VA indica come misura necessaria la realizzazione di un invaso a fine antincendio boschivi ed irriguo”. Invaso che non è previsto negli strumenti urbanistici, di realizzabilità problematica e che comunque provocherà con le opere di sbarramento, per la viabilità necessaria alla manutenzione e per le opere accessorie, un impatto paesaggistico estremamente negativo andando a modificare sostanzialmente la morfologia del territorio.
Ritorniamo al PIT. La disciplina del piano (art. 36) prevede che “le previsioni dei vigenti piani regolatori generali soggette a piano attuativo …, sono attuabili esclusivamente a seguito di deliberazione comunale che - per i comuni che hanno approvato ovvero solo adottato il Piano strutturale - verifichi e accerti la coerenza delle previsioni in parola ai principi, agli obiettivi e alle prescrizioni del Piano strutturale, vigente o adottato, nonché alle direttive e alle prescrizioni del presente Piano di indirizzo territoriale”. E, in effetti il Comune di Serrravalle ha deliberato nel giugno 2009 che il piano attuativo del villaggio è conforme al PIT.
Poiché la localizzazione del villaggio ricade all’interno di un’area boscata (per inciso: la tutela del patrimonio collinare presuppone che, nell’ambito degli strumenti di pianificazione, sia limitato al massimo il fenomeno della sottrazione di suolo agroforestale, PIT, art. 22) e quindi in un’area in cui vige il vincolo paesaggistico, il piano attuativo è stato sottoposto a conferenza di servizi (PIT, art. 36, 2ter) nel settembre 2009. Alla conferenza hanno partecipato, oltre al comune, regione, provincia e soprintendenza, ma non gli altri 8 comuni del Montalbano, nonostante che il ‘patto del Montalbano’, ratificato un protocollo d’intesa del 21/12/1999, impegni i comuni a coordinare le proprie iniziative, forse perché in data 17 marzo 2005 tutti i sindaci espressero unanimemente parere contrario alla proposta dell’insediamento turistico ricettivo delle Rocchine. La conferenza ha dato il via libera al piano con alcune prescrizioni da rispettare nel progetto esecutivo. Conseguentemente, il piano attuativo è stato approvato il 9 ottobre 2009. Si tratta di un complesso turistico vero e proprio di 80 appartamenti e 372 posti letto e non un intervento edilizio da destinare ad una limitata capacità di accoglienza per studenti o studiosi di passaggio. L’osservazione di legambiente di Pistoia, ampia e argomentata, è stata respinta dal comune con l’incredibile motivazione che non è pertinente al piano particolareggiato, una scorciatoia che risparmia anche la fatica delle controdeduzioni.
La lezione che si ricava dalla vicenda è che il piano paesaggistico viene gestito dalla regione Toscana in modo burocratico, e che le sue prescrizioni sono inefficaci. Il nodo critico rimane nel fatto che sono i comuni a autocertificare la conformità dei propri strumenti urbanistici al PIT, ignorando le valutazioni ambientali quando non sono acquiescenti, mentre le osservazioni di associazioni o cittadini se scomode non sono prese in considerazione. Le conferenze di servizi sono precluse alla partecipazione dei comuni limitrofi, ancorché direttamente interessati (non parliamo delle associazioni e dei comitati). Un ultimo consiglio agli altri comuni del Montalbano. Lasciate perdere il progetto di iscrivere il Montalbano nel patrimonio mondiale dell’Unesco. Prevedete, sull’esempio di Serravalle, un bel villaggio turistico, ognuno nel proprio territorio, e state tranquilli che – dato il precedente - né PIT, né conferenze di servizi avranno alcunché da obiettare in proposito. Ma mi raccomando, come prescrive il regolamento urbanistico di Serravalle, evitate l’uso di ‘tegoli portoghesi’ nelle coperture.
Ho conservato il bell’articolo di Guido Viale in Repubblica del 21 gennaio 2006 dedicato al traffico nella città. Viale afferma che il primo nemico degli abitanti, più dell’inquinamento dell’aria, è l’occupazione delle strade da parte delle auto in movimento e, peggio, parcheggiate; che è di per sè il traffico privato a essere inconciliabile con la vita urbana. Unico provvedimento veramente «strutturale» (parola della quale abusano i nostri amministratori e i loro tecnici), sarebbe ridurre drasticamente il numero dei veicoli.
Noi milanesi verifichiamo ogni giorno che lo spazio pubblico, dalle strade ai marciapiedi, dalle piazze ai parterre dei viali, è asservito ai signori della motorizzata guerra giornaliera. Penalizzato pesantemente il trasporto pubblico. Non si contano le volte che il tram rimane bloccato, e non per pochi minuti, dall’ingombro di autoveicoli privati; non si contano questi ultimi parcheggiati in doppia fila, persino sui due lati stradali, così da restringere la carreggiata e da impedire il passaggio degli autobus. È consuetudine la sosta sulle righe bianche che vieta il passaggio al frastornato pedone, o la presenza irregolare dei famosi «camioncini».
I signori della guerra automobilistica combattono fra loro ma prima contro le persone appiedate, o anche in bistrattata bicicletta, poi contro i mezzi pubblici. Vincono sempre perché protetti dall’amministrazione comunale (anche se una buona parte non sono residenti in città) e non perseguiti dai vigili urbani mediante giuste contravvenzioni, almeno, o con l’aborrita (da questi) rimozione del mezzo. La ragione non è solo la ricerca del consenso elettorale, è anche l’arretratezza culturale, la condotta urbanistica estranea agli effettivi problemi della vita sociale urbana e succube di imprenditori edili, finanzieri, padroni della moda che disprezzano qualsiasi ipotesi di isola pedonale. Tutte categorie che se ne impipano delle difficoltà dei comuni cittadini afflitti dall’insostenibile pesantezza del traffico privato.
Oggi, a distanza di quasi quattro anni dall’articolo di Guido Viale, alla questione del predominio nello spazio urbano delle automobili in movimento o ferme in spazi illeciti bisogna aggiungere quella di motociclette e motorini, presenti in massa. Aumentate in progressione geometrica, non hanno eguali, riguardo all’occupazione dello spazio circolando o parcheggiando, per violazione delle regole e dei comportamenti ragionevoli. Quando sono in movimento, diventano sempre un pericolo a causa dell’eccesso di velocità e, soprattutto, dell’abitudine a infilarsi in ogni minimo vuoto fra le auto, gli autobus, i tram, le biciclette, gli stessi pedoni. Quando sono ferme, se ne stanno, a parte i posteggi destinati e segnalati, dappertutto: marciapiedi (che peraltro percorrono a motore acceso per trovar posto), piazze e sagrati, sotto i portici (idem come i marciapiedi). Chi non vive o frequenta Milano non può immaginare quanto gravemente incida sulla vita urbana il trattamento abusivo, tollerato anzi favorito, dello spazio pedonale da parte delle «due ruote» a motore («due ruote»: così i nostri amministratori amano mischiare in un unico calderone biciclette e moto, mezzi che più diversi non potrebbero essere riguardo al modello di «città affabile» che avremmo voluto conservare).
Come può accadere che, fra automobili e motociclette, certi spazi pubblici storici diventino da ambienti per star bene, grazie alla loro riservatezza e bellezza, luoghi da scappar via afflitti? Come sopportare, per esempio, lo stato di Piazza San Sepolcro con la chiesa e la biblioteca Ambrosiana, di Piazza Belgiosioso col fastoso palazzo e la Casa del Manzoni, di Piazza Sant’Alessandro con la grande chiesa barocca, dello slargo con la Cappella della Pietà di Santa Maria presso San Satiro (e parcheggio segnalato…)? Vedere le fotografie scattate in un giorno qualunque.
Allegato un Power Point di quattro immagini. Cfr. nel sito i miei articoli «È l’auto il nemico numero uno della città», 2 febbraio 2006 e «Smog e traffico, a Milano non cambia nulla», 19 gennaio 2009 (l.m.)
Un decreto da ritirare
Emilio Molinari, Rosario Lembo – il manifesto
Il Senato ha votato la conversione in legge del decreto art. 15 con il quale si privatizzano tutti i rubinetti d'Italia. L'acqua del sindaco, come per anni l'hanno chiamata i lombardi, non c'è più e di questo bisogna ringraziare la classe politica italiana. In particolare un ringraziamento va alla Lega, che con questo voto ha segnato il suo passaggio al sistema economico di potere e ha mostrato quanto il suo federalismo sia puro linguaggio, e altrettanto la decantata partecipazione dei cittadini.
La mobilitazione del movimento, le mail che hanno intasato i computer dei senatori, la presa di posizione di molti sindaci e della regione Puglia, che ha dichiarato di voler assumere la gestione del Servizio idrico integrato, hanno reso meno celebrativo il dibattito al Senato. Per la prima volta i nostri argomenti sono risuonati in quelle aule in modo chiaro e nel Pd si sono sentite voci discordanti da quelle sostenute da sempre in questo partito.
Ma tutto ciò non ha cambiato la sostanza del decreto.
Si è resa obbligatoria la gara, si sono praticamente liquidate le Spa a totale capitale pubblico, si sono generalizzate e affermate le società miste definendo il tetto alla partecipazione pubblica al trenta per cento, facendo cadere così anche l'ultima foglia di fico di qualche amministratore che nel passato ha sostenuto che con il 51% delle azioni il controllo maggioritario del pubblico era assicurato.
Si è introdotta una nuova mistificazione: la possibilità ai comuni di partecipare come «privati» alla prima gara. Si tratta di una cosa paradossale: i comuni sono obbligati a mettere a gara le proprie azioni ma poi possono gareggiare per riprendersele, magari attingendo a prestiti bancari... Incredibile schizofrenia: mentre si afferma definitivamente il primato del mercato, si permette l'estrema finzione di chi, in mala fede, può ancora dire che non privatizza. A ben vedere, questa ipocrita giustificazione è già in circolazione
E' un vizio tipico di una certa politica italiana: perseguire la privatizzazione e negare di averla fatta. Gli amministratori delle regioni - solo per fare due esempi, la Toscana e l'Emilia Romagna - sono stati maestri in tale arte.
Questo decreto segna un passaggio cruciale per la cultura civile del nostro paese e per la sua Costituzione. I Comuni e le Regioni vengono espropriati da funzioni proprie, con un vero attentato alla democrazia. Tutto questo fa dell'Italia l'unico paese europeo che si incammini su tale strada.
Per la stragrande maggioranza dei partiti, questo non è che l'epilogo di una lunga sbornia privatistica, dalla quale solo in Italia sembra non si voglia più uscire, nemmeno davanti all'attuale devastante crisi finanziaria, nemmeno davanti al palese fallimento del neoliberismo Per altri partiti prevale una storica indifferenza per il problema acqua, per i beni comuni e per la difesa delle risorse limitate: prevale l'abitudine, non il pensare.
Ora il decreto va alla Camera: la battaglia perciò non è chiusa.
Vorremmo tuttavia rivolgere un appello a tutti i partiti perché rivedano questo decreto: bisogna ritirarlo, o in ogni caso togliere dal decreto l'acqua per ciò che essa rappresenta. D'altro canto, si sono già tolti alcuni servizi come il gas e si è tolta la liberalizzazione delle farmacie. Vorremmo venisse tolto l'obbligo di privatizzare imposto ai comuni.
E un altro appello, speciale, ai partiti e ai parlamentari che hanno votato contro il decreto e hanno sostenuto i nostri argomenti.
Li ringraziamo, ma vogliamo dire loro che se si vuole fare veramente una battaglia, non basta votare contro in aula. Ci si pronuncia come partito attraverso il segretario nazionale, si dà mandato a tutto il partito di mobilitarsi, si va in televisione o sui media per denunciare ciò che avviene; si informa l'opinione pubblica.
E questo vale per chi sta in Parlamento e per chi è stato messo fuori.
Per i partiti che intendono mobilitarsi il 5 di dicembre contro la politica sociale di Berlusconi, chiediamo di mettere nella piattaforma la questione dei servizi idrici privatizzati.
E infine, un appello particolare va alle organizzazioni sindacali, affinché si pronuncino e si mobilitino non solo per il destino dei lavoratori del settore, ma al nostro fianco, contro quella che si chiama mercificazione dell'acqua, di cui il decreto italiano è un tassello determinante e un precedente gravissimo.
È in ballo la capacità della sinistra di rinnovare i propri paradigmi. Ne va della sua stessa esistenza.
*Sezione italiana del contratto mondiale dell'acqua
L'acqua che scotta
A. Pal. – il manifesto
C'è una questione semplice - ma con un valore culturale immenso - dietro il decreto legge approvato in Senato e che presto arriverà alla Camera. E' possibile oppure no generare profitto utilizzando il bene acqua? Non si tratta solo di capire se il servizio idrico è essenziale, perché su questo sono tutti d'accordo. E' così importante da diventare la frontiera più estrema della speculazione finanziaria, ben oltre i fondi sulle commodities. La questione della gestione delle risorse idriche è il vero punto focale oggi, forse più della proprietà delle reti.
Quello che il governo - e parte del Pd - vuole, è dare in mano alle società per azioni, nazionali o multinazionali, questo in realtà poco importa, la gestione e quindi lo sfruttamento economico della risorsa acqua. E' una questione che ritorna regolarmente sul tavolo della politica dai primi anni novanta in poi, da quando il governo di Giuliano Amato si lanciò sulla strada delle privatizzazioni. Il governo di Silvio Berlusconi tenta oggi di accelerare la stretta privatizzatrice, a colpi di decreto. Potrebbe essere il colpo finale. I comuni proprietari in tutto o in parte del capitale delle società di gestione dovranno vendere le loro azioni in borsa sacrificando gran parte dell'investimento. I soldi ricavati finiranno di nuovo in speculazioni finanziarie; questo almeno è l'intento della finanza internazionale: mettere le mani sull'acqua e nello stesso tempo sui comuni e sulla loro libertà.
La prima tappa è stata l'approvazione dell'articolo 23 bis del decreto Tremonti, lo scorso anno; poi nei giorni scorsi l'articolo 15 del disegno di legge 135 ha completato, almeno per ora, l'opera. L'articolo in sostanza affida la gestione dei «servizi pubblici locali di rilevanza economica» al mercato, pur mantenendo la proprietà pubblica delle reti. Il problema nasce dal fatto che per il governo anche l'acqua ha una «rilevanza economica».
Questa definizione - che implica di conseguenza l'applicazione delle regole della concorrenza e del libero mercato - è stata ben capita negli ultimi quattro anni dalle centinaia di comitati per l'acqua pubblica. E una resistenza silenziosa è nata in tantissime città, dove alcuni consigli comunali hanno inserito negli statuti la dichiarazione che l'acqua non può avere quella «rilevanza economica» che il governo vuole dare per decreto. Una risposta che è nata proprio in quelle città dove l'impatto dei gestori privati o pubblico-privati - come Acqualatina o Acea - ha fatto capire cosa significa la gestione speculativa dell'acqua. Un movimento, questo, che pochissimi giorni fa è stato abbracciato anche dal presidente della giunta regionale della Puglia Nichi Vendola. Con una delibera del 20 ottobre scorso la giunta pugliese ha stabilito due principi fondamentali: l'Acquedotto pugliese dovrà lasciare la forma di società per azioni diventando una azienda di diritto pubblico e dovrà essere preparata una legge regionale dove l'acqua verrà dichiarata un bene comune, senza rilevanza economica.
Il conflitto politico - e costituzionale, visto che si parla di competenze di stato e di regione - si è dunque aperto. Dalla Puglia Nichi Vendola fa sapere con chiarezza che questo punto sarà - come nel 2005 - la bandiera più importante della sua campagna elettorale. Lo scontro sull'acqua non sarà semplice e non avrà come controparte solo il governo e il centrodestra. Subito dopo la votazione della delibera della Regione Puglia per la ripubblicizzazione dell'acquedotto pugliese la componente del Pd che fa riferimento a Massimo D'Alema ha precisato che non è questa la posizione che sosterranno.
Anche l'altro ieri in Senato buona parte del partito democratico ha sostanzialmente accettato l'idea della gestione privata, nascondendosi dietro il principio della proprietà pubblica delle reti.
La risposta all'approvazione dell'articolo 15 da parte del Forum dei movimenti per l'acqua è arrivata più dura che mai. «Se la Camera dei Deputati - scrive il Forum - non ribalterà il misfatto del Senato, davanti agli occhi attenti del Paese si sarà celebrata la delegittimazione delle Istituzioni». Non è in gioco solo la gestione delle risorse idriche, ma, secondo il Forum, la stessa democrazia locale. Secondo diversi giuristi, infatti, la decisione sulla rilevanza economica di un servizio locale spetta costituzionalmente solo ed esclusivamente ai consigli comunali.
Lo scorso marzo la stessa Corte dei Conti della Lombardia, interpellata da alcuni comuni, ha riaffermato la validità di questo principio, rimandando alle autonomie la scelta sulle modalità di gestione del servizio idrico.
La risposta alle scelte del governo verrà prima di tutto dalle quotidiane battaglie per i diritti che le centinaia di comitati in tutta Italia hanno avviato da almeno quattro anni. Nelle due province dove la privatizzazione arrivò per prima - Arezzo e Latina - hanno già sperimentato direttamente l'impatto della gestione privata: tariffe che aumentano anche del 300% e una qualità dell'acqua che diventa insostenibile. La sfida in realtà è già partita da diverso tempo. A Torino a breve il consiglio comunale dovrà discutere la proposta d'iniziativa popolare per la dichiarazione dell'acqua come «bene senza rilevanza economica». Sarà il terreno per un confronto anche all'interno della sinistra, per capire che direzione prenderà il partito democratico guidato da Pierluigi Bersani.
Affari da bere
Vittorio Emiliani - l’Unità
L’acqua potabile è un diritto essenziale per la vita. Così recita la Dichiarazione Universale dei diritti umani. Ma la sua gestione - come quella di altri servizi pubblici – deve essere affidata, secondo il nostro governo di centrodestra, soltanto ai privati. Così si è espresso il Senato, pur essendo stato inserito in commissione un emendamento del Partito Democratico che mantiene ai Comuni la proprietà dell’acqua. In un certo numero di Enti locali le società private si sono già insediate al posto dei tradizionali gestori comunali o consortili e le tariffe dell’acqua potabile hanno registrato impennate vessatorie. L’acqua rischia di essere un business e non, invece, uno dei beni primari da garantire alle popolazioni. Va detto subito che la gestione pubblica dell’acqua non è stata nel nostro Paese esemplare: per demagogia le tariffe sono assai più basse di quelle dei Paesi europei sviluppati e i consumi, in parallelo, molto più alti. Contemporaneamente però consumiamo una quantità incredibile di acqua minerale la quale costa da 500 a 1000 volte di più e “produce” una montagna ingombrantissima di bottiglie di plastica.
Le tariffe pubbliche troppo basse, oltre a indurre gli italiani a consumi molto elevati (293 litri per abitante/giorno contro i 196 della Germania o i 211 della Francia), hanno impedito ai Comuni di investire in modo adeguato nella rete, ridotta, per lo più, ad un colabrodo, con perdite ingentissime.
Inoltre pochi Comuni si sono dotati di stoccaggi di acqua riciclata per le fabbriche e per l’irrigazione (che si prende il 60-70 per cento dei consumi). Lo hanno fatto i Comuni più seri e attenti all’ambiente i quali registrano infatti la virtuosa catena di tariffe non stracciate, consumi privati mediamente più bassi, buona efficienza della rete idrica e disponibilità di acque riciclate o comunque non potabili per usi produttivi. Per esempio a Forlì, a Ferrara, a Pistoia, a Livorno o a Reggio Emilia, dove nel 2005 vigevano le tariffe pubbliche dell’acqua più elevate si registravano consumi per abitante dimezzati nei confronti delle città dove all’epoca si praticavano le tariffe più basse.
Ebbene, col testo di legge approvato, i Comuni potranno d’ora in poi partecipare alle aziende idriche miste al massimo per il 40 per cento, ma senza più gestioni dirette: la privatizzazione della gestione dell’acqua punirà dunque nel modo più ingiusto i Comuni “virtuosi”, quelli che hanno sin qui assicurato servizi adeguati a tariffe non demagogiche, facendo così, in modo equo, l’interesse degli amministrati. Né consentirà una sana competizione, alla pari, fra pubblico e privato. E sì che le prime privatizzazioni hanno già provocato un caro-acqua assurdo. Questo governo è rimasto sordo ad ogni saggio richiamo. A Silvio Berlusconi, in qualunque campo, non importa nulla dell’interesse generale. Gli stanno a cuore i tanti interessi privati e corporativi. Ma i cittadini italiani quando apriranno gli occhi su questa elementare realtà?
Perché l’Italia frana quando piove. È l’endecasillabo che recitava Antonio Cederna dopo ogni alluvione, frana, dissesto. E spiegava che c’è un solo fattore che mina l’integrità fisica del territorio: la mano dell’uomo. La pioggia è il più naturale dei fenomeni atmosferici. Se si trasforma in catastrofe, quando supera anche di poco i livelli medi, è per l’uso dissennato che si è fatto e si continua a fare del nostro territorio. Soprattutto nel Mezzogiorno, dove più violentemente sono stati alterati antichi e fragili equilibri.
Spero che almeno per un po’ di tempo si smetta di piangere sul fatto che sono troppi i vincoli che frenano l’attività edilizia e le spinte alla trasformazione del suolo. I giornali portano la contabilità dei danni, sette morti all’anno per frane, centinaia a partire dalla tragedia del Sarno di dieci anni fa. Già allora, tutti i cronisti misero a nudo la fragilità del territorio, i disboscamenti, la devastazione della natura, l’abbandono dell’agricoltura, l’abusivismo, le cave gestite dalla malavita, l’espansione caotica delle città, la speculazione edilizia. Si lessero serie indagini sul deficit di cultura civile che sta all’origine di tutti i guai del Mezzogiorno, dove le catastrofi cosiddette naturali svelano sempre disastri sociali: l’imprenditoria miserabile, l’intreccio fra l’economia legale e quella malavitosa, il controllo camorristico dei beni pubblici, la rassegnata solitudine, o la fuga, dei cittadini migliori.
Ieri, dopo poche ore di pioggia, di nuovo lutti e devastazioni. Non si può che ripetere, ancora una volta, la solita predica. Non serve inseguire l’emergenza e pensare a politiche straordinarie. Straordinario deve essere solo l’impegno a recuperare il tempo perduto. E a mettere mano alle cose che finora non sono state fatte, in primo luogo all’attuazione dei piani di bacino, obbligatori per legge da circa vent’anni. Che però, in particolare nelle Regioni meridionali, sono oggetti sconosciuti. I piani di bacino sono il cardine della politica di difesa del suolo. Vanno elaborati con grande cura, utilizzando risorse tecniche e scientifiche di prim’ordine. E pretendono un’attuazione rigorosa, eliminando, per esempio, le costruzioni sorte nelle aree a rischio. Le autorità di bacino dei grandi fiumi del Centro-Nord operano abbastanza efficacemente. I guai sono nel Mezzogiorno. Dove la difesa del suolo, la gestione dell’acqua non possono essere affidate a istituzioni da troppi anni inadempienti. E’ indispensabile che intervenga il governo centrale, sostituendo le Regioni incapaci. Ma figuriamoci.
E poi c’è il capitolo abusivismo che continua senza freni, più intenso proprio dove non sono garantite condizioni di sicurezza. Un solo dato: a Roma le domande di condono presentate nel 2003 sono state oltre 85 mila, quasi la metà del totale nazionale. Riguardano gli anni dal 1994 al 2003, quando in Campidoglio sedevano prima Francesco Rutelli, poi Walter Veltroni. 85 mila abusi denunciati in nove anni significa che nella capitale non c’è controllo del territorio. Resta Rita Paris, la benemerita archeologa che si occupa dell’Appia Antica, intrepida e imperterrita a denunciare, per lo più inascoltata, lo scandalo delle costruzioni abusive a ridosso della regina viarum che il comune continua a sanare.
Su eddyburg, documenti e articoli sulla frana di Agrigento del 1966 che rivelò agli italiani le conseguenze dell'uso dissennato del territorio
“Quelli del sì a tutto” avrebbero quotidiane dimostrazioni dell’utilità di un salvifico “no”. Ma se ne impipano. L’Isola si perde anche perché certi suoi podestà sviluppisti considerano l’attività politica simile a quella immobiliare, e le confondono. Tutt’e due attività lecite, s’intende. Lecite ma in conflitto quando si sommano nella stessa persona.
San Teodoro è un esempio di paese-cantiere edile, dove la politica è tutta concentrata nell’azione incontenibile di costruire. Un territorio governato dall’esaltazione immobiliare che lo ha portato alla perdita di sé. Un luogo sublime, come tanti altri dell’isola, che la “politica del sì” ha trasformato in un funebre grumo di case e gru. I sindaci impresari passeranno alla storia dell’isola come i nostri flagelli antichi, ma avranno ferito a morte i luoghi.
I suoli, considerati come uno strumento per riempire la pancia, immancabilmente ripagano gli scempi, si sa. Villagrande ha avuto i suoi morti perché si costruiva sul greto del fiume. Capoterra, indenne da inondazioni sino agli anni ’60, incoraggia un raccapricciante uso del territorio e per conseguenza subisce lutti e distruzione che restano nella memoria di ognuno, salvo in quella di chi, perduto il senno, continua a costruire.
Chissà quanti sindaci d’impresa amministrano i nostri 380 comuni. Chissà quanti candidati edilizi hanno utilizzato nei comizi l’idea brutale che nel metro cubo è contenuta la felicità eterna. Chissà quanti amministrano e contemporaneamente costruiscono.
Qualcuno ha declamato che lui il Paesaggio lo “deve fabbricare”, un altro che lo “restaura”, un altro ancora che “lo ricostruisce”. Insomma, la politica, grande e piccola, vede come propria bussola non il benessere dei singoli e la protezione del patrimonio naturale che ci è stato consegnato, no. Non il cosiddetto “uomo al centro” del Creato, l’uomo che, proprio perché è al centro, dovrebbe difenderlo questo povero Creato. No. L’ago magnetico è dritto e fisso verso gli affari di pochi, senza cura delle conseguenze, senza la filosofia richiesta quando si ragiona di uomo e paesaggio.
E’ naturale che l’impresa desideri costruire. E talvolta tira calci per farlo. Non è naturale, anzi, così nasce un mostro, che l’impresa diventi contemporaneamente amministrazione e ci governi. Questa è una mescolanza che ci conduce in un territorio grigio e indistinto, dove l’ambiguità può scivolare verso l’illegalità. E le conseguenze sono drammatiche, qualsiasi legge si faccia per proteggere il territorio.
Le casette che si moltiplicano come virus, secondo la primitiva “ideologia”: più mattone, più ricchezza. Il sogno di container carichi di turisti. Le stagioni che si accorciano e gli alberghi che si allungano. Migliaia di case vuote, inutili, brutte, spettrali per undici mesi l’anno. E la risposta a questo orrore è nell’inevitabile e certo “premio di cubatura”, l’elisir per ogni male.
Nessun ragionamento, nessun amore per i luoghi, nessun senso della patria, delle origini. Nessuna memoria, nessuna speranza per una terra così disposta a vendersi e già così venduta per qualche metro cubo. D’altronde come il cane assomiglia al padrone, anche il paesaggio assomiglia a chi lo abita. Una società mediocre produce un paesaggio mediocre, paesi miseri, città brutte, periferie atroci.
Quelli che, a detta loro, “fabbricano, restaurano, ricostruiscono” il Paesaggio, lo costringono con tale violenza che lo perdono. Perdono, accecati da un piccolo guadagno immediato, perfino il vantaggio economico che un paesaggio bello contiene in sé finché è bello. Ci privano, ricoprendo tutto di “bruttezza”, del diritto sacro di godere del Paesaggio e di vivere in armonia.
La scomparsa della spiaggia sublime di San Teodoro, sommersa dal fiume che da millenni porta l’acqua allo stagno, il fiume innocente soffocato dai mattoni e da argini insulsi, sono la rappresentazione perfetta di come i “costruttori” di Paesaggio considerano la terra. Tutto è lì per loro. Ora che hanno sfinito i suoli e le acque il diluvio sommergerà anche loro. Senza arca, però.
La spiaggia di san Teodoro, prima e dopo ... l'incuria
L'articolo è stato pubbòicato oggi anche su la Nuova Sardegna
Con un sospiro di sollievo gli albergatori sardi hanno registrato un labile tutto esaurito di qualche giorno grazie alla moltitudine che a ferragosto si è rovesciata sull’isola dal cielo e dal mare. Neppure abbiamo fatto in tempo a ragionare sul fenomeno che, frenetici come girini, i villeggianti si preparano, dopo l’esodo, al controesodo. E “quelli del sì” sono stati felici per qualche giorno.
Ma “ quelli del sì” e alcuni sfortunati albergatori hanno sentito qualcosa di insolito nell’aria proprio mentre godevano questa boccata d’ossigeno.
Era il flagello della cacca generata a ferragosto che ritornava al produttore perché i depuratori non ce l’hanno fatta benché siano, si sa, sovradimensionati proprio per i periodi di pienone. Era troppa questa cacca. Tanta incontinenza non era stata prevista dai sostenitori del nostro efficace modello di sviluppo. Gli stessi che propugnano premi di metri cubi agli alberghi per ingrandirli e moltiplicano non solo i servizi, attenzione, ma le camere d’albergo per ammucchiare più gente. Premiano chi non ha saputo fare dell’isola un luogo rispettato per tutto l’anno dai suoi abitanti e da chi lo visita. E chiamano “riqualificazione” quest’uso inconsulto del territorio.
“Quelli del sì” ampliano gli alberghi e abdicano alla leggendaria “stagione lunga” e al “risparmio” dei luoghi. E cadono in una mortale contraddizione. Non si possono nello stesso tempo stipare le coste di metri cubi e turisti e pretendere che quel turista, immerso nel suo stabulario come una cozza nella quale il cibo entra e esce, corra perfino a vedere il cosiddetto interno isolano al quale intanto ne fanno di tutti i colori sino alla desertificazione.
“Quelli del sì”, a forza di sì, hanno da mezzo secolo la responsabilità morale, e non solo, della scomparsa di buona parte dei nostri paesaggi, storici e naturali. Questo gli verrà rimproverato da chi riceverà in dono da loro l’inconfondibile “bruttezza sarda” che dalle città e i paesi si è estesa alle campagne, frutto della confortevole filosofia del sì e dell’intolleranza alle regole. Come i guai provocati da chi sfreccia a centocinquanta all’ora e sfacciatamente definisce “agguato” una multa con l’autovelox. Troppe regole, dicono.
La politica di “quelli del sì” è facile da praticare. Dire sì, produrre leggi a corto raggio, il “tutto e subito”, evita norme fastidiose, divieti e codicilli capziosi.
La cacca di questi giorni non è una cacca qualunque, ha un significato profondo e dimostra come le nostre acque, certificate da innumerevoli bandierine blu, siano naturali. E qualcuno proporrà per la stagione spilorcia ridotta a un mese di ingigantire i depuratori perché per trenta giorni la pressione sulle coste diviene insopportabile e la cacca insostenibile. Questa cacca metaforica, castigo degli spensierati, verrà ricordata. Verrà ricordato l’albergatore negazionista che ha detto: “Non è cacca, signori, sono meduse” e poi si è angosciato non già per l’orrore, no, ma per il danno minore, quello all’immagine. L’immagine dovrebbe corrispondere sempre alla sostanza ma in questo caso la sostanza è sconveniente.
Molta cacca, sosterranno, significa che la nostra isola è una meta ambita e basterà distribuirla meglio sulla costa e sull’interno. La cacca, spesso cacca internazionale, volgerà a misura del successo del nostro turismo, diverrà un volàno dello sviluppo e accrescerà il Pil. D’altronde è un segno di salute e fortuna nella cabala napoletana.
Ha dichiarato l’assessore al turismo di un paese costiero che bisogna “riflettere e spalmare il turismo un po’ dappertutto”. Non abbiamo capito esattamente cosa volesse dire. Ma la parola “spalmare”, termine “strategico” del linguaggio aziendale, non è stata scelta con accortezza. Ha ragione l’assessore, bisognerà riflettere a lungo sul nostro povero mare fecale, però noi, nel frattempo, ce ne restiamo tra “quelli del no”.
Pubblicato anche su La nuova Sardegna, 25 agosto 2009
Chi ama il paesaggio viene talvolta liquidato come estremista, pasdaran, massimalista, komeinista, fanatico, oppure apostrofato con formule vuote come “basta con le ideologie”, “siete quelli del no”. Ma vediamo.
Chiamano vacanze gli sbarchi apocalittici in Gallura, le migliaia di auto arroventate, l’isola scossa di colpo da un turismo anfetaminico, una regione di un milione e mezzo di abitanti che brulica per un mese di altre centinaia di migliaia di persone piene di esigenze spirituali e corporali, i fuoristrada sulle dune di Piscinas, le spiagge trasformate in rosticcerie, i fiumi di alcol, le cale alla nafta, i ginepri amputati. Ma neppure davanti a tutto ciò si riflette sulla necessità di governare questo fenomeno distruttivo, questo uso sfrenato della nostra unica risorsa. No. Si accetta qualsiasi cosa. La stagione è corta, dicono, e allora allunghiamo gli alberghi.
C’è stato un indicativo convegno promosso dagli albergatori e dai rappresentanti dell’onesto partito detto dei Riformatori che vuole riformare anche gli alberghi i quali non devono lavorare solo due mesi l’anno e dovrebbero procurare lavoro per dodici mesi anziché dispensare uno stipendio che appare a luglio e agosto, poi scompare e riappare, forse, un anno dopo.
Ma neppure gli integerrimi Riformatori hanno resistito alla mania irragionevole del cosiddetto “premio di cubatura” che non si rifiuta a nessuno. Così abbiamo saputo che a 300 metri dal mare si possono costruire palestre, centri benessere e centri congressi. Tra i 300 metri e i 2 chilometri, per ottenere il 20% di letti in più si aumenta la volumetria del 50%. Nel manuale del perfetto cementificatore non è mancato il tocco di verde dei campi da golf che devono essere fatti subito sennò i filantropi investitori vanno da altre parti. Un pasdaran albergatore ha deplorato che in questa lotteria dei premi di cubatura ci si è dimenticati degli sfortunati alberghi a 300 metri e ha chiesto come rimedio alla crudele ingiustizia il 10% di metri cubi in più per chi è là da 5 anni, il 20% per chi è lì da 10 anni e il 30% se l’albergo è là da 20 anni o più. Un’usucapione alberghiera. Così, hanno detto, si sta “al passo coi tempi”.
Comunque vada ti premiano con un allargamento o un allungamento. Questo sì, ci pare un modo ideologico di concepire regole fondate su diritti inesistenti che, oltretutto, ignorano diritti fondamentali. Perfino i pacati Riformatori prevedono regali a chi, come gli albergatori isolani, ha fallito, lavora un mese l’anno ma pretende una ricompensa per la propria incapacità. Come se per rimediare al tracollo di una fabbrica si proponesse di allungarla con un bel premio in metri cubi.
C’è nell’aria un massimalismo del metro cubo, un estremismo edilizio, un fanatismo sviluppista. La stagione è corta e allora si prolungano gli alberghi. Nessun tentativo di governare gli avvenimenti, solo la volontà di inseguirli affannando, chiusi in un’asfissiante visione edificatoria del mondo.
Lo stesso atteggiamento “ideologico” di chi, sgombro dalla prudenza del dubbio, vide nella chimica l’unico possibile futuro dell’Isola, creò posti di lavoro di cartapesta e molto dolore.
Basterebbe in questi giorni un’occhiata ai moli infernali di Olbia per comprendere che non servono metri cubi ma regole. Fra trenta giorni tutti se ne andranno e ricomincerà il lamento dell’inoperoso albergatore sardo.
Quando la costa sarà una costruzione continua, esauriti i perniciosi premi di metri cubi, privi dell’unico patrimonio che possediamo, il Paesaggio, poveri senza rimedio, prenderemo di colpo coscienza, come è accaduto per la chimica, della scelta rovinosa che abbiamo fatto. Non abbiamo saputo governare la nostra terra e non avremo più nulla di nostro, né un’ideale di paesaggio, né di territorio, né di patria.
Pubblicato anche su La nuova Sardegna, 4 agosto 20098
“Nnpp”, il nuovo movimento “Non ne possiamo più” che Vittorio Emiliani ironicamente propone (l’Unità14.6.2009) riguardo a certe mene postelettorali nel Pd, vorrei applicarlo alla pertinacia con la quale architetti internazionalisti fra i più noti squadernano progetti grandiosi e insensati in ogni luogo che gli capiti sottomano. L’ultima denuncia è di Francesco Erbani su Repubblica del 13 scorso (vedi anche in eddyburg): progetto di Ricardo Bofill per il lungomare di Salerno. Un “Crescent alto come un palazzo di dieci piani visto dal lungomare avrà l’aspetto di un immenso paravento solcato da colonnine che gli danno un marchio postmoderno (ma molto in ritardo)”, cui si aggiunge una manciata di altri edifici per un totale (cito ancora Erbani) di oltre 150.000 metri cubi. Ciò che colpisce in episodi di questo genere da molti anni ricorrenti in diverse città e cittadine, si divide in almeno tre ragioni (a parte l’ovvia domanda dell’imprenditore e/o proprietario): un sindaco (eventualmente sostenuto da una giunta o da un Consiglio comunale) che aspira a iscrivere il proprio Comune nel Guinness dei primati relativi alla tronfiezza architettonica e all’arrendevolezza urbanistica, sindaco che addirittura, come nel caso salernitano, diventa fanatico sostenitore al di là da ogni ragionevole dubbio; un architetto disponibile non solo a realizzare un’opera completamente avulsa dal conteso fisico-sociale per enormità di apparenza e di inconsistenza sostanziale, ma a garantire l’ottenimento senza sconti della montagna di metri cubi edilizi richiesti dallo speculatore di turno colluso «culturalmente» con l’amministrazione pubblica; un architetto, il medesimo, propenso a proporre continuamente la stessa soluzione, come se non sapesse che il problema dell’architettura si presenta ogni volta in maniera diversa e secondo diverse condizioni ed esigenze urbanistiche, solo deciso a imporre la figura manifesto della propria superiore arroganza. Il Crescent di Bofill (lasciamo perdere la pretesa di uguagliarsi alla mirabile opera di John Wood il Vecchio a Bath) passa, lo nota il soprintendente, da Cergy Pontoise a Savona a Montepellier. E, annoto, deriva dall’ormai vecchio ipercolonnare “Les Echelles du Barocque” di Parigi/Montparnasse. Tutto questo non ha niente a che fare con la coerenza d’artista; consegue alla pretesa di reclamare la validità dell’architettura come oggetto in sé e per sé, come forma individuale, a prescindere dalla città, dall’ambiente fisico e sociale, dal paesaggio. Quando poi si tratti di mare e costa sembra che non ci sia scampo: in eddyburg abbiamo denunciato il caso incredibile di Mola di Bari “il meno immaginabile di territori disponibili” coi due fronti a mare “sacrificati alle potenti cubature ideate da Oriol Bohigas, grazie tante al contesto” (Falsificazione dell’architettura e privazione dell’urbanistica, in eddyburg 11.09.2006. Quando l’architetto si innamora di una forma astratta diventata maquette sul suo tavolo da lavoro o rendering di computer, sembra reticente a mollarla caschi il mondo, qualsiasi sia la localizzazione. Riguardo alle città di mare forse è meno noto un caso recente apparso sulle pagine locali di Repubblica/Genova. Mario Botta propone per Sarzana (Sp) una specie di torraccione a fungo, gonfio e altissimo, cilindrico due volte; ma cilindri contraddistinguono anche un suo progetto per Boccadasse a Genova. E prima fece scalpore, nella ricostruzione della Scala di Milano, il volume cilindrico ellittico (di cui non c’era bisogno) come fosse posato sul tetto del neoclassico Palazzo del Biffi e che, nella visione dalla piazza, guardiamo spaesati affiancare il colossale cubo scenico del teatro.
Nnpp. Non dovremmo denominare architettura queste cose e cosone. D’altronde un altro carattere le distingue come oggetti estranei ai contesti: la mancanza di indicazioni circa una attendibile e utile destinazione. Insomma cosa conterranno tali enormi volumi edificati è indifferente. Il corretto, ben studiato, prevedibile utilizzo degli spazi, punto d’onore di ogni progetto legato a una propria necessità, non interessa né allo speculatore, né al sindaco vanitoso, né al progettista famoso. Il “mostro”, come usa chiamarlo, inverato ridistribuirà comunque proporzionati vantaggi alle tre parti.
E’ singolare. Da almeno 10 anni una vasta platea di economisti che ha voce e influenza pubblica non ha cessato un momento di ricordarci che i «consumi americani tirano la crescita». Sono gli americani, ci ricordavano, che alimentano lo sviluppo con il loro formidabile ritmo di consumo. Nessuno di costoro lasciava cadere, sul proprio entusiastico compiacimento, qualche ombra di perplessità. Eppure, oggi, tra tali commentatori non si trova un solo economista che voglia ricordarsi del nesso tra perseguimento della «crescita infinita» e iperconsumo americano. E tra questi e la crisi oggi in atto. Il tracollo del sistema bancario e le distruzioni in corso nell’economia reale vengono spiegate con poche categorie disciplinari ( basso tasso di sconto del dollaro, debito estero, ecc) e con la violazione delle regole, con l’imbroglio finanziario. Per il resto nulla da obiettare. E il consumo che tirava la crescita ? Non ha niente a che fare con il disastro attuale?
Cominciamo col rammentare – informazione di cui in genere gran parte degli economisti non sa che farsi – che gli Americani, il 5% della popolazione mondiale, con quel consumo che tirava divoravano e divorano circa il 30% delle risorse mondiali. E’ una vecchia storia imperiale che si ripete in altro modo. Al culmine della sua espansione territoriale, negli anni ’30 del ‘900, la Gran Bretagna controllava, a vario titolo, un numero così grande di colonie da coprire 1/4 delle terre emerse del globo, 125 volte la propria superficie. Un territorio di riserva indispensabile a sostegno della macchina produttiva e degli elevati standard di consumo dei cittadini britannici. Quasi sempre la prosperità dell’Occidente si è fondata su risorse che altri popoli non hanno potuto utilizzare. Anche oggi lo «stile di vita americano» si regge su un immenso territorio di riserva, sullo sfruttamento di risorse altrui, utilizzati grazie alla vasta influenza economica, politica e militare degli USA, e pagati con il dollaro, moneta di riserva e mezzo universale di pagamento.
Quel territorio oggi consiste anche nei salari da fame degli operai cinesi e del resto dei Paesi del Sud del mondo, nei bassi costi delle loro materie prime, che hanno consentito ai consumatori degli USA di divorare interi continenti di merci senza generare inflazione, rendendo possibile alle imprese americane di tenere bassi i propri salari, di realizzare profitti crescenti che si riversavano nel ribollente calderone della speculazione finanzaria. E’ così che i cittadini americani, operai e classe media, sono stati spinti al consumo malgrado la loro emarginazione sindacale e la stagnazione del loro reddito: tramite l’indebitamento. Che trovata! La corsa allo sviluppo illimitato ha spinto infatti a un mutamento storico del ruolo delle banche: nate per finanziare le imprese, esse si sono messe a prestar soldi direttamente ai cittadini, perché continuassero a consumare all’ infinito. L’indebitamento crescente delle famiglie è stato lo strumento « per continuare a crescere», come recita il mantra del conformismo economicistico universale. Già nel 2003 il debito insoluto dei cittadini americani era di 1 miliardo e 800 milioni di dollari. Gran risultato. Ma questa è la faccia nascosta del recente successo americano, quello glorificato da schiere infinite di economisti, pifferai che hanno cantato la gloria di questo capitalismo ad ogni angolo di strada. Una montagna di debiti delle famiglie. La costruzione del « maledetto imbroglio» finanziario con i mutui subprime, non è che l’estensione e il perfezionamento di un modello già in atto, esteso al settore immobiliare, che serviva peraltro ad alimentare la grande macchina dell’edilizia.
Quel consumo, dunque, si è retto, per almeno un quarto di secolo, sul progressivo indebitamento dei privati e sull’idrovora finanziaria a scala mondiale messa in piedi dall ‘impero americano. « Dati del Fondo monetario internazionale – ha ricordato di recente Silvano Andriani – mostrano come tutte le aree del pianeta, compresi i paesi emergenti, stiano finanziando con esportazioni di capitali gli Stati Uniti».
Rammento tutto ciò non tanto per sottolineare la scadente qualità predittiva delle scienze economiche oggi dominanti. Su questo terreno siamo tutti fallaci, anche se non tutti con pari responsabilità. Ma per richiamare aspetti che all’angustia disciplinare di questi saperi sfugge, per così dire, in radice. Il consumo, a quanto si sa, si realizza attraverso la dissipazione di risorse naturali. Ora, chiedo, non ci sono nessi tra l’iperconsumo americano e occidentale e i colpi subiti dalla natura negli ultimi decenni? Non è una lamentazione estetica, ci mancherebbe. Sotto l’assedio di una cultura economica da Paese povero, che guarda al mondo fisico con tale voracità predatoria, non pretendiamo tanto. Ma per natura qui si intende la perdita di immense superfici di terra per erosione e desertificazione, l’impoverimento biologico dei mari, l’abbattimento di foreste, l’inquinamento di fiumi e laghi, la dissipazione di risorse non rigenerabili, l’alterazione del clima, i danni inflitti a uomini, animali e cose. Per natura qui si intende economia, ricchezza, parte della quale addirittura misurabile in termini di PIL. Continueremo come prima? E ancora: non c’è nessun nesso tra l’iperconsumo occidentale, che vuol giungere sino alle lontane galassie, e la crescita degli indigenti nel mondo? Nessun legame tra il miliardo di affamati – gloria imperitura del capitalismo contemporaneo – recentemente censito dalla FAO e la politica di protezione agricola di USA e UE, il debito dei Paesi poveri, il dominio delle imprese occidentali nelle economie del Sud.? Continueremo come prima?
Ma oggi le risorse – su cui si fonda il consumo – appaiono sempre più limitate. Nuove frontiere, che l’Occidente aveva cancellato, si alzano a delimitarle e a difenderle. Anche i Paesi così detti in via di sviluppo ben presto pretenderanno che il loro stile di vita, come quello americano, « non sia negoziabile».E’ un mutamento di vasta portata. Ma il carattere finito del nostro Pianeta non muta, né cambia la sua natura di ecosistema complesso e vulnerabile. Perciò niente potrà più continuare come prima . E allora? Ci limitiamo a chiedere nuove regole, a invocare finalmente correttezza e un nuovo senso etico al capitalismo?
Il più grande errore politico che oggi si possa commettere è di credere che le soluzioni alla crisi presente- che non sia una semplice normalizzazione temporanea – possa venire da una cultura che la crisi ha generato e sostenuto con i suoi stessi unilaterali e fallaci fondamenti.
L'articolo è stato inviato anche a il manifesto
, autori dei due articoli gemelli,su questo sito il 3 ottobre scorso, abbiano letto il libro di Antonio Iannello, L’inganno federalista (Vivarium, Napoli, 1998), con prefazione di Giovanni Russo, pubblicato poco prima della scomparsa dell’autore. Il messaggio è lo stesso, uguale la denuncia, cioè la perdita della coscienza e dell’appartenenza nazionali, l’opportunismo delle forze politiche di fronte al federalismo fasullo. Secondo Asor Rosa, la disarticolazione e frammentazione dell’unità politica, economica, identitaria e istituzionale dell’Italia perseguita dalla Lega è, evidentemente, un processo, che però "diffonde una cultura politica e un senso comune avversi a tutte le definizioni topiche dell’essere «italiano». Il berlusconismo ingloba questa fenomenologia e la fa propria; se non altro perché al presidente del consiglio unità o non unità nazionali sono del tutto indifferenti, purché la macchina del potere resti tutta in ogni caso nelle sue mani". Per Piero Bevilacqua, il lavoro orchestrato dalle Tv Mediaset ha fatto leva sulla parte "più arcaica e anarcoide" dello spirito nazionale. E ricorda quel «particulare» che già Francesco Guicciardini aveva individuato come un tarlo nella coscienza civile degli italiani. Questa ideologia dissolvitrice ha trasformato "i cittadini in produttori e consumatori, ciascuno libero in casa propria (ma anche fuori di essa), individui solitari privati di un’idea di nazione come comunità solidale, monadi isolate, ispirate esclusivamente dalla ricerca dei propri privati interessi".
I medesimi ragionamenti, dieci anni fa, e perciò con una sorprendente lucidità e una capacità di analisi politica che pochi gli accreditavano, li formulò Antonio Iannello. Fin da quando si era delineato il movimento della Lega, Iannello era stato fra i primi, per quanto posso ricordare il primo in assoluto, a comprenderne e a denunciarne la pericolosità. I lettori di questo sito sanno chi era Antonio Iannello (Napoli, 1930-1998), architetto, dirigente del partito repubblicano e a lungo impegnato in Italia nostra, di cui fu segretario generale dal 1985 al 1990. "Un po’ guerrigliero, un po’ certosino, ogni sua battaglia è stata animata da un rigoroso senso etico a favore dell’interesse pubblico. Contro una lottizzazione abusiva o un piano regolatore che piaceva troppo agli speculatori alternava irruenza, sottigliezza giuridica e gusto della beffa": così lo ritrae Francesco Erbani nel libro Uno strano italiano. Antonio Iannello e lo scempio dell’ambiente (Laterza, 2002). E Giovanni Russo scrive nella prefazione che "battersi contro le tesi della lega, così come ha fatto contro le deturpazioni urbane e del paesaggio, diventa per lui naturale".
L’inganno federalista raccoglie gli interventi all’assemblea costituente degli oppositori all’ordinamento regionale: Francesco Saverio Nitti, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Benedetto Croce, Concetto Marchesi, Aldo Moro, Tristano Codignola, Emilio Lussu e tanti altri. Nell’ampio saggio introduttivo, Iannello riporta all’attualità il pensiero dei padri costituenti antiregionalisti, svela l’inconsistenza e i mascheramenti dei riti celtici, denunzia l’imperdonabile errore di quasi tutte le forze politiche che per compiacere la Lega si mettono in fila per partecipare allo sconquasso dell’ordinamento statale. Coglie le analogie fra il separatismo siciliano del primo dopoguerra ("una sparuta minoranza rozza, faziosa, violenta ed eversiva") e quello leghista, ma anche una fondamentale differenza "che rende ancor più incomprensibile e inaccettabile il cedimento di fronte alle proposte leghiste. Le spinte autonomiste siciliane provenivano da una realtà socialmente depressa, nella quale vigevano ancora inalterati i rapporti feudali e lo sfruttamento dei contadini. Oggi le spinte indipendentiste provengono da una delle zone più ricche del Paese e, incredibilmente, stampa e forze politiche parlano di un «malessere del nord» che non esiste, se non i termini culturali e spirituali, ma non certamente economici".
Ma la parte, secondo me, più importante del saggio introduttivo è quella in cui Iannello tratta del fallimento delle regioni, e giustamente si chiede perché si affronta la questione del federalismo senza aver sentito la necessità di fare prima un bilancio dell’azione regionale. Contesta gli argomenti di chi sostiene che i risultati deludenti dovrebbero addebitarsi al ritardo con il quale furono istituite le regioni ordinarie, chiamando in causa l’esperienza ancor più sconfortante delle regioni a statuto speciale, come la Sicilia, istituita ancora prima dell’entrata in vigore della costituzione repubblicana. Esamina in particolare i temi a lui più consueti, l’assenza della pianificazione territoriale, la "delittuosa improvvisazione" in materia di protezione del paesaggio, la mancata repressione degli abusi edilizi. E così di seguito.
Sono passati dieci anni e un bilancio rigoroso, obiettivo e approfondito dell’attività regionale, come atto propedeutico alla discussione sul federalismo, ancora non è stato fatto. Dovrebbe essere compito prioritario dell’opposizione, che invece è impegnata soprattutto nel confermare la propria acritica adesione al federalismo.
Concludo riprendendo ancora Asor Rosa: "ci vorrebbe un partito, un movimento, un'opzione al tempo stesso politica e culturale, capaci di coniugare la difesa della patria-nazione con quella degli strati più nuovi, più reattivi e più a rischio della società italiana contemporanea (…). Ma dov'è?".
Postilla: Antonio Iannello non poteva immaginare che si sarebbe arrivati al trasferimento dei poteri di tutela al comune di Roma, con tanto di benservito a quei coraggiosi soprintendenti statali che anche in tempi recentissimi hanno contrastato scempi e devastazioni. Il nuovo assessore comunale all’urbanistica ha dichiarato che bisogna accantonare l’ideologia della sacralità dell’agro romano. Ha detto proprio così. Uno spaventoso futuro incombe sulla capitale.
Il dibattito seguito alla sconfitta elettorale del 13 e 14 aprile ha avuto, tra gli altri effetti, quello di rendere di più largo dominio, e per così dire popolare, un’acquisizione che apparteneva, in verità, a pochi: la sinistra, in Italia ( come, in diversa misura, altrove) vive da decenni nel fondo di una catastrofe culturale.E’ da almeno un quarto di secolo che essa è venuta perdendo la capacità di leggere le trasformazioni del mondo attuale e di produrre saperi, valori, senso comune, in grado di orientare la propria azione, di dare prospettiva alle grandi masse popolari, ai lavoratori, ai cittadini del nostro tempo. Viviamo oggi nella parte bassa di un ciclo storico da cui si potrà riemergere in tempi non brevi e in virtù di un lavoro paziente e di lunga lena. Certo, apprezziamo gli sforzi e il lavoro di chi tenta un’opera di ricomposizione delle sparse membra della rappresentanza politica oggi in rotta.La politica vive anche di quotidiano, sotto la pressione di agende che non sempre è possibile scegliere a piacimento. Ma credo ugualmente necessario che le forze intellettuali volenterose si dispongano a una più ambiziosa progettualità, consapevoli che occorre ricostruire vecchie e nuove fondamenta a un edificio in buona parte in rovina.
Sono personalmente convinto che nella situazione presente sia di grande utilità – e che faccia anche bene al morale - distogliere lo sguardo dalle vicende del ceto politico per orientarlo verso altri ambiti di osservazione. E’ opportuno guardare alla società, con una inclinazione e una intenzionalità diversa da quanto le vicende politiche recenti ci spingerebbero a fare. A dispetto dello spettacolo inquietante fornito di recente da vari luoghi e settori della società italiana, io non credo che la « società civile globale» - di cui si discuteva sino a qualche mese fa – sia di colpo scomparsa perché l’Italia manifesta nel suo seno violente pulsioni di odio razziale et similia. E’ una novità che sgomenta, non c’è dubbio. Ma l’arretramento civile e culturale, prima ancora che politico, dell’Italia di oggi non deve farci perdere di vista il più vasto mondo in cui siamo immersi, né quella parte più o meno sommersa di realtà nazionale che non appare, non ha voce, eppure è animata dalla volontà di perseguire il bene comune, sente come propri e necessari gli ideali di solidarietà collettiva. Soprattutto non dobbiamo perdere di vista le grandi novità di fatto e potenziali che lo stesso sviluppo capitalistico ha creato e ci mette oggi a disposizione. Spesso ci accorgiamo in ritardo di quanto la «vecchia talpa» abbia scavato, creando aperture e varchi impensabili fino a poco tempo fa. Non c’è dubbio, ad esempio, che la rete costituisca oggi un inedito territorio universale di informazione, collegamento e comunicazione tra le persone e i popoli. Come ha scritto Stefano Rodotà essa costituisce “il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto”. E’ un mezzo che solo pochi decenni fa non possedevamo. E dentro di essa dobbiamo imparare a costruire presidi durevoli di conoscenza, cultura democratica, informazione non asservita ai poteri dominanti.
Ora, sono personalmente convinto non solo che l’ Italia costituisca una tessera della società civile globale in espansione, ma che essa sia contrassegnata anche da altre potenzialità nascoste. A dispetto delle apparenze, l’Italia – come del resto gran parte dei Paesi post-industriali – ospita all’interno una intellettualità di massa sconosciuta per dimensione a tutte le società del passato. Non penso solo genericamente ai “ceti riflessivi“ di cui parla Paul Ginsborg, con una definizione necessariamente ad effetto, ma che è sintomatica di una realtà effettiva per quanto difficilmente misurabile. Penso anche a quel vasto e crescente arcipelago di giovani che ha una laurea in tasca, spesso frequenta o ha concluso dottorati, Ph.d, master, ecc., ha viaggiato in Europa e nel vasto mondo, conosce una o più lingue straniere, ascolta la musica internazionale, naviga quotidianamente in Internet. Si tratta di un “popolo” particolare, che la mancanza di opportunità di lavoro spinge in una dimensione di specializzazione a oltranza, ma scaraventa al tempo stesso in un limbo di precarietà sociale, incertezza, assenza di prospettive, isolamento. Dovrebbe esser questa la futura élite intellettuale del Paese, frantumata, dispersa e delusa, che forse non troverà la collocazione professionale e dirigente a cui si era preparata. Ma sono questi, potenzialmente, i nuovi ceti colti da cui potranno nascere rappresentanze politiche rinnovate, cittadini cosmopoliti portatori di una idea più avanzata e solidale di cittadinanza. Senza dire che da qui potranno nascere nuove culture politiche, rinnovate letture del mondo attuale, inediti orizzonti teorici.
Ebbene, io credo che oggi non abbiamo altra possibilità di entrare in contatto con tale vasto e composito arcipelago, tentare di orientarlo, se non creando luoghi di comunicazione attraverso Internet. Si tratta, com’è noto, di una realtà già in atto. La diffusione dei vari siti e blog, negli ultimi anni, ha spesso corrisposto anche a tale fine. Queste nuove comunità di dialogo svolgono non solo il compito di offrire interpretazioni non conformistiche della realtà, informazione libera e disinteressata, senso di appartenenza a individui spesso isolati , ma trovano anche negli stessi lettori dei collaboratori attivi: attenti e partecipi fruitori, ma spesso e in maniera crescente, protagonisti del dibattito che tiene in vita il sito. Ora non mi sfuggono i limiti e le insidie di questa agorà mediatica. Sono noti a molti e non mi ci soffermerò. Ma se le sezioni dei partiti sono chiuse e i quartieri delle nostre città sono privi di presidi sociali e luoghi di dibattito, è certo preferibile il dialogo virtuale al silenzio.
La proposta che voglio avanzare è ispirata a una esperienza di successo: il sito eddyburg. Come ormai molti sanno, si tratta di un sito specializzato sui temi del territorio, della città e dell’ambiente. Esso svolge a mio avviso un compito importante in un Paese come il nostro, il cui habitat è così fragile e vulnerabile, un Paese così ricco di patrimoni artistici esposti, di centri storici incomparabili, e le cui classi dirigenti in fatto di ambiente, territorio, mondo naturale, sono fra le più incolte e rozze del mondo occidentale. Un sito siffatto è destinato ad accrescere la sua penetrazione e diffusione nella società italiana, perché esso mette al centro un nodo ineludibile del tempo attuale: gli equilibri ambientali, la vita urbana, gli spazi, gli assetti del territorio.
Ora, eddyburg è il frutto casuale di una iniziativa fortunata. Un urbanista, un intellettuale della cultura e passione civile di Edoardo Salzano si è votato a tale compito e ha dato vita a questo importante presidio culturale. Chi voglia, in Italia, informarsi sui problemi delle nostre città e del nostro territorio, avere una visione anche storica dei caratteri ambientali della Penisola, ha a disposizione su Internet questo patrimonio di informazione e conoscenza. Ebbene, io credo che il modello eddyburg dovrebbe esse riprodotto per altri ambiti con analogo profilo progettuale. Occorre puntare a creare dei siti “specialistici” in grado di acquistare sul campo – per la serietà e la competenze delle analisi ospitate - autorevolezza e prestigio, così da catturare un vasto e crescente pubblico. Contribuendo così anche a ridurre la dispersione e frammentazione culturale che pure la rete tende ad alimentare. Siti siffatti non debbono solo informare, ma anche formare, grazie alla ricchezza delle conoscenze offerte. E al tempo stesso porsi come istituzioni culturali e politiche autorevoli, in grado di influenzare scelte, di fare opinione. Presidi di conoscenza e informazione indipendente e dunque casematte di democrazia.
Non sono pochi, ovviamente, gli ambiti che meriterebbero di costituire l’oggetto primario di siti specialistici. In questa sede mi sento di perorare la necessità di due grandi aree tematiche da porre al centro dell’analisi e della discussione. La prima riguarda la memoria e la storia, la seconda il mondo del lavoro. Non è certo necessaria una lunga dissertazione per illustrare il rilievo politico, civile e culturale che le due questioni rivestono oggi nel nostro Paese. Per quanto riguarda la storia, proprio in Italia, negli ultimi due decenni abbiamo potuto assistere, in forma esemplare, all’uso politico più apertamente strumentale del nostro passato. Quest’uso è in parte il risultato di scorrerie dell’industria culturale, ma fa anche parte di una intenzionalità politica molto precisa: mutare la memoria antifascista dell’Italia repubblicana, togliere rilievo e significato al protagonismo popolare che sta alle origini dello Stato democratico, predisporre la coscienza del Paese a plasmazioni culturali di natura moderata. Nella fase storica in cui i partiti democratici e soprattutto quelli della sinistra storica hanno abbandonato ogni forma di pedagogia e di cura della memoria nazionale, questa rimane oggetto delle scorribande più diverse, soprattutto dei settori politici oggi dominanti, tanto più aggressivi ed onnivori quanto più le forze di sinistra appaiono moderate, remissive, dimentiche del proprio passato, quando non impegnate con zelo in un’opera di damnatio memoriae.
Ora, è giusto ricordare che l’Italia ha ancora saldi presidi che consentono lo studio, l’insegnamento, la trasmissione di una memoria storica scientificamente fondata. La scuola pubblica, l’ Università, le riviste storiche specializzate, un numero considerevole di storici di prim’ordine alimentano ricerca, dibattito e insegnamento degni di un Paese civile. E godiamo anche delle pubblicazioni di tante case editrici di cultura che tengono viva la tradizione democratica. E tuttavia oggi questo non basta. La potenza manipolativa assunta dai media in quest’ambito reclama nuovi strumenti di contrasto e soprattutto di diffusione popolare dei risultati storiografici. Non trascuro, certo, il fatto che i (pochi) giornali democratici abbiano fatto e facciano la loro parte. Ma i giornali non arrivano dovunque, e di norma sono dei fortilizi cui è negato ogni accesso al lettore, se non nella forma dimessa della letteraal direttore: qualcosa di simile alle “suppliche al re” di antico regime. E d’altra parte la storia costituisce un avamposto di egemonia sempre più importante in un mondo che non ha cessato di utilizzare l’immagine del passato come strumento di lotta politica. Aggiungo una considerazione che io ritengo capitale. La sinistra e il movimento operaio hanno oggi un compito culturale e storiografico di grandissimo impegno: quello di sottrarre il proprio glorioso e meritorio passato dall’ombra del fallimento di una esperienza storica. La riduzione di tutto il passato del movimento dei lavoratori, e della lotta politica per la loro emancipazione, alla storia dell’URSS pesa ancora come un macigno sull’immagine e la possibilitàegemoniche della sinistra attuale. Occorre dunque ricostruire l’immaginario culturale nostro passato.
Un sito che si occupa di memoria e storia, per la verità esiste già nella rete. E un buon sito, ma di modesto profilo. Io penso a qualcosa di più ambizioso. Esso dovrebbe essere pensato e diretto da storici di professione, per un largo pubblico, con articoli e saggi brevi, orientati da uno sforzo serio di alta divulgazione, ma che ospiti anche discussioni, lettere, opinioni. Potrebbe anche far posto a un archivio con saggi più lunghi e sistematici per chi voglia approfondire alcune tematiche importanti. Ma io credo che l’anima di un sito siffatto dovrebbe consistere nella sintesi di rigore e militanza: la serietà storiografica messa al servizio di un disvelamento sistematico dell’uso politico della storia che si fa quotidianamente nel nostro Paese. Mostrare come si manipola la storia e al tempo stesso cercare di ricostruire il passato dalla parte dei ceti che la storia l’hanno fatta, ma non lasciano tracce scritte, non hanno voce.
Non minore rilevanza culturale e politica riveste l’altro sito che vado proponendo. Quest’ultimo per la verità, meriterebbe ben più approfondite riflessioni di quanto si possa fare in un breve articolo. Non c’è dubbio, infatti, che le attuali gerarchie di dominio che governano il mondo e lo vanno trascinando verso squilibri sociali sempre più insostenibili si reggono su una gigantesca rimozione culturale e politica: la centralità insostituibile del lavoro umano. Viviamo in un epoca nella quale le merci sono diventate le protagoniste della storia mondiale, mentre il lavoro che le produce viene ricacciato in una sorta di purgatorio dell’irrilevanza. Su che cosa si regge l’asfissiante retorica sulle virtù salvifiche del mercato, della libera circolazione di merci e servizi, se non sul fatto che il lavoro è scomparso di scena? Non è il lavoro umano a produrre la ricchezza, ma la sua libera circolazione in forma di beni. E’ questa l’immagine del mondo che ci viene quotidianamente offerta. Non a caso, quando la libera circolazione dei lavoratori vuole imitare quella concessa alle merci, gli Stati nazionali riscoprono la realtà e l’orgoglio delle frontiere. Ma il dominio attuale del capitale sul lavoro può contare su un colossale occultamento e su una disconoscenza culturale di inusuale ampiezza. E qui credo che bisogna dirla tutta: sulla condizione attuale della classe operaia, in Italia come nel resto dei Paesi post-industriali, circola una colossale menzogna. Una fandonia diffusa in ogni cortile della vita pubblica. Oggi, infatti appare dominante, è anzi diventata senso comune, la convinzione che l’informatica, il lavoro intellettuale, le varie forme di subappalto, di esternalizzazione di settori industriali e servizi, l’apparire di nuove professioni, ecc. abbia fatto sparire dalla nostra società il lavoro manifatturiero. Come se d’improvviso fosse scomparso il lavoro di fabbrica, come se non ci fossero più uomini e donne addetti al lavoro siderurgico, meccanico, tessile, chimico, cantieristico, edilizio, agricolo. Come se fosse scomparsa la giornata lavorativa con le sue rigidità orarie, i ritmi di produttività, i tempi programmati, l’uso delle macchine,la ripetitività dei gesti e delle mansioni, il controllo dei capi, la fatica, lo stress, l’usura. Ed è davvero singolare osservare anche intellettuali di sinistra, di quelli che fanno opinione, che hanno voce sulla grande stampa, impegnati a divulgare spesso inconsapevolmente l’idea che il lavoro manifatturiero sia una realtà residuale delle società attuali. Essi scambiano l’emarginazione politica e sindacale di vasti strati operai con la loro marginalità sociale, con il loro peso effettivo nel processo di produzione della ricchezza. In realtà il rilievo assunto nel processo produttivo da nuove figure di ideatori, programmatori, manager, ecc. se ha marginalizzato il ruolo immediatamente produttivo degli operai meno qualificati non l’ha affatto sostituito. Le fabbriche continuano a produrre merci, beni che escono dalle mani di lavoratori e lavoratrici in carne ed ossa. Ed è non poco paradossale che debba essere qualche isolato giornalista a rammentarlo, come ha fatto Mario Pirani su la Repubblica del 7 e 29 luglio, su dati Edison, WTO e ONU, mostrando i colossali profitti e i successi di mercato delle imprese italiane nel mondo. Imprese manifatturiere, che si reggono sulla fatica quotidiana degli operai.
Ebbene, il compito culturale e informativo di un sito dedicato al lavoro appare evidente in tutta la sua vasta portata. Si tratta, in primo luogo, di bonificare la vasta palude ideologica in cui è stata fatta sprofondare la condizione reale di chi è inserito nel processi produttivi. Più precisamente: occorre rimettere sui piedi un mondo interamente poggiato sulla testa. E a tal fine, dunque, è necessario che il sito qui proposto, con i modi e il linguaggio della rete, faccia conoscere la composizione attuale della classe operaia, le sue culture, geografie regionali, storie ecc.. Naturalmente tutto il mondo del lavoro andrebbe rappresentato nelle sue multiformi facce e articolazioni. Avere contributi dalle varie regioni italiane, denuncie, analisi, resoconti, cronache, arricchirebbe non solo la nostra visione, anche locale del lavoro italiano, ma contribuirebbe, simultaneamente a costituire una rete di rapporti.
Esistono oggi figure, gruppi, settori del sindacato italiano che non si sono rassegnati alla burocratizzazione delle loro organizzazioni e al moderatismo subalterno che le ispira. D’altra parte l’Italia vanta sociologi del lavoro – da Gallino a Revelli – di primissimo ordine, che hanno creato tanti allievi. E sono senz’altro numerosi i giovani studiosi sparsi nella società italiana che sono esperti di tali temi e vogliosi di occuparsene. Quindi, le forze in campo esistono. Sono solo disperse
Il sito, naturalmente, dovrebbe avere ambizioni informative più alte. Potrebbe, ad esempio, assumersi il compito di informare, con servizi che si possono ricavare da altre fonti giornalistiche – come fa ottimamente eddyburg – delle lotte dei lavoratori in corso nei vari angoli del mondo. C’è un dato importante, infatti, che occorre far conoscere se vogliamo rimettere in piedi il mondo capovolto della società attuale. Non solo, oggi come ieri, sono gli operai a produrre la ricchezza di cui gode l’intera società. E quindi ad essi va riconosciuto il rilievo politico che hanno perduto. Ma bisogna rammentare che mai la classe operaia era stata tanto numerosa nel mondo quanto lo è nel nostro tempo. E quando ci accorgeremo che la globalizzazione può significare anche lotte operaie su scala mondiale, allora avremo scoperto l’altra faccia della luna. Non solo le merci sono cosmopolite, anche il lavoro può tornare a valicare le frontiere, ridiventare universale. Un nuovo ciclo storico della lotta politica può cominciare.