loader
menu
© 2025 Eddyburg
...,>>>

, avvenuto il 6 agosto, e di Nagasaki, avvenuto il 9 agosto di 69 anni fa, le due città distrutte in pochi minuti con 200 mila dei loro abitanti, dal lampo di due bombe atomiche, due ”piccole” bombe atomiche ciascuna con un potenziale distruttivo equivalente a quello di 15.000 chili di tritolo. Per chi ha venti anni oggi è un evento lontano, citato nei libri di storia, più o meno come era lontana per me, quando avevo venti anni, la prima guerra mondiale. E poi, duecentomila morti, che cosa sono mai ? abituati come siamo a sentire parlare di morti a diecine di migliaia per volta in questo o quell’altro, paese del mondo.

Ma i morti delle città giapponesi sono stati diversi, perché dovuti ad un’arma diversa dalle altre, il cui incubo non ci ha mai abbandonato, e che si riaffaccia in tutti i conflitti a cui assistiamo tutti i giorni. Pensiamo a quello fra Israele e la Palestina, con razzi che si avvicinano alla città segreta di Dimona nel deserto dove vengono fabbricate le bombe nucleati israeliane; ai conflitti sui territori di confine fra India e Pakistan, tutti e due dotati di bombe nucleari; alle contese fra Cina e India, tutti e due dotati di armi nucleari, per il controllo delle acque del Brahmaputra; a controversie fra le tre grandi potenze nucleari, Stati Uniti, Russia e Cina, per il controllo di qualche territorio o di qualche materia prima in qualche parte del mondo.

Nonostante gli accordi per la diminuzione degli arsenali nucleari, le bombe nucleari ancora presenti nel mondo sono oltre 15.000, con potenze distruttive che arrivano a valori equivalenti a quelli di alcuni milioni di tonnellate di tritolo. Ancora più preoccupanti sono le possibili conseguenze ambientali di uno scambio, anche limitato, di bombe nucleari fra due stati. Dal 1948, quando Stati Uniti e Unione Sovietica hanno cominciato ad avvertirsi reciprocamente, con esplosioni nell’atmosfera, sui deserti o negli oceani, della potenza delle proprie bombe nucleari, prima a fissione e poi a fusione (le bombe H), l’opinione pubblica è stata dibattuta fra tre alterne posizioni.

La credenza che un bombardamento nucleare avrebbe posto fine vittoriosamente a qualsiasi conflitto, una credenza alimentata da quello che Eisenhower, un presidente degli Stati Uniti, definì, nel 1961, il complesso militare-industriale, che fa soldi fabbricando e vendendo armi. Il demone della tentazione di ”vincere” una guerra o di fermare un conflitto con qualche bomba atomica non ha mai abbandonato la mente dei più oltranzisti vertici militari di molti paesi. Altri credono che basti il possesso di armi nucleari per dissuadere qualsiasi altro paese ad usare a sua volta le proprie, la insensata teoria della “deterrenza”. Per fortuna un’altra parte (anche se limitata) dell’opinione pubblica è consapevole del pericolo anche solo dell’esistenza delle armi nucleari.

Una parte degli scienziati che conoscono i caratteri e le conseguenze delle bombe nucleari è stata attiva nel denunciarne i pericoli e ha ispirato vari libri e film. Fra questi ultimi si possono ricordare “L’ultima spiaggia”, diretto nel 1959 da Stanley Kramer, che descrive un paese in cui, dopo un “accidentale” scambio di bombe nucleari, sta arrivando la morte per la radioattività che ha già estinto la vita nel resto del pianeta; sono del 1964 i due film “A prova di errore”, di Sidney Lumet, in cui le capitali Washington e Mosca sono distrutte perché i bombardieri nucleari sono sfuggiti a qualsiasi controllo, e “Il dottor Stranamore”, di Stanley Kubrik, in cui uno scienziato psicopatico vuole, e riesce a, distruggere il “nemico”, e insieme il mondo, con la “sua” bomba H. Il film “Il giorno dopo”, del 1983, mostrava come diventerebbe il mondo in seguito all’esplosione di bombe nucleari.

Intanto, a partire dal 1980, vari gruppi di studiosi hanno messo in evidenza che l’eventuale esplosione di bombe nucleari non solo immetterebbe nell’atmosfera grandi quantità di elementi radioattivi che ricadrebbero nelle acque degli oceani e sulle terre emerse, contaminando la vegetazione, gli animali, le acque dei fiumi e dei pozzi, ma provocherebbe anche vasti incendi e farebbe sollevare dal suolo grandi masse di fumi e polveri che oscurerebbero il cielo filtrando una parte dei raggi solari; la temperatura del pianeta si abbasserebbe provocando un lungo e freddo “inverno nucleare”, con minori raccolti agricoli e con la diffusione della fame fra i sopravvissuti all’effetto diretto delle bombe. Il contrario del “riscaldamento” della Terra con cui stiamo facendo i conti adesso, dovuto all’inquinamento atmosferico e che provoca piogge torrenziali e siccità.

Alla fine di ogni anno l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva, sostenuta della maggioranza dei paesi, una mozione che chiede l’eliminazione di tutte le armi nucleari e ogni anno la sua attuazione viene bloccata. Il film “L’ultima spiaggia” finisce con l’immagine di una città senza vita in cui sventola uno striscione con su scritto: “C’è ancora tempo, fratelli”: è vero, “saremmo” ancora in tempo, se volessimo, ad evitare catastrofi nucleari ambientali e umane.

Questo articolo è inviato contemporaneamente alla Gazzwtta del Mezzoiorno

A che serve questa Europa? Ce lo siamo chiesti in tanti, in questi ultimi anni, nei momenti di scoramento, di fronte all'ottusa rigidità >>>

A che serve questa Europa? Ce lo siamo chiesti in tanti, in questi ultimi anni, nei momenti di scoramento, di fronte all'ottusa rigidità con cui i vertici di Bruxelles affrontano i problemi economici e finanziari dell'Unione sotto l'imperversare della crisi. Ce lo siamo chiesto di fronte all'atteggiamento della Germania, che torna a perseguire con altri mezzi una politica di supremazia, nonostante abbia alle spalle la disfatta di due guerre mondiali, la responsabilità recente del più grande massacro dello storia. Continuiamo a chiedercelo avendo rinunciato alla moneta e a tanta parte della nostra sovranità nazionale, senza aver conseguito un più solidale e includente governo del Continente. Ma in questi giorni torniamo a chiedercelo per una ben più tragica ragione. L'impotenza, peggio l'indifferenza, dei gruppi dirigenti dell'UE, ragionieri ingobbiti a fare i conti del PIl, di fronte al massacro del popolo palestinese.Non una parola, una proposta, un tentativo di soluzione è stato balbettato dagli uomini di stato dei vari paesi europei, che da decenni tengono in deposito i loro cervelli presso la Segreteria di Stato di Washington. Ma non sono sufficienti i mille morti di Gaza, in grandissima maggioranza civili incolpevoli, fra cui tante donne e bambini, per sollevare gli occhi dagli affari e guardare in faccia la tragedia ? A che serve questa Europa senza pietà?

Angelo D'Orsi ha denunciato con giusto sdegno il silenzio e il “rovescismo” degli intellettuali (Manifesto del 23/7 ), su cui pesano gravi responsabilità, avendo il compito di spiegare le ragioni complesse del conflitto. Ma anche le opinioni pubbliche del Vecchio Continente appaiono come narcotizzate. Gli europei osservano in TV le immagini del massacro – quelle pietosamente depurate da ciò che è inguardabile – le case distrutte, le donne vestite di nero pietrificate dal dolore, i bambini sanguinanti tra le braccia dei padri disperati. E tacciono. Che cosa è accaduto? Quale sguardo di medusa ha gelato le loro menti? A che serve questa Europa?

Forse una parziale spiegazione è alla nostra portata. I dirigenti di Israele sono riusciti a imporre grazie ai media occidentali – rare volte capaci di una parola di verità – l'immagine di un conflitto alla pari, di due contendenti in lotta con uguali torti e ragioni. Addirittura la propaganda militare dell'esercito israeliano viene trasformata in verità autorevole da prestigiosi intellettuali, i quali, per mestiere, dovrebbero pensare alle parole prima di liberarle nell'aria. In una intervista apparsa su Le Figaro e ripresa da La Repubblica (27 luglio) il filosofo francese Alain Finkielkraut rammenta che «se la civiltà dell'immagine non stesse distruggendo la comprensione della guerra, nessuno sosterrebbe che i bombardamenti sono rivolti contro i civili. No, gli israleiani avvertono gli abitanti di Gaza dei bombardamenti che stanno per fare». Siamo dunque ai bombardamenti umanitari.

Nessuna considerazione per la distruzione delle case di tanta misera gente, delle infrastrutture idriche, delle strade, degli elettrodotti, delle scuole, degli ospedali, del poco bestiame, dei poveri orti. Nessun rammarico per centinaia di migliaia di esseri umani gettati in pochi giorni in una distesa informe di rovine. Ma il filosofo non sa e probabilmente non vuol saper che gli sms annunciano i bombardamenti con pochi minuti di anticipo, che spesso le famiglie sono immerse nel sonno, che i bambini dormono ignorando la ferocia degli adulti e tardano a svegliarsi, che i disperati non sanno dove rifugiarsi una volta lasciate le loro case. E tuttavia il filosofo ha una risposta a questa obiezione: «e quando mi dicono che queste persone non hanno un posto dove andare, rispondo che i sotterranei di Gaza avrebbero dovuto esser fatti per loro. Oggi ci sono delle stanze di cemento armato in ogni casa d'Israele».

A che serve questa Europa se i suoi intellettuali si mettono il doppiopetto di tanta incosciente ferocia? Forse qualcuno dovrebbe ricordare a Finkielkraut un po' di storia. Dovrebbe ricordare che i palestinesi non sono un moderno stato, come Israele, dotato di uno dei più efficienti eserciti del mondo, sostenuto con ingenti aiuti da tutto l'Occidente.Sono un popolo disperso di rifugiati, cacciati dalle loro terre, perseguitati talora dai popoli vicini, umiliati dalla violenza quotidiana dell'occupante. I tunnel sotterranei sono serviti ai palestinesi per ricevere cibo e medicinali e per attivare un mercato clandestino, visto che ben presto Gaza è stato trasformata dai governanti israeliani nel più grande ghetto della nostra epoca. Certo, anche le armi passano nei sotterranei, ma ci si può stupire di questo? Israele dispone di un armamento atomico e si levano strida al cielo perché gruppi e fazioni di un popolo martoriato da otre 60 anni tenti la carta disperata delle armi? I palestinesi dovevano dunque investire in bunker per difendersi dall'immancabile castigo dal cielo, dal mare e dalla terra come già è accaduto con la carneficina della campagna “ piombo fuso” del 2008/09 ?

Con quale onestà, con quale dignità intellettuale si possono mettere sullo stesso piano due opposti estremismi? Possibile che nessun commentatore, nessun giornalista ricordi che sono stati i governanti di Israele, è stato Ariel Sharon a lavorare alacremente per sconfiggere l'Autorità Nazionale Palestinese e gettare il popolo palestinese in braccio ad Hamas ? Chi ha disfatto gli accordi di Oslo, chi ha inaugurato la pratica di sparare dal cielo con gli elicotteri Apache e con i caccia F-16, chi ha esteso gli insediamenti dei coloni nei territori palestinesi, chi ha avviato nel 2002 la costruzione del “muro di sicurezza” in Cisgiordania, chi ha risposto ad ogni provocazione terroristica proveniente da Hamas con una violenza dieci volte superiore, ma rivolta contro le forze e gli edifici di Yasser Arafat? Chi ricorda le immagini del vecchio leader umiliato davanti al suo popolo, reso impotente agli occhi del mondo, rifugiato nelle rovine del suo quartier generale nel settembre del 2002? Chi ricorda le cronache quotidiane di quell'inizio di millennio con l'altalena di attentati terroristici da una parte – che sembravano ispirati dallo stesso Israele, tanto gli tornavano vantaggiosi - e bombardamenti arei, la “punizione esemplare” dall'altra ?

Sharon e la destra israeliana hanno perseguito sistematicamente la distruzione delle rappresentanze moderate del popolo palestinese per far trionfare l'estremismo indifendibile di Hamas. Come avrebbe potuto questa formazione vincere le elezioni del gennaio 2006, se non dopo l'umiliazione di un intero popolo, se non dopo che Israele ha mostrato ad esso che le politiche di mediazione dell' ANP non portavano a nulla? Ma questo è uno dei maggior delitti compiuti dai governanti israeliani negli ultimi anni: l 'avere fatto identificare agli occhi del mondo i diritti violati e le immani sofferenze di un popolo con le velleità impotenti di Hamas. A che serve questa Europa se i suoi intellettuali non sanno pensare con sguardo storico, se si fermano all'oggi, se non gettano luce sulle cause vicine e lontane dei problemi, se sono così proclivi a credere alla favola del lupo, costretto a bere l'acqua sporcata dall'agnello?

Guardando al mondo dissipatore e violento costruito dai potenti negli ultimi decenni, George Steiner si è lasciato sfuggire, pochi anni fa, un timore apocalittico. «Può darsi - ha scritto – che tutto finisca in un massacro». Un bagno di sangue generale e definitivo. A questo desolato timore noi oggi, di fronte al deserto morale di un intero continente, possiamo associare una eventualità certa: in quel caso gli intellettuali europei, prima di sparire, troveranno una rassicurante spiegazione per tutto. A che serve questa Europa?

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto

Anche in Ita­lia la Grande Crisi è finita. Da qual­che tempo viviamo una nuova fase. Oggi siamo alle prese con gli effetti della poli­tica eco­no­mica>>>

Anche in Ita­lia la Grande Crisi è finita. Da qual­che tempo viviamo una nuova fase. Oggi siamo alle prese con gli effetti della poli­tica eco­no­mica della Ue, che ha tra­sfor­mato la tur­bo­lenza finan­zia­ria esplosa nel 2008 in una guerra sociale con­tro i paesi in dif­fi­coltà. Eppure si può trarre un primo bilan­cio som­ma­rio dei risul­tati poli­tici che essa ha pro­dotto e con­ti­nua a pro­durre. Parlo di risul­tati poli­tici e mi limito alle forze poli­ti­che della sini­stra. Non getto nep­pure uno sguardo al fondo della società che la sini­stra tra­di­zio­nal­mente rap­pre­senta e difende: classe ope­raia, ceti medi, mondo della scuola e dell’Università, lavo­ra­tori intel­let­tuali. Qui gli arre­tra­menti sono pro­fondi e gene­ra­liz­zati. Basti pen­sare all’allungamento dell’età della pen­sione, all’inferno degli eso­dati, al dato stu­pe­fa­cente di 6 milioni di poveri asso­luti da poco cen­siti dall’Istat, basti ricor­dare che quasi un gio­vane su due non ha lavoro. Per bre­vità nep­pure un cenno al sin­da­cato, alla Cgil, un pachi­derma che si è defi­ni­ti­va­mente addor­men­tato.

È sul piano poli­tico, delle for­ma­zioni della sini­stra, che voglio pun­tare lo sguardo. Non doveva essere la Grande Crisi, uno dei più cla­mo­rosi fal­li­menti del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo, occa­sione di cre­scita delle forze poli­ti­che anta­go­ni­ste, di rior­ga­niz­za­zione del fronte alter­na­tivo? Non ha mostrato e non con­ti­nua a mostrare il neo­li­be­ri­smo di essere, con le sue ricette dog­ma­ti­che, il motore che ali­menta le tur­bo­lenze finan­zia­rie e le disu­gua­glianze distrut­tive del tes­suto sociale e della stessa sta­bi­lià eco­no­mica?

Dun­que una sta­gione di pos­si­bi­lità per la sini­stra, che doveva con­qui­stare masse sem­pre più deluse e impau­rite con la forza per­sua­siva del pro­prio diverso rac­conto. Non è andata così. Con ogni evi­denza le varie for­ma­zioni dello schie­ra­mento mul­ti­forme che con­ti­nuiamo a chia­mare sini­stra sono uscite tutte ridi­men­sio­nate, inde­bo­lite o pro­fon­da­mente tra­sfor­mate. Sel alle ultime ele­zioni del 2013 si è atte­stata al 3,20%; Rivo­lu­zione civica, che incor­po­rava Rifon­da­zione comu­ni­sta, al 2,25%. Da qual­che mese il Pd — che certo molto par­zial­mente poteva essere anno­ve­rato nell’area della sini­stra — è diven­tato un par­tito popu­li­sta, coman­dato da un capo. Un capo che mira a cam­biare, d’accordo con la più squal­lida destra che mai abbia cal­cato la scena poli­tica repub­bli­cana, la forma dello stato democratico.

Dun­que, sul piano dell’allargamento del con­senso, da que­sti anni, che pure sono stati di mobi­li­ta­zione e di lotte, di qual­che bat­ta­glia vinta (refe­ren­dum sull’acqua pub­blica), risul­tati più miseri non pote­vamo rac­co­gliere. Senza il 4% della lista «L’altra Europa con Tsi­pras» saremmo al disa­stro. Per dirla con una frase fol­go­rante di Paso­lini.

Ebbene, io credo che tali esiti dovreb­bero costi­tuire oggi il cen­tro della rifles­sione di tutti i pro­ta­go­ni­sti della scon­fitta. Usiamo la parola neces­sa­ria. Scon­fitta. Un punto di par­tenza impre­scin­di­bile per assi­cu­rare un avve­nire pos­si­bile alla sini­stra ita­liana, a una forza di oppo­si­zione in grado di affron­tare le sfide duris­sime che si annun­ciano all’orizzonte. Sapendo che, se passa la nuova legge elet­to­rale in discus­sione in Par­la­mento, l’irrilevanza isti­tu­zio­nale attende buona parte di quel che resta dello schie­ra­mento di sini­stra.
Che cosa è acca­duto? Per­ché il con­senso elet­to­rale desti­nato alle forze di sini­stra è andato al Movi­mento 5 Stelle o all’astensione? Natu­ral­mente non basta una revi­sione cri­tica delle cam­pa­gne elet­to­rali. Occorre rimet­tere in discus­sione espe­rienze del pas­sato, assetti, stra­te­gie, forme di orga­niz­za­zione, stili di lavoro. Io credo che il dibat­tito aperto dall’ «Altra europa per Tsi­pras» – ma anche la discus­sione su que­sto gior­nale, cui ha dato un ulte­riore con­tri­buto Asor Rosa il 19 luglio — dovrebbe essere accom­pa­gnato da «un’azione paral­lela» che io defi­ni­rei senza tanti giri di parole, di ver­tice. Credo nella neces­sità di ristretti tavoli di lavoro nei quali si stu­dino forme pos­si­bili di nuove archi­tet­ture uni­ta­rie delle forze della sini­stra. I pic­coli par­titi sono bloc­chi di potere, neces­sa­ria­mente pru­denti e timo­rosi. Non si sciol­gono senza trat­ta­tive che ne sal­va­guar­dino il patri­mo­nio, i legami sociali. Tale strada non è in con­trad­di­zione con le pro­spet­tive di una for­ma­zione poli­tica che non ras­so­mi­gli ai vec­chi par­titi, che si fondi sulla par­te­ci­pa­zione dal basso, ma è meto­do­lo­gi­ca­mente un momento d’avvio inag­gi­ra­bile. Ci vuole sem­pre un punto d’appoggio per rove­sciare il mondo. E que­sto non può essere il magma delle assem­blee, che sono la ric­chezza della demo­cra­zia, dove si accende il fuoco delle idee, ma che poi devono soli­di­fi­carsi in strut­ture in grado di ren­dere per­ma­nente la mili­tanza poli­tica.
La lista dell’«Altra europa» non sarebbe mai sorta senza l’iniziativa dall’alto di un gruppo di pro­mo­tori. E l’assemblaggio delle varie forze, il nome di Tsi­pras, hanno dato al pro­getto un con­te­ni­tore cre­di­bile che ha mobi­li­tato le forze ren­dendo pos­si­bile il suc­cesso. Lo sforzo di dise­gnare le forme di un’ampia aggre­ga­zione uni­ta­ria risponde anche a tale scopo: susci­tare ener­gie, dare ai con­flitti in atto o atti­va­bili una pro­spet­tiva poli­tica dure­vole e inclu­dente.
Negli ultimi anni abbiamo esal­tato «Occupy Wall Street» o le acam­pa­das dei gio­vani madri­leni. Col sot­tin­teso che in Ita­lia siano man­cate le lotte. Non è così: le lotte sono state innu­me­re­voli, aspre, su tutte le lati­tu­dini della peni­sola e hanno coin­volto gli ope­rai, i disoc­cu­pati, gli stu­denti, gli inse­gnanti, i ricer­ca­tori, i senza casa. Quel che è man­cato - e crea alla fine stan­chezza, ras­se­gna­zione e fuga - è stata una forza uni­ta­ria che facesse da col­lante gene­rale, da con­ti­nua­tore isti­tu­zio­nale della spinta par­tita dal basso. Oggi l’assenza di un tale sog­getto e di una tale pro­spet­tiva è alla base dell’inerzia e della ras­se­gna­zione che si respira in giro.
Eppure, mal­grado tutto, la pro­spet­tiva per la sini­stra rimane aperta. Obbli­ga­to­ria­mente aperta. E occorre un senso di respon­sa­bi­lità assai ele­vato da parte di tutti. Di una cosa infatti si può essere certi: alla ripresa autun­nale nes­suno dei gravi pro­blemi eco­no­mici e sociali che stanno logo­rando il paese sarà atte­nuato. Gli ultimi segnali anzi lasciano pre­sa­gire un ulte­riore peg­gio­ra­mento. Non mi rife­ri­sco ai recen­tis­simi dati sulla pro­du­zione indu­striale in calo e sul ral­len­ta­mento dell’economia tede­sca. È stata la Banca d’Italia ad annun­ciare che nel 2014 la disoc­cu­pa­zione in Ita­lia ha toc­cato il ver­tice uffi­ciale del 12,8% e che nel 2015 cre­scerà ancora, al 12,9%. Nel frat­tempo, udite, udite, il debito pub­blico ha toc­cato a luglio il nuovo record di 2.160 miliardi con un aumento di 96 miliardi dall’inizio dell’anno. Dun­que alla ripresa autun­nale gli ita­liani tro­ve­ranno ulte­rior­mente aggra­vate le loro con­di­zioni: immu­tata e forse cre­sciuta la pres­sione fiscale, sem­pre più estesa la man­canza di lavoro. E nuovi comuni fini­ranno nel frat­tempo in dis­se­sto. Sia che Renzi « faccia - come parla chiaro il lin­guag­gio dei tempi! – la riforma isti­tu­zio­nale, sia che non ce la fac­cia.
Il senso di una con­ti­nuità verso il peg­gio sarà visi­bile a tutti. Basta del resto osser­vare il mini­stro dell’Economia Padoan. Come prima Monti e poi Sac­co­manni, egli non è il tito­lare di un dica­stero, in grado di per­se­guire una poli­tica eco­no­mica auto­noma, di mobi­li­tare inve­sti­menti pub­blici, age­vo­lare il cre­dito. Più mode­sta­mente è un bro­ker che pen­dola tra Bru­xel­les e Roma, cer­cando di mediare tra gli inte­ressi del suo paese e il Castello della Grande Orto­dos­sia dell’Unione.
C’è dell’altro. Agli occhi degli ita­liani la con­ti­nuità verso il peg­gio appa­rirà da un ulte­riore dato.
L’alleanza con Ber­lu­sconi non è più un fatto tran­si­to­rio. È diven­tato un assetto sta­bile del potere poli­tico. E non è vero che la recente asso­lu­zione del boss di Arcore nel pro­cesso Ruby raf­forzi l’alleato Renzi. In quella fac­cenda nes­sun ita­liano crede all’innocenza di Ber­lu­sconi, come non può cre­dere alla nipote di Muba­rak. Al con­tra­rio mol­tis­simi nostri con­na­zio­nali comin­ciano a con­vin­cersi che la «rina­scita» di Ber­lu­sconi possa essere l’esito mediato di sor­didi scambi e patti segreti con Renzi. E comun­que il cava­liere bianco, che doveva rot­ta­mare la vec­chia poli­tica, sem­pre più appare come il capo di una casta che si è rifatta il trucco, utile a sal­vare un noto cri­mi­nale da una con­danna, ma che con­ti­nua a por­tare danni e dispe­ra­zione sociale al paese. Dal cilin­dro di Renzi non escono più coni­gli. E oggi gli ita­liani non pos­sono più guar­dare a Grillo per gri­dare il loro sde­gno o per cer­care una prospettiva.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto

Caro Ministro Lupi, sollecitato dal suo invito a partecipare a una consultazione pubblica nel sito del Ministero da lei presieduto, mi permetto di esprimere il mio pensiero >>>

Caro Ministro Lupi,

sollecitato dall'invito a partecipare a una futura consultazione pubblica sul suo disegno di legge "Principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana", mi permetto, in anteprima, di esprimere il mio pensiero. Dopo avere letto, con una certa condivisione, nel primo articolo che "il governo del territorio consiste nella conformazione, nel controllo e nella ge­stione del territorio, quale bene comune di carattere unitario e indivisibile", sono stato insospettito dal fatto che lo stesso articolo recita che "le politiche del «governo del territorio» garantiscono la graduazione degli interessi in base ai quali possono essere regolati gli assetti ottimali del territorio e gli usi ammissibili degli immobili."

Di quali interessi si tratta? Il testo del disegno di legge lo chiarisce oltre ogni ragionevole dubbio: sono gli interessi dei proprietari immobiliari che devono essere tutelati, sostenuti e promossi dagli enti locali, che - volenti o nolenti - devono assecondarli con accordi fuori o dentro gli strumenti urbanistici. Di più: al di là delle petizioni di principio, appare con tutta evidenza che il disegno di legge considera il territorio come supporto neutro e indifferenziato per l'attività edilizia; di fatto, l'articolato non si occupa di paesaggio, ambiente, territorio, intesi come patrimonio della collettività ma di quanta volumetria vi si possa spalmare, in forma di espansione urbana (soprattutto) o di "rinnovo urbano", quest'ultimo usato come un grimaldello per aggiungere metri cubi a metri cubi. Che questa sia la finalità del legislatore Lupi, che non vorrei avesse come modelli culturali di riferimento le imprese dei vari Ligresti, Zunino e simili gentiluomini operanti nella sua Milano, è chiarito già al comma 4 dello stesso primo articolo su "oggetto e finalità della legge: "Ai proprietari degli immobili è riconosciuto, nei procedimenti di pianificazione, il diritto di iniziativa e di partecipazione, anche al fine di garantire il valore della proprietà".

Questo è il primo obiettivo della Legge; il secondo, complementare, è di sottoporre alla regia e ai voleri dello Stato (leggi: Governo) le eventuali Regioni che andassero contro corrente o reclamassero l'esclusività delle competenze in materia di pianificazione urbanistica; la legge introduce, infatti, un misterioso strumento di promulgazione statale, la Direttiva Quadro Territoriale (DQT), che "garantisce l’espressione della domanda pubblica di trasformazione territoriale che la pianificazione paesaggistica deve contemplare" Sì, avete capito bene: la DQT garantisce che la "domanda pubblica di trasformazione territoriale" (cioè alta velocità, grandi opere, e perché no, tutte le operazioni private battezzate in qualche modo di interesse pubblico) non sia ostacolata da fastidiosi intralci, come, ad esempio, i piani paesaggistici: con un rovesciamento dei valori e delle finalità sanciti nella Costituzione vigente che, non a caso, il duo Renzi-Berlusconi vuole stravolgere in senso autoritario.

E via via nell'articolato della legge è un crescendo di disposizioni dove l'urbanistica è intesa come contrattazione dei metri cubi con l'iniziativa privata: "La legge regionale determina per ogni ambito territoriale unitario ... i limiti di riferimento di densità edilizia" (art. 6). "Nell’ambito della formazione del piano operativo, i privati possono presentare proposte per operazioni di trasformazione urbanistica.... Le proposte, corredate da progetti di fattibilità, si intendono come preliminari di piani urbanistici attuativi" (art. 7). "La disciplina della conformazione della proprietà privata... rispetta il principio di indif­ferenza delle posizioni proprietarie". "Le operazioni di rinnovo urbano possono essere realizzate anche in assenza di pianificazione operativa o in difformità dalla stessa, previo accordo urbanistico tra Comune e privati interessati dalle operazioni" (art. 16). Fa da corollario l'abolizione degli standard di legge del DM 1444 del 1968, evidentemente per ridurne la quantità minima obbligatoria, dato che nessuno ne impedisce una dotazione più generosa.

Il tutto in un testo che in non poche parti appare confuso e contraddittorio, ma da cui scompare non solo il governo del territorio "in tutte le sue componenti, culturali, ambientali, naturali, paesaggi­stiche, urbane, infrastrutturali" (art. 1), ma scompare anche la stessa urbanistica; l'evidente paradosso è che una legge che vorrebbe essere di modernizzazione non solo è culturalmente più arretrata della storica legge 1150 del 1942, ma sembra un tragicomico ritorno agli anni '50 e '60. E' cieca e sorda al fatto che "lo sviluppo" e la "competizione urbana" in Europa, nel 2014, si gioca sulla valorizzazione dell'ambiente, del paesaggio, della qualità della vita, sul risparmio di suolo (per incentivare il quale la legge - udite udite - propone di diminuire gli oneri di urbanizzazione a chi costruisce con maggiori densità).
Nella legge del Ministro Lupi i veri protagonisti sono i diritti edificatori creati artificiosamente attraverso i principi di indifferenza, perequazione, compensazione e premialità (gli enti pubblici possono attribuire agli attori della riqualificazione urbana ulteriori metri cubi). Diritti edificatori che volteggiano sul territorio per atterrare dove proprietari e Comuni si mettano d'accordo. Un ulteriore corollario: gli enti locali dovranno adeguare i loro strumenti urbanistici, in sostanza rifarli ex novo, sulla base di una disciplina paesaggistica e alla nuova legge fra loro conflittuali nella sostanza e incompatibili da un punto di vista giuridico.

Mi permetto, in conclusione, di dare un consiglio al Ministro Lupi. Getti il suo disegno di legge nel cestino della carta straccia. Si ispiri a delle buone leggi regionali di vero "governo del territorio", ad esempio al disegno della nuova legge toscana. Sostituisca o integri il team che ha formulato la Legge, composto quasi esclusivamente di avvocati e di esperti di diritto con qualche vero urbanista, oltre al buon Franceso Karrer, in questi giorni da lei nominato Commissario dell'Autorità portuale di Napoli. E per gli amici di eddyburg un invito: partecipate numerosi alla consultazione promossa dal Ministro. Sperando che qualcuno nel governo si ravveda: il governo del territorio non è cosa che riguardi solo il Ministro delle Infrastrutture. Rifiutare la legge Lupi - più ancora che l'articolato principio che lo ispira, la sacralizzazione di un diritto edificatorio ubiquitario - non è di "sinistra" o di ispirazione ambientalista, ma solo mossa di buon senso: vale a dire essere consapevoli che garantire e cristallizzare la rendita immobiliare e pensare all'edilizia come propellente dell'economia è quanto meno di moderno e intelligente si possa fare in un paese dove (dati ISPRA 2013) si consumano annualmente quasi 22.000 chilometri quadrati di suolo. Ma evidentemente per Lupi e Co questo non è ancora sufficiente.

Riferimenti
Si veda su eddyburg: Riforma urbanistica: una proposta preoccupante di Mauro Baioni

Una settimana fa, l'annuale appuntamento del festival della regina viarum , "Dal tramonto all'Appia" >>>

Una settimana fa, l'annuale appuntamento del festival della regina viarum, "Dal tramonto all'Appia", ha vissuto una tappa di straordinaria importanza: dopo anni di restauri, l'intera tenuta di Santa Maria Nova, di proprietà privata fino al 2006, anno di acquisizione da parte della Soprintendenza Archeologica di Roma, è ritornata ad essere uno spazio pubblico aperto a tutti, cittadini e turisti. E che spazio pubblico: siamo al V miglio, all'altezza del tumulo degli Orazi e Curiazi, dove accanto al basolato di 2300 anni fa sorge un casale di impianto romano, con ampliamenti medioevali e rinascimentali, immerso in 4 ettari di agro romano contigui all'area archeologica della Villa dei Quintili.

Le ricerche archeologiche svolte in questi anni, anzi, hanno rivelato che, con forte probabilità, quest'area era anch'essa parte della stessa enorme proprietà confiscata da Commodo per impadronirsi di uno degli edifici più belli e grandiosi di Roma.
E intorno, per tre quarti del giro d'orizzonte, la campagna romana, intatta, come doveva essere quando i pretoriani dell'imperatore (sì, proprio quello del Gladiatore) la frequentavano per rilassarsi nelle terme ritrovate e restaurate a pochi passi dal casale di Santa Maria Nova.

Già questo sarebbe bastato per una festa in grande stile, ma in più, per celebrare questo momento, la Soprintendenza Archeologica ha organizzato una serie di concerti, accanto ai luoghi restituiti al pubblico godimento. Per ore, fino oltre la mezzanotte, una lunga fiumana di persone ha passeggiato lungo i sentieri che collegano le due tenute - Quintili e Santa Maria Nova, quasi 30 ettari complessivi, ora finalmente riunite - e ballato sulle note delle musiche popolari, visitando, in sovrappiù, il neonato "Giardino dei Patriarchi", con i cloni, messi a dimora all'ombra dei ruderi romani, dei grandi alberi monumentali provenienti da tutte le regioni italiane.

Sono serviti anni e sforzi di ogni tipo per raggiungere questo obiettivo, ma il risultato è commovente nella sua grandiosa bellezza, ancora più preziosa perchè destinata a tutti. E perchè si tratta solo di una tappa di un lungo, tenacissimo percorso che, negli anni, ha portato a conquistare, sulla regina viarum, passo a passo, metro a metro, monumenti e spazi pubblici, da Cecilia Metella a San Nicola a Capo di Bove, a intraprendere e coordinare dozzine di campagne di scavo, ad aprire antiquaria e luoghi di loisir, a restaurare il basolato e centinaia di reperti archeologici: tutto sotto l'etichetta della Soprintendenza Archeologica dello Stato.
Che, en passant, si è anche occupata del problema dei condoni edilizi (una piaga che amareggiò Antonio Cederna per decenni) e, in generale, dei mille problemi di tutela con pochi mezzi e pochissimo personale (bello tosto, però!).

La curiosità è che la Soprintendenza non è l'unico ente pubblico che opera su quest'area: dal 1989 esiste anche un Parco Regionale, per sublime stravaganza non archeologico.
Antonio Cederna che pure avrebbe voluto altro per la sua strada, divenutone primo Presidente, trascorse i suoi ultimi anni di vita nel disperato e vano tentativo, puntualmente illustrato nei suoi struggenti articoli, di trasformare il Parco in uno strumento di qualche efficacia e seppur debole operatività per la tutela dell'Appia. Alla fine, con onestà, ne denunciò, all’allora Ministro Veltroni, l’inadeguatezza.
Dopo di lui, il nulla: sancito anche per legge, quando, con l'avvento del Codice dei Beni Culturali nel 2008, gli strumenti regolatori del Parco, mai emanati, sono stati definitivamente superati dalla pianificazione paesaggistica.

Per una miracolosa congiuntura astrale, mentre il Parco entrava definitivamente in una spirale involutiva, lo stesso anno della scomparsa di Cederna, il 1996, l'Appia veniva affidata a Rita Paris, l'attuale responsabile della regina viarum per quanto riguarda la Soprintendenza Archeologica: a lei si deve, in estrema sintesi, se l'altra sera, a Santa Maria Nova, abbiamo potuto esclamare, con infinita soddisfazione: ecco, questo è lo Stato sull'Appia.

Dall'altro lato, il Parco non è mai riuscito a costruire, in 25 anni, una riconoscibile presenza operativa, e ancor meno una sana collaborazione istituzionale per migliorare il controllo del territorio e la repressione di abusi di ogni tipo. Così, mentre ad esempio il traffico, come sa ogni cittadino romano, è aumentato sempre più con grave danno dei monumenti e della vivibilità, gli obiettivi del Parco si sono concentrati (ed esauriti) nello studio del trifoglio cornuto e in qualche scampagnata assistita o poco più.
Nonostante ciò, l'Appia, da più di 15 anni a questa parte, è diventata un luogo di eccellenza, caratterizzato nel tempo da una faticosissima, ma continua espansione di spazi pubblici della qualità più alta, quella che possiede il nostro patrimonio culturale e paesaggistico.
In totale controtendenza con quanto accade per lo più nel resto del paese.
Merito di passione e competenze, certo, ma anche e soprattutto di una capacità progettuale di primissimo piano, quella della Soprintendenza, ispirata ad una visione di ampio respiro e in grado di pianificazioni complesse, basate su di un uso molto più che intelligente delle pochissime risorse disponibili: insomma, con i fichi secchi, qui sull'Appia sono riusciti a fare il banchetto di Sardanapalo.

Ovviamente, dopo simili successi, gli autori sono stati premiati, portati ad esempio e dotati di maggiori risorse e ...
No, purtroppo questo non è il finale di questa storia, almeno non ancora.

Al contrario, è accaduto che la Società Autostrade, universalmente nota, come ognun sa, per le molteplici attività di tutela e valorizzazione del paesaggio, abbia presentato, negli scorsi mesi, un progetto per la 'valorizzazione' dell'Appia, mirato sostanzialmente alla regolamentazione del traffico su gomma (ma va'?), progetto denominato, con sfoggio di fantasia piuttosto modesto, 'Grand Tour' e che vorrebbe gestire tramite un'apposita cabina di regia e a fronte di non ben precisate e neanche approssimativamente quantificate elargizioni.

Nonostante la vaghezza di una simile proposta, immediata è stata l'adesione del Parco che si è affrettato a sostenere il progetto (?) difendendolo contro le critiche di un nutrito gruppo di Associazioni (dalla Bianchi Bandinelli a Italia Nostra Roma, da Salviamo il Paesaggio alla Rete dei Comitati per la difesa del territorio, dal Comitato della Bellezza ad eddyburg).

Nella foga di questa difesa, il Parco ha perfino rassicurato tutti noi - beata innocenza! - sul fatto che Autostrade garantisce di non costruire nuovi volumi sulla regina viarum: rassicurazione che per un'area ad inedificabilità assoluta fin dal 1965 non appare propriamente come una conquista di straordinario spessore.

Riassumendo: c'è un posto, in questo disgraziato paese, dove le cose funzionano, udite, udite, per merito dello Stato, addirittura del Mibact. Vogliamo, signor Ministro Franceschini, usare questo esempio come modello di gestione pubblica? E allo stesso tempo, interpretando finalmente un ruolo di governo degno di questo nome, indirizzare il privato (che, in questo caso, ha le idee un po' confuse) e guidarlo verso un corretto rapporto di sponsorizzazione? In tutti i paesi civili ciò significa esclusivamente, semplicemente, la disponibilità di un privato - regolata dall'autorità pubblica - ad un'elargizione finalizzata alla tutela o fruizione del patrimonio a fronte di un vantaggio fiscale, cui magari aggiungere l'imperitura riconoscenza dei cittadini di oggi e di domani (targa in marmo pario compresa).Così è successo, a pochi metri di distanza dall'Appia, per il restauro della piramide Cestia, finanziato dal giapponese Yuzo Yagi e, pensate un po', senza neanche il ritorno fiscale.
A proposito, signor Ministro, chi ha gestito questa operazione ce l'ha in casa, è la stessa responsabile dell'Appia antica, pensi che fortuna!

L'articolo è inviato contemporaneamente anche a l'Unità on-line, nel blog "nessundorma"

Dopo aver avuto occasione di parlare più volte dell'attuale stato dell'ambiente in Italia...>>>
Dopo aver avuto occasione di parlare più volte dell'attuale stato dell'ambiente in Italia, non sarà male riportare un documento, finora inedito: la relazione sullo stato dell'ambiente resa nota dal Ministro dell'ambiente greco-romano di 2000 anni fa.

E' uno scherzo, naturalmente, perché in epoca greco-romana, duemila anni fa, non c'era un ministro dell'ambiente, anche se c'erano gravi problemi di erosione del suolo, di sfruttamento delle risorse naturali e drammatiche condizioni di vita urbana, di inquinamento e di lavoro. Non è vero che i problemi di inquinamento e di distruzione dell'ambiente sono cominciati con la rivoluzione industriale del 1800; da allora certamente sono stati messi in moto mezzi di distruzione molto più potenti, è aumentata la popolazione, sono state fatte innovazioni tecniche con effetti devastanti sulla natura. Ma lo spirito di sfruttamento della natura a fini economici ha radici ben più antiche e non è male andare a cercarle, anche per capire dove si deve agire, soprattutto sul piano della informazione e della cultura, per cercare di rallentare la discesa verso catastrofi ecologiche sempre più gravi.

La nostra immaginaria relazione sullo stato dell'ambiente si può ricostruire utilizzando i risultati di alcune ricerche che, fortunatamente, si stanno moltiplicando: un crescente numero di storici si e' messo a scavare nei testi e nelle testimonianze del passato per cercare gli aspetti ecologici. Fra le molte opere vorrei citare due recenti libri: il primo e' stato scritto da un professore dell'Università di Bari, Paolo Fedeli: La natura violata: ecologia e mondo romano (Editore Sellerio, Palermo); l'altro è stato scritto da un professore dell'Università tedesca di Bochum, Karl-Wilhelm Weeber, ed è intitolato: Smog sull'Attica: i problemi ecologici nell'antichità (Garzanti, Milano).

La nostra relazione sullo stato dell'ambiente comincia con la vita urbana: erano Atene e Roma città belle e felici? neanche per sogno. Intanto una rigorosa minoranza aveva case decenti, fino a lussuose ville nel verde, nel caso di Roma. Ma la maggioranza della popolazione a Roma abitava in palazzoni di proprietà dei grandi speculatori --- fra cui spiccava il ricchissimo e spietato Crasso --- che lasciavano i loro inquilini in condizioni igieniche indescrivibili, in edifici male illuminati e male ventilati, affacciati su strade strette a maleodoranti. Escrementi rifiuti solidi e liquami, gli scarti delle macellerie e dei negozi, finivano nella strada e le fogne, che pure a Roma erano state costruite fin dai tempi cosiddetti "dei re", scaricavano il loro fetido liquame nel Tevere. La città di Roma aveva un soddisfacente sistema di acquedotti che portavano, in molti casi, l'acqua nelle abitazioni; le tubazioni dell'acqua erano fatte di piombo, un metallo tossico che lentamente si scioglieva e veniva assorbito con l'acqua potabile dalla popolazione. C'è una lunga controversia sul possibile declino dell'impero romano per colpa di una diffusa intossicazione da piombo; e' difficile dare una risposta certa, ma non c'e' dubbio che la popolazione dell'antichità era esposta a varie forme di intossicazione. Metalli tossici erano presenti nelle pitture con cui venivano adornate le case dei ricchi ed erano presenti nei cosmetici e belletti di cui si ornavano le donne.
Una delle più ricche fonti di informazioni sulla vita urbana e' costituita dalla Storia naturale di Plinio; una grande enciclopedia scritta duemila anni fa con preziose notizie sui prodotti della natura --- minerali, vegetali e animali --- sui prodotti di commercio e sulle loro falsificazioni e frodi. (Di recente ne è stata pubblicata da Einaudi una nuova bella traduzione in italiano moderno, con testo a fronte, in sei volumi). Avidi bottegai disonesti sofisticavano il pane, il vino, le spezie, il miele e i metalli preziosi, spesso provocando intossicazioni collettive simili a quelle che talvolta conosciamo anche noi. Un capitolo della nostra immaginaria relazione sullo stato dell'ambiente si occupa del traffico urbano che non aveva, naturalmente, a che fare con le automobili, ma che si svolgeva in strade strette, percorse dai carri e dai cavalli dei ricchi o dei mercanti che sfrecciavano nelle strette strade; oggi le strade sono ingombre di macchine in sosta; allora lo erano di banchi di mercanti, di pecore, di una folla che sfuggiva come poteva alle case anguste per riversarsi all'aria aperta, per far la corte ai ricchi e ai politicanti in cerca di voti.

Atene e Roma si trovano in zone con climi dolci e gradevoli, ma l'inverno era - allora come oggi - freddo e molte case dovevano ricorrere a sistemi di riscaldamento. Se i nostri impianti di riscaldamento a gasolio o metano immettono nell'atmosfera ossidi di azoto, ossidi di zolfo, polveri, eccetera, le stufe e i camini greci e romani bruciavano legna che immetteva nell'aria molti agenti inquinanti, soprattutto polveri e anche sostanze tossiche e cancerogene, respirate dagli abitanti nelle case e che ricadevano sulla popolazione all'esterno e sulle strade. Se la Roma e la Atene di oggi sono afflitte da problemi di rumore, ancora peggio era, duemila anni fa, il rumore di giorno e di notte, dal rotolio delle ruote dei carri agli schiamazzi notturni.

Molte cose le conosciamo perche' ci sono pervenuti editti e leggi per cercare di arginare il rumore, di rendere piu' sane le abitazioni, di mettere ordine nel traffico. Se stavano male gli esseri umani, altrettanto male stavano gli animali, considerati "cose", oggetto di commercio (ma non si fa forse commercio internazionale, spesso clandestino, anche oggi di animali esotici ?). Soprattutto gli animali esotici o quelle che erano considerate "bestie feroci", venivano sfoggiati (ma non lo fanno alcuni ancora oggi ?) come oggetti di lusso. A Roma i giochi del circo, buoni per tenere tranquilla la gente e per raccogliere voti, avevano le loro attrazioni centrali nella lotta fra uomini e animali, fino alle carneficine in cui, per la delizia della plebe, venivano offerti alle "fiere" intere popolazioni di dissidenti e sovversivi, come i cristiani. La caccia, quando non serviva a procurarsi del cibo, era un sadico esercizio: e non c'era un WWF che ne denunciasse gli orrori. Il capitolo successivo della nostra relazione sullo stato dell'ambiente tratta le attività industriali: non è stata inventata nel 1700 l'industria, in quanto complesso di attività capaci di trasformare le risorse della natura in merci e oggetti.

I due libri, di Fedeli e Weeber, che ho prima ricordato consentono di ricostruire bene il quadro delle attività manifatturiere: le principali riguardavano l'estrazione dei minerali metallici dalle miniere. Qui ci aiutano anche molte testimonianze archeologiche: le antiche miniere di argento di Laurion, nell'Attica, si visitano ancora oggi e mostrano come fosse avanzata la tecnica mineraria, così come mostrano come fosse durissimo il lavoro di estrazione del minerale.

I greci estraevano oro a Taso, un'isola dell'Egeo; i romani estraevano oro e argento in Spagna (nel secondo secolo dopo Cristo solo a Nuova Cartagine erano impiegati 40 mila minatori), zolfo in Sicilia, minerale di ferro nell'isola d'Elba, trasformato in ferro sulla terraferma. Dettagli tecnici si trovano nella "Storia naturale" di Plinio, già ricordata: Plinio si accorge che le attività minerarie sono una forma di violenza contro la natura, ma non può sottrarsi dall'ammirazione per il potere dell'uomo nel dominio della natura. Il quale uomo, addetto alle attività minerarie e metallurgiche, viveva e lavorava in condizioni indescrivibili; in generale queste scomodissime attività erano svolte da prigionieri di guerra e schiavi e la minaccia di essere inviati "ad metalla", al lavoro nelle miniere, terrorizzava. Tanto più che i minatori soffocavano e venivano sfibrati dalla fatica e dalle malattie dentro le miniere; fuori erano esposti a polveri e inquinamento associati alle operazioni di trasformazione dei minerali nei metalli, nei materiali e nelle merci economiche. Allora, come oggi, il motore della violenza contro gli esseri umani e contro la natura era rappresentato dalla avidità di potere e di denaro; anche se oggi chi esercita tale avidità la maschera dietro uno, spesso ipocrita, grande amore per l'ecologia.

Vorrei finire questa immaginaria relazione sullo stato dell'ambiente nell'antichità, notando che finalmente si comincia a diffondere una attenzione per i danni che vengono arrecati non solo alla nostra generazione, ma anche alle generazioni future. La stessa definizione di "sviluppo sostenibile" richiede azioni che consentano lo sviluppo della nostra generazione senza togliere risorse ambientali e condizioni di uguale sviluppo per le generazioni future. Oggi è facile riconoscere le azioni dannose che avranno effetti sul lontano futuro; la continua immissione di anidride carbonica nell'atmosfera consente alla nostra generazione di avere sempre più energia (il cui sottoprodotto è appunto l'anidride carbonica) con l'effetto di modificare il clima e la temperatura della Terra in cui vivranno miliardi di persone nel 2050 o nel 2100.

Lo stesso vale per la distruzione dell'ozono: le future generazioni saranno esposte a più intense radiazioni ultraviolette nocive perché noi usiamo i clorofluorocarburi per i nostri "economici" frigoriferi o per fare comode imbottiture di plastica espansa per cuscini e materassi. Il caso più vistoso è quello delle scorie radioattive, il sottoprodotto della produzione nucleare di elettricità: intere generazioni future dovranno fare la guardia ai depositi di tali scorie, anche quando le centrali saranno state chiuse da decenni. Non c'è peraltro dubbio che le terre esposte oggi all'erosione sono il risultato del diboscamento praticato in Europa duemila anni fa da milioni di nostri antenati che hanno ricavato senza fatica legname e terre coltivabili a spese delle foreste del tempo.

Anche loro hanno praticato uno sviluppo "insostenibile" che ha portato al loro stesso declino e a danni grandissimi alla nostra lontana generazione. Queste considerazioni dovrebbero farci pensare al futuro con una nuova mentalità: la crisi ecologica ha le sue radici nella crescente avidità di ciascuna generazione --- o di una minoranza di ciascuna generazione --- con effetti dannosi per chi verrà dopo. Se veramente, come dichiariamo in tanti e come dichiarano i nostri governanti e gli uffici ecologici delle Nazioni Unite, ci sta a cuore il destino delle generazioni future dobbiamo cominciare a cambiare le nostre regole economiche, i nostri comportamenti, i nostri stili di vita individuali e collettivi. Se le avessero fatto le classi dominanti del tempo greco-romano forse noi avremmo, oggi, meno frane e alluvioni.­

Ci avevagià pensato la CorteCostituzionale, attraverso una serie di sentenze, fra gli anni '90 e il primodecennio del 2000, a ribadire come il paesaggio, inserito dai nostri padricostituenti fra i principi fondamentali della carta all'art. 9, costituisca un "valore primario eassoluto", la cui tutela "precede e comunque costituisce un limiteagli altri interessi pubblici" (sentenza n. 367/2007). Ora, a una sentenza della IV sezione delConsiglio di Stato di pochi mesi fa (n. 2222/2014) tocca ribadire ciò che sarebbe ovvio in uno Stato di diritto dove ledecisioni della Corte Costituzionale vengono rispettate.


Non quiin Italia e non in questo contesto politico e sociale. Il Consiglio di Stato hadovuto quindi richiamare le precedenti sentenze della Corte e il Codice,all'art. 145, laddove si dichiara laprevalenza del piano paesaggistico su qualsiasi altro strumento dipianificazione territoriale per riaffermare la prevalenza della tutela sugliinteressi economici e sulle esigenze urbanistiche.

ll casodibattuto era l'ennesimo progetto di speculazione edilizia su uno dei tratti più belli della costa ligure, prospiciente l'isola diGallinara: una devastante ristrutturazione della storica Villa Brunati cheavrebbe comportato una colata di cemento di nuove costruzioni, l'abbattimentodi decine di alberi per la costruzione di parcheggi interrati, la creazione diuno svincolo di accesso diretto al mare per il nuovo complesso e la rettificadella strada statale Aurelia conconseguente spostamento dei relativi sottoservizi.
In unaparola, lo sconvolgimento radicale dal punto di vista non solo paesaggistico,ma geologico (siamo in Liguria...) di Punta Murena ad Alassio. Purtroppo nonstupisce neppure più che questo demenzialeprogetto avesse ottenuto l'approvazione sia del Comune di Alassio che dellaProvincia di Savona: grazie alla battaglia condotta principalmente dal WWF e invirtù di questa sentenza, questo scempio è stato risparmiato.

L'episodio,da manuale, sottolinea sia l'importanza della pianificazione paesaggistica comestrumento di efficace tutela del nostro territorio, sia la ormai conclamatapropensione alla svendita di quest'ultimo da parte degli enti locali. Purtroppogli ultimi provvedimenti governativi sembrano piuttosto fomentare questa propensione.
Fra glialtri - ed è, in tal senso, unostillicidio continuo - segnaliamo il recentissimo e pessimo emendamento alDecreto Cultura (n.83/2014) emanato dal ministro Franceschini.
Con uncolpo di mano, nel Decreto è stato inserito un comma checonsente "d'ufficio o su segnalazione delle altre amministrazionicoinvolte nel procedimento [di autorizzazione paesaggistica n.d.r.]"(quindi Comuni, Regioni e quant'altro) di riesaminare i pareri, nulla osta oaltri atti di assenso rilasciati dagli organi periferici del Mibact.L'ulteriore verifica è affidata ad una sedicenteComissione di Garanzia interna allo stesso Mibact, ma non meglio definita. Inuna parola, si crea una sorta di tutoraggio nei confronti delle Soprintendenze,allungando ulteriormente i tempi dei procedimenti (il ricorso a questoescamotage sarà quasi automatico in caso didiniego).

Naturalmentel'obiettivo, esplicito, di quest'ennesimo attacco all'autonomia del nostrosistema di tutela, è il contrasto al così detto carattere autocratico degli atti emanati daiSoprintendenti. Può sicuramente essere accadutoche, in decenni di esercizio della tutela, in alcuni casi questo poteredecisionale sia stato esercitato non correttamente, ma basterebbe la più banale delle statistiche a svelare come si tratti dipercentuali irrisorie e come nell'insieme dei provvedimenti di autorizzazionepaesaggistica, il numero di quelli negati si attesti - purtroppo - supercentuali largamente minoritarie rispetto a quelli concessi.
Di frontealle devastazioni di ogni tipo cui il nostro paesaggio è sottoposto, l'accanimento nei confronti di questi aspettidiventa persino surreale: è come se di fronte ad unmalato terminale di cancro, i medici si affannassero a curargli una micosidell'unghia.
Ma lavicenda dell'emendamento in questione, approvato dalla Commissione Culturadella Camera il 27 giugno scorso, esprime esemplarmente anche un altro segnodei tempi: la ciliegina sulla torta è che tale capolavoro di approssimazioneamministrativa e di ambiguità legislativa al servizio diuna ipocrisia politica neppure troppo celata, sia contrabbandato, secondo leparole del ministro, come un rafforzamento del ruolo di tutela del Mibact.

Al nostropaesaggio restano i giudici di Berlino.

Il traghetto che in un’ora porta da Bonifacio alla bruttezza di Santa Teresa di Gallura spiega la Sardegna .>>>

Il traghetto che in un’ora porta da Bonifacio alla bruttezza di Santa Teresa di Gallura spiega la Sardegna e la Corsica meglio di ogni parola. Il paragone impietoso tra isole sorelle aiuta a comprendere in cosa consista la questione urbanistica sarda e la sua squallida essenza. In questi mesi la nostra urbanistica è subacquea. I sommergibilisti dell’assessorato tengono d’occhio le coste e affiorano raramente.

In Corsica, nella terra emersa, giudici estremisti annullano il Piano urbanistico sostenuto dai sindaci di Cap Corse - i sindaci sono uguali dappertutto - perché i metri cubi sono troppi rispetto alle necessità reali. Elementari rudimenti di urbanistica. Ma non in Sardegna, dove progettiamo la moltiplicazione dei metri cubi chiamandola “investimento”. Un’idea vetusta che ha fallito ovunque.

In Corsica distinguono tra uso dei luoghi ed economia. In Sardegna confondiamo gli affari con l’urbanistica che è un’altra cosa. La Corsica prova a salvarsi. La Sardegna trasporta la sua croce edilizia mentre i corsi se la scrollano di dosso anche se un poco di cemento gli resta appiccicato.

La Corsica ha 1000 chilometri di litorali. Dal ‘75 la loro Conservatoria delle coste ha acquisito allo Stato francese 200 chilometri per circa 18000 ettari. Dal ‘75 la Sardegna, 1800 chilometri di costa, ha perduto irreversibilmente molto, molto più di 200 chilometri. Per non dire di quelli consumati dal ‘60 in mezzo secolo. E la giovane malformata Conservatoria sarda non ha acquistato neppure un metro di litorale. Però non è colpa sua se le era vietato quello che magari sarà permesso al Qatar. La Conservatoria sarda non ha mai avuto né poteri né quattrini e i sommergibilisti l’hanno silurata.

Fatto sta che in Corsica lo Stato compra dai Rothschild, che pure non sono un’opera pia, mentre da queste parti stiamo offrendoci al Qatar, storditi all’odor di quel metallo, proprio come mezzo secolo fa. Siamo sempre gli stessi.

In Corsica lo Stato acquista aree sconfinate. Solo l’Agriate e la foce dell’Ostriconi sono grandi 6000 ettari. E là non si costruisce neppure un muretto. In Sardegna, sempre più poveri di paesaggio, un luogo intatto rappresenta una buona ragione per eliminare tutele e spargere cemento. Per questo motivo restano in piedi gli effetti tossici del Piano casa e del Piano paesaggistico di Cappellacci, piedi di porco per altre eruzioni metrocubiche. Il ricorso al Capo dello Stato contro il Piano di Cappellacci viene trasferito al tribunale amministrativo perché, si vede, preferiamo immergerci negli abissi giuridici e riemergere a paesaggio estinto.

In Corsica, tra mille difficoltà, hanno compreso quanto vale la loro terra. Non è l’eden, no, ma va meglio, molto meglio che in Sardegna. In Corsica al valore della tutela ci credono. Qui, dopo la luce del Piano paesaggistico che nel 2006 ha reso inedificabili le zone F, le più belle, vorrebbero renderle di nuovo campi dove seminare mattoni. Qui annientiamo i nostri paesi mentre la Corsica li conserva. Qui confondiamo il turismo con l’edilizia, chiamiamo “prodotto” il paesaggio, sentiamo la necessità psichiatrica di affidarci ad altri, ci autoescludiamo dalle nostre spiagge e dalla nostra terra. Abbiamo tragicamente trasformato l’urbanistica in una contrattazione un tanto al chilo condotta da funzionari, consulenti, assessori e borgomastri gongolanti per tanto onore.

Un istruttivo pezzetto di storia per i nostri sommergibilisti durante le loro lunghe immersioni. Era la fine degli anni ’50. Grandi immobiliaristi francesi volevano 1000 posti letto nell’Agriate. I corsi si opposero. Trascorsero molti anni, nuove leggi, il lavoro della loro Conservatoria. E oggi là non c’è un mattone. Insomma, i corsi hanno salvato la loro terra dalla speculazione edilizia, non chiamano “investimento” la distruzione dei luoghi e dimostrano che anche in Sardegna c’è un’alternativa economica ai guardiani del metro cubo.

Durante un’emersione il nostro assessore all’urbanistica ha assicurato nuovi “accorgimenti” per il paesaggio sardo. Chissà. Noi temiamo che un “accorgimento” là, un “investimento” qua, la bocca impastata dal cemento, consumeremo quello che resta dell’isola.

Questo articolo è inviato contemporaneamente La Nuova Sardegna

Vasto dibattito sulla corruzione dilagante nei media italiani. Si cerca di distillare dalla melma ...>>>

Vasto dibattito sulla corruzione dilagante nei media italiani. Si cerca di distillare dalla melma quotidiana i caratteri di fondo della speciale pestilenza che imperversa sui cieli d'Italia. Nella sua pastorale di domenica 8 giugno Eugenio Scalfari, intimo ormai del nostro pontefice, riferiva il giudizio di papa Francesco sulle cause spirituali che sono a fondamento della corruzione: «cupidigia di potere, desiderio di possesso». Il papa più radicale dell'evo moderno coglie nel segno. Ma certo questa attitudine all'accaparramento di beni e potere, che costituisce la febbre quotidiana dell'individuo contemporaneo, è una costruzione storica, non il risultato della perduta innocenza dell'Eden. E' il frutto dell'immaginario collettivo soggiogato dai valori dominanti, drogato dalle trombe quotidiane di un linguaggio pubblico fatto di esortazioni, di incitazioni a crescere, a correre, a produrre di più, a lavorare più a lungo, a consumare oltre, a essere flessibili, efficienti, più belli, più giovani, ad “entrare nel futuro” tramite l'acquisto di qualche nuova auto o televisore ad ampio schermo.

E' dunque l'etica neoliberistica – per fare il verso a Weber – che anima l'attuale spirito del capitalismo, a forgiare gli individui, pronti a qualunque misfatto per ubbidire agli imperativi dell'epoca. E i media, che ora vendono al pubblico le notizie-merce sulla corruzione, sono gli stessi strumenti che distillano correntemente gli impulsi ideologici di cui essa si alimenta. Ma la corruzione mostra anche dell'altro: lo stato nazionale, non solo va perdendo la sua sovranità politica, vede anche disfarsi i suoi collanti civili, per il venire meno di un 'idea di società come progetto collettivo.

Tuttavia, il fenomeno di cui si parla in questi giorni – che certo in Italia assume caratteri speciali – non può essere limitato agli episodi di accaparramento di denaro, aste e bilanci truccati, come fanno universalmente cronisti e commentatori. Gli scandali dell'ultimo mese, per essere afferrati nella loro gigantesca portata, vanno riportati alla misura delle “grandi opere” e collocati nel contesto italiano.

Nelle intenzioni oneste (e nella pubblicità politica) le grandi opere avrebbero il fine di mettere insieme investimenti pubblici e capitali privati per realizzare manufatti di generale utilità, creando al tempo stesso un certo numero di posti di lavoro temporaneo, allargando il mercato dei materiali per alcune fasce di imprese. Osservate nella realtà esse appaiono costruzioni ben più complesse: costituiscono un modo di operare del capitalismo del nostro tempo. Le grandi imprese non investono nella produzione di un nuovo bene, ma nella creazione, in genere, di un servizio. E utilizzando una materia prima non riproducibile: il territorio. Le grandi opere si realizzano consumando e manipolando in modo più o meno irreversibile il nostro habitat. Ed esse sono possibili, com'è noto, grazie al protagonismo del potere pubblico. E qui si annida una prima e spinosa questione.

Chi è il potere pubblico? In genere un sindaco, gli amministratori locali, parlamentari, dirigenti di partito, vale a dire rappresentanti del ceto politico. Questa nuova figura del nostro tempo, senza più ideali a cui ispirarsi, al momento di entrare in contatto con le grandi imprese, subisce una metamorfosi incontenibile. I modesti politici locali e nazionali, immersi nella normale routine, di colpo si ritrovano detentori di un potere enorme, quello di concedere una porzione del territorio nazionale all'uso del capitale privato. La politica entra in contatto con le grandi imprese e tale passaggio le squaderna davanti possibilità impensabili: danaro, potere, contatti importanti con le élites della finanza, visibilità mediatica, buona stampa, ecc. Buona stampa: quel che non emerge mai nelle cronache e nei commenti di questi giorni è il potere di formazione di opinione pubblica che hanno le grandi imprese, attraverso i media locali e nazionali. Quanta nascosta corruzione lega il potere economico-finanziario al mondo del giornalismo?

E' evidente che da questo contatto tra grande impresa e politica sortisce un risultato ormai costante: scolorisce sempre più il proposito di realizzare il bene pubblico e nasce una convergenza di interessi tra due distinti poteri, in cui soccombe l'interesse collettivo.

Sorge dunque una prima rilevante questione: com' è possibile che dei singoli cittadini, in quanto semplicemente eletti (sindaco, parlamentare, ecc) si intestino la potestà di decidere sul destino di aree a volte vaste e delicate del nostro paese? A chi appartiene la Laguna di Venezia, all'ex sindaco Orsoni, all'ex ministro Galan e ai suoi predecessori o, per caso, agli abitanti di Venezia? Se non altro perché la Laguna, e la stessa città che noi ereditiamo, sono il frutto di un'opera secolare di conservazione, realizzata con ingenti sforzi da innumerevoli generazioni di veneziani. E la Val di Susa - già collegata alla Francia con un ferrovia internazionale, con una autostrada e con altre due strade minori - che si vuole sconvolgere con un tunnel di ben 57 km? A chi appartiene la Val di Susa, al sindaco di Torino, a Prodi a Berlusconi, al ministro Alfano, che l 'ha messo sotto assedio con una operazione di guerra di posizione? O non per caso alle popolazioni che da secoli l'hanno resa produttiva contribuendo alla ricchezza nazionale, che l'hanno curata e mantenuta per noi e per le generazioni che verranno? E dov'è il superiore fine nazionale che dovrebbe far tacere i diritti locali? E il sottosuolo di Firenze, dov'è in corso una dissennata opera di escavazione per costruire una stazione sotterranea destinata alla TAV? Appartiene all'ex sindaco Renzi o agli attuali ministri in carica? E che dire dei costi, che secondo il parere di esperti come Marco Ponti, sono di almeno 4 volte superiori rispetto a una stazione di superficie ? Senza dir nulla dei pericoli di dissesto che corre la città, patrimonio dell'umanità. Sono affari degli italiani o del ceto politico, alcuni rappresentanti dei quali sono già sotto inchiesta per questi lavori?

Ma c'è, nel caso delle grandi opere italiane, un aspetto che getta su di esse un'ombra di discredito universale e irrimediabile, sotto cui bisognerà seppellirle. E si deve partire dalla domanda: ma in Italia abbiamo davvero bisogno di grandi opere? Abbiamo bisogno di trasformare la Stazione Centrale di Milano in un labirinto di boutiques che rallentano l'accesso al metro, di costruire una sontuosa opera da archistar nella stazione di Reggio Emilia, cattedrale nella campagna per pochi treni e per pochi passeggeri ? Ma noi abbiamo quasi tre milioni di pendolari, lavoratori che tengono in piedi il Paese, serviti da treni in condizioni degradate. E i treni merci? Il trasporto su merci arriva oggi a coprire un misero 6% del totale dei flussi, mentre cresce di anno in anno il trasporto su gomma e le autostrade sono al collasso. E' così che si sostiene il sistema-paese?

Ma tali considerazioni valgono come preliminari per una situazione di paradosso ormai esplosiva della vita italiana: noi abbiamo davanti una gigantesca e ignorata questione territoriale, fonte di costi continui e crescenti che dissanguano le finanze pubbliche. Il nostro territorio, che per secoli è stato sistematicamente curato e posto in equilibrio dalle popolazioni contadine e dagli ingegneri idraulici, oggi non ha più manutentori, è assediato dal cemento, viene anzi progettualmente devastato dal potere pubblico con le grandi opere. Eppure, ce lo hanno ricordato di recente gli studiosi che hanno collaborato a un volume dell' Istituto Nazionale di Geofisica, (ne ho scritto sul il manifesto del 19 giugno) per i disastri idrogeologici degli ultimi 50 anni noi sopportiamo un costo annuo di 4,5 miliardi di euro. E una somma quasi equivalente spendiamo nel riparare i danni prodotti dai terremoti che con implacabile periodicità, ogni 4-5 anni, colpiscono qualche nostra città o centro abitato.

Dunque quale etica civile può esserci nel progetto di grandi opere che, a prescindere dalla corruzione, distraggono danaro pubblico in opere di dubbia necessità a fronte dei bisogni drammatici del nostro territorio? Mentre le scuole dei nostri ragazzi sono insicure? Mentre le vere “Grandi opere”, quelle che ereditiamo dal nostro passato, da Pompei alla necropoli fenicia di Tuvixeddu in Sardegna, rischiano la degradazione per assenza di cure? Ecco un vasto campo egemonico che la sinistra radicale e popolare può occupare: propugnando un vasto progetto di piccole opere, poco costose e ad alta intensità di lavoro, diffuse, mirate a creare un sistema efficiente di trasporti su ferro, a valorizzare le aree interne con agricoltura e forestazione di qualità, a curare i fiumi e utilizzare le acque interne. Rendiamo permanente nell'immaginario nazionale l'identificazione fra grandi opere e la casta corrotta e imponiamo la nostra superiore progettualità.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al
manifesto, che lo ha pubblicato con un bel titolo (
I topi ballano nel formaggio della Grande Opera) e un utile sommario («Devi essere pronto a qualunque misfatto per far girare la macchina. E’ l’etica neoliberista, lo spirito dell’attuale capitalismo. Modesti politici locali e nazionali di colpo diventano padroni di un territorio da cedere al privato. Corruzione e distruzione vanno insieme») il 24 giugno 2024

Ci danno il tormento con la faccenda che l’Italia è talmente bella che tutto il mondo ci invidia, che tutti vorrebbero vivere qua... >>>

Ci danno il tormento con la faccenda che l’Italia è talmente bella che tutto il mondo ci invidia, che tutti vorrebbero vivere qua e imitare il nostro inconfondibile stile di vita. Però sappiamo come chi è in decadenza cerchi di produrre una pericolosa rappresentazione esagerata di sé.

Viviamo nel “paese più bello” del globo, però lo rendiamo irriconoscibile. E sempre con lo stesso armamentario ideologico. Dicono che si deve cambiare, che non si può stare con le mani in mano e che si deve lasciare il segno. Usano il termine antropizzare che serve perfino per erigere grattacieli nelle valli alpine o in un porticciolo. Oppure per un’expo sul cibo e vomitare milioni di metri cubi nell’agro. O per massacrare Venezia e la laguna con una grande opera. Ci antropizzano sino allo sfinimento.

E le leggi sul paesaggio? Be’, anche quelle sono le più belle del mondo. Ma le vogliamo lasciare come sono? Saranno pure belle, però hanno qualche ruga di troppo. Così fanno leggi più quick, fast, slim, smart, una serie di espressioni idiote e logore che sono un grimaldello per indebolire norme e tutele.

E non ci hanno martellato sino a ieri con la faccenda che la Costituzione italiana è la più bella del pianeta? Ora di colpo è vecchia, blocca il Paese e scoprono che ha la scadenza come la mozzarella. La vogliono cambiare perché ci sono giudici insolenti, pubblici ministeri indiscreti, ambientalisti maniaci, associazioni petulanti, annidati in ogni angolo della società, perfino nelle scuole, che vorrebbe applicarla. Intanto con le vecchie leggi un certo numero di persone perbene si era infiltrato nelle istituzioni, perfino nei parlamenti, nei consigli comunali e negli uffici pubblici. Una vera lobby che speriamo si estingua presto.

Per fortuna che qualche legge facile facile per semplificare la vita ce l’eravamo procurata di già.

La legge obiettivo, quella dei Grandi Eventi, per esempio, era stata voluta dal secondo governo Berlusconi. Con articoli sfacciati sospendeva prescrizioni urbanistiche, sfuggiva a meccanismi di controllo e affrancava miliardi dai terribili “lacci e lacciuoli” che interrompono la crescita. Per questo quella legge è stata conservata come un tesoro dai Governi successivi. Dava mano libera alle decisioni della politica.

La reggeva l’idea di rendere facilmente spendibili i soldi pubblici cancellando vincoli e controlli ma dimenticando che nessun popolo civile può pensare che per rispettare un impegno si debbano aggirare le regole.

E a chi sostiene che la corruzione è causata dalla complessità dei codici dovrebbe bastare vedere che dietro una Grande Opera e un Grande Evento c’è sempre un Grande Processo.

Ricordiamo tutti come con la scusa che per i 150 anni dell’unità del Paese più bello del mondo, hanno organizzato un G8 a La Maddalena. Cosa ne sia derivato è noto.

E’ dimostrato dalle scienze esatte come tutto vada a rotoli ogni volta che nel nostro Paese si prepone l’aggettivo “grande” davanti a un evento o a un’opera. Opera ed evento degenerano immediatamente. E per Grandi Opere e Grandi Eventi occorrerebbero grandi controlli, altro che semplificazioni.

I fatti dimostrano che l’idea di combattere la corruzione con meno passaggi burocratici consista in una balla sostenuta da chi attribuisce alla parola “burocrazia” – fondamento di uno Stato civile – un senso negativo che la parola in sé non contiene. Lo vediamo che cosa i nostri facilitatori hanno reso facile. Le regole sono semplici, basterebbe spogliarle del “di troppo”, accettarle e rispettarle.

Infine, quando non ce la fanno neppure i facilitatori allora arrivano le task force. Anche in Sardegna. Una task force per la revisione del Piano paesaggistico, una per i danni dell’alluvione, una per la valorizzazione dell’agro alimentare, una di psicologi per gli alluvionati, una per la pesca, una per gli incendi, una per il digitale terrestre, contro la lingua blu, la peste suina, la prostituzione, una per rendere facili le domande delle aziende ovi-caprine, una task force per la necropoli di Tuvixeddu, dotata anche di un tavolo e perfino di un osservatorio parlamentare da dove due deputati sardi in mimetica osservano a turno la necropoli.

Ne vorremmo una per proteggere il Paesaggio e per far comprendere a chi compra pezzi di isola che il compratore si deve adeguare al nostro Piano paesaggistico e non il Piano a lui.


Questo articolo è inviato contemporaneamebte a La Nuova Sardegna

Agosto, anno 1996, Toscana. Alberto Asor Rosa denuncia la costruzione di un complesso di villette in "stile rustico" prontamente ribattezzato "ecomostro", 21.000 metri cubi ai piedi del borgo medievale di Monticchiello.....>>> 10 giugno 2014
Agosto, anno 1996, Toscana. Alberto Asor Rosa denuncia la costruzione di un complesso di villette in "stile rustico" prontamente ribattezzato "ecomostro", 21.000 metri cubi ai piedi del borgo medievale di Monticchiello. L'allora assessore al territorio Riccardo Conti riconosce che “il nuovo insediamento fa schifo”. Ma era proprio la nuova legge urbanistica voluta dall'assessore che lasciava ai Comuni le mani completamente libere nelle scelte edificatorie. Il presidente della Regione, Claudio Martini, dichiarava: “Noi non condividiamo quell’opera, ma non possiamo farci niente. Possiamo solo rafforzare gli strumenti perché in futuro un caso Monticchiello non accada più”.

Sono passati otto anni e in località Pavicchia, nel territorio di San Giovanni d'Asso, a poche centinaia di metri da Montisi, splendido castello medievale circondato da oliveti e vicino al'altrettanto splendido borgo di Trequanda, è annunciato un nuovo caso Monticchiello: 29.000 mc. di nuova edificazione comprendente un albergo, diverse residenze turistico-alberghiere e un centro benessere. Da un punto di vista urbanistico il "progetto Pavicchia" rappresenta il contro-esempio di quanto sarebbe opportuno fare. Si vogliono realizzare nuovi volumi in aperta campagna, in un paesaggio prezioso e delicato, ben in vista dai due centri etrusco-medievali di Montisi e Monterifré, prevedendo lo spaventoso rapporto di copertura territoriale del 40%. Ma se da un punto di vista urbanistico il progetto è completamente sbagliato, da un punto di vista architettonico supera ogni limite di bruttezza. Un'ammucchiata confusa di case, un'edilizia caricaturale che il progettista evidentemente crede in tipico stile rurale toscano: ovverosia, intonaci con paramenti a vista in pietrame, tetti (ci si immagina coperti in cementegola) con aggetti a pagoda; e, immancabilmente, archi ribassati, logge che evidentemente sono un "must" cui non si può rinunciare. Difficile concentrare in così poco spazio tanti errori urbanistici e tante nefandezze architettoniche.

I sostenitori del progetto annunciano la creazione di ben dieci posti lavoro che dovrebbero alleviare la disoccupazione della zona. Ma si dimenticano che nel territorio di Montisi ("magica Montisi", per riconoscimento internazionale) vi sono già attività che valorizzano le risorse del territorio, alberghi, agriturismi, vendite di prodotti tipici, ristoranti, attività escursionistiche, itinerari culturali. Meglio dieci nuovi imprenditori (e forse più), piuttosto che dieci nuovi dipendenti fra camerieri, addetti alle pulizie, cuochi e inservienti. Aggiungendo che a l'area di Pavicchia è priva di sorgenti e ha, in estate, problemi di rifornimento idrico, mentre molto più logica sarebbe, la realizzazione di un centro benessere a Bagnacci, località dotata di un'antica fonte termale in travertino, gore, mulini e un sistema idrico storico da recuperare; un'area di cui il Regolamento Urbanistico vigente prevede "la riqualificazione, il restauro paesistico e la valorizzazione attraverso il suo sviluppo a fini termali e turistici".

Nella legislatura vigente, la Regione Toscana, per iniziativa dell' assessore al territorio Anna Marson, ha elaborato una nuova legge urbanistica e un nuovo piano paesaggistico, che, insieme, impedirebbero il "progetto Pavicchia". Ma entrambi i documenti, dopo un'approvazione da parte della Giunta sembrano arenati nelle secche del Consiglio regionale. Dove ancora dominano gli (ex) amministratori locali, ignari di quanto sta accadendo nel mondo (da un punto di vista economico) e in Italia (anche da un punto di vista politico). In attesa che qualcuno di questi amministratori, assunto alla carica di presidente della Regione, si stracci le vesti per uno scempio abbondantemente annunciato.

All'infuori dei Paesi Bassi, che hanno dovuto strappare tanta parte del loro territorio al Mare del Nord, non esiste in Europa un paese più artificiale >>>

All'infuori dei Paesi Bassi, che hanno dovuto strappare tanta parte del loro territorio al Mare del Nord, non esiste in Europa un paese più artificiale dell'Italia. Artificiale nel senso che gli uomini hanno dovuto sovrapporre i loro artefatti al sostrato naturale originario per potervi vivere. E non mi riferisco solo a quella « patria artificiale » che Goethe individuava nelle sontuose rovine romane, testimonianze di una colonizzazione senza precedenti del suolo italico. Ma anche a qualcosa di più antico e profondo. Troppo precocemente, infatti, la Penisola si è riempita di popolazioni rispetto alla sua “maturità” geologica. Gran parte delle nostre terre emerse risalgono solo a un miliardo di anni fa, ci ricordano i geologi, una giovinezza che dà la febbre al nostro suolo, con ben 4 vulcani attivi, e una sequela senza fine di terremoti di varia potenza e distruttività. Ma a rendere bisognoso di artefatti il nostro territorio, oltre alla sua giovinezza geologica, contribuisce la sua morfologia. La nostra più grande pianura, la valle del Po, è un immenso catino in cui precipitano centinaia di corsi d'acqua dall'imponente barriera delle Alpi. E' il più complesso sistema idrografico d'Europa, a cui le popolazioni han dovuto dar ordine con un lavoro oscuro durato millenni. Ancora nel XIX secolo alcuni ingegneri idraulici ricordavano che il Po del loro tempo, con il suo corso unitario e relativamente ordinato, era « opera degli uomini ». Una costruzione artificiale, dunque, il risultato di una lotta delle popolazioni che hanno dovuto talora per più generazioni fare i conti con alluvioni disastrose. Come la “rotta di Ficarolo” nel XIII secolo, che sconvolse buona parte della bassa pianura padana per alcuni secoli.

Ma l'Appennino, un vero e proprio caos sotto il profilo della composizione geologica, incombe su tutto lo stivale peninsulare. Come scriveva nel 1919 un gran commis d'etat, Meuccio Ruini, « contorno e rilievo, clima, abitabilità e comunicazioni, relazioni storiche, ogni cosa insomma della Italia penisulare è signoreggiata dall'Appennino e ne riceve l'impronta .>> E questa impronta ha pesato in maniera rilevante non solo sulle colline interne, dove si sono concentrate le economie italiche e italiane, ma anche lungo le pianure costiere, impaludate e ridotte a maremme dai materiali appenninici trascinati a valle dai torrenti. L'Italia moderna è il risultato di un immensa, secolare, totalitaria bonifica dei suoi assetti naturali. Posso portare in proposito – al di la di quello che la ricerca storica ci racconta – una testimonianza singolare. Quando nei primi anni '80 ho studiato la vicende delle bonifiche italiane – per un testo curato insieme a Manlio Rossia Doria, edito poi da Laterza – ho trovato le mie più originali fonti documentarie nelle relazioni degli ingegneri impegnati sul campo in questo o quel lavoro di bonifica. Sia che si trattasse di lavori nel Bolognese o nella valle del Tevere o nella piana del Volturno, nel XVIII o nel XIX secolo, chi pianificava gli interventi si sentiva in obbligo di far precedere il proprio progetto con una una premessa storica sugli interventi che in quello stesso sito erano stati realizzati uno o due secoli prima da altri bonificatori. Una fonte preziosa di informazione storica e insieme la prova di una trasformazione ininterrotta del territorio attraverso successive generazioni. Per rendere abitabili le terre, per estendere i suoli destinati alla coltivazione, per tracciare strade e vie di comunicazione le nostre popolazioni hanno dovuto costantemente trasformare l'habitat naturale, perché esso tende naturalmente al disordine idraulico e al caos dei processi erosivi. Dunque, il nostro è un Paese dove più che altrove le popolazioni devono fare costantemente manutenzione del suolo, altrimenti gli equilibri precipitano. Una condizione necessaria che si è resa storicamente possibile grazie alla presenza secolare dei contadini sulla terra, in virtù del loro essere manutentori del suolo oltre che produttori di derrate agricole. Una condizione, com'è noto a tutti, che oggi non si da più. Il nostro territorio è rimasto abbandonato, in balia delle forze naturali che tendono al disordine idraulico. Non solo. La storia ci ricorda la fragilità della crosta terrestre su cui viviamo. Negli ultimi 100 anni abbiamo subito in media un disastro sismico ogni 4-5 anni e dunque abbiamo dovuto investire costantemente risorse nella ricostruzione di abitati e città. Anche i terremoti ci costringono costantemente a ritornare sui nostri passi, a rifare i nostri artefatti su una natura instabile. Ma forse la catastrofe più grave il nostro paese l'ha subita a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Col passare dei decenni, per arrivare ai nostri anni, è venuta affermandosi una classe dirigente fra le più incolte, irresponsabili e predatorie della nostra storia. Il suolo è diventato occasione di profitti, merce da immettere sul mercato. Una cementificazione illimitata e crescente, magnificata talora con la retorica della Grandi opere, rende il territorio del Bel Paese – che avrebbe bisogno di risorse e manutezione costante, alimentate dalla consapevolezza storica dei suoi drammatici caratteri originali – un luogo di disastri e di spese senza fondo a fine di riparazione.

Ci ricorda ora questa condizione, con grandissimo merito, il libro a cura di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, L'italia dei disastri. Dati e riflessioni sull'impatto degli eventi naturali.1861-2013, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Bologna 2013. I curatori, che nel 2011 avevano dato un importante contributo al centenario dell'Unità con Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni ora ritornano sul centenario con una ricostruzione che racchiude un po' tutti gli eventi catastrofici che hanno colpito la Penisola. Nel testo, oltre a loro scritti, ospitano un largo ventaglio di studiosi che si è cimentato con una seria ricerca storico-scientifica sugli eventi più disparati: le alluvioni del Tevere e della Nera (P.Camerieri e T.Mattioli); di Roma nel 1870 (M:Aversa), le alluvioni e le frane dal dopoguerra a oggi (G.Botta); il Vajont ( G. B.Vai); le inondazioni del Po dal 1861(F. Luino), l'indagine sulle frane alla luce degli eventi estremi e le aggressioni antropiche (M. Amanti); le eruzioni del Vesuvio dal 1861 al 1944 ( G.P.Ricciardi) ; i terremoti distruttivi (E.Guidoboni e G. Valensise). Ma l'elenco è più lungo di questi radi cenni.

I curatori, che hanno alle spalle studi rilevanti sulla storia dei terremoti, non solo italiani, mettono il peso della loro competenza e di quella dei numerosi scienziati che collaborano al volume, nel dibattito corrente sulle alluvioni disastrose degli ultimi anni. E mostrano verità assai poco dubitabili, anche se esse tardano a diventare cultura diffusa, politica lungimirante del ceto politico.Probabilmente il carattere della piovosità in Italia, sotto il profilo quantitativo, non è mutato sensibilmente, Questo sembrano dire le statistiche storiche. Ma forse è mutata l'intensità e la concentrazione temporale delle precipitazioni. E' questo un punto ancora incerto e su cui è aperta la discussione. Per il resto la vicenda recente dei nostri paesi che franano e delle città che finiscono sott'acqua costituisce la conferma una verità storica: l'Italia è un paese fragile, aggredito non solo da pressioni antropiche, ma anche da mire speculative, funestato da frequenti terremoti, ha una strada obbligata davanti a sé. E' quella della prevenzione. Prevenzione e cura del territorio, la stessa che per secoli ha permesso all'Italia di ospitare una popolazione crescente, economie diffuse, di fondare la sua civiltà.

Il puzzle sconvolto che del quadro politico europeo ci consegnano le elezioni... >>>
Il puzzle sconvolto che del quadro politico europeo ci consegnano le elezioni offre materia svariatissima di riflessione. La prima, immediata, riguarda la terremotata geografia elettorale del Vecchio Continente. L'avanzata travolgente e imprevista dell'Ukip nel Regno Unito, del partito di Le Pen in Francia ( oltre al diverso successo di tutte le formazioni antieuropee nei vari Paesi), l'umiliante tracollo dei socialisti francesi, la sconfitta di Rajoy in Spagna e di Samaras in Grecia ratificano la disfatta senza appello delle classi dirigenti e del ceto politico che ha governato l'Europa negli ultimi 10 anni. Dopo il disastro sociale provocato dalla politica di austerità arrivano i conti anche sul terreno politico. Molti partiti socialisti pagano duramente la loro ubbidienza alle ricette della Troika. Su questa sconfitta dei partiti protagonisti dell'aggressione al welfare europeo in nome dei conti pubblici bisognerà lavorare, mostrando e denunciando il fallimento complessivo del progetto conservatore dei partiti al servizio dei poteri della finanza.

Guardando all'Italia, prima di prendere in esame il dato più vistoso dei risultati, vale a dire la rilevante affermazione del PD di Renzi, qualche considerazione sul successo dell'Altra Europa con Tsipras. E' un successo, una vittoria della sinistra radicale e popolare e non c'è alcuna autocelebrazione in questa affermazione. Il pur risicato 4% del risultato elettorale dice molto di più dei numeri. Bisogna riflettere un po' meno frettolosamente del solito sugli speciali meccanismi che si mettono in moto nelle campagne elettorali.

La lista Tsipras messa su in fretta e furia all'ultimo momento era schiacciata fra due colossi. Ma la drammatizzazione orchestrata nelle ultime settimane tra Renzi e Grillo, il consueto ricatto del voto utile aveva messo in un angolo questa formazione. Bisogna prendere atto di un dato storico nelle psicologie degli elettori del nostro tempo: quanto più la democrazia rappresentativa appare debole e inefficiente, tanto più i cittadini tendono ad affidare ai partiti con più chances di vincere le loro speranze di contare qualcosa. Ho fatto un po' di campagna elettorale e ho potuto misurare sui posti il peso ricattatorio che la minacciata vittoria di Grillo ha avuto su elettori pur delusi dal PD. D'altra parte, nessuno può dimenticare che, rete o non rete, senza la presenza costante dei candidati in TV le elezioni non si vincono.
E dov'erano i candidati dell'Altra Europa? Se si esclude qualche rada apparizione di Tsipras, di Barbara Spinelli e Moni Ovadia nessuno li ha visti. Infine un'ultima pesante penalizzazione. Nella società dello spettacolo, che ingloba da decenni la lotta politica, la figura del leader continua a svolgere una funzione fondamentale. La lista aveva un leader, è Alexis Tsipras. Personalmente ho condiviso e apprezzato la scelta coraggiosa e simbolicamente significativa di candidare questo giovane greco che ha unificato la sinistra del suo Paese, martoriato dalle politiche punitive dei poteri europei. Ma la sua scarsa popolarità e il suo essere uno straniero è stato un handicap non da poco, che accresce il valore del risultato finale della formazione a lui intestata. I partiti maggiori avevano i loro leader tutti i giorni in TV, Tsipras è apparso un paio di volte e non parlava italiano. La sinistra radicale e popolare in Italia ha dunque una base molto più ampia di quanto non dica quel 4%, che ci servirà per continuare il percorso intrapreso.

La vittoria di Renzi è clamorosa, ingigantita dalle false previsioni della vigilia, le quali appaiono ormai strumenti di propaganda elettorale, armi di condizionamento degli elettori volte ad annientare le minoranze. In quel successo confluiscono più elementi, alcuni congiunturali e fortuiti, altri più profondi e forse destinati a diventare sistemici nella vita politica italiana. Senza dubbio ha molto giovato al segretario del PD essere il nuovo presidente del Consiglio: la “luna di miele” che di solito accompagna i primi mesi dei nuovi capi di governo è stato uno sfondo non da poco per la sua campagna elettorale.

Ma Renzi ha operato scelte politiche che andavano incontro ad aspettative molto diffuse. Una di questa ha interpretato forse l'esigenza più profonda dei cittadini europei, che rimane ancora largamente insoddisfatta e che spiega l'enorme astensionismo e l'avanzamento di tante formazioni di destra nel Continente: la stanchezza e talora l'odio nei confronti del ceto politico di governo e di opposizione, aggrappato ai propri privilegi , mentre classi popolari e ceti medi indietreggiano sotto i colpi della crisi e delle loro stesse politiche. L'eliminazione dei vecchi gruppi dirigenti del PD e la formazione di una squadra di governo in cui spiccano volti di giovani donne sorridenti è un gesto politico significativo e una mossa pubblicitaria di grande effetto. Così come la limitazione per legge degli stipendi degli alti dirigenti pubblici. Renzi, come Berlusconi, è continuamente in campagna elettorale.
Tali operazioni non sono interamente da demonizzare ma, certo, secondo la saggezza gattopardesca, cambia tutto perche nulla non cambi. Quale differenza politica abbiamo potuto apprezzare tra il ministro della difesa Pinotto e Mario Mauro che l'ha preceduta nel governo Letta? Dove sta la differenza tra Maria Elena Boschi e Quaglierello ex Ministro per alle riforme istituzionali? E tra Giovannini e Poletti al Lavoro? Qui anzi il peggioramento è netto. Senza dire delle nomine ai vertici delle grandi imprese pubbliche. Certo, dopo anni di tagli alle pensioni, di decurtazione della spesa sociale, di inasprimento della pressione fiscale – pur dentro la marea ancora montante di una disoccupazione senza precedenti – redistribuire, come ha fatto Renzi, 80 euro a una vasta platea di lavoratori, con la promessa di estenderli ad altre figure, rappresenta un fatto simbolico che è stato sbagliato sottovalutare nei suoi effetti elettorali.

La campagna elettorale ha fatto il resto insieme agli errori di Grillo e i limiti del movimento 5Stelle. Con il suo nuovo governo Renzi si è presentato come non responsabile dei disastri della politica di austerità, che i precedenti dirigenti del PD avevano condiviso con i vertici di Bruxelles. E' apparso come il dirigente “nuovo”, che vuol “cambiare verso” in Europa e come colui che, rafforzato dal voto, avrebbe potuto esprimere in campo continentale lo stesso dinamismo innovatore messo in campo in Italia. I toni forcaioli da parte di Grillo hanno spaventato una fascia ampia di elettori incerti, che potevano essere attratti nell'orbita del movimento o sedotti a sinistra. E la mancanza di proposte credibili di prospettiva ha fatto il resto. Se il movimento 5S non attiva alleanze con la sinistra, non aiuta quella interna al PD per aprire crepe nel suo spazio moderato, non concorre a far vincere battaglie nel Paese e nel Parlamento, da domani comincia la storia della sua definitiva irrilevanza.

In Italia il moderatismo culturale e politico ha radici vaste e profonde e parte di questo, con l'eclisse di Berlusconi, trova ora in Renzi un nuovo punto di riferimento. Si sposta con grande fiuto un po' a sinistra, ma trova un approdo sicuro. E' significativo, a tal proposito, che Berlusconi, anche in campagna elettorale, non abbia potuto (e voluto?) demonizzare la figura di Renzi. Il PD, dunque, si presenta come una formazione interclassista in grado di aggregare e stabilizzare un ampio fronte sociale e politico nei prossimi anni.

Una nuova DC? Forse peggio, perché quel partito aveva un gruppo dirigente e il PD rischia di avere un solo capo carismatico. Forse meglio, per la necessità, cui il PD non può sfuggire, di cambiare la politica europea di austerità. O si riavvia un grande progetto sociale, al più presto, o l'Italia tracolla e l'UE va in rovina. La sinistra radicale ora in corsa ha spazi ampi di manovra. Dovrebbe compiere la grande impresa di dare ai temi originali elaborati negli ultimi anni (beni comuni, reddito di cittadinanza, nuova architettura europea, ecc) una forma politica insieme plurale e trasparente, una reinvenzione originale del partito politico che vada oltre la tradizione novecentesca.

Nelle ultime ore convulse di una campagna elettorale mediamente pessima per contenuti e toni>>>

Nelle ultime ore convulse di una campagna elettorale mediamente pessima per contenuti e toni, è risuonato più volte il nome di Enrico Berlinguer. In modo spesso improprio: per ricordarlo degnamente, usiamo le sue parole, nel pieno di quella campagna elettorale per le europee del 1984 che gli risultò purtroppo fatale, in risposta a chi gli chiedeva se ci fosse correlazione fra il voto europeo e la situazione politica italiana: “Certo. Soprattutto nel senso che dobbiamo portare in Europa l’immagine e la realtà di un Paese che non sia caratterizzato dalla P2, dalle tangenti, dall’evasione fiscale e dalla iniquità sociale [...] per portare invece nella Comunità europea il volto di un Paese più pulito, più democratico, più giusto”.

Al solito, il richiamo alla legalità come valore primario e basterebbe questo termine a misurare la distanza con questo nostro tempo opaco. Da questo punto di vista, quello della legalità, questi ultimi mesi ci restituiscono, a giudicare da cronache giudiziarie e provvedimenti di governo, un quadro drammaticamente univoco.Se infatti le notizie di arresti e indagini per fatti di corruzione si accavallano in modo vorticoso, la risposta che viene dall'azione governativa è sorprendentemente speculare, ma programmaticamente antitetica ad un'azione di contrasto. Ispirati evidentemente ad una filosofia omeopatica, si succedono decreti e disegni di legge che invece di rendere più efficaci controlli e regole, tendono a depotenziarli, quando non a eliminarli in nome del demone onnipresente di questi ultimi lustri governativi: la semplificazione.

In questa strategia deregolatoria rientrano tutti i provvedimenti che hanno a che fare col governo del territorio, tanto per citare alla rinfusa, la così detta legge sugli stadi, il ddl di riforma della legge sui parchi, quello, recentissimo, sulla nuova riforma urbanistica (la riproposizione spinta della legge Lupi, do you remember?), l'emendamento che rende possibile costruire casette e bungalow a gogo.E assieme ritornano i commissari, i mister Wolf cui delegare la soluzione di un problema, anche laddove tale esperimento era già stato fatto, con risultati disastrosi.

Sta succedendo anche nel recente decreto sul patrimonio culturale e il turismo emanato, giusto in tempo per le ultime vendite preelettorali, nel consiglio dei ministri di giovedì scorso.Se il testo che viene anticipato per spot mediatici sarà confermato - perchè un testo ufficiale e definitivo ancora non c'è, alla faccia delle regole, appunto - accanto a provvedimenti lungamente attesi come l' "art bonus", torneranno commissari o figure dotate di poteri commissariali a Pompei e Caserta, mentre, sempre a Pompei, sono previste ampie deroghe alla legislazione vigente che si vogliono giustificare con i ritardi accumulati, nei primi due anni, dal Grande Progetto Pompei.

A proposito di Expo, il 9 maggio scorso, Gianantonio Stella aveva descritto con precisione il meccanismo: "Anni perduti nei preliminari, discussioni infinite sui progetti, liti e ripicche sulla gestione e poi, di colpo, l’allarme: oddio, non ce la faremo mai! Ed ecco l’affannosa accelerazione, le deroghe, il commissariamento, le scorciatoie per aggirare lacci e lacciuoli.”Secondo la stessa nefasta logica, ora, a Pompei, si preannunciano deroghe di vario tipo, anche per quanto riguarda il piano strategico: si tratta, come risulta dal Decreto Valore Cultura, art. 1 commi 4 e 5, del piano che dovrebbe assicurare niente meno che il rilancio economico e sociale dell'area dei comuni di Pompei, Ercolano e Torre Annunziata.
Questo intervento, cruciale per la riqualificazione di un'area devastata da decenni di abusi, riguarda la zona extra moenia, e quindi non il sito archeologico vero e proprio: per conseguenza tale piano non è interessato dai 105 milioni su cui pendono le scadenze imposte dalla Commissione Europea. Anzi, a dirla tutta, il piano strategico è, a voler essere ottimisti, in una fase di preavvio. Perchè questa fretta, allora? Non sarà che per i circa 400 milioni di fondi previsti per tale pianificazione sarebbe così comodo eliminare, fin dalla partenza, i lacci e lacciuoli di una legalità sempre più fastidiosa?
Cattivi pensieri che speriamo siano spazzati via da un testo finalmente all'altezza dell'importanza del nostro patrimonio e della gravità della situazione in cui versa. Basterebbe che la legalità ne fosse il faro, in questo come in altri ambiti.

Per amor di verità i dubbi sulla rilevanza della legalità come pilastro costitutivo della società si sono moltiplicati in questi mesi non solo sui provvedimenti governativi, ma anche per quanto riguarda enti locali e istituzioni assortite.Certo talora meno gravi per conseguenze, ma significativi di un allentamento complessivo della tensione su questo tema cruciale: paradigmatico, in questo senso, quanto è accaduto domenica scorsa, sull'Appia.
Fra gli eventi organizzati dall'Ente Parco nell'ambito di un'iniziativa di promozione denominata - con arguto sfoggio di fantasia - il Parco della Bellezza, erano previste alcune visite a ville private di particolare interesse. Non stravagante di per sè, dal momento che il 95% del territorio del Parco pubblico dell'Appia antica, è di proprietà privata. Senonchè, una di queste proprietà coinvolte nell'ameno tour organizzato dal Parco, situata all'interno del castrum Caetani, immediatamente alle spalle di Cecilia Metella e a ridosso delle mura demaniali, è esattamente quella contro i cui abusi edilizi, innumerevoli e ripetuti, lottò per anni e fino agli ultimi giorni, Antonio Cederna.
Quegli abusi e i loro proprietari sono ancora lì, ma in compenso, profondamente cambiato, a quanto pare, è il nostro tasso di attenzione nei confronti di ciò che è illegale e, in quanto tale, mina alle radici le regole basilari della vita democratica secondo le quali la legge è uguale per tutti e garantisce perciò parità di condizioni fra il potente e il debole, fra il povero e il ricco, fra il "normale" e il "diverso".

Anche per sconfiggere, qui in Italia, questa deriva, votiamo, oggi, per l'Europa, nello spirito di Enrico Berlinguer.

Serviranno i drammatici eventi degli ultimi giorni non solo a riavviare il progetto Expo ... >>>

Serviranno i drammatici eventi degli ultimi giorni non solo a riavviare il progetto Expo su binari di recuperata legalità, ma anche a far cambiare rotta sui progetti per il dopo EXPO? Gli eventi di questi ultimi giorni relativi all’EXPO testimoniano di una sorta di drammatico, e a quanto pare ineluttabile, déjà vu e, una volta di più, dell’inarrestabile decadenza della ‘capitale morale’ d’Italia. Ma questa è solo una parte del problema, di per sé già gravissimo.

In attesa di vedere come si uscirà (se ci si riuscirà) dall’intreccio di interessi opachi fra costruttori, amministratori, tecnici e politici che la magistratura sta portando alla luce, per completare il quadro preoccupante che si prospetta, vale la pena di soffermarsi anche su alcune proposte recenti avanzate in ambito politico e tecnico in merito al riutilizzo delle aree dedicate al ‘grande evento’. Perché anche queste sono preoccupanti.

Nel novembre 2013, in un incontro a Palazzo Reale, presenti Maroni, Pisapia e l’assessore all’Urbanistica del Comune di Milano, è stato presentato dalla società Arexpo SpA (che ha come azionisti di maggioranza Regione Lombardia, Comune di Milano, Fondazione Fiera, Comune di Rho e Provincia di Milano) il ‘master plan’ per la gestione del dopo EXPO che dovrebbe individuare linee guida e indirizzi urbanistici che saranno attuati concretamente attraverso un Programma Integrato di Intervento (PII): uno strumento tutto negoziale e flessibile. Si tratta di un master plan “molto essenziale”, come l’ha definito il coordinatore Paolo Galuzzi; in realtà molto aperto a qualsivoglia futura trasformazione. Qualche cifra (probabilmente provvisoria): 44 dei 110 ettari dell’area EXPO saranno dedicati alla realizzazione di un “parco multitematico”; si prevedono inoltre nuove edificazioni per 489.000 mq. + 30.000 mq. dedicati all’housing sociale.

Fra le proposte progettuali presentate ad Arexpo di recente, alcune dedicate alla “città della moda e del lusso” e alla ristorazione, e provenienti soprattutto dal real estate, spicca quello della “Cittadella dello Sport” che, grazie alla "Legge sugli stadi” (due commi nascosti nelle pieghe di un emendamento alla Legge di Stabilità – n.147/2013 -), potrebbe essere approvato a tappe forzate e con il corredo di bar, ristoranti, musei dello sport, alberghi, centri commerciali, multisale e quant’altro[1]. Con il Milan come sempre più probabile protagonista dell’operazione.

Risultano evidenti, al di là delle solite retoriche e degli improbabili auspici, i limiti generali dell’intero programma di riuso dell’area EXPO: limiti che vengono da lontano.

L’iniziale volontà della precedente giunta comunale milanese di centro-destra di rendere urbanizzabili le aree agricole destinate all’EXPO, anche nel caso che l’esposizione non fosse assegnata a Milano; la sciagurata conseguenza di incremento di valore delle aree stesse pagate dalla Regione a caro prezzo (mentre in genere le amministrazioni avvedute prima acquistano e poi cambiano la destinazione d’uso); la attuale necessità di rientrare dall’investimento effettuato, inevitabilmente consentendo sviluppi immobiliari; la rilevantissima dimensione di questi ultimi, data la tradizionale bassa tassazione locale delle trasformazioni immobiliari, nonché grazie alle leggi e ai regolamenti lombardi che non computano come superficie edificata gli immobili destinati a servizi pubblici o a servizi privati in convenzione[2].

Ma c’è di più.

La proposta più preoccupante sul che fare dell’area EXPO è successiva alla presentazione del master plan. In un incontro, questa volta promosso dal PD, svoltosi il 31 marzo presso il Comune di Milano[3] all’insegna dello slogan “via le briglie a Milano”, davvero infelice alla luce delle indagini in corso da parte della Magistratura, si è lanciato il “City Act Milano 2020” che suggerisce di trasformare l’area dell’EXPO in una sorta di enterprise zone del secondo millennio.

Nel resoconto dell’incontro a cura del segretario metropolitano del PD[4] si annuncia una vera e propria svolta strategica nel governo della regione urbana milanese a partire da una visione di lungo termine capace di valorizzare innovazione, competenze avanzate, ambiente e via di seguito con tutte le retoriche ormai usurate sulle magnifiche sorti e progressive del capoluogo lombardo e del suo hinterland (“anticipare i cambiamenti”, “discutere di visione”,...).

Si inizia con la domanda “E se i sindaci governassero il mondo?” citando Benjamin Barber, uno scienziato della politica americano esperto di diritti civili, di partecipazione civica e di studi di genere[5], il cui lavoro (o meglio, il titolo del suo ultimo libro) riscuote evidentemente molto successo in un paese come il nostro dove è sempre più esteso il potere dei sindaci (dai municipi alle città metropolitane al probabile controllo del Senato).

Si prosegue nel solco trionfalistico già tracciato mille volte: richiami alla formidabile eccellenza dell’area metropolitana milanese, alla necessità di potenziarne il ruolo di locomotiva economica del paese etc., etc….e nessuna proposta innovativa in materia di governance metropolitana.

Finalmente, una proposta operativa la troviamo nelle ultime righe, dove viene evocata la grande occasione del dopo EXPO che secondo il PD dovrebbe essere colta facendone una sorta di zona franca che “mantenendo legami economici con i Paesi in via di sviluppo, consenta di istituire aree a burocrazia e tassazione zero al fine di attrarre attività d’impresa innovative, in grado di rilanciare Milano come hub internazionale del mercato italiano”.

Insomma, anche la sinistra propone un mercato deregolato, quello sì davvero ‘a briglie sciolte’, come unico, salvifico strumento di modernizzazione urbana.

Voglio porre al proposito alcune domande, non provocatorie ma di buon senso.

Perché mai si dovrebbero istituire aree a burocrazia e tassazione zero a Milano che è la prima città in Italia per reddito pro capite?

Perché si dovrebbe pensare all’area EXPO come a una zona franca, se si tratta di un’area che (in teoria) costituirà un’eccellenza nell’hinterland metropolitano, immediatamente attigua al polo fieristico, accessibile (forse) dal mondo? Un’area per la quale occorrerebbe (in realtà occorreva fin da subito e contestualmente alla elaborazione del progetto EXPO) prevedere un riuso qualificato e una diversificazione funzionale molto ricca: anche a titolo di compensazione alla collettività per la sottrazione di un’area agricola di frangia urbana?

Ma, ancor prima, di cosa si sta parlando?

Le zone franche sono in genere aree portuali o territori frontalieri dove si godono alcuni benefici quali il non pagare i dazi di importazione.

Le ‘zone franche urbane’ sono state realizzate in quartieri poveri, con problematiche economiche, sociali e ambientali gravissime (infatti, ovunque in Europa e in Italia sono state proposte per aree di evidente urban deprivation): di queste caratteristiche nulla è ravvisabile nell’area milanese.

Forse ai dirigenti del PD è capitato di leggere un interessante, ma molto controverso, intervento del 1977 di sir Peter Hall - grande intellettuale e docente di pianificazione a Londra – alla Fabian Society. Hall proponeva in quell’occasione una sostanziale ritirata dello stato da alcune aree di declino assoluto nelle periferie delle città inglesi di antica industrializzazione. Proponeva un esperimento di deregolazione radicale su alcuni (pochi) quartieri derelitti per attirare attività innovative e nuova imprenditorialità, anche internazionale: avendo davanti agli occhi (all’epoca insegnava a Berkeley/CA) il successo della Silicon Valley, supportato anche da un mercato del lavoro di immigrazione, flessibile e a basso costo. Nacque da qui l’idea delle enterprise zones: zone del tessuto periferico degradato in cui norme e regolamenti (urbanistici, edilizi, relativi al costo del lavoro e alle tutele sindacali) avrebbero potuto essere provvisoriamente sospesi e cospicui incentivi fiscali avrebbero potuto essere concessi a nuove imprese, per rivitalizzare un tessuto economico distrutto e per rimediare alla povertà e alla emarginazione sociale dilagante.

Quella proposta fu molto criticata dal Partito Laburista di cui Peter Hall era membro insigne; mentre se ne appropriò immediatamente Margaret Thatcher quando, vinte le elezioni nel 1979, la utilizzò per legittimare il più esteso programma di privatizzazione delle politiche urbane mai sperimentato dal secondo dopoguerra; e, successivamente, la imitò Ronald Reagan, smantellando il programma di politiche sociali urbane previsto da Carter per le città in grave declino industriale.

Ma il contesto storico in cui Peter Hall aveva formulato la sua ipotesi di zone franche urbane era completamente diverso da quello attuale; così come lo erano i luoghi in cui la Lady di ferro portò a compimento la sua Inner City Policy. E si deve dire anche che le enterprise zones portarono sì nuove attività nei quartieri della disperazione, ma si trattò prevalentemente di attività banali e di routine spesso rilocalizzatesi all’interno della stessa regione urbana per i vantaggi fiscali offerti nei quartieri rigenerati.

Comunque, le zone franche urbane di 30 anni fa nulla hanno a che vedere con il problema del che fare dell’area dell’EXPO; perché oggi le prospettive di sviluppo delle regioni urbane avanzate sono strettamente legate a strategie e progetti che abbiano come obiettivi la tutela dei beni comuni, l’aumento del capitale fisso sociale, la realizzazione di un ambiente che possa essere sì attrattivo, ma per attività di rango metropolitano e non per speculazioni edilizie banali, sostenute da interessi opachi (quando non illegali).

Diversamente sembrano pensarla i gruppi di interesse milanesi, e in particolare la Confcommercio che, già nel gennaio 2014, ha chiesto che, a partire dal novembre 2014 fino al novembre 2015, sia “istituita una zona franca a ‘semplificazione totale’ dell’Area Metropolitana di Milano: con un fortissimo snellimento burocratico delle pratiche legate all’attività imprenditoriale (rifiuti, occupazione di suolo pubblico, fiscalità locale ecc.) e una tassazione agevolata sperimentale”.[6] Diversamente sembra pensarla anche il PD milanese e metropolitano.

I nuovi, gravissimi episodi su cui sta indagando la magistratura suggeriscono di cestinare al più presto l’idea di una ex EXPO zona franca, perché il mercato a briglia sciolta può produrre solo attività di basso livello, attentati ai beni comuni, perdita di vivibilità e competitività e, soprattutto, ulteriore corruzione.

Note

[1] Si veda: Baldeschi P. (2014), “La legge sugli stadi in un paese normale”, in eddyburg.it, 8 maggio.

[2] Per agevolare le manifestazioni di interesse, AREXPO ha predisposto un elenco di risposte a una serie di quesiti che potrebbero essere formulati da parte degli operatori privati. Le risposte sono tutte molto rassicuranti per gli immobiliaristi: ulteriori opportunità edificatorie sia nell’area che in territori contermini; libertà per quanto attiene alle nuove funzioni insediabili; possibilità di tracciare ulteriori attraversamenti carrabili del canale previsto dal contestatissimo progetto delle Vie d’Acqua, etc. etc. Si veda il documento qui allegato: AREXPO Risposte ai quesiti (di cui si sconsiglia la lettura della versione in inglese, tradotta evidentemente in automatico e piena di refusi… tanto per valorizzare una volta di più l’immagine internazionale di EXPO).

[3] Gruppo Consiliare PD (2013), “City Act, verso la Milano 2020", Milano, Sala Alessi a Palazzo Marino, 31 marzo.

[4] Bussolati P. (2014), “City Act, via le briglie a Milano” in Europa, 1 aprile.

[5] Barber ha pubblicato nel 2013 un libro dal titolo If Mayors Ruled the World: Dysfunctional Nations, Rising Cities.

[6] Confcommercio milanese al Tavolo dello Sviluppo (Comune): attrattività prioritaria. Milano? Pensiamo in Grande. Le imprese lo fanno già. Expo 2015: da novembre proposta di zona franca di “semplificazione totale” per l’Area Metropolitana, 31 gennaio 2014.

E così, in extremis, l’ennesimo “caso” Colosseo ha trovato una soluzione>>>
E così, in extremis, l’ennesimo “caso” Colosseo ha trovato una soluzione: il monumento simbolo dei nostri beni culturali, della capitale e del paese tutto parteciperà alla “notte dei musei” e sarà aperto, seppure per numeri di visitatori contingentati, per l’evento a carattere europeo di promozione delle istituzioni museali. Rispettando in pieno l’italica prassi, il dramma riacciuffa, a tempo quasi scaduto, l’happy end, rivelando, una volta in più, l’amarognolo sapore della farsa che connota le nostre politiche culturali o meglio quella congerie estemporanea di provvedimenti ed eventi che testimoniano impietosamente, da troppi anni ormai, il provincialismo con cui gestiamo il nostro patrimonio culturale.

La notizia era rimbalzata sulle cronache da qualche giorno, lanciata dallo stesso Ministro Franceschini: il Colosseo sarebbe rimasto chiuso in occasione della “Notte Europea dei Musei”, sabato 17 maggio 2014, perché non si trovavano 5 custodi “volontari” disponibili ad assicurare il minimo di personale necessario per la sicurezza del pubblico. Apriti cielo: si è scatenata a quel punto una ridda di prese di posizione, dichiarazioni, anatemi, deprecazioni, provenienti in massima parte dal mondo politico ed istituzionale – sindaco e assessori in forze, per dire - ispirate alla più totale ignoranza delle regole in ballo.
Solo dopo che si era un po’ diradato il comico arrembaggio di “volontari” estemporanei (nel giro di poche ore si è parlato di studenti in beni culturali, neolaureati disoccupati, carcerati, mentre persino alcuni rappresentanti della stessa classe politica, evidentemente non indaffaratissimi, si sono offerti in prima persona per salvare l’onore della patria) si è cominciato a capire che il termine di “volontari”, assume in questo contesto una precisa connotazione.

In ossequio a quanto stabilito in sede di contrattazione nazionale, in casi di aperture straordinarie, è comunque richiesta la presenza di una certa percentuale di personale non esterno che però non può essere obbligato: precetto che soddisfa ad elementari regole di sicurezza, in quanto solo chi conosce bene una struttura - e il Colosseo è, come noto, struttura molto complessa - ne può garantire un accesso sicuro.
Fraintendimenti a parte, il tono di disappunto e spesso e non velatamente di stigma nei confronti del personale Mibact che con inspiegabile pervicacia attentava all’onorabilità del paese peggio di un crollo a Pompei, ha dilagato per giorni su tutti i media (fra le pochissime eccezioni, il blog di Storie dell’Arte, Tomaso Montanari e Luca Del Fra) con i politici in questo ruolo autoassegnato di impotenti di buona volontà.

Ora che l’onore è salvo, anche se a prezzo di uno stravolgimento dei calendari a Roma (peraltro ancora indisponibili ad oggi sul sito del Mibact…), può essere il momento per alcune considerazioni a commento. L’iniziativa della notte dei musei, inventata nel 2005 dal Ministero della Cultura francese e ora promossa dal Consiglio d’Europa, consiste nell’offrire, ad un prezzo simbolico, l’accesso per una notte a musei e siti dei paesi aderenti, e alle molte diverse iniziative e spettacoli organizzati per l’occasione.
Un evento, nato per avvicinare l’istituzione museale ad un pubblico in particolare giovanile, ben conosciuto in tutta Europa, consolidato, non certo inaspettato: eppure l’adesione ufficiale del Mibact e quindi dei musei statali c’è stata solo pochi giorni fa a ulteriore testimonianza dell’approssimazione organizzativa che caratterizza l’azione del Collegio Romano.
Magari con qualche settimana in più di tempo a disposizione, la preparazione dell’evento e quindi anche la concertazione coi sindacati sarebbe stata vissuta con meno pathos; non che questi ultimi – i sindacati – siano esenti da colpe nella vicenda complessiva della gestione dei nostri monumenti.

Quest’ultimo episodio ribadisce le modalità da “prova di forza” che governano i rapporti di lavoro all’interno del Mibact, modalità incancrenitesi nel tempo a esclusivo vantaggio di alcune fasce di lavoratori e a danno, in particolare, dei visitatori- utenti e di un precariato giunto al limite del dramma sociale. Anche queste distorsioni, del resto, hanno potuto perdurare e ingigantire sull’inettitudine e la mancanza di un progetto complessivo sul nostro patrimonio dimostrata dalla dirigenza Mibact negli ultimi lustri.

E’ su questa mancanza di visione, infine, che si è innestato anche questo “caso” dell’anfiteatro flavio, un monumento iperconosciuto, ipervisitato e sottoposto ad una pressione antropica fortissima. Invece di utilizzare l’evento della notte europea come un’occasione per far conoscere ad una platea più allargata le decine di musei e siti pochissimo conosciuti (e le statistiche al riguardo sono drammatiche), ci si è concentrati, ministero, politica e media, sulla star Colosseo che di turisti e di pubblicità proprio bisogno non ha. L’episodio ha finito così per sottolineare impietosamente l’angustia culturale con cui il Mibact affronta il tema del ruolo dei musei, quasi del tutto ignaro, a livello centrale, delle riflessioni della new museology, dei programmi di long-life learning e di inclusione sociale che nella maggioranza dei paesi europei stanno trasformando radicalmente – e felicemente – funzioni e identità di queste istituzioni culturali.
E pensare che quelle istituzioni ce le siamo inventate qui, nel Bel Paese, tanto tempo fa.

L'articolo è pubblicato, contemporaneamente, su L'Unità on-line, "nessundorma"

Immaginiamo per un momento di abitare in un paese normale, dove si vuole costruire un nuovo stadio... >>>

Immaginiamo per un momento di abitare in un paese normale, dove si vuole costruire un nuovo stadio che sia in grado di garantire adeguati guadagni di esercizio alla società di gestione. Il piano regolatore della città o dell'area metropolitana ne ha stabilito la localizzazione in stretto coordinamento con un programma di investimento nei trasporti, tenendo conto di sinergie e possibili conflitti con altre attività. Il nuovo stadio ha tutti i requisiti per diventare una parte della città, collegandosi a un sistema di parchi ed essendo ben servito dai mezzi pubblici. I progetti, presentati in accordo con il piano regolatore, sono discussi con la partecipazione dei cittadini; i tempi sono rispettati perché tutto avviene secondo programmi e regole ... in un paese normale.

In un paese anormale, dove vige sempre l'eccezione, l'emergenza come metodo per affrontare gli investimenti in grandi opere - ma ormai qualsiasi trasformazione urbana di qualche entità - si approva invece una "legge degli stadi", due commi inseriti nella legge 147 del 2013, "di stabilità". Secondo la legge, i nuovi stadi non nasceranno da soli, ma saranno accompagnati da interventi "strettamente funzionali alla fruibilità dell'impianto e al raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario dell'iniziativa..." (comma 304). Quali siano questi interventi ce lo spiega il Commissario Straordinario dell’Istituto per il Credito Sportivo; sono:" bar, ristoranti, musei dello sport, fun shop, ma anche alberghi o centri commerciali, il tutto per ottenere ricavi integrativi e diversificati, funzionali al conseguimento del complessivo equilibrio economico finanziario dell’iniziativa". La legge stabilisce un percorso di approvazione dei progetti a tappe forzate, se questi sono presentati da società sportive e costruttori associati tra loro e d'accordo con il Comune; ne prevede, inoltre, la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza - sollecitudine che non ha uguali nelle opere di difesa del territorio da alluvione e catastrofi. La legge non lo dice esplicitamente, ma l'approvazione dei progetti nelle conferenze di servizi comporterà automaticamente varianti urbanistiche ad hoc.

Tutto ciò in nome della cosiddetta "compensazione". Vale a dire che le società di calcio italiane, a differenza di quelle di altri paesi europei, non pensano di guadagnare a sufficienza con la vendita dei biglietti e il merchandising sportivo, ma devono "compensarsi" con gli introiti di centri commerciali, di alberghi e di terziario di ogni tipo; e anche questo non sembra abbastanza ai presidenti delle società di calcio, che spesso hanno interessi nelle società di costruzioni. Il Presidente della Lega di serie A si è infatti lamentato che fosse stato stralciato da un primo testo della legge la possibilità di realizzare, a ulteriore compensazione, anche edilizia residenziale. Gli stadi, quindi come passepartout per investimenti e speculazioni che con lo sport non hanno a niente a che fare.

La legge sugli stadi, se mai ce ne fosse bisogno, sancisce ancora una volta che in Italia non esiste più l'urbanistica, smantellata progressivamente da provvedimenti di deregulation, additata al pubblico ludibrio come attività burocratica e di impaccio allo sviluppo (al pari della tutela dei monumenti e dei siti storici da parte delle Soprintendenze). In un martellamento pubblicistico che vuole far credere che il project financing significhi crescita economica e modernizzazione; mentre, al contrario, tutto ciò che di positivo è stato realizzato negli ultimi venti anni in Europa - dai grandi processi di riqualificazione territoriale alla costruzione di stadi e aeroporti - ha avuto successo perché guidato dalla mano pubblica, con programmi e piani ben studiati, dove i privati hanno avuto un ruolo importante ma non sostitutivo delle amministrazioni. Noi siamo invece per una non-pianificazione fatta di interventi casuali, non coordinati ed eventualmente finanziati con fondi straordinari; siamo il paese delle opere incompiute dei rabberci e, ovviamente della corruzione, che è alimentata dalla mancanza di regole. L'Aquila dopo cinque anni è ancora un cumulo di macerie, ma potrà - si dice - avere uno stadio in un anno.

Ma l'episodio dell'Olimpico di Roma del 3 maggio, di cui sono piene le cronache... >>>

Ma l'episodio dell'Olimpico di Roma del 3 maggio, di cui sono piene le cronache di queste giorni, è solo uno squallido lacerto debordato dal mondo del calcio? La scena di Genny 'a Carogna, il capo-curva napoletano che tiene in scacco una manifestazione sportiva a cui partecipano decine di migliaia di spettatori, presenziata da alcune fra le maggiori cariche dello Stato, seguita in tv da milioni di spettatori, è stata resa possibile solo dalla violenza plebea e dallo sterminato squallore che caratterizza da anni l'ambiente calcistico italiano? O non è piuttosto la manifestazione drammatica, l'ultimo gradino di degradazione cui è giunta la decomposizione dello spirito pubblico nazionale? Perché Genny 'a Carogna, non è un episodio, un lazzo folklorico uscito dai bassifondi della vita napoletana. E' un pezzo della nostra storia, reso legittimo dal filo rosso che marchia da decenni il nostro passato e soprattutto preparato dagli sfregi subiti dalla legalità repubblicana negli ultimi anni.

Ma come si fa – lo fanno in maniera unanime tutte le televisioni e i giornali – a dare tanto spazio a questo episodio e ai soliti strombazzati provvedimenti governativi e non dire nulla, o quasi, di ciò che quell'episodio rappresenta, quale elemento di continuità allarmante viene a rappresentare nel processo degenerativo della vita civile italiana? Forse che la capacità di ricatto di un tifoso nei confronti dell'intero stato è disgiungibile, ad esempio, dalla gara che tanti giornalisti italiani (prevalentemente di sinistra) hanno ingaggiato per intervistare Silvio Berlusconi nei loro programmi televisivi? I semplici di mente obietteranno subito: che cosa c'entra? Ma Silvio Berlusconi ha subito una condanna definitiva per un reato grave contro la Pubblica amministrazione che egli doveva rappresentare e tutelare. Non è dunque un pregiudicato, che ha colpe gravi nei confronti della collettività, e per questo, quanto meno, non deve essere reso protagonista della scena pubblica nazionale? Ma Berlusconi non ha solo subito questa condanna. Com' è noto - e ci si dimentica volentieri - si è macchiato di svariati delitti infamanti, alcuni accertati, altri prescritti, altri oggetto di processi in corso - dalla corruzione dei giudici allo sfruttamento della prostituzione, dall' “acquisto” di parlamentari alla concussione. Ora, non tutto è stato penalmente sanzionato o è rilevante.

Ma il pedigree politico di Berlusconi è indubbiamente quello di un capo-curva, per così dire, della vita politica nazionale. In qualunque paese civile d'Europa e del mondo egli sarebbe oggi in carcere e comunque tenuto lontano dalla vita pubblica. Da noi succede l'impensabile: viene addirittura ricevuto dal presidente della Repubblica, il 3 aprile scorso, per la seconda volta dopo la condanna. La maggiore carica dello stato riceve un pregiudicato che ha inferto ferite gravissime al senso della legalità del nostro paese, a partire dal conflitto di interessi. Ma qualche superstite persona onesta è in grado ancora di domandarsi quale effetto produce un simile evento nell'immaginario civile degli italiani ? Berlusconi è un condannato o è stato graziato?O addirittura è innocente e il colpevole potrebbe essere Napolitano? Da che parte è il torto da che parte è la ragione? Chi ha frodato il fisco per centinaia di milioni? Ma la magistratura italiana commina davvero sanzioni a chi delinque, o chiude un occhio se il delinquente è un potente? E allora di che stupirsi se i poliziotti applaudono i loro colleghi assassini, come hanno fatto a Rimini, visto che essi sono rientrati in servizio dopo aver pestato a morte un ragazzo inerme? Di che stupirsi se Giuseppe Scopelliti, ex presidente della Regione Calabria, condannato a 6 anni in prima istanza, viene candidato dal suo partito, membro del governo, alle elezioni europee? Nel nostro paese i servizi segreti di uno statarello dittatoriale possono sequestrare una persona (la Shalabayeva) e il ministro responsabile (Alfano), restare al suo posto. E' ancora ministro dell'Interno del governo che “combatte la palude”.

E' questa la melma a cui è stato ridotto lo spirito pubblico del nostro paese. E' questo il cancro che si sta mangiando la nostra amata Italia, la causa vera e profonda del nostro declino: l'inosservanza universale delle regole della vita comune, la legge del più forte come principio di regolazione sostanziale del rapporto fra le classi e fra le persone. Qualcuno sa dire con quale autorevolezza un ceto politico che ha sconvolto l'etica civile e la decenza politica del nostro paese può chiamare i cittadini a concorrere a uno sforzo collettivo di cambiamento e addirittura di salvezza? E non è vero che Renzi sta cambiando verso, come va reclamizzando tra gli schiamazzi della sua petulante corte governativa e parlamentare. Le sue scelte e la sua stessa parabola portano l'illegalità diffusa della società italiana e dei partiti dentro le istituzioni. Senza essere stato eletto è a capo del governo e pretende di riformare la Costituzione con un Parlamento privato di legittimità da parte della Corte costituzionale. Come ha ricordato con argomenti inoppugnabili Alessandro Pace (Repubblica, 26/3/2014). L'arbitrio e lo sconvolgime nto delle regole, vale a dire la morale di base della criminalità organizzata - che non a caso da noi, unici al mondo, dura e prospera dalla metà del XIX secolo - si espande anche nelle istituzioni, plasma la vita dei partiti, si fa strada dentro lo stato.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto.

Il pensiero marxista ha elaborato la teoria della lotta di classe, intesa come ... >>>

Il pensiero marxista ha elaborato la teoria della lotta di classe, intesa come contrapposizione di interessi fra gruppi di persone, relativamente omogenee, appartenenti ad una ”classe”, appunto, per la conquista di diritti che un’altra classe negava. La “classica” lotta di classe si è svolta fra datori di lavoro e lavoratori nella società capitalistica. Il dovere dell’imprenditore capitalistico, anche in quanto appartenente ad una ”classe” di simili soggetti economici, era ed è l’aumento del proprio capitale monetario; per raggiungere questo fine egli deve dipendere da altre persone, da una “classe” di dipendenti ai quali “deve” essere pagato meno possibile la merce che tale classe vende, il lavoro, che deve “pesare” il meno possibile sui bilanci aziendali con richieste di sicurezza nel luogo di lavoro, di sicurezza sociale, eccetera.

Col passare del tempo, col rafforzamento della consapevolezza dei propri diritti, col contributo anche di una (piccola) parte della borghesia, quella che riconosceva l’ingiustizia e la violenza delle regole dell’operare capitalistico, e con una lunga continua lotta per l’affermazione di una qualche visione socialista, “di sinistra”, dei rapporti civili e politici --- la classe dei lavoratori ha ottenuto condizioni di vita e di salari e di sicurezza più decenti. Il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori non era poi sprecato, per il capitalismo, perché consentiva di far crescere una classe di consumatori in grado di assorbire le merci e i servizi che il capitale poteva offrire in maggiore quantità, sempre al fine di aumentare i propri guadagni, con l’ulteriore vantaggio di presentarsi come benefattore merceologico della società.

Successivamente il capitale, messi abbastanza quieti i lavoratori nelle loro rivendicazioni salariali, ha scoperto che poteva aumentare i propri profitti esercitando violenza non più tanto su un gruppo omogeneo di persone --- come erano i diretti dipendenti --- ma su gruppi molto più diffusi di soggetti impreparati e indifesi.

Le frodi, l’immissione in commercio di alimenti, tessuti, merci, materiali, macchinari difettosi o dannosi perché poco costosi, si sono rivelate preziose fonti di arricchimento. In definitiva le frodi arrecavano danno alla salute o al salario o alla vita non di singole persone o di gruppi di persone, ma di vasti strati della popolazione, ignari di quanto il capitale gli offriva negli opulenti negozi.

Fortunatamente ci sono state persone che, raccogliendo informazioni sull’operare degli imprenditori, talvolta notizie filtrate attraverso i lavoratori stessi, hanno cominciato a denunciare le frodi, hanno mobilitato l’opinione pubblica e hanno dato vita, attraverso scritti e dibattiti, ad un movimento di cittadini e “consumatori” che assumevano un carattere di “classe”, vittima dell’altra classe di venditori-frodatori.

La nuova classe dei frodati ha alzato la voce ed ha chiesto leggi più rigorose sulla qualità dei prodotti commerciali, ha chiesto l’intervento dello stato che ha (avrebbe) il dovere di proteggere le persone danneggiate; i governi dei vari stati, peraltro, si sono spesso mostrati riluttanti a interventi rigorosi, sotto la pressione della “classe” dei venditori che cercava di minimizzare i pericoli e i danni denunciati.

Alcune delle merci pericolose, dai solventi cancerogeni, ai pesticidi, ai metalli tossici, attraenti dal punto di vista dei profitti dei produttori e dei venditori, oltre ad avvelenare gli umani alteravano anche gli animali allo stato naturale, i cicli ecologici, inquinavano l’atmosfera e le acque. Anche in questo caso alcuni (pochi) chimici, biologi, ecologi hanno denunciato le sostanze dannose per una massa diffusa e indefinita di consumatori, una nuova classe di ”inquinati” nel corpo e nell’ambiente circostante.

Intanto il capitale ha visto che era possibile assicurarsi profitti sfruttando anche in altro modo il grande patrimonio senza padrone della natura. Ogni processo di produzione genera delle scorie e dei rifiuti gassosi, liquidi e solidi e quale miglior sistema per sbarazzarsene, senza spesa, dell’immetterli nei corpi riceventi naturali, nell’aria, nei fiumi, nel mare, sui terreni abbandonati ?. Fino a quando qualcuno ha cominciato a denunciare le merci e i processi inquinanti, gli effetti vicini e lontani, nello spazio e nel tempo, provocati da ciascun inquinatore e da tutti i membri della sua classe e da coloro che, sempre nel nome del profitto, assaltavano a fini speculativi i terreni, i boschi, le spiagge.

Sono così sorti gruppi, associazioni, movimenti impegnati nella difesa dei cittadini frodati o inquinati, impegnati nella richiesta di leggi più rigorose, impegnati, addirittura, nella denuncia degli effetti perversi sulla salute e sull’ambiente della ”società dei consumi”, orchestrata, grazie anche ad una sapiente propaganda, soltanto per il profitto dei venditori. Per qualche tempo, nella breve “primavera dell’ecologia”, nei primi anni settanta nel Novecento, c’è stata, almeno in alcuni movimenti, una corretta analisi “di classe”, “di sinistra”, della contrapposizione fra inquinatori e inquinati, ed è stato riconosciuto che i primi inquinavano e danneggiavano la classe degli inquinati proprio perché agivano secondo le regole del capitalismo. Qualcuno allora ricordò alcune pagine di Marx ed Engels in cui erano anticipati con grande lucidità i problemi che caratterizzavano gli ultimi decenni del Novecento.

Da parte sua la classe degli inquinatori e degli speculatori ha esercitato pressioni sui governi per evitare vincoli o divieti, ha ridicolizzato la critica e la contestazione e, fatto abbastanza importante, è riuscita talvolta a mobilitare i dipendenti agitando la minaccia che vincoli e leggi più rigorosi contro le frodi, gli inquinamenti, la speculazione avrebbe fatto perdere il posto di lavoro. Ciascuna azione richiesta dalla classe degli inquinati per la difesa dei propri diritti, individuali e collettivi, avrebbe comportato, sostenevano e sostengono gli inquinatori, maggiori costi di produzione, minore convenienza a produrre e vendere, il licenziamento di parte dei lavoratori. La classe degli inquinati era così, furbescamente, presentata come nemica della classe operaia: e poco conta se i membri della stessa classe operaia e le loro famiglie sono i destinatari delle merci dannose e dei danni degli inquinamenti o delle alluvioni e frane provocate dalla speculazione.

Quella parte della contestazione che denunciava il capitalismo come vera fonte dei danni alla salute e alla natura è stata travolta dalla nuova ideologia che non c’è altro modo di produrre e di operare --- anzi non c’è altro modo di esistere --- al di fuori di quello determinato dal libero mercato e dal capitalismo, i quali possono essere corretti e aggiustati non con una lotta di classe, ma con una collaborazione che rende gli inquinatori meno violenti e gli inquinati più tolleranti, a condizione che si sia tutti uniti nel comune obiettivo di possedere più merci e più ricchezza.

Abbastanza curiosamente, in questo sonno della ragione dell’Europa e dell’Occidente, con virulenta diffusione anche nei paesi “liberati” dal comunismo, una contestazione di sinistra dei guasti umani e ecologici del capitalismo imperante continua a zampillare qua e là, spesso sommersa, ma resa oggi più visibile grazie allo strumento più raffinato del capitalismo, Internet. Del resto non erano stati gli strumenti più raffinati del capitalismo, le grandi biblioteche pubbliche di Londra e Berlino, a rendere accessibili ai padri del comunismo i testi su cui edificare la loro critica al capitalismo stesso ?

Se da noi si muove con fatica qualcosa, diciamo così, di rosso-verde, di contestazione di sinistra dei guasti consumistici ed ecologici, la voce di una contestazione rosso-verde si trova vivace, nel Nord e nel Sud del mondo, in molti movimenti “ecologici”, femministi, pacifisti, di difesa dei consumatori e delle minoranze. Forse una ripresa della analisi dei rapporti conflittuali fra capitalismo, socialismo e natura, potrebbe contribuire a far conoscere i volti di questa nuova lotta di classe fra vittime e oppressori, nel grande circo delle merci, fra inquinati e inquinatori, al fine di dare nuovo coraggio e speranza agli inquinati e di temperare l’arroganza e anche l’ignoranza degli inquinatori, i più recenti protagonisti del capitalismo dominante.

Domenica prossima, 4 maggio, a Mirandola >>>
Domenica prossima, 4 maggio, a Mirandola, in provincia di Modena si terrà la manifestazione "com'era, dov'era" per discutere con architetti, storici dell'arte, cittadini i problemi della ricostruzione post terremoto, in particolare per quanto riguarda i centri storici e il patrimonio culturale.Organizzata da Italia Nostra Emilia Romagna assieme a Tomaso Montanari, Com'era, dov'era si pone in ideale continuità con L'Aquila 5 maggio che un anno fa richiamò nel capoluogo abruzzese uno straordinario pellegrinaggio laico di storici dell'arte, restauratori, archeologi chiamati a dare la sveglia per la ricostruzione del centro storico rimasto, dopo il sisma, per anni congelato in uno stato di abbandono quasi totale.

Le due aeree colpite presentano fra di loro molte differenze: nei centri emiliani si sono per fortuna evitati molti degli errori derivati dalla gestione commissariale della Protezione Civile che in Abruzzo condusse manu militari le operazioni di soccorso e tutta la prima fase della ricostruzione, fino allo scoppio degli scandali che travolsero la gestione Bertolaso.Pur se le lentezze burocratiche e i ritardi non sono mancati neanche in Emilia, qui il tessuto civile e amministrativo ha reagito con maggiore prontezza e le strutture economiche sono state ricostruite abbastanza in fretta.
Non altrettanto è successo, invece, per quanto riguarda il ricco e diffuso patrimonio culturale, costituito da decine e decine di rocche e castelli, torri, ville signorili, palazzi storici e da circa 400 edifici religiosi sparsi sul territorio.In questo caso, la mancanza ormai strutturale di risorse del Ministero dei Beni culturali si è unita, nelle prime fasi della messa in sicurezza, ad una gestione caratterizzata da incertezze, lentezze ed errori, come è accaduto, ad esempio, nel caso di molte demolizioni di strutture storiche.

Poi, a pochi mesi dal sisma, nel dicembre 2012, una legge (16/2012) sulla ricostruzione della regione Emilia Romagna, ha aperto un varco pericoloso in quel sistema di tutela dei centri storici che costituiva, dagli anni '70, uno dei vanti dell'amministrazione emiliana. Gli elementi sono quelli, consolidati, dell'urbanistica contrattata di queste ultime tristi stagioni di cementificazione: deroga dagli strumenti ordinari di pianificazione, possibilità di annullamento dei vincoli, incentivo alle delocalizzazioni.
Questo allentamento vistoso delle regole si salda ben presto con l'aporia culturale dimostrata da taluni settori del Mibact che finiscono sedotti dal nuovo mantra propugnato, non per caso, dagli ambienti accademici: dov'era, ma non com'era. La formuletta sembra la soluzione, rapida, semplificatoria, per risolvere i problemi connessi alla ricostruzione: da quelli economici a quelli tecnici.
Perchè affannarsi a restaurare, quando è più semplice, più economico anche ai fini dell'efficientamento energetico, demolire e ricostruire anche con materiali e forme in tutto o in parte profondamente diversi dagli originali? In questo modo si aprono per schiere di architetti, praterie sterminate per sperimentare il progetto del "nuovo", in quanto tale ontologicamente migliore del "vecchio" e precedente.

I progetti di cui abbiamo preso visione in questi mesi ci restituiscono una ridicola galleria di esercitazioni architettoniche quasi sempre del tutto slegate dal contesto urbano e paesaggistico, dalle consuetudini tipologiche che caratterizzano le nostre zone (penso ad esempio a quel prezioso spazio pubblico rappresentato dai portici) o anche solo, molto più semplicemente, alle condizioni meteorologiche: complicato soggiornare in ambienti completamente vetrati nell'afa canicolare delle estati padane...
Per molto tempo, solo poche voci, su tutte quella di Italia Nostra, hanno proposto ragioni diverse: quelle di un restauro consapevole, innovativo nelle metodologie al punto da saper coniugare il "com'era, dov'era" alle esigenze antisismiche e di risparmio energetico. È proprio in questo, cioè nella capacità di innovare le pratiche del restauro in modo da renderle più sicure e adatte al recupero di interi brani di tessuto edilizio storico che occorre sperimentare, non nello stravolgimento delle forme.
Il problema non è economico: restaurare non costa più che costruire ex novo, ma è più complesso e richiede competenze tecniche di alto livello e assieme una conoscenza del territorio, in tutti i suoi aspetti, profonda: gli unici strumenti veramente efficaci perchè questo paese - l'Emilia, l'Italia - possa ripartire.

Per raccontare queste ragioni, domenica 4 maggio, invitiamo a Mirandola tutti i cittadini delle zone terremotate e tutti coloro che credono che la difesa del nostro patrimonio culturale e dei nostri centri storici sia problema collettivo di primaria importanza, che riguarda la qualità della nostra vita e il senso del futuro che vogliamo trasmettere a chi verrà dopo di noi.
Vi aspettiamo.

Il programma e le informazioni logistiche sull'iniziativa "Mirandola, 4 maggio, dov'era, com'era"

L'articolo è pubblicato, contemporaneamente, su L'unità on-line, "nessundorma"

Che cosa c’entra una caffettiera con l’ambiente ? Forse più di quello che si creda ....>>>

Che cosa c’entra una caffettiera con l’ambiente ? Forse più di quello che si creda perché la stessa persona, Benjamin Thompson (1753-1814) che ha scoperto alcune leggi fondamentali che consentono oggi di “perdere” meno calore nell’ambiente e che ha inventato dispositivi per diminuire l’inquinamento, ha inventato anche nel 1806 la prima caffettiera, quella a percolazione usata negli Stati Uniti (la caffettiera “napoletana”, comune da noi, è stata inventata invece dal francese Morize. nel 1819). Thompson, di cui ricorre quest’anno il bicentenario della morte, fu un personaggio straordinario, davvero fuori del comune perché ebbe una vita avventurosa, fu prolifico inventore, apprezzato scienziato e partecipò intensamente agli eventi politici del suo tempo.

Thompson nacque a Woburn, nel Massachusetts, uno degli stati delle colonie americane allora sotto gli inglesi; frequentò le scuole elementari del suo villaggio e a 13 anni fu assunto da un mercante di Salem, nello stesso stato, il che gli diede l’opportunità di frequentare persone istruite e benestanti e di migliorare la propria educazione. Nel 1772, a 19 anni, la sua vita ebbe una svolta; conobbe e sposò una ricca vedova che aveva ereditato una tenuta a Rumford, alla periferia della città di Concord nel New Hampshire e che lo introdusse fra l’alta borghesia. Allo scoppio della rivoluzione americana” (1775-1783), la guerra dei coloni americani contro gli occupanti britannici, come grosso proprietario terriero Thompson si schierò con gli inglesi contro ”i ribelli”; in questa occasione fece le prime osservazioni sul calore che si sviluppa nei cannoni, dall’attrito dei proiettili nella canna; intuì e spiegò che il calore era una forma dell’energia proprio come quella meccanica dell’attrito fra due corpi.

Il concetto dell’equivalenza fra calore ed energia meccanica furono pubblicati in Inghilterra nel 1781 e riscossero grande attenzione; quando, alla fine della guerra, Thompson si trasferì a Londra (piantando in asso la moglie in America), era già noto ed apprezzato, partecipò all’attività delle società scientifiche e fu nominato ”Sir” dal re Giorgio III. La sua anima inquieta lo spinse a trasferirsi, nel 1785, in Baviera dove divenne aiutante di campo del principe Carlo Teodoro (1724-1799); qui rimase undici anni nei quali contribuì a diffondere la coltivazione della patata, studiò metodi per cuocere razionalmente il cibo consumando poco carbone e inventò una “zuppa” nutritiva a basso costo, utile per l’alimentazione delle classi povere, dei soldati e dei carcerati, una ricetta che fu utilizzata per molti decenni e che è ricordata con apprezzamento da Carlo Marx nel 22° capitolo del I libro del “Capitale”.

Il principe gli procurò il titolo di conte del Sacro Romano Impero e Thompson scelse il nome di Rumford, la cittadina americana da cui erano cominciate le sue fortune. Dal 1799 Thompson, ormai Conte Rumford, visse fra Francia e Inghilterra; erano anni tempestosi, dopo la morte della moglie, quella abbandonata in America, nel 1804 Thompson sposò la vedova del grande chimico francese Antoine Lavoisier (1743-1794), borghese rivoluzionario a cui la rivoluzione francese non risparmiò il taglio della testa. Thompson continuò a vivere fra la Francia e l’Inghilterra; partecipò alla fondazione di istituzioni scientifiche, fu eletto in varie accademie internazionali e fu anche nominato professore nell’Università di Harvard. I suoi scritti occupano cinque grossi volumi.

Dal punto di vista dell’economia, dell’energia e dell’ambiente le osservazioni di Thompson anticiparono di oltre mezzo secolo gli esperimenti che consentirono a James Joule (1818-1889) di misurare esattamente, ma solo nel 1850, che una caloria equivale e 4,18 unità di lavoro meccanico, l’unità che oggi chiamiamo “joule”. Ma vanno ricordate le invenzioni che consentirono la modificazione dei camini delle stufe; se si restringe il diametro del camino dal basso verso l’alto migliora il tiraggio e si disperdono nell’aria esterna i fumi nocivi e puzzolenti che prima spesso restavano all’interno delle case. Con lo stesso criterio Thompson perfezionò i forni industriali; il suo forno per la produzione della calce dalla cottura del calcare teneva separata il carbone dal calcare e in questo modo si otteneva della calce di migliore qualità, più pura, consumando anche meno energia, proprio secondo i criteri “ecologici” a cui ci si dedica oggi.

Dal punto di vista dell’economia energetica Thompson studiò a lungo la trasmissione del calore e riconobbe che l’aria stazionaria è un buon isolante termico, ma pensò che tutti i gas e anche i liquidi impedissero le perdite di calore, e non è così; ma stiamo parlando di esperimenti di oltre due secoli fa. Sempre per consumare meno energia Thompson perfezionò le cucine domestiche, attento insieme agli aspetti economici, ma anche alle condizioni che rendevano migliore la vita delle famiglie e dei lavoratori.

I suoi studi permisero di migliorare le candele di cera e le lampade ad olio; per valutare l’intensità dell’illuminazione propose come unità di misura la ”candela”, un nome usato ancora oggi (una lampada fluorescente da 40 watt produce una illuminazione di circa 200 “candele”) e si occupò anche della misura dei colori. Insomma, il benessere della nostra vita quotidiana deve molto al conte Rumford, che da duecento anni riposa nel cimiterino di Auteuil a Parigi. Almeno un grazie.


Articolo inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

Secondo me, la chiusura di una fabbrica dovrebbe essere intesa come un lutto...>>>

Secondo me, la chiusura di una fabbrica dovrebbe essere intesa come un lutto nazionale. Lo spegnimento dell’ultimo, ormai rimasto unico, altoforno dell’acciaieria di Piombino meriterebbe l’esposizione delle bandiere a mezz’asta. Con la morte di una fabbrica scompaiono non soltanto i posti di lavoro; forse i lavoratori dell’acciaieria di Piombino conserveranno un salario, forse saranno convertiti in operatori ecologici per spazzare le scorie di un secolo e mezzo di polveri e fumi; forse l’acciaieria a ciclo integrale sarà convertita in acciaieria con forni elettrici per trattare rottami o col processo Corex, senza cokeria e altoforno.

In un momento di crisi come questo il pericolo di perdere un salario è certamente prioritario rispetto ad altre considerazioni. Ma “la fabbrica” è qualcosa di più di un posto di lavoro; la fabbrica è qualcosa di vivo che trasforma le risorse della natura, minerali o prodotti agricoli, in merci, in oggetti non solo vendibili, ma utili, necessari per la vita di altre persone. La fabbrica è storia; attraverso i capannoni di Piombino sono passate generazioni di operai e tecnici; accanto a quelle macchine sono morti padri di famiglia, per imprevidenza o egoismo dei datori di lavoro (non a caso i sette omicidi di Torino si sono avuti in un’altra acciaieria, quella della Thyssen Krupp); in quella fabbrica si sono concretizzate le speranze del primo giorno di lavoro e l’orgoglio di entrare a far parte di una famiglia, si sono svolte azioni di solidarietà, come anche di conflitti.

Nella “fabbrica” è nata la classe operaia - parola che non si deve oggi pronunciare - sono cresciuti i conflitti per un orario di lavoro più decente, per un salario che permettesse di sfamare le famiglie e di mandare i figli a scuola.Nella fabbrica è nata, con buona pace degli ecologisti da salotto, l’ecologia, la consapevolezza che le merci che gli operai stavano producendo si formavano trasformando la natura, con processi che inevitabilmente generano fumi e scorie che avvelenano prima di tutto gli operai all’interno e poi le famiglie all’esterno del muro di cinta, e poi la comunità più in generale. Lotte per nuovi diritti, di salario ed ecologici, che hanno fatto nascere la società moderna e da cui ha tratto beneficio tutta intera la comunità di un paese.

La fabbrica è stata la culla del capitalismo e dei “padroni”, di quelli che sfruttavano gli operai nel nome del profitto e che oggi, per lo stesso motivo, spostano fabbriche e lavoro da un punto all’altro del globo; padroni che sono stati sordi alla domanda di nuovi diritti dei dipendenti e della società, risparmiando per evitare depuratori e filtri e maggiore sicurezza. Piombino è stata “fabbrica” in tutti questi sensi, sorella delle innumerevoli fabbriche di questa terra; per questo la sua morte è un lutto.

A maggior ragione per il fatto che a Piombino si produceva l’acciaio, non una merce qualunque, ma la merce specialissima che permette di costruire grattacieli e ferrovie, di conservare in scatola gli alimenti, di muoversi e di scambiare conoscenze e pensieri, presente nelle abitazioni, nei ponti e nelle strade, in tutte i macchinari, perfino nelle merci più “verdi” ed “ecologiche”. Una merce che, nel bene e nel male, ha accompagnato il “progresso” non solo merceologico, ma anche scientifico, sociale, economico ed umano. Non a caso il rivoluzionario Josef Giugashvili aveva scelto, come nome di battaglia, Stalin, quello russo dell’acciaio.

Non è la prima volta che scien­ziati e stu­diosi di varia for­ma­zione, pero­rano la causa degli Ogm ...>>>

Non è la prima volta che scien­ziati e stu­diosi di varia for­ma­zione, pero­rano la causa degli Ogm in nome della razio­na­lità scien­ti­fica, con­tro la dif­fusa super­sti­zione popo­lare che li teme. Umberto Vero­nesi in pri­mis, ma anche Edoardo Bon­ci­nelli e Giu­lio Gio­riello, per citare i più illu­stri, lo hanno fatto in pas­sato in varie occa­sioni. Ora ripro­pon­gono il motivo, con un di più di con­fu­sione, Elena Cat­ta­neo e Gil­berto Cor­bel­lini (Quelle misti­fi­ca­zioni sugli Ogm, La Repub­blica, 9/4/2014).

I due stu­diosi aprono un fronte pole­mico con­tro alcune forme di atteg­gia­mento anti­scien­ti­fico dif­fuse nel nostro paese, quali la difesa del metodo sta­mina, i sospetti con­tro il vac­cino tri­va­lente, con­si­de­rato pos­si­bile causa di auti­smo nei bam­bini, la lotta con­tro la spe­ri­men­ta­zione con­dotta sugli ani­mali, l’omeopatia e infine gli Ogm. Fran­ca­mente mi pare troppo, anche per chi, come me, lamenta la scarsa popo­la­rità delle cono­scenze scien­ti­fi­che nel nostro paese. Che cosa c’entra l’opposizione con­tro gli Ogm con tutte le que­stioni pre­ce­den­te­mente elen­cate? Non è que­sto un modo poco scien­ti­fico di sva­lu­tare un atteg­gia­mento di razio­nale cau­tela asso­cian­dolo a con­vin­ci­menti di tutt’altra natura? Cau­tela scien­ti­fica, per­ché gli Ogm sono un pro­dotto di labo­ra­to­rio appro­dato alla sto­ria umana solo da pochi anni. È poco scien­ti­fico cer­care di far pas­sare que­sta frat­tura bio­lo­gica come una con­ti­nuità sto­rica, affer­mando, come spesso si fa, che i con­ta­dini hanno sem­pre mani­po­lato le piante per miglio­rarle. Sono uno sto­rico dell’agricoltura e so bene quanto lavoro selet­tivo ha per­messo agli agri­col­tori di «costruire» il patri­mo­nio di bio­di­ver­sità agri­cola di cui dispo­niamo. Ma le sele­zioni com­piute nei mil­lenni dai con­ta­dini e dagli agro­nomi di oggi si sono mosse e si svol­gono tutte den­tro il regno vege­tale. Gli Ogm di cui par­liamo e di cui par­lano gli autori, ossia, soprat­tutto mais bt e soia round up, com­mer­cial­mente i più impor­tanti, sono piante create tra­mite un salto di spe­cie o comun­que un inne­sto tran­se­ge­nico. Nel mais Bt è stato inse­rito mate­riale gene­tico pre­le­vato dal Bacil­lus Thu­rin­gien­sis (Bt), un bat­te­rio pre­sente nel ter­reno, che difende il mais dai danni della pira­lide. Men­tre la soia tran­sge­nica, creata dalla Mon­santo, resi­ste a un potente erbi­cida, il glisofate.

Scri­vono gli autori: un «docu­mento pub­bli­cato l’anno scorso dall’European Aca­de­mies Science Advi­sory Coun­cil… sulle sfide e le oppor­tu­nità delle piante gene­ti­ca­mente miglio­rate dice espli­ci­ta­mente che gli ogm non sono dan­nosi per l’ambiente e non atten­tano alla sicu­rezza ali­men­tare» E anzi «pos­sono ridurre l’impatto ambien­tale dell’agricoltura». Non cono­sco l’autorevolissimo docu­mento – ne cir­co­lano tanti, sia con­tro che pro Ogm — ma le affer­ma­zioni non sono per nulla con­vin­centi o sono smen­tite da un’ampia let­te­ra­tura. Intanto, diciamo che c’è dif­fe­renza tra piante «gene­ti­ca­mente miglio­rate» e Ogm. Il «miglio­ra­mento» delle piante con­dotto da gene­ti­sti, bio­logi e agro­nomi — sia pure con metodi diversi — pro­se­gue la sto­ria mil­le­na­ria dei con­ta­dini e con­tri­buirà in futuro a limi­tare l’inquinamento chi­mico nelle cam­pa­gne. Ma non è così per gli Ogm di cui par­liamo. La col­ti­va­zione della soia round up è asso­ciata all’uso di un veleno che si disperde nel ter­reno, inquina le falde, è sospet­tato di pro­durre tumori negli agri­col­tori. E’ noto per­fino agli scien­ziati della Mon­santo che le piante tran­sge­ni­che disper­dono il loro pol­line nell’ambiente, inte­ra­gendo in modo ancora del tutto ignoto con le altre piante, con gli insetti, gli uccelli, i micror­ga­ni­smi del ter­reno, insomma con gli equi­li­bri gene­rali dell’ecosistema. Che cosa può acca­dere nel tempo al vasto patri­mo­nio della bio­di­ver­sità agricola?Nessuno lo sa. Nes­suno fa ricer­che e inve­ste risorse in tale ambito. Men­tre gli scien­ziati che hanno influenza e voce sui media sono impe­gnati a fare la pub­bli­cità agli Ogm.

Sul piano ali­men­tare, i cibi con­te­nenti Ogm sem­brano non dare pro­blemi. Non viene il mal di pan­cia a man­giare una pan­noc­chia di mais bt. Ma che cosa può suc­ce­dere con il tempo, in caso di assun­zione con­ti­nuata, negli ani­mali e nell’uomo, in seguito alle inte­ra­zioni che il prin­ci­pio attivo del bat­te­rio Bt può inne­scare nei bat­teri dell’intestino ? Se io oggi sbri­cio­lassi in aria un pugno di pol­vere di amianto e la respi­rassi non farei nep­pure uno star­nuto. Ma fra 10–15 anni le pro­ba­bi­lità di con­trarre il can­cro della pleura o il bla­stoma ai pol­moni sarebbe ele­va­tis­simo. Non sarebbe dun­que sag­gio rispet­tare il prin­ci­pio di pre­cau­zione, adot­tato dall’ Unione Euro­pea, oggi sem­pre più tra­bal­lante sotto la pres­sione siste­ma­tica delle lob­bies? Gli autori lamen­tano che in Ita­lia, dove gli Ogm sono proi­biti, non pos­siamo pro­durre «man­gimi eco­no­mi­ca­mente com­pe­ti­tivi» e li impor­tiamo «ipo­cri­ta­mente» dal Bra­sile o dall’Argentina. Anche in que­sto caso la pero­ra­zione della libertà della scienza, asso­ciata alla sacra «cre­scita eco­no­mica» fa pren­dere degli abba­gli ai nostri autori. Ma hanno idea i due stu­diosi di che cosa signi­fica la col­ti­va­zione di soia in Bra­sile e in Argen­tina? Ster­mi­nate aziende con col­ti­va­zioni inte­ra­mente mec­ca­niz­zate, e assog­get­tate alla chi­mica per tutte le fasi della pro­du­zione. Come potrebbe mai com­pe­tere l’agricoltura ita­liana su que­sto ter­reno? E non è piut­to­sto con­ve­niente, anche sotto il pro­filo eco­no­mico, avere soia e gran­turco non Ogm, cioé piante più sicure, che si pre­sen­tano sul mer­cato come un pro­dotto qua­li­ta­ti­va­mente supe­riore, se non altro per­ché non hanno dovuto coe­si­stere con erbi­cidi e pesti­cidi deva­sta­tori dell’ambiente?

Ma chi ci ha ordi­nato di inse­guire l’agricoltura tran­sge­nica, quando noi pos­se­diamo un patri­mo­nio di bio­di­ver­sità agri­cola unica al mondo, indi­sgiun­gi­bile da una sto­ria mil­le­na­ria e dai carat­teri ori­gi­nali del nostro ter­ri­to­rio, dalle forme del pae­sag­gio, dalle tra­di­zioni delle nostre innu­me­re­voli cucine locali? Che senso ha par­lare di pro­dotti e di com­pe­ti­zione se non si ha un’idea di che cosa sia il nostro sistema agri­colo? Dob­biamo indi­riz­zare la ricerca scien­ti­fica alla mani­po­la­zione delle piante, per get­tare sul mer­cato nuovi pro­dotti bre­vet­tati, e assog­get­tare sem­pre più gli agri­col­tori all’agroindustria? Oggi sem­pre più gio­vani scien­ziati pas­sano la loro vita in labo­ra­to­rio, impe­gnati a mani­po­lare il dna dei semi, senza mai vedere una cam­pa­gna nep­pure in gita. E’ que­sta la ricerca da pri­vi­le­giare? Non dovremmo stu­diare le piante nel loro ambiente, nella rete delle loro inter­con­nes­sioni con l’ecosistema, per pro­durre beni sem­pre più sani e sicuri, in un habi­tat più salu­bre per tutti i viventi? Non abbiamo il com­pito di pro­durre cibo abbon­dante e sano senza distrug­gere la casa in cui viviamo?

L’ecologia, vale a dire lo stu­dio degli esseri viventi nel loro habi­tat, ha aperto un oriz­zonte del tutto nuovo alle scienze natu­rali e anche alle scienze dell’uomo. Per­ché essa con­sente di vedere la rete di con­nes­sioni che lega i vari feno­meni del mondo vivente. Oggi la gene­tica, per le sue poten­zia­lità mani­po­la­tive, per la pos­si­bi­lità di ritorni imme­diati e cre­scenti che offre all’industria, spinge le scienze della natura nel vicolo stretto del ridu­zio­ni­smo. La curva ascen­dente dei pro­fitti la tra­scina verso il basso. Non è per­ciò cor­retto riven­di­care indi­stin­ta­mente la buona causa della ricerca scien­ti­fica in campo tran­sge­nico. Que­sta è una strada, ma non è neces­sa­ria­mente la più con­si­glia­bile. E una scelta può pre­giu­di­carne un’altra, più feconda e più utile all’umanità. La sto­ria ci inse­gna qual­cosa in merito. Nei decenni cen­trali del XX secolo la fisica si è con­cen­trata sullo stu­dio dell’atomo. Nata come scienza di guerra, desti­nata al geno­ci­dio della bomba ato­mica, essa è diven­tata la Big Science per creare ener­gia, assor­bendo lo stu­dio delle più grandi menti del secolo e con­cen­trando inve­sti­menti immensi da parte dei mag­giori stati indu­striali. Ci si può chie­dere che cosa sarebbe acca­duto se la ricerca si fosse incam­mi­nata su un’altra strada, se si fosse stu­diata l’energia solare? Forse oggi non avremmo di fronte lo sce­na­rio del riscal­da­mento cli­ma­tico glo­bale che incombe sul nostro avvenire.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto
Su questo blog sono state scritte spesso parole di critica non indulgente >>>

Su questo blog sono state scritte spesso parole di critica non indulgente nei confronti di chi, soprattutto nei posti chiave del ministero dei beni culturali, non sa interpretare la propria funzione con sufficiente capacità di visione e, con una suicida rincorsa al compromesso, condanna il nostro patrimonio culturale ad un ruolo di subalternità politica e sociale.

Ciò che rimproveriamo all'apparato dello Stato, in questo ambito, è di derogare con troppa facilità e in troppe occasioni ai propri compiti costituzionali, quelli stabiliti dall'art. 9, soprattutto ai vertici, abbandonando per di più chi, nello stesso Ministero, presidia il territorio, alle pressioni e agli attacchi di coloro che su questo territorio hanno robusti interessi privati, talora pure illegittimi, da difendere.

Eppure, anche di fronte all'evidenza del massacro delle nostre coste, allo sprawl urbano che deforma campagne e periferie, ai nostri centri storici trasformati in centri commerciali all'aperto invivibili per i cittadini, ai monumenti che crollano e ai musei che chiudono, ciò che sempre più spesso negli ultimi mesi e settimane, con toni crescenti e da sedi diverse, si rimprovera al sistema della nostra tutela e alle Soprintendenze è l'esatto contrario, ovvero di incarnare quella "burocrazia" responsabile di "congelare la modernizzazione e paralizzare l'aspetto urbanistico delle città" (G. Valentini, La Repubblica, 9 marzo 2014).L'attacco alla "burocrazia", sono le recentissime parole del premier, dovrà pertanto essere "violento", perchè solo sconfiggendola, è il mantra ripetuto da fonti sempre più numerose, si rimuoverà uno degli intralci più gravi allo sviluppo del paese.

Quando, nel 2008, si aprì, con lo scoppio della crisi finanziaria a livello globale, l'attuale fase economico-politica, solo pochissimi riuscirono a intravedere la stretta connessione con il contemporaneo (e anzi, seppur di poco, precedente) fenomeno della riforma della pubblica amministrazione che interessò molti paesi dell'area euro e fra questi l'Italia. Con il pretesto di un roosveltiano piano di grandi opere che avrebbero dovuto rilanciare l'economia, si cominciò a smontare programmaticamente il complesso sistema di controlli che, nel nostro paese come altrove, presiedono al governo del territorio: la parola d'ordine di quest'ultimo lustro è quindi stata "semplificazione".
A distanza di 6 anni, nella completa assenza di qualsiasi effetto keynesiano di tale politica, questa "riforma" strisciante, effettuata a colpi di tagli lineari, ha prodotto una confusione normativa che ha moltiplicato esponenzialmente le difficoltà dell'azione amministrativa, ma ha sicuramente raggiunto lo scopo di indebolire, fin quasi alla paralisi, uno dei principali organismi di controllo, il Ministero dei beni culturali.

Ciò nonostante, il processo, invece di essere sottoposto almeno ad una verifica, sta subendo, come detto, un'accelerazione che si nutre di nuovi supporters.

Quando, per invocare la necessità della riforma del Mibact (sacrosanta, ma in direzione diametralmente opposta), alcuni organi di stampa, in una cupidigia di servilismo, come la chiamava Ernesto Rossi, scavalcano il limite della deontologia professionale, si oltrepassa un confine pericoloso.
In questa direzione ogni mezzo diviene lecito, anche il "metodo Boffo": è accaduto per Andrea Emiliani, già mitico Sovrintendente bolognese e fondatore dell'Istituto Beni Culturali dell'Emilia Romagna, vittima di un attacco di Valentini che all'uopo ha riciclato vecchie polemiche e false notizie.

Nel 1974 - quarant'anni fa - ne Una politica dei beni culturali, Andrea Emiliani stilava quella che rimane una delle più lucide analisi delle criticità nella gestione del patrimonio culturale, ancora in gran parte attuale (tanto che il mio Istituto, IBC, la sta ripubblicando).

In quel prezioso PBE Einaudi, in cui per la prima volta con tanta chiarezza si sottolineava il nesso inscindibile fra territorio-paesaggio e patrimonio culturale, sostenendo la necessità di un più aggiornato ed efficace sistema di tutela, Emiliani scrive: "Si risponderà che soltanto una società diversa e una diversa cultura possono garantire al bene culturale quel privilegio superiore che andiamo cercando. Opporremo che sì, soltanto una società e una cultura realmente democratiche possono liberare la tutela dagli impedimenti di forze avverse".

Oggi ancor più che allora, le ragioni di chi tutela il patrimonio si rivelano strettamente collegate a quelle della democrazia e, proprio per questo, ci chiamano tutti, indistintamente, a raccolta.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al blog su l'Unità on line

© 2025 Eddyburg