loader
menu
© 2025 Eddyburg
>>>
Come al solito le isole producono metafore perfette. Ed èaccaduto in questi giorni che la metaforica gallina prataiola abbia, pereffetto delle norme europee a partire dalla direttiva Habitat, determinato,solo nei mesi in cui si riproduce, il fermo del cantiere stradale in un trattodella Sassari Olbia. Insomma, gli uffici regionali non hanno fatto altro cheapplicare una giusta norma, visto che la specie è in via di estinzione ed èscomparsa dal resto d’Italia.
Apriti cielo! La gallina è stata accusata dei morti nellavecchia strada, di essere contro lo sviluppo, di danneggiare l’economia delcosiddetto Nord Sardegna. Il sindaco di un paese lungo il quale passa la stradaha detto di essere assediato da una parte da un Sito comunitario che proteggela prataiola e da un’altra parte da un sito che protegge la lucertola diBrediaga (dal nome di un erpetologo russo) e che la gallina e la lucertola glibloccano lo sviluppo.
Chiaro come la vicenda tragi-comica identifichil’atteggiamento di un’intera comunità e forse di un’intera nazione chedell’importanza vitale della biodiversità sembra - salvo nobili e sempre piùnumerose eccezioni - impiparsene.
Chi ha una concezione catastale del Creato soffoca nella suapiccola quota di cielo e terra. E gli animi catastali si sono scaldati per lavicenda grottesca della gallina prataiola, quella che “blocca” il progressodella Sardegna. Ma grottesca, s’intende, non è la gallina.
Sostenere che l’eterna Sassari Olbia si fermi per colpadelle galline offende tutti. Già, perché se si dà colpa alle galline delritardo delle opere pubbliche si finirà per dire che i treni sardi sono lenti acausa dei cinghiali nei binari e che, accidenti, se non ci fossero galline ecinghiali saremmo dei fulmini di guerra. E oltretutto creare una relazione trala gallina, gli uffici regionali che rispettano le norme e i morti della stradaè un falso malizioso e volgare.
In questi giorni, si sa, il Servizio che cura le valutazioniambientali ci ha ricordato che in un sito di interesse comunitario si devonointerrompere per un po’ le attività di un cantiere stradale perché minaccianouna specie protetta. E lo ha fatto in base alla direttiva europea Habitat e a uninsieme di norme comunitarie che sono legge nel nostro Paese e tutelano labiodiversità senza la quale non esisterebbe la nostra specie e neppure Sassarie Olbia.
E invece piovono maledizioni e invettive cafone contro le regoleapplicate dagli uffici.
I Siti di Interesse Comunitario come quello in cui vive lagallina anti-sviluppo sono di solito ritenuti una risorsa nei paesi civili chene vanno perfino orgogliosi. E le procedure di valutazione ambientale unostrumento prezioso. Ma non da noi. Qui se la prendono con la gallina ostruzionistaperché gli blocca l’economia che, se non fosse per la gallina, sarebbe unesempio, un trionfo, una meraviglia.
Da noi le valutazioni ambientali sono considerate una piagabiblica e la loro applicazione una schiavitù che disturba gli affari. Eppure dall’Europaci arrivano con i POR cifre enormi.
Nel 2007-2013 l’isola ha ricevuto 1miliardo e 360 milioni anche per l’ambiente. Per il 2015 riceveremo 600milioni. E ce li danno ancora solo se rispettiamo le leggi. Però qua sipretendono i quattrini e contemporaneamente si reclama piagnucolando la libertàdi fare quello che si vuole.
E il lamento - caratteristica della nostra comunità checerca i torti perfino tra le galline anziché vederli in noi stessi - arriva perfinodall’assessore ai lavori pubblici, sfinito dalle regole e imbronciato con chiapplica le norme.
Immancabile, ovviamente, il pianto dei sindaci che farannouna fiaccolata sulla Sassari Olbia contro la prataiola. Tutti con le manilegate dalle leggi. Ah, se li lasciassero fare. Però assessori e sindaci, benché più tutelati della gallina,passano. E le leggi restano.
No, non è la gallina che impedisce il buon governo e neppurele regole. Casomai è la renitenza alle regole. E la sfida non è tra l’uomo e lagallina ma nel far vivere l’uomo e la gallina contenti. Dunque molto meglio unagallina oggi, avremo le uova e magari l’influente gruppo di potere dellegalline crescerà sino a impadronirsi dei comuni e del governo regionale.
Infine un pensiero per l’assessore, quello all’ambiente, chedovrebbe fare la guardia alla gallina però tace mentre potrebbe spiegare allemammane del web e ai piccoli chimici della tastiera che le direttive europeesull’ambiente, recepite dai nostri governi, sono legge, in barba a vari gallilocali che della legge hanno un’idea personalizzata e a misura di sé.
Parte di questi articolo è stato inviato contemporaneamente a La Nuova Sardegna

«PartecipArsenale. Arsenale di Venezia: Una nuova opportunità per produrre città». Così si chiama l’incontro pubblico promosso dal Comune di Venezia, per «presentare il "Documento Direttore dell’Arsenale" e proseguire il confronto....>>>

«PartecipArsenale. Arsenale di Venezia: Una nuova opportunità per produrre città». Così si chiama l’incontro pubblico promosso dal Comune di Venezia, il 2 dicembre 2014, per «presentare il "Documento Direttore dell’Arsenale" e proseguire il confronto sulle future trasformazioni del compendio»: cioè della sua completa cessione al Mercato.

Il sottotitolo dell’evento, curato dall’Ufficio appositamente istituito dal comune per "rilanciare 48 ettari che rappresentano uno straordinario potenziale per lo sviluppo economico e sociale della città e dell'area metropolitana", ben trasmette la scelta dei pubblici amministratori di considerare Venezia come una merce trattabile sul mercato e da mettere a disposizione della “comunità” degli investitori.

L’evocata partecipazione, invece, si riduce alla esposizione di una serie di dati e informazioni parziali, tendenti a presentare le azioni finalizzate ad incrementare la redditività degli investimenti privati come benefiche per tutte la collettività.

Il format adottato dagli organizzatori corrisponde ai dettami della cosiddetta «Carta della rigenerazione urbana» messa a punto da AUDIS, l’associazione delle aree dimesse, alla quale aderiscono imprese di costruzione, Comuni, amministrazioni provinciali e regionali, istituti di ricerca e università. Secondo AUDIS, non solo la contrapposizione tra pubblico e privato è vetusta, ma esistono due tipi di privato. Da un lato c’è il privato “economico”, composto dai proprietari delle aree, dalle imprese, dagli investitori, e dagli sviluppatori «che intervengono nei processi di trasformazione urbana con legittime finalità di profitto e la cui partecipazione deve essere incentivata garantendo tempi e procedure trasparenti e certi».

Dall’altro c’è il privato “collettivo”, rappresentato dai residenti ed in genere da coloro che a vario titolo usano la città e che devono essere bene informati per poter «condividere le decisioni» necessarie al suo rilancio.

Nella Carta si sostiene che tutti e tre i soggetti – il pubblico e i due privati – devono pariteticamente intervenire nel processo decisionale e, soprattutto, si ribadisce che compito specifico del pubblico è quello, oltre che, ovviamente, di fornire risorse e incentivi, di favorire la concertazione, perché il conflitto latente che «in presenza di problemi sociali non risolti rischia di contrapporre la cultura dell’innovazione a quella dei diritti è un freno per la rigenerazione urbana».

In altre parole, si potrebbe dire che a causa della programmata incompatibilità tra la città di successo ed i suoi abitanti, il ruolo attribuito al pubblico è quello di convincere i cittadini a lasciarsi depredare.

Ed in effetti, a PartecipArsenale il “privato collettivo” è stato oggetto di questo trattamento.

Nella prima parte dell’incontro, Marina Dragotto, responsabile dell’Ufficio Arsenale, nonché direttrice scientifica di Audis e coautrice di un volume dal titolo “La città da rottamare. Dal dismesso al dismettibile” ha presentato il Documento Direttore magnificando la riqualificazione, la revitalizzazione, la rigenerazione urbana con la stucchevole ripetizione di una serie di termini preceduti dal prefisso ri/re che dovrebbe convincerci che ci troviamo di fronte ad un evento che ha del miracoloso.

In realtà, il miracolo consiste nel fatto che, non appena ceduto ai privato e/o non appena viene sgombrato da abitanti e attività considerate di poco pregio, lo spazio pubblico, che era dato per morto, risorge.

Molto più interessante l’intervento di Giovanni Smaldone, presidente di NAI Global Italia, società di consulenza, intermediazione immobiliare e gestione i fondi immobiliari, incaricata dal commissario prefettizio (che dovrebbe occuparsi dell’amministrazione ordinaria in attesa di libere elezioni) di “testare la sensibilità degli investitori, identificare una forchetta di valori immobiliari e valutare l’ammontare dei finanziamenti necessari per il restauro degli edifici nei 28 lotti” indicati dal comune all’interno dell’Arsenale. Almeno ufficialmente, nessuna decisione sul futuro dell’Arsenale è stata presa. Ma concludendo l’evento, Michele Scognamiglio, sub commissario con delega al patrimonio e all’urbanistica, non solo ha ribadito la bontà del documento e delle opzioni individuate da Nai Global, ma ha ammonito che «bisogna far presto, se non vogliamo perdere i finanziamenti europei». I veneziani non vorranno mica rinunciare a un regalo?

Non è una novità che la conquista da parte dei privati delle porzioni più appetibili del territorio sia la soluzione finale di una successione di assalti condotti con la complicità delle istituzioni, quinte colonne disponibili a promuoverne, facilitarne, massimizzarne gli interessi. Fa parte del nuovo in arrivo, invece, che quando gli eletti non bastano, il lavoro sporco venga appaltato a un commissario che, come un governo tecnico, non deve nemmeno essere eletto. Poi torneranno le bande a larghe intese.

Il Partito democratico si è rivolto al sindaco Giuliano Pisapia in maniera perentoria se non ultimativa >>>

1°- Il Partito democratico si è rivolto al sindaco Giuliano Pisapia in maniera perentoria se non ultimativa chiedendogli di dichiarare pubblicamente adesso se intenda candidarsi (fra un anno e mezzo!) per un secondo mandato. Il sindaco, sorpreso per la scorretta intempestività della pretesa, l’ha respinta seccamente al mittente. L’episodio non è di scarsa importanza, come è parso ai molti che l’hanno ignorato nei commentari, o sminuito o classificato fra le gaffe dei renziani, bravi allievi del loro maestro. Un breve intervento amichevole, ieri, di un dirigente locale, non ha aggiunto né tolto nulla al senso dell’episodio.

2°- L’amministrazione comunale milanese vive fra mille difficoltà, deve sbrogliare, oltre a una lunga serie di intoppi d’ogni giorno legati alla condizione materiale urbana e ai bisogni correnti degli abitanti e dei commuters, almeno due problemi giganteschi: il primo, talmente pesante da finirne schiacciati, appiattiti come la sogliola bidimensionale del dottor Robinson, quello dell’Expo; il secondo quello delle case, chiamate popolari in altri tempi, patrimonio pubblico gestito dall’Aler, Azienda lombarda edilizia residenziale, erede immeritevole del rimpianto Istituto autonomo della case popolari (Iacp).

3°- L’ansiosa realizzazione delle opere per l’esposizione universale, questa maledizione (dico fin dal momento della ridicola gara con la debolissima Smirne), caduta su una Milano guidata da una pimpante (allora) Letizia Moratti, raccolta come un obbligo dalla nuova amministrazione sorta dalle elezioni del 15 e 29 maggio 2011, avviene attraverso una vicenda che intreccia ritardi, mancanza di finanziamenti, corruzione, pasticci urbanistici, errori nella scelta delle priorità nel tempo che corre indefesso verso l’inaugurazione. E, sopra di tutto o a comprendere tutto, è valsa ben presto la diserzione da un modello di contenuti che rispecchiasse davvero lo slogan “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Ne è conseguita infine la soggezione dell’ente pubblico a un altro modello: l’obbligazione, come una dura cambiale in scadenza, in primo luogo verso le proprietà, per acquisire l’enorme superficie destinata all’esposizione a un prezzo spropositato stante la destinazione agricola, poi verso le ipotetiche aziende costruttrici per concedere loro un mucchio di metri cubi, al fine di recuperare i soldi spesi.

4°- Lo stato del patrimonio pubblico di abitazioni dopo decenni di abbandono da parte dell’azienda regionale è così grave da richiedere immediati interventi di emergenza, che vorrebbe dire incollare soltanto qualche cerotto sulle piaghe infette. L’Aler, il cui bilancio 2013 presenta un buco di 345 milioni, secondo Nando Della Chiesa presidente del Comitato antimafia del Comune di Milano “è una dei bubboni milanesi”, è “un carrozzone” responsabile di una malagestione di decenni. Come potrà essere ribaltata in una conduzione pubblica ripulita dalle sozzure più inquinanti e in grado di cominciare a risolvere il nuovo “problema della casa” (così ci esprimevamo ai tempi delle lotte)? La malattia è in fase acuta, quasi terminale. Il Comune ora ha deciso di assumersi una piena, decisiva responsabilità superando la gestione Aler dell’intero patrimonio pubblico. Ha ottenuto di scorporare e di accollare a sé le abitazioni popolari milanesi. Sono oltre 28.000 delle oltre 61.000 totali. Proprio quelle contraddistinte da casi materiali o sociali più difficili, che costringono il sindaco e la giunta, esposti agli attacchi insidiosi di leghisti e destromani grondanti razzismo e odio verso gli immigrati, a trattarli senza indugio magari correndo il rischio di sbagliare o di compiere scelte non immediatamente comprese specie dai movimenti sociali. I temi: censimento preciso delle reali condizioni di tutte le abitazioni, piano di ricupero delle case degradate o rese inabitabili, reperimento delle risorse finanziarie, assoluta chiarezza del sistema di assegnazione degli alloggi, diagnosi veritiera sull’acuità della crisi sociale, cioè sfratti, morosità, occupazioni abusive e conseguenti sgomberi (discutibili secondo Libera di Don Ciotti), appropriazione mafiosa di beni comuni, organizzazione mafiosa di un mercato di assegnazioni abusive di appartamenti vuoti.

5°- Ho richiamato per Eddyburg questi due argomenti, Expo e case popolari, già discussi nell’ambito della sinistra in modo più ampio e spesso decisamente critico verso l’amministrazione comunale, per rapportarli a quella mossa apparentemente incomprensibile del Pd (vedi punto 1°). Sono convinto che questo partito, ormai libero da qualsiasi legame con la tradizione socialista, come si può costatare dal comportamento giorno per giorno in mille frangenti della politica e della pratica sociale, non voglia, anzi non possa sottoscrivere prospettive discordanti dal proprio nuovo modello neoliberista e antisindacale. Già perfettamente connotato ora dalla stretta alleanza non solo con una destra spacciata per moderata (Ncd) ma con tutta la destra non leghista, essendovi compatibile e attivamente partecipe lo stesso Berlusconi (FI), corre veloce, attraverso la progressione dell’idiosincrasia dopo che per il socialismo persino per la democrazia, verso la costituzione renziana del Partito della Nazione. Caduta la D risorge una N di Nazionale appartenuta prima a un PNF poi a un’AN e rilanciata ora nel rigiro di una storia che forse, sotto quest’aspetto, ha finito di fare i conti.

6°- Sono convinto che il sondaggio del Pd circa le intenzioni del sindaco di Milano sia meno una gaffe e più una debole copertura di trame che si provino a intrecciare nei retropalchi chiusi della politica dove il gioco dello scambio le esige. Giuliano Pisapia e la sua amministrazione sono nel mirino renziano: potrà sopravvivere un esperimento come quello lanciato nelle elezioni milanesi del 2011 e vivente attraverso prove pesanti, critiche da sinistra anche meritate, ma anche non disattento come le precedenti gestioni Albertini e Moratti al funzionamento razionale della città, meno succube di queste agli attori della rendita finanziaria e della speculazione edilizia, infine assai più sensibile alle domande sociali che si moltiplicano senza sosta nella metropoli? Dobbiamo stare, vecchi e giovani militanti della sinistra, con le orecchie ritte e gli occhi aperti. Non possiamo essere corresponsabili, anche in minima parte, di soluzioni alternative per Milano che, di fatto, mediante trasferimento a livello locale delle alleanze già praticate dal Pd e certamente rafforzate dal futuro Partito Nazionale, sbanchino il campione amministrativo milanese per insediarne un altro adatto ai magatelli obbedienti ai nuovi potenti. Non voglio dire che di qui in avanti dobbiamo evitare qualsiasi critica ai nostri eletti; dobbiamo ad ogni modo farlo come stimolo a ritrovare la soluzione migliore dei problemi circa i quali l’effetto maligno delle esagerazioni e delle menzogne dei nemici talvolta è garantito. Sono sicuro che Renzi e accoliti hanno accettato se non proposto di discutere con gli alleati del destino di Milano alle prossime elezioni amministrative. Probabile candidato sindaco Maurizio Lupi, l’attuale attivissimo ministro “caterpillar” delle infrastrutture, per noi milanesi, per noi urbanisti rinomato emblema di invincibile distruttore del bene comune rappresentato dal territorio e dalla città pubblica. Vi piacerebbe al posto di Pisapia?

Allora scelgo il titolo del pezzo: Difendere difendere Milano

Milano, 25 novembre 2014

Quale perversa ironia della storia è oggi all'opera perché Venezia muoia! Tutto ciò che nella sua storia è stato primato, la supremazia>>>

Quale perversa ironia della storia è oggi all'opera perché Venezia muoia! Tutto ciò che nella sua storia è stato primato, la supremazia nei commerci, la genialità delle sue edificazioni, la sua bellezza senza uguali, la minacciano ormai apertamente di estinzione. E il colmo dell'ironia è racchiuso nel fatto che, a differenza di pressoché tutte le altre città del mondo, Venezia, sin da quando esiste è stata dominata da un costante, quotidiano, imperativo: salvarsi. Venezia ha convissuto infatti per secoli con la minaccia della sua distruzione. Chi la minacciava? Le tempeste periodiche dell'Adriatico che di tanto in tanto la colpivano. Ma il pericolo maggiore veniva essenzialmente dalla stesse potenti forze che l'avevano fatta nascere. La città è infatti un'isola - o meglio un insieme di isolotti poi collegati dai tanti ponti oggi calcati da torme di turisti - all'interno di una vasta laguna di circa 550 Km2. Un mare interno che per secoli è stato porto naturale, luogo di pesca, via di transito e di mobilità urbana.

Tanto gli isolotti che la laguna sono l'opera millenaria del trasporto dei tanti torrenti e grandi fiumi alpini (Brenta, Piave, Sile, ecc) che depositavano i loro materiali nell' Adriatico e tendevano a recingere il mare con un cordone di terra. Tanti laghi costieri italiani, lungo l'Adriatico e il Tirreno, debbono la loro origine a tale dinamica. Le isole su cui sorge Venezia son fatte del fango e della sabbia trasportate da quei fiumi, e la laguna è chiusa verso l'Adriatico– salvo l'apertura delle sue “bocche di porto”- dagli stessi materiali. Ma esattamente questa tendenza all'interramento continuo costituiva il più grande pericolo: perché con l'avanzare del fango e dell'acqua dolce in laguna, si estendevano i canneti, il mare tendeva a trasformarsi in palude, e la malaria, con la diffusione delle febbri, avrebbe spinto i cittadini ad abbandonare la città. Per secoli la Repubblica di Venezia ha combattuto contro questa minaccia, deviando i fiumi dalla Laguna, scavando tutti i giorni il fango dai rii e dai canali, costituendo magistrature, come il Magistrato alle acque (1501) che vigilavano costantemente sulle dinamiche della acque interne.
Ed essa è uscita vittoriosa da questa sfida, insegnando a noi contemporanei come si devono fronteggiare le avversità ambientali. Da quando non è stata più la potente repubblica che dominava il Mediterraneo con i suoi commerci, e soprattutto da quando è diventata una singola città dell'Italia, Venezia ha convissuto con un'altra minaccia: l'acqua alta e lo sprofondamento. Ma oggi la insidia un'altra morte e anche in questo Venezia sembra l'avanguardia funesta di un destino che può colpire tutte le città storiche: le viene inferta dal cosiddetto mercato, osannato come suprema divinità del nostro tempo. Come ci ricorda ora in un appassionato saggio Salvatore Settis (Se Venezia muore, Einaudi 2014) «Domina ormai la città una monocultura del turismo che esilia i nativi e lega la sopravvivenza di chi resta e della città stessa quasi solo alla volontà di servire: di null'altro sembra più capace Venezia che di generare bed & breakfast, ristoranti e alberghi, agenzie e immobiliari, vendere prodotti “tipici” (dai vetri alle maschere) allestire Carnevali fasulli e darsi, malinconico belletto, un'aria di perpetua festa paesana».
Che cosa è accaduto? La monocultura di cui parla Settis, ha trasformato una città viva, con il suo artigiano e piccole industrie, il suo Arsenale, con le sue piccole botteghe, i suoi servizi , i suoi mestieri (pescatori, falegnami, idraulici, sarti, calzolai) i suoi cittadini con la propria lingua e memoria in uno spazio artificiale, in una quinta teatrale. Le case di Venezia sono state acquistate da turisti facoltosi che vi trascorrono qualche settimana all'anno – lasciando d'inverno interi quartieri al buio e al deserto – e facendo lievitare i prezzi sia delle abitazioni che di tutti gli altri beni. Il popolo di Venezia non può reggere quei costi e va a vivere nella vicina Mestre, mentre chi rimane ha sempre meno negozi dove fare la spesa, meno idraulici da chiamare in caso di necessità, meno servizi indispensabili alla vita quotidiana. Le tendenze spontanee del mercato –meglio, i meccanismi di un capitalismo incontrastato - cacciano i cittadini dalla città come un tempo minacciavano di fare le febbri malariche. Cosi oggi, Venezia – che è stata per secoli una delle più popolose città d'Italia - è al minimo della sua storia, con poco più di 56000 abitanti. Ricorda Settis che c'è un solo precedente di un tale tracollo demografico, «e fu la peste del 1630».

La condizione in cui versa oggi Venezia è stata più volte denunciata. E corre qui l'obbligo di ricordare almeno un importante testo, uscito da un piccolo editore, Corte del Fontego, Venezia è una città (2009), di Franco Mancuso, con la prefazione di Francesco Erbani. Fondamentale per capire come è stata costruita Venezia, ma anche per le analisi circostanziate sui vuoti che si stanno creando, in città e nelle isole, e sulle possibilità di nuove forme di utilizzo e di vivificazione umana e culturale dei suoi spazi. Una nuova vita può rifiorire a Venezia, se la politica torna ad essere progetto sociale, urbanesimo: vale a dire abitazione degli spazi secondo le direttive di bisogni collettivi.

Il saggio di Settis ha il merito di non fermarsi all' analisi del gioiello lagunare.Venezia è un laboratorio che ci mostra quel che sta accadendo ai nostri centri urbani e quale destino li attende se non verranno governati da una cultura coerente con la loro storia: quella storia che in Italia ha visto fiorire – esempio senza pari in Europa e nel mondo – le nostre “cento città”. E pagine intense Settis scrive sul senso profondo delle nostre creazioni urbane. Esse, ricorda, non sono solo le mura, gli edifici, le piazze, le strade, ma hanno anche un'anima. E l'anima non è solo i «suoi abitanti, donne e uomini, ma anche una viva tessitura di racconti e di storie, di memorie e di principi, di linguaggi e desideri, di istituzioni e progetti che hanno determinato la forma attuale e che guideranno il suo sviluppo futuro. Una città senz'anima, di sole mura, sarebbe morto peso e funebre scenario, come dopo una bomba al neutrone che abbia distrutto ogni forma di vita, lasciando intatti gli edifizi a uso di un conquistatore che arriverà». Riprendendo una metafora di Italo Calvino Settis parla di una “città invisibile”, che vive e anima quella visibile delle pietre.

Ma Venezia è anche un significativo pretesto per denunciare una tendenza che imperversa nel resto d'Italia e del mondo. Non si tratta solo di prendere atto che «La città degli uomini, o “a misura d'uomo” ha ceduto il passo a una macchina produttiva di merci e di consumi». Ma occorre cogliere e combattere la modernità fasulla che avanza, quella tendenza dispiegata che potremmo chiamare la separazione tra architettura e urbanistica, il distacco esibizionistico della singola costruzione, che non ubbidisce ai bisogni, anche estetici di una comunità – come è avvenuto per secoli nelle nostre città - ma è frutto di una invenzione affaristica. Una china culturale incarnata perfettamente nella corsa ai grattacieli, anche quando nessun incremento di popolazione o altra necessità li reclama. «La retorica delle altezze, che trapianta nell'architettura e nella città la competitività dei mercati finanziari».

Merito di questo pamphlet di Settis è infine di aver chiarito che cosa deve significare conservazione e tutela. Questa è tutt'altro che imbalsamazione del passato, come vorrebbero far credere tanti progressisti fautori del “nuovo”, purché sia nuovo. «Il paradosso della conservazione – ricorda – è che nulla si conserva mai né mai si tramanda se resta immobile e stagnante. Anche la tradizione è un continuo rinnovarsi … la memoria storica delle nostre città non richiede la stasi, esige il movimento. Non predica l'imbalsamazione, esalta la vita». La tutela si fa nel flusso della storia che avanza e perciò necessita di cultura, equilibrio, creatività, progetto che interpreti i bisogni collettivi e legga in profondità le tendenze dell'epoca.

La nuova legge urbanistica della Regione Toscana entrerà in vigore solo tra cinque anni, almeno nella sua parte più significativa per la difesa di ambiente e paesaggio. Il testo approvato dal Consiglio regionale contiene infatti una norma ... >>>

La nuova legge urbanistica della Regione Toscana entrerà in vigore solo tra cinque anni, almeno nella sua parte più significativa per la difesa di ambiente e paesaggio. Il testo approvato dal Consiglio regionale contiene infatti una norma che rischia di renderla addirittura controproducente.

La nuova legge ha riscosso un pressoché unanime consenso da parte di urbanisti, territorialisti e intellettuali, a vario titolo impegnati nella difesa del Paese. Ultimo, fra i tanti, un bell'articolo apparso su La Repubblica (17/12/2014) di Tomaso Montanari che sottolinea l'importanza dell'obbligo, contenuto all'articolo 4 della legge, di prevedere nuova edilizia residenziale soltanto nel territorio urbanizzato, da distinguere con una "linea rossa" da quello agricolo che deve essere preservato alla sua funzione.

Intendiamoci: la nuova legge urbanistica è una buona legge nel suo complesso, ma, indubbiamente, questa è la disposizione più forte; non solo per un effettivo (e non solo a parole) contenimento del consumo del suolo, ma anche in senso politico, come segnale di controtendenza rispetto ai misfatti prefigurati dal disegno di legge Lupi e dalla legge SbloccaItalia. Un vero e proprio miracolo, in cui un atollo toscano sembra emergere nel mare limaccioso degli accordi tra Renzi e Berlusconi. Peccato che questo miracolo, nell'ipotesi più ottimistica, si verificherà solo tra cinque anni.

Avete capito bene: la nuova legge urbanistica toscana entrerà in vigore tra cinque anni, almeno nella sua parte più significativa per la difesa di ambiente e paesaggio. Il veleno è contenuto nelle Disposizioni transitorie, a partire dall'articolo 222 che recita: " Nei cinque anni successivi all’entrata in vigore della presente legge, i comuni possono adottare ed approvare varianti al piano strutturale e al regolamento urbanistico che contengono anche previsioni di impegno di suolo non edificato all’esterno del perimetro del territorio urba­nizzato, ..." Sono dunque confermate per un quinquennio (ma in realtà i tempi potrebbero raddoppiarsi) tutte le previsioni di nuova edilizia residenziale contenute nei piani strutturali e nei regolamenti urbanistici, non solo approvati, ma anche soltanto adottati (sarebbe stato ovvio e possibile "salvare" con il vecchio regime solo le convenzioni approvate e firmate). Ma c'è di peggio: non ci si limita a consolidare le destinazioni pregresse, ma, addirittura, si concede ai comuni la possibilità di (auto)approvarsi nuove varianti di urbanizzazione del suolo agricolo, in attesa che i comuni stessi avviino i procedimenti di formazione dei nuovi piani strutturali che dovrebbero conformarsi al Pit-Piano paesaggistico, si spera approvato a quella data .

La conclusione è evidente: le velenose deroghe contenute nelle norme transitorie, non solo minano la nuova legge urbanistica, ma finiscono per rovesciarne l'utilità, essendo, di fatto, un incentivo a edificare sul territorio agricolo e a estendere il confine di quello urbanizzato, prima che - anche se non si sa quando - la cosa diventi più difficile. Ulteriore conclusione è che tutto il complesso delle norme transitorie dovrebbe essere abrogato. Questo sarebbe possibile se il Presidente Enrico Rossi fosse in posizione di forza. Ma, il Presidente ha contro la maggior parte del suo partito e non è supportato dal consiglio regionale, riottoso ed evidentemente ispirato dal "partito dei sindaci", mentre la sua candidatura è rimessa in gioco. Non vi sono molte ragioni di ottimismo.

Qui la replica di Anna Marson: Non c'è veleno nells coda della legge

Ci risiamo, ci risiamo con mattoni e cemento. E’ stato approvato un disegno di legge che dice di “mettere ordine” nell’urbanistica ma>>>

Ci risiamo, ci risiamo con mattoni e cemento. E’ stato approvato un disegno di legge che dice di “mettere ordine” nell’urbanistica ma perpetua la fiaba tragica che si “sblocca” la Sardegna intasandola di cemento. Disgrazia già sperimentata dalla nostra comunità cocciuta. Eppure si è visto quanto siamo felici, si è visto chi si è arricchito, si è visto come il Piano casa Cappellacci del 2009 abbia reso florida l’isola. L’edilizia è un sistema agonico che non confessa le sue colpe e perfino in punto di morte implora altri metri cubi. La cura sbagliata. Propinata oltretutto da una Giunta che aveva promesso il contrario. E oggi conferma per sempre quel Piano Casa del 2009 trasformandolo in un eterno premio di cubatura. Una roba che neppure gli ayatollah del cemento avevano osato pensare. Lo rendono eterno proprio quelli che, a parole, lo hanno avversato per cinque anni. E ora sostengono che mettere un mattone sull’altro sia lo svitol per la nostra economia arrugginita.

Che vecchia e brutta idea. Ci dicono: i mattoni non vanno più e allora ne mettiamo su altri, così diamo una scossa all’economia. Be’, qualcosa non torna. Una famiglia normale farebbe il contrario e cercherebbe almeno di abitare le migliaia di metri cubi vuoti che ci accerchiano. Qualcun altro, a corto di argomenti, dice pure che siamo affogati dalle regole. Ma quali? E come chiamiamo un Paese senza regole? E come definiamo i Comuni costieri che non si sono adeguati in otto anni al PPR e alle sue norme? E i Sindaci che sfilavano in fascia tricolore contro le regole del Piano d’assetto idrogeologico? E come chiamiamo quei Comuni che invece le regole le rispettano?

Neppure è vero, altra teoria dei certi politici svitol, che dopo otto anni di PPR – elogiato di giorno e avversato di notte – siamo diventati tanto “bravi” da non avere più bisogno di regole e norme. Sono gli “antiproibizionisti” del cemento. Per loro il PPR è superato perché siamo diventati virtuosi. Se fossimo virtuosi non avremmo il record nazionale percentuale di abusivismo edilizio – interi quartieri – e non avremmo tappato fiumi con il cemento trasformandoli in mostruosi strumenti di morte. Celebriamo anniversari dei morti ma tutto resta come prima. Ad ogni pioggia tremiamo ma i fiumi di Olbia, Capoterra, Villagrande restano occupati dal cemento. E qualcuno, con un ragionamento incosciente e schizofrenico, invoca meno regole. Roba da matti.

Se fossimo virtuosi non continueremmo a vomitare norme che consentono nuovo cemento sulle coste nella fascia dei 300 metri, il suolo più pregiato e per giunta raccontando la favola che così non si consuma altro suolo. Solo al Villaggio Forte, per esempio, ci sarà una nuova costruzione sul mare più grande dell’Hilton di Roma grazie al Piano Casa. E dimenticando oltretutto che con il PPR si deve ragionare sull’inedificabilità della fascia costiera che è ben più ampia dei 300 metri e identifica l’unica nostra vera ricchezza: il Paesaggio. Un errore drammatico che ci renderà definitivamente poveri economicamente e moralmente. E la Sardegna, mattone dopo mattone, sfigurata uscirà anche dalla memoria.

Siamo arrivati a un punto vitale per il nostro Paesaggio e per noi stessi. Gli sblocca Sardegna cercano di restaurare il far west urbanistico e di svuotare la conquista civile del PPR con un disegno di legge che lo colpisce al cuore mentre lo salva.

Un quotidiano dell’isola ha riassunto la verità in un titolo perfetto: “Piano casa per sempre”. Già, perché basta confrontare il disegno di legge della Giunta attuale e il Piano Casa del 2009. Si vedrà che, nonostante le promesse su ambiente e paesaggio, i nostri “urbanisti regionali” hanno invece riprodotto analiticamente il Piano Cappellacci. E vorrebbero dargli la forza dell’eternità giuridica. Eppure ci avevano assicurato che ci saremmo conservati “come la Corsica”, che avrebbero abolito l’articolo 13 del Piano Casa (un articolo incostituzionale che sospende le tutele del PPR), che avremo puntato al “consumo zero di suolo”. Invece consumeremo suolo e paesaggio.

E ricordiamo all’assessore all’edilizia Cristiano Erriu che si passa alla storia locale in vari modi anche facendo il banditore di metri cubi avvertendo il mondo che il Piano casa scade il 29 novembre e sino ad allora “venghino signori”. Si passa alla storia anche proclamando che, niente paura, il nuovo disegno di legge “colmerà un vuoto legislativo” rendendo perpetuo un provvedimento regala-metri-cubi. Mentre l’unico “vuoto” che questo disegno di legge colmerà sarà quello che si riempirà di nuovi mattoni.

Tutte le alluvioni portano il nome di un torrente o di un fiume. La natura, milioni di anni fa, ha predisposto i fiumi e i torrenti >>>



Tutte le alluvioni portano il nome di un torrente o di un fiume. La natura, milioni di anni fa, ha predisposto i fiumi e i torrenti per far arrivare al mare l’acqua delle piogge lungo la strada di minore resistenza ad ha predisposto intorno ai fiumi e ai torrenti degli spazi in cui le acque potessero espandersi nel loro cammino nel caso di piogge più intense.

Quando sono arrivate, le comunità umane hanno scoperto che l’alveo di un fiume o di un torrente è uno spazio economicamente prezioso e le strade, nel cercare i percorsi “più comodi”, si sono stese al fianco dei fiumi. Col passare dei secoli e sempre più intensamente negli ultimi 200 anni, lungo le strade sono cresciuti villaggi e città e zone agricole e industriali che lentamente si sono estesi sempre più vicino al fiume o torrente fino ad occuparne gran parte delle zone di espansione e dello stesso alveo.

Nello stesso tempo i prodotti dell’erosione delle valli, le scorie delle attività agricole e forestali e delle attività produttive e urbane hanno occupato l’alveo dei fiumi e torrenti diminuendo ulteriormente lo spazio in cui le acque possono muoversi. Ad ogni pioggia più intensa l’acqua cerca di arrivare al mare riappropriandosi degli spazi che la natura le aveva riservato e che sono stati imprudentemente occupati da edifici, terreni agricoli, strade, fabbriche, detriti, eccetera. Ben poco sono efficaci i tentativi di schiacciare i fiumi e i torrenti entro argini perché l’acqua spesso li spazza via con l’energia contenuta nel suo moto verso il mare.

L’unica ragionevole ricetta per rallentare la frequenza e i danni delle alluvioni, non potendo spostare le opere durature che li occupano, ormai consiste nel rimuovere dagli alvei dei fiumi e dei torrenti e dai fossi, lungo l’intero bacino idrografico, tutto quello che li ingombra e che frena il moto naturale delle acque. Subito. Le altre opere, rimboschimento, sistemazione dei versanti e divieti di edificazione nelle zone vicino alle acque in movimento, sono necessarie ma faranno sentire i loro effetti a distanza di tempo.

“Puliamo l’alveo dei fiumi” può essere un programma di azione politica da attuare valle per valle, faticoso, subito col coinvolgimento delle comunità locali, col lavoro di disoccupati e immigrati, con un investimento di pubblico denaro da spendere oggi per evitare costi e dolori e morti domani.

Riferimenti. In questo articolo Giorgio Nebbia sostiene la tesi già proposta e pubblicata da eddyburg un anno fa Un "esercito del lavoro" contro le cosiddette calamità naturali

Sappiamo ormai bene quale potenza sprigionino le parole nel creare il nostro immaginario quotidiano. Esse sono... >>>

Sappiamo ormai bene quale potenza sprigionino le parole nel creare il nostro immaginario quotidiano. Esse sono il nostro immaginario, dunque i mattoni con cui si costruisce l'edificio della politica. E le parole dominanti, potremmo ripetere con Marx, sono l'espressione delle classi dominanti. Veicolano messaggi in cui si condensano esortazioni e imperativi lanciati alle masse dai potentati economici, intere grammatiche suggerite al ceto politico per indirizzare le loro strategie nel governo degli stati. Pensiamo a una parola come mercati. Un tempo il termine indicava i traffici commerciali, ora una potenza impersonale, un arbitro supremo e indiscutibile a cui tutti devono inchinarsi. “Come reagiranno i mercati?” si chiedono sgomenti politici e giornalisti. Con una parola si nobilita la speculazione, le mosse dei nuovi bucanieri della finanza mondiale, e si caccia in un angolo la sovranità degli stati.

Non è senza significato se ormai da diversi anni le parole nuove che fanno ingresso nella sfera della comunicazione pubblica provengono in prevalenza dal mondo della tecnica e delle merci. L'innovazione linguistica del nostro tempo sembra interamente affidata a termini come software web, wi fi, post, app, oppure iphone, smart phone, tablet, ecc, che costituiscono la prosecuzione merceologica dei lemmi delle tecnologia comunicativa. Se si riflette bene, anche in un ambito nel quale si offre un vantaggio collettivo – quello di una più ampia diffusione della comunicazione e dell'informazione – dominano in assoluto le parole che designano mezzi, strumenti. Utensili per qualche scopo che rimane indeterminato e privo di contenuto.

Questa prevalenza del significato strumentale delle parole su quello dei fini, si osserva bene nel linguaggio corrente della politica . Quali sono i termini ricorrenti, le sdrucite parole del bla bla quotidiano, che riempiono le pagine dei quotidiani, le chiacchiere corrive del discorso televisivo? Sono parole- utensili, mezzi di qualche altro mezzo: riforme, flessibilità, crescita, competizione. Per quale altro fine se non quello di portare doni sacrificali al totem del Pil? E per quale scopo incrementare il Pil? Non è detto. Perché ormai sono diventate impronunciabili le parole benessere collettivo, felicità pubblica, qualità della vita, godimento spirituale, fruizione della bellezza, convivialità. E' un edonismo insostenibile per il potere del nostro tempo, che ha messo al centro della scena l'individuo, solitario consumatore e solitario produttore, che deve lottare come un leone per essere competitivo, per primeggiare, per conseguire l'eccellenza: il tutto per un fine mai detto, ma che si suppone essere l'approdo al paradiso delle merci. Ancora un arsenale di altri strumenti

Giova rilevare, in questo festival parolaio dei mezzi, la scomparsa del termine sviluppo dal dibattito corrente. E' stato interamente assorbito dal lemma crescita (growth), vale a dire l'incremento della della ricchezza senza nessun aggettivo, senza neppure un accenno alla sua qualità, per non dire alla sua sostenibilità. Abbiamo già dimenticato che la crescita – che si vuole per giunta illimitata – si svolge entro i limiti materiali di risorse finite, nella sfera di equilibri naturali fragili, da cui sempre di più dipende la nostra stessa sopravvivenza?

Qui noi cogliamo almeno un tratto del tracollo egemonico in atto nel campo capitalistico. Parlo di egemonia, non di dominio, che si è anzi accresciuto in questi anni di crisi. I poteri dominanti non hanno più parole capaci di indicare i fini per i quali si affannano a indicare i mezzi. Non solo gli stessi mezzi sono diventati sempre più scarsi per una massa crescente di individui. Ma quando si provano a indicare le prospettive, il premio, il traguardo per il quale è necessario oggi ingaggiare la lotta per la vita devono ricorrere al nulla: al termine futuro. Devono cioè rinviare a un tempo che non c'è ancora, a un vuoto limbo di possibilità senza contenuti. E non facciamoci intimidire dalla sprezzante aggettivazione con cui la recente “sinistra neoliberista”, bolla come vecchio e dunque da gettare in discarica, ciò che non appare all'altezza dei comandi più aggiornati del potere economico. Essa infatti disprezza come obsoleto non ciò che non corrisponde agli umani bisogni, non ciò che non ha più radici nella realtà, ma ciò che appare inadeguato alle necessità della crescita, ai bisogni congiunturali delle imprese. E' una ricerca del nuovo che traduce in linguaggio politico un imperativo commerciale: il bisogno incessante di rendere obsolete le merci, per fare arrivare sul mercato quelle appena prodotte, gli ultimi modelli. In quel nuovo pubblicitario traluce la trasformazione spirituale consumatasi negli ultimi decenni dentro l'umana soggettività: la mercificazione della mente.

Dunque, quello delle parole è un territorio dove la sinistra può raccogliere le sue insegne, i suoi simboli, i suoi messaggi, i suoi valori ancora intatti, il suo immaginario accogliente. Noi possiamo mostrare l'umana felicità possibile su questa terra, mentre l'avversario si è trasformato in un aguzzino che comanda paradossali eroismi agli individui: una vita eroica e da poveri in un mondo opulento.La gioia di vivere, il benessere collettivo, la difesa dei beni comuni ( importante conquista recente del linguaggio e dell'immaginario): dalle risorse naturali, alla bellezza dei monumenti e del paesaggio, dal mangiar bene e sano alla sicurezza dei cittadini nel territorio, dalla salubrità dell'ambiente al tempo di vita sottratto al lavoro. E il mezzo per perseguirli non è la competizione, ma la solidarietà: che è un mezzo e al tempo stesso un fine, perché dà gioia anche a chi la pratica, oltre che a chi la riceve. In questi beni essenziali, in queste vie al ben vivere per tutti in società ricche, sono le nostre parole e i fini della nostra lotta . Ma per dire le nostre parole, con i nostri multiformi “dialetti,” con le nostre preziose diversità, abbiamo bisogno di un luogo dove dirle.Per nostra fortuna questo luogo esiste, ma è ancora in pericolo: è il manifesto. Occorre che tutti a sinistra sappiano che senza il manifesto saremmo senza parole, muti. E ancora più dispersi. Se non diamo a Norma Rangeri e ai suoi e nostri compagni la possibilità di ricomprasi la testata subiremo una delle più gravi sconfitte della nostra storia.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto

Fatto 1. Le attività umane per la produzione di merci: metalli, macchine, prodotti alimentari, prodotti chimici, cemento, edifici, strade>>>

Fatto 1. Le attività umane per la produzione di merci: metalli, macchine, prodotti alimentari, prodotti chimici, cemento, edifici, strade, strumenti di comunicazione, eccetera, comportano la trasformazione di minerali, combustibili, prodotti agricoli e forestali con formazione di vari gas, anidride carbonica CO2, metano CH4, composti volatili (CV), e altri, che vengono immessi nell’atmosfera.

Fatto 2. Le attività umane immettono ogni anno circa 30 miliardi di tonnellate di tali gas (circa tre quarti costituiti da CO2, ma espressi in genere come massa di gas “CO2 equivalente”) nei circa 5.000.000 di miliardi di tonnellate dell’atmosfera. Anche il metabolismo umano e animale immette nell’atmosfera circa 2 miliardi di t/anno di gas derivanti dalla trasformazione del carbonio C presente negli alimenti.

Fatto 3. Una frazione (circa il 50 %) dei gas immessi dalle attività umane nell’atmosfera viene lavata dalle piogge e dalle nevi e finisce sul suolo dei continenti e negli oceani. La frazione rimanente si aggiunge ai gas dell’atmosfera. I vari gas inquinanti permangono nell’atmosfera per tempi variabili da alcuni anni a molti decenni. La concentrazione nell’atmosfera di questi gas aumenta continuamente. Tale concentrazione si misura in parti per milione in volume (ppmv, metri cubi per milione di metri cubi di gas totali dell’atmosfera).

Fatto 4. Vari studiosi, fra cui lo svedese Arrhenius oltre un secolo fa, hanno indicato, sulla base di considerazioni chimiche e fisiche, che un aumento della concentrazione della CO2 nell’atmosfera porta a trattenere all’interno dell’atmosfera una maggiore frazione della radiazione infrarossa emessa dalla Terra verso lo spazio e quindi ad un aumento della temperatura media terrestre. I gas che hanno questa proprietà sono indicati spesso come “gas serra”.

Fatto 5. L’aumento della temperatura media del pianeta comporta modificazioni della circolazione delle acque oceaniche e dell’aria con aumento del riscaldamento di alcune parti del pianeta e raffreddamento di altre. A tali modificazioni contribuiscono il graduale aumento dell’acidità delle acque oceaniche, le modificazioni dei ghiacci permanenti, la liberazione del metano presente all’interno dei ghiacci in seguito alla loro fusione, altre conseguenze dell’aumento della temperatura media della Terra.

Fatto 6. La massa del principale di questi gas, la CO2, è aumentata, nel corso di circa 60 anni, da circa 2000 a circa 3000 miliardi di tonnellate, rispetto ai circa 5 milioni di miliardi di tonnellate dei gas totali. Una tonnellata di CO2 occupa circa 500 m3; una tonnellata di gas dell’atmosfera occupa circa 800 m3. La concentrazione dei gas serra è così aumentata nel corso di circa 60 anni da circa 300 a 400 ppmv. Il termine “circa” è d’obbligo perché tutti i precedenti valori di concentrazione variano a seconda dell’altezza rispetto al livello degli oceani.

Fatto 7. Lo stato attuale degli affari umani comporta un aumento di circa 1,7 ppmv all’anno della concentrazione dei gas serra nell’atmosfera. Un aumento di 1 ppmv/anno della concentrazione di “CO2 equivalente” è la conseguenza dell’aggiunta all’atmosfera di altri circa 8 miliardi di t/anno di gas serra.

Fatto 8. Ogni aumento di 1 ppmv della concentrazione atmosferica di gas serra comporta un aumento certo della temperatura media terrestre anche se non è noto esattamente di quanto. Questa incertezza è uno dei punti forti del negazionismo del riscaldamento planetario.

Fatto 9. La formazione dei vegetali avviene assorbendo una parte della CO2 dall’atmosfera per la fotosintesi della biomassa. Una parte di questa CO2 viene continuamente reimmessa nell’atmosfera in seguito alla decomposizione delle spoglie dei vegetali stessi, alla fine del loro ciclo vitale. Alcuni fenomeni di origine antropica, come la modificazione della superficie dei suoli agricoli e della biomassa forestale, influenzano il bilancio dell’energia solare in arrivo sul pianeta e dell’energia re-irraggiata nello spazio come radiazione infrarossa. Di questi complessi fenomeni viene tenuto conto nella valutazione dell’aumento della concentrazione della “CO2 equivalente” nell’atmosfera.

Questi fatti sono deducibili da considerazioni di chimica e di fisica. Essi sono analizzati, fra l’altro, nei vari documenti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), di cui è stata pubblicata di recente una versione aggiornata in vista delle trattative fra governi per rallentare i mutamenti climatici che dovrebbero essere presi nel 2015. Tali trattative sono basate sulla necessità di diminuire il flusso di gas serra nell’atmosfera attraverso due principali azioni:
(a) Modificazione dei cicli produttivi e della qualità di alcune merci e servizi al fine di diminuire l’impiego di combustibili fossili.
(b) Processi per seppellire i gas serra, a mano a mano che fuoriescono dalle attività umane, in depositi a lunga durata (oceani, pozzi e caverne da cui sono stati estratti combustibili fossili, eccetera).

La prima di queste azioni comporta un aumento del costo delle merci e dei servizi e una diminuzione dei profitti delle imprese che tali merci e servizi producono e vendono. Per evitare danni finanziari, tali imprese mobilitano degli “scienziati” che si sforzano di negare l’origine antropica o la stessa esistenza del lento continuo riscaldamento globale e dei relativi mutamenti climatici.

Più gradita al mondo economico la seconda azione che richiede l’intervento di profittevoli imprese ma che non è di facile realizzazione tecnica e non garantisce che non si verifichi una successiva fuoriuscita della CO2 dai depositi temporanei.

La proposta di autorizzare le emissioni di gas serra da parte di alcuni soggetti economici a condizione che questi paghino altri soggetti economici perché piantino alberi (un commercio delle indulgenze) non fa altro che spostare in futuro, alla fine del ciclo vitale delle piante, il ritorno all’atmosfera della CO2 assorbita nella crescita.

I rapporti dell’IPCC propongono alcuni scenari futuri di aumento delle emissioni, di variazione delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera e dei possibili conseguenti aumenti della temperatura media planetaria. Previsioni coraggiosamente estese anche al 2100, secondo cui un rallentamento e forse una frenata dell’aumento della temperatura terrestre ad un qualche valore, inevitabilmente superiore all’attuale, sarebbero forse possibili con la graduale o completa eliminazione dell’uso dei combustibili fossili e ricorso all’energia nucleare, che viene presentata come priva di emissioni di gas serra, e alle fonti energetiche rinnovabili. Tutte cose ovviamente possibili sul piano tecnico, con quali conseguenze umane, sociali ed ambientali nei vari paesi lascio a voi e ai vostri governanti pensare.

Comunque una illuminante previsione del possibile futuro al 2050 è contenuta in uno studio condotto dal Massachusetts Institute of Technology MIT (che può essere letto qui), secondo cui le emissioni mondiali di gas serra nell’atmosfera passerebbero dagli attuali circa 30 miliardi di t/anno a circa 50 miliardi di t/anno nel 2050. Giudichi il lettore quali conseguenze planetarie e umane possiamo aspettarci se si avvereranno le previsioni di tali manipolazioni planetarie.

Mi permetto infine rispettosamente di ricordare che, una volta mangiato il gradevole frutto dell’albero della conoscenza, della tecnica e dei consumi merceologici, si deve sapere anche che cosa ci aspetta e che le nostre azioni di oggi influenzeranno le condizioni di vita di molte generazioni future. Noi possiamo anche scrollare le spalle perché fra cento anni «siamo tutti morti», come scrisse il saggio Keynes; il Papa Francesco ha perfino scritto che «anche la nostra specie finirà». Tranquilli, quindi.

L'articolo è stato pubblicato anche su Rinnovabili.it con il titolo Rispettose considerazioni

Qualche giorno fa Vinton Cerf, il padre di Internet e grande autorità dell’informatica, ha tenuto una conferenza nella città universitaria>>>

Qualche giorno fa Vinton Cerf, il padre di Internet e grande autorità dell’informatica, ha tenuto una conferenza nella città universitaria tedesca di Heidelberg sul tema: “Come conservare i dati digitali”. La modernizzazione della società passa attraverso la diffusione dei sistemi elettronici di telecomunicazione, dai computer ai telefoni cellulari, a cui sono affidati pensieri, messaggi e innumerevoli testi, dalle lettere personali a libri e articoli scientifici, a fotografie, a dati relativi alle infinite attività umane come rilevamenti dell’inquinamento, dati meteorologici, fino alle denunce delle tasse e a documenti della pubblica amministrazione. Fino a quando riusciremo a ritrovare e consultare questi documenti digitali?

«Io non riesco a leggere delle lettere importanti scritte anni fa - ha detto Cerf - perché i programmi con cui sono state scritte non esistono più. Ancora peggio non riesco ad accedere a testi scritti originariamente su nastri magnetici» perché gli ossidi di ferro hanno perso la magnetizzazione o perché non ci sono più strumenti per “leggerli”. Grandi sforzi sono stati e vengono continuamente fatti per informatizzare uffici, archivi e biblioteche e per affidare a supporti informatici i propri scritti. L'informatizzazione è stata ed è di grandissima importanza. Non c'è dubbio che il possesso di un computer e di un collegamento con Internet permette a qualsiasi persona, dovunque si trovi, e in qualsiasi ora del giorno e della notte, di accedere ad una massa incredibile di informazioni. La conoscenza così assicurata è certo liberatoria e anzi rivoluzionaria, accessibile anche alle classi meno abbienti, a coloro che non possono andare di persona nelle biblioteche pubbliche e negli uffici.
Comincia però a circolare qualche preoccupazione sulla "durata" delle informazioni e conoscenze affidate alle misteriose ultramicroscopiche sequenze di segnali magnetici depositati su un supporto di pochi grammi di plastica e metalli vari. I primi computer personali affidavano i dati a dischetti flessibili da "cinque pollici e un quarto"; i messaggi si "depositavano" su tali dischetti traducendo le lettere e i segni in segnali magnetici mediante "programmi" come Wang, WordStar e poi varie versioni di Windows, ecc. I progressi dell'elettronica hanno permesso di "compattare" le informazioni su dischetti più piccoli, da "tre pollici e mezzo" e poi ancora su dischi magnetici, capaci di contenere molte più informazioni ma che potevano essere “letti” soltanto con computer differenti. Senza contare che anche i "dischi" si deteriorano, sono soggetti ad attacchi di parassiti; nei climi caldi sono letteralmente mangiati da funghi; in alcuni casi lo strato magnetico è alterato dall'inquinamento.
Non solo, quando un computer cominciava a fare le bizze (io ne ho cambiati otto o nove in trenta anni) bisognava sostituirlo e il nuovo spesso non era capace di "leggere" quello che era stato scritto con il computer precedente e che si doveva considerare "perduto" se non veniva trasferito su un supporto magnetico leggibile dal nuovo computer. Bisognava così ricorrere a dei professionisti capaci di estrarre dai vecchi supporti magnetici e dai vecchi computer le informazioni scritte con programmi e macchine ormai in disuso; dei recuperatori di testi nascosti simili ai monaci che copiavano a mano su carta i testi greci e latini scritti su pergamena, sparsi nelle biblioteche medievali.
Cerf ha suggerito di creare musei di computer di moltissimi tipi, capaci di leggere parole e immagini registrate con sistemi operativi dimenticati, e archivi dei codici di linguaggio (alcuni noti solo ai produttori) con cui sono stati scritti i sistemi operativi, da tenere continuamente aggiornati ed efficienti, se non si vuole diventare “fantasmi nella storia”. Anche molti testi “pubblicati” su Internet appena pochi anni fa non si trovano più o perché il sito che li ospitava ha cambiato nome o localizzazione o perché sono stati cancellati; molti non si trovano più neanche nello speciale Internet Archive che pur cerca di conservarne una parte. La stessa crescente diffusione dei libri elettronici, meno costosi di quelli di carta, più “ecologici” perché permettono di non tagliare alberi e di inquinare di meno le acque, ci induce a porci la stessa domanda: fino a quando saranno leggibili?
Un problema non banale come dimostra il fatto che nel 2013 l’Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Istruzione, la Scienza e la Cultura, ha riunito a Vancouver 400 bibliotecari di tutti i paesi per discutere su come conservare la memoria del mondo nell’era digitale. C’è il rischio che fra pochi decenni i nostri figli e nipoti restino ciechi e sordi davanti a quello che noi oggi avevamo scritto, detto, raccolto, fotografato e registrato per loro, tanto più, ha detto ancora Cerf nella sua conferenza, che dell’importanza di una informazione spesso ci si rende conto soltanto dopo secoli.
Con tutti i nostri progressi, finora soltanto l'invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg (1450) e la diffusione della carta hanno permesso di riprodurre testi duraturi; esistiamo e comunichiamo grazie a queste due invenzioni che ci permettono di trovare e leggere, come se fossero scritti ieri, libri e giornali e immagini “vecchi” anche di centinaia di anni. Voi dite quello che volete, ma io un testo digitale che mi sta a cuore, che vorrei fosse leggibile ancora fra trent’anni, me lo stampo su carta.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno
Narra la leggenda che durante l'ultimo fatale assedio di Costantinopoli, nel 1453 >>>
Narra la leggenda che durante l'ultimo fatale assedio di Costantinopoli, nel 1453, esattamente nelle ore in cui Maometto sferrava il decisivo assalto alla capitale, i teologi bizantini - gli intellettuali dell'epoca - stessero disquisendo su sofisticatissime questioni di dottrina, quali la determinazione del sesso degli angeli, del tutto disinteressati ad un accidente della storia quale la caduta dell'Impero Romano d'Oriente.
La storia, come si sa, ha la fastidiosa tendenza a ripetersi in farsa.

Le cronache di questi giorni sono focalizzate sul Colosseo: come ormai tutti sanno, tale ne è stata l'immediata eco mediatica, si tratta dell'idea di completare l'arena dell'Anfiteatro, per ora ripristinata solo in parte, ricreando così integralmente il livello dove anticamente si svolgevano spettacoli di vario tipo. Progetto non nuovo, ma che ha suscitato consensi plebiscitari.
Il tweet Renzi-style di domenica scorsa con il quale il ministro Franceschini ha espresso il proprio favore alla proposta ha innescato una gara entusiastica all'approvazione che ha coinvolto archeologi e amministratori ad ogni livello: l'attuale Soprintendente archeologa di Roma, responsabile del monumento per conto del Mibact, a poche ore dal tweet ha dichiarato che la Soprintendenza starebbe addirittura già studiando la questione.

Naturalmente le rarissime voci di saggezza (Salvatore Settis e Tomaso Montanari) levatesi a ricordare come la questione sia tutt'altro che urgente e prioritaria, sono state immediatamente tacciate di conservatorismo passatista, l'odiosa tabe responsabile di quasi tutti i problemi italici.
Più volte, in questa climax di celebrazione autoreferenziale, è risuonato il termine "coraggio", evidentemente ormai così desueto nel lessico politico, da aver subito un completo bouleversement semantico.

Attualmente la proposta è del tutto priva di qualsiasi elemento progettuale vagamente consolidato: sia dal punto di vista tecnico-scientifico, che da quello economico, che da quello gestionale.
Gli unici accenni dal punto di vista economico ipotizzano costi senz'altro elevati: inevitabili nella nuova situazione creatasi dopo gli scavi di epoca moderna che per ciò stesso rendono problematico un ripristino sic et simpliciter ad una situazione come quella ottocentesca.
Tranquilli: da questo punto di vista, la soluzione c'è già. Un ex Soprintendente ha sottolineato come gli introiti elevatissimi del Colosseo - la gallina dalle uova d'oro dell'intero patrimonio nazionale - potrebbero ben ripagare questi costi. Peccato che tali entrate da sempre servano a sostenere le spese di mantenimento, restauro, gestione dell'intero patrimonio archeologico romano, dall'Appia ad Ostia, dalle decine di musei ai mausolei, agli acquedotti (e d'altro canto, se l'Anfiteatro fosse del tutto autonomo, non ci sarebbe stato bisogno della sponsorizzazione Dalla Valle per un restauro ben più doveroso di questo ripristino).

Se nulla può essere detto neppure sul piano tecnico (auspicabilmente più meditato, ci si augura, dei recentissimi, pesanti restauri sul Palatino), in compenso su quello gestionale il genio italico ha dato prova, in questi ultimi giorni, di tutta la sua poliedricità.
Per decidere cosa fare nel futuro Colosseo ripristinato à l'ancienne, si può scegliere fra voli di aquiloni, concerti di musica classica (l'acustica essendo un dettaglio), partite di calcio, spettacoli assortiti ed 'eventi' pudicamente non meglio identificati.
In questo modo, sostiene questo esercito di progressisti della domenica, finalmente il monumento sarebbe utilizzato pienamente e i visitatori godrebbero di un'esperienza ben più appagante della visione di una serie di rovine poco comprensibili.

È vero che il Colosseo sia un sistema complesso, a tal punto che le scoperte si succedono, per certi versi, ancora oggi, ma non è presentando una versione comunque sia congelata ad un determinato - ed arbitrario - momento storico, che lo si rende maggiormente leggibile. La complessità di cui è portatore, geneticamente, dal punto di vista storico, architettonico, simbolico, si è poi moltiplicata esponenzialmente attraverso la dimensione temporale e quindi gli usi e le interpretazioni che in circa due millenni ne sono state date, e che comprendono le forzature ideologiche del ventennio fascista, solo per fare un esempio vicino cronologicamente. È una complessità - ineliminabile - che va invece spiegata, anche se è faticoso, soprattutto in tempi di semplificazione.
Ricostruire l'arena perchè questo aiuterebbe a leggere meglio il monumento è, invece, una scorciatoia che strizza l'occhio alla versione più tranquillizzante, perchè più nota, alla Massimo Meridio. Lettura ad una sola dimensione e consolatoria, in quanto priva di quelle incertezze, quei dubbi che costituiscono la vera essenza non solo della ricerca storico-archeologica, ma di quello spirito critico che, solo, può aiutarci ad una intepretazione meno superficiale del mondo che ci sta attorno.

E che magari ci può aiutare ad interpretare lo stesso successo di questa proposta, in un contesto in cui, a pochi passi di distanza, la Domus Aurea, con la necessità di un complicatissimo restauro pluridecennale e una cronica mancanza di risorse che uno Stato impotente non riesce a recuperare, sottolinea impietosamente la totale mancanza di una visione complessiva e consapevole nei confronti del nostro patrimonio archeologico.
Da anni, ormai, l'agenda del Collegio Romano si risolve in un accumulo estemporaneo di attività in cui è impossibile rintracciare priorità consolidate e durature.

Questa desolante mancanza di una programmazione - per quanto elementare possa essere - che contraddistingue la gestione del nostro patrimonio, viene da molto lontano. Effetto e causa, al tempo stesso, di quella perdita di senso dei nostri beni culturali sottolineata dalle addizioni lessicali nella definizione del Ministero voluto da Spadolini, quarant'anni fa.
Ai beni culturali furono così dapprima aggiunte le attività, poi il turismo. Nel frattempo, la nascita del Ministero dell'Ambiente - era il 1986 - cominciava a frantumare quel principio di tutela unitaria del territorio con le disastrose conseguenze sul paesaggio aggravatesi negli ultimi anni.

Da circa un lustro il Mibact subisce ridimensionamenti sempre più gravi alle sue prerogative di tutela non solo paesaggistica. L'ultimo attacco, in ordine di tempo è rappresentato da quello Sblocca Italia che, in queste ore, il Senato sta definitivamente ratificando nell'afasia del Ministro che si troverà - di conseguenza - a governare un dicastero pesantemente sminuito nei compiti istituzionali.
Si potrà consolare con un bell'incontro di lotta greco-romana nell'arena ripristinata, mentre fuori i nuovi ottomani si suddivideranno le spoglie dell'ultima spartizione di bottino.

Assisto come tutti, al vivace dibattito che si svolge in Italia e in Europa sui grandi temi delle riforme istituzionali, della crescita del Prodotto Interno Lordo >>>

Assisto come tutti, al vivace dibattito che si svolge in Italia e in Europa sui grandi temi delle riforme istituzionali, della crescita del Prodotto Interno Lordo PIL e del lavoro, sulla necessità di fermare l’immigrazione, di aumentare i consumi, di realizzare grandi opere, sulle eccellenza di cui possiamo vantarci: auto di lusso, moda, gioielli, specialità alimentari. Ogni tanto, magari, appaiono notizie sulle condizioni miserevoli di centinaia di migliaia di immigrati lavoratori stagionali, ammassati in rifugi malsani, di città e strade allagate, di italiani poveri che talvolta non hanno di che mangiare, di fastidiosi dimostranti che protestano per la perdita del posto di lavoro nelle fabbriche e negli uffici, di fumi tossici che appestano l’aria di alcune città, di schiumose acque di fogna che finiscono nel mare anche nelle delicate zone naturali.

Sono comunque lontani i tempi di quarant’anni fa, quando l’ondata della contestazione ecologica ha investito l’Italia e il mondo, e tanti sostenevano invece che il degrado e l’intossicazione dell’ambiente erano proprio dovuti al “dovere” di far crescere il PIL, accusato di essere il triste indicatore che accompagna la produzione di merci e il conseguente inevitabile inquinamento dell’aria e delle acque e l’impoverimento delle risorse naturali, l’indicatore che cresce anche se aumentano gli incidenti stradali e il gioco d’azzardo.
Tutte queste ubbie della contestazione sono state “fortunatamente” spazzate via dalla saggezza dei governanti che nella crescita economica e dei consumi vedono l’unico rimedio alle crisi economiche, la ricetta per il glorioso cammino dell’umanità, anzi per la stessa soluzione dei problemi ambientali. Spazzate via ma non del tutto; nelle settimane scorse sono calati a Roma i rappresentanti dei movimenti popolari internazionali per discutere dei temi, squisitamente ecologici: “terra, casa, lavoro”, chiedendo solidarietà e giustizia contro gli effetti distruttivi del potere economico. Erano persone delle cooperative agricole, dei sindacati, dei raccoglitori e riciclatori di rifiuti, dei lavoratori delle miniere, e hanno descritto le condizioni miserevoli in cui vivono nel mondo duemila milioni di persone: in certe zone con un gabinetto ogni ottocento persone.
La voce di questi movimenti è stata raccolta dal Papa Francesco che ha tenuto un lungo discorso, di cui ha parlato anche questo giornale, riconoscendo l’origine dello scandalo della mancanza di abitazioni, di lavoro, di terra proprio nel “culto idolatrico al denaro”. «All’inizio della creazione, ha ricordato il Papa, Dio creò l’uomo custode della sua opera, affidandogli l’incarico di coltivarla e di proteggerla». Questo disegno è stato sconvolto dall’accaparramento di terre, dalla deforestazione, dall’appropriazione dell’acqua, dai pesticidi, tutte forme di violenza ecologica che hanno strappato intere generazioni dalla loro terra natale. E ha continuato: «Durante questi incontri avete parlato di pace e di ecologia. E’ logico: non ci può essere terra, non ci può essere casa, non ci può essere lavoro se non abbiamo la pace e se distruggiamo il pianeta. Tutti i popoli della terra, tutti dobbiamo alzare la voce in difesa di questi due preziosi doni: la pace e la natura. La sorella madre terra, come la chiamava san Francesco d’Assisi».
E ancora: «Un sistema economico incentrato sul dio denaro ha anche bisogno di saccheggiare la natura, per sostenere il ritmo frenetico di consumo che gli è proprio. Il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, la deforestazione stanno già mostrando i loro effetti devastanti nelle grandi catastrofi a cui assistiamo, e a soffrire più di tutti siete voi, gli umili, voi che siete vicino alle coste in abitazioni precarie o che siete tanto vulnerabili economicamente da perdere tutto di fronte ad un disastro naturale. Il creato non è una proprietà solo di alcuni, di pochi. Il creato è un dono, è un regalo, un dono meraviglioso». A proposito della casa il Papa ha ricordato che «un tetto, perché sia una casa, deve avete anche una dimensione comunitaria. Oggi viviamo in immense città che si mostrano moderne, orgogliose e addirittura vanitose. Città che offrono innumerevoli piaceri e benessere per una minoranza felice ma si nega una casa a migliaia di nostri vicini e fratelli, persino bambini. Città che costruiscono torri, centri commerciali, fanno affari immobiliari ma abbandonano una parte di sé ai margini, nelle periferie, che demoliscono baracche, immagini tanto simili a quelle della guerra».
Ho voluto riprodurre letteralmente queste parole del Papa perché, a mio parere, contengono un programma di azioni che assicurerebbero un genuino sviluppo anche nel nostro paese, occasioni di quel lavoro che in Italia manca. Al di là delle fittizie proposte di merci verdi, bio, sostenibili, come le chiamano, la soluzione dei grandi problemi del nostro paese richiede progetti di occupazione per produrre cose realmente utili, nuove e diverse città, beni materiali e servizi capaci di soddisfare dei veri bisogni umani. Bisogni di mobilità decente, di abitazioni con servizi adeguati, di acqua e depuratori delle fogne, di difesa del suolo e di rimboschimento, anche per rallentare i cambiamenti climatici, bisogni di alimenti a prezzi che siano remunerativi per gli agricoltori e accessibili alle classi meno abbienti. E infine lavoro per sollevare dalla miseria, in tanti paesi del mondo, chi non ha acqua, elettricità, medicine, case: una ingegneria senza frontiere «affinché tutti possano beneficiare dei frutti della terra». Grazie al Papa ecologo.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

A proposito del commento entusiastico sulla Legge Lupi del neo direttore di Urbanistica, Federico Oliva, vorrei a mia volta osservare…>>>

A proposito del commento entusiastico sulla Legge Lupi del neo direttore di Urbanistica, Federico Oliva (vedi il testo in allegato), vorrei a mia volta osservare che a parere non solo mio, ma dei 400 firmatari dell’appello di eddyburg, e di numerosissimi altri firmatari di analoghi documenti, il nuovo DDL è più pericoloso del precedente disegno di legge «Principi in materia di governo del territorio» che lo stesso Lupi, allora parlamentare di Forza Italia, aveva proposto nel 2005.

Nel testo del 2005 si affermava infatti, all’art. 5, comma 4, che «Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi». Eliminato l’avverbio e abbandonata ogni cautela, l’unico e assertivo principio esplicitamente e ripetutamente richiamato nella nuova Legge Lupi consiste nel cancellare la titolarità pubblica della pianificazione. Infatti, si garantisce all’Art.1 che “ai proprietari degli immobili è riconosciuto, nei procedimenti di pianificazione, il diritto di iniziativa e di partecipazione, anche al fine di garantire il valore della proprietà”. Un principio di dubbia costituzionalità e di traballante giustificazione scientifica, economica e territoriale, ulteriormente ribadito all’Art.8.

Anche il titolo della legge, che recita «Principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana», appare manifestamente e scandalosamente fuorviante, poiché di fatto il privato, se la legge venisse approvata, diventerebbe attore e co-protagonista nei processi decisionali in materia di pianificazione urbanistica e territoriale. Ma è tutto l’articolato che smentisce il titolo e conferma le preoccupanti, anzi inaccettabili, caratteristiche del disegno di legge: una legge a sostegno della rendita e della proprietà immobiliare che sembra scritta dall’ufficio studi dell’associazione dei costruttori.

Il nuovo e influente direttore della rivista Urbanistica, già Presidente dell’INU dal 2005 al 2013, non la pensa così. Anzi, proprio aggrappandosi allo scoglio salvifico rappresentato dal titolo menzognero della legge, scrive su Urbanistica Informazioni n. 253-254 un breve commento entusiastico, e davvero fuorviante.

Federico Oliva capovolge infatti la realtà e, dimenticandosi che il DDL del 2005 aveva ottenuto un voto favorevole, purtroppo ampiamente bipartisan, alla Camera e che non era passato al Senato per il rotto della cuffia - grazie anche a una tempestiva azione di sensibilizzazione di eddyburg -, prende le distanze dalla prima legge Lupi al solo scopo di legittimare l’ennesimo tentativo, dell’allora parlamentare di Forza Italia e oggi Ministro del governo Renzi, di scardinare il governo pubblico del territorio concedendo ampia discrezionalità al privato. La nuova legge, secondo il neodirettore di Urbanistica, farebbe piazza pulita dei «passaggi più inaccettabili del testo del 2005, come quelli che attribuivano anche ai privati la responsabilità della pianificazione negandone la fondamentale competenza pubblica». Ma, invece, è proprio ciò che la nuova legge ‘di principi’ autorizza: anzi, con maggiore determinazione.

Oliva si domanda in conclusione, con discutibile sense of humor, se Lupi è migliorato o è lui che è peggiorato. E conclude che a Lupi ha fatto bene la vicinanza al «nostro attivissimo Presidente del Consiglio» al quale aveva già tributato all’inizio del breve articolo un elogio sperticato, evocando il «brillante scenario riformista aperto dall’attuale Governo».

Che dire? Che Lupi certamente non è cambiato, e che Oliva forse è un po’ confuso.

Riferimenti
Qui di seguito l'articolo di Federico Oliva

Urbanistica informazioni, 253-254 Gennaio-Febbraio, Marzo-Aprile
Lupus in fabula

di Federico Oliva

Nel brillante scenario riformista aperto dall’attuale Governo sembra esserci anche un piccolo spazio per la riforma urbanistica, tema negletto e marginale ma che agli urbanisti e all’Inu, tutto sommato, interessa ancora. Improvvisamente, mentre un valoroso deputato del centro sinistra si adopera faticosamente e in perfetta solitudine a mettere insieme un testo unificato delle varie proposte giacenti da anni in Commissione, senza sapere però se il suo encomiabile lavoro avrà o meno uno sbocco, dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti esce un testo titolato “Principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana”, un testo curato dalla Segreteria Tecnica del Ministro che presenta due notizie positive e rilevanti.

La prima notizia riguarda i contenuti della proposta, una vera e propria legge sui principi generali del Governo del Territorio, per tanti anni invocata dall’Inu e la cui assenza ha pesantemente condizionato la qualità delle diverse leggi regionali e ha impedito il completamento della riforma. Ebbene, nonostante alcuni limiti, anche rilevanti ma facilmente rimediabili, come la scarsa correlazione con la “legge Delrio” o l’imperfetta definizione dei diritti edificatori non differenziati dalle semplici previsioni, si tratta di un buon testo, equilibrato e scritto in manie-ra comprensibile, che riprende tutti i temi per i quali l’Inu si è speso con poco successo negli ultimi vent’anni, se si eccettuano alcune leggi regionali.

La seconda notizia è che il Ministro responsabile è l’on. Lupi, nel passato spesso associato alle peggiori pratiche urbanistiche, sia quando da Assessore al Comune di Milano promuoveva la “deregulation per progetti” contro il piano, sia quando da deputato del centro destra firmava nel 2005 il testo di “legge di principi” che più si è avvicinato all’approvazione finale con la prima lettura da parte della Camera; un testo considerato da molti urbanisti (e anche dall’Inu, seppure con qualche distinguo), come molto vicino al male assoluto.

Oggi, rileggendo i passaggi più inaccettabili del testo del 2005, come quelli che attribuiano anche ai privati la responsabilità della pianificazione negandone la fondamentale competenza pubblica, un passaggio palesemente contraddetto dallo stesso Titolo della nuova proposta, mi sono posto una semplice domanda: ma è Lupi che è migliorato o sono io peggiorato? Poiché un rapido esame di coscienza mi ha rassicurato sulle mie posizioni, ne ho dedotto che la sola vicinanza al nostro attivissimo Presidente del Consiglio gli ha fatto bene.

E’ passato mezzo secolo da quando l’economista Kenneth Building (1910-1993) ha scritto dei contributi fondamentali destinati a sollevare una ondata >>>

E’ passato mezzo secolo da quando l’economista Kenneth Building (1910-1993) ha scritto dei contributi fondamentali destinati a sollevare una ondata di attenzione per i problemi ambientali. Boulding era nato in Inghilterra a Liverpool, si era laureato a Oxford nel 1931 e nel 1932 era poi emigrato negli Stati Uniti dove era stato professore di Economia nelle Università dello Iowa, del Michigan e infine del Colorado. Boulding fu un apprezzato economista e anche presidente della Associazione Americana degli Economisti ma la sua maggiore fama gli venne da alcuni scritti provocatori sui problemi ambientali che risalgono agli anni sessanta del Novecento, quando cominciava a circolare l’attenzione per la scarsità delle risorse naturali e per gli effetti degli inquinamenti.

Bastava il buon senso per osservare, come quasi nessuno allora faceva, che ogni attività “economica” consiste nel trarre dei beni dalla natura, nel trasformarli in oggetti, in beni materiali commerciali, e che in tale operazione si formano scorie e rifiuti che finiscono nell’ambiente circostante danneggiandone gli abitanti. A differenza di quanto avviene nei cicli ecologici, in cui (quasi) tutte le scorie sono rimesse in circolazione, utili per altre forme di vita, nei cicli economici la natura resta impoverita da quanto gli umani portano via dal terreno, dalle miniere e dai pozzi, e le scorie si accumulano come crescenti corpi estranei dannosi per l’ambiente.
Il ciclo dei beni “economici” della natura riesce ad andare avanti con continua espansione perché il pianeta Terra è molto grande. Ma, avvertì Boulding, fate attenzione e guardate la storia degli stessi Stati Uniti; i primi pionieri, all’inizio del 1800, sono sbarcati dall’Europa sulle coste atlantiche avendo davanti terre sterminate, boschi e pascoli in cui allevare allo stato brado animali che potevano fornire la carne ad una popolazione crescente e ne avanzava anche per l’esportazione. Il cowboy è stato ed è il simbolo dell’America; spinge gli animali nei pascoli e poi nei macelli e i pascoli apparivano senza fine; se i pascoli più vicini si impoverivano, ci si poteva spingere verso l’Ovest, il Far West, dove acque e pascoli e boschi permettevano la continuazione di crescenti attività economiche.
I pionieri americani avevano potuto correre verso l’ovest uccidendo i nativi, i “pellerossa”, e distruggendo le popolazioni dei bisonti che vivevano in libertà nei pascoli senza padroni e fornivano il nutrimento dei nativi. Con l’avvento della “civiltà” le grandi terre libere vennero frazionate e assegnate a proprietari che potevano sfruttarle a proprio piacimento. A mano a mano che i terreni e i pascoli diventavano meno fertili per l’eccessivo sfruttamento, c’era pur sempre un “altro Ovest”, fino a quando i pionieri e i cowboys si sono trovati davanti alle Montagne Rocciose. Ma anche quelle potevano essere scavalcate verso le fertili terre della California; impoverite anche quelle, i cowboys si sarebbero trovati davanti l’oceano in cui non ci sarebbe stato nessun pascolo di cui appropriarsi e nessun animale da vendere e macellare.
Boulding scrisse che non sarebbe stato possibile continuare a vivere sul pianeta Terra secondo l’“economia del cowboy” e che sarebbe stato necessario organizzare la vita economica riconoscendo che, per quanto grande, la Terra è uno spazio chiuso, grande ma non infinito, non diversa, fatte le proporzioni, da una navicella spaziale. Gli astronauti possono contare soltanto sulle risorse che si trovano dentro la navicella e dentro la stessa navicella, e in nessun altro posto, possono mettere i loro rifiuti. Anche gli astronauti, che siamo poi tutti noi, della “navicella spaziale Terra”, Spaceship Earth, possono trarre tutto quello che gli occorre soltanto dal nostro pianeta e soltanto li dentro possono mettere i loro rifiuti.
Negli anni sessanta del Novecento il concetto di Spaceship Earth guadagnò la prima pagine dei settimanali, fu il titolo di libri e articoli e ispirò la prima Giornata della Terra dell’aprile 1970. L’attenzione di Boulding per il destino ecologico degli abitanti del nostro pianeta aveva anche una radice etica: Boulding, Era quacquero, seguace di una “chiesa” basata sul pacifismo, sul rifiuto delle armi e della guerra, sull’austerità e sulla nonviolenza, e come tale riconosceva che anche lo sfruttamento dei beni comuni naturali e gli inquinamenti e gli sprechi sono forme di violenza agli altri abitanti del pianeta, al “prossimo” e fonti di conflitti.
Personaggio di grande interesse umano, oltre che scientifico, Boulding è stato instancabile nel “predicare”, direi, la necessità di un cambiamento nelle regole dell’economia, compatibile con i vincoli ecologici della Terra, la necessità di porre dei “limiti” allo sfruttamento delle risorse naturali. Boulding non è più citato neanche nei testi di economia; eppure la navicella spaziale Terra è sempre quella, con le sue terre e i suoi oceani; anzi è raddoppiato in mezzo secolo, il numero degli “astronauti”, ormai sette miliardi, che la occupano, tutti impegnati a portare via alimenti, alberi, minerali, fonti di energia, e a mettere dovunque i rifiuti dei loro consumi, tutti sperando che succeda qualcosa che ci consenta di continuare il nostro comportamento da cowboy. Purtroppo anche nel caso della Terra, nessuno ci può portare da fuori qualcosa, cibo o acciaio o petrolio, e non possiamo gettare il nostro pattume negli spazi interplanetari.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

Foglio un articolo del vicedirettore Alessandro Giuli che prende di mira l'assessore all'Urbanistica della Regione Toscana>>>

Foglio un articolo del vicedirettore Alessandro Giuli che prende di mira l'assessore all'Urbanistica della Regione Toscana - Anna Marson - paragonata niente di meno che a Pol Pot, un dittatore sanguinario che nell'arco di pochi anni ha sterminato metà del popolo cambogiano. L'articolo sul Foglio, ben undici pagine di falsi e di insinuazioni velenose, ha già avuto un'efficace risposta dal presidente della Regione Toscana. Tuttavia, commissionato da Giuliano Ferrara (e a Ferrara commissionato da chi?) è solo l'ennesimo attacco sulla stampa di una campagna contro il Pit adottato; una campagna che ha visto il mondo del vino - salvo qualche voce isolata - schierarsi compatto contro il Piano, che, secondo i vignaioli toscani impedirebbe l'impianto e il reimpianto dei vigneti. Un piano autoritario - sempre secondo i vignaioli - che imporrebbe perfino quali vitigni scegliere e dove metterli: si tratta, ovviamente, di balle, ma che, accompagnate da fosche previsioni di chiusura d'imprese e di disoccupazione, colpiscono l'immaginazione di un pubblico ignaro di cosa sia il Pit.

Le ragioni della rivolta contro il Pit sono sostanzialmente tre e l'una non esclude l'altra. Il primo motivo, di natura psicologica, corrisponde a un riflesso di tipo pavloviano. Non pochi agricoltori sono stati in passato angariati dai Comuni con provvedimenti illegittimi; è bastato, perciò, qualche accenno di limitazione per fare scattare una reazione allergica: tanto virulenta quanto ingiustificata dal momento che il Pit non impone e non prescrive niente al mondo dell'agricoltura. Il secondo motivo è che gli agricoltori sembrano non inquadrare il nocciolo della questione, cioè dove sta il loro interesse. Il Pit, infatti, per quanto riguarda il mondo dell'agricoltura ha un taglio esclusivamente promozionale, si rivolge cioè ai programmi settoriali della Regione e non agli strumenti urbanistici dei Comuni, (dei quali la nuova legge urbanistica, anch'essa in attesa di approvazione, esclude ogni competenza sulle scelte colturali). Gli agricoltori, perciò, piuttosto che paventare inesistenti vincoli del Piano, dovrebbero preoccuparsi di dove e di come sono distribuite le risorse finanziarie, cioè degli orientamenti e delle scelte del Programma di sviluppo rurale 2014-2020, in corso di gestazione e facente capo all'assessore all'agricoltura, Gianni Salvadori.

Il terzo motivo è di natura politica: la protesta degli agricoltori contro il Pit è stata cavalcata dall'assessore all'agricoltura che si è messo alla testa dell'opposizione al Piano; dimenticando che il Piano - per ciò che riguarda le direttive e la disciplina rivolta al mondo rurale - è stata concordato parola per parola con i suoi uffici e che lui stesso lo ha approvato in giunta senza aver niente da obiettare. Difficile dire se l'assessore stia a capo o dietro alla protesta; certo è che non vuole che il Pit, con le sue direttive, condizioni il Piano di sviluppo rurale e, volente o meno, fa parte di uno schieramento che attacca il presidente Enrico Rossi colpevole di una politica un po' più di sinistra rispetto a quella renziana. Può essere una tattica di logoramento, tuttavia il bersaglio grosso, è l'approvazione del Pit rimandata alla prossima legislatura, dove tutto può cambiare: non più Marson, la nuova legge urbanistica cassata e la politica regionale ancora più spostata verso le grandi opere, le autostrade, gli inceneritori, ecc. D'altronde, Salvadori, nel cui curriculum vanamente si cercherebbe qualche competenza rispetto ai problemi del mondo agricolo, è un sostenitore dell'agro-industria; è, per fare un esempio, un convinto supporter del progetto della mega-centrale a combustione di biomasse, "riconversione" dell'ex zuccherificio Sadam di Castiglion Fiorentino - un inceneritore mascherato.

Rimane il rimpianto che anche quella parte del mondo toscano che era o sembrava più aperta al cambiamento e più consapevole che un paesaggio sano, ricco di testimonianze e bello, aiuta a vendere i prodotti ed è un valore economico prezioso - ad esempio il Consorzio Chianti Classico, che ha pur sempre una fondazione per la tutela del territorio, - si sia accodata acriticamente alla guerra scatenata contro il Piano; una operazione che mira soprattutto alla distruzione personale dell'assessore Marson; ciò che forse non è "polpottismo", ma sicuramente è bieco stalinismo.

Se non fosse una cosa così seria verrebbe quasi da sorridere a pensare alle migliaia di persone che ogni anno da venti anni si trascinano da un paese all’altro a discutere senza risultati su come fermare i peggioramenti climatici. Da Berlino, a Kyoto nel 1997, a Marrakesh, a New Dehli, a Nairobi, alla fascinosa Bali, a Cancun, alla favolosa Doha, a Lima nel Peru, con un supplemento a New York la settimana scorsa. Sono ministri, capi di governo, funzionari ministeriali, esperti, ambientalisti e soprattutto lobbysti, quei funzionari che le grandi industrie mandano in giro ad accertarsi che non venga presa qualche decisione che danneggi i loro affari. Perché di soldi e di merci e di affari, si tratta.
Il peggioramento del clima, che da anni è sotto i nostri occhi, con piogge quando dovrebbe esserci il sole, con grandinate quando dovrebbe piovere gentilmente, con siccità nei suoli agricoli, in attesa che improvvise tempeste li riempiano di acqua, con tranquilli fiumiciattoli che allagano intere città, è dovuto al cambiamento della composizione chimica dell’atmosfera provocato dalle attività “economiche” umane. La quantità dell’anidride carbonica CO2 presente nell’atmosfera è aumentata, in cinquanta anni, da 2400 a 3000 miliardi di tonnellate, con un inesorabile continuo aumento annuo di circa 15 miliardi di t; è questo gas, insieme ad alcuni altri “gas serra”, che trattiene sulla superficie dei continenti e degli oceani una crescente frazione della radiazione solare.
Da un parte all’altra del pianeta, terre e mari vengono così scaldati e si alterano i cicli naturali di evaporazione e di condensazione dell’acqua e la circolazione del calore attraverso gli oceani. La modificazione chimica dell’atmosfera è direttamente proporzionale ai consumi delle fonti di energia fossili, petrolio, carbone e gas naturale, le quali a loro volta servono per fabbricare e tenere in moto tutte le meraviglie della società moderna: automobili e materie plastiche, aerei e telefoni cellulari, cemento e condizionatori d’aria, perfino prodotti agricoli e zootecnici che forniscono il cibo quotidiano. Una qualche attenuazione della crisi si potrebbe avere piantando più alberi, i quali “portano via” un po’ della CO2 dell’atmosfera, tanto che è stato inventato un meccanismo economico per cui chi immette CO2 nell’atmosfera può continuare ad inquinare pagando qualche paese sottosviluppato perché pianti un po’ di alberi, una specie di commercio delle indulgenze.
Purtroppo la crisi climatica viene aggravata perché, in molti paesi poveri, su grandi superfici le foreste vengono tagliate per recuperare terreni agricoli e pascoli e legname e per aprire miniere, nella speranza di guadagnare qualche soldo e qualche posto di lavoro. In tutte le conferenze internazionali sul clima i governanti da venti anni ripetono le stesse cose; analizzano le cause, ormai notissime, del riscaldamento globale, e dichiarano con fermezza che ciascun paese ha intenzione di limitare le emissioni di “gas serra” compatibilmente con le necessità economiche, cioè mai. Le economie di tutti i paesi, di quelli di antica industrializzazione (del primo mondo), di quelli del secondo mondo di recente industrializzazione e di quelli del terzo mondo, poveri e poverissimi, vogliono più cibo, più acqua, più energia, più merci, tutte cose che inevitabilmente comportano un aumento dell’inquinamento ambientale e non solo di quello responsabile dei peggioramenti climatici.
I governanti di alcuni paesi, come quelli europei, promettono di introdurre innovazioni tecnologiche “verdi” per diminuire le emissioni di gas serra, limitandole ai valori di qualche anno fa; ma anche così la quantità di gas serra che si accumulano nell’atmosfera --- ed è la loro quantità totale che conta ai fini del riscaldamento globale --- aumenta. Poco favorevoli a forti limitazioni del consumo di combustibili sono i paesi come India e Cina e anche i paesi poveri che chiedono ai paesi ricchi, Stati Uniti ed Europa, forti inquinatori, di dare per primi il buon esempio limitando le loro emissioni. I mutamenti climatici hanno un duplice effetto: costano soldi, pubblici e privati, a causa dei danni apportati dalle frane e dalle alluvioni, dalla distruzione dei raccolti, e provocano l’aumento dei prezzi delle merci. Ma sono anche fonti di violenza e di dolori umani; milioni di persone, soprattutto dai paesi più poveri, emigrano dalle terre rese sterili dalla siccità, o sommerse dalle acque, ma trovano le porte sbarrate dall’egoismo dei paesi più ricchi che, con i loro consumi enormi, sono stati la vera causa delle loro disgrazie climatiche.
Il problema è aggravato dal fatto che sta inesorabilmente aumentando il numero di persone che aspirano alla crescita economica. Secondo recenti previsioni delle Nazioni Unite la popolazione mondiale sta passando dagli attuali 7 a dieci o più miliardi di persone nei prossimi decenni. Persone che sono consumatori affamati di cibo e acqua e di merci essenziali, ma avidi anche di merci inutili offerte da quella stesse imprese, più o meno verdi, che dichiarano a gran voce quanto amano il pianeta. E’ inevitabile che la popolazione mondiale aumenti ancora per molti anni, fonte di ulteriori conflitti per spazio e materie prime scarsi, di avvelenamento e di mutamenti della stessa struttura chimica, fisica e biologica del pianeta. Potrà andare avanti a lungo questa corsa di corridori ciechi, incapaci di vedere verso quali crisi planetarie stanno andando?
L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno



Renzi definisce conservatori i compagni del suo partito, che resistono all'abolizione definitiva dell'art. 18. Non è la prima volta, negli ultimi anni >>>

Renzi definisce conservatori i compagni del suo partito, che resistono all'abolizione definitiva dell'art. 18. Non è la prima volta, negli ultimi anni, che nel dibattito politico esplode il motivo del conflitto tra conservatori e innovatori. Con un rovesciamento di senso rispetto a quel che normalmente significano questi due termini. E' un collaudato artificio retorico per mettere in difficoltà chi difende diritti e conquiste sociali consolidati, bollandolo come oppositore delle splendide novità portate dalla storia che avanza. Ci sarebbe da chiedersi se tutto il nuovo che si realizza nel corso del tempo corrisponda ad aspirazioni generali, porti benefici per tutti.

Prendiamo ad es. il campo della scienza, quello che al senso comune appare come il campo trionfante del progresso. Davvero tutto l'avanzamento scientifico dell'età contemporanea è andato a beneficio dell'umanità? La bomba atomica è stata una delle più grandi innovazioni scientifiche del '900. In campo militare si è passato dalle armi per combattere un nemico sul terreno a uno strumento di genocidio, di cancellazione di tutto il vivente. Mi pare difficile ascriverla tra i progressi dell'umanità. L'amianto è un magnifico materiale ignifugo, che ha trovato infinite applicazioni industriali.E' un vero peccato che esso induca il tumore mortale alla pleura o al polmone. Ma quella magnifica innovazione ci è costata e continua a costarci migliaia di morti all'anno oltre alle somme ingenti per eliminarlo da case e aziende. Anche i gas clorofluorocarburi, quelli che servivano alla refrigerazione, rappresentavano una geniale innovazione chimica. Com è noto, lacerano lo strato atmosferico dell'ozono ed espongono gli esseri viventi a raggi solari che alterano la struttura del dna.
Dunque, non sempre andare avanti significa migliorare le cose. Questa idea che cambiando l'esistente si approdi necessariamente al meglio, che andando più in là si diventi più felici che stando qui, è un vecchio cascame culturale sopravvissuto all'illuminismo. E' una superstizione paesana, e ora dispositivo retorico di un ceto politico senza prospettive, che crede di cambiare il mondo cambiando il senso delle parole.

Ma poi è sempre da condannare la conservazione? Chi si oppone a che un territorio verde venga coperto col cemento di nuove costruzioni genera un danno alla collettività o crea qualche vantaggio agli abitanti del luogo e più in generale ai viventi? Chi lotta perché la via Appia non divenga luogo di lottizzazione per villette private è certamente un conservatore: vuole preservare le pietre di due mila anni fa da edifici nuovi fiammanti. Ma chi esprime rispetto per la bellezza e la grandezza del nostro passato, chi ha una idea di società meno spiritualmente gretta, chi propone la visione di un paesaggio irriproducibile da godere collettivamente, chi si fa carico delle nuove generazioni, chi esprime un senso dell'interesse generale e del bene comune: è da mettere alla gogna? Tutto questo distillato di civiltà dobbiamo buttarlo via perché è vecchio?

Ma la retorica contro i conservatori ha avuto come bersaglio prevalente le tutele dei lavoratori. Tanto il centro-sinistra quanto il centro-destra hanno aperto una vasta breccia di innovazione nel mondo del lavoro: hanno inaugurato l'era del lavoro precario: lavoro in affitto, a progetto, interinale, somministrato, ecc. Un florilegio mai visto di innovazioni legislative. In Italia la Fornero è riuscita a creare una figura unica nel suo genere: gli esodati, lavoratori senza salario e senza pensione. Nessuno può dire che non si tratti di una innovazione. Stabilire a vantaggio di chi è altra questione.

Anche il presidente della Repubblica, nella discussione intorno all'articolo 18, ha portato un rilevante contributo di innovazione. Lo ha fatto sul piano del linguaggio. Ha esortato il governo e i suoi ad avere più coraggio. Coraggio a rendere più facilmente licenziabili operai e impiegati, coloro che tengono in piedi l'economia e i servizi del paese, spesso per un misero salario, coloro che talora entrano ed escono dalla cassa integrazione, che si infortunano, che sul lavoro ci muoiono, che rinunciano alla maternità, che vivono nell'angoscia di un licenziamento che può gettarli in strada da un momento all'altro. Non siamo di fronte a una innovazione? Chi è, nel senso comune universale, coraggioso? Certamente colui che affronta un avversario più forte, che alza la voce contro chi sta in alto. Ad esempio chi mette in atto una politica fiscale contro le grandi ricchezze, chi critica l'arrogante politica bellica degli USA, chi cerca di limitare l'arricchimento privato di tante pubbliche professioni. Il presidente della Repubblica capovolge la verità storica e anche quella delle parole e si schiera contro i lavoratori del suo paese. A favore degli imprenditori, che così potranno disporre in piena e completa libertà della forza- lavoro. Come facciamo a non considerarlo un innovatore?

Ma questa innovazione ci porta “avanti”? Indebolire la classe operaia, dunque il lavoro produttivo non sembra che faccia avanzare le società del nostro tempo. La vasta ricerca di T.Piketty, (Il capitale nel XXI secolo, Bompiani) mostra al contrario come l'ineguaglianza che si va accumulando, stia facendo ritornare indietro la ruota della storia. Misurando il peso crescente che l'eredità va assumendo nelle società industriali odierne, egli ricorda che «il passato tende a divorare il futuro: le ricchezze provenienti dal passato crescono automaticamente, molto più in fretta – e senza dover lavorare – delle ricchezze prodotte dal lavoro, sul cui fondamento è possibile risparmiare. Il che, quasi inevitabilmente, porta ad assegnare un'importanza smisurata e duratura alle disuguaglianze costituitesi nel passato, e dunque all'eredità». Le mort saisit le vif, si diceva un tempo, il morto trascina il vivo, il passato ingoia il presente. I novatori che avanzano innalzando i loro vessilli corrono in realtà verso il passato. L'innovazione dei coraggiosi capovolge non solo la verità morale delle parole, ma anche il corso, preteso progressivo, della storia del mondo.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a il manifesto

Quasi non passa giorno senza che il presidente della BCE, Mario Draghi e gli altri strateghi che presidiano il governo dell'Unione si affannino >>>

Quasi non passa giorno senza che il presidente della BCE, Mario Draghi e gli altri strateghi che presidiano il governo dell'Unione si affannino a rammentarci che in mancanza di “riforme strutturali” l'italia non “riprenderà il cammino della crescita”. Le riforme strutturali: espressione ironica della storia. Chi ha memoria del nostro passato ricorderà che la frase “riforme di struttura” è stata coniata da Palmiro Togliatti, diventando uno degli slogan del PCI tra gli anni '50 e '60. Alludeva a profonde trasformazioni da realizzare negli assetti dell'economia e nei rapporti di potere tra le classi.Ora è finita in bocca ai manager finanziari europei, e ai governanti italiani, e serve a dare una accentuazione di radicalità all'intervento invocato, quasi si trattasse di migliorare più profondamente le condizioni del paese.

In realtà, oltre a mascherare il vuoto di prospettiva, essi cercano di nobilitare la sostanza classista della più importante di queste “riforme”: una maggiore flessibilità e una più completa disponibilità della forza lavoro nelle scelte dell'impresa. Il Job Act in cantiere nel governo Renzi, evidentemente non basta. Occorre poter licenziare con più facilità, per attirare i capitali che girano per il mondo. Oggi noi sappiamo bene quanta fondatezza ha la teoria su cui si fonda tale pretesa. Come ha scritto di recente Luciano Gallino, «La credenza che una maggiore flessibilità del lavoro, attuata a mezzo di contratti sempre più brevi e sempre più insicuri, faccia aumentare o abbia mai fatto aumentare l'occupazione, equivale quanto a fondamenta empiriche alla credenza che la terra è piatta» (Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario, Laterza 2014).
Ma per la verità noi non abbiamo soltanto questa certezza scientifica, oltre alla prova empirica di una economia capitalistica che continua a generare disuguaglianze, precarietà e disoccupazione. Noi possediamo un inquadramento storico quale forse mai si era raggiunto in età contemporanea per una fase così ravvicinata. Sappiamo “come sono andate le cose” negli ultimi 30 anni grazie a una letteratura ormai di considerevole ampiezza. E possediamo una lettura strutturale della crisi che nessuna altra ricostruzione di parte capitalistica può minimamente scalfire. Ha cominciato in anticipo Serge Halimi, con il Grande Balzo all'indietro (Fazi 2006, ma uscito in Francia nel 2004) – un testo ricco di informazioni e d'intelligenza politica che meritava un più ampio successo - seguito l'anno dopo dalla Breve storia del neoliberismo (tradotto dal Saggiatore nel 2007) di D. Harvey, e a seguire una lunga serie di saggi in varie lingue successivi al tracollo del 2008, cui non è neppure possibile far cenno.
Quest'anno si è aggiunto a tanta letteratura storico-analitica – oltre al grande lavoro di T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, già sufficientemente osannato - un saggio che merita di essere ripreso per la limpidezza della scrittura e la forza documentaria con cui conferma la lettura del trentennio neoliberista: I.Masulli, Chi ha cambiato il mondo? (Laterza). Masulli mostra con dovizia di tabelle e dati statistici ufficiali le tendenze di fondo che hanno governato lo sviluppo del capitalismo negli ultimi trent'anni: la delocalizzazione industriale ( indagata nei suoi effetti nei vari paesi in cui si è insediata), l'innovazione tecnologica basata sull 'automazione microelettronica e la finanziarizzazione dell'economia. Son processi noti ma a cui l'autore aggiunge informazioni spesso sorprendenti. Si pensi alle dimensioni degli investimenti all'estero dei paesi di antica industrializzazione. In Francia essi rappresentavano il 3,6% del PIL nel 1980 e sono arrivati a toccare tra il 60 e il 57% nel 2009 e nel 2012. La Germania da un 4,7% è passata al 45,6% nel 2012. Anche l'Italia ha fatto la sua parte, passando dall' 1,6% del PIL del 1980 al 28% del 2012. Dimensioni di investimenti analoghi anche dagli gli altri paesi, con un dato impressionante per la Gran Bretagna, le cui imprese, nel 2010, hanno investito all'estero 1.689 miliardi di dollari, pari a oltre il 75% del PIL. « Con quei capitali, commenta Masulli, si sarebbero potuti creare 8.722.114 posti di lavoro».

Dunque, i nostri capitalisti hanno trasferito e investito all'estero ricchezze immense, fondando quasi nuove società industriali fuori dalla rispettiva madre patria, utilizzando a man bassa il lavoro sottopagato e senza diritti dei paesi poveri, facendo mancare risorse fiscali gigantesche ai vari stati. E ora gli strateghi dell'Unione vorrebbero far tornare un po di capitali in patria riducendo la classe operaia europea alle condizioni in cui è stata sfruttata negli ultimi 30 anni in Cina o in altre plaghe del mondo. Ma il quadro delineato da Masulli conferma e approfondisce, anche per altri aspetti noti, con dati quantitativi, le linee storiche di evoluzione delle economie nel periodo considerato. Tale quadro mostra ad es. come l'innovazione tecnologica sia servita prevalentemente a sostituire forza lavoro, ingigantendo l'esercito industriale di riserva.Su questo punto forse l'autore sottovaluta l'innovazione di prodotto realizzata con la microelettronica, soprattutto negli USA. Ma è un fatto che essa non ha creato, come avvenuto in passato con lo sviluppo delle ferrovie, l'espansione della chimica, l'industria automobilistica del '900, quella durevole ondata di nuovi posti di lavoro che erano attesi.

Mentre la produzione, come sappiamo, è diminuita rispetto ai decenni precedenti il 1980: e qui tutta la gloria del capitalismo neoliberista precipita nell'ignominia di una sconfitta storica.Nel frattempo i salari sono ristagnati, è aumentata la disoccupazione. Ma ovviamente sono cresciuti i profitti. Questi si! Crescita dei profitti, nota l'autore, cui però non corrisponde un aumento del processo di accumulazione, vale a dire guadagni dell'impresa reinvestiti nel processo produttivo. Una parte sempre più consistente di tali profitti se ne è andato e continua ad andarsene in dividendi e pagamento di oneri al capitale finanziario. E così il cerchio si chiude perfettamente, dando un profilo netto alla storia economica degli ultimi 30 anni: asservimento della classe operaia, disoccupazione crescente e lavoro precario, debole crescita economica, ingigantimento del potere finanziario e ampliamento delle disuguaglianze. E' questa la musica al cui suono danziamo ormai da anni. Mentre la politica degli stati e quella dell'Unione in primo luogo propongono di ripercorre il sentiero che ha condotto al presente disordine mondiale.

Ora, l'aspetto più clamoroso della presente situazione, soprattutto in Europa, è l'ostinazione con cui i dirigenti dell'Unione e soprattutto i governanti tedeschi e nord-europei si ostinano al restar ciechi di fronte alla realtà che trent'anni di storia ci consegnano. Saremmo ingenui se pensassimo solo al dogmatismo fanatico che è nel genio nazionale dei tedeschi. E sappiamo che a ispirare la politica dell'austerità che ci soffoca, come ha ricordato Paul Krugman, è l'interesse dei creditori. Ma io credo che l'europa di oggi e gran parte degli stati di antica industrializzazione testimonino un mutamento storico finora inosservato, che ormai emerge alla luce del sole. Non solo i vecchi partiti comunisti, socialisti, socialdemocratici sono stati strappati alle loro radici popolari e guadagnati al campo avversario. E' cambiata la forma di razionalità dei governanti. Heidegger diceva che << la scienza non pensa>>.Credo che sbagliasse bersaglio: è la tecnica che non pensa. La ragione tecnica applica dispositivi dottrinari alla realtà, attendendo che essi funzionino perché così accade nei laboratori o nelle simulazioni matematiche. Nella loro ratio se il dispositivo non ha successo è perché si sbaglia nella sua applicazione o questa non è completa. Se il Job Act non funzionerà è perché qualche residua norma impedisce all'imprenditore di licenziare i suoi operai quando più gli aggrada. Dunque, la verità che nessuno vuol dire è che oggi siamo governati da uomini che non pensano. Dove il verbo pensare ha una ricchezza semantica ormai andata perduta nel lessico corrente: significa lo sforzo creativo di rispondere alle sfide della realtà ascoltandone la complessità, cercando soluzioni condivise e di utilità generale con l'arte della politica. I tecnici continuano ad applicare dottrine sconfitte dalla realtà . Ma i politici senza dottrina, come il nostro Renzi e prima Berlusconi, non pensano più dei tecnici. Esercitano l'arte redditizia della comunicazione.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a il manifesto che lo ha pubblicato l'11 ottobre con il titolo L’immensa ricchezza delocalizzata

La società industriale del nostro tempo ha deragliato dal suo sentiero storico progressista. Almeno dagli anni '30 dell' 800 a ogni salto significativo della capacità >>>

La società industriale del nostro tempo ha deragliato dal suo sentiero storico progressista.Almeno dagli anni '30 dell' 800 a ogni salto significativo della capacità produttiva delle imprese ha corrisposto un'accorciamento della giornata di lavoro. Cosi è stato per quasi tutto il '900. Una conquista del tempo di vita per i lavoratori, ottenuta tuttavia sempre dopo aspre e prolungate lotte. Negli anni '90 del secolo scorso, negli USA, l'inversione di rotta. La rivoluzione informatica imprime al lavoro una capacità produttiva di rilevante potenza. Come ha scritto Joseph Stiglitz, «nei ruggenti anni Novanta, la crescita è aumentata a livelli per i quali di solito non basta una intera generazione». A questo salto avrebbe dovuto corrispondere un significativo accorciamento della giornata lavorativa, un'ampia redistribuzione del lavoro. Avviene il contrario. Ai primi del nuovo millennio operai e impiegati americani lavoravano in media due mesi in più all'anno dei loro corrispettivi europei.

Che cosa è accaduto? Il capitalismo americano non aveva più opposizione, l'antagonista storico, l'URSS era crollato, il neoliberismo aveva colonizzato l'intero Occidente, ed esso imponeva le proprie strategie con una libertà forse mai posseduta nella sua storia.Per giunta, la rivoluzione informatica riproduceva su scala assai più ampia il passaggio, realizzatosi in Inghilterra, dalla prima alla seconda rivoluzione industriale Allora, l'uso del carbone e dell'energia a vapore aveva liberato l'impresa dai vincoli territoriali che per tutto il '700 avevano costretto le fabbriche tessili a sorgere lungo i fiumi, fornendole una libertà di espansione senza precedenti. In USA comincia l'era, destinata a estendersi in tutti i paesi, in cui vengono definitivamente aboliti i limiti di spazio e tempo delle localizzazioni industriali. Nasce il capitale-mondo, in grado di porre il salario più misero del pianeta a standard di riferimento per trascinare verso il basso tutti gli altri. Si forma il più vasto “esercito di riserva” di forza-lavoro della storia. In Europa le residue resistenze sindacali impediscono l'allungamento dell'orario di lavoro, ma viene bloccato il processo di riduzione ed esplode la pratica del lavoro precario. Così a una capacità produttiva del capitale all'altezza del nuovo millennio corrisponde oggi una organizzazione della vita e della società che indietreggia verso l' 800.

Tutte le analisi di tendenza oggi mostrano come la crescita della produttività del lavoro per opera dell' avanzamento tecnico-scientifico (intelligenza artificiale, robotica, ecc) ridurranno sempre più il ruolo del lavoro vivo, non solo nelle mansioni ripetitive, ma anche nei servizi e nelle professioni. Il capitale finanziario trova sempre meno ragioni per investire nelle attività produttive in una fase di rapida obsolescenza dei prodotti innovativi, di aspra competizione intercapitalistica, di sovraproduzione sistemica, di stagnazione tendenziale. Far scarseggiare il lavoro è una strategia del capitale: indebolisce i lavoratori e li mette in reciproca concorrenza, li costringe ad accettare qualsiasi occupazione, emargina il sindacato, pone sotto controllo la dinamica salariale. Mentre viene ristretta la capacità di investimento da parte del potere pubblico, l'impresa privata appare l'unico agente che crea occupazione, assumendo nella società un ruolo egemonico assoluto. La piena occupazione scompare dall'orizzonte del prossimo decennio.

Il reddito minimo di base è dunque necessario per svincolare le condizioni minime di esistenza degli esseri umani dalla violenza del mercato e dal lavoro, in una fase storica in cui questo è sempre più scarso, precario, destinato a diminuire. Esso verrebbe a svolgere una funzione economica anticongiunturale rilevante. Accrescerebbe e renderebbe stabile la domanda interna in una fase in cui tende a diminuire. Darebbe a tanti cittadini una base minima per intraprendere una qualche attività nella produzione di beni e nei servizi. Fornirebbe a tanti giovani la possibilità di proseguire gli studi e le ricerche avviate, spingerebbe tante delle nostre intelligenze emigrate all'estero e non stabilizzate, a rientrare in Italia. Il reddito minimo riconsegnerebbe al potere pubblico il suo ruolo di redistributore di ricchezza e di ricompositore di un tessuto sociale comunitario. Oggi esso viene minacciato non solo dalla tendenza a trasferire i servizi pubblici, statali e locali, al capitale privato, ma anche dalla strategia di diminuzione della spesa per liberare le imprese da ogni peso fiscale. La tendenza estremistica del neoliberismo è la riduzione dello stato a mero controllore di regole e il dissolvimento della nazione come comunità nell'atomismo individualistico del mercato.
Rassegnarsi ad accettare che “non ci sono i soldi” significa guardare la realtà con gli occhi
dell'avversario. I soldi per il reddito minimo “ci sono”. Essi sono incorporati nella ricchezza
privata distribuita in maniera disuguale nella società italiana, nella rendita fondiaria, nelle fortune finanziarie depositate nelle banche e nei paradisi fiscali, nell'evasione, negli stipendi degli alti dirigenti e nelle loro pensioni, nel sistema fiscale non progressivo, nelle agevolazioni alle imprese, nelle grandi opere inutili, nelle ragnatele clientelari, centrali e regionali. Ci sono per gli armamenti e per le missioni militari. Il presidente della Repubblica ha detto che la “coperta è corta” per giustificare la spesa in armamenti, sottratta ai bisogni dei cittadini. Quella coperta dobbiamo strapparla alla guerra e tirarla dalla nostra parte, opporre le ragioni della vita a quelle della morte.
I soldi si ricavano anche da una generale riorganizzazione del sistema degli ammortizzatori sociali
La lotta per il reddito minimo può fare uscire dalla disperazione individuale milioni di persone, attrarle in una battaglia comune, dare un senso e una direzione al conflitto, grazie a una controparte visibile da battere, ridando credito alla politica come strumento razionale e collettivo di lotta alle ingiustizie.
Anche a sinistra c'è chi teme di creare un popolo di assistiti. Si può rispondere: sempre meglio per tutti una persona assistita che disperata. Ma in una società competitiva come l'attuale, bombardata da mille sollecitazioni consumistiche, chi si contenta del reddito minimo? Ma si può fare di più. In Italia abbiamo davanti un grandissimo progetto: riempire di vita e di attività economiche le aree interne della Penisola che si vanno spopolando, i territori dove per secoli le popolazioni hanno fondato la nostra civiltà. Per tale compito, che comporta la cura del territorio, la rivitalizzazione dell'agricoltura e della silvicultura, sono utilizzabili i fondi strutturali europei, così come per il restauro delle nostre città. Quanto lavoro volontario, ma anche iniziative di piccola impresa, potrebbe attrarre tale obiettivo tra i detentori di un reddito minimo?
La lotta per il reddito minimo può costituire l'occasione per aggregare nuove alleanze politiche nel paese, risvegliare energie, cementare un vasto fronte di lotta. Esistono le forze, sia nella società che in Parlamento, spesso impegnate in battaglie infruttuose, che possono unirsi attorno a un obiettivo così rilevante. Si può coinvolgere il vasto mondo cattolico in una battaglia di civiltà. Come può la Chiesa di papa Francesco, la moltitudine dei credenti, tollerare che la persona umana sia posta in condizioni umilianti dentro società grondanti ricchezza, sia ridotta a mero deposito di energia lavorativa, a materia prima scambiata nel mercato come una qualunque merce?
L'Italia può uscire dalla “crisi”, o per meglio dire dalla sua progressiva e certa rovina, solo con una radicale revisione dei trattati europei e un nuovo ciclo di investimenti. Oppure con una poderosa redistribuzione della ricchezza interna, capace di alimentare un vasto progetto di riconversione ecologica. Il reddito minimo non è la rivoluzione, ma può aprire questa strada. Hic Rhodus, hic salta!

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto
La cosiddetta riforma del Mibact è stata dunque approvata >>>

La cosiddetta riforma del Mibact è stata dunque approvata fra luci (la ridefinizione al ribasso delle Direzioni Regionali e l'attenzione ai musei) e ombre (la tragicomica ipertrofia dell'amministrazione centrale in parallelo alla carenza di una strategia degna di tale nome sul territorio).
In realtà si è trattato più modestamente di una riorganizzazione dettata dalla spending review che, quindi, per la sua stessa impostazione di legge mirata al risparmio finanziario, ha ben poche possibilità di apportare decisivi miglioramenti alle attività del Mibact.

Il problema principale del Ministero consiste infatti proprio nella sempre più accentuata mancanza di risorse economiche, di personale, e soprattutto di elaborazione culturale: improbabile che qualsiasi provvedimento teso a ridurne, in qualche modo, i bilanci, possa generare effetti positivi, né tanto meno quel rilancio che lo stesso Ministro Franceschini aveva auspicato al suo esordio e che questo provvedimento è destinato a eludere in radice.

In compenso, in queste ultime settimane, lo stesso Mibact è stato investito - "a sua insaputa"? - da una vera e propria controriforma che ne stravolge sostanzialmente la stessa ragion d'essere e che rischia di innescare la dissoluzione del nostro sistema di tutela.
Il ddl Lupi e il cosiddetto 'sblocca-Italia' rappresentano infatti un attacco scomposto - anche per la rozzezza del dettato legislativo, specie per lo 'sblocca-Italia' - ma convergente, all'integrità del nostro territorio e quindi del nostro paesaggio e dei centri storici nel loro insieme.

Innumerevoli e palesi gli elementi di incostituzionalità che riguardano gli ambiti delle competenze istituzionali, del diritto alla casa e all'abitare, di tutela ambientale e della salute e, ripetutamente, della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale, a partire dai centri storici.

Devoti al mantra della "semplificazione" e della lotta alla "burocrazia", le parole d'ordine che hanno accompagnato le peggiori deregulation dell'ultimo decennio, i due provvedimenti sono dunque permeati dalla medesima logica che si può sintetizzare nell'abolizione / riduzione generalizzata dei meccanismi di controllo, nel parossismo verticistico attraverso cui, con il pretesto della rapidità, ogni decisione converge su un decisore unico, si annullano le verifiche democratiche e i processi partecipativi, ci si fa beffe delle procedure di trasparenza amministrativa e contabile e, più in generale, si eliminano le pratiche di pianificazione di ogni tipo, a partire da quella territoriale, accantonata come un vecchio arnese troppo rigido e troppo lento.

Ispirate ad una ottusa necessità del 'fare', le opere di cui si vorrebbe favorire la realizzazione, immobili o infrastrutture che siano, mancano, ab origine, di un'adeguata progettualità che ne individui, prima di tutto, le caratteristiche di necessità e urgenza dal punto di vista economico, territoriale, ambientale, sociale e di quell'indispensabile valutazione costi-benefici senza la quale si rimane confinati nell'ambito dei progetti velleitari, inutili e, quasi sempre, economicamente disastrosi per le finanze pubbliche.

Per quanto riguarda poi l'ambito della tutela paesaggistica e dei centri storici nel caso del ddl Lupi, che ripropone con ben poche modifiche, il precedente provvedimento sul governo del territorio del 2005, duramente contrastato da eddyburg, si tratta sostanzialmente di una variante di quel "ciascuno padrone in casa propria" con il quale, in anni recenti si pretese di rilanciare il comparto dell'edilizia, con l'unico effetto di una serie di sfregi, più o meno gravi, ma diffusissimi, sul paesaggio, già provato da 3 condoni ravvicinati di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.
E in effetti, l' "urbanistica" nel testo governativo si appiattisce sull'edilizia, ignorando beatamente ogni finalità di qualità paesaggistica, urbana ed ambientale, con un arretramento di circa mezzo secolo che ci condanna ai margini della cultura urbanistica europea.
Con un rovesciamento di 180 gradi rispetto ai principi costituzionali, la stella polare del disegno di legge diviene la tutela della proprietà privata, a danno di tutto ciò che è spazio pubblico e patrimonio collettivo (a partire da quello culturale).
Più che un attacco alla politica di tutela dei centri storici, infine, il ddl ne rappresenta la completa negazione, a tal punto che nel testo, questi ultimi non compaiono neppure.

Quanto allo "sblocca-Italia", paragonabile, nella farraginosità, ai peggiori decreti omnibus di tremontiana memoria, in esso l'unico elemento di coerenza è rappresentato dalla costante rimozione di ogni verifica e controllo e, in particolare, di quelli esercitati, secondo Costituzione, dal Mibact: si giunge così ad introdurre, in modo generalizzato, il silenzio-assenso, ad annullare - de facto - l'archeologia preventiva (mai veramente decollata secondo i principi della Convenzione di Malta per incapacità dello stesso Mibact), a ridurre la funzione del Ministero a quella di osservatore, il più possibile silenzioso o comunque accomodante per dettato legislativo: nessun ostacolo deve essere posto a strutture quali inceneritori, impianti eolici, impianti di stoccaggio, metropolitane e in genere infrastrutture di ogni livello ed importanza.

Se così è, quindi, se cioè tale è l'ideologia che guida in particolare questi recenti provvedimenti legislativi, il primo e più acerrimo nemico dovrebbe esserne lo stesso Ministro Franceschini, il cui Dicastero viene ridotto, ex professo, alla totale subalternità rispetto ad esigenze economiche, per risolvere le quali si rispolverano le stesse arcaiche e disastrose ricette colpevoli della situazione di sfascio territoriale in cui ci troviamo.

Il sospetto è dunque che la cosiddetta riforma del Mibact, se letta in sinergia con questi provvedimenti devastanti, altro non sia che l'attestazione di una radicale trasformazione del ruolo del Ministero, d'ora in poi confinato ad occuparsi, con risorse peraltro declinanti e insufficienti, solo di musei e dei monumenti feticcio, dal Colosseo a Pompei, con esclusive finalità ludico-turistiche.
Dunque, mentre il Mibact viene lasciato a baloccarsi con gli estemporanei esperimenti di valorizzazione di qualche museo e monumento, paesaggio e centri storici sono sostanzialmente sottratti alla sua orbita di azione: operazione sancita, in perfetta complementarietà, proprio da 'sblocca-Italia' e ddl Lupi.

Per la verità si tratta di un processo iniziato ormai un lustro fa, quando, ad esempio, contemporaneamente a quello che doveva essere l'avvio della più radicale operazione di tutela del territorio, vale a dire la pianificazione paesaggistica ai sensi del Codice, il Ministero allora guidato da Bondi, decise, con formidabile tempismo, di abolire la Direzione Generale per il Paesaggio. Fu uno dei primi sintomi di quel progressivo allontanamento dalle attività di controllo del territorio che, fra tagli di risorse e slittamento inesorabile verso una realpolitik da parte della dirigenza ministeriale, si è via via accentuato fino ad appiattirsi su rinunciatari obiettivi di mitigazione del danno e su di un sostanziale cedimento a ragioni, o meglio interessi, "altri".
Nel frattempo, provvedimenti apparentemente di altro ambito (magistrali, in tal senso, i "mille proroghe"), hanno mano a mano ridotto le prerogative, gli spazi d'azione, le risorse degli organismi di tutela, provocando, de facto, un ribaltamento delle gerarchie costituzionali stabilite dall'articolo 9. Indimenticabile fu, in tal senso, l'affermazione, del ministro dei beni culturali - sempre Bondi - che, di fronte alle Commissioni parlamentari, per giustificare uno dei primi provvedimenti di semplificazione dell'autorizzazione paesaggistica, sostenne che le tutele allora in vigore sul territorio per merito della Galasso fossero "eccessive".

A rendere ancora più amaro questo passaggio è la consapevolezza che gli obiettivi cui mirano sblocca-Italia e ddl Lupi, oltre a scardinare il sistema di tutela, non sortiranno alcun effetto positivo di lungo termine in campo economico, sia perché improntati alla più preoccupante improvvisazione amministrativa e progettuale, sia perché procedono entrambi, come i ciechi di Bruegel, esattamente in direzione contraria a quello che dovrebbe essere l'unica indifferibile grande opera: la tutela integrale del paesaggio e la diffusa, continuativa manutenzione territoriale e riqualificazione dei nostri centri urbani, opera il cui ritardo è causa ormai quotidiana di danni economici e sociali, oltre che ambientali e culturali, gravissimi.
Per tacere di quei "danni collaterali" che sono le vite umane di cui ci raccontano le cronache, con desolante ripetitività: ieri dal Veneto, oggi dalla Puglia, domani, chissà.

Il recente pamphlet di Ugo Mattei, Senza proprietà non c'è libertà”falso)... >>>

Il recente pamphlet di Ugo Mattei, nella benemerita collana Idola di Laterza (Senza proprietà non c'è libertà”: falso), recensito su questo giornale da G.Amendolahttp://www.eddyburg.ithttps://eddyburg.it/archivio/lespropriazione-in-nome-della-legge/ (28 agosto), merita una prosecuzione di analisi. Va subito osservato che del grande tema della proprietà privata, non solo in Italia, si occupano quasi solo i giuristi: pochi, eterodossi, coraggiosi studiosi del diritto. Certo, è stato storicamente il diritto a fondare la proprietà privata, a trasformare un rapporto di forza e una appropriazione di ricchezza in una legge protetta dal potere dello stato. E al diritto spetta in primo luogo ritornare teoricamente sui propri passi.Ma non possiamo non osservare che la ricerca storica si tiene ben lontana da questo campo, cosi come la sociologia e le altre scienze sociali. Del pensiero economico, ovviamente, non è il caso di parlare. Deprimente prova della superficialità subalterna dei saperi sociali del nostro tempo, che accettano un processo storico di appropriazione come un dato naturale e indiscutibile.

Mattei rovescia la convinzione dominante secondo cui la proprietà privata fonda la libertà dei moderni, mostrando che essa nasce dalla privazione della libertà di molti ad opera di una èlite di dominatori: «all'origine della proprietà sta il potere e a ogni potere corrisponde una soggezione, ossia qualcuno più debole che, non avendolo, lo subisce.Tanto più libero è il proprietario tanto meno lo è il non proprietario, sicché- anche sul piano logico – l'asservimento può essere affiancato alla proprietà esattamente quanto la libertà». Ed egli conia un geniale sintagma, un'espressione da far diventare di uso comune, la «proprietà privante», come termine che esprime l'altra faccia e la natura escludente della proprietà privata.

Com'è noto, il monumento storico-teorico cui si rifanno i critici della proprietà privata e tanti teorici dei beni comuni è il capitolo 24 del Primo libro del Capitale, dedicato alla Cosiddetta accumulazione originaria. Mattei lo riprende anche in questo testo, dopo averne trattato nel suo Manifesto sui beni comuni. In effetti Marx, tramite una superba sintesi storica, disvela in questo testo l'insieme dei processi da cui nasce il moderno capitalismo. Essenzialmente esso si afferma grazie alla privazione dei mezzi di produzione della grande massa dei contadini inglesi(yeomen) da parte della piccola nobiltà. Ad essi viene sottratta la proprietà della terra e la casa (cottage) e posti in condizione di totale illibertà di decidere sulla propria vita: o il vagabondaggio o il lavoro di fabbrica. Nel frattempo i vecchi e nuovi proprietari chiudono le terre, anche quelle che erano state comuni, e fondano le aziende a salariati. I processi di espropriazione messi in atto dalla nobiltà cadetta con il movimento delle recinzioni (enclosures), a partire dal XVI secolo, non sono altro che la fondazione della proprietà privata dei pochi e l'esclusione e la perdita della libertà sostanziale dei molti. Com'è ormai noto e come Mattei ricorda, questo vasto processo di confisca di terre pubbliche, ecclesiastiche e contadine, su cui si fonda la moderna azienda capitalistica, ha ricevuto una rilevante legittimazione teorica da uno dei fondatori del pensiero politico moderno, John Locke.

Nel Secondo trattato sul governo ( 1690) Locke afferma che qualunque cosa l'uomo «rimuova dallo stato in cui la natura l'ha lasciata, mescola ad essa il proprio lavoro e vi unisce qualcosa che gli è proprio, e con ciò la rende sua proprietà». Immaginare uno stato di natura nell'Inghilterra del XVII secolo, dove un solitario individuo potesse appropriarsi di terre selvagge col proprio lavoro, costituisce una evidente costruzione ideologica, che serviva a legittimare il vasto movimento di espropriazione allora in corso. E naturalmente aveva un valore più generale soprattutto per legittimare ulteriormente il saccheggio nelle colonie americane. Ma Locke segna una svolta rilevante nella formazione del pensiero moderno anche per un altro aspetto. Come ha osservato uno studioso tedesco, Hans Immler, in un vasto studio che meriterebbe una traduzione italiana (Natur in der ökonomischen Theorie, 1985),Locke non solo fonda, con la sua teoria del valore-lavoro «proprietà privata pre-borghese», ma svaluta la natura » come selvaggia e sterile se è bene comune» mentre stabilisce che è l' «appropriazione privata che le dà valore». La natura in sé è un bene inutile, solo il lavoro che se ne appropria, la trasforma in ricchezza: il saccheggio del mondo vivente, e i problemi ambientali che ne seguiranno hanno qui la loro prima, sistematica legittimazione.

Per la verità Marx – che ha uno sguardo meno eurocentrico di quanto Mattei gli attribuisce – sa che il processo di formazione del capitalismo si svolge su scala globale, anche se ha il suo centro in Inghilterra. Egli ricorda, ad es,nel capitolo di cui trattiamo:«Liverpool è diventata una città grande sulla base della tratta degli schi avi che costituisce il suo metodo di accumulazione originaria». Uno dei grandi centri urbani della rivoluzione industriale, orgoglio del capitalismo trionfante, era figlio anche di quel cristianissimo commercio con le Americhe che era la vendita di forza-lavoro in schiavitù. Ma Marx ci ha fornito anche altri strumenti analitici, non meno rilevanti di quelli affidati al celebre capitolo del Capitale. In alcuni passi dei Grundrisse egli ricorda :«la proprietà – il lavoro altrui, passato o oggettivato – si presenta come l'unica condizione per un ulteriore appropriazione di lavoro altrui». Le macchine, la fabbrica stessa, costruite da altri operai (lavoro altrui) non appartengono ai lavoratori , ma sono proprietà dell 'imprenditore e si presentano agli operai stessi come la condizione obiettiva, naturale, che dà loro da vivere, tramite un ulteriore sfruttamento del loro lavoro. Il capitalismo non crea solo merci, ma riproduce e allarga i rapporti di produzione, ingigantisce le gerarchie di potere, rende la proprietà privata un dato di natura che si autoalimenta. «Il diritto di proprietà – continua Marx – si rovescia da una parte (quella del capitalista) nel diritto di appropriarsi del lavoro altrui, dall'altra (quella dell'operaio ) «nel dovere di rispettare il prodotto del proprio lavoro e il proprio lavoro stesso come valori che appartengono ad altri», cioé come proprietà privata del capitalista. E' questa asimmetria originaria di potere, su cui si fonda il rapporto capitalistico di produzione, a diffondere la proprietà privata come architettura generale della società. Questa occulta costantemente il lavoro che l'ha generata e trova poi la legittimazione del diritto e la difesa armata dello stato, presentandosi come una solidificazione geologica indiscutibile.

Mattei insiste spesso sulle retoriche che hanno legittimato la proprietà privata. Credo di poter dare un contributo alle sue riflessioni , accennando al ruolo che le discipline storiche hanno giocato nella costruzione di tali ideologie. Ritengo che la vittoria del modello proprietario nella formazione delle società contemporanee sia inscindibile dal successo economico del capitale. L'azienda capitalistica a salariati a un certo punto è risultata più produttiva delle singola piccola coltivazione contadina o della bottega artigiana. Lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, l'espropriazione della grande massa della popolazione, veniva nascosta dall'efficienza della macchina. La proprietà privata trovava continue giustificazioni nei trionfi produttivi del capitale.E' qui la base dell'egemonia di tale modo di produzione. Non a caso, la pagina di Marx sull'accumulazione originaria è stata trattata dagli storici come la “rivoluzione agricola inglese”, perché mentre i contadini venivano trasformati in salariati, la produzione agricola conosceva incrementi senza precedenti. Quegli storici, infatti, hanno esaltato i processi di liquidazione delle strutture feudali e hanno guardato come a un progresso generale l'avanzare del capitalismo nelle campagne. Perfino un grande storico come Marc Bloch deplorava lo «scandalo del compascuo», vale dire la disponibilità dei contadini di portare le proprie pecore nel fondo del barone dopo i raccolti. La piena disponibilità della terra da parte del proprietario veniva infatti considerata come condizione per un suo più efficiente uso e i vecchi rapporti comunitari visti come un impaccio al pieno sviluppo delle forze produttive.Ma questo atteggiamento apologetico nei confronti dei vincitori – che sorregge tutta la storiografia contemporanea – è figlia anche dell'ambivalenza di Marx, che deplora l'espropriazione dei contadini, ma ammira la borghesia rivoluzionaria impegnata a distruggere il vecchio mondo.E' questo un nodo che ci rapporta all'oggi, su cui occorre investire in analisi e ricerca.

Continuamente si parla di un aumento o di un rallentamento della crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) e tali variazioni si esprimono ... >>>
Continuamente si parla di un aumento o di un rallentamento della crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) e tali variazioni si esprimono in “tanto percento”, più o meno. Ma che cosa è “cento” ? La grandezza di riferimento è un numero che in Italia ammonta a circa 1500 miliardi di euro e che viene calcolato dall’Istituto Nazionale di Statistica con una procedura che risale addirittura agli anni trenta del Novecento quando un giovane emigrato dall’Unione Sovietica, Wassily Leontief (1906-1999), poi premio Nobel 1973, perfezionò negli Stati Uniti quello che aveva fatto per l’Ufficio statistico del suo paese. L’idea era calcolare la ricchezza di un paese misurando, in dollari o altra moneta, il flusso di denaro che scorre da un settore all’altro dell’economia. Si trattava di mettere in una “tabella” il valore dei beni che l’agricoltura vende all’industria e ai consumi familiari; che l’industria vende all’agricoltura e ai consumi finali delle famiglie; queste infine possono pagare i beni forniti dall’agricoltura e dall’industria col ricavato dalla “vendita” del lavoro dei suoi membri.

Ci sono altri settori come quello delle banche, quello dei governi, che comprano beni e servizi sia dall’agricoltura e dall’industria sia dalle famiglie, pagandoli col ricavato dalle tasse, quelli delle importazioni ed esportazioni, ma nel complesso, nel corso di un anno, le entrate e le uscite da ciascun settore economico sono “quasi” pari. Negli anni quaranta del Novecento, infine, l’economista anglo-australiano Colin Clark (1905-1989) suggerì di introdurre il concetto di PIL definito come il valore monetario dei beni assorbiti dai ”consumi finali” delle famiglie. Ci sono voluti anni per trovare dei metodi di calcolo omogenei fra i vari paesi; uno degli inconvenienti di questa procedura è che molti scambi di denaro sfuggono ai controlli; in particolare l’evasione fiscale e le attività criminali o vietate come il commercio della droga, la prostituzione, il gioco clandestino, eccetera. Gli uffici statistici internazionali si sono arrovellati sul modo di tenere conto di queste grandezze che possono arrivare ad alcune o molte unità percento del PIL misurato; per l’Italia alcune centinaia di miliardi di euro all’anno, adesso in parte compresi nel PIL

Nel 1970 ancora Leontief scrisse un articolo mettendo in evidenza che nel calcolo del PIL non figurano i costi dovuti al degrado ambientale: un automobilista paga la benzina che azione il suo veicolo, ma nessuno risarcisce i danni di chi respira i velenosi gas di scarico. Quanto costa ai cittadini il danno alla salute e ai beni materiali provocati dall’inquinamento dell’atmosfera o delle acque, la perdita di ricchezza dovuta alle frane e alluvioni ? Per fare figurare queste grandezze nel calcolo del PIL Leontief propose di aggiungere alla tabella degli scambi monetari, un settore relativo ai “costi ambientali”, un problema di cui gli uffici statistici europei cercano da anni di tenere conto attraverso la contabilità di una qualche forma di ”economia circolare” che tenga conto anche dei benefici e dei danni associati all’uso delle risorse naturali. Ben presto ci si è resi conto che non si può calcolare il costo dell’inquinamento dovuto, per esempio, alle industrie o ai trasporti, se non si hanno informazioni esatte su quello che esce da ciascuno di questi settori, espresso non in soldi, ma in chili o tonnellate di agenti chimici.

La chimica spiega che, per il principio di conservazione della massa, in ogni processo la massa della materia che partecipa ad una reazione deve essere “rigorosamente” uguale a quella delle materie finali della reazione, prodotti vendibili e rifiuti inquinanti insieme. Alcuni studiosi, in Germania, ma anche nell’Università di Bari, hanno proposto di elaborare una “tabella” in cui figurano gli scambi, espressi in tonnellate, fra i vari settori economici, includendo anche i beni tratti dalla natura senza pagare niente, e la massa, pure in tonnellate, degli agenti inquinanti che fuoriescono dai vari settori produttivi (industria, agricoltura, trasporti, vita domestica) e che finiscono nell’ambiente danneggiando le persone. In questa “economia circolare” la somma delle tonnellate delle materie entrate in ciascun settore economico deve essere uguale a quella delle materie in uscita.

E’ stato così proposto di elaborare un “Prodotto Interno Materiale Lordo” (PIML) che, per analogia col PIL monetario, si calcola come il peso di tutti i materiali assorbiti in un anno dal settore dei “consumi finali” e entrati nell’economia come beni a vita lunga (autoveicoli, edifici, mobili, eccetera). Nel caso dell’Italia il PIML dal 2000 in avanti è variato poco, intorno a circa 800 milioni di tonnellate all’anno (500 di questi come gas inquinanti immessi nell’atmosfera), acqua esclusa; è come se la vita, gli spostamenti, i consumi di ogni persona, in un anno richiedessero la movimentazione di circa 14 tonnellate di materiali, duecento volte il suo peso. Grazie a questi calcoli è possibile identificare da dove provengono i rifiuti generati da ciascuna attività di produzione e di consumo, la loro composizione chimica e il loro destino, in parte nelle operazioni di riciclo, in parte nei vari corpi riceventi ambientali. Se i conti sono fatti bene, si possono identificare tutte le fonti di inquinamento e scoprire frodi ed evasioni; le leggi della chimica e della fisica non ammettono imbrogli.

Questo articolo è inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

In questa calda e bizzarra estate fa piacere leggere che il sindaco di Bari ha deciso di stanziare dei fondi per assicurare...>>>

In questa calda e bizzarra estate fa piacere leggere che il sindaco di Bari ha deciso di stanziare dei fondi per assicurare un piccolo reddito mensile a disoccupati che si impegnino in lavori in cooperative; l’hanno chiamato “reddito di cantiere” ed ha un precedente illustre, ottanta anni fa.

Siamo nel 1933, in piena crisi economica mondiale; negli Stati Uniti ci sono milioni di disoccupati, vaste terre rese sterili dall’erosione e dalle alluvioni; il 14 marzo di quell’anno, dieci giorni dopo essere stato eletto, il presidente Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) predispose un progetto per impiegare un esercito di giovani disoccupati in lavori di difesa ambientale, in cambio di alloggio e di un piccolo compenso. Il 31 marzo 1933 il parlamento americano approvò l'istituzione dei Civilian Conservation Corps (CCC) e, nell'estate del 1933, 300.000 giovani americani disoccupati, dai 18 ai 25 anni, figli di famiglie assistite, erano nei boschi impegnati in opere di difesa del suolo, che da molti anni erano state trascurate. Piantarono alberi, scavarono canali per l'irrigazione, costruirono torri antincendio, combatterono le malattie dei pini e degli olmi, ripulirono spiagge e greti dei fiumi. Più di due milioni e mezzo di giovani americani prestarono servizio nei CCC; nel 1935 fu raggiunto il massimo numero di 500.000 presenze. Durante il periodo di funzionamento dei CCC furono piantati 200 milioni di alberi e furono gettate le basi di quello che sarebbe diventato il servizio di difesa del suolo del Dipartimento dell’Agricoltura.

Una simile iniziativa si ebbe in Italia a partire dagli anni cinquanta del Novecento con i cantieri di rimboschimento organizzati dalla Cassa per il Mezzogiorno e con la legge del 1952, voluta dal Ministro dell’agricoltura Amintore Fanfani (1908-1999) che era un colto professore di storia dell’economia. Soprattutto nel centro sud vennero piantati milioni di alberi che contribuirono a rallentare il dissesto idrogeologico. Mi auguro che anche i “cantieri” dei disoccupati pugliesi siano dedicati ad alleviare i molti problemi di Bari e della Regione, dalla regolazione del flusso delle acque alla sistemazione delle coste.

Una seconda buona notizia viene dalla Puglia settentrionale; la Regione ha stanziato fondi per assicurare alloggi agli immigrati che svolgono lavori saltuari nei campi e che finora sono stati soggetti al caporalato e allo sfruttamento in alloggi vergognosi. Anche in questo caso c’è un precedente, ancora nell’”Età di Roosevelt” quando milioni di piccoli agricoltori sono stati costretti ad abbandonare le terre che avevano in affitto, rese sterili per il vento e le piogge, per migrare verso un qualche lavoro nei campi della fertile California. La storia di una di queste famiglie, ispirata ad eventi reali, è raccontata nel libro “Furore” di Steinbeck e nel film omonimo del registra John Ford. La famiglia dei Toad, giovani e anziani, decide di caricare le povere masserizie su una traballante automobile per andare a ovest dove dicono che in California, terra di ricchi raccolti, è possibile trovare occupazione in agricoltura.

Dopo un lungo terribile viaggio la California, terra promessa, si rivela però subito ostile; ci sono troppi immigrati, non c’è lavoro per tutti e le paghe sono basse al punto che è i Joad arrivano mentre è in corso uno sciopero; i padroni, attraverso ”caporali” organizzati dalla criminalità, sono disposti ad assumere i nuovi arrivati come crumiri che subito si scontrano con gli altri poveri in sciopero, poveri contro poveri. Uno spiraglio è offerto da un campo di accoglienza statale della “Resettlement Administration”, l’agenzia creata, anche questa, dal presidente Roosevelt e affidata a Rexford Tugwell (1891-1979), un professore di economia, studioso di agricoltura, ma soprattutto una eccezionale figura di difensore dei diritti civili e degli emigranti. Nel campo dell’agenzia gli immigrati con poca spesa trovano casette decenti, docce e acqua corrente, spazi per i bambini; l’agenzia statale ha cura anche di procurare lavoro a paghe dignitose, organizza opere di difesa del suolo e rimboschimento, assegna piccoli appezzamenti di terreno e organizza cooperative. Nel film i padroni degli operai in sciopero usano la criminalità locale, con la complicità della polizia, per cercare, senza successo, di smantellare il campo di accoglienza che sottrae al loro sfruttamento la mano d’opera.

Una simile iniziativa si ebbe in Italia, dopo la Liberazione, negli anni cinquanta. Il “Comitato Amministrativo di Soccorso Ai Senzatetto”, l’UNRRA-CASAS, col sostegno del “Movimento di Comunità” di Adriano Olivetti (1901-1960), assicurò una vera abitazione, non un rifugio, ai contadini meridionali immigrati nelle terre della riforma fondiaria. Apparve anche allora che un intervento pubblico di costruzione di alloggi e di assistenza civile può alleviare il disagio dei poveri togliendoli dalle grinfie della speculazione, della illegalità e della criminalità.

Che proprio dalla Puglia stia partendo un “New Deal” come quello rooseveltiano con iniziative saldamente ancorate alla soluzione di concreti problemi, insieme, di occupazione e umani e ambientali ? Molti governanti, per accattare voti promettono di diminuire le tasse; io sono contento di pagare le tasse se in parte servono a rendere un po’ più decente la vita di coloro che si sfiancano nei campi, sotto il sole, per pochi soldi, per assicurare frutta e verdura fresche sulla nostra tavola.

Vedi anche l'articolo di Eddyburg che integra i ricordi evocati da Giorgio Nebbia con quello di un grande pugliese, Giuseppe Di Vittorio.

Speculatore: gli affari vanno male, la politica deve fare la sua parte. Ministro: non ti preoccupare...>>>

Speculatore: gli affari vanno male, la politica deve fare la sua parte.

Ministro: non ti preoccupare: riusciremo a fare quello che non ha fatto il nostro amico di Arcore, troppa opposizione, troppe incertezze ... qui tira un'aria nuova

S. E come?

M. Rifacciamo la legge urbanistica nazionale. Anzi: rilanciamo una mia vecchia proposta che fu affondata da qualche vecchio barbagianni nostalgico di Bottai.

S. Quale è l'idea?

M. Molto semplice: rendere tutto il territorio edificabile ... beh non esageriamo. Ad esempio non le Alpi al di sopra dei 3000 metri, salvo gli impianti sciistici e gli alberghi e qualche eccezione. I Comuni stabiliranno gli ambiti e le densità edilizie, cioè tutto il territorio dove fisicamente è possibile costruire. Diritti edificatori per tutti, questa è vera democrazia!

S. Ma non si può costruire dappertutto, io ho per esempio un bel parco attorno alla villa.

M. Non ti preoccupare. I diritti edificatori del tuo parco li potrai vendere o trasferire altrove.

S. Avrei anche una grande area industriale dismessa e inquinata

M. La mia legge prevede la riqualificazione. Oltre a quanto stabilito dal Comune puoi aggiungere come premio altri volumi.

S. E l'inquinamento? Le bonifiche costano.

M. Ci potrebbe pensare il Ministro dell'ambiente. Basta innalzare i limiti di tolleranza e il gioco è fatto!

S. E le case nei centri storici? Molte converrebbe ricostruirle.

M. Non nominare questa parola "centro storico", è di sinistra. Si tratta di "rinnovo urbano": potrai cacciare i tuoi inquilini o espropriare i proprietari se hai la maggioranza delle quote e compensarli con i diritti edificatori del tuo giardino.

S. Ma se il piano regolatore non lo prevede?

M. Presenti un progetto in deroga e il Comune lo accetta: è tutto previsto! Tieni conto che ho stabilito che le controversie urbanistiche sono solo di competenza del giudice amministrativo. Basta con l'abuso di ufficio considerato come reato penale!

S. Ma gli standard urbanistici?

M. Aboliti. Puoi dare una quota di diritti per attività di interesse pubblico! Chiese, non ci va nessuno; scuole, sono anche troppe! Verde, pure. Potresti cedere un po' di terreno su cui costruire un pezzo di centro commerciale, naturalmente in un'area agricola..

S. Ma se c'è un vincolo che lo impedisce.

M. Pensato anche a questo. Ho ideato un nuovo strumento: la Direttiva Quadro Territoriale cui i piani paesaggistici regionali e via via discendendo si dovranno adeguare.

S. Ma è incostituzionale!

M. Basta cambiare la Costituzione. La Repubblica tutela lo "ius aedificandi" invece che "il paesaggio". Ci stiamo dando da fare.

S. E per il futuro? Quando saranno esauriti i diritti edificatori?

M. Non ti preoccupare. I diritti si rinnoveranno ogni dieci anni. Non è giusto che le future generazioni non godano delle nostre stesse opportunità. Siamo per uno sviluppo sostenibile.

© 2025 Eddyburg