loader
menu
© 2025 Eddyburg

Per i molti cittadini che avevano votato Pisapia, attendendosi anche una svolta radicale rispetto al modello neoliberista e mercatistico...>>>


Per i molti cittadini che avevano votato Pisapia, attendendosi anche una svolta radicale rispetto al modello neoliberista e mercatistico dell’urbanistica milanese inventato da Maurizio Lupi quando era assessore allo Sviluppo del Territorio, quelli del suo governo sono stati anni deludenti. Il capitale di speranza e di fiducia costruito attraverso una campagna elettorale lungimirante e partecipata è stato in parte sperperato, se non dal Sindaco dalla sua Giunta. Certamente delusione c’è stata per quanto riguarda le promesse riformatrici non mantenute in materia di pianificazione e di messa sotto controllo della rendita immobiliare/finanziaria.

La prima disillusione è arrivata con la mancata discontinuità con il Piano urbanistico approvato dall’amministrazione di Letizia Moratti. Si è preferito approvare e adottare in tutta fretta un Piano di Governo del Territorio, e soprattutto un Piano delle Regole, del tutto simile a quello firmato Moratti/Masseroli, preferendo un processo decisionale per molti aspetti opaco e non partecipato, e una sostanziale conferma dello status quo nelle scelte di fondo. Ma anche la capacità di regia e negoziazione nelle decisioni in merito ai contenuti funzionali dei ‘grandi progetti urbani’ è stata debole: la finanza immobiliare ha continuato a dettar legge.

La seconda delusione l’ha suscitata la sostanziale inerzia, l’adattività del governo milanese rispetto alla sedicente macchina da guerra predisposta in ambito regionale per la realizzazione dell’effimera EXPO 2015. Totalmente abbandonato nella mani del governo lombardo e dei suoi affaristi, il progetto ha, come ben noto, dato luogo all’ennesimo intreccio di interessi illeciti e di atti corruttivi arginati soltanto dall’intervento della magistratura. E questi eventi hanno sicuramente gettato un’ombra, sia pure di riflesso, anche sull’immagine di Milano e del governo municipale.

E ancora, deludente e inspiegabile è stato il protratto silenzio dell’amministrazione milanese nella fase di dibattito relativa alla istituzione della Città Metropolitana: debole l’ascolto e l’interazione con i comuni della cintura; poche le idee su come rafforzare lo Statuto Metropolitano all’interno di una legge (la Delrio) banale e senza coraggio; e, soprattutto, nessuna iniziativa volta a sollecitare e scuotere il governo regionale da una apatia e un interesse manifestamente antimetropolitano.

Altra promessa mancata, su un tema specifico ma non meno rilevante: la realizzazione della Grande Moschea, ai primi posti nel programma elettorale del Sindaco in quanto doveroso esercizio di repubblicana non discriminazione religiosa in una città sempre più multietnica. La decisione, dilazionata fuori tempo massimo politicamente accettabile, è oggi ulteriormente indebolita e procrastinata da una legge lombarda che irride alla Costituzione.

A completare questo bilancio pieno di ombre (oltre che di alcune luci, ad esempio in materia di contenimento del traffico e di politiche sociali) è arrivato, proprio nella fase di avvio del nuovo ente di governo metropolitano, quando occorrerà grande capacità di visione strategica oltre che lungimirante innovazione amministrativa, il gran rifiuto a ricandidarsi.

Pisapia rinuncia di fatto alla opportunità di promuovere, finalmente, strategie e politiche più determinate e coerenti con il suo programma elettorale quando, con un secondo mandato che avrebbe consentito maggiori spazi di autonomia e di iniziativa, sarebbe stato più agevole farlo. Un secondo mandato che, con tutta probabilità, i cittadini gli avrebbero confermato, soprattutto per la fiducia nella persona più che nei risultati ottenuti fin qui.

I cittadini di Milano e della sua area metropolitana possono da oggi attendersi un anno di navigazione a vista con un Sindaco che si è auto-delegittimato e indebolito, mentre si addensano sulla metropoli i rischi di un flop di EXPO, malgrado i “camouflages” dell’ultima ora.

Ma anche se andasse tutto liscio, rimane la totale incertezza sul dopo EXPO. Le esperienze internazionali relative ai cosiddetti ‘grandi eventi’ ci insegnano che le (poche) storie di successo sono state quelle in cui era ben chiaro sin dall’inizio il progetto relativo al ‘che fare’ a festa terminata; in cui le aree sono state acquisite al pubblico pagandone un giusto prezzo (a valore agricolo, se tale era la loro destinazione precedente). Alcuni di noi avevano segnalato, ancor prima che la candidatura di Milano vincesse su quella di Smirne, che questi erano i problemi e le sfide cruciali. Le cose sono andate in altra direzione e a tutt’oggi rimane aleatorio il contenuto funzionale del progetto per il riuso del sito dell’evento: perché le aree di Cabassi e Fondazione Fiera sono state strapagate da Arexpo, grazie alla edificabilità comunque concessa a favore della proprietà dalla allora sindaca Moratti e perché i costi sono enormemente lievitati. In questa situazione di incertezza, nella quale gli enti pubblici vogliono a tutti i costi rientrare dallo scriteriato investimento e il rischio è l’ennesima cementificazione senza qualità (peraltro in una situazione di stallo del mercato edilizio), la voce di Pisapia avrebbe forse finalmente potuto esprimersi con maggiore coerenza e forza.

Chi sarà il nuovo Sindaco?

Forse (ma il ‘forse’ nel nostro paese è sempre una cautela realistica), una candidatura temibile del centrodestra - quella di Maurizio Lupi, del quale abbiamo sempre criticato l’ascesa sin dalla sua iniziale esperienza milanese - non sarà più sostenibile, dopo la gestione disinvolta del Ministero delle Infrastrutture. Ma, purtroppo, all’orizzonte si profilano molti lupacchiotti pronti a conquistare Milano e a distruggere ciò che di buono è stato realizzato dalla giunta arancione. C’è solo da sperare che la risposta della sinistra sia all’altezza.

Bye bye Pisapia, con grande disillusione e probabile futuro rimpianto da parte dei cittadini onesti.

Il gruppo dirigente della CGIL che critica e dissente da Maurizio Landini per la costituzione di una Coalizione sociale - ancorché lo faccia per comprensibili ragioni...>>>

Il gruppo dirigente della CGIL che critica e dissente da Maurizio Landini per la costituzione di una Coalizione sociale - ancorché lo faccia per comprensibili ragioni - dovrebbe, per dirla col vecchio linguaggio del catechismo, farsi un esame di coscienza. Viene infatti spontaneo chiedersi, di fronte agli sforzi del segretario della FIOM di porre argini a una situazione di estrema gravità di tutto il mondo del lavoro, quali iniziative abbia preso, quali proposte di mobilitazione e di lotta abbia avanzato negli ultimi sette terribili anni la CGIL nazionale. Perché, bisogna ricordarlo, il periodo che va dal 2008 ad oggi, non è stato di ordinaria storia del mondo.

L'Italia, se escludiamo le due guerre mondiali, non aveva mai conosciuto, nella sua storia unitaria, una così estesa riduzione della sua base produttiva, un crollo così rovinoso dell'occupazione, un dilagare continuo e senza argini della povertà e della disperazione sociale. Eppure, un osservatore straniero che fosse vissuto in Italia in questi anni difficilmente avrebbe immaginato che nel nostro paese opera uno dei più antichi e potenti sindacati dell'Occidente. Ma, senza voler qui aprire un infinito rosario di recriminazioni, occorrerebbe almeno ricordare che l'inerzia e il silenzio del sindacato hanno non poco favorito l'iniziativa dei novatori.
Chi ha dato a Renzi l'opportunità di presentarsi come il difensore dei giovani e dei precari, con l'iniziativa del Jobs Act? Chi ha permesso che l'iniziativa di riforma del mercato del lavoro venisse ispirata dalla Confindustria? Eppure dovrebbe essere evidente che oggi l'avversario di classe -ripristiniamo questo termine di verità nel linguaggio della politica- ha capito il gioco che il sindacato (e la sinistra) stenta a capire. Alla bulimia consumistica dei cittadini del nostro tempo occorre dare in pasto sempre prodotti nuovi. Basta che siano nuovi all'apparenza. Se poi il nuovo che si impone demolisce antichi diritti, cosa importa, visto che questo è il suo autentico fine? L'importante è “andare verso il futuro”. Lo Statuto dei lavoratori? Ma è roba del 1970, un edificio obsoleto. Figuriamoci la Costituzione, che è del lontanissimo 1948! Volete mettere il Jobs Act, un prodotto nuovissimo per giunta in smagliante lingua inglese, la lingua corrente dei nostri operai e impiegati?

La menzogna pubblicitaria che oggi ispira la politica rivela, fra le altre cose, come il conflitto insonne che i poteri economici e finanziari muovono contro i lavoratori persegue sempre più l'innovazione simbolica e cerca di raggiungere pubblici vasti. Perciò restare fermi, silenziosi, dentro i luoghi di lavoro o i propri uffici, come ha fatto la CGIL in tutti questi anni, in difesa dell'esistente, dei vecchi e consolidati diritti, ha portato e porterà a continue sconfitte. Il pachiderma assediato da una muta di cani difficilmente si salverà, se non prova a cambiare la sua disperata situazione assestando qualche calcio che apra una breccia tra gli assedianti. Certo, la condizione della CGIL e di tutti i sindacati del mondo oggi è terribilmente difficile. Si è eclissata nei parlamenti la forza politica amica, i partiti comunisti o socialdemocratici. Gli imprenditori e i finanzieri possono investire, aprire aziende, spostare capitali in ogni angolo del pianeta. I lavoratori e i sindacati sono inchiodati nel territorio delle nazioni. Ma che cosa è stato tentato per incominciare a fronteggiare una asimmetria così grave e penalizzante?

Ho spesso ricordato che l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) è stata fondata nel 1919 ed è ancora in vita, ma come un modesto ufficio studi. Eppure era nata come un generoso progetto universale della politica occidentale dopo la Grande Guerra, in difesa della classe che produceva la ricchezza di tutti i paesi. Oggi guida invece le sorti del mondo il Fondo Monetario Internazionale, nato nel 1945. Eppure nessuno osserva che dietro ad esso c'è solo l'interesse di alcune migliaia di banchieri, dietro l'ILO ci sono diversi miliardi di lavoratori sparsi per il mondo. Quando faremo esplodere la potenza di tale contraddizione? Non è possibile cominciare a tessere una rete internazionale che rivitalizzi tale organismo, o ne crei un altro nuovo o ne cambi il nome, con il fine di una reale rappresentanza degli operai di tutto il mondo?Quando incominceremo a porre in agenda l'obiettivo del salario minimo per tutti gli operai, di standard di base irrinunciabili delle condizioni e dell'orario di lavoro? Vaste programme, direbbe qualcuno, dal momento che da quando esiste l'Unione Europea non si era mai vista tanta inerzia sindacale e mancanza di azione comune nel Vecchio Continente.
Certo, per tali tentativi i dirigenti della CGIL dovrebbero disporre di energie intellettuali difficili da trovare nelle buie stanze dei loro uffici. Ma non esistono in Italia le figure capaci di un tale compito? Non è possibile che i dirigenti della CGIL si guardino intorno a vedano tanti nostri giovani, le migliori e più colte intelligenze del nostro paese, che scappano all'estero ? E perché non scegliere tra questi i tanti talenti che potrebbero portare energia, idee, motivazioni, conoscenza di lingue e realtà sociali in grado di ridare giovinezza, saperi, visione internazionale al sindacato italiano? Li dobbiamo lasciare alle imprese? Quale salto di qualità potrebbe compiere la creatività della CGIL se una nuova leva di giovani trentenni, oggi precari in Italia e nel mondo, venisse fatta entrare con specifici compiti dirigenziali?
Avanzo tale proposta non solo perché la sinistra tutta intera si dovrebbe porre il problema dei nostri giovani intellettuali. Ma anche perché il sindacato oggi potrebbe far tesoro di una sua antica istituzione, in grado di ridare una nuova vitalità all'organizzazione dei lavoratori. Nata nel 1891 a Milano, la Camera del Lavoro è stata una geniale invenzione del sindacalismo ottocentesco. Essa metteva insieme le diverse categorie operaie in unico centro territoriale, mentre lo sviluppo capitalistico si diversificava e articolava le sue geografie. E oggi? Non sappiamo da tempo che il lavoro, precario, alterno, reso autonomo, frantumato, delocalizzato, subappaltato, ecc. sempre meno ritrova unità in un luogo determinato? E allora, che cosa si aspetta a ridare nuova vitalità a tali centri, dove possano confluire non solo i lavoratori e i pensionati per pratiche di patronato, ma anche i disoccupati, le massaie, i giovani, gli studenti ?
E' una istituzione a base territoriale quella che oggi può fornire uno spazio di unità a un universo sociale in frantumi. Le Camere del Lavoro dovrebbero dunque essere accresciute nelle grandi città, ma anche fatti nascere in ogni comune, potenziate dove già esistono. Si pensi alla funzione aggregativa che potrebbero svolgere nel Mezzogiorno devastato dei nostri giorni, dove i i giovani disoccupati sono murati in casa, soli con la loro disperazione. Naturalmente, una soluzione organizzativa non è una politica, ma già darebbe un segnale di movimento. Ma i temi politici non mancano. Landini ha confessato con onestà di essere stato in passato contrario alla concessione del reddito minimo.
Si tratta di perplessità comprensibili, diffuse nella sinistra. Incertezze che nascono dal fatto che essa ha abbandonato da tempo il terreno sociale e teorico da cui è nata: l'analisi del mondo del lavoro come parte costitutiva del capitalismo contemporaneo. Marx ha disvelato l'origine della ricchezza e della sua diseguale distribuzione, mostrato l'architettura dell'intera società, partendo dal lavoro. Una analisi non superficiale del capitale, ci dice che oggi esso ha sempre meno bisogno di lavoro vivo, per via dei processi accelerati di automazione e per il vantaggio di poter trasformare direttamente il danaro in altro danaro. Ma uno sguardo sommario ai nostri ultimi anni ci dice anche che il capitale ha un interesse politico a far scarseggiare il lavoro, a renderlo raro e incerto, perché così può tenerlo sotto ricatto, rafforzare il suo rapporto di dominio. Il lavoro è elemento vitale del capitale, ma anche suo avversario. Le imprese lo sanno bene, la sinistra l'ha dimenticato, pensando che il capitale si riduca alle piccole imprese familiari del Nordest. Il reddito minimo può sottrarre i lavoratori e la nostra gioventù al grande ricatto. La Coalizione sociale può trovare in tale obiettivo una via per costruire un consenso vasto e vittorioso.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente al manifesto

«Se il Mose funziona lo venderemo ai cinesi». Non è una battuta di Crozza. Lo ha detto Luigi Brugnaro, già presidente della Confindustria di Venezia...>>>

«Se il Mose funziona lo venderemo ai cinesi». Non è una battuta di Crozza. Lo ha detto Luigi Brugnaro, già presidente della Confindustria di Venezia e fortunato proprietario di Poveglia, l’isola della laguna che si è aggiudicato nel 2014 per 513 mila euro, annunciando la sua candidatura a sindaco per il centrodestra. Non ha spiegato cosa intende fare se il Mose non funziona - forse dà per scontato che se lo terranno in carico i cittadini contribuenti - ma, a riprova del suo impegno per la rinascita della città, ha aggiunto che vuole una fermata della TAV a Mestre e che «non cederemo» le grandi navi a Trieste. Infine, con perfetto piglio renziano, ha concluso l’elegante comizio rammentando al pubblico che «è ora di mostrare gli attributi».

Brugnaro è uno degli imprenditori/mecenati di riferimento dell’ex sindaco Cacciari, durante la cui amministrazione ha fatto molti “regali” alla città. Nel 2005 ha acquistato dal demanio i Pili, 40 ettari a Marghera, in posizione strategica di fianco al ponte della Libertà, per 5 milioni di euro. In quell’occasione, il comune ha rinunciato al diritto di prelazione sull’area, che il piano regolatore destinava a verde pubblico urbano, parcheggi e attrezzature ad uso collettivo, sostenendo di non avere le risorse per bonificare i terreni. In realtà, neanche Brugnaro intendeva usare soldi suoi, e nelle molte tavole rotonde sulla cosiddetta Green Economy, organizzate dalla Fondazione Pellicani (presieduta dal candidato alle primarie del PD sponsorizzato dallo stesso Brugnaro e da Cacciari) ha sollecitato l’intervento del comune, della regione e del governo per «rivedere il protocollo per le bonifiche» e ridurre gli oneri per i privati.

L’area non è stata ancora bonificata e dati certi sul suo inquinamento non sono disponibili. Secondo le inchieste svolte da Felice Casson, quando era magistrato a Venezia, nel sito dei Pili erano sono stati scaricati «300.000 metri cubi di gessi e fanghi industriali speciali e tossico nocivi».

A chi gli ha chiesto come intenda affrontare il suo palese conflitto d’interessi, Brugnaro ha spiegato che, se eletto sindaco, «non farà niente sulle sue aree»! E ha aggiunto di non avere conflitti d’interesse nemmeno a Venezia insulare dove, nel 2009, il comune ha concesso la gestione per 42 anni e due mesi, in cambio del restauro (esclusi i preliminari interventi di risanamento conservativo già effettuati dal comune), la Scuola Grande della Misericordia ad una società di cui il candidato sindaco possiede l’80% delle quote.

Con procedura “inusuale”, il comune ha inserito nella convenzione del 2009 il proprio impegno a sottoscrivere la fidejussione per l’accensione del mutuo necessario a finanziare i lavori. Per cinque anni, però, la società non ha neppure avviato i lavori, preferendo affittare per eventi il prestigioso complesso del Sansovino. Si tratta di un edificio alto 24 metri, il più alto nel sestiere di Cannaregio, con due grandi sale di 1000 metri quadrati, una dimensione inferiore solo a quella della Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale, molto appetibili per le cerimonie dei ricchi. Così, oltre ad ospitare alcuni eventi collaterali della Biennale, ha fatto da cornice al matrimonio di Zoppas, presidente della Confindustria del Veneto, a quello della figlia di un magnate indiano del ferro, alle feste della famiglia Asscher (import/export di diamanti). In queste occasioni, che hanno spesso comportato l’occupazione abusiva dei circostanti spazi pubblici, il comune ha concesso deroghe ai limiti dei rumori e degli orari. Non ha, invece, reclamato il pagamento da parte della società privata di penali e sanzioni per il ritardo nei lavori .

Nel 2013, durante l’amministrazione del sindaco Orsoni, alcuni consiglieri del M5S hanno inutilmente cercato di eliminare la fidejussione di 1 milione di euro dagli obblighi del comune e di ridiscutere l’intera convenzione contestando la natura “culturale” dell’utilizzo effettivo da parte di Brugnaro e soci (uno dei criteri per l’assegnazione della concessione era stata la qualità del progetto culturale, che valeva il 25% del punteggio complessivo) ma l’assessore Maggioni e il vicesindaco Sandro Simionato hanno fatto approvare il documento perché «arriva dalla passata amministrazione e il comune deve onorare gli impegni».

Nel 2014 sono finalmente iniziati i lavori. Ora si parla di un “moderno centro polifunzionale a servizio della città”, di uno “spazio pubblico a forte vocazione culturale, dove si alterneranno attività museali, mostre temporanee, sfilate di moda, degustazioni enogastronomiche, eventi fieristici o sportivi”, di “un contenitore flessibile dove esporre le eccellenze venete, dalle scarpe di Vicenza al vetro di Murano, per incrociare l’Expo”.

In città si dice che a suo tempo Brugnaro ha votato Cacciari ed ora Cacciari voterà per lui, riuscendo ancora una volta a far fuori Casson. Purtroppo non si tratta solo di odio personale, la posta in gioco è il mantenimento del sistema di potere messo in piedi venticinque anni fa con la prima elezione di Cacciari di cui ogni giorno emergono i costi e i danni per i cittadini. Stupisce, si fa per dire, che il commissario che lotta contro il deficit di bilancio non chieda un contributo di solidarietà anche ai mecenati e ai loro protettori. Preferisce tagliare servizi, aumentare tasse e svendere il patrimonio pubblico. Prima di andarsene, potrebbe almeno provare a vendere il Calatrava ai cinesi, ammesso che siano disposti a farsi imbrogliare.

Il 13 marzo scorso Papa Francesco ha annunciato l’indizione di un Giubileo straordinario per il 2015-2016, un anno “santo” per ricordare al popolo di Dio...>>>

Il 13 marzo scorso Papa Francesco ha annunciato l’indizione di un Giubileo straordinario per il 2015-2016, un anno “santo” per ricordare al popolo di Dio l’importanza della misericordia. Un giubileo, come è noto, è ispirato a principi che il cristianesimo ha ereditato dall’Antico Testamento. Secondo la narrazione biblica Mosè, al ritorno dall’esilio dell’Egitto, intorno al 1200 avanti Cristo, fu ispirato da Dio a stabilire delle leggi per il popolo ebraico che stava tornando in Palestina; tali leggi sono poi state rielaborate nei tre o quattro secoli successivi e sono contenute nel libro del Levitico. In particolare il capitolo 25 dispone che, nella settimana, un giorno ogni sette debba essere dedicato al riposo, al “non fare”: è il sabato degli Ebrei, la domenica dei cristiani, il venerdì dei musulmani. Un anno ogni 50 doveva poi essere celebrato come anno di totale riposo.
Nell’anno del giubileo, che cominciava con un solenne suono del corno, in ebraico jobel (da cui giubileo), la terra non doveva essere coltivata, doveva essere lasciata “riposare” anche lei; una norma che aveva precisi motivi ecologici perché la terra coltivata a lungo in maniera intensiva diventa meno fertile e recupera le sostanze nutritive perdute interrompendo per qualche tempo la coltivazione. Nell’anno del giubileo chi si era appropriato della terra altrui doveva restituirla perché, come Dio ricorda nel versetto 23, “la terra è mia” e noi siamo ospiti di un bene non nostro. Inoltre dovevano essere liberati gli schiavi, quelli che per povertà erano stati costretti a vendere se stessi e la propria famiglia, e i poveri potevano riscattare le case che avevano dovuto vendere.
Ha senso ricordare queste norme così antiche ai cristiani del ventunesimo secolo ? Una lettura teologica e insieme ecologica del Giubileo è contenuta in una “lettera pastorale”, intitolata La Terra è di Dio, pubblicata alla vigilia del giubileo del 1975, da Giovanni Franzoni, abate della basilica di San Paolo fuori le Mura di Roma e poi ripresa dallo stesso Franzoni nel libro Lasciate riposare la terra alla vigilia del successivo Giubileo del 2000. Ha senso eccome: guardate a che cosa è ridotta “la Terra di Dio”; nel nome di quello che Papa Francesco chiama “il dio denaro” le terre dei contadini e agricoltori poveri vengono espropriate per dedicarle a coltivazioni e allevamenti intensivi, da parte di grandi proprietari terrieri o di multinazionali, con l’effetto di trarre grandi profitti gettando nella miseria e nella fame le popolazioni locali, di impoverire la fertilità dei suoli e di aumentare l’inquinamento delle acque con concimi e pesticidi.
Guardate le terre devastate dall’assalto per la conquista di minerali o di combustibili, invase da montagne di scorie quando le miniere e i giacimenti non producono più e da cimiteri di rifiuti quando le fabbriche vengono abbandonate. Guardate come i terreni sono asfaltati dalla speculazione edilizia per costruire edifici e quartieri per le classi abbienti; guardate i quartieri ridotti a squallidi agglomerati di poveri, privi di servizi, sede di violenza, alle opere che alterano il flusso naturale delle acque e accelerano l’erosione del suolo.
Le ricchezze da restituire agli antichi proprietari, caduti in miseria, sono quelle accumulate attraverso le ingiustizie sociali, economiche e commerciali all'interno dei paesi ricchi e nei rapporti economici fra paesi ricchi e paesi poveri del mondo. Per non parlare poi dell’invito alla liberazione degli schiavi; gli schiavi del XXI secolo sono i lavoratori pagati con salari di fame, quelli privati del lavoro, le persone costrette a migrare in paesi che le respingono, sono le minoranze etniche e gli immigrati sfruttati e emarginati nei paesi che si dicono cristiani, le famiglie prive di una abitazione dignitosa. Questi sono i mali che dovrebbero essere rimossi da quella “misericordia” che il Papa invoca come motivazione dell’imminente anno santo.
Ma le nostre società pensano a tale evento in termini di soldi, a quei miliardi di euro che i milioni di “pellegrini” porteranno a Roma e in Italia, utilissimi per l’economia nazionale e, naturalmente, per le tasche di alcuni. La stessa città di Roma si appresta alla imprevista invasione con strade dissestate, tombini intasati, rifiuti da smaltire, periferie miserabili, un traffico congestionato e scadenti servizi pubblici di trasporto. Eppure l’anno santo potrebbe essere l’occasione per ripensare i rapporti fra gli esseri umani e la terra e le risorse della natura, beni comuni di cui non ci si può appropriare senza arrecare danni al prossimo e alla natura stessa. Davanti ai segni sempre più vistosi di impoverimento e di contaminazione dell’ambiente sarebbe necessario avere il coraggio di "non fare", di rallentare e interrompere il loro sfruttamento, di usarli con equità e nel rispetto delle popolazioni locali.
Il Giubileo potrebbe essere l’occasione per riconoscere le nuove schiavitù, per provvedere all’accoglienza degli stranieri e degli immigrati, per assicurare abitazioni decenti a chi ne è privo, per garantire salari giusti. Se non lo si vuole fare per misericordia, per quella “compassione per i miseri” a cui dovrebbe essere dedicato il prossimo Giubileo, sarà bene farlo per motivi egoistici, per disinnescare la violenza, interna e internazionale, che agita gli schiavi del XXI secolo; la giustizia è infatti l’unica premessa per la pace, come diceva, inascoltato, il profeta Isaia.
L'articolo è stato inviato contestualmente alla Gazzetta del Mezzogiorno

Non sono state certo poche le critiche mosse al ddl sulla scuola approvato dal Consiglio dei ministri il 12 marzo scorso, anche da parte di commentatori...>>>

Non sono state certo poche le critiche mosse al ddl sulla scuola approvato dal Consiglio dei ministri il 12 marzo scorso, anche da parte di commentatori pronti ad accogliere con favore le “riforme” del governo. Merita tuttavia qualche ulteriore considerazione l'innovazione più singolare del progetto governativo: la chiamata diretta dei docenti da parte del preside-manager, cui si attribuisce anche la gestione di premi e incentivi (vere e proprie briciole per pochissimi) da elargire ai professori più meritevoli. Su Repubblica del 14 marzo Francesco Merlo ha tratteggiato una esilarante simulazione di quel che accadrebbe nella scuola italiana se questa norma dovesse essere approvata.

E' fin troppo evidente che tanta discrezionalità nelle mani di un capo, sia pure accompagnato da una “squadra “ di docenti, darebbe luogo ad arbitri, pratiche clientelari, corruzione. Mentre si trasformerebbero gli istituti scolastici in luoghi di tensione e conflitti, con la lacerazione del corpo docente, non senza risvolti e code giudiziarie, come ha paventato qualche commentatore (Il preside dell'Istituto Tecnico Avogadro di Torino in Corriere della sera, 14 marzo). Di sicuro, in pochi anni la scuola perderebbe quel po' di concordia interna che ha fatto operare per decenni insegnanti e studenti come un collettivo di lavoro. Un clima di cooperazione reso possibile dalla impersonalità delle norme, fondate sul merito, che ha selezionato i docenti della scuola italiana sino a oggi: pubblici concorsi, abilitazioni, corsi di aggiornamento, ecc . E' evidente che l'idea del preside che chiama all'insegnamento e distribuisce qualche mancia serve anche a coprire la magagna che tutti conoscono: la condizione di assoluta indigenza in cui sono lasciati da decenni gli insegnanti della scuola italiana. Giocatore delle tre carte, Renzi si fa pubblicità come riformatore e innovatore, ma nasconde quel che è drammaticamente necessario alla scuola italiana per farla risorgere: investire risorse e soprattutto portare a un livello di dignità europea gli stipendi dei professori.

L'idea del preside-capo si presta tuttavia a considerazioni più generali. Non deve sfuggire che anche nel campo della scuola si manifesta l'ossessione di Renzi per il comando. Lo si vede nei suoi rapporti col Parlamento e con i compagni del suo partito, lo si è visto con il Jobs act, che dà all'imprenditore la libertà di licenziare, ora nella riforma elettorale in discussione, che dovrebbe fornire il nome del vincitore alla chiusura delle elezioni. Non è solo un dato caratteriale del presidente del Consiglio. L'evidente incremento di tratti autoritari nelle società di più o meno antica democrazia è il risvolto inevitabile di un assoggettamento crescente del ceto politico alle pressioni dei poteri economico-finanziari. Se i corpi intermedi, le istituzioni, le casematte che hanno regolato i rapporti tra i cittadini e tra questi e il potere, in una società complessa, sono rappresentati come ostacoli al libero mercato, alla fine questa società si può tenere insieme solo tramite centri di comando assoluti. Ma la scuola è un terreno delicato e particolare.

L'enfasi che il ddl mette sulla figura del preside e sull'autonomia scolastica dovrebbe suscitare serie preoccupazioni per altre ragioni. Si va infatti verso la dissoluzione di quella struttura pubblica che regolava la vita scolastica, con meccanismi impersonali di accesso all'insegnamento e si simula, per affermarla poi di fatto, una privatizzazione degli istituti. Non è più lo stato, in rappresentanza di tutti noi, che comanda, ma il preside, a sua discrezione. Il rapporto tra insegnanti e preside non è più una relazione tra colleghi, ma un affare privato tra un capo-azienda e i suoi sottoposti. Tale dissolvimento per il momento simbolico della scuola pubblica nasconde un altro elemento che scardina assetti storici consolidati: la sempre più spinta autonomizzazione dei curricula scolastici. Ogni scuola perseguirà il proprio modello e il proprio programma di studi. Ma la scuola italiana ha avuto, tra gli altri meriti, quello di fornire agli italiani, emergenti da una secolare storia di localismi, di differenziazioni regionali, di diversità linguistiche, un comune fondo culturale, il minimo indispensabile di identità nazionale. Vogliamo che la scuola abbandoni tale compito? Bene, il presidente del Consiglio e le burocrazie ministeriali devono dirci dove vogliono andare, a che scopo si fanno queste “riforme”, qual'è il modello di società che essi intendono perseguire.

Io credo di sapere in realtà dove vogliono andare, non per capacità divinatorie, ma perché da anni i governi intervengono sulla scuola e si possono ben scorgere quali sono le loro intenzionalità riformatrici. Quel che ossessiona infatti i riformatori è l'efficienza della macchina istituzionale, senza nessuna preoccupazione della qualità dei saperi, del livello della formazione che viene fornita ai ragazzi. E questo per una ragione ben precisa. Tutta la visione progettuale del legislatore si esaurisce in un ben misero intento: adeguare la scuola alle esigenze mutevoli del mercato del lavoro. E allora occorre porre il quesito: dobbiamo innovare la scuola in tale direzione, immettere sempre più direttamente anche le istituzioni del sapere e della formazione nel tritacarne del mercato? Questa domanda è utile perché essa mette di fronte a due strade diverse che non sempre sono distinguibili nel dibattito corrente, ma che occorre avere ben chiare se si vuole elaborare un progetto di scuola all'altezza delle sfide che ci si parano innanzi.

Vogliamo una scuola che aiuti la formazione di una società nuova, più giusta e avanzata, che rielabori per il nostro tempo un nuovo assetto di civiltà, o cerchiamo di farla funzionare al meglio per rispondere ai bisogni presenti e immediati della società così com'è, con le sue gerarchie e squilibri? Nel primo caso è evidente che non basta più, alla scuola italiana, l'affermazione tra i ragazzi di una coscienza nazionale. Oggi occorrerebbe fornire una più larga visione europea e mondiale. Uno dei compiti del riformatore dovrebbe essere quello di introdurre elementi di conoscenza cosmopolita nella formazione dei nostri studenti, che non possono certo esaurirsi nell'apprendimento della lingua inglese. Preparare i nuovi cittadini del mondo, ecco uno dei compiti da assegnare alla scuola del nostro tempo, mentre intorno a noi si scontrano storie e civiltà, ribollono guerre sanguinose dipendenti da ingiustizie e soprusi, incomprensioni e ignoranza. E per tale asse formativo i saperi umanistici sono irrinunciabili.

Ma oltre a quello civile e storico-politico c'è un campo conoscitivo di prima grandezza di cui la s cuola dovrebbe occuparsi: il campo delle scienze, soprattutto di quelle della natura e del modo di insegnarle. E' un nodo decisivo per la formazione culturale dei nostri ragazzi. Non solo e non tanto perché un apprendimento di buon livello delle scienze assicura poi una superiore capacità del lavoro professionale che ciascuno andrà a svolgere. Ma soprattutto perché oggi un insegnamento interdisciplinare dei saperi scientifici appare decisivo per formare i giovani alla lettura della complessità del mondo.Un mondo sempre più interrelato che stiamo distruggendo per l' ignoranza dei più, oltre che per l'interesse egoistico dei pochi. L'attuale formazione scientifica dei nostri ragazzi è inadeguata rispetto ai drammatici problemi che stiamo creando alla casa comune del pianeta. Mentre della scienza si esalta superficialmente l'aspetto tecnologico, quello che serve al mercato del lavoro, alla “crescita”. Eppure si dimentica che perfino la disciplina da cui dipende quasi tutto delle conquiste tecnologiche del nostro tempo, la fisica, costringe oggi a una visone interrelata della natura: «Ancora una volta il mondo sembra essere relazione, prima che oggetti» ( C.Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi). Nella nuova scuola la conoscenza scientifica dovrebbe fare acquisire ai giovani un nuovo sapere scientifico-morale: l'idea di un rapporto uomo-natura meno arcaica di quello dei loro padri.

L'articolo è stato inviato contestualmente al manifesto

Fukushima? Ho provato a chiedere in giro e alcuni non sanno di che cosa si tratti, alcuni ricordano che deve essere qualcosa che ha a che fare con il nucleare...>>>

Fukushima? Ho provato a chiedere in giro e alcuni non sanno di che cosa si tratti, alcuni ricordano che deve essere qualcosa che ha a che fare con il nucleare. Eppure quell’11 marzo di quattro anni fa, alle due del pomeriggio ora locale, un fortissimo terremoto nel Mare del Giappone, proprio davanti alle coste di Fukushima, ha provocato una delle più grandi tragedie industriali della storia e ha fatto crollare un mondo di affari e illusioni.

Il terremoto fece sollevare l’acqua marina in una onda alta 15 metri (tsunami, le chiamano) che ha invaso la terra ed è penetrata nella centrale nucleare della cittadina. L’acqua di mare ha allagato e interrotto il funzionamento delle pompe di circolazione dell’acqua di raffreddamento dei tre reattori in funzione; immediatamente sono intervenute le barre che fermano il flusso dei neutroni e la fissione nucleare. Per la mancanza di acqua i reattori però hanno continuato a scaldarsi per il calore liberato dal decadimento spontaneo delle diecine di tonnellate di materiali radioattivi, uranio, plutonio e prodotti di fissione, contenuti nel loro nocciolo che è fuso. Il calore ha provocato la formazione di idrogeno che è esploso distruggendo le strutture di acciaio e cemento contenenti i tre reattori con dispersione nell’ambiente delle sostanze radioattive.

I soccorritori si sono trovati davanti a rottami, aria, terreno e acque contaminati; ci sono stati episodi di coraggio e di sacrificio di operai e tecnici che si sono esposti ad alta radioattività per riattivare la circolazione dell’acqua dell’oceano in modo da disperdere almeno una parte delle sostanze radioattive nel grande mare, evitando conseguenze che avrebbero colpito un gran numero di abitanti dell’intero Giappone.

La fusione del nocciolo dei reattori è il grande pericolo temuto dai costruttori di impianti nucleari, un evento, considerato quasi impossibile e che invece si è verificato tre volte in 15.000 anni-reattore, il numero di anni di funzionamento per il numero dei reattori funzionanti, oggi circa 450. Infatti è successo nel 1979 in un reattore americano, senza contaminazione radioattiva esterna (la radioattività era stata trattenuta all’interno del reattore); poi è successo ancora nel 1986 nel reattore a Chernobyl in Ucraina, con incendio e liberazione di radioattività nell’aria; tale radioattività si era sparsa su parte dell’Europa (era arrivata anche nell’Italia settentrionale). In seguito a questo incidente, peraltro previsto dai movimenti antinucleari, in Italia si tenne nel 1987 un referendum che, a larga maggioranza, impose la cessazione delle attività nucleari in Italia.

Dopo Chernobyl è rallentata la costruzione di nuove centrali in tutto il mondo, ma la potente industria nucleare ha lentamente ripreso fiato; di due centrali, dichiarate ultrasicure, progettate in Francia è stata iniziata la costruzione in Finlandia e in Francia. La cosa sembrava così allettante che nel maggio 2008 il IV governo Berlusconi, appena insediato, annunciò di voler costruire anche in Italia centrali nucleari di “nuova generazione" capaci di "produrre energia su larga scala, in modo sicuro, a costi competitivi e nel rispetto dell'ambiente". Ci furono accordi fra le società elettriche Enel italiana e Electricité de France, francese, e poi leggi e decreti che avrebbero dovuto regolare le localizzazioni delle future centrali e garantire la sicurezza attraverso nuove agenzie.

Nel 2010 il movimento antinucleare depositò una richiesta di referendum per l’abrogazione di tali leggi; contro il referendum, fissato per il giugno 2011, nel gennaio-febbraio dello stesso anno ci fu una forte propaganda filonucleare; nel marzo la catastrofe di Fukushima dimostrò ancora una volta la fragilità della tecnologia nucleare. L'alta partecipazione al referendum del successivo giugno e la grande maggioranza antinucleare fecero tramontare del tutto, di nuovo, il sogno del nucleare italiano. Per fortuna, perché oggi i famosi reattori francesi ultrasicuri sono ancora da completare e non si sa quando entreranno in funzione.

Comunque le industrie nucleari non mollano, sostenendo che solo il nucleare può far diminuire i pericoli dei mutamenti climatici dovuti al crescente uso di carbone e petrolio e può far fronte ad un aumento del prezzo del petrolio; l’agenzia internazionale per l’energia ha di recente previsto che possa essere necessaria, da oggi al 2050, la costruzione nel mondo di altre 400 centrali nucleari: una previsione assurda sul piano della disponibilità delle risorse naturali, della sicurezza dell’ambiente e ancora più sul piano economico, soprattutto davanti al trionfale cammino delle fonti energetiche rinnovabili.

Queste brevi considerazioni si propongono di dimostrare quanta cautela occorra nelle scelte dei governi in materia di energia e di materie prime; molte tecnologie, dietro promesse meravigliose, nascondono spesso delle trappole da cui poi è difficile uscire. E’ il caso delle fonti di energia fossili, le cui riserve non sono illimitate e il cui crescente uso provoca inquinamento locale e contribuisce ad aggravare i mutamenti climatici a livello planetario. E’ il caso dell’energia nucleare che, anche quando non serve più, lascia delle scorie radioattive di cui è difficile liberarsi per secoli; lo dimostra il dibattito appena cominciato in Italia sul deposito delle diecine di migliaia di tonnellate delle scorie radioattive presenti nel nostro paese. Da qui l’importanza, a livello parlamentare, di un controllo tecnico-scientifico delle prevedibili conseguenze ambientali e sociali di scelte che, a prima vista, sembrano tanto promettenti.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

Tre articoli sui giornali di questi giorni suscitano una sola domanda: di chi è Piazza San Marco? E una sola risposta: la piazza, come la città, come l’intero pianeta sono ... >>>

Tre articoli sui giornali di questi giorni suscitano una sola domanda: di chi è PiazzaSan Marco? E una sola risposta: la piazza, come la città, come l’intero pianetasono di quelli che se ne appropriano.

1. LeProcuratie Vecchie torneranno a vivere
(La Nuova Venezia, 6 marzo 2015)

Il commissario straordinario Zappalorto ha firmato l’accordo con le AssicurazioniGenerali relativo alle destinazioni d’uso consentite nel complesso delleProcuratie Vecchie, una vicenda che si trascinava da molti anni (vedi PiazzaPulita su eddyburg). La parte già adibita a uffici e attività commerciali non subiràmodifiche, mentre nella parte del complesso attualmente libera, le Generali potranno destinare “il 70%degli spazi per scopi di interesse generale a carattere culturale, scientifico,di alta formazione, di tutela della salute e dell'ambiente, di sostegno socialeo per la promozione dell'immagine della Città di Venezia. Il restante 30% potràessere destinato ad uso privato come uffici o attività compatibili con lavocazione storico-artistica dell'edificio e con la sua ubicazione nell'areamarciana”.

Come corrispettivo a queste alquanto vaghe prescrizioni, al comuneverranno lasciati 640 metri quadri incomodato gratuito per vent’anni e sarà versata una tantum la cifra di 3milioni di euro. Si tratta di un accordo più svantaggioso per il comune perfinorispetto a quello previsto dal precedente sindaco Orsoni, che chiedeva 3000 metri quadri per trent’anni, ma ilcommissario è entusiasta perché “il leone delle Generali torna a San Marco conun progetto di rilancio della presenza a Venezia in un contesto architettonico…dove tornerà a pulsare l'eccellenza di un grande gruppo che arricchiràulteriormente il prestigio e il valore di tutta l'area marciana”. Ilcommissario si dimentica di dire che tale valore verrà incamerato dalleGenerali, che hanno accortamente aspettato che la città fosse sguarnita diun’amministrazione regolarmente eletta prima di sottoscrivere l’accordo.

Nel marzo 2014, le Generali avevano occupato la piazza con una installazione, un grande paio di occhiali che “sono la metafora dell'invito a guardare il presente e il futuro con ottimismo, perché vedere la vita con positività è il primo passo per migliorarla". Un anno dopo, possono rallegrarsi di aver visto bene.

2. Mongolfiera Vuitton a San Marco senza permessi: tre indagati

(Corriere del Veneto, 14 febbraio 2015)

L’articolo si riferisce a un episodio del giugno 2013. quando una mongolfiera è atterrata in piazza per girare uno spot pubblicitario della ditta Vuitton. Ora è emerso che nessuno aveva i permessi necessari (sopra Venezia non si può volare, se non con specifiche autorizzazioni). Il magistrato ha emesso tre decreti penali per un importo di 500 euro ciascuno (meno del prezzo di una borsa Vuitton!). Secondo il giornalista del Corriere, sul piano giudiziario è “una vicenda di non grande conto.

Ora spetterà ai tre indagati decidere se fare ricorso o pagare la piccola multa”… ma è più seria sul piano mediatico, perché vede “uno dei marchi di punta della moda mondiale, tirato in ballo per un banale permesso mancante all’atterraggio in uno dei salotti più belli del mondo”.

3. Piazza San Marco a pagamento e con prenotazione

(La Nuova Venezia, 2 marzo 2015)

E’ l’idea lanciata da un “consulente turistico” partendo dall’assunto che “il numero chiuso a Venezia non è praticabile, oltre che per ovvie difficoltà, per la libera circolazione dei cittadini prevista dalla normativa internazionale, ma sarebbe invece possibile attuarlo, in determinate circostanze in Piazza San Marco, considerandola per quello che ormai è: un’area museale e monumentale”.

La proposta è stata recepita con interesse dai candidati sindaci che, senza soffermarsi sui dettagli tecnico-giuridici – ci saranno recinzioni, tornelli, vigilantes? – probabilmente pensano che se la piazza è “ormai è un’area museale”, una volta eletti, la potranno privatizzare, portando a compimento il processo di cessione delle cosiddette risorse culturali che negli ultimi mesi, durante la gestione commissariale, ha avuto una straordinaria accelerazione, inclusa la stipula di una convenzione tra i musei civici di Venezia e la Fondazione del Sole 24 Ore. La fondazione, pagando 80 mila euro per 4 anni (circa 600 euro al giorno), gestirà le mostre d’arte, tenendosi tutti gli incassi, e potrà anche organizzare travelling exhibitions, cioè portare in giro i quadri dei musei veneziani. Al comune, cioè ai cittadini contribuenti, restano le spese di guardiania e manutenzione delle sedi.

Quanti anni sono passati dalla funesta decisione governativa di ammettere l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione versati dai costruttori ai Comuni per le spese correnti...>>>

Quanti anni sono passati dalla funesta decisione governativa di ammettere l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione versati dai costruttori ai Comuni per le spese correnti, gravissima violazione della norma che li destinava solo alla realizzazione dei servizi primari e secondari? Dimenticato, se non da qualche milanese, il nome del meritorio autore, Pietro Bucalossi. A quel tempo ci rimanda Paolo Berdini (in eddyburg 19 febbraio, da una pubblicazione esterna del 17). Anno, 2001; nome e co­gnome del primo responsabile, Franco Bassanini ministro del governo Amato e presunto esperto amministrativo di centrosinistra. Quanti altri responsabili in seguito, se in quasi tre lustri numerosi governi si sono succeduti perdurante fino a oggi il disimpegno generale dinnanzi allo scandalo, salvo le poche voci isolate risonanti qua e là, come in Eddyburg? E ora si sentono giustificati a causa della crisi e dei conseguenti buchi scavati nei bilanci locali dai tagli dei trasferimenti statali. Eppure certi disastri c’entrano poco con la crisi; risalgono a indebitamenti cresciuti lungo anni di gestione negligente e scorretta esercitata da amministrazioni precedenti alle attuali. Ne elenca e commenta alcune Berdini, a cominciare dal caso clamoroso di Roma. Aggiungo Milano la cui giunta comu­nale, non credo accusabile di mala gestione economica, ha dovuto caricarsi dei debiti accumulati nelle due tornate precedenti dominate dal centrodestra, Gabriele Albertini e Letizia Brichetto Moratti i sindaci.

La crisi comincia nel 2008. Dunque dal 2001 per cinque anni l’opposizione del centro sinistra ha taciuto, come se nel suo insieme approvasse le conseguenze laceranti verso un territorio già ridotto a brandelli. La voce, benché flebile, del Comitato per la bellezza lo certifica: quel tipo di finanziamento è un duro colpo alla “speranza di salvezza per il già intaccato paesaggio italiano”. La conquista del governo da parte del centrosinistra suscita in noi, come nel romanzo di Dickens, “Grandi speranze”. Ma non conoscevamo a fondo la vocazione totalmente centrista se non destrorsa dei partiti che lo costituivano. I governi “nostri” (per modo di dire), invece di cancellare la “porcata” bassaniniana, non solo la confermano ma con la legge finanziaria del 2007 la protraggono di tre anni. Nel seguito, dal 2010, nessun politico accenna al problema; se lo facesse “perderebbe il posto”. Infatti la crisi si spande anche sul settore edilizio riducendone l’occupazione, mentre i Comuni, intendo quelli bene amministrati, si arrabattano fra la diminuzione delle risorse finanziarie a meno di aumentare le tasse già alte e la contrarietà a ridurre le prestazioni dei servizi sociali o a lasciarle in mano ai privati, si sa inaccessibili alle famiglie più bisognose.

Eppure non bisogna arretrare dalla posizione contro l’impiego perverso degli oneri. E, insieme, dire chiaro che la diminuzione delle opere edilizie di ogni genere in un paese distrutto dal costruire costruire costruire, come una rapallizzazione globale, sarebbe il principio da rivendicare e poi da applicare (non c’entra qui la ”decrescita felice”). Gli edifici giunti a tale insensata numerosità, dappertutto, da lasciarsi alle spalle enormi scie di costruzioni vuote, si pensi ai famigerati capannoni, agli uffici nelle grandi e medie città, alle seconde terze quarte case (intanto continuavano a mancare le case popolari pubbliche); le infrastrutture di trasporto tanto più inutili quanto più tronfie, si pensi fra una miriade di casi alla mai abbastanza vituperata, per eccesso di assurdità, TAV Torino Lione, o alla nuova autostrada Bre-Be-Mi, ottima per veloci corse coi pattini a rotelle, tanto è sicura stante l’assenza di traffico motoristico (intanto era trascurato e tagliato il fitto e indispensabile tessuto minore, specialmente quello ferroviario, una volta vanto della nazione): tutto questo è materia del nostro tormento per aver perso tante battaglie urbanistiche pur aspramente combattute, è materia inoltre della vergogna di troppi, istituzioni partiti e persone, per poterli elencare qui e riassumerne forse per l’ultima volta le malefatte.

Ricordo la crisi edilizia del 1965. La congiuntura, estesa a tutto il territorio nazionale, fu quella di un settore industrialmente arretrato in cui per due decenni avevano imperversato gli speculatori sulle aree fabbricabili e no, le nuove immobiliari, gli imprenditori di ogni genere, le imprese di costruzioni: tutte aziende e personaggi che avevano fatto guadagni colossali in regime di bassi salari e sfruttamento di immigrati, sottraendo capitali agli investimenti produttivi. Tuttavia, temendo che la pacchia finisse, si lamentavano cercando di incolpare una legge urbanistica che non c’era, ferma al progetto Mancini, il quarto dopo i tentativi di Zaccagnini, Sullo e Pieraccini, peraltro dimenticato da mesi nei recessi del ministero. La verità era che si era costruito troppo, malamente, brutalmente, secondo l’obbiettivo di moltiplicare e intrecciare rendita e profitto il più rapidamente possibile.

Oggi, la crisi generale sembra comprendere inevitabilmente un settore che invece, anche senza questa situazione, doveva flettere perché, come ancora Berdini ci ricorda, “abbiamo costruito troppo”, “abbiamo il doppio dell’urbanizzato” rispetto ai paesi europei a settentrione. Insomma, indipendentemente dall’indecente, benché talvolta forzoso impiego improprio degli introiti da concessioni di costruire, da tempo sindaci e giunte approfittano dei loro enormi poteri decisionali e della generale debolezza del Consigli (conseguenza della radicale riforma voluta da destra e sinistra poco meno di vent’anni fa), poi degli ulteriori poteri trasferiti dalle Regioni ai Comuni in tema di paesaggio, per dispensare concessioni edilizie che distribuiscono ingiuste ma apprezzate, da essi stessi, extra-rendite. Ad ogni modo troppi sindaci hanno mostrato una tale propensione a edificare indistitamente il territorio che certe lacrime per dover ricorrere agli oneri di urbanizzazione ai fini di bilancio sono sospette. Un’infinità di episodi denunciati anche in Eddyburg hanno rivelato il loro fastidio verso gli strumenti costituzionali o consuetudinari o culturali atti a difendere il territorio (il paesaggio) dagli immancabili aggressori: a curarlo, a conservarlo per le generazioni future.

.>>>

Stupisce un po' osservare oggi, nel campo della sinistra, la tiepidezza politica e soprattutto la flebile mobilitazione organizzativa che accompagna una rilevante iniziativa politica. Mi riferisco alla raccolta di firme per una proposta di iniziativa popolare di revisione costituzionale, al fine di cancellare l'introduzione del principio di “pareggio di bilancio” nella nostra Costituzione. Si ricorderà che il 22 settembre 2014 un comitato promotore, composto da giuristi come Stefano Rodotà e Gaetano Azzariti, da Maurizio Landini, da parlamentari di Sel, Giulio Marcon e Giorgio Airaudo, e del PD, Pippo Civati e Stefano Fassina, ha depositato la proposta di legge in Cassazione.
Da allora, il dibattito su quel tema è stato languente e soprattutto non si è vista l'attivazione dei comitati per un ampio coinvolgimento dei cittadini.A fine gennaio Sel l'ha rilanciato a Milano, con il convegno Uman Factor (perché in inglese, francamente, non si capisce), ma il fuoco della mobilitazione stenta ancora ad accendersi. Eppure si tratta di una iniziativa politica di prima grandezza, non dissimile per molti aspetti, dalla battaglia per l'acqua bene comune. Intanto per la potenziale ampiezza del consenso che essa può raccogliere. Il fallimento delle politiche di austerità, la devastazione sociale e l'arretramento sul piano dei diritti che esse stanno generando in Europa appare sempre più evidente alla maggioranza dei cittadini. E le forze che sanno opporsi in maniera credibile alla stupida ferocia di questa politica, alla cultura che la sorregge, raccolgono consensi da ogni parte. Dicono qualcosa a tutti noi il successo di Syriza in Grecia e di Podemos in Spagna. Ma dovrebbe dirci qualcosa anche l'avanzata e la proliferazione delle formazioni di destra, che si alimentano di una politica antiausterità, anche se antieuropea. E' evidente ormai che i governi in carica non rappresentano l'opinione pubblica dei paesi dell'Unione, si reggono sull'astensionismo di massa e sulla dispersione delle opposizioni.
Ma togliere dalla Costituzione lo stupido sfregio del principio del pareggio di bilancio ha per noi un significato che va al di là del piano costituzionale e dei diritti. Quella norma, inserita il 20 aprile del 2012, rappresenta una scelta pianificata del declino italiano. Una scelta che appare insensata già alla luce delle caratteristiche storiche del capitalismo italiano. Chi conosce le vicende della nostra industrializzazione sa quale ruolo strategico ha dovuto giocare la mano pubblica, non solo nell'imporre regole e istituzioni, ma nel supplire all'assenza di capitali di rischio in settori strategici per lo sviluppo del paese.
E non si tratta solo delle antiche nostre debolezze. Oggi, dopo i colpi della crisi, viene imposta una riduzione sistematica della spesa pubblica che paralizza comuni e regioni, impedisce investimenti, riduce la produzione di ricchezza, deprime la domanda interna, trascina in un circolo vizioso l'intera macchina economica. Limitare così pesantemente il ruolo economico dello stato in una società di capitalismo maturo denuncia una strategia di pianificata autoemarginazione dell'Italia e dell'Europa. Al confronto il modello Usa, da un punto di vista strettamente capitalistico, appare più lungimirante e avanzato.Come ha mostrato con dovizia documentaria Mariana Mazzuccato ne Lo stato innovatore (Laterza), il potere pubblico gioca in quel paese un ruolo strategico di prima grandezza in investimenti nei quali il capitale privato non si avventura. Esso costituisce la vera avanguardia dell'innovazione tecnologica. Senza dire che lo stato americano ha continuato a investire generosamente in formazione e ricerca mentre in Europa, ma soprattutto in Italia, si è marciato e si continua a marciare in senso contrario.
Ma che cosa dire, d'altronde, del modello di accumulazione originaria in atto in Cina da decenni, dove è lo stato che guida le danze? E potremmo fare un lungo elenco di paesi emergenti in cui lo sviluppo economico è promosso con intelligenza strategica dal potere pubblico. L'Europa no. E' ossessionata dal debito, perché ragiona con l'animo strozzino dei banchieri tedeschi. Confida nel fatto che i conti in ordine attireranno investimenti dall'esterno e che la bassa domanda interna, dovuta a bassi salari e disoccupazione, sarà compensata dalle esportazioni. Ma tutti i paesi del mondo sperano nelle esportazioni e schiacciano i propri lavoratori per poter competere tra di loro nel mercato mondiale, col risultato di ordine e prosperità generale che oggi è sotto gli occhi di tutti. Senza dire che paesi come l'Italia, la Spagna, la Grecia, ecc i conti in ordine, con questo schema, non possono metterli, senza distruggere la società e alla fine gli stessi conti.

Tale riflessione ci consente di vedere la più ampia portata delle recenti politiche della UE.Oggi non siamo solo di fronte a una strategia economica controproducente in un periodo di crisi. Quello che si stenta a cogliere è che essa rappresenta ormai un nuovo orizzonte programmatico dei tecnocrati di Bruxelles. E' emerso sempre più chiaro da un paio di anni con il Patto europlus che impone ai governi dell'Unione le regole del Fiscal compact. Si impone che il disavanzo strutturale di ogni stato non superi lo 0,5% del Pil. Ma il Pil dei paesi di capitalismo maturo è sempre più poca cosa, com'è noto, se mai tornerà a crescere. E come potrà crescere con la contrazione della spesa pubblica? E quanto potrà spendere, con tali patti iugulatori, lo Stato italiano – che in 20 anni deve riportare il suo enorme debito al 60% del Pil - per potenziare la scuola, per ridare dignità e risorse all'Università, per consentire ai comuni di proteggere i loro territori, per mantenere in piedi la sanità coi suoi crescenti bisogni, per tutelare il nostro immenso e immeritato patrimonio artistico?

Dunque, l'UE appare oggi non solo lontanissima dai generosi propositi dei suoi primi ideatori, ma manifestamente peggiorata rispetto anche alla squilibrata fisionomia che si era data con i trattati. La sfida della costruzione di una economia sociale di mercato, che doveva competere con gli USA e col mondo, è stata abbandonata. Oggi le ammaccate conquiste del nostro welfare continuano a proteggere ampie fasce di popolazione dalle asprezze del cosiddetto mercato. Ma di questo passo esse saranno in gran parte spazzate via. In Europa un solo assillo sembra far vivere la volontà degli stati di stare insieme:la logica usuraia della solvibilità del debitore. Chi presta soldi deve riaverli con i giusti interessi. L'Unione, una delle più grandi creazioni politiche dell'età contemporanea, si avvia, dunque, sotto il furore del dogmatismo tedesco, a ridursi a un cane morto.

Ne abbiamo avuto la plastica rappresentazione in questi ultimi giorni nello scontro che ha contrapposto il governo greco di Tsipras ai rappresentanti dell'UE. Con un fuori programma che avrebbe dovuto trovare qualche voce politica capace di rivendicare la dignità degli stati sovrani.Vedere il ministro delle Finanze tedesco, Wolfang Schäuble, ringhiare come fosse il padrone d'Europa, non è stato uno spettacolo edificante. Ma ancor meno edificante è stato vedere che nessun capo di stato o di governo ha osato ricordare al ministro che l'Unione ha i suoi organismi, in rappresentanza di ben 28 paesi. In quelle trattative abbiamo visto non solo due idee di Europa, ma anche il muro che in Germania e a Bruxelles intendono tenere alto contro l'avvenire del nostro paese.
Dopo l'approvazione del jobs act, la grancassa mediatica si è messa in moto e il capo dei prestigiatori italiani amplifica i suoi trucchi per rappresentarci le magnifiche sorti che ci attendono. Non lasciamoci abbacinare. I problemi sociali degli italiani resteranno gravi a lungo, anche se ci sarà qualche segno di ripresa economica.La mutilazione del ruolo dello stato imposta dal pareggio di bilancio è un macigno su cui Renzi non potrà danzare.

Durante il viaggio di ritorno dalla visita a Sri Lanka e alle Filippine del Papa Francesco, un giornalista tedesco gli chiesto la posizione della Chiesa ...>>>

Durante il viaggio di ritorno dalla visita a Sri Lanka e alle Filippine del Papa Francesco, un giornalista tedesco gli chiesto la posizione della Chiesa cattolica nei riguardi della contraccezione. Forse avendo ancora davanti agli occhi la situazione demografica dei paesi appena visitati, il Papa ha risposto: «Io credo che il numero di tre [bambini] per famiglia, che lei menziona, secondo quello che dicono i tecnici, è importante per mantenere la popolazione. Tre per coppia…. Per questo la parola-chiave per rispondere è quella che usa la Chiesa sempre, anch’io: è ‘paternità responsabile’... Alcuni credono che – scusatemi la parola – per essere buoni cattolici dobbiamo essere come conigli. No. Paternità responsabile».

Questo breve scambio di parole ha avuto varie reazioni nel mondo cattolico. Alcune persone hanno rivendicato la gioia e virtù delle famiglie numerose; altre hanno ribadito il divieto dell’uso di tecniche di contraccezione, al di fuori dell’astinenza dei coniugi dai rapporti sessuali nei periodi di fertilità femminile. Il concetto di “paternità responsabile” risale all’enciclica Humanae vitae emanata dal Papa Paolo VI nel 1968, nel pieno di un vasto dibattito internazionale su uno degli aspetti centrali dell’ecologia: il ruolo della crescita della popolazione sull’impoverimento delle risorse naturali e sul degrado ambientale.

Il problema è stato trattato per la prima volta in un famoso libretto, Saggio sulla popolazione, pubblicato anonimo da Thomas Malthus (1766-1834) nel 1798. Davanti alla constatazione che la popolazione povera che stava affollando le città industriali inglesi aumentava più rapidamente di quanto aumentasse la produzione di alimenti, Malthus contestò l’assegnazione di piccoli contributi alle famiglie povere, sostenendo che non era giusto spendere soldi pubblici per aiutare persone che mettevano al mondo figli senza essere in grado di assicurargli almeno il cibo.

Il dibattito sui rapporti fra popolazione e “cibo” continuò per tutto l’Ottocento e poi nel Novecento. Alcune comunità cristiane erano più disponibile ad un controllo dell’aumento della popolazione mentre la parte cattolica era più intransigente nella interpretazione letterale del ventottesimo versetto del primo capitolo della Genesi, in cui Dio ordina all’uomo e alla donna: ”Crescete e moltiplicatevi”. Un imperativo che era comprensibile per il popolo ebraico, poco numeroso in un paese abitato da numerosi nemici, ma che pone problemi economici e anche pratici davanti allo spettro della scarsità di alimenti, di spazi coltivabili, di minerali e fonti di energia, il “cibo” di una società moderna, richiesti da una crescente popolazione mondiale.

Il problema si fece ancora più acuto dopo la seconda guerra mondiale; un mondo (di 2,3 miliardi di persone nel 1945), stremato dalla guerra affidava ai figli il proprio futuro. Il “pericolo” di un aumento della popolazione, soprattutto dei poveri e dei paesi sottosviluppati, fu denunciato dall’ecologo William Vogt (1902-1968) nel libro La via per la sopravvivenza del 1948 e, nello stesso anno, dal libro Il pianeta sovraffollato del biologo Henry Fairfield Osborn Jr. (1887-1969). Nel 1954 fu annunciata la scoperta della “pillola”, messa in commercio nel 1960, che consentiva rapporti sessuali senza il concepimento di figli ad offriva un facile ed economico mezzo per quella limitazione delle nascite auspicata nei libri, entrambi del 1966, di Paddock: Fame ! 1975, e di Paul Ehrlich: La bomba della popolazione.

L’economista cattolico britannico Colin Clark (1905-1989) reagì stizzosamente a questa ondata di neomalthusianesimo americano sostenendo, in un saggio del 1967, la (peraltro improbabile) tesi che la Terra potrebbe sfamare diecine di miliardi, anche una quarantina, di abitanti. In questa atmosfera (la popolazione mondiale era già arrivata a 3,5 miliardi di persone) fu emanata l’enciclica Humanae vitae che, nel paragrafo 10 precisa: «La paternità responsabile si esercita, sia con la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione, presa per gravi motivi e nel rispetto della legge morale, di evitare temporaneamente od anche a tempo indeterminato, una nuova nascita. L’esercizio responsabile della paternità implica dunque che i coniugi riconoscano i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia dei valori».

I doveri verso la famiglia comprendono evidentemente quello di decidere il numero dei figli in modo da assicurargli delle condizioni decorose di vita, di istruzione, di salute, tutte cose che inevitabilmente comportano l’accesso a sufficienti alimenti, ad acqua pulita e ad abitazioni igieniche. A loro volta questi “beni” richiedono prodotti agricoli, cemento, ferro, energia, ottenibili impoverendo le ricchezze della natura e generando alterazioni del territorio e inquinamenti. E’ un dovere “verso la società” regolare la procreazione (e i consumi individuali) in modo da assicurare al “prossimo”, agli abitanti del pianeta, che oggi sono ormai più di 7 miliardi, condizioni dignitose di vita e di salute e limitati danni ambientali.

D’altra parte la limitazione delle nascite provoca un aumento, in proporzione, degli anziani, la parte più fragile della popolazione verso cui sorgono altri doveri. E neanche una società stazionaria, in cui siano più o meno uguali la natalità e la mortalità, proposta da alcuni, può durare a lungo essendo destinata al declino, con sollievo, forse, dell’ecologia, ma con quale destino per la nostra specie ? Un bel problema, per la politica di oggi e per le generazioni future, a cui sarà il caso di cominciare a pensare.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

La grande esposizione universale di Milano sta viaggiando verso l’imminente inaugurazione (che avverrà il prossimo Primo Maggio) ...>>>

La grande esposizione universale di Milano sta viaggiando verso l’imminente inaugurazione (che avverrà il prossimo Primo Maggio) in mezzo a vasti dibattiti che vanno dalle speranze di crescita del prestigio internazionale dell’Italia produttiva e dell’arrivo di soldi in modo da alleviare la nostra crisi economica, alle critiche sulla organizzazione e a domande su quello che succederà dei vasti spazi occupati dall’EXPO quando sarà finita. In questi dibattiti, a mio parere, si parla poco della vera finalità dell’esposizione che, come dice il nome, dovrebbe proporsi di ”esporre” i mezzi per raggiungere i grandi generosi obiettivi di “Nutrire il pianeta” e di assicurare “Energia per tutti”. L’EXPO 2015 rientra nel filone delle esposizioni e fiere merceologiche che si propongono di far conoscere e diffondere manufatti e tecnologie sviluppate nei vari paesi.

Per “nutrire il pianeta” occorrono trattori e concimi, processi per trasformare i prodotti dell’agricoltura e della zootecnia attraverso innumerevoli operazioni di conservazione e di modificazione fisica e chimica (si pensi alla trasformazione del latte in burro e formaggio, dei chicchi di grano in pasta e pane, delle carcasse degli animali in carne in scatola, dei pomodori in conserve, eccetera). E occorre acqua ricavata dalle sorgenti o distribuita dagli acquedotti, e energia, la merce per eccellenza ricavata da carbone o petrolio, da gas naturale o dal moto delle acque o dai pannelli fotovoltaici. E poi occorrono navi e camion che trasportano i prodotti ai supermercati e alle botteghe fino ai mercatini di villaggio, tutta una catena di scambi in cui si formano scorie e rifiuti inquinanti. Questa è la storia naturale del cibo che arriva alle famiglie e alla ristorazione collettiva.

Le esposizioni di merci hanno radici antichissime da quando i mercanti hanno cominciato a presentare le proprie merci sulle piazze dei villaggi e delle città; le fiere sono state, almeno dal medioevo in avanti, grandi eventi periodici che si svolgevano nelle città e radunavano venditori e acquirenti e curiosi, occasioni di informazione e di cultura, prima ancora che di vendita. Col passare del tempo questi eventi sono diventati vere e proprie esposizioni in cui i manufatti e i prodotti non sono venduti ma solo presentati e, direi, raccontati ai visitatori. La prima grande esposizione universale si ebbe nel 1851 a Londra, nel pieno della rivoluzione industriale e del successo imperiale della Gran Bretagna della regina Vittoria. Seguirono, con altrettante ambizioni, nella Francia del secondo impero di Napoleone III, le esposizioni di Parigi, del 1855 orientata ai prodotti industriali, e del 1856 orientata ai successi delle produzioni agricole francesi.

Da allora fu una corsa di ogni paese a organizzare esposizioni per far conoscere i propri progressi economici e tecnici; a Milano nel 1871 si tenne la prima “esposizione industriale” dell’Italia unita, il cui interessante catalogo è stato ristampato nel 2010 a cura dell’editrice “Milano città delle scienze”. Nel lungo elenco di esposizioni universali spicca quella di Parigi del 1889 per celebrare, ormai in età repubblicana, il centesimo anniversario della Rivoluzione Francese; fu l’occasione per mostrare al mondo, con la Torre Eiffel, tutta d’acciaio, il successo della tecnologia siderurgica e meccanica. La successiva esposizione di Parigi del 1900 fu adornata dalla illuminazione elettrica, altro trionfo della nuova fonte di energia e delle nuove lampade inventate dall’americano Edison. Tutto il Novecento è stato segnato da esposizioni tecniche e merceologiche, strumenti di diffusione dei progressi e della “potenza” economica dei paesi ospitanti.

Nel 1906 Milano volle la sua esposizione universale in occasione dell’apertura della galleria del Sempione, altro successo tecnico che avrebbe collegato l’Italia con i paesi industriali dell’intera Europa. Nelle strutture dell’esposizione fu creata, nel 1923, la sede permanente della ”Fiera di Milano”, l’evento annuale di primavera nel quale le industrie potevano mostrare al mondo le proprie novità. Il film di Camerini, Gli uomini che mascalzoni, del 1932, con De Sica, ancora trasmesso da qualche televisione locale, mostra l’atmosfera gioiosa e incantata dell’incontro popolare con la tecnica, con prodotti e macchinari, nella fiera “campionaria” di Milano. Anche Bari volle, nel 1929, una sua fiera “campionaria” in cui presentare le merci e i prodotti della Puglia, e che ospitava i prodotti di molti paesi africani e asiatici, “del Levante”, che si presentavano, in tali incontri annuali agli occhi del mondo. Come professore di Merceologia non mancavo, ogni settembre, di visitare la Fiera del Levante per farmi dare campioni di prodotti che venivano poi esposti nel museo merceologico dell’Università.

Adesso ci sono rigorose distinzioni fra esposizioni universali, ogni cinque anni, esposizioni internazionali, ogni tre anni, entrambe destinate a trattare particolari temi di interesse generale, manifestazioni diventate occasioni per congressi, ed esposizioni, spesso, più di uomini politici che di prodotti. Mi auguro che l’EXPO di quest’anno sia una occasione per “esporre” informazioni e notizie sui prodotti di terre e persone vicine e lontane, sul lavoro nei campi, nelle fabbriche, nei negozi e sul comportamento alimentare delle famiglie e delle mense, sulle contraddizioni, anche, delle varie forme dell’agricoltura. L’EXPO può, insomma, al di là degli aspetti spettacolari, svolgere, grazie alle merci, una straordinaria funzione culturale e, direi, educativa, diffondendo una conoscenza popolare dei problemi del cibo e dell’energia da cui dipende la vita quotidiana di tutti.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

Dario Parrini, segretario regionale del Pd, di nomina e osservanza renziana, nel suo intervento a sostegno della candidatura di Enrico Rossi...>>>

Dario Parrini, segretario regionale del Pd, di nomina e osservanza renziana, nel suo intervento a sostegno della candidatura di Enrico Rossi a Presidente della Regione Toscana, ha avuto parole sbagliate nella forma e nel merito a proposito dell'intervista sul Pit-Piano paesaggistico toscano rilasciata dal sottosegretario del Mibact Ilaria Borletti Buitoni. Cosa ha detto la Borletti Buitoni? Che il Piano paesaggistico necessariamente è frutto di compromessi e che il compromesso raggiunto a proposito della tutela delle Apuane rappresenta un limite di equilibrio che, se fosse varcato in senso peggiorativo, potrebbe mettere in forse l'approvazione del Piano da parte del Mibact.

Dichiarazione quanto mai opportuna, dal momento che alcuni sindaci della zona, in perfetta e sospetta sintonia con le ditte di escavazione, reclamano a gran voce il ritorno al far west cui, invece, il Piano vuole dettare alcune regole: incuranti - sindaci e imprese - dei rinvii a giudizio che hanno colpito il sindaco di Carrara, assessori, dirigenti comunali e imprese per i danni erariali provocati da una non innocente sottovalutazione del valore di mercato del marmo, ciò che ha consentito elusione fiscale e penalizzato i Comuni per minori introiti.

Parrini ha definito, senza alcuna motivazione, le giuste esortazioni del sottosegretario "superbe" e ha invitato la Borletti Buitoni a occuparsi dei fatti suoi, perché il consiglio regionale toscano non ha bisogno di "richiami"; aggiungendo, con un tocco di maschilismo che l'intervista in questione "gli fa tenerezza" (sottinteso: le donne sono delle testoline sventate , soprattutto quando si occupano di politica). Quanto al merito, Parrini sbaglia: il Piano paesaggistico è co-pianificato tra Mibact e Regione per precisa scelta politica e la sua approvazione da parte del Ministero comporta una serie di semplificazioni nelle zone vincolate, importanti per i Comuni e importanti anche per chi ha fatto un credo di efficienza e snellimento delle procedure. Ma il Mibact e le Soprintendenze toscane, che hanno svolto un lungo e meritorio lavoro insieme ai funzionari regionali sulla vestizione dei vincoli e sulla disciplina del piano, non sono - come vorrebbe Parrini - dei "convitati di pietra": che il sottosegretario del Mibact con delega al paesaggio esprima la sua opposizione a modifiche del testo concordato sotto la spinta delle lobby del marmo non solo è legittimo, ma anche doveroso.

Parrini non fa tenerezza, piuttosto dispiacere a chi si ricorda di lui come ottimo sindaco di Vinci, attento alla tutela del territorio con piani regolatori "illuminati"; uno dei pochi sindaci toscani che ha non solo promosso un progetto di riqualificazione di una zona semi-degradata, ma lo anche brillantemente realizzato. Parrini dottor Jekyll, diventato come proconsole renziano improvvisamente Mr Hyde; con delusione di coloro (sono tra questi) che pensavano che, proprio per i suoi trascorsi, il segretario regionale del Pd potesse sostenere l'assessore all'urbanistica Anna Marson e orientare la politica toscana in difesa e promozione di ambiente e paesaggio: per un "modello di neoambientalismo toscano" che non è né di destra né di sinistra, ma semplicemente innovativo e all'altezza dei tempi.

Mentre le prime pagine dei quotidiani locali descrivono le “eccezionali” misure antiterrorismo adottate per “blindare” piazza San Marco in occasione del Carnevale...>>>

Mentre le prime pagine dei quotidiani locali descrivono le “eccezionali” misure antiterrorismo adottate per “blindare” piazza San Marco in occasione del Carnevale, il Sole 24 ore sobriamente ci informa che, in data 30 gennaio 2015, la sussidiaria italiana di Hines, un colosso immobiliare di Houston, ha perfezionato il subentro nella gestione del fondo Real Venice ed è finalmente sbarcata in laguna.

Il fondo era stato costituito nel 2009 dalla giunta del sindaco Cacciari e dato in gestione a Est Capital, società di investimento presieduta da Gianfranco Mossetto, già assessore al turismo e alla cultura della stessa giunta Cacciari. Il portfolio di Est Capital si è poi arricchito con l’acquisizione dei due grandi alberghi del Lido, Excelsior e Des Bains, e dell’Ospedale al Mare, venduto per finanziare la costruzione, mai avvenuta, di un nuovo palazzo del cinema.

Propagandato dalla giunta Cacciari come “strumento d’investimento innovativo”, il fondo non ha prodotto i profitti auspicati e nel 2103 Est Capital ha deciso di restituirlo al comune, che avrebbe di conseguenza dovuto “incamerare” una perdita di 41 milioni. Nello stesso periodo Est Capital ha anche abbandonato i progetti di valorizzazione del compendio dell’ospedale al mare che, dopo una serie di passaggi di proprietà, è stato ceduto dalla Cassa Depositi e Prestiti. Subito dopo l’acquisizione dell’area, la cassa depositi e prestiti ha siglato un accordo preliminare con Hines per “ promuovere un piano di rigenerazione del Lido che veda pubblico e privato impegnati insieme nel favorire un progetto esemplare di riqualificazione del territorio”. Dopo di che Hines ha accettato di subentrare anche in Real Venice.

Il punto di vista di Hines è perfettamente descritto da Manfredi Catella, azionista e amministratore delegato della società. “Venezia è una città straordinaria che può ritrovare nel Lido un motivo di orgoglio e di sviluppo economico. L’impegno che abbiamo assunto dopo oltre un anno di lavoro ci rende consapevoli della complessità e delicatezza del patrimonio storico del fondo Real Venice e della responsabilità nei confronti degli investitori, del ceto bancario e della comunità lidense e della città di Venezia.. l'isolamento del Lido diventerebbe il suo punto di forza. Un posto dove trionferebbero le auto elettriche, le biciclette, il verde e il benessere… Si tratta di un’operazione di riordino e di valorizzazione che può trasformarsi in uno degli esempi pilota più importanti in Italia di riqualificazione territoriale e turistica in collaborazione con il Governo, con Cassa Depositi e Prestiti e con le autorità ed istituzioni locali”.

Quindi, per la predisposizione di un piano di “rigenerazione del Lido che veda pubblico e privato impegnati insieme, Hines ha creato un gruppo di progettazione che comprende Christopher Choa, che si è occupato delle aree occupate dalle Olimpiadi di Londra ed è uno dei più accesi sostenitori di aerotropolis (una città attorno ad ogni aeroporto) e Vittorio Gregotti. Il gruppo è al lavoro.

Se per molti versi la vicenda assomiglia ai tanti casi di svendita e distruzione del patrimonio pubblico messi in atto dai nostri governanti, fornisce anche lo spunto per riflettere su alcune altre questioni, fra le quali il ruolo del commissario prefettizio e l’assenza di una amministrazione democraticamente eletta; la sinergia/complicità fra governo locale e governo nazionale, l’avallo delle archistar.

L’accelerazione che il processo ha avuto durante la gestione commissariale del comune è coerente con la volontà di rafforzamento del turismo annunciato dal Fondo strategico Italiano di Cassa depositi e prestiti, ed in particolare dal nuovo Fondo investimenti per il Turismo (che ha messo le mani a Venezia sulle ex Carceri di San Severo a Castello, sull'isola di Sant'Angelo della Polvere, l'isola che sorge il canale Contorta; e l'ex casotto di San Pietro in Volta) e non si può escludere che uno degli obiettivi del commissariamento fosse proprio “snellire e velocizzare” la privatizzazione della città.

Infine, il già ricco catalogo di grandi firme dell’architettura come fiancheggiatori delle multinazionali dell’investimento immobiliare si arricchisce di una pagina.

Al giornalista che lo intervistava, Gregotti ha detto “si tratta di luoghi e situazioni che conosco bene… il passo preliminare mi sembra quella di una riqualificazione urbanistica del Lido, sulla base delle sue mutate condizioni.. è necessario per il Lido pensare a una sorta di variante urbanistica a cui legare anche una nuova strategia di intervento, che comprenda, naturalmente, anche la riqualificazione dell’ex Ospedale al Mare, che sia recuperato a fini alberghieri o di servizio, in base a quello che si riterrà più opportuno”.

L’architetto non specifica chi dovrà decidere quello è più opportuno. Speriamo si ricordi di quanto ha scritto in “Venezia città della nuova modernità” (pubblicato nel 1998 dal Consorzio Venezia Nuova): “utilizzare un contesto storico eccezionale per costruire una vita normale e non normalizzare la città per omologarne la somiglianza a tutte le altre”.

Il testo base della legge sul consumo di suolo che il Parlamento sta approvando è un disastro. Adottato dalle commissioni riunite... >>>

Il testo base della legge sul consumo di suolo che il Parlamento sta approvando è un disastro. Adottato dalle commissioni riunite VIII e XIII della Camera riprende la cosiddetta proposta Catania (AC 2039). Il dispositivo fondamentale per il contenimento del consumo del suolo è basato sui seguenti tre passaggi:
1. la “riduzione progressiva, in termini quantitativi, di consumo di suolo a livello nazionale”. La riduzione è definita con decreto del ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali, di concerto con i ministri del Mibac e delle Infrastrutture e trasporti, avendo acquisito il parere della conferenza Stato Regioni (art. 3, c. 1);
2. la riduzione nazionale è in seguito ripartita fra le Regioni con deliberazione della Conferenza unificata (art. 3, c. 5);
3. infine, la riduzione del consumo di suolo dalla scala regionale a quella comunale con provvedimento delle Regioni e delle Province autonome (art. 3, c. 8).

Consideriamo uno per uno i tre passaggi. Penso che un diligente ministro delle Politiche agricole possa decretare senza particolari problemi l’entità della riduzione del consumo di suolo a livello nazionale. Una decisione che può avere una positiva ricaduta sull’opinione pubblica e non dovrebbe suscitare rilevanti ostilità.

Meno scontata è la decisione della Conferenza unificata che dovrebbe deliberare la ripartizione fra le Regioni del consumo di suolo stabilito a livello nazionale. Essendo certamente in maggioranza le Regioni meno sensibili alla salvaguardia del territorio non urbanizzato (eufemismo), la Conferenza potrebbe non deliberare entro i previsti 180 giorni dal decreto ministeriale. In tal caso dovrebbe intervenire un decreto del presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, dopo aver acquisito il parere della Conferenza unificata (art. 3, c. 6).

Lo stesso dovrebbe succedere se le Regioni non determinano, entro i successivi 180 giorni, la ripartizione a scala comunale del consumo di suolo stabilito per ciascuna regione. Anche in questo caso il potere sostitutivo è esercitato dal presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, avendo acquisito il parere della Conferenza unificata (art. 3 c. 9).

Questo è il punto. Per quanto ne so, almeno in materia di politica del territorio non è mai stato esercitato dallo Stato il potere di sostituire le Regioni, basta ricordarsi delle generalizzate e mai sanzionate inadempienze regionali in materia di piani paesistici ex lege Galasso. Per non dire dei piani paesaggistici ex Codice del paesaggio. Comunque, possiamo pure ammettere che il Consiglio dei ministri intervenga in via sostitutiva per attuare la ripartizione fra le Regioni del consumo di suolo stabilito a livello nazionale, operazione che, in fondo, di per sé, non fa direttamente male a nessuno.

Molto diverso è il caso delle Regioni che non provvedono a fissare per ciascun comune il limite al consumo di suolo. Qui si toccano concretamente e materialmente gli interessi fondiari e mi pare assai difficile che il Governo possa farsene carico. Si tenga conto che in Consiglio dei ministri siedono alcuni garanti storici delle ideologie espansionistiche, a cominciare dal ministro delle Infrastrutture. Non è certo per caso che il ministro Lupi ha pubblicizzato, come fosse un ammonimento, la sua proposta di riforma urbanistica (consumo del suolo illimitato) proprio quando prendeva corpo il dibattito sul contenimento della crescita.

Certamente, in via di ipotesi, non si può escludere che, un bel giorno, il Governo possa fissare i limiti all’espansione, Comune per Comune, delle Regioni inadempienti. Ma, ammesso che succeda, scatterebbe allora, puntualmente, l’inerzia dei Comuni che non intendono porre limiti all’edificazione. Insomma, non ci vuole molto per dedurre che la legge non sarà applicata proprio dove sarebbe più urgente. Oppure – il che è lo stesso – sarà applicata quando non ci sarà più suolo da sottrarre al cemento.
Come volevasi dimostrare.

Ed ecco, molto sinteticamente, altre tre osservazioni:

1) La proposta di legge 2039 definisce come consumo del suolo l’impermeabilizzazione (art. 2, c. 1, lett. b), determinando inutili e dannose conseguenze, come il ricorso alla compensazione (art. 2, c. 1, lett. g). Il parametro da utilizzare è invece il territorio urbanizzato, che comprende anche i parchi pubblici e altri spazi non impermeabilizzati ma costitutivi dell’organizzazione urbana. L’impermeabilizzazione è invece un fenomeno settoriale, a macchia di leopardo, estraneo alla logica dell’urbanistica. Chiarissimo, in proposito, l’intervento di Antonio di Gennaro in Contenere il consumo del suolo. Vedi anche la seconda proposta di legge eddyburg e la legge urbanistica regionale 65/2014 della Toscana.
2) Un altro gigantesco equivoco sta nell’attribuzione della materia contenimento del consumo del suolo (ma si dovrebbe ormai puntare all’azzeramento del consumo del suolo) al ministero delle Politiche agricole, che trascina con sé altri soggetti alieni come il Consiglio per la ricerca in agricoltura e per l’analisi dell’economia agraria. Senza togliere alcun merito all’ex ministro Mario Catania, la materia va restituita in primo luogo al Mibac cui compete il piano paesaggistico che è l’unico strumento vigente di assetto territoriale a scala regionale, strumento quasi del tutto ignorato nella proposta in esame (che con ciò contribuisce a legittimare l’irresponsabile inerzia del Mibac).
(3) Infine (ma si potrebbe continuare), i compendi agricoli neorurali periurbani (art. 5). Terribile, pericolosissima invenzione che agirebbe, al contrario di come si vuol far credere, proprio da fomite ai cambi di destinazione d’uso e al consumo del suolo.

Conclusione. Il testo sul contenimento del consumo del suolo in discussione alla Camera è, secondo noi, inemendabile. E va sostituito con la seconda proposta eddyburg , l’unica che, tra l’altro,consentirebbe convincenti risultati in tempi brevi.

Note
(1) Contenere il consumo di suolo. Saperi ed esperienze a confronto,a cura di Gian Franco Cartei e Luca DeLucia, Napoli 2014

La notizia che Renzo Piano progetterà il prossimo museo di Ercolano >>>
La notizia che Renzo Piano progetterà il prossimo museo di Ercolano è stata riportata dagli organi di stampa, nei giorni scorsi, con generale consenso e plauso corale per il magnate americano, David Packard III che finanzierà l'operazione, e la scelta dell'archistar. Anche se ai lettori più attenti non sarà sfuggito che nei commenti di qualche studioso si è insinuato qualche distinguo, Renzo Piano è monumento nazionale e non si discute. Non per i lettori di eddyburg, cui sono ben note le critiche documentate di cittadini e addetti ai lavori che hanno accompagnato operazioni discutibili, firmate dal senatore, come il grattacielo Intesa-SanPaolo a Torino e l'Auditorium "provvisorio" a L'Aquila.

Sulla figura di David Packard, filantropo americano innamorato dell'Italia e desideroso di contribuire alla salvaguardia del suo patrimonio, in anni recentissimi, dopo un decennio di oblio, si sono accesi riflettori e riconoscimenti.Ma negli anni precedenti, quando ad esempio Pompei era precipitata nel caos dei commissariamenti e dei crolli (2008-2011), da parte dello stesso Ministero dei Beni culturali si preferiva continuare ad ignorare il modello dell'Herculaneum Conservation Project. Il Progetto, finanziato dalla Fondazione Packard a partire dal 2000 per il recupero del sito vesuviano. La novità di quell'esperienza consisteva nel fatto che il finanziatore non si limitava a fornire le risorse economiche, ma affiancava gli organi di tutela italiani nelle loro attività scientifiche e gestionali con figure professionali da lui prescelte che, di concerto con i funzionari della Soprintendenza, elaboravano i progetti e li gestivano.

È un meccanismo che ha funzionato bene per molto tempo come dimostrano i risultati che ha prodotto, apprezzabili da tutti i visitatori dell'area archeologica, in termini di recupero e consolidamento di strutture e infrastrutture, di riapertura di domus e di una migliore conoscenza della città antica.

Da un paio d'anni, quasi improvvisamente, il modello Packard è diventato di gran moda anche ai piani alti del Mibact, quando, cioè, è ripartita la campagna del "privato è meglio", rinvigorita, dopo un lustro di tagli di bilancio selvaggi, dal mantra ossessivamente ripetuto secondo il quale "lo Stato non può fare tutto da solo, quindi, largo agli sponsors".La caccia al mecenate, sponsor, donatore (le emergenze politiche amano la flessibilità lessicale) che ne è derivata - da cui la strombazzatissima legge sull'Art Bonus - aveva bisogno di esempi virtuosi e la Fondazione Packard ha così conosciuto, nel nostro settore, il suo momento di gloria mediatica.

Ciò che non funzionava se non come caso di nicchia all'epoca dei Bertolaso boys e dei commissariamenti dei siti culturali - da Pompei a Roma, a L'Aquila - improvvisamente è diventato un modello esportabile senza eccezioni. E senza riflessioni.

In pochissimi (peraltro gli stessi ad averla apprezzata in tempi non sospetti) abbiamo cercato di sottolineare la particolarità di quell'esperienza, la cui riuscita dipende anche e soprattutto da elementi contingenti, non ripetibili, mentre sul piano del metodo istituzionale presenta, al contrario, qualche criticità.Permettere che a decidere delle sorti di un sito culturale pubblico sia un organismo misto, per metà costituito da persone che vi risiedono per volontà - e forza economica - di un soggetto privato è un azzardo che, come testimonia la grande maggioranza delle Fondazioni culturali in Italia, ha condotto a risultati pessimi. È, comunque, una delega di funzioni pericolosa sul piano scientifico e perdente su quello istituzionale (e costituzionale...). Anche nei casi che partono con le premesse migliori, come è questo di Ercolano.

A parte la scelta - un po' provinciale - dell'archistar di turno per la costruzione del futuro museo, questa vicenda rivela i rischi che si presentano quando il pubblico abbandona funzioni che, per complessità, è il solo a poter governare. Criticabile, in questo caso, è la decisione di costruire ex-novo - proprio ad Ercolano, e quindi in un contesto urbanistico di delirio edilizio - senza prendere in considerazione la possibilità di recupero di strutture già esistenti, fra cui quella creata proprio per ospitare l'antiquarium ercolanense.

Vicenda italica per eccellenza, quella dell'edificio museale costruito e collaudato nei primi anni '70, di buona qualità architettonica e poi abbandonato a se stesso, per decenni (Corriere del Mezzogiorno del 23/07/2010).Per non parlare di altri edifici di grandissima qualità, quali la Reggia di Portici, per i quali già esistono i progetti finalizzati ad un uso museale. Ma certo riadattare e recuperare l'esistente suona meno glamour per l'etichetta di "Museo Packard" rispetto ad un edificio creato ad hoc.
Altro aspetto criticabile deriva dall'evidenza che, ad Ercolano come altrove, su di un intervento non irrilevante per il contesto urbanistico come è la costruzione di un edificio museale, ci dovrebbe essere un processo un po' più articolato e allargato rispetto alla sola volontà, pur rispettabile, del magnate di turno. Anche perchè le risorse coinvolte, a partire dal suolo pubblico, per non parlare del contenuto del museo stesso, non derivano dalla munificenza del mecenate, ma sono, appunto, pubbliche.

L'episodio, pur marginale, del museo vesuviano, illustra bene alcuni aspetti della nostra contemporaneità: a partire dalle distorsioni che governano la gestione del nostro patrimonio culturale.
Oltre e forse ancor più che le risorse economiche, ciò che è stato programmaticamente affossato, in questi ultimi decenni, è l'autorevolezza del personale, dei suoi tecnici e funzionari: la vera forza motrice, la colonna vertebrale di un sistema complesso che, seppur bisognoso di aggiornamenti e riforme reali, non meritava una liquidazione frettolosa ed estemporanea quale è quella che sta avvenendo in questi anni. Pensare che il ricorso a privati taumaturghi possa risolvere la crisi in atto è illusorio e pericoloso, anche se purtroppo perfettamente in linea con l'attuale deriva sociale che vede noi cittadini sempre più disponibili a deleghe in bianco all'uomo della provvidenza, sia esso il mecenate, l'archistar o il premier di turno.

Al contrario, come altrove anche nel settore culturale occorre ricostruire una cultura istituzionale (anche solo amministrativa, ci contenteremmo) che sappia elaborare regole precise disegnando i perimetri d'azione dei diversi ruoli e presidiando lo svolgimento di progetti e iniziative con rapidità e competenza. Senza concedere o addirittura teorizzare, come accade sempre più spesso, invasioni di campo da parte del privato, anche animato dalle migliori intenzioni filantropiche: non per ottusa rivendicazione di un ruolo fine a se stesso, ma perchè è solo ad un determinato livello - quello del governo della cosa pubblica - che vi sono (dovrebbero) essere le competenze e le risorse per una visione d'insieme che sappia tenere insieme esigenze diverse e complesse.

Il ruolo del privato è importante e funziona benissimo, così come dimostrano le esperienze di altri paesi, quando affianca il governo pubblico allineandosi ad un percorso preventivamente e compiutamente definito da quest'ultimo, così come è accaduto, ad esempio, nel caso del restauro della Piramide Cestia a Roma o nella recentissima e democratica operazione di crowdfunding lanciata per il restauro del Battistero di Firenze. Là dove assume un carattere "indispensabile", diventa la spia di una falla che va recuperata in fretta, prima che diventi una voragine.

Non ci sono soluzioni alternative, se non velleitarie, alla costruzione di una politica culturale complessiva, all'interno della quale il rapporto fra pubblico e privato possa dispiegarsi con modalità più chiare e soprattutto più efficaci per la gestione del nostro patrimonio culturale di quanto avvenuto finora.In mancanza di un'elaborazione di questo tipo, capace di esprimere, innanzi tutto, cosa si vuole fare dell'insieme del nostro patrimonio culturale, con che mezzi, verso quali obiettivi, nessun Decreto Art Bonus - come sta puntualmente avvenendo - potrà innescare un meccanismo virtuoso di cooperazione fra pubblico e privato.

Nel frattempo, mentre aspettiamo l'emanazione di questa politica culturale, già sarebbe un successo l'allentamento della tendenza ormai prevalente, a concentrare le risorse - pubbliche o private - verso l'evento e l'inaugurazione, e, in generale, verso tutto ciò che si presta ad un rilancio mediatico.
Dalla grande mostra, all'arena dell'anfiteatro, al nuovo museo disegnato dall'archistar.

Per il momento, non resta che augurarci che il futuro museo di Ercolano, almeno, non sia #verybello.

Abbiamo ancora negli occhi gli orrori che ci sono stati ricordati in occasione del settantesimo anniversario della liberazione ...>>>

Abbiamo ancora negli occhi gli orrori che ci sono stati ricordati in occasione del settantesimo anniversario della liberazione, da parte dell’esercito sovietico, del primo dei campi di concentramenti e sterminio nazisti, quello di Auschwitz. In tale campo è stato prigioniero anche Primo Levi, il grande scrittore torinese, che era anche un chimico e che ha lasciato pagine indimenticabili sulla terribile esperienza. Un orrore nel quale sono state coinvolte, oltre alle SS, la milizia che aveva come simbolo il teschio della morte, ma anche molte persone apparentemente inappuntabili. I vari processi contro i responsabili dei crimini nazisti, svolti negli anni dal 1946 al 1948, hanno messo in evidenza che molte imprese commerciali e industriali hanno fatto soldi, e tanti soldi, fabbricando le strutture e gli apparati dei campi di sterminio e sfruttando le persone, donne e uomini, internate nei campi come mano d’opera gratuita in lavori durissimi, con poco cibo, al freddo.

Il nazismo aveva costruito una struttura industriale potentissima rivolta alla preparazione e poi allo svolgimento di una guerra che sarebbe durata cinque anni in tutta Europa, in Africa e negli oceani
del mondo. Gli uomini validi erano al fronte e l’apparato industriale doveva cercare operai portati via dai parsi occupati. Quando i tragici convogli ferroviari di prigionieri, ebrei, rom, partigiani, arrivavano nei campi di concentramento veniva fatta una selezione delle persone che avrebbero potuto lavorare allo sforzo economico. Questa mano d’opera, praticamente schiava, veniva ceduta alle industrie e agli agricoltori; esisteva uno speciale ufficio delle SS che si occupava della ”vendita” di questi lavoratori; i datori di lavoro pagavano un contributo alle SS per ogni schiavo. Oswald Pohl, il capo di questo speciale ufficio economico e amministrativo delle SS (WVHA), fu processato e giustiziato nel 1951.
Ci sono dettagliate descrizioni di questo vergognoso commercio di lavoratori impiegati nella costruzione di strade e gallerie, nelle cave, nei campi e nelle fabbriche. Un libro di William Manchester, I cannoni dei Krupp (1961), basato sugli atti del processo svoltosi a Norimberga contro questa potente famiglia, mostra come i proprietari della grande industria dell’acciaio, la potente famiglia Krupp (si proprio quella il cui nome è stato tramandato fino alla società che ha potuto acquistare le acciaierie di Terni e di Torino), fossero in grado di far funzionare a pieno ritmo i loro stabilimenti per la produzione di acciaio e di armamenti con il sangue e il dolore di migliaia di donne e uomini “acquistati” dai custodi dei campi di concentramento e sfruttati fino alla loro morte per sfinimento o malattie.
La I.G. Farben, un potente gruppo di industrie chimiche, aveva installato, nelle vicinanze del campo di concentramento di Auschwitz, per poter utilizzare gli internati del campo, un grande stabilimento per la produzione di gomma sintetica, partendo da calcare e carbone, e una fabbrica di benzina sintetica. Mano d’opera schiava veniva usata nella gallerie scavate nei giacimenti sotterranei di sale in cui erano costruiti e sperimentati i razzi V2. Il commovente film Schindler’s list racconta la storia vera dell’imprenditore Oskar Schindler, fabbricante di munizioni per l’esercito tedesco, che corruppe funzionari delle SS per ottenere deportati ebrei da far lavorare nel suo stabilimento al fine di sottrarli alla morte. Ma le imprese facevano affari anche con i campi di concentramento e si contendevano gli appalti per la costruzione delle baracche, delle camere a gas e del cianuro con cui venivano assassinati i deportati che “non servivano a niente”.
Sono sopravvissuti i verbali dei sopralluoghi di tecnici e operai che andavano nei campi per la manutenzione dei forni crematori. In questi giorni “della memoria” non ho visto proiettato un altro bel film, Vincitori e vinti, del 1961: un giudice (il bravissimo Spencer Tracy) di uno dei processi di Norimberga, quello contro i giudici nazisti, si sforza di capire come il popolo tedesco, il popolo che aveva generato tanti giganti della filosofia, della letteratura, della scienza, della musica, potesse aver assistito in silenzio agli orrori che si svolgevano tutto intorno.

La risposta generale è: «non sapevamo nulla» e la vedova (Marlene Dietrich) di un alto ufficiale nazista, cerca di spiegare (il film è ambientato nel 1948) che il popolo tedesco dopo la fine della guerra aveva il diritto, anzi il dovere, di dimenticare e di ricominciare a vivere. Si era alla vigilia (giugno 1948) del blocco sovietico della città di Berlino e il mondo sembrava alle soglie di una terza guerra mondiale, questa volta fra americani e sovietici, ex-alleati nella sconfitta del nazismo e gli americani avrebbero “avuto bisogno” dei tedeschi. Effettivamente, all’infuori dei pochi condannati a morte, tutti gli altri condannati per crimini nei vari processi, sono tornati presto in libertà e hanno ricoperto cariche importanti nell’economia mondiale.

La politica militare ha delle sue strane regole (im)morali; americani e russi, vincitori della Germania nazista non hanno esitato a reclutare i migliori ingegneri, tecnici e scienziati del paese vinto per impiegarli nei loro sforzi industriali in vista di un possibile scontro fra gli ex-alleati. Von Braun, il progettista delle V2 tedesche che avevano distrutto interi quartieri di Londra nella nemica Inghilterra, negli Stati Uniti progettò i razzi per l’aeronautica militare diventando apprezzato consulente delle industrie americane. Anche questo da ricordare.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

Siamo nel 2015, dichiarato dall’ONU “Anno internazionale del suolo”. Cosa sta per propinarci la fertile e instancabile attività di innovazione legislativa dell’attuale maggioranza?...>>>

Siamo nel 2015, dichiarato dall’ONU “Anno internazionale del suolo”. Ma cosa sta per propinarci la fertile e instancabile attività di innovazione legislativa dell’attuale maggioranza? Un disegno di legge su “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”( C. 2039 Governo) il cui testo base più recente, adottato il 20 gennaio scorso dalle Commissioni riunite VIII (Ambiente, territorio e lavori pubblici) e XIII (Agricoltura), contiene una temibile ulteriore occasione per l’aggressione delle campagne e degli spazi aperti: i “compendi neorurali periurbani”.

Il disegno di legge riparte nel suo impianto generale da due DDL formulati da precedenti governi, peraltro non approvati: la “legge Catania” e il successivo DDL del governo Letta. Dei due disegni di legge eddyburg ha già a suo tempo sottolineato alcune fragilità, riconoscendo comunque al ministro dell’Agricoltura del governo Monti il merito di avere per la prima volta affrontato una questione cruciale lungamente disattesa dalla politica e dalla cultura urbanistica mainstream; e al governo Letta l’altrettanto importante merito di avere bloccato altre ben più criticabili proposte legislative presentate in Parlamento e di aver proposto una norma transitoria coraggiosa di efficacia immediata: il blocco triennale del consumo di suolo.

L’attuale governo disponeva insomma di una buona piattaforma da cui ripartire, per affrontare finalmente - anche se con un ritardo assolutamente censurabile rispetto ad altri paesi europei - e con strumenti normativi adeguati l’inarrestabile consumo di suolo che affligge il nostro territorio.

Cosa intende invece proporre, nell’anno della difesa del Suolo, il ddl in questione? Non solo non fa propria la norma transitoria proposta a suo tempo dal governo Letta, che sarebbe stata davvero opportuna a fronte dei dati più che allarmanti sui ritmi di consumo di suolo e sulle continue calamità ‘naturali’ che colpiscono il paese grazie al dissesto idrogeologico determinato dalla incessante impermeabilizzazione dei suoli; ma propone una pericolosa novità che può delegittimarne l’intera struttura.

Nella testo base, all’articolo 5, introduce infatti, sposando un lessico - che appartiene a tutt’altro filone di pensiero, di iniziative legislative e di politiche urbanistiche locali oggi assai diffuse in ambito internazionale - i sedicenti “compendi neorurali periurbani”: una locuzione accattivante cui fa seguito un contenuto temibile e controintuitivo. Leggendo il titolo dell’articolo 5, il pensiero infatti corre subito ai territori di frangia urbana/metropolitana in cui il ‘neoruralismo’ si traduce, o potrebbe tradursi, in piani e progetti di suolo coerenti con un principio di tutela degli spazi aperti: uno scambio virtuoso fra città e campagna che garantisce l’accesso a prodotti di qualità da parte dei consumatori urbani, e valorizza le filiere corte con prospettive positive per il reddito agricolo e l’economia.

Ma non è così, perché di tutt’altre funzioni sono ricettacolo i “compendi neorurali” del disegno di legge.

Al comma 1 si scrive che «Al fine di favorire lo sviluppo economico sostenibile del territorio, anche attraverso la riqualificazione degli insediamenti rurali locali, le regioni e i comuni, nell’ambito degli strumenti urbanistici di propria competenza, possono prevedere la possibilità di qualificare i predetti insediamenti rurali come compendi agricoli neorurali periurbani. Presupposto dell’attribuzione di tale destinazione urbanistica è il recupero edilizio, inclusa la ricostruzione, unitamente al recupero del patrimonio agricolo e ambientale».

Già il termine “compendio” impensierisce, poiché evoca una sommatoria, una sinossi e non un criterio di unitarietà degli interventi rispetto a uno scopo ambizioso ben identificato. Il termine è infatti già oggi utilizzato per alcuni progetti di recupero di edifici e spazi abbandonati dalla produzione agricola nella campagne lombarde, per lo più riutilizzati per la realizzazione di uffici che svolgono attività in settori che nulla hanno a che vedere con il contesto rurale.

In secondo luogo, in assenza di una definizione statistica nazionale (quale è ad esempio quella adottata dall’INSEE in Francia), manca totalmente nella legge una precisa identificazione del territorio ‘periurbano’. Se, come si evince dal comma 1, sono da ritenersi come tali tutti i territori extraurbani di tutti i comuni, l’uso del termine appare del tutto inappropriato e generico; anzi inaccettabile. Se invece, a titolo di esempio, periurbane fossero da considerarsi soltanto le prime corone di città di notevole dimensione (ad esempio, le nostre Città Metropolitane), che sono peraltro quelle più aggredite dallo sprawl che letteralmente sta divorando gli ultimi e residuali territori agricoli, sarebbe opportuno stabilire che siano i governi metropolitani ad esprimere un parere di compatibilità sulle destinazioni d’uso nei “compendi”; nei contesti urbani policentrici, potrebbero essere le Unioni di Comuni.

Ma, soprattutto, è il termine “neorurale” che viene completamente travisato e interpretato in maniera davvero fluida, per non dire ipocrita. Tralasciando la letteratura sociologica, il termine neorurale viene oggi utilizzato, in ambito di politiche agricole innovative (ma anche di politiche urbanistiche e di tutela ambientale), per identificare le nuove forme di produzione agricola di alta qualità strettamente integrate al mercato urbano che possono costituire un formidabile presidio contro la urbanizzazione estensiva e contro il modello liberistico che autorizza e perpetua lo sprawl insediativo. È questa l’esperienza di molti paesi europei, ma anche di alcune aree metropolitane nordamericane.

E’ di queste forme di produzione e riproduzione del territorio agricolo che si occupa l’Articolo 5? Niente affatto, perché al di là dei creativi neologismi in libertà, basta scorrere il testo dell’articolato per indignarsi. Dall’elenco delle destinazioni d’uso ammesse nei compendi neorurali si apprende che nel territorio periurbano sarebbero ammesse prioritariamente e indiscriminatamente destinazioni d’uso tipicamente urbane, di fatto consentendo l’ulteriore espulsione di attività deboli (in primis ovviamente le produzioni agricole) e mettendo ulteriormente a rischio la naturalità residua.

Si legge infatti al Comma 5: “ I compendi agricoli neorurali periurbani, in conformità alle disposizioni degli strumenti urbanistici, possono avere le seguenti destinazioni d’uso (NB: si noti anche l’ordine prescelto nell’elencazione):

a) attività amministrative e direzionali;
b) servizi ludico-ricreativi;
c) servizi turistico-ricettivi;
d) servizi dedicati all’istruzione;
e) servizi medici e di cura;
f) servizi sociali;
g) attività di vendita diretta dei prodotti agricoli od ambientali locali
h) altre attività non comprese nell’elenco ma considerate rilevanti per lo sviluppo economico sostenibile del territorio.

Al Comma 6 si escludono invece le seguenti destinazioni d’uso:

a) residenziale, ad esclusione delle necessità abitative connesse alle attività lavorative svolte nel compendio agricolo;
b) produttiva di tipo industriale o artigianale.

Per tutte le attività ammesse sarebbe dunque possibile, se la legge venisse approvata in questa stesura, ottenere titoli edilizi abilitativi attraverso rigenerazione o demolizione e ricostruzione di fabbricati agricoli esistenti; e, di fatto, realizzare anche quote di residenziale per le funzioni previste nell’elenco. Da notare inoltre che, rispetto alla versione immediatamente precedente del testo, che era del 22 dicembre 2014, sono state eliminate “le attività che completano la filiera della produzione e distribuzione agricola” che avrebbe invece avuto senso mantenere in una prospettiva di rilancio qualificato dell’agricoltura.

Tralasciamo ogni commento al comma 4, dove si invita a ricostruire sui fabbricati agricoli dismessi e demoliti realizzando “tipologie, morfologie e scelte materiche ed estetiche tali da consentire un inserimento paesaggistico adeguato e migliorativo rispetto al contesto dell’intervento”. Si vuole suggerire di piazzare vecchi carretti e aratri davanti a stalle e fienili trasformati in “rural offices”? Gli esempi già non mancano nella campagna lombarda.

Insomma: all’insegna del contenimento del consumo di suolo e della rigenerazione, si offriranno nuove opportunità all’insediamento di funzioni tipicamente urbane nei territori agricoli di frangia già pesantemente aggrediti e sfigurati da un’urbanizzazione estensiva che ne ha drammaticamente compromesso funzione produttiva e naturalità?

È così che il governo Renzi si prepara a festeggiare l’anno del suolo…en attendant la ‘legge Lupi’ per celebrarlo ancora meglio?

Fino ad oggi l'Expo di Milano, che aprirà i battenti nella prossima primavera, ha attirato l'attenzione del pubblico italiano e internazionale... >>>

Fino ad oggi l'Expo di Milano, che aprirà i battenti nella prossima primavera, ha attirato l'attenzione del pubblico italiano e internazionale per gli episodi di corruzione legati alla costruzione dei suoi edifici e spazi espositivi. E ancora oggi, su quell'evento, si concentrano polemiche sui tempi di realizzazione dei vari padiglioni e soprattutto su attese di arrivi, di incassi, di afflussi di pubblico e di denaro. Poco o nulla dei contenuti che dovrebbero animare la mostra, se non gli accenni al cibo, tema nel quale non c'è italiano che non si senta un maestro. Eppure l'Expo dovrebbe riguardare anche l'agricoltura, perché senza di essa non si da cibo. In questo 2015, che sarà l'anno del suolo, si dovrebbe anzi ricordare che non c'è agricoltura senza terra. E qualcuno ha cominciato a farlo, prendendo sul serio l'occasione che l'Expo può offrire per un salto di qualità nella comprensione dei problemi agricoli ed alimentari del nostro tempo, per rendere popolari questi temi presso il largo pubblico e le nuove generazioni. Il 13 e il 14 di gennaio, a Firenze, su iniziativa di Vandana Shiva l'associazione Navdanya internazional, presieduta da Caroline Lockart, ha organizzato un seminario sul tema del suolo, con studiosi di varie discipline e nazionalità. L'incontro aveva una finalità editoriale: preparare un Manifesto - simile a quelli sui Semi, o sulla Conoscenza, che negli anni passati sono circolati a Terra madre, a Torino - intitolato Terra viva. Il suolo come bene comune. Il Manifesto verrà tradotto in varie lingue e messo a disposizione di un pubblico internazionale.

Il fitto dibattito di questi due giorni ha fatto emergere un originale quadro interpretativo dell'attuale stato di disordine dell'economia mondiale. L'economia, non soltanto quella agricola si fonda su un originario misconoscimento: il suolo è valutato come un contenitore vuoto che si può riempire a piacimento, con le nostre attività, un supporto neutro su cui si può produrre e edificare tutto. Ma esso è un organismo vivente, è un ecosistema su cui si basa la vita sulla terra. Un bene scarso e non facilmente rigenerabile, distribuito in maniera ingiusta e disuguale. Lo sanno milioni di contadini nel mondo, che ne hanno troppo poco per sfamare i loro figli, che se lo vedono sottrarre dalle attività minerarie o dall'avanzare del cemento. In Italia ce ne rammentiamo ogni tanto, quando le alluvioni sconvolgono città e territori ricordandoci che le piante proteggono dall'erosione, che i campi verdi, anche incolti, sono spugne che assorbono la violenza dell'acqua piovana. Ma i successi dell'economia industriale hanno creato l'illusione dell'onnipotenza tecnologica. Le alte rese che si sono succedute nei raccolti, nelle agricolture occidentali, sopratutto a partire dagli anni '50 del '900, hanno radicato l'idea che tutto è possibile, indipendentemente dal suolo, dalla natura e dai suoi equilibri.

Anche oggi, il favore di cui godono le piante Ogm presso alcune figure ed ambiti scientifici, è fondato su questa illusione tecnologica. Eppure oggi abbiamo dati che mostrano la fragilità di questa presunzione. I successi dell'agricoltura industriale, l'abbondanza di cibo a prezzi contenuti delle nostre società opulente sono solo in parte dovuti all'innovazione tecnologica. O per meglio dire, l'innovazione tecnologica è parte di un paradigma più complessivo in cui il ruolo gigantesco che svolge la natura viene cancellato. Pensiamo all'innovazione genetica nel campo dei semi. Come ha ricordato di recente Emanuele Bernardi ne Il mais “miracoloso”(Carocci, 2014), grazie al Piano Marshall gli USA introducono in Italia e nelle campagne europee i semi di mais ibrido, che hanno successo per la loro elevata produttività. Quel mais, naturalmente, metterà ai margini e farà scomparire tutte le varietà locali, con i loro caratteri speciali, e soprattutto costringerà gli agricoltori a comprare ogni anno i semi per la semina. Ma il successo del mais ibrido non è merito esclusivo dell'innovazione genetica. I raccolti più abbondanti si ottengono se si usano abbondantemente i concimi chimici, l'acqua, poi i pesticidi, i diserbanti, ecc che le corporation americane produrranno con ritmo crescente trovando nelle campagne europee un mercato sterminato. I semi ibridi sono stati il cavallo di Troia per scalzare un modello secolare di agricoltura.

Ma ciò che è rimasto a lungo nascosto è che il miracolo dei semi era dipendente dal crescente uso della concimazione chimica. Lo storico francese Paul Bairoch, ha ricostruito le stupefacenti cifre statistiche che svelano l'arcano della nostra prosperità alimentare. Tra i primi del 900 e il 1985 i rendimenti del grano son cresciuti nei vari paesi d'Europa di 3 o 4 volte. Ma nello stesso periodo il consumo di fertilizzanti chimici nelle campagne della Germania è aumentato 9 volte, 17 volte in Italia, 20 in Spagna. Quella fertilità non veniva dai suoli d'Europa, ma dai fosfati estratti in Marocco o nelle isole del Pacifico, dall'azoto prodotto industrialmente col petrolio pompato in qualche angolo del mondo. L'intero modello della nostra economia estrattiva, lineare, non ciclica, che consuma una volta per tutte, senza nulla restituire alla terra, è nelle poche cifre fornite dal geologo americano D.A. Pfeiffer nel saggio Eating fossil fuels. (2006).Negli anni in cui si realizza la cosiddetta rivoluzione verde, tra il 1950 e il 1985, la produzione mondiale del grano conosce un incremento che sarebbe sciocco non considerare senza precedenti. Essa aumenta del 250%. Ma il consumo di energia fossile negli stessi anni tocca un picco di aumento del 5000%. L'aumento di produzione e l'innovazione tecnologica di tutto il settore (concimi, macchine, pompaggio elettrico dell'acqua,diserbanti, pesticidi) si è fondato su un consumo gigantesco di energia, sulla dissipazione di risorse non rigenerabili del suolo e del sottosuolo.

Tale economia lineare svela oggi i suoi limiti e annuncia le sue minacce. Il suolo fertile comincia ad apparire scarso, scompare la falsa infinità della natura ed ecco esplodere il fenomeno del land grabing. Milioni di ettari di terra, dell'Africa, del Brasile, del Vietnam vengono accaparrati non solo dalla Cina, ma anche dagli Emirati Arabi, dalla Corea del Sud., dall'Arabia Saudita. Non si comprano semplicemente le derrate per sfamare le popolazioni, si acquisiscono direttamente i suoli trascinandoli nel gioco del mercato capitalistico mondiale. L'eterno imperialismo si riaffaccia in nuove forme ed esso alimenta scontri tribali, conflitti, guerre. Oggi appaga il senso comune e l' ipocrisia dell'Occidente ricondurre i sanguinosi conflitti in corso alle divisioni religiose. Non solo si dimentica il fanatismo dell'Occidente, chiamato crescita, ma non si vuol vedere che quello sanguinoso, ad esso speculare, è il travestimento ideologico con cui il mondo degli sconfitti, schiacciato dalle violenze dell'economia globalizzata, dà senso alla sua ribellione.

Il fondo nascosto delle guerre - senza voler sottovalutare il peso di religioni e ideologie, anche quelle occidentali - sta nel fatto che l'economia lineare avanza in forme predatorie. Lo sviluppo, la crescita economica, vanno divorando le risorse del pianeta e un numero troppo grande di uomini e donne ne riceve solo danni. Ma il suolo non appartiene solo ai paesi ricchi: quelli - per dirla con George W.Bush che polemizzava con le prescrizioni del Protocollo di Kyoto - il cui «stile di vita non è negoziabile». E dunque la crescita della popolazione, seguendo il sistema dell'economia lineare, prepara conflitti di inimmaginabile violenza.

Occorre dunque rovesciare il paradigma, scuotere dalla fondamenta la cultura dominante, fondata sul successo dei risultati immediati e sulla cancellazione delle fonti originarie della ricchezza.La storia dell'economia contemporanea è infatti fondata su una successione stratificata di occultamenti. L'agricoltura nasconde lo sfruttamento dell'energia fossile alla base dei suoi successi produttivi, l'attività dell'industria a sua volta tiene celate le immense quantità di materia e risorse che essa trasforma in merci, la finanza mette in ombra l'economia reale su cui si fonda esaltando la crescita autonoma dei suoi rendimenti virtuali. Ma l'intera economia nel suo complesso nasconde che il punto di partenza di tutto è la terra, il suolo.

Scopo del Manifesto Terra viva, è dunque mostrare la via dell'economia circolare. La Terra è un sistema chiuso.Occorre restituire quello che le si sottrae. L'agricoltura non può continuare all'infinito a surrogare la fertilità del suolo con la concimazione chimica. Già essa contribuisce per circa il 40% al riscaldamento climatico. Mentre è noto che la conservazione della fertilità del suolo gioca un ruolo rilevante nella cattura del carbonio e dunque nella riduzione dei gas serra. Occorre incrementare la nuova agricoltura già all'opera, non solo in campagna, fondata sulla piccola impresa biologica, ma anche in città. Impiantare orti e alberi nelle aree dismesse, nelle periferie, nelle terrazze, nei giardini. E occorre riportare alla terra i residui della nostra cucina, gli scarti organici della vita cittadina, ridando fertilità alla terra senza ricorrere alla chimica, incrementando la cattura di carbonio nel suolo. In questo esempio di economia circolare aumento della fertilità e della ricchezza, risparmio energetico, diminuzione della dissipazione sono tutt'uno. Per questa via l'agricoltura biologica, fondata sulle piccole aziende non è solo un settore economico che dà cibi più sani e rispettosi dell'ambiente, ma costituisce un frammento di economia circolare a cui tutti i cittadini possono concorrere, grazie alla selezione dei propri rifiuti, riconoscendosi - come' stato per secoli, per milioni di cittadini d'Italia e del mondo – i fertilizzatori del suolo da cui proviene il cibo che essi non producono.

Assieme ai nuovi calendari e alle pessime notizie d'oltralpe, l'inizio d'anno ha conosciuto anche un rinfocolarsi delle polemiche sul Progetto Fori >>>

Assieme ai nuovi calendari e alle pessime notizie d'oltralpe, l'inizio d'anno ha conosciuto anche un rinfocolarsi delle polemiche sul Progetto Fori, scaturite dalla relazione conclusiva della Commissione che Ministro dei Beni culturali e Sindaco di Roma avevano costituito sul tema della sistemazione dell'area archeologica centrale. La relazione collaziona molti e diversi spunti derivati da studi precedenti, in particolare dalle Linee Guida per la Sistemazione dell'area monumentale centrale del 2008 e dai progetti elaborati dalla Soprintendenza Archeologica statale, oltre che dal Piano prodotto dall'Assessore Caudo, presentato nella primavera del 2014.

Da quest'ultimo, che a sua volta esprimeva compiutamente, in questo senso, uno dei punti qualificanti del programma elettorale di Marino, la relazione riprende giustamente l'idea di uno spazio urbano aperto, pienamente inserito nel flusso della vita quotidiana, senza recinzioni e quindi da intendersi non come Parco Archeologico in senso tradizionale, ma luogo - di valore storico, archeologico, estetico inestimabile - destinato alla libera fruizione di cittadini e visitatori.
Conseguente a questa impostazione è il corretto suggerimento di restituire l'area del foro romano al libero accesso, così come era stato per alcuni anni, fino al 2004.
Un'altra indicazione del tutto sottoscrivibile deriva dall'auspicio di una completa ridefinizione del progetto del Centro Servizi collegato al Colosseo, al momento caratterizzato da un livello architettonico, funzionale e di impatto inaccettabili.
Altre considerazioni, pur condivisibili, non riescono invece ad assumere un'articolazione tale da superare il livello del mero buon senso: la necessità di soluzioni non semplicistiche (ma non meglio specificate), di miglioramento del decoro urbano, di superamento di una concezione elitaria tramite una comunicazione moderna, di un approccio partecipato, ecc.

Nel suo complesso la relazione non restituisce una visione organica che possa inquadrare il Progetto nelle sue finalità e in un contesto metodologico compiutamente definito, impegnata come si mostra in più punti, nello sfibrante esercizio della conciliazione degli opposti anche a costo di spericolate acrobazie verbali e talora contraddizioni palesi. Esito non sorprendente se si considera che - per colpa di chi l'aveva designata: Franceschini e Marino - la Commissione era priva o carente di competenze fondamentali, dalla trasportistica, all'economia, dalla museologia all'ingegneria strutturale (in un'area ad altissimo rischio idrogeologico).

La più vistosa delle contraddizioni è rappresentata sicuramente dall'ambiguità che caratterizza il destino di via dei Fori Imperiali: sottolineando la mancanza attuale oltre che di risorse, di "progetti di alto profilo" (ma non era l'obiettivo stesso della Commissione?), la relazione dilata ad un futuro indistinto l'ipotesi dell'eliminazione della strada, negandone, in ogni caso, la necessità quale elemento costitutivo del Piano Strategico ed anzi riservando a future soluzioni innovative - evidentemente non alla sua portata - la conciliazione delle due esigenze - poste sullo stesso piano culturale - "di ricomposizione dei Fori e mantenimento dell'asse". Conciliazione che si incrina subito dopo, laddove si propone invece lo scavo del Foro di Cesare che, inesorabilmente, "richiederebbe lo smantellamento del bordo occidentale della via".

La rimozione concettuale del problema di via dei Fori Imperiali produce altre evidenti incongruenze: così ad esempio, mentre si dichiara in più punti la necessità di restituire a cittadini e visitatori una comprensione chiara dei resti monumentali, si sorvola sul fatto che proprio la stradone d'asfalto è uno degli elementi di disturbo più evidenti per una lettura spaziale corretta dell'intera area dei Fori imperiali: vero e proprio muro dissonante, cesura posta a frammentare un'area continua, ben più invasiva di quella via Alessandrina di cui si propone, proprio per questi fini, lo smantellamento.
E le passerelle o viadotti di varia natura che la relazione addita come soluzioni preferibili sono, al contrario, ulteriori barriere che si frappongono alla creazione di quello spazio di libera circolazione da tutti auspicato, soluzioni accettabili in luoghi chiusi di modesta estensione, incongrue in un'area di questo tipo.

Non sorprende, in questo quadro, che l'unico componente della Commissione che potesse vantare consolidate competenze sul Progetto Fori, Adriano La Regina, abbia messo a verbale - e poi ribadito in altre sedi - il proprio dissenso proprio su questo aspetto.

Una contraddizione palese è poi rappresentata dall'ipotesi di moltiplicazione degli organismi decisionali e di controllo: per risolvere il groviglio amministrativo e gestionale che grava su di un'area con competenze suddivise fra troppi attori, si propone addirittura di triplicare le strutture di coordinamento (cabina di regia, commissione di coordinamento, organismo di gestione) creando così un sistema di scatole cinesi, nel migliore dei casi inutile, quando non palesemente peggiorativo dell'efficacia operativa e in conflitto con i compiti istituzionali di Soprintendenza e Comune.

Per altri aspetti la relazione si rivela un'occasione persa - ma, ripeto, la responsabilità principale è dell'inettitudine della politica a decidere e a scegliere - laddove, ad esempio, cita a più riprese la necessità dell'innovazione - quasi un'ossessione lessicale, raramente esemplificata - ignorando poi, per quanto riguarda alcuni fondamentali aspetti quali il tema della partecipazione e della comunicazione, il dibattito più aggiornato in tema di public archaeology e Critical Heritage studies e sorvolando così su di un problema cruciale quale il rapporto, in uno spazio come questo, fra le diverse e potenzialmente conflittuali esigenze di differenti categorie di utenti e le criticità del turismo di massa, elemento di dirompente novità rispetto al Progetto Fori degli anni '80.

Al di là delle difficoltà insite in operazioni di questo tipo, vi è però, a giustificarne l'esito complessivo, una ragione politico concettuale evidente: la relazione esordisce con un'inaudita celebrazione dell'attuale PRG romano, che, al contrario, rappresenta una delle cause primarie dell'attuale situazione di degrado urbanistico della capitale (su eddyburg, qui), un macigno che ne sta ostacolando i faticosi tentativi di risanamento edilizio e sociale.

Il Progetto Fori è, da questo punto di vista, il simbolo di una visione urbanistica, politica, culturale diametralmente opposta: impossibile inquadrarlo in un simile contesto, ne è irriducibile, a meno di non stravolgerne l'identità. Anche per questo, per il suo carattere di fiaccola di resistenza nei confronti di un'urbanistica, quale quella incarnata dal PRG capitolino del 2008, che ha svenduto gli spazi pubblici e si è mostrata incapace di proporre una visione di città che aspiri a perseguire il miglioramento nella qualità dell'abitare e del vivere dei suoi cittadini, il Progetto Fori è oggi ancor più indispensabile.

Perchè nel campo dei diritti, come ci ricordava, da ultimo, Ken Loach, bread and roses sono inscindibili.

«Probabilmente, se qualcosa merita di essere rammendato, è prima di tutto una seria interdisciplinarità >>>

«Probabilmente, se qualcosa merita di essere rammendato, è prima di tutto una seria interdisciplinarità, che non vuol dire (come succede con certe riviste) invitare qualcuno per un commento collaterale »Questa conclusione di Fabrizio Bottini (Postilla a "Periferie: una rinascita senza ghetti", di Vittorio Gregotti, 5.01.14) che dà la precedenza alla «seria interdisciplinarità» in margine a una discussione sulle periferie («rammendare», Renzo Piano) mi ha fatto riflettere, messo da parte il tema delle periferie, a cominciare dall’esperienza nella facoltà di architettura di Milano. Nel lontano passato, nella nostra vecchia scuola del dopoguerra e in seguito fino alla prima contestazione degli studenti nel 1963, non casualmente avvenuta nel corso di urbanistica tenuto da Luigi Dodi, indiscussa era l’indipendenza di ogni insegnamento sia nei contenuti che nel metodo. Era assicurato, per tranquillità dei professori titolari, l’isolamento di ogni disciplina poiché mancava un vero programma di facoltà volto a costruire una figura di architetto dotato di una cultura professionale capace di riunire le diverse competenze separate in un unicum di ordine superiore.

Quando toccò a noi di insegnare, l’enorme ritardo dell’università di fronte al nuovo rapido mutamento sociale che esigeva conoscenze di inusitata ampiezza, si doveva «eccedere» nel dotare di complessità e ricchezza informativa la proposta didattica: soprattutto nell’urbanistica «contando sulle proprie forze», magari accettando tranquillamente l’accusa di essere rischiosamente totalizzanti e non prudentemente specializzanti. D’altra parte prosperavano, ancora, ambienti di sola, cieca, antistorica specializzazione, per di più a basso livello. Mancava invece un argine sicuro, costruito col contributo di tutti, contro la semplificazione dei problemi, contro l’abitudine a non mettere in relazione un problema con un altro, contro l’ignoranza dei processi economico-sociali che soprintendono alla costruzione del territorio e della città. Contando sulle proprie forze si è cercato di costruire almeno un filare di sacchetti di sabbia.

L’architettura, l’urbanistica, l’architettura degli interni, il restauro e la storia avevano bisogno l’una dell’altra, potevano rompere i propri recinti e guidare gli studenti verso più ampi orizzonti della conoscenza. Per parte sua l’urbanistica doveva aprirsi alle scienze umane (economia, geografia umana, sociologia…) non tanto quale contributo di «esperti» per così dire esterni, quanto per propria capacità di introiettarne l’essenziale: allo scopo di trasformarsi da mediocre tecnica a sapere molteplice e unitario in grado di agire conformemente ai mutamenti continui del reale. Avevamo letto in pochi, alla prima pubblicazione in Italia nel 1964 grazie a Feltrinelli, il saggio di Edgar Percy Snow Le due culture (1959 in Inghilterra). La radicale divisione fra cultura umanistica e cultura scientifica sembrava insuperabile. Snow conduceva un’intensa battaglia affinché esse dialogassero, ma il risultato fu che, dopo un momento in cui «almeno si sorridevano freddamente attraverso l’abisso che le separava, la cortesia è venuta meno – scriveva – e si fanno le boccacce». La scuola aveva la sua parte di colpa, come «l’eccessiva specializzazione degli esami universitari di Oxford e di Cambridge».

Non rinunciammo al nostro compito, cercando di completare in noi stessi l’acquisizione di una cultura composta. L’interdisciplinarità era applicabile da subito, per gli insegnanti di urbanistica (la nuova urbanistica «aperta») e di architettura disponibili al confronto, cominciando dall’unità fra l’analisi e il piano o progetto e dalla compartecipazione delle due discipline non solo nel disegno urbano. Su queste basi fondammo un laboratorio denominandolo Formazione storica, uso e progetto del territorio e impostammo la didattica come intreccio fra l’una e l’altra categoria.

Nonostante i tentativi fatti allora nell’università e qualche riflesso all’esterno raccolto da pochi urbanisti e architetti (i migliori), ora l’urbanistica e l’architettura vivono quanto mai del tutto separate. La prima non ha affatto concluso quel processo di introiezione delle scienze umane che sperimentammo a scuola; la seconda sembra dominata da alcuni autori internazionalisti (stupidamente detti «archistar» dalla stampa corrente e dalla pubblicità) stretti alleati delle più potenti aziende immobiliari per poter realizzare enormi, mostruosi oggetti completamente estranei ai contesti sociali: come fossero derivati da modellini-soprammobili da ingrandire cinquecento volte. (Se c’è un’altra architettura seriamente propensa a ricercare, insieme all’urbanistica, soluzioni ai problemi anziché rappresentare solo se stessa, l’ombra dei suddetti King Kong la oscura, la cancella).

Ad ogni modo è necessario ancora, oggi, selezionare i temi che l’ottica territoriale e urbana (anche nel senso della scala) impone all’attenzione e, ricuperando senza remore la portata dell’interdisciplinarità e della molteplicità, trattare in modo originale la questione del piano-progetto del territorio e della città. L’esame della realtà e della cultura dominante dimostra che quanto a costruzione di un habitat specchio di una migliore qualità della vita in particolare dei ceti subalterni ben poco o nulla è successo. Anzi, il passato è meglio del presente, il futuro potrebbe sancire il pluridecennale disastro.

La trasformazione capitalistica del territorio, nel processo storico, mostra che a dati modi e rapporti sociali di produzione corrisponde una certa configurazione generale. Ogni problema posto nello spazio e nel tempo marca il rapporto che una determinata formazione economico-sociale-politica instaura col territorio, diverso da quello di un altro periodo storico o di un altro luogo. Quanto più si è dato uno sviluppo delle forze produttive, delle forze sociali, dei rapporti di produzione tanto più profonda è stata la modificazione dei paesaggi (vedi il saggio di Lucio Gambi, I valori storici dei quadri ambientali, nella Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1972, I vol. I caratteri originali, pp.5-60).

In Italia la conformazione dello spazio risente del manchevole riformismo della borghesia e della «razza padrona». Altrove ciò è avvenuto, pur senza violazione sostanziale dei processi territoriali compatibili con i rapporti capitalistici. Anche il mutamento del rapporto fra redditi da capitale e redditi da lavoro a favore di questi ultimi, per esempio al tempo dello statuto dei lavoratori, del nuovo contratto all’Alfa Romeo (1963)…, o la variazione di peso fra le forze politiche localmente e nazionalmente non hanno comportato una modificazione apprezzabile del «codice» di appropriazione classista (direi padronale) del territorio. La cultura urbanistica e architettonica e la cultura degli amministratori locali non sapevano indicare traguardi chiari e superiori, inoltre hanno mancato gli obiettivi più scontati: varare più leggi, approvare più piani dedotti da quelle, gestire un’urbanistica in mero senso applicativo di norme e indici quantitativi (standard).

Così un’urbanistica riduttiva anziché aperta come l’avevamo provata nella scuola e un’architettura estraniata da qualsiasi contestualità sopradisciplinare non potevano risolvere nessuno dei problemi territoriali-sociali che la comunità si trovava di faccia. Il piano (come il progetto «edilizio») normativo,«regolare», rappresentazione di un illusorio egualitarismo distributivo avulso da una realtà che si manifesta in termini socio-economici e territoriali di dominio/dipendenza, egemonia/subalternità, ricchezza/povertà, diveniva contributo inconsapevole a coprire le contraddizioni esistenti: quando non a falsificare le componenti quantitative e qualitative dello sviluppo o a facilitare la riproduzione o la restrizione della forza lavoro secondo le esigenze del capitale, e l’espansione o la riduzione dei consumi popolari.
Se si adottano leggi e norme nuove – e in Italia ciò non è avvenuto nei periodi cruciali in cui altri paesi capitalistici vi hanno provveduto, dallo scorcio dell’Ottocento agli anni Trenta – senza che nascano nuove culture degli urbanisti, degli architetti, degli amministratori pubblici, delle masse (oso dirlo) e si confrontino attorno ai nodi irrisolti, ne consegue che non sono superati né l’inefficacia del gestionismo ritenuto oggettivo né l’angustia del «buon governo» né certo burocratismo del controllo edilizio. Sicché non si riesce a fondare le basi di un progetto di territorio davvero conforme ai bisogni (saputi o «insaputi») della grande maggioranza della popolazione.

Se trent’anni fa gli abitanti di Venezia potevano ancora sperare di essere in grado di resistere all’occupazione della loro città ... >>>


1. La fiaba dell’esodo.

Se trent’anni fa gli abitanti di Venezia potevano ancora sperare di essere in grado di resistere all’occupazione della loro città, ora è chiaro che abbiamo perso la guerra. Non si capisce, quindi, il tono sconsolato degli articoli apparsi in questi giorni sulla stampa quotidiana che, come ad ogni inizio d’anno, ci informano che Venezia continua a “perdere” abitanti. “Purtroppo, l’esodo è inarrestabile e inesorabile”, dicono, alimentando la rassegnata convinzione di trovarsi di fronte a un fenomeno naturale e incontrastabile.

In realtà, non c’è niente di naturale nel ricambio selettivo della popolazione, un fenomeno che ha stravolto molte città, ma che a Venezia ha assunto le dimensioni di una vera e propria deportazione di massa, ed è il risultato di politiche intenzionalmente perseguite le cui tappe sono ampiamente documentate.

Si è cominciato con la distruzione e/o la svendita dell’edilizia pubblica, che hanno dissolto uno dei più ingenti patrimoni di edilizia popolare esistenti in Italia, frutto delle lotte operaie condotte all’inizio del secolo scorso. Tra i molti esempi, il cosiddetto “progetto Giudecca” è un caso da manuale di come una pubblica amministrazione possa operare per consentire alle agenzie immobiliari di mettere un intero sestiere sul mercato con lo strillo pubblicitario che “è come stare a Brooklyn e vedere Manhattan”! La indiscriminata chiusura di pubblici servizi e una tassazione punitiva per chi abita, associata ad una evasione fiscale protetta se non incoraggiata per gli altri, hanno poi reso sempre più faticoso e costoso per un normale cittadino continuare a vivere a Venezia.

Adesso siamo nello stadio finale e i vincitori si apprestano a far fuori i pochi rimasti. Da qualche tempo, una serie di imprese sponsorizzano i bidoni che i cittadini veneziani pagano per raccogliere una parte delle imprecisata massa di rifiuti giornalmente prodotti dai turisti. Per lo più, i manifesti contengono banali avvisi pubblicitari. Nel caso dell’immobiliare CERA, però, si nota un’evoluzione del messaggio che, da semplice informazione, si è trasformato in aperta caccia alle case degli ultimi residenti. Un dito puntato ci minaccia e ci avverte che casa nostra è ricercata, WANTED!

Allo stesso tempo, ci bombardano con finti dibattiti sul numero chiuso, sul ticket di ingresso, sul turismo sostenibile, quando basterebbe confrontare due titoli di giornale, rispettivamente del 1987 “E Venezia stabilisce il numero chiuso” e del 2013 “Si pensa al numero chiuso di turisti”, per troncare tali ipocrite discussioni e riconoscere che numero chiuso, ticket e tasse di soggiorno, in realtà sono stati istituiti, ma solo per colpire i residenti.

2. Il ricambio selettivo della popolazione

L’unica cosa che possiamo fare adesso è adoperarci affinché la storia della guerra persa non venga scritta dai vincitori. Per questo è necessario comprendere e far comprendere che quello che è successo ai veneziani succede a tutti coloro che si trovano a vivere su una terra che può valere di più, a condizione che gli abitanti vengano spostati.

Nell’elenco dei lacci e laccioli che, secondo gli investitori ed i governi che ne curano gli interessi, devono essere rimossi per favorire la “crescita”, la voce “abitanti” non compare (per il momento) in modo esplicito. Ma, in un’epoca in cui i cittadini sono trattati come un ostacolo all’esercizio del potere e vengono programmaticamente privati dei diritti di cittadinanza, non stupisce che gli abitanti siano considerati un ostacolo allo sviluppo delle economie urbane. Dalla rapina delle terre fertili a danno dei contadini di Africa, Asia, America Latina, alla distruzione di villaggi e comunità per la realizzazione di infrastrutture, allo sgombero di abitanti il cui potere di acquisto non è coerente con il tipo di consumatore auspicato per il loro quartiere e città, ogni giorno gruppi di popolazione devono abbandonare i loro territori per consentire un più intenso sfruttamento delle risorse che vi si trovano.

Rendersi conto della pervasività di tale fenomeno aiuta a capire il vero significato dello slogan, ormai diventato parte del lessico comune, secondo il quale le città devono competere per catturare investitori e clienti. Uno slogan accattivante quanto ingannevole, perché, per rimanere nella metafora agonistica, non dice che non tutte le città competono nello stesso girone. Al contrario esiste una rigida gerarchia tra i concorrenti, a seconda che si tratti dei centri finanziari di livello mondiale, dei luoghi dove si assumono le decisioni politiche che contano e di quelli dove si concentra la produzione dei beni che dobbiamo consumare. E in questa suddivisione internazionale del lavoro fra le città, a quelle italiane il ruolo di entertainment machine, parchi divertimenti a disposizioni delle multinazionali del tempo libero, il cui sfruttamento richiede una popolazione diversa da quella presente.

Qualche anno fa Michele Vianello, vicesindaco della giunta Cacciari e strenuo sostenitore di «un’economia del cambiamento», rivendicava il merito di aver assunto iniziative per far arrivare gli «abitanti ideali di cui ha bisogno Venezia per rinascere». I nuovi abitanti che «inseguiamo vanamente da tempo”, aggiungeva, “non sono genericamente il ceto medio, ma quelli che Richard Florida definisce la nuova classe creativa e Robert Reich gli analisti simbolici”.

Se non è chiaro chi siano gli analisti simbolici nella visione di Vianello, certo è che deve trattarsi di clienti con potere d’acquisto e disponibilità a spendere superiore a quelle di un normale abitante. Solo così si può raggiungere l’obiettivo che nei manuali di economia urbana si chiama the highest and best use of land e che nella versione nostrana è diventata l’equazione turismo come petrolio della nazione.

Nel Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza, Jean Jacques Rousseau afferma: «il primo che, recintato un terreno, ebbe l’idea di dire questo è mio...>>>

Nel Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza, Jean Jacques Rousseau afferma: «il primo che, recintato un terreno, ebbe l’idea di dire questo è mio e trovò persone cosi ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile». A Venezia, questo vale anche per l’acqua, con l’avvertenza di sostituire alla categoria delle “persone ingenue” quei dirigenti del Magistrato alle Acque e quei pubblici amministratori che, negli ultimi anni, hanno trattato la laguna come una superficie da suddividere in lotti a disposizione degli investitori. Non sempre il risultato di tali operazioni è stato l’imbonimento, cioè la creazione di nuovo suolo calpestabile. Una volta recintato, però, lo spazio acqueo, teoricamente bene pubblico inalienabile, è, di fatto, sempre diventato proprietà privata.

MARINA SANTELENA, la darsena che offre “l’affascinante glamour della regina del mare”, è un esempio particolarmente significativo di questo processo, non solo per la dimensione, circa 4 ettari, ma perché la vicenda che ha portato alla sua realizzazione racchiude molti elementi emblematici della recente storia locale, tra i quali:

- una calamità naturale, cioè la tromba d’aria che nel 1970 ha distrutto il cantiere Celli situato a ridosso dello stadio e della chiesa di Sant’Elena;

- alcuni anni di disinteresse e abbandono da parte delle pubbliche amministrazioni, che hanno trasformato una zona storicamente adibita ad attività produttive in una cosiddetta “area sottoutilizzata sul bordo della laguna”;
-il gioco delle parti fra Comune, Regione, Demanio e Magistrato alle Acque, che si è concluso con una assai generosa concessione al privato e le cui tappe principali possono essere così riassunte:

Ora, all’interno della darsena, protetta da un gigantesco frangiflutti, possono essere ormeggiate 300 imbarcazioni dai 10 ai 30 metri, mentre all'esterno, ai bordi del grande canale di navigazione che porta dritto alla Bocca di Lido, potranno trovare posto 18 imbarcazioni dai 40 agli oltre 100 metri di lunghezza (qualcuno ha anche suggerito di spostare qui parte della stazione marittima per accogliere le grandi navi!).

La costruzione del frangiflutti, una lunga linea di cemento bianco, non ha sollevato contrarietà da parte delle autorità preposte alla tutela del paesaggio. Lungo 340 metri e largo 5, si prevede di “arredarlo” con una copertura che, riparandolo dal sole, lo trasformerà nel “salotto galleggiante privilegiato dall’high society mondiale” (detto in altri termini in uno splendido bar all’aperto di 1500 metri quadri, senza tassa di plateatico).

Nemmeno le istituzioni culturali e le università, che a Sant’Elena periodicamente organizzano workshop di progettazione, hanno trovato alcunché da ridire. Forse vedono il frangiflutto come un’installazione artistica, un felice esempio di “completamento” della città incompiuta,

L’unico con le idee chiare è l’amministratore delegato di Marina Fiorita, la società che oltre a Marina Santelena gestisce una darsena al Cavallino, secondo il quale «queste strutture rappresentano solo il primo passo di un più vasto programma di riconversione territoriale, fronte laguna, in posizione davvero strategica e altamente panoramica».

Il paesaggio di corruttela e intreccio criminale che domina da anni la vita politica e amministrativa di Roma, a essere onesti, non dovrebbe stupirci...>>>

Il paesaggio di corruttela e intreccio criminale che domina da anni la vita politica e amministrativa di Roma, a essere onesti, non dovrebbe stupirci più di tanto. E' sufficiente avere buona memoria delle cronache politico-affaristiche degli ultimi 20 anni per capire una verità elementare: la corruzione, nella vita del nostro paese, non è l'eccezione, ma la norma. Lo dicono, peraltro, le statistiche internazionali. Essa emerge ogni qualvolta la magistratura scoperchia la crosta della legalità formale e mostra il corso reale degli affari. E' sufficiente affondare un po' l'unghia su qualunque superficie e zampilla l'umore purulento.

Costituirebbe tuttavia un errore interpretare il problema grave ed enorme nella sua normalità ricorrendo a categorie morali di interpretazione. Perché, come dovrebbe essere ovvio, la corruzione e la predazione sistematica del bene pubblico, sono un problema eminentemente politico. Possiamo chiederci perché tutti gli scandali esplosi negli ultimi anni vedono coinvolti uomini politici, rappresentati di partiti, eletti nelle amministrazioni locali? Perché nell'affare fraudolento, direttamente o indirettamente, è protagonista o ha comunque un ruolo di rilievo la figura del partito politico? Dovremmo ricordarci che per oltre tre decenni, nella seconda metà del '900, in quasi tutte le democrazie occidentali, i partiti politici sono stati, come diceva Gramsci, gli «organizzatori della volontà collettiva». Essi fornivano coesione sociale, rappresentanza, voce alle masse dentro lo stato. Erano dei grandi collettori d'istanze sociali e per ciò stesso educatori di legalità, insegnavano il valore del conflitto sociale come strumento collettivo di espressione e di emancipazione. La lotta sociale educa gli individui a pensarsi come corpo sociale e a trovare in essa, e non nelle scorciatoie personali, o nelle pratiche truffaldine, la via per far valere le proprie ragioni e i propri diritti. Com'è noto, da tempo, questa realtà ha fatto naufragio.

I partiti di massa sono stati divorati al loro interno dai poteri economico-finanziari. In Italia – ha scritto Luigi Ferrajoli nel II vol. dei suoi Principia juris (Laterza, 2007), un testo ricchissimo di indicazioni riformatrici – la perdita della dimensione di massa dei partiti, deriva anche «dalla crescente separazione dei partiti dalle loro basi sociali: per la loro progressiva integrazione nelle istituzioni pubbliche fino a confondersi con esse e a svuotarle e a spodestarle; per la loro trasformazione da associazioni diffuse sul territorio e radicate nella società in vaghi e generici partiti d'opinione, per la loro perdita di progettualità politica e di capacità di coinvolgimento ideale e di aggregazione sociale; per la loro sordità, il loro disinteresse e talora la loro ostilità ai movimenti sociali e alle sollecitazioni esterne». Si comprende, dunque, perché sono sempre di meno i cittadini che credono di poter far valere i propri diritti (lavoro, studio, casa, salute) attraverso le vie legali della pressione sulle proprie rappresentanze politiche: la diserzione crescente dall'esercizio del voto lo prova a sufficienza. Mentre aumenta il numero di chi cerca soluzioni informali e private ai propri crescenti problemi. Questa è da tempo la realtà di gran parte del Mezzogiorno, ma ormai costituisce l'humus ideale su cui prospera e si estende, in tutta Italia, un clientelismo di nuovo tipo, talora con propaggini criminali più o meno ampie.

Si potrebbe obiettare che nelle altre grandi democrazie al declino dei partiti di massa non ha corrisposto un pari tracollo delle strutture della legalità. L'obiezione, fondata, rinvia a specificità di lungo periodo della nostra storia nazionale, che qui non si possono neppure sfiorare. Ma si possono fornire spiegazioni sufficienti pur rimanendo nell'ambito della storia recente. Ebbene, come possiamo separare il quadro di devastazione civile e morale di Roma, offertoci dalla inchiesta giudiziaria in corso, da quanto è accaduto in Italia negli ultimi 20 anni? Come si possono separare i nomi di Carminati e Buzzi dalla cultura del sopruso e della illegalità profusa a piene mani per oltre vent'anni dal potere politico e di governo di Silvio Berlusconi? L'Italia, unico paese in Occidente, è stata lacerata da un conflitto di interessi senza precedenti e senza paragoni con altri stati civili del mondo. L'esecutivo della Repubblica è stato ripetutamente messo al servizio dei problemi giudiziari del presidente del Consiglio e degli interessi delle sue aziende, il parlamento è stato ripetutamente umiliato, gli interessi personali e quelli pubblici resi indistinguibili. E messaggi di impunità sono stati lanciati per anni agli imprenditori, con l'abolizione del reato di falso in bilancio, l'esortazione e la pratica dell'evasione fiscale, agli speculatori edilizi con i condoni e la libertà di saccheggiare il territorio, agli evasori fiscali con condoni benevoli per il rientro dei loro capitali. Quale altro incitamento alla frode dovevano ricevere gli italiani, addirittura dai vertici del potere politico, per perdere ogni fede – già scarsa per antica debolezza di disciplinamento civile – nelle regole comuni della nazione? Quale altro lasciapassare dovevano ricevere i gruppi affaristici e criminali per intraprendere le loro pratiche, in cooperazione con gli elementi più spregiudicati dei partiti?

Rammentare brevemente questo devastante passato consente di guardare con altri occhi alla reazione di Renzi di fronte ai fatti di Roma. Egli ha detto che è stanco di indignazione e che vuole i fatti. Siamo stanchi anche noi, ma innalzare le pene per chi corrompe e sequestrare i beni di chi delinque, non è sufficiente. E' certo apprezzabile in sé, ma ancora una volta mostra l'abilità del presidente del Consiglio di trasformare qualunque problema in occasione di pubblicità elettorale. La trovata, che placa un po' l'ira delle moltitudini e seda il moralismo dozzinale dei nostri media, nasconde una ben più grave realtà sostanziale. Renzi, emerso alla ribalta come un novatore, capace di riscattare la nazione dai suoi vecchi vizi è in realtà un continuatore.

E' anche lui un uomo della palude. La “rottamazione”, ottima trovata di innovazione propagandistica, gli è servita da strumento per regolare i conti nel suo partito e prenderne il comando. Non certo per innovare le vecchie regole della politica. Gli avversari utili, anche quelli con la fedina penale sporca, anche i corruttori della nazione, non andavano toccati. Forse che Renzi, diventato segretario del PD, ha spinto il partito verso un maggior radicamento sociale e territoriale? Ha portato un'etica nuova, una ventata di democrazia e trasparenza tra dirigenti, militanti, elettori? Una volta al governo ha forse messo mano alla situazione di illegalità in cui vive il paese da oltre 20 anni, con il conflitto di interessi di Berlusconi? Ha ripristinato il reato di falso in bilancio? Al contrario, ha compiuto l'operazione più vecchia e consunta della storia politica italiana: accordarsi con l'avversario. Ha siglato un patto segreto con un criminale, condannato in via definitiva nei tribunali della Repubblica. Ha continuato a tenere contatti con il plurinquisito Denis Verdini, ha messo mano alla struttura della costituzione, pur non essendo egli stato eletto, forzando un Parlamento che è espressione di una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte.
E allora quale messaggio di legalità viene al Paese da tali scelte? Quale incitamento a continuare come prima arriva a tutti i faccendieri d'Italia ? Non dovrebbe essere evidente che Renzi, proprio lui, il grande novatore , a dispetto del suo banale nuovismo parolaio, è l'anello di congiunzione che tiene in vita la “vecchia Italia”, autorizza la conservazione del fondo limaccioso della vita nazionale? Non dovrebbe esser chiaro che la politica incarnata dal presidente del Consiglio si fonda su una immoralità costituitiva e irrimediabile, che guasta lo spirito pubblico Egli infatti non solo rimette in mare aperto l'iceberg dell'illegalità italiana, Berlusconi e i suoi, ma conduce una politica fondata sulla menzogna. Finge una politica popolare continuando di fatto la strategia ispirata dai poteri finanziari internazionali. Quella politica che ha generato la Grande Stagnazione, che continua a distruggere il nostro tessuto industriale, soffoca la vita delle amministrazioni comunali, fa dilagare disoccupazione e povertà in tante aree del paese, mette in un angolo Università e ricerca. Renzi finge opposizione ai vertici di Bruxelles, ma lo fa con le parole, perché, da vecchio esponente del ceto politico, bada prima di ogni cosa alla conservazione del suo personale potere. Non va allo scontro con i forti, picchia chi ha a portata di mano, sindacati e lavoratori, accusandoli di essere vecchi, per renderli docili agli investimenti finanziari. E'allora, quale fiducia può rinascere nei cittadini, quale valore viene ridato a legalità e trasparenza in un paese in cui lo stato, prima ancora dei cittadini, parla il linguaggio della menzogna?

Articolo inviato contemporaneamente al manifesto

Difesa della natura, dell’ambiente, del paesaggio e dei beni culturali; sembra che ci sia tanta voglia di difendere, attraverso >>>

Difesa della natura, dell’ambiente, del paesaggio e dei beni culturali; sembra che ci sia tanta voglia di difendere, attraverso associazioni, movimenti, congressi, qualcosa che si potrebbe definire il “bene comune”, la base stessa della vita: il cielo limpido, il verde, gli animali allo stato naturale, la purezza delle acque. Il nemico è rappresentata dalla violenza della caccia, dall’invasione turistica dei boschi e delle coste, da inutili strade, da fabbriche che gettano nel cielo i loro fumi tossici, da discariche di rifiuti. Tale violenza genera frane e alluvioni, mutamenti climatici, morti premature, ma anche perdita di altri valori come la bellezza, il silenzio, il paesaggio, quello che il poeta inglese John Ruskin (1819-1900) ha definito il «Volto amato della Patria». Questa frase è anche il titolo del libro scritto dallo storico Luigi Piccioni dell’Università della Calabria, appena pubblicato dall’editore di Trento.

Piccioni comincia col mettere ordine fra le finalità dei vari movimenti protezionistici focalizzando l’attenzione sui movimenti per la difesa della natura e del paesaggio, arrivati in Italia molto presto, nella metà dell’Ottocento, sull’onda di opere apparse in altri paesi europei e negli Stati Uniti. I vari volumi del libro Il cosmo: descrizione fisica del mondo del grande geografo tedesco Alexander von Humboldt (1769-1859), apparsi nel 1845-1862, furono subito tradotti in francese e in italiano dall’editore Carlo Turati di Milano. Quasi contemporaneamente appariva la traduzione italiana del libro L’uomo e la natura scritto dall’americano George Marsh (1801-1882) che descrive le modificazioni della natura apportate dalle attività umane, osservate nei suoi lunghi viaggi in Europa, nel Mediterraneo e nell’amata Italia dove è morto.
Piccioni parte da questi e altri autori per esaminare gli effetti che i loro scritti hanno avuto sugli intellettuali di un’Italia da poco riunificata. Il paese, in gran parte ancora agricolo, è ricco di risorse naturali e di bellezze paesaggistiche che stanno per essere assaltate da una avida modernizzazione. Per far conoscere e salvare queste bellezze si ha, subito, dalla metà dell’Ottocento, un fervore di iniziative e pubblicazioni, come la rivista mensile L’Illustrazione Italiana (dal 1873), e il libro Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali, la geologia e la geografia fisica dell’Italia (1876) dell’abate Antonio Stoppani (1824-1891). Nel 1863 era nato il Club Alpino Italiano, una associazione di amanti della montagna e di escursionisti, e nel 1894 è nato il Touring Club Ciclistico Italiano, oggi Touring Club Italiano, col proposito di far conoscere l’Italia attraverso un turismo che sa usare la bicicletta, il nuovo agile e popolare strumento di mobilità. Il Touring Club comincia subito a pubblicare delle guide alle varie parti d’Italia, delle carte geografiche e una Rivista mensile, il cui numero 1 porta la data del 1895. Piccioni parla giustamente di questa fase come di una «pedagogia patriottica» di una «alfabetizzazione geografica del Paese».
Con la diffusione delle conoscenze dell’Italia appare anche che molte bellezze naturali e il paesaggio rischiano di essere compromessi da una affrettata modernizzazione. Piccioni passa in rassegna le molte iniziative dei primi quindici anni del Novecento intese a sollecitare interventi legislativi per la protezione della flora e della fauna e di alcune zone sensibili e di particolare valore come la Pineta di Ravenna. La speranza di una legge, simile a quella del 1909 sulla tutela dei monumenti, viene vanificata dalla prima “Guerra mondiale”. Nella “nazione ferita e impoverita” che esce nel 1919 dalla guerra studiosi e intellettuali riprendono subito a combattere in difesa dei valori naturalistici e paesaggistici e riescono ad ottenere nel 1922 la legge che istituisce il Parco del Gran Paradiso e la istituzione dell’Ente Parco di Abruzzo. Non riesce invece a decollare il progetto di un tanto auspicato “Catalogo delle bellezze naturali” la cui redazione è interrotta nei primi anni venti del Novecento. Piccioni analizza poi le attività ridotte del movimento naturalistico nel periodo fascista, una lunga agonia con barlumi di luce, e la ripresa degli interessi naturalisti dopo la Liberazione.
Il vivace fermento dei decenni precedenti ha comunque lasciato tracce profonde tanto che nella Costituzione del 1948 è stato inserito l’articolo 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Con la ricostruzione, il miracolo economico e una affrettata e talvolta brutale industrializzazione altre tempeste si sono abbattute sul “volto amato della Patria”: inquinamenti, discariche, erosione del suolo e sarebbe stato necessario arrivare al 2001 per avere una integrazione della Costituzione in cui figura la parola “ambiente”. Viene quindi a proposito il libro di Piccioni che ricorda l’entusiasmo e l’impegno della fase pionieristica e costituisce uno stimolo per una vivace ripresa dei grandi movimenti civili per la difesa dei beni comuni come la natura e il paesaggio. Purtroppo si tratta di un “libro sommerso”, di quelli che, pur avendo un alto valore culturale e scientifico, non hanno circolazione nelle librerie commerciali, né attenzione nei chiacchiericci televisivi. Ai lettori, specialmente agli insegnanti, posso solo raccomandare di leggerne alcune pagine nelle loro scuole. Ci sono dentro testimonianze di rispetto e amore per la natura e per il proprio paese e il ricordo di coloro che hanno reso più civile l’Italia.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzoggiorno
© 2025 Eddyburg