Sintetizzando centinaia di qualificati (peer reviewed) studi a carattere più monografico o di caso su città, aree metropolitane, e regioni urbanizzate del globo, un articolo proposto dalla rivista online PLoS ONE ipotizza alcune fondate conclusioni:
Una consolazione e un monito per noi europei: il continente complessivamente è fra quelli dove si sprecano meno superfici per usi urbani. A maggior ragione, non solo occorrerebbe continuare in questa direzione, ma soprattutto si dovrebbe evitare di scimmiottare (con la solita scusa dello sviluppo) culture e impianti normativi che hanno già combinato tanti guai altrove. Di seguito è possibile scaricare il pdf dell’articolo, con link agli articoli della Bibliografia e per le immagini e tabelle al sito PLoS ONE (f.b.)
Immaginiamoci: siete un ministro responsabile per l’edilizia e le trasformazioni territoriali di uno stato pieno di problemi urbani, primo fra tutti quello dello slum terrificante che tutto ingoia, quello africano tremendo, che popola gli incubi di chiunque se ne sia occupato anche solo per un istante. E che fate, dalla vostra poltrona ministeriale? Un grande piano, naturalmente, come si addice al ruolo.
Eccolo qui, il grande piano per “risolvere il problema dello slum”: basta non parlarne più, e occuparsi d’altro. In certi paesi dominati dalla telecrazia rincoglionita, la tecnica consiste nello sventolare chiappe o terrificanti delitti nazionalpopolari, invece di parlare di cose normali, tipo problemi, anche cose positive, perché no?
In Africa a quanto pare funziona ancora il metodo magico, di evocazione degli spiriti ancestrali, gli animali della savana. Ognuno ha le veline che si merita insomma.
Il nostro ministro, che per la cronaca si chiama Daniel Wani (così se lo incontrate per strada vi complimentate per il paradossale senso dell’umorismo), sta seduto sulla sua poltrona in Sudan, e ha inventato l’urbanistica magico-bestiale, commissionando a qualche gran burlone come lui il grande piano di risanamento virtuale dello slum. Sotto forma, evidentemente classicissima per i pataccari che si rispettano, di new town.
Nove città nove, sparse in tutta la fascia meridionale del paese, ciascuna a breve distanza dal sopracitato slum (forse per vedere meglio la differenza), e ciascuna, secondo i calcoli degli economisti, con un costo che assomma a cinque o sei volte l’intero bilancio nazionale.
Bestiale! E bestiale soprattutto per la forma che questa bella pensata assume, appunto a evocare magicamente gli spiriti sacri della savana in forma di lottizzazione, destinazioni d’uso, eleganti viali che seguono le linee di qualche ciclopico guizzante selvaggio muscolo pronto a spingere la nazione tutta verso un luminoso futuro.
Basta guardare le tavole, con tanto di “piano regionale” e studio di maggiore dettaglio, o addirittura di Area Protetta (leggere per credere) in mezzo alle gambe della giraffa. Sarà perché la guardano anche i bambini?
Dal 28 settembre a metà dicembre sarò a Nairobi, Kenia. Da qui mi propongo di inviare agli amici degli appunti di viaggi. Penso che sia utile innanzitutto spiegare perchè sono qui, e a questo dedicherò i miei primi appunti.
Sono qui per affrontare da vicino il caso studio della mia ricerca di dottorato, che ha un titolo lungo e “potente”: Hegemonic imaginaries of the cities of the South. Semiotic and material practices of the discourse of multilateral aid organizations (Tesi di dottorato in Progettazione urbanistica, Facoltà di architettura, Università di Firenze).
Cerco di sentitizzarne gli obiettivi. In ultima analisi vorrei cercare di capire quali interessi, economici, politici e sociali sono sottesi all’idea di città auspicata dalle più influenti agenzie multilaterali di sviluppo. Lo farò attraverso l’analisi e la comparazione dei discorsi sulla città prodotti dalla Banca Mondiale e dalle Nazioni Unite. Le domande che mi pongo sono sostanzialmente quattro:
1. Come si costituisce il “discorso” sulla città e quali sono i discorsi nodali che emergono?
2. Quale immaginario emerge e diventa oggi dominante?
3. In che modo, e attraverso quali attori, istituzioni, e circostanze, la produzione di egemonia si realizza?
4. Quale relazione esiste tra la realtà e gli immaginari?
Parto dalla considerazione che attraverso appellativi diversi (sustainable, livable, ecc.) e diversamente elaborati da ciascuna agenzia, la città diventa il contenitore di particolari strategie, che sanciscono o proibiscono determinate espressioni e modi individuali e collettivi. E lo fanno soprattutto attraverso la produzione di “sapere” che viene veicolato attraverso il discorso, e tramite il meccanismo dell’aiuto allo sviluppo, che è un complesso sistema di principi, regole, pratiche, procedure che si è sviluppato a partire dalla fine della seconda guerra mondiale.
Il titolo vorrebbe riassumere in poche parole questi concetti:
- l’egemonia (una forma di potere che si realizza senza la forza ma attraverso il consenso, usando lo strumento potente dell’ideologia) si manifesta anche attraverso la produzione di spazio, che sia esso materiale o semiotico;
- la dimensione semiotica dello spazio - cioè il modo in cui esso è rappresentato, problematizzato, normato, progettato, ecc. - ha un ruolo determinante nel legittimare un particolare modo di concepire lo spazio e la società attuale e quella futura, diventando la fonte e la base di riferimento non solo dei discorsi successivi, ma anche delle politiche e degli interventi delle organizzazioni governative e non, delle agenzie e delle imprese private internazionali operanti nel settore urbano dei paesi del sud del mondo;
- l’ideologia è connessa all’organizzazione delle istituzioni dominanti, al potere e alla realtà sociale che esse descrivono, rappresentano e modificano.
Ho trascorso i primi 3 anni del dottorato ad analizzare i documenti e le pubblicazioni riguardanti la città o settori di essa (l’housing in particolare) che queste due agenzie hanno emanato dagli anni ’70 del secolo scorso ad oggi, e soprattutto a comprendere il contesto storico nel quale questa produzione discorsiva si origina e si sviluppa.
Se non fosse altro, da questa tesi certamente ricavo una migliore comprensione del mondo in cui vivo, soprattutto a livello di sistema globale: i libri di storia e di economia politica hanno dovuto diventare il mio pane quotidiano, insieme a quelli sulle relazioni internazionali, e non ultimi quelli di urbanistica.
L’altro grosso sforzo che ho dovuto fare è stato quello di dotarmi di strumenti concettuali (come l’analisi critica del discorso e la sociologia della conoscenza) necessari per comprendere quello che andavo studiando e quello che avrei analizzato durante il caso studio. Questo è stato certamente il percorso più difficile, ma anche più soddisfacente e ricco. Oggi, a distanza di tre anni, mi sento intellettualmente più aperta, più profonda, più attenta alle sfumature, e più dubbiosa. Ritornerò su alcuni elementi di questo apparato concettuale strada facendo.
Forse l’unico aspetto su cui mi sento di avere meno dubbi è quello del dove posizionarmi nel fare ricerca, perchè sento di avere più consapevolezza non solo del where I stand (“dove sto”) , ma soprattutto del what I stand for (“per cosa”).
Oggi più di ieri sono consapevole che:
"There is no area of our lives including the very boundaries of our imagination which is not affected by the way that society is organised, by the whole operation and machinery of power: how and by whom that power has been achieved; which class controls and maintain it; and the ends to which the power is put" (Thiongo’o wa Ngugi – uno scrittore keniota marxista di cui sto leggendo un bellissimo romanzo Petals of blood).
Sempre più credo che la mia ricerca debba essere rivolta a sostenere e “liberare” nel modo che a me è più congeniale, cioè con l’analisi, coloro che sono oppressi da una delle tante e variegate forme che l’oppressione può avere. Il contributo che vorrei dare è quello di individuare altre possibili letture per comprendere la realtà che ci circonda e quindi incominciare a cambiarla, nell’obiettivo di una società migliore per tutti e soprattutto più giusta.
Credo che questo spieghi il perchè di una tesi così poco “urbanistica” e molto “politica”, e del perchè le questioni del potere mi interessino particolarmente.
La ragione per cui sono a Nairobi sarà forse più chiara dopo qualche racconto sulla città, del suo funzionamento, del modo in cui la si vive, dei meccanismi che determinano le trasformazioni e di chi in questo “game” ci guadagna e chi ci perde.
Il fatto che a Nairobi ho degli amici, e che è una città nella quale ho già vissuto, sia pure brevemente, è un’altra ragione dell’essere qui. Mi sarebbe stato impossibile studiare in un paio di mesi Nairobi se non ne avessi già almeno intuito le problematiche, e se non avessi già allacciato contatti e stabilito rapporti.
Ho pianificato questo viaggio a Nairobi da tempo… le amiche che mi conoscono bene direbbero che non avevano dubbi al riguardo!
Per me pianificare un viaggio non significa solo “mettere le mani avanti”, organizzare spostamenti, soggiorni, vaccinazioni, contatti, e pensare a questo e a quello. Significa soprattutto cominciare a “viaggiare con la testa” con largo anticipo rispetto al viaggio materiale, assaporando le emozioni e paure della partenza, vivendo la frenesia, e le curiosità prima nella mente che nella realtà. E’ un modo di allungare il viaggio. Ho sempre desiderato viaggiare, ma non per tempi brevi. E raramente i tempi di permanenza fisica in un luogo mi risultano sufficienti. In questo modo il mio viaggio a Nairobi lo faccio durare un anno!
Il problema di questo approccio è che nella mia mente si sono configurati spazi e tempi “immaginari”, situazioni, aspettative che non sono legate alla realtà, ma sono dettate piuttosto dai ricordi (ero stata a Nairobi altre due volte), dalle letture e dai racconti di altri (articoli, saggi, film, fotografie) e dal mio percorso individuale.
Devo dire, che sono partita molto entusiasta, ma anche timorosa, non solo nei confronti della tesi, ma anche dell’ambiente nel quale avrei vissuto. L’esperienza del 2007, in occasione del World Social Forum era stata molto positiva, ma breve e molto condivisa.
L’esperienza in Nairobi del 2004, pur lunga (4 mesi) è stata frammentata perché facevo la spola tra Nairobi e Lamu, l’allora oggetto della mia ricerca, ma segnata da un episodio violento capitato alle mie compagne di viaggio e da tutta una serie di piccole difficoltà con le quali dovevamo confrontarci quotidianamente.
Nel momento in cui si usciva di casa occorreva dotarsi di tutta una serie di precauzioni che in qualche modo mi dimpedivano di vivere la città come luogo di vita pieno, seppur temporaneo. Faccio un esempio: non tirare mai fuori la piantina della città se no venivi subito individuato come turista e quindi circondato da venditori di Safari e pseudo guide turistiche. Il che mi ha aiutato tantissimo peraltro a disegnarmi mentalmente una mappa della città e a sviluppare un orientamento alternativo rispetto a quello configurato dai segni e simboli a due dimensioni tipici della mappa bidimensionale.
Non usare il cellulare in strada, perché può esserti portato via in un batter d’occhio. Non girovagare dopo le 5.30 del pomeriggio, cioè l’orario di punta in cui tutti tornano a casa, a meno che sei in un “recinto”. Avere monetine in tasca in modo da non tirare fuori il portafoglio. Non guardare negli occhi le persone, perché questo è il mio “segnale” di incoraggiamento per attacar bottone, chiedere l’elemosina, etc. Essere circospetti con le persone che cominciano a raccontarti storie… la maggior parte delle volte si concludono con una richiesta di soldi. E via così…
Sono atterrata all’aeroporto Jomo Kenyatta al mattino molto presto, stava albeggiando… ero seduta verso il corridoio (la fobia dell’aereo è stata superiore al desiderio di vedere Nairobi dall’alto… poi mi sono pentita della scelta!) e così non ho visto niente. Ero davvero eccitata quando sono salita in macchina con l’autista inviato dai miei amici che mi è venuto a prendere.
La prima impressione che si è sovrapposta a meraviglia con i ricordi, è quella che tante persone in Kenya si spostano a piedi. Ma non tanto e solo in zone pedonali, ma ovunque, anche luogo le highway. Eppure nonostate la maggior parte delle persone cammina, non ci sono marciapiedi, che possono essere considerati tali. Ma solo carraie ai margini della strada o tra una carreggiata e l’altra che si sono formate con il tempo al continuo passaggio dei pedoni. A questo è associato un traffico esasperante, inquinamento visibile - i tubi di scappamento delle auto emanano fumi neri e puzzolenti, come da noi decenni orsono) – e polvere rossa, bellissima, ma fastidiosa.
Dopo anche solo un paio di giorni mi sono resa conto che la città è meno pericolosa e meno aggressiva del previsto, almeno in centro città. Il cosiddetto CBD (Central Business District) corrisponde alla cuore amministrativo, politico e finanziario della città. E’ l’unica parte della città davvero pianificata, con una griglia ortogonale molto rigida, dove si trovano gli edifici storici (del regime coloniale) e quelli moderni costruiti all’indomani dell’indipendenza (1963) e via via aggiunti nei decenni seguenti. E’ un centro come tanti altri nel mondo.
Non c’è più problema a usare il cellulare, ad aprire la cartina della città (che non faccio, sfidando la mia memoria e il mio orientamento), a camminare a piedi anche fin verso le 7-8 di sera. E sorprendentemente non vedo hawkers (venditori ambulanti senza licenza, che vendono cose da poco e specializzatissimi: solo banane, o solo piselli sgusciati, acqua, noccioline, giornali, etc.), beggars e i safaristi sono davvero pochi…
La città è anche più pulita, anzi è davvero linda! Ci sono panchine, aiuole fiorite, lampioni, persone ben vestite, tanti bar e ristorantini. Ururu hayway il limite sud del centro città e Ururu Park sono veramente attraenti. Insomma, lo spazio pubblico è davvero accogliente, posso tranquillamente sedermi da qualche parte a leggere il giornale non solo nel centro storico, ma anche in questo parco cittadino, senza problemi di essere importunata o assalita. Certo, nel parco è meglio stare nelle areee più affollate e lungo i sentieri dove ci sono anche i rivenditori autorizzati di bibite. Do comunque nell’occhio; di bianchi in giro non ce ne sono molti e certamente non si siedono all’aperto (e non credo sia solo una questione di sole). Ma volendo si può fare, ed è piacevole vedere le persone passare, sostare di qua e di là.
Non nascondo una certo apprezzamento di questo cambiamento, ma ricordando alcune letture ( in particolare reclaming the streets di Coleman, 2004) e del progetto di “beautification” lanciato dal City Council di Nairobi un paio di anni fa, cerco di informarmi meglio e di scoprire come hanno fatto. Molto semplice! Il major ha emanato una serie di ordinanze che vietano agli hawkers di vendere, agli accattoni di chiedere l'elemosina, agli intermediari di attirare turisti nei negozi di souvenir o nelle agenzie dei safari, ai bambini di strada di accamparsi o gironzolare nel centro. Attraverso un gesto autoritario hanno rigenerato la città, giustificando la scelta attraverso una retorica tutta neoliberista che promuove la “città sicura”, una città innanzitutto sicura per gli affari. Attraverso questo discorso “securitario” si impone divieto a tutto ciò che è “nuisance” che può infastidire il “frequentatore privilegiato” del centro, che è l’uomo d’affari, colui che fa shopping, e che lavoro in uno di questi smart office. C’è anche il discorso di fare di Nairobi una “world class city” e quindi, tutte queste attività informali non fanno parte della buona immagine della città che si vuol dare. Ma tornerò su questo “immaginario” nei prossimi appunti.
Ma chissà che fine hanno fatto i bambini. Mi dicono che sono stati messi in un orfanatrofio, dove stanno bene, sono sfamati, istruiti… alcuni scappano, ma la maggior parte rimane… immagino sia con le buone che con le cattive…
Gli ambulanti si accalcano nelle strade laterali, nella down town o si avventurano lanciandosi tra le macchine sulle strade. Al di fuori del recinto della business city, è sostanzialmente tutto immutato, anzi forse la povertà è aumentata alla faccia del comune che ambisce a trasformare Nairobi in "una world class city".
Nel dibattito circa questa rigenerazione del centro, la controversia è tutta dedicata all’aspetto “ambientale” e non a quello sociale. Cioè si contesta la validità di dotare Nairobi di così tante aree verdi e di limitare allo stesso tempo la cura all’Ururu Park.
Ecco un paio di video su You Tube:
Rubiamo il bel titolo di un libro di Vezio De Lucia per presentare queste inquietanti immagini di Singapore. Sono immagini raccolte dalla rete e montate in un power point da Stefano Fatarella.
Ci sembra che rappresentino con efficacia un pezzo di quella “infrastruttura globale” descritta da Saskia Sassen: l’insieme delle reti tecnologiche, dei luoghi eccellenti, delle attrezzature di livello mondiale che garantiscono la vita e le attività dei gruppi sociali che detengono il potere.
Una delle due componenti essenziali della ”città globale”, la cui seconda componente è rappresentata dai flussi dei popoli e dei gruppi sociali che la miseria ha “liberato” dalla possibilità di risiedere nei luoghi della loro origine, proseguendovi le attività tradizionali, e ha ridotto così a mera forza lavoro disponibile, e perciò sono idonei a essere utilizzati nei luoghi dove è più opportuno sfruttarne il basso costo.
E nemmeno a Singapore è tutto oro ciò che luccica ...
(traduzione di Fabrizio Bottini)
Una simulazione di città, grande come tutto il centro di San Diego, è stata costruita in un angolo solitario del deserto nella California meridionale, per allenare le forze armate al combattimento in ambiente urbano. Questo centro allenamenti del costo di 170 milioni di dollari è stato presentato ufficialmente martedì alla base militare di Twentynine Palms, circa 150 km a nord-est di San Diego. Complessivamente gli edifici sono 1.560, e consentiranno alle truppe di apprendere e perfezionare tecniche utili in molte parti del mondo, secondo i responsabili del Corpo dei Marines. Nel paese sono già stati costruiti finti villaggi afgani per preparare le truppe prima delle missioni. Il nuovo complesso è fra i più grandi e completi fra quelli realizzati. Ci possono operare in contemporanea oltre 15.000 uomini fra marines e marinai.
Nota: qui in una ventina di diapositive le travolgenti passeggiate urbane dei nostri eroi (f.b.)
Una città dove sarà possibile condurre uno stile di vita moderno nel contesto della tradizione. È questo slogan che ti accompagna quando ti avvicini ai cantieri di Rawabi, in arabo «le colline», la new town palestinese da 6mila appartamenti che, grazie un finanziamento da 800 milioni di dollari (in parte di provenienza qatariota), sta sorgendo tra Ramallah e Nablus e situata a metà strada tra Tel Aviv e Amman. Sino ad oggi hanno chiesto di viverci oltre 8 mila palestinesi, che si sono prenotati online.
Commercianti, impiegati pubblici, professionisti, ossia la piccola borghesia attirata dai centri commerciali, i boulevard e i caffè, dalla vicinanza all'università di Bir Zeit, dal verde, dai campi sportivi, dalle scuole pubbliche e private, dal cinema ma anche dalle moschee e dalla chiesa che promette la «Massar», l'impresa edile di Bashar Masri, parente di Munib Masri, l'uomo d'affari palestinese più ricco e influente. «Questo progetto è parte della costruzione nazionale - dice Masri - che non è solo politica ma vuol dire significa anche offrire una miglior qualità di vita alle persone e rilanciare l'economia creando migliaia di posti di lavoro».
All'inizio verranno venduti appartamenti per 25 mila palestinesi, in seguito per altri 15mila, grazie a prezzi abbordabili e a mutui che le banche offriranno a basso interesse oltre a quello finanziato dall'Overseas Private Investment Corporation che permetterà di acquistare un appartamento per 700 dollari al mese. Un debito mensile che Masri definisce «sopportabile» e che invece la maggior parte dei palestinesi non può permettersi.
Osservandola da lontano la new town, «fiore all'occhiello» per l'Anp e per il suo premier Salam Fayyad, assomiglia parecchio alle colonie israeliane che si incontrano nei paraggi. Stesso stile, stessi materiali, stessa luce accecante della pietra bianca e (troppi) tetti rossi. Insomma, è una sorta di colonia palestinese contrapposta a quelle ebraiche. Non sorprende perciò che il progetto sia stato accolto freddamente da quella parte di architetti e pianificatori palestinesi indipendenti che avrebbe preferito che la nuova città avesse un look più arabo, più vicina alle belle ed antiche costruzioni palestinesi. Senza dimenticare le critiche degli ambientalisti che sollevano dubbi sulla scelta di costruire Rawabi in una delle poche aree naturali che resistono agli assalti della colonizzazione israeliana della Cisgiordania. Altri hanno criticato il massiccio coinvolgimento d'Israele nel giro di affari ma le principali obiezioni sono venute dai quei contadini che si sono opposti alla cessione dei propri terreni: circa 1/5 di Rawabi viene costruito su terreni requisiti sbrigativamente dall'Anp.
A battersi con più accanimento contro Rawabi sono però i coloni e i loro sostenitori nel governo Netanyahu e alla Knesset. Insieme conducono una battaglia senza sosta contro la nuova città palestinese che, dicono, provoca danni all'ambiente e mette a rischio gli insediamenti israeliani. Accuse paradossali se si considera che i coloni sono i principali devastatori della natura in Cisgiordania dove vivono illegalmente in violazione delle risoluzioni internazionali. Lo scorso autunno Ghilad Erdan, il ministro israeliano dell'ambiente, ha chiesto una approfondita verifica delle ripercussioni della costruzione di Rawabi, in particolar modo per quanto riguarda la discarica dei rifiuti.
Erdan ha mai mostrato tanto rigore e interesse nei confronti delle colonie ebraiche edificate sulle colline palestinesi? Forse, non si sa. È certo invece che Rawabi si trova in buona parte in «area B», la zona della Cisgiordania sotto controllo civile dell'Anp e dove Israele ha il controllo di sicurezza. Le sue strade di accesso perciò si trovano sotto totale controllo dell'esercito di occupazione e dei coloni. La campagna anti-Rawabi si è intensificata da quando si è appreso che una dozzina di aziende israeliane avevano accettato di firmare contratti di forniture con la «Massar», sottoscrivendo, a quanto pare, una clausola che le impegna a non lavorare contemporaneamente negli insediamenti colonici.
Lo scorso anno l'Anp ha lanciato una campagna per il boicottaggio delle colonie e dei loro prodotti che, almeno nella sua fase iniziale, ha conseguito risultati significativi e mandato su tutte le furie i settler israeliani e il governo Netanyahu. Ora, a distanza di mesi, l'offensiva anti-colonie è scemata, sotto l'urto delle pressioni americane.
È stato lo stesso Bashar Masri a rivelare qualche settimana fa che oltre alle 12 società israeliane avevano firmato il contratto proposto dalla «Massar». Non solo. La sua impresa è stata contattata da un'altra ottantina di imprese israeliane che vogliono vendere i loro prodotti e materiali e si dicono disposte a rispettare la clausola sugli insediamenti. Rivelazioni che hanno scatenato un putiferio in Israele. Alcune decine di deputati di diversi partiti si sono prontamente attivati per lanciare una campagna di boicottaggio delle società che si rifiuteranno di avere rapporti commerciali con gli insediamenti colonici. Le imprese impegnate a Rawabi, a cominciare dalla Itung Blocks, per evitare guai, hanno dovuto recitare il mea culpa e la professione di fede agli ideali del sionismo e alla colonizzazione. «Siamo un'azienda israeliana al 100% e partecipiamo alle costruzioni in Eretz Israel (la biblica Terra di Israele)», ha comunicato l'amministratore delegato della Itung, Sasson Har-Sinai. Ma le sue assicurazioni non bastano ai coloni che vogliono mettere alla gogna tutte le imprese «traditrici».
Nota: il fatto che la città nuova sia una fotocopia del sogno americano non è sfuggito a suo tempo alla stampa internazionale, come spiega bene questo articolo dell'australiano The Age tradotto per Mall (f.b.)
La signora dell’architettura è già al lavoro sulla nuova Banca Centrale. E dal governo iracheno arrivano altre offerte
Hadid sogna di riprogettare la capitale del suo Paese
Il suo sogno sarebbe «ricostruire il piano urbanistico di Bagdad dall’inizio, pianificarlo dalle fondamenta». Ma per ora si limita a puntare tutto sulla progettazione dell’edificio della Banca Centrale nel cuore della capitale. In agosto ha vinto la gara aperta a tutti i più grandi studi di architettura mondiali. «È un primo passo. Ci sono altre offerte da parte del governo iracheno. Devo ancora valutarle con attenzione», spiega Zaha Hadid da Londra. Sarebbe la controrivoluzione architettonica nell’era della democrazia contro quella della dittatura. Come Saddam Hussein tra gli anni Settanta e Ottanta fece radere al suolo i quartieri storici della capitale per imporre la sua visione dell’impero in stile assiro-babilonese, così l’architetta cresciuta nella diaspora occidentale, proiettata allo zenit dei nuovi design più avveniristici, pensa di ridare alla città la sua antica dimensione umana.
Un nome che è garanzia d’eccellenza. Nata a Bagdad nel 1950 ed emigrata sin da bambina con la famiglia all’estero, Zaha Hadid ha studiato matematica a Beirut, prima di laurearsi a pieni voti alla Scuola di Architettura di Londra e quindi insegnare a lungo nelle migliori università americane. Lavoro, impegno e grandi successi internazionali sono poi arrivati a cascata. Da quando nel 2004 ricevette il «Pritzker Architecture Prize», il premio Nobel nel suo campo, viene definita la «donna architetto più famosa al mondo». Tra le realizzazioni più note: il trampolino da sci di Innsbruck, il ponte a farfalla di Saragozza, gli uffici centrali della Bmw a Lipsia, il centro acquatico per le Olimpiadi di Londra nel 2012. In Italia ha all’attivo almeno sei progetti maggiori, tra cui il Museo delle Arti Contemporanee di Roma inaugurato l’anno scorso e il complesso City Life a Milano.
Pure, non è strano che la figlia per eccellenza dei circoli più cosmopoliti dell’intellighenzia contemporanea guardi adesso alla «sua» Bagdad come a una grande sfida. «Non ci sono mai tornata dalla mia partenza da bambina. Spero di visitarla, presto. Ma ancora non ho fissato una data», confida. Un anno fa sembrava tutto più facile. Le grandi operazioni militari americane d e l 2007-8 avevano fatto diminuire sangue e massacri ai minimi storici dalla guerra del 2003. Si sperava che le elezioni parlamentari dello scorso marzo avrebbero dato una qualche stabilità. Non è stato così. Il prolungarsi del braccio di ferro tra sciiti, sunniti e curdi per la formazione del nuovo governo è terminato solo una settimana fa e con esiti ancora molto incerti. Nel frattempo gli attentati, specie contro cristiani e sciiti, hanno riacceso le vecchie paure. La Hadid cerca di non parlare di politica. Ma non nasconde che il Paese è ancora immerso sino al collo in un «sacco di gravissimi problemi». Memore dei disastri degli ultimi trent’anni e dello sfascio urbanistico, l’architetto parla da professionista: occorre pianificare tutto da capo. «La prova del nove sta nella volontà del governo centrale di lanciare una nuova pianificazione urbana. L’Iraq necessita di un onnicomprensivo progetto di opere pubbliche che ripensi il Paese dalle macerie in cui è affondato».
La sfida è aperta. Nel 1991 lo scrittore e architetto Kanan Makiya appena fuggito a Londra dall’Iraq pubblicò un v olume, « I l Monumento», con lo pseudonimo di Samir al-Khalil in cui illustrava la grandiosità aggressiva e militaresca dell’architettura imposta da Saddam. Era una durissima critica contro gli Albert Speer iracheni. Vi si riprendeva il tema sempre attuale della strumentalizzazione del paesaggio urbano al servizio della dittatura. Oggi la Hadid vorrebbe davvero cambiare le coordinate di quel periodo. L’Iraq è in ginocchio. Ma non è un Paese del terzo mondo. Le scuole di artisti e scultori hanno riaperto. Le università funzionano. L’embargo internazionale è terminato. Si può volare a Bagdad direttamente da Parigi, Istanbul, Amman, il Kuwait e altri scali sono in apertura. Ecco la speranza: «Il governo vorrà ricostruire musei, teatri e biblioteche. Noi potremo esserci».
Maledetti architetti. Sarà anche vero che i prosperosi abitanti di Abu Dhabi, sprofondati per decenni nelle poltrone di petrodollari, stanno scalando la classifica dell'obesità. Ma bisogna essere cattivi dentro per costringerli a inforcare le scale cancellando ogni traccia di ascensore. Dice: l'avete voluta la prima città completamente ecosostenibile? E in effetti l'argomentazione di Norman Foster, il maestro che ha progettato da zero la città futurista di Masdar, lì nel deserto, non fa una piega.
Però il particolare, che tecnicamente potrà pure essere piccolo, illustra alla grande la filosofia inevitabilmente dirigistica che si nasconde dietro alle planned city, le città su cui dovremmo modellare il nostro futuro ma che nella realtà si rivelano sempre più quello che Masdar riassume già nella sua collocazione geografica. Cattedrali nel deserto, appunto. Città concepite con le migliori intenzioni ma irrimediabilmente disconnesse dal tessuto sociale circostante. Città fantasma.
Prendete proprio Masdar. Maestro Foster, l'architetto inglese che ha ridisegnato Londra piantandoci nella skyline quel pisellone della Millennium Tower, aveva annunciato tre anni fa la commessa miliardaria degli sceicchi con dichiarazioni roboanti. «Le ambizioni ambientali, zero carbone e niente sprechi, sono uniche al mondo - aveva detto Foster - siamo di fronte a una sfida che mette in discussione dalle fondamenta la sapienza urbanistica tradizionale».
L'opera, ci mancherebbe, è da record. La prima delle otto sezioni in cui è articolato il progetto è stata appena completata e Masdar ha subito svelato le sue meraviglie. Il 90 per cento dell'energia arriva dagli impianti solari, le auto elettriche sono attivate da un computer di bordo e tutto il traffico scorre sotto terra - costringendo appunto gli abitanti a riemergere dal sottosuolo a piedi. L'impianto fotovoltaico, l'inceneritore, le riserve acquifere: tutto è finito fuori città. Disegnando una città ideale che il suo creatore non teme di paragonare a un parco giochi: bella e finta come Disneyland.
Peccato che la città ideale di Foster, dice Nicolai Ouroussoff, il critico d'architettura del New York Times che l'ha visitata, «rifletta anche la mentalità da comunità-rinchiusa che si è andata espandendo come un cancro in tutto il globo per decenni». Cioè? «La sua purezza utopica è ancorata nella convinzione che l'unico modo per creare una comunità davvero armoniosa, verde o di qualsiasi altro tipo, è di tagliare ogni legame con il resto del mondo». Una gabbia? Dice Saskia Sassen, che dalla cattedra di sociologia della Columbia di New York ha studiato La città globale, come recita il titolo di un suo famoso libro, che quella gabbia in realtà all'inizio era un giardino: «L'obiettivo era proprio quello di umanizzare l'ambiente. La città giardino nasce così. Ma diventa subito città-cancello».
Città giardino, purezza utopica. Tommaso Moro ci aveva avvisati cinque secoli fa. Foster, per esempio, ha voluto la sua Masdar su un altopiano - per sfruttare la tradizione araba delle gallerie del vento e favorire così una ventilazione naturale - e rigorosamente quadrata: simbolo di perfezione. Beh: ricordate la descrizione della città di Utopia? «Essa giace su un lato di una collina, anzi precisamente su un altopiano. Il suo aspetto è quasi quadrato. E ogni casa ha una porta sulla strada e una sul giardino...». Il problema è che utopia, si sa, non fa rima con democrazia.
Guardate Astana, la città nel bel mezzo di quel particolare deserto che è la steppa del Kazakistan - in un'area che per una tragica ironia della storia ospitava Akmolinskii, uno dei più temibili gulag di Stalin. Anche qui, come a Masdar, sono i soldi del petrolio ad aver richiamato le grandi firme dell'architettura. Ma da Kisho Kurokawa in giù, le sue opere finiscono per cantare le lodi del presidente Nursultan Nazarbayev. Perché poi più che alla vivibilità della gente comune è all'esibizione del potere che le città ideali sembrano improntate.
Per carità, il concetto è vecchio come il mondo. «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome», recita Genesi 11, 1-9. È il mito della Torre di Babele, e non si può proprio dire che il concetto di città sia stato benedetto dal Signore Iddio, «che li disperse di là sulla terra, ed essi cessarono di costruire le città». Per poco.
La storia della civiltà negli ultimi cinquemila anni, diceva Lewis Mumford, è la storia della lotta «tra Necropolis e Utopia»: inseguendo il sogno di «un nuovo tipo di città, che ci arricchisca e ci spinga verso lo sviluppo dell'umanità».
Il grande storico scriveva così all'alba degli anni '60. Proprio quando Louis Kahn concepisce il più grande complesso legislativo nel mondo, Jatyo Sanshad Bhabn. Che se tecnicamente non è una vera planned city - è costruita in un sobborgo di Dhaka, nel cuore del Bangladesh - è inevitabilmente una città nella città, e naturalmente la parte più sicura di quella metropoli-mostro da 15 milioni di persone. E sicura appunto perché completamente isolata dal resto.
Insomma gli esperimenti sono andati troppo lontano dalla città ideale che nel quindicesimo secolo sognava Enea Silvio Piccolomini, l'umanista che diventato Papa Pio II - la legge è sempre quella: arte e potere - fondò in Toscana Pienza, il «prototipo» della planned city, la vivibilissima città umanista che ha alimentato per secoli le ambizioni degli architetti: giù giù fino al mitico Le Corbusier.
L'esponente più noto di «quel nuovo fenomeno senza precedenti: l'architetto che è già famoso senza aver costruito niente», secondo la velenosa definizione di Tom Wolfe, è anche quello che più di tutti ha creduto all'utopia delle cattedrali nel deserto. Ma in Maledetti architetti Wolfe è troppo severo. In fondo Chandigarh, la prima planned city indiana, disegnata proprio dal maestro svizzero, è un esperimento che funziona ancora oggi. L'unica città del subcontinente in cui il traffico non va in tilt di default, grazie ai boulevard con cui "Corbù" aveva schiacciato la tradizione indiana delle labirintiche cittadelle indiane. La città fantasma può popolarsi di umanità? «La città è un sistema complesso, che dà origine a reazioni inaspettate che nessun pianificatore può prevedere», dice ancora Sassen. Tra vent'anni, più di 5 miliardi di persone vivranno in agglomerati che assomiglieranno sempre più alle megacities spaventose come Lagos o Karaki - aggiunge il critico di Time, Bryan Walsh - piuttosto che nelle metropoli come le conosciamo: New York, Londra, la stessa Pechino.
Ma l'alternativa sognata non si vede. E chissà per quanto tempo ancora le cattedrali nel deserto continueranno ad assomigliare agli incubi di J. G. Ballard, il romanziere che nei ghetti di lusso stile Masdar ha immaginato così tanti orrori da farci accucciare per sempre nelle nostre casette, in queste nostre città eco-insostenibili e qualunque.
Titolo originale: The Geometry of Sprawl – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Nel suo romanzo L’incanto del lotto 49 (The Crying of Lot 49) Thomas Pynchon descrive un suburbio: “più che una città chiaramente identificabile era un agglomerato di concetti – padiglioni censimento, distretti cedole obbligazioni speciali straordinarie, centri commerciali, tutti attraversati da una rete di strade di accesso all’arteria principale”. La protagonista, Oedipa Maas, “guardò dall’alto di un pendio aggrottando gli occhi per il troppo sole, alla vasta distesa di fabbricati spuntati tutti insieme come un campo ben tenuto, dalla terra marrone e opaca” scrive Pynchon, “e pensò a quella volta che aveva aperto una radio a transistor per cambiare una pila e s’era incontrata col suo primo circuito stampato. L’ordinato vortice di strade e case, viste da quell’altezza, le saltava agli occhi con la stessa insospettata e stupefacente chiarezza del circuito stampato”. Questo sistema architettonico che le si dispiega davanti comunica, secondo Pynchon, un “senso e un geroglifico di significati riposti”.
Christoph Gielen, fotografo di origine tedesca, documenta geroglifici del genere da un elicottero — come le carceri o i suburbi — da cinque anni. Gli spazi che sceglie si distinguono per la chiarezza: scatole, nodi, labirinti, semicerchi, sottolineature della nuda topografia che li circonda.
Gli scatti fotografici di una prigione si devono fare in fretta, sottolinea Gielen, presi al volo durante l’equivalente aereo di un solo passaggio in auto: se no, la sigla di identificazione di un elicottero che sta fermo un po’ troppo potrebbe essere notata dalle guardie, e inevitabilmente susciterebbe domande. Così le sue visite sono calibrate un po’ come attacchi di guerriglia, anche se si tratta di cose formalmente legali, e sarebbero comunque facilmente disponibili al grande pubblico le vedute dal satellite dei medesimi luoghi.
Attraverso l’obiettivo di Gielen, il cortile dell’ora d’aria diventa solo un’altra gabbia, claustrofobica protesi dietro la prigione vera e propria; qualunque libertà o occasione fisica possa offrire, appare adeguatamente assurda da questa altezza.
Nelle spedizioni suburbane di Gielen, il metodo è di iniziare dalla ricerca via satellite, studiando il paesaggio dettagliatamente fin quando si individua una geometria adeguatamente e visivamente provocatoria. Poi ci si avvicina agli ambienti scelti con qualche sopraluogo in auto, fingendosi un potenziale acquirente di casa e facendo un giro insieme a un agente immobiliare, per capire le aspirazioni profonde dell’area: il suo modo di considerarsi, o quantomeno l’immagine che emerge dagli opuscoli promozionali e dagli annunci di vendita. Lungi dall’umanizzare un po’ l’argomento, tutto questo aggiunge un altro livello di astrazione, in cui l’estetica del paesaggio – o meglio la sua assenza - si fa calcolo economico. Infine la scelta di Gielen di mantenere anonimi i suoi spazi ne aumenta ancora di più ’s l’estraneità.
I suburbi dell’area Sun Belt (Arizona, Nevada ecc. n.d.t.) proposti da questi scatti sono “assolutamente compiuti” come spiega Gielen; in parecchi casi “non si trasformano più”. Statici, cristallini, inorganici. In realtà, le loro vie scorrono fra case di pensionati: luoghi in cui ci si trasferisce dopo essere stati ciò che si voleva essere. In senso proprio, non si tratta neppure di sprawl. Ma di luoghi a sé: terminali spaziali di un viaggio del destino.
Osservando il lavoro di Gielen, viene la tentazione di proporre una nuova branca delle scienze umane: la sociologia geometrica, studio di null’altro se non le forme degli spazi che non abitiamo. Il suo programma di ricerca sarebbe di chiedersi perché mai queste forme, angoli, geometrie, si ripropongano tanto coerentemente dagli insediamenti preistorici sino al suburbio estremo. Sono forse, spazi come questi, la ricerca di una estetica, una probabilità statistica, una consapevole manipolazione di confini di proprietà da parte della pianificazione urbanistica locale, o il risultato di un po’ di tutte queste componenti? Oppure ancora, si tratta dell’espressione di qualcosa di più profondo nella cultura e nell’inconscio umano, qualcosa che si riesce a vedere solo da grandi altezze?
QUI (sito del New York Times) le suggestive diapositive del lavoro di Gielen (f.b.)
Se vuoi capirci qualcosa c’è sempre un metodo infallibile: segui i soldi. Lo consigliava ai giornalisti d’inchiesta in Tutti gli Uomini del Presidente l’infiltrato anonimo Gola Profonda, ed è ovviamente lo strumento principale per iniziare a leggere le intenzioni di qualunque decisore, oltre le chiacchiere sui grandi principi ispiratori e le dichiarazioni sugli obiettivi strategici.
Dopo gli incendi di Tottenham, seguiti da disordini assai più gravi in altri quartieri e città britanniche, politici e stampa hanno fatto a gara per chi arriva prima a capire e spiegare in tutto o in parte ciò che sta accadendo. Il pensiero progressista (o sedicente tale, chissà) a sottolineare le radici tutte sociali ed economiche della rivolta, da cercare nell’emarginazione dei giovani cittadini e nell’assenza di prospettive future. Quello conservatore a ribadire ostinato: a) non esiste alcuna giustificazione economica e/o sociale a comportamenti illegali, perché b) i cittadini hanno già gli strumenti adeguati per esprimere le proprie domande e trovare adeguata risposta pubblica. Saltiamo a piè pari, qui, la terza posizione di quelli che in pratica si limitano a usare strumentalmente il fatto contingente delle rivolte britanniche in discutibili per quanto legittime proiezioni globali, vuoi sul tema dello slum, che della crescita economica diseguale, che della crisi o attualità del multiculturalismo.
Follow the Money! Si diceva. Fra i principali bracci armati del progetto di Big Society che ha portato David Cameron alla carica di primo ministro dopo lustri di predominio laburista, spicca sicuramente Eric Pickles, titolare del ministero delle Aree Urbane responsabile per le amministrazioni locali, il decentramento, la pianificazione territoriale e urbanistica, la rigenerazione e tante altre cose. Fra i suoi primissimi gesti di governo se ne possono ricordare uno grosso e uno piccolo, entrambi assai significativi: l’abolizione degli enti regionali, l’introduzione degli spazi urbani condivisi. Il primo per affermare una specie di leghismo al contrario (insomma l’odio ideologico per tutto quanto evochi specificità non strettamente locale) ha messo in grossa difficoltà programmi territoriali come quello della realizzazione di case. Il secondo per affermare il principio della cosiddetta strada completa, ovvero la non segregazione del traffico e delle funzioni urbane, ha creato e crea guai a automobilisti, pedoni, e soprattutto fasce deboli, dai portatori di disabilità a bambini, anziani ecc. È Pickles con suo Localism Bill e la “semplificazione” in corso della Planning Policy a dare senso concreto al cosiddetto conferimento diretto di poteri al cittadino alla base della cameroniana Big Society.
È Pickles ad aver approvato urgentemente il pacchetto di interventi sui quartieri colpiti dai comportamenti di “criminalità comune” delle rivolte di questi giorni. Follow the Money!
Una nota ministeriale dell’11 agosto 2011 descrive gli stanziamenti: oltre 11 milioni di euro per sostenere i costi delle amministrazioni locali nel ripulire, ripristinare, rendere accessibili e sicuri quartieri e strutture varie; circa 23 milioni di euro per un “programma mirato alle arterie commerciali” per ricostruzioni promozione e rilancio degli esercizi; ulteriori stanziamenti per sostegno a eventuali esenzioni fiscali locali, imprese in difficoltà, famiglie provvisoriamente prive di alloggio come conseguenza dei danni delle rivolte. Tutto condivisibile, no? Parrebbe proprio un adeguato pacchetto di interventi di emergenza per riparare ai danni, ma manca qualcosa. Mancano le dichiarazioni con cui il Ministero accompagna il decreto, ad esempio quelle del sottosegretario alla casa Grant Shapps: “ Chi in questi ultimi giorni ha partecipato alle rivolte e ai saccheggi deve sapere che le sue azioni avranno delle conseguenze. E ascoltare con attenzione quello che dico: se abitate in una casa popolare e si scopre che avete partecipato alle rivolte, la vostra follia di un momento può avere effetti devastanti per il resto della vita. Le case popolari rappresentano una risorsa preziosa, i lavoratori contribuenti che contribuiscono a sostenerle si stanno giustamente chiedendo se chi ha partecipato a saccheggi e distruzioni debba poterne godere”.
Hai sgarrato amico, e hai chiuso. A parte il linguaggio da film, più o meno il messaggio si potrebbe proprio tradurre così, e chiarisce molto meglio le intenzioni di Cameron, o le letture dei commentatori di centrodestra: bisogna estirpare dai quartieri la feccia di lazzaroni disadattati per mestiere, e lasciarci solo i cittadini meritevoli. Ancora tutto Ok se si trattasse appunto di una operazione di polizia, ma questa è una politica urbana, una specie di intervento straordinario per la riqualificazione integrata, lo si potrebbe pure definire. A colpi di minacce e arresti di massa? Pare di si. E poi a colpi di investimenti per il rilancio delle attività economiche, nonché delle famiglie che le gestiscono. Sparito il cittadino, a quanto pare, resta il contribuente. L’esatto complemento, non a caso, del consumatore coatto ben definito nel contesto specifico da Zygmunt Bauman.
È questa la decantata Big Society in cui pian piano in una specie di radiosa anarchia postmoderna il governo e la politica organizzata si ritirano dalla vita quotidiana lasciando spazio agli individui, portatori attivi di bisogni e diritti? Parrebbe proprio di sì, ad esempio se si accosta questo specifico caso a tanti altri piccoli segnali che gli ultimi tempi confermano, a partire per esempio dalle tragicomiche ma significative ordinanze dei sindaci italiani di qualche estate fa. Ed è davvero in buona parte un’idea di società squisitamente reazionaria, specie se paragonata al concetto da cui con poco rispetto ha preso a prestito il nome, la post-rooseveltiana Great Society delineata da Lyndon Johnson negli anni ’60 del secolo scorso, giusto quando i genitori di David Cameron devono aver deciso di mettere al mondo il futuro grande leader.
Great Society significava integrazione nel cosiddetto percorso del sogno americano anche di chi ne era tradizionalmente escluso, ovvero le minoranze razziali urbane dei ghetti, che la sola liberazione dalla schiavitù e inserimento nel mercato del lavoro dopo alcune generazioni evidenziava un sostanziale fallimento in tale senso. Da qui programmi specifici come il programma Model Cities, significativamente varato nel 1966: l’anno successivo alla rivolta metropolitana di Los Angeles/Watts, e guarda un po’ l’anno di nascita di David Cameron. Model Cities come ci si può facilmente immaginare non era niente di comunista o rivoluzionario, solo mirava (in un modo simile a quanto succede ora con i programmi per le città sostenibili ad esempio) al coordinamento degli interventi territoriali delle varie agenzie, per far sì che ad esempio la riqualificazione urbana pur nel segno della classica demolizione e ricostruzione di solito nelle forme razionaliste poi diventate simbolo di fallimento (vedi la famosa demolizione anni ’70 delle case Pruit-Igoe di St. Louis) si accompagnasse da una lato a interventi sociali di animazione e formazione, dall’altro ad attivare processi democratici partecipativi. Soprattutto, il programma si rivolgeva a un universo di cittadini, aveva come obiettivo la comunità, la sua costruzione e mantenimento. Non pensava al mondo come a un luogo dove si lavora, si produce reddito, si consuma, e basta. Dove al massimo c’è qualche casta di predestinati, cooptati, miracolati, che chissà perché svettano au dessus de la mêlée.
Come sostiene Jane Jacobs in una delle sue opere meno conosciute in Europa, Dark Age Ahead (Random House 2004), uno dei fattori che conducono fatalmente al crollo di una civiltà, alla cancellazione totale delle sue conoscenze traguardi e consapevolezze, e a secoli oscuri da cui non si sa chi e come potrà uscire, è appunto il crollo della comunità. Fatta di integrazione e cooperazione quotidiana fra individui, nuclei familiari, conoscenze diffuse, sulla base di beni comuni, spirito di condivisione, istituzioni democratiche, e anche infrastrutture fisiche che sono base e prodotto di questo complesso di relazioni. Dove, soprattutto, ammucchiare grandi e piccole entità di quattrini e potere è al massimo uno strumento, non un fine in sé e per sé. E dove qualsiasi politico che in un quartiere vede solo file di negozi, al massimo con sopra la casa del proprietario e di fianco quella dei clienti, si auto classifica come imbecille. Follow The Money! Guardate dove investono, i grandi decisori, e capirete cos’hanno davvero in mente: loro, o chi li manovra.
La parolina magica non manca mai, nella efficace pubblicistica sempliciona e ahimè spesso vincente dei grandi studi di architettura. Stavolta si chiama Earthscraper, letteralmente gratta-terra, un grattacielo che come il proverbiale calzino sporco viene miracolosamente rivoltato e transustanziato. Sparisce nel sottosuolo, invisibile sullo skyline (ma piuttosto vistoso nello earthline, verrebbe da dire, no?), acquattato come una gigantesca patata nei meandri sotterranei della metropoli.
La proposta è dello studio BNKR Arquitectura per il centro storico di Città del Messico, e si presenta come versione tecnologicamente avanzata e a impatto zero, nientepopodimeno, di un classico locale come la piramide azteca (facile immaginarsi altri che alla piramide azteca sostituiscono, a piacere, la cattedrale gotica, la pagoda buddista ecc.). Come sempre succede in questi casi le immagini sono abbastanza carine, con le cascate di verde che spariscono giù verso il centro della terra anziché inerpicarsi verso il cielo, delicati riflessi di vetro e acciaio, le solite piccole sagome umane a ricordarci che là dentro poi ci dovrà pur stare qualcuno a far qualcosa.
Ma poi, con un piccolo sforzo, proviamo a staccarci da quell’immagine e a evocarne altre, in una qualunque delle nostre città e centri storici. Ad esempio gli autosilo proliferati dopo la legge nazionale sui parcheggi, che quasi ovunque hanno trasformato ex piazze o giardini in caricature semidesertiche, magari con qualche vecchietto nostalgico e inconsapevole che ancora si aggira lì attorno spazialmente smarrito, alla ricerca del tempo perduto panchina inclusa. Tanto per fare un esempio famoso, pensiamo al parcheggio sotterraneo di Sant’Ambrogio a Milano, eredità del centrodestra morattiano lasciata come patata a orologeria tra le mani della giunta Pisapia: dove sono finiti i luccichii dello Earthscraper, dalle parti della pusterla e della basilica romanica? Probabilmente lì luccicano solo i conti correnti degli speculatori. Altrove, spesso, pure.
Allora lasciamo che le sognanti prospettive dello studio BNKR Arquitectura facciano il loro mestiere di cartellone pubblicitario degli interessi immobiliari, cercando di rispondere nel modo più equilibrato e propositivo: posto che davvero sia tecnicamente possibile realizzare giganteschi lavori (80.000 mq di uffici!!) rispettando gli spazi storici, e farlo anche con cantieri gestiti ragionevolmente, poi che ne sarà dei flussi di traffico generati dalla patata-edificio? Gli evocativi renderings al solito evocano un mondo simile a quello delle casalinghe pubblicitarie quando ripuliscono luride stanze enormi con pochi gesti, senza dismettere il sorriso e i tacchi a spillo. Oppure quelle famigliole che si abbuffano di grassi e carboidrati fast-food sugli schermi televisivi, mantenendo chissà come un invidiabile peso forma. Il nostro mestiere dovrebbe essere invece quello di provare a digerirla, la patatona, ponendo domande adeguate ai promotori nascosti dietro gli studi archistar.
QUI una rassegna di immagini dello Earthscraper messicano
Circuito di Buronzo (Vc) |
Su queste pagine abbiamo già proposto, tempo fa, una serie di immagini aeree dello sprawl di Christoph Gielen, e quindi non vale la pena di riprodurre la traduzione italiana dell’articolo con cui stavolta Mattew Knight della CNN descrive le intenzioni dell’artista, le sue prospettive critiche, le specifiche tecniche di ripresa.
Vale solo tornare, ancora sulla potenza delle immagini, che ci fanno apparire per quello che siamo, o perlomeno per quello che siamo da punto di vista di chi ci ha ficcati dentro a quella gabbia: cavie da laboratorio, in cui lo scopo dell’esperimento non è scientifico, ma di spietata mungitura: dei nostri soldi, del nostro cervello, e en passant anche delle risorse del pianeta.
Qui il LINK alla presentazione completa allegata all’articolo sul sito della CNN (f.b.)
GoogleEarth è un inaspettato strumento di conoscenza, consente di andare a sbirciare un po’ ovunque e farsi delle idee. E chissà se ai nostri eroi della modernizzazione stile anni ’60 (da Gassmann che sorpassa e compagnia bella) piacerebbero queste immagini, di autentico “sviluppo del territorio” inteso come nucleo centrale di qualunque produzione di ricchezza, più gru si vedono più c’è da stare felici.
L’idea di sbirciare in un angolino del suo paese alla ricerca di qualcosa di particolare è venuta al giornalista del Boston Globe Alan Taylor, dopo aver letto l’ennesimo articolo sulla recessione, i pignoramenti, i proprietari costretti a restituire la casa alla banca e lasciare i quartieri vuoti.
A volte, quei quartieri non sono neppure terminati, solo linee strampalate tracciate sulla nuda terra, un po’ di asfalto su rotatorie dove nessuno farà mai inversione, e poco altro.
Il posto è la Florida, da sempre paradiso dei costruttori e immobiliaristi, un po’ come una versione vitaminizzata di certe coste del Mediterraneo. E adesso? Niente paura, ci sarà sempre qualcuno pronto a mostrare, tabelline alla mano, che va tutto bene, madama la marchesa.
Per adesso, però, si può guardare e provare a farsi un’idea diversa. Fatelo, quelle che abbiamo inserito qui sono pallide sembianze di ciò che GoogleEarth rivela.
Poi, solo poi, rileggersi le lodi dello sprawl come modello ideale di sviluppo per tutta la famiglia, ad esempio nella lunghissima serie di articoli del suo paladino Joel Kotkin.
Credo che sia arrivato il momento di descrivervi, per sommi capi e senza pretese di completezza o sintesi, come Nairobi sia sorta – è una città di fondazione – ed evidenziare alcune dinamiche che hanno influito più di altre nel processo di traformazione. Senza questo quadro di riferimento diventa difficile comprendere alcuni meccanismi che regolano la vita urbana della città, apprezzare lo sforzo e la capacità di migliaia di persone nel affrontare una vita quotidiana in cui anche l’acqua potabile è praticamente un bene di lusso, e cogliere appieno la profonda inequità nell’allocazione e nella gestione delle risorse che da sempre, anche dopo l’indipendenza, si perpetua e ha sancito il benessere e il malessere dei Kenioti.
La città coloniale
Fin dall’inizio, da quando la città fu fondata dagli Inglesi nel 1899 come deposito degli approvvigionamenti per la ferrovia (l’Uganda Railway che doveva collegare Mombasa al lago Vittoria) ci sono state più Nairobi. Da una parte, la città pianificata (secondo le regole europee) e debitamente servita da infrastrutture che teneva conto solo delle esigenze della popolazione europea (impiegati della ferrovia e amministratori della colonia) e dei commercianti, sia Europei che Asiatici. Parallelamente, cominciava a crescere un altra città, né pianificata nè dotata di servizi, abbandonata a se stessa, occupata dai lavoratori Africani, impiegati nei lavori più umili o in economie informali di pura sussistenza.
La divisione era allo stesso tempo spaziale e razziale, divideva la città in quattro settori distinti: a nord e a est il settore asiatico (quartieri di Parklands, Pangani and Eastleigh); a est e sud-est il settore africano (quartieri di Pumwani, Kariokor, Donholm); tra sud-est e sud c’era un’altra piccola enclave asiatica; nel settore a nord e a ovest c’erano le aree europee. (Vedi Fig.2). Vorrei qui mettere in evidenza un primo elemento di questa particolare suddivisione, e questo richiede una precisazione di carattere geografico.
Il Kenya si estende a cavallo dell’equatore sulla costa orientale dell’Africa e Nairobi si trova nella parte meridionale, ai margini del cuore agricolo del paese. L’altitudine di Nairobi varia notevolmente: tra i 1460 mt e i 1920 mt sul livello del mare, e quindi con notevoli differenze climatiche e ambientali. L’altitudine minore si registra nei pressi dell’Athi River lungo il confine sud-orientale della città, quella maggiore sul confine occidentale.
Percorrendo la città circolarmente, si incontrano paesaggi tra loro molto diversi. Ad occidente, laddove gli Europei si erano insediati, il clima è fresco, ventilato e la zona è ricca di vegetazione, addirittura ci sono parchi e foreste. Ad oriente, la temperatura si alza, stare al sole può diventare insopportabile, la terra è arida o semi-arida, ci sono pochi alberi e la coltivazione è pressochè impossibile, se non sussidiata dall’irrigazione meccanica. E qui che agli Africani fu in un qualche modo consentito di accamparsi.
Ma torniamo alle regole coloniali vigenti nella città di Nairobi nella prima metà del XX secolo. Attraverso l’emanazione di decreti reali, gli Africani furono spostati nelle aree meno appetibili - sia da un punto di vista di vivibilità ambientale che di produzione agricola - mentre il Vagrancy Act - una legge che limitava i movimenti degli indigeni al di fuori delle riserve – e altri decreti, ivi compresi quelli relativi alla demolizione di strutture non autorizzate e alla segregazione residenziale, consentivano invece di regolare e controllare il centro urbano.
Siccome nella città coloniale non vi erano stati inseriti quartieri residenziali per gli Africani, se non in pochissime quantità e generalmente riservati a coloro che lavoravano nelle case degli europei e più tardi ai civil servant, gli altri dovettero a loro modo farsi posto nella città, andando a formare quelli che verranno poi definiti quartieri informali o slum.
Molti Africani approdavano in città dopo essere stati depradati delle loro terre dagli Europei che volevano fare del Kenya una nuova Australia: “a white man land”. La costruzione della ferrovia, che serviva per trasportare materie prime dall’interno dell’Africa orientale alla costa, si era rivelata più costosa del previsto e occorreva compensare la spesa con altri servizi: il trasporto di merci kenyote. Ma quali merci, visto che il Kenya non era provvisto di ricche materie prime come metalli o petrolio? Il Kenya era stato colonizzato per poter accedere e collegare l’entroterra ugandese al mare, più che per sfruttare le sue risorse, ma poi si rivelò una terra molto fertile, sfruttabile per colture da esportazione (te e caffe), e così fu incentivata da parte dei colonizzatori britannici l’insediamento degli europei nelle “White Highlands” the terre più fertili del Kenya, che originariamente appartenavano soprattutto alla nazionalità dei Kikuio. Migliaia di persone che vivevano nelle aree della Rift Valley, e nelle aree appena fuori Nairobi, per esempio in Kiambu, Limuru, Ruiru, Kikuyo si trovarono senza terra e quindi senza alcun mezzo di sussistenza.
Alcuni migrano a nord, per poi essere nuovamente cacciati all’indomani delle due guerre mondiali, quando agli ex militari britannici vennero regalate delle terre, mentre altri raggiunsero la città di Nairobi. Alla fine della Prima Guerra mondiale, i primi otto quartieri informali, tra cui Kibera, Kangemi, e Kileleshwa, si andavano consolidando, e quella che diventerà una caratteristica saliente di Nairobi - una divisione socio-spaziale della città - prendeva forma.
Al settore europeo di Nairobi era assegnata una gran quantità di terra, l’ottanta per cento del suolo residenziale urbano a cui corrispondeva il 10% della popolazione, e quindi aveva la più bassa densità abitativa per ettaro; alle aree degli indigeni africani, corrispondeva invece un’ altissima densità abitativa. Alla fine del 1926 gli Europei possedevano 2,700 acri di terra, gli asiatici, prevalentemente originari dell’India, circa 300 acri, mentre gli Africani ufficialmente nulla se non le case che erano state assegnate loro.
Intanto il centro della città si arricchiva di nuovi edifici pubblici, compresa la Town Hall e il tribunale. Un nuovo piano, “The Plan for a settler capital”, veniva elaborato nel 1927: si basava sugli esempi delle città coloniali sudafricane rafforzando la suddivisione spaziale per etnie e mirava a normare gli usi, controllare l’accesso alla città, demolire gli insediamenti considerati insani.
Ma la produzione di spazio, nonostante i decreti e la forza impiegata dal regime coloniale, rimaneva alquanto contestata. La concezione africana dello spazio e della sua utilizzazione riusciva in qualche modo ad affermarsi in aree come quella di Pumwani.
All’indomani della seconda Guerra mondiale a Nairobi c’erano circa 77,000 persone, un notevole aumento rispetto alle 40,000 che c’erano nel 1938. Di nuovo, l’aumento di popolazione era dovuto in gran parte al fatto che un’ ulteriore massa di africani si ritrovava espropriata della terra e in condizioni di indigenza.
Nel 1948 veniva elaborato un nuovo piano per Nairobi, il “Masteplan for a Colonial Capital” che mirava a consolidare i confini della città, piuttosto che ad allargarli, ad arricchire il centro per trasformarlo, anche simbolicamente, in una capitale coloniale, a individuare aree industriali e attraverso le “Neighbourhood Unit Planning” a creare aree residenziali, distinguendole di nuovo in base all’etnia.
Nel periodo coloniale, il nuovo ordine imposto dagli Europei – in termini di concezioni e modelli spazio-temporali e di ordine politico e sociale, - aveva creato nuove identità (l’Europeo-ricco da una parte e l’Africano-povero all’altra estremità, con gli Asiatici nel mezzo) e si affermava come dominante. Il modello di urbanità imposto dal regime coloniale diventava la norma ed espressione della città formale, ovvero della città “autentica”. L’altra parte, la città costruita dagli Africani in maniera spontanea senza piani, si affermava come la città informale, cioè al di fuori della norma. A questo modello eurocentrico corrispondenva non solo una discriminazione su base etnica, che certamente era alla base della separazione, ma anche una discriminazione su base economica: i bianchi erano ricchi e i neri poveri.
All’indomani dell’indipendenza
Non erano mancati momenti di opposizione al regime coloniale: il movimento dei Nandi (1905-1907) e poi quello dei Mau Mau (1952-1960) furono quelli più importanti e violenti, ma nel 1963, repentinamente e pacificamente, fu raggiunta l’indipendenza grazie alla forza combinata dei nazionalisti, che raggruppava partiti politici, sindacati e associazioni etniche.
Nel frattempo la struttura della società era cambiata e un’altra classe di Africani, tra quella dei si stava formando. Il regime coloniale aveva avuto bisogno dei vari leader delle comunità per governare il paese, così come era stata necessaria la formazione di un esercito di civil servant Africani (dai maestri agli impiegati dell’amminitrazione coloniale) per la gestione quotidiana e capillare del paese. Questa “piccola borghesia”, andava pian pianino acquisendo una sua posizione economica e politica e sarà questa che formerà il governo della Republica del Kenya.
Con l’indipendenza gli Europei se ne ritornano in Europa e le loro terre venivano acquisite dalla “piccola borghesia” o dallo stesso governo. Attraverso il cosidetto “Million Acre Scheme”, finanziato con l’aiuto del governo Britannico e della Banca Mondiale, 1200 milioni di acri furono distribuiti a 35,000 famiglie. Altri programmi simili avrebbero dovuto redistribuire il resto delle ex terre agricole europee; invece oltre metà delle terre furono comprate direttamente dagli Africani più abbienti.
E così la stratificazione della ricchezza su base etnica si trasforma in una stratificazione su base puramente economica. Il Kenya diventò una classica “società neopatrimoniale” in cui i gruppi etnici o nazionalità –entità abbastanza flessibili nell’epoca pre-coloniale - si rafforzavano e si trasformavano i vere e proprie “tribù politiche” in competizione tra loro per l’accaparramento delle risorse disponili.
Il rapporto tra gruppi etnici e politica è assai complesso e molto legato a questioni di “identità”, “essere” e “appartenenza” come Patrick Chabal fa notare (consiglio l’interessante libro Africa: The politics of suffering and smiling, 2009). Il regime d’ordine che si instaura all’indipendenza e che previlegia di volta in volta il gruppo etnico a cui appartiene il capo dello stato e si tradurrà in una conduzione della stato volta a promuovere il benessere individuale e del clan dell’elite al potere, non può essere descritto solo attraverso il significato moderno di “corruzione”.
Mi riprometto di ritornare su questo aspetto e di spiegare meglio quello che Chabal intende, in un altra pagina di questo diario, riprendendo anche la questione della terra e quello che essa rappresenta nell’immaginario dei kenioti e di come questa sia il contenzioso più importante anche nelle trasformazioni urbane di Nairobi.
Quello che mi preme ora mettere in evidenza è che la nuova elite africana, per una lunga serie di ragioni – tra cui l’eredità coloniale, la smania per la modernità e la difficoltà di conciliare l’interesse locale della propria comunità di origine e l’interesse generale della nazione - optò per la continuità delle strutture governative coloniali e per una accentuata stratificazione di classe. Nel Kenya indipendente, così come nel Kenya di oggi, l’esclusione sociale su base etnica, perpetuata dal regime coloniale, si trasforma in un esclusione sociale su base socio-economica. La smania dell’elite di arricchirsi e di previligiare la propria comunità di origine, piuttosto che dell’equità sociale e dell’interesse generale a scala nazionale, diventerà il motore del modello segregativo della città.
Volendo riassumere in cosa consiste l’eredità coloniale nel processo delle trasformazione urbane nominerei subito il modello segregativo, di cui ho già parlato. Ma si eredita anche l’incapacità di gestire la crescita urbana e gli slum, delle politiche territoriali volte ad evitare il coinvolgimento/partecipazione della popolazione povera della vita urbana; insediamenti a bassa densità e destinati ad una minoranza; e la mercificazione della casa e dei suoi componenti.
L’enorme disparità in densità e utilizzo del suolo di oggi è una manifestazione di questa segmentazione sociale: i nuclei ad alto reddito, che rappresentano il 10% della popolazione di Nairobi occupano oggi il 64% della superficie residenziale mentre i nuclei a basso reddito, che rappresentano il 55% della popolazione occupano solo il 6% della superficie.
Alla città regolare, pianificata, infrastrutturata e in un qualche modo controllata, luogo del potere, delle classi agiate e dei cosiddetti espatriati, delle banche internazionali, degli alberghi di lusso, dei mall e degli uffici, si contrappone “la città degli slum” costituita da agglomerazioni spontanee e per natura dei materiali “temporanee”, dove vivono migliaia di persone che di fatto sono esclusi dai beni e i servizi urbani di base come l’acqua, le fognature, i trasporti, le strutture sanitarie, le scuole e gli asili. E’ un spesso anche l’esclusione da un lavoro regolare e adeguatamente retribuito, dalla rappresentanza politica e dai processi decisionali.
Nel mezzo, c’è una middle class che certamente cresce e che lascia una traccia sempre più marcata nella città. Occupa quartieri di palazzine in cemento armato construite in varie epoche, ma che negli ultimi dieci anni si sono diffusi a macchia d’olio, occupa le case costruite dal governo e poi vendute o affittate ai suoi civil servants, occupa quartieri che dovevano essere di edilizia popolare ma che per i prezzi troppo alti non sono accessibili alla lower class. Assomigliano a quelle palazzine che vi ho decritto nel diario 3, dove io stessa ho vissuto per un paio di settimane.
Ma ora voglio parlarvi degli slum i quartieri dove metà della popolazione urbana del Kenya vive, facendo una premessa. Possiamo identificare una serie di caratteristiche comuni agli slum di tutto il mondo: possesso della terra molto incerto e non sancito da leggi; abitazioni precarie, costruite con materiali di fortuna e non rispondenti a standard abitativi minimi; altissima densità; una distribuzione sul territorio complessa, ma spesso in aree marginali e non ancora richieste dal mercato; assenza o scarsità di servizi (luce, acqua potabile, fognature, raccolta rifiuti); tassi di mortalità più alti che in altre zone. Ma ogni città, ogni slum ha delle caratteristiche peculiari, che dipendono dal processo di formazione dello slum stesso (qual’era il nucleo originario, le motivazioni dell’insediamento, le trasformazioni successive), i gruppi etnici prevalenti (ogni gruppo etnico ha una sua cultura, concezioni peculiari dello spazio e della vita sociale); l’età media degli abitanti; la permanenza media degli abitanti nello slum; il rapporto tra proprietari e affittuari, ecc.
Quello che io mi accingo a descrivere è la realtà di Nairobi, e in particolare faccio riferimento a due slum: Mathare (Fig. 6) e Kibera (Fig.7)
Gli slum di Nairobi
Cosa sono gli slum
Slums, favelas, barrios, baraccopoli, insediamenti informali, sono parole che indicano dei quartieri costituti perlopiù da baracche addossate le une alle altre, costruite con vari materiali di fortuna (generalmente di scarto o di scarsa qualità) in assenza di un piano di lottizazione o simile, senza allacciamenti alla rete fognaria, elettrica e dell’acqua potabile. A Nairobi la densità abitatita negli slum varia da 15.000 a 85.000 persone per Km quadrato (vedi Fig.9).
Questi quartieri crescono per aggiunte progressive di unità, non comprendono scuole, servizi pubblici, strade o quant’altro ci si aspetterebbe da un quartiere ben pianificato e costruito. Può succedere che con il tempo, una serie di attività collettive e di servizio – dispensari farmaceutici, scuole, cliniche, servizi igienici, vengano costruiti. Spesso con l’aiuto di associazioni e la collaborazione degli abitanti, più raramente, con l’aiuto del governo o dell’amministrazione locale.
Gli slum si insediano su terre “libere”, generalmente alla periferia delle città, dove esiste meno “pressione” e dove il mercato immobiliare non si è ancora organizzato, ma possono anche svilupparsi in zone centralissime (un esempio è Kibera), vicino a fabbriche, in aree alluvionabili o a rischio, dove la pianificazione non prevede l’insediamento umano.
Le terre occupate possono essere pubbliche o private, e l’occupazione può essere illegale (squattering) oppure legale, nel senso che il proprietario ha concesso il permesso a queste persone di insediarsi (dietro pagamento di un affitto). Si può anche essere in presenza di una lottizzazione regolare, ma poi i lotti possono essere a loro volta frazionati e affittati o venduti, e poi edificati in assenza di un permesso a costruire.
Insomma la casistica è assai ampia e le condizione di occupazione del suolo, delle baracche e delle relazioni economico-sociali tra abitanti e possessori della terra e delle strutture dipende molto dalle condizioni socio-politiche locali. Questo fattore incide moltissimo sulla composizione sociale dello slum, e rappresenta un elemento chiave per capire le dinamiche di sviluppo del quartiere e delle variabili da considerare qualora si volesse intervenire per migliorare le condizioni abitative.
Vivere negli slum non è gratis
Vorrei specificare, che praticamente nessuno degli abitanti vive in queste baracche gratis. E’ da non credere, ma anche vivere in una baracca costa! Non solo ma alcuni servizi, l’acqua potabile in particolare, costa di più che in un quartire formale o addirittura in un quartire della high class dove i servizi pubblici sono arrivati. Negli slum infatti la fornitura d’acqua è lasciata completamente al servizio privato, che se ne approfitta.
La stragrande maggioranza degli slum dweller è in affitto, e paga la pigione al “proprietario della baracca”, che spesso è un “absentee landlord” cioè qualcuno che vive altrove (in una casa vera e propria) e che possiede ben più di una baracca. Spesso questo absentee landlord ha ottenuto la terra – originariamente pubblica o common land - come “dono” da un politico, che spesso gli ha anche rilasciato un certificato che ne attesta la proprietà. Ovviamente questa allocazione di terra ad un privato e per usi privati è illegale, la Costituzione non permetterebbe l’uso di terra pubblica per fini privati, ma è successo. Questa pratica, di dispensare terre pubbliche ai propri parenti, e agli appartnenti al proprio gruppo etnico, si chiama land grabbing ed è stata praticata fin dai primi anni dell’indipendenza e non è per niente scomparsa. E’ una delle forme più diffuse di corruzione insieme a quella dell’appropriazione indebita di fondi pubblici attraverso contratti fraudolenti.
Praticamente questi absentee landlord si fanno un sacco di soldi: la terra non l’hanno pagata, ma percepiscono settimanalmente una rendita, su cui ovviamente non pagano le tasse. Non c’è quindi da stupirsi che ci siano persone che hanno interesse a mantenere gli slum così come sono!
Chi sono le persone che vivono in questi quartieri
Per lo più persone normali che non hanno trovato altrove un alloggio adeguato alle loro possibilità di spesa. Sono persone che non hanno un impiego stabile e retribuito adeguatamente, oppure famiglie numerose che devono sopravvivere con un solo stipendio, donne con prole che non hanno altro aiuto al di fuori di se stesse. Tanti giovani provenienti dalle zone rurali in cerca di lavoro, di un opportunità nella vita che sia qualcosa di più della mera sussistanza che ti offre la campagna (sempre che non si siano ondate di siccità o altre calamità naturali). Talvolta, come mi è capitato di conoscere, persone con uno stipendio che potrebbe consentirli una sistemazione migliore, ma che per risparmiare (in genere per l’educazione dei figli) vive qui.
La città in Kenya, come in tutta l’Africa più generalmente, costrituisce ancora una forte attrattiva. Non sempre per le reali possibilità che questa offre, ma più per le potenziali opportunità che possono rappresentare. Le condizioni abitative nella casa di origine nei villaggi sono spesse migliori, o sembrano meno degradanti, di quelle che si ottengano trasferendosi in città e soprattutto a Nairobi. Ma qui, in città, ci sono tutta una serie di servizi, soprattutto la possibilità di studiare, di incontrare persone, di trovare un lavoro – per quanto precario sia – che in campagna.
Raramente i migranti rispondono allo stereotipo dell’abitante povero, analfabeta, e mal adattato. Essi provengono da tutte le classi sociali, e tendenzialmente con lo stesso livello di formazione scolastica, reddito e lavoro di quelli che da sempre hanno vissuto in città, anzi sono spesso quelli ad avere un educazione superiore alla media a lasciare il villaggio per andare in città, quelli meno ‘educati’ tendono a muoversi, in altri villaggi.
Il fatto di vivere in uno slum è uno step accettabile, il primo gradino della scala sociale, l’accesso alla città, in attesa di trovare un posto migliore, magari di studiare, farsi una posizione e quindi poi muoversi in un quartiere appena meglio.
La baracca: non più capanna e non ancora appartamento
La diversità degli slum di manifesta nelle risposte diverse alle necessità (dormire, mangiare, guadagnare, etc.) in una società in trasformazione. Il risultato è spesso di una contaminazione tra ancestrali tradizioni locali e modernità che passa attraverso l’uso generalizzato di beni di consumo e di tecnologie d’importazione (il cellulare primo fra tutti). Il legame con il mondo rurale di origine, è molto forte, e solo a livello di relazioni sociali, ma persiste nell’organizzazione spaziale città degli slum. La dimensione del villaggio e della casa rurale non scompare del tutto come riferimento culturale, comunitario e spaziale. Questo legame a livello di organizzazione spaziale e ambientale non è così evidente a prima vista perchè l’esportazione e l’adattamento della casa rurale nel contesto denso della città trasfigura i connotati e le qualità del modello originario.
La casa nello slum, come quella del villaggio, è fatta di materiali poveri reperibili sul luogo terra prima di tutto; nel caso della città sono soprattutto materiali di scarto come terra, cartone, lamiera, stoffa, pezzi di plastica, e quant’altro di recuperabile si trova nelle discariche. Non è certamente dotata di tutti i comfort di una casa “adeguata”, come d’altronde non lo è una casa rurale. Nello slum ogni nucleo familiare ha generalmente una sola stanza che serve un pò a tutto: l’ambiente è flessibile e c’è spesso commistione tra esseri umani e animali, la vista si svolge soprattutto all’esterno. Dove si trova il focolare. In campagna, il focolare trova spesso riparo in un altra capanna, per riparasi dalle piogge.
Il problema di questo modello abitativo “rurale” è che nella sua trasportazione e adattamento all’ambiente urbano si densifica, aumentando il carico antropico che diventa insostenibile per la terra e l’ambiente.
Che si è fatto per gli slum?
Con l’indipendenza il progetto era quello di eliminare tutti gli slum e di sostituirli con case adeguate, immaginate nella forma di palazzine moderne in cemento. Il governo aveva piani ambiziosi: assicurare ad ogni famiglia un’ unità abitativa accettabile che corrispondeva a due stanze, una cucina separata e un bagno. Le strutture che non corrispondevano a questi standard erano da demolire, con il risultato che molti abitanti furono espulsi dal centro urbano per andare ad ingrossare le periferie informali
La Banca Mondiale aveva cominciato a promuovere i primi progetti di site and services e di upgrading. Alla base c’era l’applicazione del principio del self-help, ovvero “aiutare i poveri ad aiutare se stessi”. Site and service significa che agli abitanti viene concesso un appezzamento attrezzato con I servizi minimi: allacciamento alle fognature, all’acqua corrente e all’eletricità, mentre è lasciato a ciscun individuo la responsabilità di costruirsi l’abitazione. Questa concessione non era gratuita, ma prevedeva un cifra da pagare a rate per andare a “recuperare i costi” e rendere il processo replicabile.
Lo slum upgrading è invece quel processo di recupero degli slum mediante la graduale sostituzione delle baracche con insediamenti umani più vivibili, dove i residenti abbiano possesso sicuro della terra, infrastrutture e servizi primari, e abitazioni adeguate. Si andava affermando una nuova ortodossia: dall’edilizia pubblica popolare ( e sussidiata) si passava ad un edilizia popolare nelle mani del mercato, sollevando l’impegno ‘storico’ degli stati a provvedere per la popolazione più disagiata. Si preparava così la strada al ritiro massiccio del governo statale e locale nella fornitura di servizi che sarebbe avvenuta negli anni seguenti.
Il governo kenyota, nell’impossibilità di provvedere alle abitazioni necessarie e diventando il problema dei quartieri informali sempre più pressante, tenta strade alternative. Sulla scia del nuovo approccio promosso dalla Banca Mondiale, passa anch’esso all’ approccio più ‘pragmatico’ dell’upgrading e del site&service. Il primo progetto di questa generazione fu quello di Dandora che si prefiggeva di creare 6,000 lotti dotati di infrastrutture destinati a famiglie a basso reddito. Dati i costi, queste unità, andarono però a beneficiare le classi medie e alte e non i poveri per cui erano state inizialmente costruite.
A metà anni ’80 avviene un altro cambiamento, nell’approccio ai problemi degli insediamenti da parte della Banca Mondiale e di conseguenza alle altre agenzie e giù sino ai governi. Il mancato recupero dei costi dei progetti precedenti di upgrading (ritenuti quindi degli insuccessi prima di tutto finanziari), i programmi di aggiustamento strutturale - che spingevano alla privatizzazione dei servizi pubblici, delle risorse naturali, decentramento amministrativo e deregolazione del mercato (spesso in cambio della rinegoziazione del debito che i paesi via via accumulavano nei confronti dell’IMF) – e il ruolo strategico riconosciuto alla città come motore della crescita economica, fanno si che si individua un modello di intervento orientato ad un impegno minore dello stato verso il fare, e un impegno maggiore verso il far fare, ovvero verso le enabling strategies che significa “mobilitare risorse e capacità imprenditoriali per incrementare la produzione di abitazioni e infrastrutture”.
Negli anni ’90, di nuovo, il governo Keniota, sulla nuovo sulla scia delle raccomandazioni della Banca Mondiale, cambia approccio: anzichè assumersi il ruolo di fornitore principale di alloggi, crea incentivi che possano facilitare il recupero dei quartieri informali da parte sia di privati che di ONG. Il Mathare 4A Development a Nairobi, che è anch’esso un progetto di slum upgrading, rappresenta l’applicazione di questo approccio. Seppur una qualche infrastruttura fu fornita e qualche miglioramento ottenuto, che questo metodo di intervento fu fallimentare; soprattutto perchè non compresero nè i bisogni primari degli abitanti, né il fatto che la maggior parte degli abitanti erano affittuari e non proprietari delle baracche esistenti.
Le cose da allora non sono cambiate molto, ci sono certamente più progetti, ma gli slum continuano ad esistere e la maggior parte dei progetti, seppur riuscendo a migliorae le condizioni di un certo numero di abitanti, rimangono una goccia in mezzo al mare.
Sia i programmi del passato che anche i più recenti progetti, pur nella diversità delle soluzioni proposte, sono simili nella rappresentazione del problema. Il modo in cui il problema è posto riflette una lettura univoca della realtà, che assume la città come un fenomeno sociale ed economico sostanzialmente omogeneo, e paragonabile a quello dei paesi occidentali. Il modello implicito di riferimento, perchè è sulla base del distanziamento della realtà dal modello, che un fenomeno viene considerato un problema, è una città in cui tutti si muovono con lo stesso tipo di razionalità, in cui le regole del mercato valgono per tutti e sono condivise, e che vi sia uno stato in grado di applicare le norme del diritto moderno, e che le esigenze e le aspirazioni individuali non possono che passare attraverso un’abitazione adeguata che consiste in una struttura di cemento (o simile) dotata di acqua corrente (possibilmente potabile), bagno collegato alle fognature, ed elettricità
Perchè, nell’era dell’abbondanza esistono ancora gli slum?
Ad oggi i dati quantitative sugli slum di Nairobi rimangono incerti, non solo perchè la popolazione negli slum cambia velocemente (una percentuale di abitatante è certamente transitoria) ma anche perchè la stessa quantificazione ha una sua “ragione politica” a seconda degli interessi dei diversi attori. Rivelare numeri alti permette di presentare il problema dello slum come “drammatico”, un caso eccezionale, degno di attenzione e quindi di fondi. Viceversa, ridurre la quantità al ribasso permette di considerare il problema sia “trascurabile” che affrontabile, non impossibile da risolvere.
Quindi da una parte abbiamo i numeri che le varie agenzie di sviluppo e ONG fanno circolare, strumentali per il reperimento dei fondi e il finanziamento dei progetti, che sono tantissimi, soprattutto nello slum di kibera, dove pare che ci sia una associazione attiva per ogni 50 abitanti. Dall’altra abbiamo i numeri presentati dal governo, che hanno convenienza a ridurre il problema.
Certamente l’aspetto “quantitativo” ha il suo peso, ma credo che occorra riflettere sull’aspetto qualitativo del problema, e ancora prima ragionare non tanto nè solo su quale sia il problema, ma su quail basi definiamo che un fenomeno sociale un problema.
I dati del Nairobi Urban Sector Profile (Un-Habitat, 2006) riferiscono che a Nairobi oltre il 60% della popolazione vive negli slum, quindi a fronte di una popolazione urbana stimata intorno ai 3 milioni di abitanti, oltre il milione e mezzo vive in uno dei tanti quartieri informali che costellano la città e ne riempono gli interstizi. Secondo lo stesso documento è inoltre previsto che la popolazione che vivrà negli slum raddoppierà nei prossimi 15 anni. Pensare che nei prossimi 15 anni non saremo capaci di trovare una risposta a questo problema è assai deprimente!
Quello che è preoccupante invece, dal mio punto di vista, è rappresentare il dilagare degli slum come se fosse un problema “naturale”, una calamità, qualcosa al di fuori del sistema, sul quale non possiamo interagire. Non solo e tanto perchè ci rende inermi, ma soprattutto perchè riflette uno schema mentale e una posizione ideologica per cui i fenomeni non sono considerati i prodotti di quello stessa sistema socio-politico ed economico nel quale viviamo. Come possiamo essere arrendevoli e semplicemente anche solo pensare che il numero di persone che vivranno in queste condizioni duplicherà nel giro di 15 anni. Solo i barbari accetterebbero questo sistema!
Certamente il problema, non è semplice, soprattutto se questo assume valori quantitativi come quelli di Nairobi, e se calato all’interno di una realtà di paese non ricco, e di uno stato che denuncia carenze di risorse.
Quello che mi chiedo ogni volta che leggo un articolo, un libro su questo argomento e ogni volta che entro in uno di questi quartieri è: perchè oggi nell’età dell’abbondanza, della democrazia, dei diritti, della tecnologia, ci sono ancora persone che vivono nell’indigenza e sono soggette a uno stile di vita che da un punto di vista della lunghezza della vita e della salute, certamente è di una categoria infinitamente inferiore.
Ma credo che, per quanto banale possa essere, il problema principale sia quello di una volontà politica capace di fare accettare al popolo Keniota (e a tutte le agenzie e associazioni che intendono adoperarsi per dare una mano) che occorre individuare un modo per redistribuire più equamente le ricchezze e i benefici, che non si può accettare di far vivere migliaia e migliaia di persone senza un minimo di servizi, quando dall’altra parte si investono risorse per costruire una “world class city” fatta di superstrade, aeroporti, centri commerciali ricchissimi e via di seguito. Perchè è questo che sta succedendo a Nairobi. Nelle prossime pagine del mio diario vi racconterò di alcune opere in corso, dei progetti del governo, ma anche delle micro-imprese che si stanno portando avanti in tanti slum per migliorare le condizioni degli abitanti.
Le prime due settimane del mio soggiorno a Nairobi sono stata ospitata a casa di Gathogo e Polly (lui ex compagno di master, lei la sua simpaticissima moglie che abbiamo conosciuto nel 2004). Da loro, in Langata, e più precisamente ad Uhuru Gardens, prima periferia di Nairobi, ho fatto vera vita africana urbana (da middle class).
Questa comprende lunghi viaggi sui matatu (pulmini a 13 posti che suppliscono alla carenza di trasporto pubblico) nel traffico allucinate (sempre peggio aimè, ed ugualmente polveroso) e assordante (musica a manetta e ora anche video!) tra casa e lavoro. Ma devo dire che è più comodo, di una volta: non stipano più persone di quelle consentite perchè il conducente rischia ora di prendere una salatissima multa se lo beccano.
Matatu e sfera pubblica
Il viaggio in matatu non si può descrivere senza perdere gran parte del suo fascino, e anche della sensazione di terrore. Guidano spericolatamente, su strade dal fondo sconnesso, salendo su marciapiedi, cordoli, deviando per carraie, sorpassando sia a destra che a sinistra, tutto nel tentativo disperato di evitare il traffico.
Innanzitutto, dove si prende il matatu? Siccome non fa parte del sistema di trasporto pubblico, le sue rotte non sono scritte da nessuna parte, bisogna chiedere in giro, ma sta pur sicuro che un matatu che va dove hai bisogno di andare quasi sicuramente c’è. Ogni tratta ha due punti di carico e scarico “fissi”: i capolinea, i punti intermedi sono piuttosto flessibili (traffico permettendo), diciamo a richiesta. A Nairobi centro il capolinea è in downtown, nei pressi della fire station oppure vicino alla bus station, in entrambi i posti e più generalmente nella downtown, c’è un caos di mezzi e di persone inimmaginabile. La downtown si sviluppa a est e nord est di Nairobi, il confine è la mitica Tom Mboya Street. Al di là, la Nairobi “locale” al di qua, la Nairobi “internazionale”.
In questo caos, trovare il numero giusto non è cosa da poco. Ma se tu non trovi lui, lui, o meglio il “controllore” del matatu trova te. Siccome c’è concorrenza spietata tra mezzi, ogni business cerca di riempire il prima possible il matatu per poi partire, quindi urlano (in Swahili) la meta e il prezzo, con una cantilena che sembra quasi una filastrocca.
Non è neache il caso di specificare che anche i prezzi sono mutabili… la tariffa dipende dal mezzo (più o meno alla moda e dotato di IT, come il video), dall’ora (nell’ora di punta costano di più) e dal tempo atmosferico (quando piove il prezzo della corsa subisce immediatamente un incremento!). Ogni matatu può caricare 15 persone: l’autista, due passeggeri davanti, 12 passeggeri dietro e il “controllore” che ha il compito di trovare i viaggiatori, risquotere il pedaggio, e gestire le fermate.
Dal momento che comincia la corsa, le comunicazioni tra passeggeri, controllore e autista sono fatte perlopiù di segni… la musica assordante rende qualsiasi conversazione orale assolutamente inutile. Il controllore comunica all’autista attraverso delle manate date sulla lamiera del mezzo (oppure utilizzando una moneta, provocando quindi un suono metallico che riverbera ovunque). Un picchio significa che può ripartire, due picchi che alla prossima fermata (ipotetica, immaginata, sottointesa) si deve fermare. Le comunicazioni tra passeggeri e controllore consistono in tocchi con un dito sulla spalla. Se è il controllore che te lo da, significa che gli devi pagare la corsa. Se sei tu che lo dai a lui, significa che alla “prossima” vuoi scendere.
E’ un luogo privilegiato il matatu, riesci a vedere come funziona la città, come comunicano le persone, riesci a guardare quelle bellissime faccie senza essere insolente. E ne puoi sentire l’odore e ti puoi togliere il desiderio e la curisità di sfirorare il braccio di un bambino, di una donna o di un uomo senza che questo provochi alcun problema: lo spazio nel matatu è risicato!
Tutto sommato è un mezzo efficiente nell'inefficienza assoluta del sistema. Il matutu è un icona della città Africana. A Nairobi rappresenta la trasgressione (dalle regole del traffico, dell’economia, e della politica, che in più momenti ha tentato di bandirli), la creatività, la bizzaria dei kenioti. E’ al tempo stesso mezzo di comunicazione, non solo perchè trasporta persone da un luogo all’altro, ma anche perchè offre uno spazio di comunicazione, e prodotti culturali. Alcuni matatu sono dei veri e propri oggetti d’arte, per i colori, i graffiti che riportano sulla carozzeria, per la cura degli interni, per la musica o i programmi radiofonici che trasmettono.
Sono anche parte di quella “sfera pubblica” che si nutre di “rumours”, potenti mezzi di “verità” paralleli al sistema formale di informazione (media, giornali, radio e TV). Questa rete di comunicazione informale (detta anche da Musila “Kenyan grapevine”) prende vita dai discorsi popolari che si formano al mercato e sui matatu, e può diventare una forma potente di contestazione. La sua “legittimità” e forza la si capisce dal momento che le istituzioni e i media tentano di screditarla o ancora peggio di cooptarla. Qeusto “rumor” non è l’esclusivo dominio del pubblico discontento, ma un mezzo polivalente di cui talvolta si serve anche la classe politica. E’ soprattutto attraverso questo media che i Kenioti sono informati e totalmente coscienti della corruzione che divampa nel loro paese. Non c’è persona, per quanto distante essa sia dalla città, che non è a conoscenza delle malefatte della classe politica e dell’elite (c’è una strettissima correlazione tra i due gruppi, quasi una sovrapposizione geometrica…).
Tuc tuc e boda boda
Oltre ai matutu ci sono anche i tuc tuc, ovvero dei mini matatu che fanno la spola tra fermate dei matatu e quartieri non serviti dai mezzi collettivi. Affrontano tragitti più brevi e spesso su strade non asfaltate e raggiungono gli slum oppure i compound distanti dalle arterie principali. Ci stanno 4, a volte anche 5 persone, se magre. Si tratta di un Ape della Piaggio adattata al trasporto di passeggeri. E’ un servizio importantissimo, soprattutto per le donne che alla sera dalla fermata del matatu (da una arteria principale quindi) devono raggiungere la loro abitazione, attraverso strade non illuminate e non molto frequentate.
In questi ultimi anni sono proliferati i boda boda ovvero i taxi motocicletta, che fanno più o menoil servizio dei tuc tuc. Sono diffusissimi soprattutto nelle città minori e nei paesi. Questo mezzo si è diffuso perchè hanno prezzi di molto inferiori alle automobili e permettono ai giovani di guadagnarsi da vivere. Ma purtroppo, data la precarietà del mezzo, il non essere avezzi alle due ruote, alle condizioni delle strade e la guida spericolata (anche senza patente), i boda boda sono oggetto di tantissimi incidenti. Mi diceva un taxista, che nella città di Eldoret la metà dei pazienti in ospedale sono vittime di incidenti da motocicletta.
Tran tran giornaliero
Arrivata a destinazione (università, uffici comunali, biblioteca, archivio, etc.) la mia giornata prosegue tra appuntamenti, attese, attraversamenti (sto al passo degli africani!), studio, letture, e si conclude piuttosto presto, 5-6 del pomeriggio, per consentire un rientro a casa prima che faccia buio.
A meno che... si prenda un taxi (cosa che evito il più possibile, visto che non sono poi così economici) o non si aspetti Gathogo, che da buon professionista possiede un automobile e spesso passa a prendere la moglie e rientrano a casa insieme. Lui dice sempre “I am on my way… almost in town…” ma magari non arriva in città prima delle otto di sera.
E allora sto 2 ore nel loro cafè preferito “The Mug” (un Giava più locale, ma sempre per middle-high class, però più africano che europeo) dove praticamente loro sono di casa. Spesso aspetto con Polly, anche lei in attesa e magari altre persone che passano e poi vanno.
Il rientro a casa con Gathogo comprende SEMPRE una tappa al supermercato che è aperto se non tutta notte almeno sino alle dieci di sera. Sono incredibili, altrochè il Nakumatt del 2004! Questi fanno competizione a quelli inglesi e americani per la quantità di roba e ‘schifezze’ varie (tra patatine e dolcetti c'è da perderci l'occhio e la linea!). Anche qui è arrivato il latte appena munto che si scarica nelle bottiglie di plastica da un mega dispenser. Famiglia Gathogo (soprattutto Polly) da buoni ecologisti usano questo metodo, il che richiede almeno due tappe settimanali a riempire le 4 bottiglie da 1.5 litri!
Ora che siamo a casa sono le 9 passate e anche se non ho fatto niente dalle 5 del pomeriggio sono esausta e la testa sta per esplodere dalle chiacchiere e dalle infinite immagini che durante la giornate si sono accumulate e che continuano a mandare impulsi al cervello. Ma non è finita... doccia veloce e poi cena... televisione praticamente sempre accesa... spesso i bambini sono ancora alzati: Anissa di 30 mesi, che richiede un pò di attenzione e Fathili, 7 mesi che aspetta la sua tettata. Ci si aggiunge un gattino che miagola in continuazione...
Sometimes is just too much!
Dimenticavo, c'è una tata tuttofare che vive con loro, che accudisce i bambini, tiene in ordine la casa e prepara da mangiare: chapati favolosi!!!!!! Ma anche il resto non è male. Frutta deliziosa e riso saporitissimo, ugali (che poi non è altro che una specie di polenta) e quelle verdurine che tagliano finissime che non ricordo il nome. Raramente carne, ma poi fagioli, di vari colori, lenticchie e altre cose.
"Dam view estate" in Uhuru gardens
Vivono in un tipico appartamento da middle class: in una palazzina di 4 piani (a volte sono anche di 8), parte di un compound che comprende altre palazzine, ovviamente recintato da un alto muro e monitorato da una guardia 24 ore al giorno, che controlla chi entra e chi esce.
La palazzina ha dei tipici dettagli che a me sembrano "nairobesi" tipo l'uso del bowindow inglese ma usato per tutta l'altezza, richiami di semitettucci a capanna o addirittura a mansarda o peggio da chalet di montagna, e un archetto messo sempre da qualche parte. Nell'insieme diventa tipico di qui, comunque nulla di peggio di quanto succede da noi, anzi quasi piacevoli!
C'è un cortile, spazio per stendere e parcheggiare. Ci sono tutti i comfort: luce, gas (bombole) acqua potabile (o quasi), fognature. Ma al di fuori del compound sembra di essere in campagna, le strade interne, cioè quelle che dall'arteria principale (Langata Road) portano alle lottizzazioni sono sterrate, con buche che potresti annegarci dentro in tempo di heavy rain! Ai bordi delle strade i soliti gabbiotti che vendono immancabilmente le ricariche della Safaricom (rete cellulare), caramelle sciolte, i banchetti delle verdure, le donne che a terra cucinano ugali e spezzativo da vendere ai lavoratori nei paraggi (in these days vicino c'è sempre un cantiere). Non mi manca la compagnia nel percorso da casa alla fermata del matatu.
C'è anche un mini market, very basic (dove Gathogo famility non ha mai messo piede, ma la tata si, a comprare qualcosa che manca all’ultimo minuto) con gestori molto simpatici. A fianco un hotel (bar) dove fanno un chapati delizioso. E' una versione antecedente al centro commerciale moderno, che è ancora diffuso fuori Nairobi. A me ricorda un pò i “minimarket” che si trovavano nelle frazioni di campagna, dove accanto al bar c’era un piccolo alimentari con le cose essenziali, generalmente gestito dalla moglie del barista!
Questi negozietti, credo che siano utilizzati soprattutto dalla lower class che si trova in zona, o perchè lavora per la middle class (le varie tate, house help, lavandaie eccetera) o perchè hanno subaffittato una camera nelle casa della middle class, che così arriva a fine mese meno strafogata e si può permettere una macchina!
Ma entriamo in casa... potresti essere da qualsiasi parte del mondo, non c'è quasi nulla dentro che ti fa pensare che sei in Africa, forse la televisione se stanno trasmettendo un programma in swahili. C'è praticamente tutto quel che occorre, tranne la lavatrice. Al suo posto viene utilizzata una signora che tutti i venerdì viene a lavare a casa a mano tutto quello che si accumula in una settimana, e torna il lunedì a stirare. Per un totale di 3 euro alla settimana! Insomma conviene usare lei piuttosto che comprare una lavatrice. Di tipico c'è una stanzetta a fianco della cucina: qui c'è un rubinetto che butta acqua direttamente a terra e un fornelletto di quelli africani, è praticamente l'equivalente dell'aia che si trova nelle case rurali. Finestra sempre aperta, si distende qui la biancheria intima, si mette l'immondizia, si cuociono le cose ingombranti, si lavano frutta e verdura, c'è la cuccia del gatto e adesso c'è anche un gallo... ma questa è un'altra storia.