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Titolo originale: Solar farms shouldn't sprawl all over agricultural land – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Sono un ambientalista sin dai primi anni ‘70, quando insieme ad altri studenti di quella generazione ho scoperto i problemi ecologici legati al nostro successo economico del dopoguerra. E ho poi passato gran parte della mia vita a servizio dell’ambiente, nei 35 anni al Department of Environmental Protection del New Jersey. Ma mi sono comunque trovato poco tempo fa in una situazione contraddittoria. Si parla da tanto tempo nel paese di ridurre la dipendenza da petrolio come fonte principale di energia. Ne abbiamo trovate “forme pulite” come quelle dal vento, dall’acqua, dal sole. E parrebbe piuttosto semplice rivolgersi a queste, visto che non inquinano e si tratta di fonti naturali disponibili.

Oltre ad essere un ambientalista sono anche un pianificatore regolarmente iscritto all’albo del New Jersey, il che mi consente di testimoniare come esperto davanti alle commissioni urbanistiche. Poco tempo fa un’impresa mi ha chiesto di sostenere la sua richiesta alla commissione locale di realizzare una “fattoria solare” in un terreno agricolo. L’idea è che trattandosi di una superficie disponibile e di dimensioni sufficienti si possono installare molti pannelli a bassi costi e ottenere migliori economie di scala. L’energia solare va benissimo, mi pagano pure benissimo per poche ore di lavoro, e allora dov’è il mio dilemma?

Dal 2011, la PSE&G ha installato progetti di energia solare per circa 46 megawatt in New Jersey (preciso: non è la PSE&G che mi ha chiesto una consulenza) investendo milioni di dollari in “fattorie solari”. Ha anche sistemato dei pannelli su migliaia di pali del telefono in tutto lo stato. Nell’affare dell’energia solare sono entrati in molti altri. Il New Jersey viene considerato in una posizione di vertice a livello nazionale da questo punto di vista. PSE&G, Jersey Central Power and Light sono al terzo e nono posto nel paese, secondo la classifica 2011 della Solar Energy Industries Association. Nonostanete alcune difficoltà il mercato dell’energia solare continua a svilupparsi e di sicuro crescerà per il futuro. Il dilemma non è se diventare più solari o no, ma dove farlo. E usare il termine “fattoria” falsa le cose, perché in fondo si tratta di una schiera di pannelli solari.

Le vere fattorie — quelle agricole — vanno avanti da centinaia di anni nel nostro Stato Giardino. Di sicuro qui non ci sono quelle enormi superfici a colture o allevamenti da latte di altri stati, ma la nostra agricoltura è comunque fiorente e produttiva. Pensando al New Jersey, di sicuro la media degli americani pensa agli svincoli, alle zone industriali, a tutte quelle aree residenziali urbane o suburbane sulla costa. Difficile per chi guarda da fuori immaginare che ci sono anche migliaia e migliaia di ettari agricoli. E purtroppo queste superfici si sono ridotte del 26% negli ultimi trent’anni. Se la scomparsa viene rallentata negli ultimi anni dalla crisi economica della recessione, continua comunque. Tutelare l’ambiente non vuol dire solo acque pulite e aria pura; significa anche proteggere la nostra possibilità di abitare la Terra.

Le aree agricole del New Jersey offrono cibo fresco e di migliore qualità di quello trasportato qui da fuori. Mettere pannelli solari al posto dei campi vuol dire soltanto perdere superfici agricole. E si tratta oltretutto di superfici non permeabili, che aumentano il deflusso e riducono l’assorbimento naturale delle acque piovane. Cosa forse ancora più importante, così si distruggono stili di vita che ci mantengono in contatto con la natura. Quasi tutti i più recenti impianti di pannelli solari sono stati realizzati in zone urbane, là dove la domanda di energia è maggiore. Di norma si costruiscono sugli spazi disponibili, sui tetti, su aree inquinate. Questo tipo di installazioni è da sostenere. Pannelli solari impermeabili là dove si è già impermeabilizzato, come sui tetti, non peggiorano certo il problema della gestione delle acque piovane e del deflusso, cosa che accade invece negli impianti su terreni agricoli o in aree disboscate.

Poi si deve verificare che I pannelli solari non danneggino esteticamente gli ambienti urbani, regolamentando l’installazione attraverso norme urbanistiche, così come oggi si sta discutendo in varie amministrazioni locali, ad esempio a Hoboken o altre municipalità. Magari a qualcuno non piacciono i pannelli sui pali del telefono, ma almeno all’ambiente non fanno male. Dovremmo insieme al settore energetico sfruttare meglio i tetti, magari attraverso forme di contratti d’affitto in cambio di risparmi sulla bolletta. Si potrebbe anche intervenire sugli attuali crediti energetici e ridurre i sostegni a chi ha maggiori impatti. L’energia solare è un fatto positivo che aiuta a ridurre le importazioni di petrolio e l’impatto ambientale. Ma sicuramente io non posso essere favorevole al tipo di “fattoria solare” che mi hanno proposto, ergo ho rinunciato alla consulenza, sperando che tanti altri prendano decisioni simili.

Barry Chalofsky, ha diretto la sezione acque del Dipartimento Tutela Ambientale del New Jersey. Oggi è consulente per la pianificazione territoriale e ambientale Chalofsky & Associates

Titolo originale: Negotiators reach consensus on global land governance guidelines– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

I negoziatori riuniti a Roma hanno concordato una serie di linee guida volontarie globali su una “governance responsabile” della proprietà e accessibilità dei suoli, delle zone di pesca, delle aree a bosco. La proposta sarà inviata alla Commissione ONU sulla Sicurezza Alimentare per l’approvazione finale nel prossimo maggio,sempre a Roma, come precisa in un comunicato la FAO. “Una volta approvate, le linee guida saranno di applicazione volontaria, ma dato che le abbiamo scritte in modo molto organico, e che si tratta di una questione su cui tutti concordano la necessità di un quadro di riferimento, si prevede che condizioneranno in modo determinate le future decisioni politiche” commenta Yaya Olaniran, attuale presidente della Commissione Sicurezza Alimentare. "Stiamo in realtà già vedendo come i governi adeguino le proprie scelte e pratiche alle linee guida".

I negoziati durano da ottobre, e rappresentano il culmine di sei anni di discussioni fra governi, organizzazioni internazionali, società civile, coordinati dalla Commissione. Le linee guida nascono dalle preoccupazioni sul fenomeno dell’accaparramento di terreni, enormi superfici dei paesi in via di sviluppo affittate a investitori privati. Gli orientamenti concordati coprono tutta una serie di questioni, dai pari diritti delle donne alla proprietà, alla costruzione di registri trasparenti e accessibili dalle popolazioni rurali più povere, al riconoscimento e tutela dei diritti d’uso informali tradizionali a terra, acque per la pesca e boschi. José Graziano da Silva, direttore generale della FAO, definisce l’accordo “una pietra miliare” e specifica: “Queste linee guida volontarie svolgeranno un ruolo importantissimo nella risposta al problema della fame, e della sicurezza alimentare dei bambini e degli adulti, in modo sostenibile sia dal punto di vista ambientale che sociale”.

Dopo l’approvazione ufficiale gli orientamenti diventeranno secondo la FAO un riferimento per i governi nazionali nell’approvare leggi e programmi riguardanti I diritti di proprietà e sfruttamento dei suoli, pesca e foreste. Si vuole così anche dare agli investitori e altri soggetti economicamente interessati una indicazione sulle buone pratiche, e alla società civile una base per sostenere i diritti delle comunità rurali. Alla serie di negoziati hanno preso parte novantasei paesi, organizzazioni non governative, agenzie Onu e altri organismi internazionali, oltre a rappresentanti del settore privato, per arrivare agli accordi di Roma nella sede FAO la scorsa settimana. Presto la segreteria della Commissione sulla Sicurezza Alimentare dovrebbe pubblicare sul proprio sito web il testo completo delle linee guida.

“Il metodo partecipativo dei negoziati ha tutto il merito" continua Graziano da Silva. “Si tratta di un dialogo assai necessario. Importante per le linee guida volontarie, e necessario per rispondere ad altre sfide per la sicurezza alimentare e lo sviluppo delle campagne". Altri danno un giudizio più problematico. “L’ampiezza della partecipazione e la presenza dei governi ha diluito i contenuti per arrivare a un consenso. Ci vorrà parecchio tempo perché tutte le risorse e aspettative investite in queste linee guida inizino a dare effetti” commenta Liz Alden Wily, esperta internazionale di proprietà e gestione di terreni". Dopo tutto si tratta solo di linee guida, che non vincolano i governi, o le compagnie, chi prende le decisioni, gli investitori, tutti già molto addentro ai processi di acquisizione e sfruttamento delle risorse". Forse tutto il tempo e il denaro investiti per gli accordi si sarebbero potuti sfruttare meglio con una migliore legge internazionale sugli scambi, da cui tanto dipende lo sfruttamento delle risorse, e “rafforzando quelle oggi debolissime sui diritti umani. O sostenendo la mobilitazione dei milioni di poveri colpiti attualmente da leggi e programmi".

Aggiunge Alden Wily: “Sarà interessante capire se il sistema globale che propone queste linee guida saprà impegnarsi nello stesso modo a tradurle in 150 lingue diverse e farne avere delle copie a tutte le comunità rurali povere dei paesi in via di sviluppo. Un miliardo di copie”. In un nuovo rapporto Earth Security Initiative [l’ho allegato scaricabile direttamente qui da eddyburg n.d.r.] sui rischi degli investimenti in terreni agricoli, si afferma che politica e investitori dovrebbero tener maggiore conto dei diritti informali delle comunità sulle loro terre, che si tratta dell’unica strada verso uno sviluppo economico sostenibile. “E parallelamente c’è anche una efficace tutela dei suoli, della biodiversità, dell’acqua potabile" aggiunge Alejandro Litovsky, autore principale del rapporto e fondatore del gruppo. “Visti i rischi a cui sono esposti I paesi di fronte al cambiamento climatico, anche queste risorse devono essere considerate dal punto di vista economico come nazionali".

Titolo originale: Les points de controverse du projet de Las Vegas espagnol – Traduzione di Fabrizio Bottini

Sulla carta, un progetto che può anche affascinare: Las Vegas>Sands (LVS), la società che gestisce il gioco nella metropoli del Nevada, vuole espandersi in Europa e ha scelto la Spagna, paese indebolito dalla crisi a partire dal 2008, col Pil in diminuzione e tasso di disoccupazione superiore al 22 %. E la prospettiva di costruire sul proprio territorio una “Euro-Vegas” in grado di attirare11 milioni di visitatori l’anno” creando “260.000 posti di lavoro”[si veda il nostro articolo " Las Vegas megalo"] è senza dubbio seducente. Ma oltre ai dubbi sollevati da un modello di sviluppo basato sulla speculazione, gli oppositori vedono anche in forse l’attuabilità del progetto.

La questione localizzativa

Sono due le regioni - Madrid e Catalogna – a disputarsi la localizzazione dell’intervento. La scelta finale di Las Vegas Sands dovrebbe arrivare prima dell’estate. Da parte catalana, la Generalitat (il Parlamento locale) propone di realizzare Eurovegas nel delta del Llobregat, nella zona situata a ovest dell’aeroporto internazionale El Prat. Ma si tratta di un’area umida tutelata, e una delle ultime aree ancora non urbanizzate nella regione di Barcellona, in cui un progetto del genere fa temere per l’avvenire dell’ecosistema del Llobregat. Venti diverse associazioni si sono unite nel gruppo SOS Delta, chiedendo che il progetto venga ritirato.

Sul versante madrileno, l’area candidata sono 2.000 ettari nella zona Valdecarros, a sud-est della capitale, ad accogliere la città dei casino. Il medesimo terreno era inizialmente destinato a 50.000 alloggi più 500 ettari di spazi verdi, progetto che verrebbe ovviamente abbandonato in caso di scelta per Euro Vegas. Aprire il cantiere per i casino dovrebbe anche probabilmente comportare la demolizione della baraccopoli di Cañada RealGaliana, una delle più grandi dell’Europa occidentale, contrastante nella sua prossimità alla città dei giochi. Fra le soluzioni, trovare nuovo alloggio alle decine di migliaia di abitanti sgombrati.

Numeri contestati

Il partito nazionalista catalano Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) giudica le prospettive di sviluppo promesse da LVS “non realistiche”. Ha analizzato i dati sul turismo in Catalogna per il 2010, calcolando che in alta stagione il settore dà lavoro a 390.000 persone con 540.000 posti letto alberghieri. Secondo Anna Simo, deputata ERC al Parlamento catalano, "è impossibile che con soli 36.000 posti letto [la previsione di Euro Vegas], si possano creare altri 164.000 posti, calcolando sia casinò che campi da golf". Secondo il progetto ci sarebbero 30.000 visitatori al giorno, calcolo molto ottimistico che rappresenterebbe un quinto del totale spagnolo (50 milioni di turisti l’anno, 137.000 al giorno). Anche la parte dedicata ai casinò è oggetto di discussione: la presidente dell’amministrazione madrilena Esperanza Aguirre garantisce che sarà del 18 %. Mentre il presidente del governo catalano Artur Mas ne riduce parecchio la quota, fra il 2 e il 4%.

Cambiare la legge sul gioco?

Introdurre un complesso di casinò sul territorio spagnolo comporta cambiare in parte la legge con implicazioni che arrivano anche a Bruxelles. LVS chiede in sostanza di rendere meno rigida la norma sul riciclaggio, come permessa indispensabile al proprio insediamento. El Pais ha elencato una trentina di “leggi su misura” necessarie all’apertura del cantiere, che vanno dall’ingresso dei minori ai casinò, all’esenzione dai contributi sociali, fino al permesso di fumare nelle sale da gioco. Tutti adattamenti che i vari livelli amministrativi e politici coinvolti sembrano pronti ad accettare, a fronte dei vantaggi economici. "Se ci sono delle modifiche [legislative] da fare, e che rientrano nei miei principi, si faranno", promette la madrilena Esperanza Aguirre.

I precedenti progetti falliti di città del divertimento

Il progetto di Euro Vegas suscita forte perplessità in Spagna dato che non si tratta del primo dei grandi investimenti del genere. Cinque anni fa nella regione di Aragona se ne doveva lanciare uno immenso, Gran Escala, almeno trentadue casinò, cinque parchi a tema, cinquanta alberghi, con 90.000 posti di lavoro. Presentato all’amministrazione regionale nel dicembre 2007, prima che esplodesse la bolla immobiliare. Poi la crisi ha congelato i promotori, mai arrivati neppure all’acquisizione del terreni. Progetto caduto nel dimenticatoio.

In altri casi ci sono stati disastri finanziari: a Siviglia (Andalusia), il parco Isla Magica, aperto nel 1997, affoga in un passivo di 34 milioni di euro, coperto grazie all’intervento di fondi pubblici e casse di risparmio; a Benidorm (Alicante), il parco Terra Mitica, investimento da 65 milioni, per sopravvivere e mettersi sul mercato deve eliminare 219 posti di lavoro. In un paese dove già si contano troppi progetti faraonici che divorano risorse crescono i timori che la nuova Las Vegas iberica sia un investimento senza futuro. Ma i responsabili politici non sembrano ascoltare.

Il rapporto Whatever happened to Africa's rapid urbanisation? dell'Africa research institute, un think tank indipendente britannico, è passato praticamente inosservato, eppure rimette in discussione uno dei "miti" e dei limiti dello sviluppo africano: «E' 'opinione diffusa che l'urbanizzazione stia avvenendo più velocemente nell'Africa sub-sahariana che in qualsiasi altra parte del mondo, poiché gli immigrati si spostano dalle zone rurali agli insediamenti urbani. Questo è un errore. Mentre le popolazioni di numerose aree urbane sono in rapida crescita, i livelli di urbanizzazione di molti Paesi stanno aumentando lentamente, se non per niente. L'incremento naturale, al netto della migrazione, è il fattore di crescita predominante nella maggior parte delle popolazioni urbane. I governi africani, i politici ed i donatori internazionali devono riconoscere i cambiamenti fondamentali nelle tendenze di urbanizzazione e rispondere ai messaggi inconfutabili che questi danno circa l'occupazione urbana, il reddito e lo sviluppo economico».

Lo studio è frutto delle ricerche di Deborah Potts, un'esperta di geografia umana del King's College London, che dice di aver cominciato ad avere dei dubbi già a metà degli anni'80, quando lavorava nello Zimbabwe. «Allora abbiamo intervistato 1.000 migranti - ha spiegato all'agenzia stampa umanitaria dell'Onu Irin - e la maggioranza ci diceva che sarebbero rimasti qualche tempo in città, ma che sarebbero ripartiti presto, perché non si potevano permettere di restare. In effetti non esiste una rete di sicurezza in città: se cadono malati , se diventano vecchio se perdono il loro lavoro, bisogna che ritornino nella loro campagna».

La Potts poi ha analizzato le cifre del censimento del 1990 in Zambia, dove il crollo del prezzo del rame aveva portato ad una riduzione delle persone che vivevano in città, un calo confermato nel 2000. Intanto dei ricercatori francesi che lavoravano in Costa d'Avorio avevano osservato lo stesso fenomeno: «I redditi reali urbani fondono come neve al sole a causa della crisi petrolifera e dei programmi di aggiustamento strutturale - spiega la Potts - E' quel che succede in Grecia in questo momento, salve che quello non è nulla a paragone con quel che è successo in Africa».

Ma questa evoluzione delle dinamiche della popolazione sono poco indagate perché pongono problemi: «L'Onu raccoglie e pubblica dati demografici, ma la crisi economica ha colpito anche la realizzazione e la pubblicazione dei censimenti nazionali, che diventano molto cari - sottolinea Irin - Quando i dati del censimento non erano disponibili, l'Onu si è servito di proiezioni ed ha basato il suo modello sui primi decenni seguiti all'indipendenza, un'epoca in cui le popolazioni urbane in Africa crescevano in effetti in maniera molto rapida. Quando le cifre corrette sono state disponibili, si è scoperto che alcuni dei dati riguardanti la popolazione urbana erano largamente sovrastimati».

La Potts analizza le cifre dell'United Nations Human settlements programme (Un-Habitat) sul livello di urbanizzazione, secondo le quali nel 2001 il 34% della popolazione del Kenya era urbana, nel 2010 questa stima è stata rivista al 22%. Secondo la ricercatrice britannica «I tassi di urbanizzazione erano minori in 11 Paesi dell''Africa sub-sahariana e in Tanzania, in Mauritania e Senegal il calo era particolarmente sensibile».

Questo non vuol certo dire che la popolazione urbana sia in contrazione, anzi, continua a crescere ma la stessa cosa avviene nelle zone rurali. «La tendenza generale resta un movimento verso le città, ma è un'evoluzione lenta e non un'ondata di marea», dice Potts che però si lamenta perché «Anche se le cifre sono oggi disponibili, gli analisti, compresi quelli di Un-Habitat, modificano solo molto lentamente le loro ipotesi. E' un messaggio che non è sempre ben compreso. Le persone a volte sono molto pigre. Dicono che non è possibile, che sono le autorità urbane che le hanno date. Ma secondo la mia esperienza, le autorità urbane non dispongono di solito di statistiche corrette in 9 casi su 10, sovrastimano largamente la loro popolazione per ragioni politiche».

Claire Melamed, direttrice del Growth, poverty and inequality programme dell'Overseas development institute britannico, ha detto all'Irin: «Per una ragione o per l'altra, investire nei dati non è mai una priorità essenziale. Ma questo non è un lusso, è il principio fondamentale della buona politica. Tutto questo ha delle conseguenze concrete sulla maniera di distribuire i servizi dei quali le persone hanno bisogno e che richiedono. Se la maggioranza è urbana, la distribuzione sarà differente da quella che sarebbe per una maggioranza rurale e dispersa».

Eduardo Moreno, responsabile del Cities programme di Un-Habitat, ribatte che rivedere le proiezioni precedenti fa parte del suo lavoro ma che l'Africa continua ad urbanizzarsi: «Se prendiamo solo l'Africa, è chiaro che l'urbanizzazione rallentare che le grandi città africane non crescono così rapidamente come 10 o 15 anni fa. Ma se si paragona con l'Asia o l'America latina, è ancora l'Africa che conosce il tasso di urbanizzazione più forte di tutto il mondo in via di sviluppo. Un tasso di urbanizzazione più graduale non è necessariamente la benedizione che i governi possono immaginare. Diversi paesi africani non hanno ancora compreso che l'urbanizzazione è una cosa molto positiva. Alcuni può darsi che vogliano lasciare la loro popolazione nelle zone rurali, perché associano l'urbanizzazione alla povertà e ad altri aspetti negativi. Ma la storia ci dimostra che nessun Paese è uscito dalla povertà restando rurale. Abbiamo chiesto a dei governi africani se vogliono mettere fine all'urbanizzazione e la maggioranza tra loro hanno detto di sì. Ma se pensate alla Cina, i suoi piani quinquennali considerano l'urbanizzazione come il motore dello sviluppo. Quindi, se alcuni Paesi pensano deliberatamente di ridurre il loro tasso di urbanizzazione, adottano una cattiva politica».

La Melamed non è convinta: «Per quel che ne so, l'Africa rimane una società a predominanza rurale. Ma questo rimette in questione le idee sul modo in cui la società sta cambiando, perché queste sono fondate sull'idea di un'urbanizzazione molto rapida. Senza dimenticare gli aspetti politici, come abbiamo visto in Africa del Nord ed in Medio Oriente, delle popolazioni urbane giovani, meglio istruite, hanno un comportamento differente da quello delle popolazioni rurali. Quando le persone si urbanizzano, non dar loro quel che vogliono rischia di avere delle conseguenze politiche molto più serie».

postilla

Forse migliorare la condizione urbana in Africa richiede approcci diversi da quelli imposti dall’ONU e promossi dalla Banca mondiale e dalle multinazionali. Forse esportare il modello europeo e quello americano (o i derivati asiatici) non è la strada giusta. Questioni sulle quali bisognerà ragionare, magari cominciando dal domandarsi che cosa significa “condizione urbana” in regioni caratterizzate da storie diverse e da diverse culture. Si scoprirà forse che la soluzione giusta non è quella di imporre l’ “urbanizzazione” che abbiamo applicato e stiamo applicando nel Nord del mondo

Titolo originale: Can we pull the plug on the plug? Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Eric Giler punta un telecomando verso un apparecchio appoggiato al muro, istantaneamente si accendono tre lampade e un tablet inizia a ricaricare. La cosa divertente è che l’apparecchio appoggiato al muro non ha alcun collegamento con quelli che sta alimentando, non c’è la spina. Giler è il CEO di Witricity, compagnia sperimentale che spera di rivoluzionare il mondo dell’elettronica facendo passare in modo affidabile l’energia senza fili attraverso l’aria. Lavora da quasi cinque anni utilizzando una tecnologia sviluppata al Massachusetts Institute of Technology per ampliare il raggio della carica wireless. Secondo Witricity i primi prodotti saranno disponibili sul mercato entro l’anno. Ed entro un paio apparecchiature del genere potranno essere usate per la ricarica senza fili delle auto elettriche. In seguito l’energia wireless sarà usata per apparecchiature cardiache e altri strumenti medici.

L’idea di trasportare energia senza fili non è certo nuova. La prima dimostrazione di Nikola Tesla è di cent’anni fa, oggi sono già abbastanza diffusi sistemi per ricaricare spazzolini elettrici e/o accessori di video game. Ma i sistemi induttivi di oggi operano solo su distanze molto ravvicinate, con un contatto diretto fra caricatore e apparecchiatura, il che non è molto diverso in pratica dall’uso di una spina. I sistemi di ricarica induttivi funzionano con una spirale che genera un campo magnetico, a indurre elettricità simile in un’altra spirale opportunamente orientata, in un’altra apparecchiatura. Man mano le due spirali si allontanano, però, diminuisce rapidamente l’efficienza del trasferimento. Allo scopo di incrementare questa distanza utile, Witricity cerca di far risuonare a una determinata frequenza le due spirali, diminuendo la dispersione di energia.

La distanza poi dipende anche dalle dimensioni delle spirali. Se sia il trasmettitore che il ricevitore sono piccoli (ad esempio nel caso di un telefonino) per una discreta efficienza si deve restare nell’ambito di una manciata di centimetri. Ma Witricity ha realizzato anche prototipi più grandi che superano anche la distanza di un metro. Ed è anche possibile usare delle specie di ripetitori che rilanciano il segnale. Nella dimostrazione proposta da Giler, spirali inserite nel pavimento consentono di far saltare l’energia da un apparecchio sul muro a tutti i punti di una stanza. Witricity è una delle pochissime imprese che lavorano in questo campo. È stato anche sviluppato un tavolo prototipo dove si possono caricare tutti gli oggetti che vi vengono posati sopra – anche lasciandoli dentro una borsa o altro contenitore – e una tastiera e mouse wireless che si alimentano dallo schermo, eliminando la necessità delle batterie. Studiato anche un metodo di ricarica delle auto elettriche. Sta in una piastra di circa mezzo metro da mettere nel pavimento del garage: basta parcheggiarci sopra.

Witricity collabora con altre imprese per far arrivare questo tipo di prodotti sul mercato. C’è un lucroso contratto con la Toyota per la ricarica dei veicoli (quindi presto non li chiameremo più a spina) e la prospettiva di un accordo con una compagnia taiwanese di elettronica, Mediatek, per apparecchiature portatili. Katie Hall, la responsabile tecnologie di Witricity, racconta la ricerca per le componenti necessarie da aggiungere agli apparecchi. Ad esempio si sviluppa un sistema di ricarica per telefonini identico ai gusci di protezione in uso oggi. Ancora incertezze sui costi, ma nel caso delle auto ad esempio la Hall sostiene che non si spenderà più di quanto si fa ora con le apparecchiature normali di ricarica da garage.

Ci sono parecchie altre imprese che lavorano allo sviluppo di sistemi induttivi di carica efficienti. Siemens e BMW per le loro auto elettriche, e la Qualcomm ha recentemente acquisito una piccola compagnia che operava ad un proprio sistema. La Fulton Technologies ha sviluppato una tecnica per far passare il flusso anche attraverso uno spessore di alcuni centimetri di marmo, ad esempio il pavimento di un garage. Alcuni ricercatori stanno ampliando il concetto alla possibilità di ricarica delle auto mentre viaggiano. A Oak Ridge e a Stanford si è lavorato in particolare proprio su questi aspetti. Con un finanziamento federale da 2,7 milioni di dollari alla Utah State University si è realizzato un sistema di ricarica degli autobus a una fermata stradale di Salt Lake City. Nel modello Oak Ridgeci sono 200 spirali inserite nel manto stradale e controllate da un’apparecchiatura unica, ciascuna di queste via via ricarica il veicolo consentendogli di arrivare alla serie successiva a un paio di chilometri di distanza. John Miller, ricercatore della Oak Ridge, calcola che ciascuna serie potrebbe costare meno di un milione di dollari. “Wireless vuol dire comodità, non doversi intricare di cavi di alimentazione, non dover badare al tempo atmosferico. Credo prenderà piede molto in fretta”.

(articolo ripreso dalla MIT Technology Review)

Titolo originale: Right in my backyard: communities wrestle with growth - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Se pensiamo al cosiddetto buon senso urbanistico, c’è quel modo di dire: non provare mai a toccare uno di quei quartieri consolidati di case unifamiliari. E certo con tante altre possibilità – dai centri commerciali abbandonati o quasi, agli ex nuclei di servizi semivuoti, alle zone produttive o ferroviarie dismesse – perché mai bisognerebbe provarci proprio lì? Però qualcuno lo fa, e ci riesce, anche. A Surrey, vivace sobborgo di prima cintura dell’area di Vancouver, Columbia Britannica, in un recente laboratorio partecipato cittadini e urbanisti hanno finito per concordare una mole notevole di nuove cubature nei quartieri. E si tratta di una tendenza coerente a quanto già accade in materia di trasformazioni urbane nel Canada nord-occidentale.

Il laboratorio di pianificazione partecipata, Surrey Sustainable Urban Infill Design Charrette, ha portato i cittadini a porsi una domanda cruciale: come è possibile rispondere a una spinta allo sviluppo che potrebbe potenzialmente raddoppiare la superficie della città nei prossimi vent’anni? Nel corso di una serie di simulazioni, i partecipanti al laboratorio hanno collocato case e attività economiche lungo corridoi serviti dalle attuali linee di trasporto collettivo, o da quelle già previste. Ma al contrario di quanto avviene in occasioni simili negli Stati Uniti, ben un terzo della crescita è stata però inserita nei quartieri esistenti di case unifamiliari. Nel laboratorio la si è definita “densificazione invisibile”.

Perché “invisibile”? Perché è tanto graduale, tanto adattata al contesto, che è possibile distinguerla dal resto studiando molto nei particolari ciascun aggregato residenziale. Le aggiunte prendono forma di appartamenti sopra i garage (a volte si chiamano “alloggio della nonna”), riorganizzazione di edifici molto grandi o molto piccoli di solito al centro degli isolati sulle vie minori. I partecipanti ci sono riusciti senza dubbio anche sulla base degli esempi già esistenti di quartieri nella regione di Vancouver dove la densificazione si sta verificando. Aree dove si è trovato il modo di accogliere la forte domanda di nuovi abitanti, rispettando al tempo stesso il desiderio dei residenti di vecchia data di mantenerne aspetto e caratteri.

Alcuni dei più bei quartieri della città, Kitsilano ad esempio, si compongono di case tradizionali di mattoni a vista, che al proprio interno ospitano, in modo invisibile, tre, quattro, cinque famiglie, dove un tempo ce ne stava solo una. Cambiamenti avvenuti talvolta in modo spontaneo, ma senza troppe discussioni. “La regione di Vancouver è più avanti di vent’anni rispetto al resto del Nord America, nell’accettare la presenza di questi spazi semiabusivi” spiega Patrick Condon, fra gli organizzatori del laboratorio. “Solo nella circoscrizione della città di Vancouver vera e propria sono oltre 50.000. Se non fosse per quelli alle famiglie dei lavoratori mancherebbero quasi del tutto alloggi accessibili”. Ma l’altro motivo per cui i partecipanti erano così disponibili, è che la cosa spontaneamente sta già avvenendo. L’iniziativa non era pubblica, anzi la pubblica amministrazione sembra un po’ inseguire le cose. Ad esempio la Città di Vancouver ha legalizzato gli spazi aggiunti solo nel 2010, così come altre amministrazioni locali dell’area. Osserva Condon come adesso si stia iniziando a farlo anche con gli edifici aggiunti nei vicoli di servizio dei quartieri, quelli che a Vancouver si chiamano anche “corsie”.

L’impulso del laboratorio di Surrey viene anche dall’impegno in tutta le regione a ridurre i gas serra, che provocano il riscaldamento globale, dell’80% entro il 2050: obiettivo non diverso da quello di altre città e cittadine. Alla fine della sessione, esaminando le varie proposte emerse si è rilevata una riduzione notevole di emissioni, soprattutto attraverso le minori distanze da percorrere quotidianamente in auto. Tutti potremmo imparare molto da questo metodo. Gli abitanti dei quartieri spesso si oppongono alle modifiche delle norme urbanistiche quando consentono maggiori densità residenziali. Quando invece è possibilissimo operare in modo più sottile migliorando la qualità dell’abitare. Più densità significa più case e scelte, per chi non ha figli, per i giovani senza famiglia, spazi da cedere in affitto che possono dare un reddito aggiuntivo, più possibilità per i mezzi pubblici, più vitalità dei quartieri e delle zone commerciali con gente nuova. Certo la cosa non vale ovunque, ma in moltissimi casi la si potrebbe scegliere in modo consensuale, presentando le esperienze riuscite altrove.

Titolo originale: Sprawl, Schmall... Give Me More Development - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Forse siete fra coloro che ritengono tutte le parole di quattro lettere sporche e cattive: che dire di quella che ne ha sei di lettere, sprawl?

Per certi personaggi tristi e catastrofici, "sprawl" sta insieme a cose come la peste, la lebbra, le malattie veneree, ma lasciate che ve lo dica: a me lo sprawl piace. Credo che ce ne sia bisogno. Lo facilito. Il territorio della Oakland County ne deve avere di più. Chiaro? Lo sprawl non è il male. Anzi, è il bene. Rappresenta l’espressione ovvia di chi esercita la propria libertà individuale garantita dalla nostra amata costituzione, che tutela chi insegue un sogno, chi sceglie dove abitare, dove lavorare, dove studiare, dove far crescere la famiglia. Smettiamola con questa isteria, e chiediamocelo onestamente: cos’è, lo sprawl? “Sprawl” è il termine peggiorativo che ahimè usano certi decisori pubblici per definire lo sviluppo economico che avviene in zone dove non hanno controllo. Si dice sprawl, ma in realtà si tratta di case, scuole, industrie, uffici, negozi. "Sprawl" è nuovi posti di lavoro, nuove speranze, l’avverarsi del sogno di tutta una vita, il Sogno Americano che diventa realtà davanti ai nostri occhi.

Oggi quando un’impresa decide di investire nell’abbandono di una sede suburbana, e si trasferisce in centro (spesso raddoppiando o triplicando il pendolarismo dei dipendenti), chi è contro il Sogno Americano, i tristi catastrofisti, parlano di “rivitalizzazione economica”, sono entusiasti. Quando invece un costruttore di case, o una famiglia, si trasferiscono nel suburbio questi Anti-Sogno-Americano li condannano. “Sprawl!” sibilano. “È il Male!”. Chiedono leggi, chiedono di sottrare poteri locali, di darli allo stato, per arginare, limitare, evitare, invertire tutto ciò che è crescita fuori dalle città centrali. Vogliono farvi credere che qualunque sviluppo nel suburbio rappresenti la radice di ogni problema in città, nel Michigan o in tutto il resto del paese. Paiono convinti che chi se ne è andato dalle città ha lasciato posti bellissimi, che è stata proprio la loro partenza a provocare tutti quei crimini, le troppe tasse, i servizi inesistenti, un sistema scolastico degradato.

Non facciamoci coinvolgere in questa nuova forma di negazionismo. Sprawl non ha mai voluto dire degrado urbano. Le città decadono perché hanno sprecato le proprie risorse. E sono stati la criminalità, le troppe tasse, le scuole degradate, la mancanza di verde a spingere la gente ad andarsene. I protagonisti dello sprawl, e io sono uno di loro, vogliono solo una casa con giardino in una via tranquilla e ben tenuta, una buona scuola nella propria zona che educhi davvero i figli, un buon lavoro, verde e spazi per giocare, un’amministrazione locale che eroghi effettivamente i servizi per cui chiede le tasse. In altre parole, vogliono qualcosa come ciò che la Oakland County è oggi. Qualcuno degli Anti-Sogno-Americano, particolarmente in malafede, dice che noi la stiamo asfaltando, la Oakland County. Che campi e boschi vengono cementificati dai costruttori, gente orribile che fabbrica casette unifamiliari invece dei palazzoni popolari. Dicono che il nostro territorio, anzi tutta l’America, presto si trasformerà in un gigantesco parcheggio di supermercato. La realtà però nega queste immagini da isterici.

La prima cosa che si può rispondere è che guardando obiettivamente il nostro sviluppo si capisce che non ci sta affatto crollando il cielo sulla testa. La Oakland County soddisfa il cittadino, l’impresa avveduta, l’amministratore locale delle nostre 62 circoscrizioni comunali, che insieme hanno lavorato sugli oltre 2.200 kmq di territorio. Lo dimostra il modo in cui abbiamo usato il nostro spazio. Vediamo: le case unifamiliari, meta delle tantissime famiglie all’inseguimento del proprio Sogno Americano, occupano il 38,5% della superficie. Al secondo posto i terreni liberi, 13,6%. Tutela ambientale (destinazione permanente) e ricreazione 13,3%. Specchi e corsi d’acqua 5,9%; agricoltura 4,2%, industria pure 4,2%, spazi pubblici 3,8%, funzioni commerciali solo 2,1% (resta una quota del 13,4% che comprende diritti di passaggio dei servizi a rete, ferrovie, superfici per abitazioni mobili). Un equilibrio che funziona benissimo! E tra l’altro, secondo una ricerca, il territorio dello stato del Michigan oggi è ancora al 91% rurale. Coi ritmi di urbanizzazione attuali abbiamo ancora circa duemila anni prima di esaurire la superficie dello stato.

Che dire, del fatto che staremmo asfaltando tutta l’America? Beh, la superficie totale degli Stati Uniti è di 9,37 milioni di kmq. Di questi, sono urbanizzati circa 360.000. Vale a dire che non molto più del 3% dell’America si può considerare “costruito”. I costruttori si stanno davvero mangiando boschi e prati con la loro cupidigia? Macché. Oggi in Michigan ci sono più boschi di cent’anni fa. Se diminuisce la superficie coltivata, ciò non si deve alle trasformazioni urbane, ma alla maggiore produttività delle colture. Grazie alle innovazioni tecniche, si possono produrre più cose usando meno terreni. Una grossa percentuale dei nostri prodotti dell’agricoltura oggi viene esportata, e ce ne resta ancora in abbondanza per dar da mangiare a tutto il paese. E infine sfatiamo la leggenda: quanta superficie abbiamo a disposizione? Beh, ascoltate: se ogni uomo, donna, bambino americano fosse obbligato a trasferirsi nel territorio del solo stato del Texas, avremmo ancora a disposizione, ciascuno, una superficie di 2.500 metri quadrati.

Allora, la prossima volta che sentite la parola sprawl, godetevela. Vuol dire solo sviluppo economico. Posti di lavoro. Libertà di scegliere. Si può tradurre letteralmente in qualità della vita. E se qualcuno ve la urla in faccia quella parola, sprawl, guadatelo con attenzione. E spesso vi accorgerete che è uno di quei radical chic che a suo tempo se ne sono andati dalle città. Adesso vorrebbero che qualcuno ci tornasse a prendere il loro posto. Vogliono usare il potere politico ad alto livello per obbligarvi a tornare in un quartiere urbano, in un tipo di case in cui loro non abiterebbero mai. Vogliono obbligarvi alla città per farvi espiare un loro peccato, quello di essersene andati da lì. Se non altro, per favore cercate di tenere ben presente che si parla di una “cosa”. Questa “cosa” è oggetto di forte concorrenza. Questa “cosa” è fra le più ambite del paese. Questa “cosa” vuol dire sviluppo economico. Chi non può averla, e ce ne sono, la considera il male, la chiama “sprawl”. Chiediamocelo: se fa tanto male, perché tutti la vogliono, perché fanno a gara per averla, perché per attirarla si fanno concessioni fiscali, si danno incentivi, si istituiscono zone speciali? La risposta la conoscete benissimo.

postilla

Non c’è che dire. Anche al netto dell’ovvia difesa del proprio fazzoletto di potere e prestigio locale (contro il classicissimo invadente “big government”) una bella montagna di sciocchezze, qualitative e quantitative insieme. Del resto in piena sintonia con quanto già riportato su questo sito a proposito delle posizioni più diffuse ormai anche ad alto livello tra i politici conservatori. E certo non limitate all’America profonda, basta pensare al senso concreto economicista della riforma urbanistica britannica, o alla cultura maggioritaria di altri paesi, Italia al primo posto, dove costruire sempre e comunque è sinonimo di progresso e ricchezza. Se vogliamo leggere un messaggio positivo anche in questa montagna di falsità e ideologie, però, è che calcando i toni oltre un certo limite non si va da nessuna parte: né dipingendo ogni trasformazione con le tinte rosee del sogno familiare, né urlando di continuo alla colata, all’ecomostro eccetera. Non perché sia di cattivo gusto (lo è, ma non importa): fa solo il gioco dell’avversario, rendendo ridicole le idee che si vorrebbero promuovere (f.b.)

Titolo originale: At Charlotte's New Walmart, a Transit Promise Unfulfilled - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

A fine estate 2009, dopo anni di attesa, la Walmart presentava un progetto di superstore nell’area di un ex centro commerciale abbandonato a East Charlotte. La città era stata duramente colpita dalla crisi del 2008, e molti, amministratori e non, vedevano questo arrivo sia come una possibilità occupazionale, sia come un segnale di ripresa per l’economia locale. Immaginavano, anche, si potesse trattare di un primo passo verso uno sviluppo urbano più sostenibile: “Credo ci sia l’occasione concreta per sperimentare e poi ampliare un sistema di transit oriented development. Il primo intervento ne attirerà altri” spiegava la consigliera Nancy Carter.

Sono passati due anni e mezzo, e una parte della promessa è stata mantenuta. A fine gennaio Walmart ha aperto con gran pubblicità un negozio su 13.500 metri quadrati. Creando 250 posti di lavoro, e il sindaco di Charlotte, Anthony Foxx, cita addirittura la famosa frase dell’allunaggio: “è un piccolo passo per il commercio, ma un grande balzo per tutta la fascia orientale di Charlotte”. Scusate se è poco. Però tutta la parte che riguarda il quartiere TOD orientato ai mezzi pubblici sta ancora aspettando. Invece di transit-oriented development, gli abitanti di East Charlotte vedono solo un intrico di traffico e congestione, come dimostrano parecchi articoli e studi. Il nuovo Walmart sta su Independence Boulevard appena a est di uno svincolo, e appena a ovest di un grosso incrocio con Albemarle Road. Anche se si chiama boulevard, l’Independence non è affatto un viale un po’ accogliente per i pedoni, ma una fragorosa superstrada a sei corsie.

Il che significa automobilisti che escono dal parcheggio del Walmart e si devono immettere nel flusso veloce, con altri diretti verso la Albemarle a spostarsi di varie corsie molto rapidamente, giusto il tempo che ci vuole e pronunciare la parola “offerte speciali”. Gli abitanti del vicino quartiere Amity Gardens lamentano il traffico delle auto verso l’ingresso posteriore del magazzino. Chi sperava che i mezzi pubblici potessero far qualcosa per allentare la congestione, per adesso dovrà sperare ancora: gli autobus che passano sull’Independence provenienti dal centro di Charlotte tirano dritti verso Sharon Amity Roar, parecchie centinaia di metri più in là, insomma non c’è alcuna fermata per il negozio. Per essere giusti, i responsabili cittadini dei trasporti spiegano ai giornalisti che entro il mese prossimo la fermata dovrebbe esserci.

Cosa semplice sul lato dell’Independence dove sta Walmart, ma sull’altro lato della freeway? Per fare le cose in piena sicurezza ci vorrebbe un attraversamento pedonale perfetto, con sei corsie di forte traffico: cosa improbabile, e comunque non di breve periodo. Il che significa per chi arriva dall’altra direzione cercarsi un punto di attraversamento sicuro a un’altra fermata, magari cambiando mezzo. Non è certo una cosa de genere che pensano gli urbanisti immaginando un transit-oriented development. Cos’è accaduto? La risposta più immediata è: la recessione. Charlotte si era dotata di un ambizioso Programma Trasporti Pubblici 2030, con tanto di strumenti di finanziamento sottoscritti dagli elettori, attraverso le imposte commerciali, una quota di mezzo centesimo. Ma con la crisi è crollato anche quel gettito, e dopo la realizzazione della metropolitana leggera Linea Blu si sono rinviate le altre (si sta almeno cercando di finanziarne una offrendola anche al trasporto merci).

Fra i progetti rinviati, la Linea Argento, sedici fermate di autobus veloce (o metropolitana leggera) per venti chilometri circa a trasportare 15.500 persone al giorno lungo Independence Boulevard. Progetto rinviato, certo, non abbandonato. Nella versione del nuovo piano cittadino approvata a maggio c’è ancora la Linea Argento come componente essenziale della trasformazione dell’area Independence Boulevard. Se si realizzerà, Walmart dovrebbe avere una fermata giusto davanti (il puntino sulla mappa sta a Amity Gardens): un giorno, forse, East Charlotte Walmart farà da traino a un vero transit-oriented development che interessa tutto il corridoio, come credeva fermamente l’amico Kaid Benfield. Per adesso però le cose appaiono molto diverse, la città pare avere un rapporto contraddittorio con lo spirito del programma trasporti pubblici.

Come scrive il quotidiano Charlotte Observer, si dovrebbe addirittura ampliare ulteriormente l’Independence Boulevard:

“Il tratto di strada dove oggi c’è Walmart ha visto chiudere parecchi esercizi, man mano l’Independence veniva allargato e diventava un’arteria a scorrimento veloce. Cosa che rende difficile accedere alle attività. Col progetto di ampliamento in corso il viale diventa un’arteria veloce per altri due chilometri fino a Wallace Road. Il che ha già fatto chiudere attività come Compare Foods o T.J. Maxx dentro all’Independence Shopping Center all’altezza della Idlewild Road, e anche demolizioni fra le vie North Sharon Amity e Idlewild. Alla fine per la superstrada saranno circa trenta gli esercizi demoliti”.

Insomma, gran cosa che a East Charlotte sia potuto arrivare un nuovo Walmart, e da qui a un po’ di anni gli abitanti magari considereranno quell’apertura come il momento in cui è iniziata la ripresa, e anche la trasformazione urbana per il meglio. Ma per ora c’è solo un enorme contenitore commerciale, con davanti un immenso parcheggio, e una superstrada che attira macchine invece che soprattutto trasporti pubblici, mentre prima del programma di quei trasporti, per cui scarseggiano i fondi, si allarga ancora la superstrada. È un transit-oriented development? A me pare l’ennesimo Walmart.

Titolo originale Suburbs get helping hand in stabilizing neighborhoods - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Sono sei le circoscrizioni suburbane dell’area di Chicago che sono state individuate nell’erogazione dei 55 milioni di dollari, divisi tra fondi statali e di contea, per la stabilizzazione dei quartieri colpiti dai pignoramenti attraverso il recupero delle abitazioni lasciate vuote. Ancora da capire nei particolari, il Building Blocks Pilot Program, riguardo alla scelta specifica degli immobili e all’albo degli operatori. E comunque le sei municipalità — Berwyn, Maywood, Park Forest, Riverdale, Chicago Heights e South Holland — si aspettano molto per il proprio territorio da questa possibilità di recupero, che può interessare sino a 500 case. “Cerchiamo di concentrarci su quartieri ancora in bilico sull’orlo del degrado, orientandoli nella direzione giusta” spiega Hildy Kingma, responsabile per urbanistica e sviluppo locale di Park Forest. “Ogni casa che torna in uso aiuta, e aiuta molto, un’intera via”.

Secondo il programma, un sistema integrato di fondi statali e di contea (Cook County) contribuisce al sostegno per l’acquisto e il recupero di immobili pignorati e vuoti d parte di operatori privati. È però il singolo cittadino proprietario a poter chiedere di accedere al sostegno per andare ad abitare nella casa risistemata, o in altre della stessa circoscrizione. Le sei aree sono state scelte sulla base del numero di pignoramenti, la situazione del patrimonio immobiliare locale, eventuali precedenti programmi sulla crisi della casa, e prospettive occupazionali visto che in assenza di lavoro non ci si compra certo un’abitazione. “Abbiamo verificato le situazioni e ci siamo sommati a un insieme di investimenti già in corso in quelle stese aree” racconta Mary Kenney, direttrice esecutiva della Illinois Housing Development Authority, ente di supervisione del programma. “Abbiamo cercato in particolare quartieri con trasformazioni già in corso e una forte collaborazione municipale”.

Nel 2009, Chicago Heights ha speso 500.000 dollari del comune per finanziare un programma di anticipi che ha portato alla vendita di 67 alloggi. Ma finiti quei soldi è finito anche il programma, lasciando 15 richieste inevase, così adesso il sindaco David Gonzalez spera di riprendere da dove ci si era fermati: “È l’unico modo per farcela”. La sfida, come sottolinea la signora Kenney, è di far capire quanto le acquisizioni nel momento attuale di mercato siano essenziali nei quartieri in difficoltà. I potenziali acquirenti temono un calo dei valori immobiliari e del proprio investimento, e il fatto di avere tante case pignorate e degradate in quei quartieri li allontana ancora di più. E secondo la Kenney in alcuni casi si potrebbe anche ricorrere alla cessione in affitto.

“In qualche modo è piuttosto semplice acquistare in questa fase del mercato, e poi recuperare” spiega Ed Jacob, direttore esecutivo della Neighborhood Housing Services di Chicago, associazione senza scopo di lucro che ben conosce tutti i problemi legati alle case pignorate e da restaurare. Operano da più di otto anni, ma di case ancora da vendere, pur restaurate, ne restano ancora parecchie. E negli ultimi due anni l’associazione è diventata padrone di case che cede in affitto, contribuendo così a mantenerle in ordine, produrre un reddito, rispondere a una domanda di inquilini che esiste. Per ora è sospesa l’acquisizione di immobili da recuperare. “In realtà noi preferiamo vendere in proprietà, ma riconosciamo che al momento non ci sono acquirenti a sufficienza, soprattutto nei quartieri più colpiti” conclude Jacob. “Stabilizzare davvero le aree significa usare le case”.

postilla

La cosa che forse colpisce di più in questo breve resoconto di un caso locale (ma ce ne saranno decine di migliaia simili in tutto il paese) di intervento pubblico a sostegno dei quartieri, è la totale assenza di riferimenti a virtuose politiche urbanistiche in cambio dei finanziamenti. Eppure sia presso la Casa Bianca che il Ministero per la Casa sono stati attivati uffici di coordinamento che dovrebbero proprio sovrintendere a questi aspetti: va bene, finanziamo indirettamente le stesse banche che hanno prodotto il guaio, ma vediamo di non ripetere almeno quello socio-territoriale delle densità ultra-rarefatte, del principio della casa singola in proprietà come unico sbocco (che promuove, è il caso di sottolinearlo, la monofunzionalità e segregazione), insomma tutti i difetti più evidenti della dispersione urbana. Dove è finita la cultura del cosiddetto “suburban retrofit” di cui traboccano sia le riviste di area che le dichiarazioni pubbliche? Certo, l’articolo è pubblicato dalle pagine immobiliari del Chicago Tribune, e un punto di vista privilegiato a quegli aspetti era scontato. Ma saltare a piè pari le pur ampiamente pubblicizzate politiche di densificazione, diversificazione funzionale, adeguamento ambientale e dei trasporti (che ad esempio si legano al godimento in affitto) indica almeno una cosa: il mondo immaginario new urbanism è ancora soprattutto un giocattolino per chi se lo può permettere (f.b.)

Titolo originale: Breaking the urban bottleneck - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

La Cina deve risolvere il problema dei lavoratori migranti aiutandoli il più possibile a diventare cittadini regolari e permanenti. Secondo i dati 2011 dell’Ufficio Censimento la popolazione urbana del paese ha raggiunto il 51,7% di quella totale, superando quella rurale per la prima volta nella storia. Si tratta di un passaggio critico per l’urbanizzazione cinese. Da ora in poi è necessario promuovere anche la qualità, e non solo la quantità, di questo processo. A tale scopo occorre concentrarsi sul trasformare gli ex contadini in cittadini a tutti gli effetti, non solo lasciarli andare nelle città. La grossa sfida è rappresentata dai lavoratori migranti, che hanno raggiunto la quantità di ben 242 milioni e ancora crescono. Sono loro la forza che ha reso possibile l’urbanizzazione: una recente indagine dimostra che hanno contribuito per il 34% a Pechino, per il 30% a Shanghai, in settori come le costruzioni.

Ma nonostante le città siano state costruite sul sudore del loro lavoro, queste persone non sono davvero formalmente cittadini, lì dove operano. Ciò perché lo hukou, permesso di residenza permanente, risulta registrato altrove. Abbiamo ascoltato sin troppe storie di migranti discriminati su questa questione della residenza urbana, e non devono accadere più. Solo per fare alcuni esempi di servizi base da cui sono in tutto o in parte esclusi: istruzione dell’obbligo, assistenza pensionistica, assicurazione sanitaria, salario minimo, case popolari. Una discriminazione che già allarga il divario fra migranti e cittadini, e che ha determinato disordini di massa in alcune province, come a Guangdong. Gli amministratori devono intervenire su questo problema anche per impedire il ripetersi in futuro di indicenti del genere.

La discriminazione non è solo un’ingiustizia sociale, ma anche un ostacolo alla stessa urbanizzazione, dato che rallenta gravemente la domanda interna diminuendo la capacità di consumo dei lavoratori migranti. Uno studio del 2010 mostra come il coefficiente di Engel – percentuale della spesa familiare alimentare sul totale – dei migranti supera il 50%, il che restringe sia la disponibilità che la possibilità di consumo, limitando così la domanda interna. Quindi se vogliamo incrementare l’urbanizzazione dobbiamo risolvere il problema dei migranti, facendoli diventare pienamente cittadini dei luoghi in cui abitano, con accesso a servizi e diritti.

Il governo centrale si è occupato di questo problema nella Conferenza per il Lavoro e l’Economia del 2011. Nel documento conclusivo, si afferma che i lavoratori migranti diventeranno gradualmente residenti urbani, risolvendo così le difficoltà per istruzione, casa, salute. Un intervento adeguato, che potrebbe ridurre le distanze fra abitanti delle città e delle campagne. In realtà molte amministrazioni regionali già hanno preso provvedimenti per fornire a queste fasce di popolazione alcuni servizi. Ad esempio in alcune circoscrizioni delle province di Guangdong e Zhejiang, o Shanghai, c’è l’assicurazione, come per i cittadini regolari. In certe città come Nantong, provincia Jiangsu, si è provato con le case popolari. Ma per affrontare complessivamente il sistema hukou, va riformata la divisione cinese fra città e campagna, superati squilibri e diseguaglianze. Però localmente non si possono fare grossi progressi perché lo hukou dipende dal governo centrale. Che ha toccato il problema nel 2009 e poi nel 2011, ma occorre fare di più per le riforme.

Intervenendo sullo squilibrio, le città devono cambiare altre politiche discriminatorie fra cittadini e migranti. La cosa più importante è di garantire ai figli di questi ultimi occasioni per studiare, evitando che lo squilibrio diventi ereditario tra le generazioni. Certo trasformare gli ex contadini in veri cittadini necessità di un enorme programma a coinvolgere decine di milioni di persone, cosa che non può essere fatta in pochissimo tempo. Occorre agire gradualmente, dando priorità agli aspetti più urgenti. Le metropoli come Pechino o Shanghai già hanno una popolazione molto numerosa, quindi sarà importante orientare flussi verso le città piccole e medie. Ma perché in Cina il processo di urbanizzazione proceda senza intoppi lo Stato deve mantenere la sua promessa di trasformare i migranti in cittadini a tutti gli effetti.

Titolo originale: Zimbabwe: Urban Well-Drilling - Ticking Time Bomb - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

“L’amministrazione di Chitungwiza non ci fornisce l’acqua, spesso siamo obbligati a star senza per una intera settimana. Questo problema ci ha obbligato a scavarci dei pozzi, e chi non ne ha ancora uno in casa sicuramente sta cercando i soldi per riuscire a farselo” racconta Priscilla Simuka, un’arrabbiata abitante della zona Unit J. Spiega che qui non si ha altra scelta che scavarsi un buco alla ricerca di fonti d’acqua alternative, dato che il servizio del comune non esiste. Isaac Nyamambititi dell’area Unit M di Chitungwiza aggiunge: “Ho capito quanto obbligavo a fare a mia moglie, che portava l’acqua da pozzi sparsi attorno alla città, per lavarci e fare il bucato. Scavarcene uno ha significato sollevarla da tanta fatica, visto che l’amministrazione ci nega l’acqua. Spesso si resta una settimana senza, e il pozzo è l’unica possibilità per avere acqua potabile sicura. Diamo anche ai vicini la possibilità di prenderne, dal nostro pozzo”

Una rapida verifica nell’area Unit J conferma che la maggior parte delle case della cittadina, a 33 chilometri da Harare, è dotata di pozzo interno al cortile di circa 300metri quadrati. La signora Daisy Choto di Mabvuku racconta come scavarsi un pozzo per lei ha significato aver tempo per riposare dopo una dura giornata di lavoro in un negozio della capitale Harare. “Scavare il pozzo mi ha migliorato molto la giornata, perché dopo il lavoro non devo più andare col secchio fino alla fonte più vicina, dove c’è sempre una lunga coda. Adesso ho tempo per riposare, o fare altre cose” spiega una entusiasta Daisy.

Un escavatore di pozzi abusivo, che dice di chiamarsi Joseph Matambo, dice che queste carenze municipali sono un ottimo affare per chi lavora nel settore. “C’è tantissimo da fare per noi a Chitungwiza e in altre zone fuori da Harare, perché gli abitanti si fanno scavare pozzi in casa come alternativa a quei rubinetti sempre asciutti” racconta Matambo. “Il nostro gruppo è composto di tre persone, impieghiamo circa quattro giorni per trovare il punto giusto per scavare il pozzo e finire il lavoro”. A sentire Matambo si spendono 200-250 dollari Usa, a seconda delle modalità di pagamento concordate col cliente. “Noi scaviamo e il cliente è soddisfatto. Siamo entrati in uno spazio in cui il comune non risponde agli abitanti”.

Il rappresentante di Environment Africa Barnabas Mawire commenta che molto probabilmente l’acqua di questi pozzi non è affatto di buona qualità, e dovrebbe essere bollita prima di consumarla. “Si dovrebbe trovare il punto più adatto e verificare meglio, prima di scavare, per le valutazioni ambientali e di rischio idro-geologico. Importante conoscere la posizione delle acque sotterranee, la loro quantità, prima di fare scavi per un prelievo”. Mawire aggiunge che l’acqua dovrebbe essere prima esaminata per verificarne la qualità, se potabile o meno. Scavare pozzi a caso favorisce una più rapida circolazione degli inquinanti verso la falda sotterranea. Il dottor Prosper Chonzi, direttore dei servizi sanitari dell’amministrazione cittadina di Harare, spiega che è vero, in molti casi non si riesce a rifornire d’acqua gli abitanti, e così si chiude un occhio su chi in tante cittadine scava pozzi. “Le amministrazioni non possono avere un atteggiamento punitivo perché non riescono a erogare acqua. Sembrerebbe che tolleriamo questo scavo illegale di pozzi, ma siamo invece privi di possibilità di intervento perché sono cose che nascono da carenze nostre. Scavare pozzi è un’attività che deve essere regolamentata dall’amministrazione, seguire una procedura adeguata per stabilire se la posizione è giusta, se non si toglie l’acqua ad altri. Oggi gli abitanti che scavano buchi senza autorizzazione dovrebbero essere multati, in teoria”.

Una rappresentante dell’Ente Idrico Nazionale dello Zimbabwe, che chiede di restare anonima, spiega che gran parte dei pozzi nelle aree residenziali non sono sicuri per l’approvvigionamento d’acqua, a rischio di essere inquinati. “Certo il servizio di fornitura attuale che offrono è di bassa qualità, con gli scarichi fognari che filtrano”. Anche il loro prosciugarsi piuttosto in fretta si deve, secondo la funzionaria, alle pessime valutazioni preliminari prima dello scavo. E ci sono anche dei problemi di possibile crollo dello scavo, con rischi per gli abitanti delle case.

A furia di prenderli in giro, quei frescaccioni magari in malafede che spargono di “a misura d’uomo” qualunque dichiarazione l’hanno smessa. Ma solo per attaccare subito dopo con un'altrettanto banale litania di “sostenibile”. In cui sostenibile diventa un po’ tutto, dai nuovi modelli di auto che inquinano meno localmente, a qualche iniziativa di facciata sui rifiuti, o l’edilizia. Insomma si tira in ballo il pianeta ad ogni piè sospinto, sperando che l’interlocutore si faccia abbagliare dall’immensità del problema, e sorvoli sui dettagli. Ma come dice quel vecchio proverbio tedesco, il diavolo si nasconde proprio nei particolari: è lì che le pie intenzioni delle dichiarazioni di principio trovano conferma o smentita. Ed è lì che si verifica la famosa “misura d’uomo”, al millimetro.

Un caso lampante di questo tentativo da imbonitori è il progetto di nuovo National Planning Policy Framework messo a punto dal governo di coalizione britannico, notoriamente e volontariamente imbeccato su parecchi aspetti dagli interessi economici legati all’edilizia. L’obiettivo dichiarato era la semplificazione e unificazione degli attualmente vigenti documenti quadro tematici, eliminando doppioni, possibili contraddizioni e confusioni, rendendo più lineare il processo di approvazione dei progetti. Ma le esagerate frequentazioni amichevoli, dentro e fuori l’orario di lavoro, fra costruttori e responsabili ministeriali (eletti e tecnici) hanno prodotto una indebita sparata sulla solita sostenibilità, ora in bella mostra nel documento in discussione: il National Framework sulle trasformazioni urbanistiche dice infatti che vanno considerate per legge con favore tutte quelle sostenibili. Sostenibili come, in che senso? Viene da chiedersi. Dato che il documento tace su questo fronte, la risposta che si è dato il fronte ambientalista di opposizione suona più o meno: non è che ci obbligherete per legge a credere alla sostenibilità declamata dagli stessi costruttori?

Uno dei classici terreni di discussione sugli impatti dell’urbanizzazione, sostenibili o meno, è quello dello sprawl. Che, ci spiega chiunque abbia studiato in buona fede il fenomeno, fra mobilità privata indotta, consumi di territorio aperto, ed effetti collaterali vari ampiamente prevedibili, controbilancia abbondantemente qualunque beneficio dell’innovazione edilizia, o energetica. Questi sono stati fra l’altro i motivi del quasi accantonamento del programma eco-town tanto caldeggiato dell’ex governo laburista, visto che a fronte di mirabolanti promesse tanti piani si risolvevano in quartieri di palazzine nel bel mezzo della campagna, con qualche intervento high-tech, pannelli solari, turbine, nuovi materiali. Ovvero palesemente insostenibili (tranne negli opuscoli promozionali e sulle riviste di settore, geneticamente amiche). La questione però, se non si vuole affrontare il problema direttamente nei dettagli, dove si annida il maligno, è appunto chiarire nella cornice generale cosa è sprawl e cosa lo è un po’ di meno o non lo è affatto. Cosa è meno insostenibile di qualcos’altro.

Ci prova la Campaign to Protect Rural England, col suo rapporto Protecting the Wider Countryside (febbraio 2012). In cui la classica dialettica fra generale e particolare si gioca su principi base e verifiche territoriali, analisi e sintesi. A partire da una puntuale osservazione su quanto affermato dal governo: nessuno si sognerà mai di andare a costruire su aree tutelate. E vorrei vedere, dicono quelli dell’associazione, ma carte alla mano dimostrano che il sistema delle tutele storiche, naturalistiche, parchi nazionali e non ecc., non garantisce affatto la tutela del territorio rurale in quanto tale, e quindi del territorio tout court, se vogliamo credere che ci debba sempre essere un equilibrio fra città e campagna.

E cosa ci dice, implicitamente ma non troppo, questo studio? Che l’obiettivo di qualunque legge che si occupa di città sia anche quello di occuparsi di campagna, conferendo al territorio un valore intrinseco ben diverso da quello di potenziale supporto al famigerato sviluppo. E che ad esempio come ricordava di recente Richard Rogers anche le città sono da sfruttare nel loro valore intrinseco, sviluppandone al massimo il potenziale sociale, artistico, ambientale, economico. Attraverso una politica ispirata allo slogan “prima al centro”. E poi possiamo discuterne. Il resto lo potete vedere nell’illustratissmo rapporto CPRE scaricabile.

Ho raggiunto Ilaria il 17 gennaio, dopo otto ore di tranquillo volo da Brusselles, e starò qui, per ora, fino al 28 febbraio. Ilaria ha spiegato le ragioni per cui lei è qui (vedi “Diario n.1 Inizio di una nuova vita”). Per ora è indaffaratissima con l’università e le complicazioni della vita quotidiana a Kigali, quindi integro io questa serie di note che completeranno il suo diario.

Qui per me è tutto molto strano, molto diverso dalle consuetudini europee.

Intanto, vi racconto il posto dove abitiamo. E' una villetta di cui inserisco una immagine (ma nel .pdf allegato troverete molte immagini di più). E’ carina e abbastanza confortevole, tenuta in modo minimale e un po’ disordinato dai suoi occupanti. Questi sono attualmente: una canadese Kristine, che lavora come free lance progettando website e svolgendo attività odi volntariato, parla un americano incomprensibile non solo a me ma anche a Ilaria; un simpatico americano Zach, giovane e bellino, che insegna inglese in una scuola qui, impegnandosi molto nel suo lavoro; una coppia belga, giovanissimi, Ruben e Arlène, lui lavora in una ONG e sta facendo un rapporto sull'amministrazione della giustizia in Rwanda, lei insegna fiammingo in una scuola elementare, molto carini e simpatici. Eccetto Kristine, stanno tutto il giorno fuori. Poi c'è un giardiniere che sta fisso qui tutto il giorno, un ruandese che si chiama Abdul. Una giovane signora ruandese, Jeanne, viene tre volte alla settimana a pulire e lavare.

La cosa un po’ sgradevole è che, come tutte le costruzioni “ricche”, il lotto è recintato da un muro coronato da cocci di bottiglie e fermamente chiuso da un portone di ferro, sempre rigorosamente sbarrato. Il pomeriggio, al di là del muro e del cancello, un gruppo costante di bambinetti giocano. Quando Ilaria torna a casa la sera si assiepano, le fanno coro quando mi chiama (“Eddy!!!”) perchè le apra, occhieggiano quando entra, pieni di curiosità, ed è una pena chiudere loro in faccia il portone di opaca lamiera. La “protezione” non è dovuta tanto, credo, al timore di veri rapinatori (che supererebbero i cocci di vetro semplicemente gettandovi sopra una pezza, e del resto in Ruanda la criminalità è inesistente rispetto a quella, per esempio, di Nairobi) ma per i bambini. La segregazione è un dato endemico là dove ci sono estese situazioni di povertà. Ma ormai si sta estendendo in tutto il mondo: perfino a Venezia si parla di chiudere le corti a unico accesso!

La casa è costituita da quattro stanze da letto, molto piccole, un grande soggiorno-ingresso-pranzo, due bagni (uno per ciascuna coppia di stanze da letto), una cucina piccola (con un fornello a 2 soli fuochi!), un portico d’ingresso e una loggia verso il giardino.

Il giardino è molto bello, ne inserisco qualche immagine. Tutte le case qui hanno un giardino (grande o piccolo a seconda della ricchezza dei proprietari), e soprattutto un orto.

Noi abbiamo una stanzetta piccolissima: circa 3,5 x 3,0; è arredata da un letto, due sedie che fanno da comodino, un piccolissimo armadio a scaffali: i vestiti sono, per ora, su grucce attaccate a chiodi che Ilaria ha messo sul muro. Mi sono impossessato di una scrivania in soggiorno dove lavoro, quando non vado nella loggetta sul giardino, dove mangiamo alle 8 e alle 12 (quando, come nel weekend, Ilaria lavora qui a casa, col computer sul letto o sul tavolo da pranzo in soggiorno). Le due immagini che vedrete nel .pdf le ho riprese dalla mia scrivania.

La nostra casa è appena sotto il crinale di una collina dalla quale si ha la vista su una parte di Kigali: Nyakabanda, una vastissima estensione di terreno, sulle pendici del monte Kigali, disseminata di case e casette. E' una zona abitata da molti arabi, quindi si sente - alle scadenze rituali - la voce del muezzin. E nor-malmente ne sale il normale vocio di un’area molto abitata.

Sul prato davanti alla loggetta vi sono, tra l’altro, alcuni grandi alberi di avocado, carichi di frutti che nella buona stagione vengono raccolti in abbondanza ma che, in questa stagione, cadono e rapidamente marciscono. Abdul li getta col rastrello giù nell’orto. Ma a volte (è successo stamattina) un’aquila dalle grandi ali scende e sta sul prato finchè non ha finito di spolpare un frutto, poi vola via, senza alcun timore di chi, a pochi metri, sta prendendo il caffè, la fetta di torta e il succo di frutta, chiaccherando e fotografando (ma mancando di fotografare il momento dello svolo!).

Ecco una immagine del panorama visto dalla loggetta. In quell’area c’è sempre un po’ di foschia, forse perché il fondo valle ospita una delle zone palustri residue.

Il sito dove sta la casa è molto comodo, perché è vicino sia all'università (che Ilaria raggiunge a piedi) che al centro commerciale. In questa città la questione delle distanze è molto importante. E’ una città a densità bassa, distesa su un terreno collinare con notevoli dislivelli. Inoltre gli isolati (cioè i gruppi di lotti recintati circondati da strade percorribili) sono molto estesi: se sbagli strada devi camminare a lungo per tornare sui tuoi passi.

La casa, come ho detto, è piccola e tenuta un po’ disordinatamente (sono tutte persone molto giovani, abituate a vivere in modo promiscuo e “studentile”), e nell’appartamento non c’è una stanza per gli ospiti, e insomma non è l'ideale. Ilaria cercherà un’alternativa; ma è facile trovarne solo in zone più lontane, che renderebbero obbligatorio l’acquisto di un’automobile.

Comunque stare in giardino, o seduti nella loggetta dove spesso mangiamo è veramente una goduria. E i trilli variegati degli uccelli sono stupefacenti. L’immagine della loggetta è qui sotto, e accanto uno scorcio del giardino visto da là.

Come fanno gli stranieri ad abitare a Kigali? Essi sono parecchi, e in aumento: docenti di università e di scuole private, volontari e funzionari delle ONG (organizzazioni non governative della cooperazione internazionale), organismi internazionali ufficiali (ONU, Banca mondiale ecc.), funzionari di ambasciate e di aziende private (l’Africa continua a essere terra di conquista). Le capacità di spesa sno anch’esse variabili: dai funzionari internazionali, ai docenti delle varie scuole (quelle statali sono poverissime), ai volontari.

La cosa funziona così. In genere una persona che appartiene a quel mondo prende in affitto una villa, più o meno grande (la nostra è tra le più piccole). Firma il contratto con il proprietario (persona benestante, del mondo rwandese o straniero) e assume nei suoi confronti ogni responsabilità di gestione e manutenzione; assume, e comunque paga, il personale (il giardiniere, il guardiano, la persona che viene a fare le pulizia e a lavare i panni, il cuoco). Poi subaffitta ad altre persone, single o coppie, ciascuna delle quali ha una stanza e utilizza i servizi comuni, che in genere sono molto ricchi. Il costo a persona/coppia oscilla tra i 400 e i 700 $.

Si possono trovare anche appartamenti in edifici a più piani, ma in questa città la cosa bella è stare all’aperto, in mezzo ad alberi, piante e animali, magari con una bella vista.

Giovedì sera Ilaria ha organizzato una cena con alcuni suoi nuovi amici, che insegnano con lei alla facoltà di Architecture and Environmental Design del KIST (Kigali Institute of Science and Technology). Un irlandese, Kilian, che lavora nel laboratorio con Ilaria, una catalana, Nerea, che ha ospitato Ilaria i primi giorni e sta organizzando con Ilaria un corso che terranno nel secondo semestre (sulla gestione dell’emergenza); un italiano di Castelfranco Veneto, Zeno e un’italiana di Padova, Alice, che insegnano al primo e al secondo anno e con cui Ilaria ha fraternizzato molto. Tutti molto simpatici. Abbiamo mangiato pesce del lago Vittoria con patate e birra: due enormi pescioni, arrostiti alla brace, che si mangiavano con le mani, spolpandoli dal piatto unico. Grande ristorante all’aperto, con vista sul wetland (zona umida con fiumiciattolo), ma era buio; a ogni angolo un catino alimentato da un bidone di acqua tiepida e bombolette di sapone, per lavarsi le mani prima e dopo il pasto. Prezzo: 7.000 franchi, circa 9 €: Ilaria dice che è abbastanza caro. Per raggiungere il ristorante Ilaria Kilian ed io siamo arrivato col mototaxi (gli altri erano autonomi), il mio era straordinariamente veloce. Si arrampicava audacemente sulla strada sterrata, facendo tremare di paura per me Ilaria che ci seguiva.

Sabato mattina siamo andati al mercato di Nymiarambo. Una cosa incredibile. Un intrico di decine e decine di micronegozietti dove vendono di tutto: donnette che offrono ortaggi nei microbanchetti della parte coperta (di lamiere e altri materiali di risulta), oppure accoccolate all'aperto, ciascuna con la sua cestina con due dozzine di pomodori, qualche peperone, erbe, cipolle, banane. E poi pentole, casalinghi d'ogni specie, cestini, scarpe, cinture, attrezzi sportivi, giocattoli, gioiellini, pezze variopinte (e ottime sarte che in poche ore e pochi soldi ti cuciono un vestito identico al modello che le porti), telefonini e schede, materassi e cuscini, vestiti usati. Il tutto su un parterre di terra scavato dai rivoli e torrenti delle grandi piogge. Ai margini, sotto una vecchia tettoia di mattoni e tegole, mucchi di farina, grano e altri cereali, fagioli d'ogni tipo,

Bisogna mercanteggiare per ogni cosa. Ho comprato una cinta molto normale, usata, di pezza, cercata a lungo (per la lunghezza) in un mucchio di migliaia; mi hanno chiesto 6000 franchi, ne ho proposti 2000, me l'hanno data per 4000 (l'equivalente di 5 €: 800 franchi = 1 €).

A quel mercato siamo arrivati con un matatu: furgoncino dotato di una decina di posti, che segue itinerari preordinati e si ferma molto spesso, e in cui si assiepano più persone dei posti. Costa circa 100 franchi (pochi cm di €). L'altro mezzo di trasporto è il mototaxi: la città è percorsa di sciami di ragazzini, su motociclette molto agili, tutti con giubba pubblicitaria di una compagnia di telefoni, con casco in testa e casco per il cliente, che fermi con un gesto e ti portano per un prezzo di 300 franchi all’interno della centro (0,40 €). Sono autonomi: prendono in affitto una modoclilcetta e si mettono sulla strada; in un paio d’anni riescono a mettere da parte i soldi per comprare un mezzo proprio. Oltre ai mototaxi e ai matatu ci sono anche autobus simili ai nostri, che costano un po’ di più.

Non ho ancora visitato la città e i suoi dintorni, e sia dal matatu che dalla motocicletta si vede poco. I caschi hanno la visiera trasparente spesso rabberciata alla meglio, e non vedi un gran che. Comunque colpisce la compresenza di costruzioni di qualità e forma molti differenti (dai palazzoni international style delle aree centrali alle ville e villette e palazzine del periodo coloniale, molte scuole nelle zone centrali; nelle aree più popolari di quelle nelle quali sono passato case basse, ciascuna con le bottegucce a piano terra. Molta varietà anche nelle persone, numerosissime, che incontri: dai vestiti eleganti secondo il modello internazionale prevalente, fino agli abiti sgargianti della tradizione africana e agli abbigliamenti più semplici. Volti in prevalenza nerissimi con grandi occhi curiosi e smaglianti bocche sorridenti.

Una singolarità che Ilaria mi ha fatto osservare è che nessuno mangia per strada, né si vedono chioschi o botteghe dove si comprino cose da mangiare in piedi e in pubblico. Nella loro cultura il pranzo (e in genere il mangiare) è una cosa del tutto privata

Per ora ho girato poco, e non ho neppure lavorato molto. Purtroppo ci sono problemi con la connessione. Per varie ragioni non siamo riusciti a trovare un sistema non troppo caro che funzioni da casa. Quindi il metodo che sto usando è di andare una volta al giorno: o, nei giorni feriali, all'università, da Ilaria, dove la connessione è facile (sebbene spesso si interrompa); oppure, nel weekend, quando la connessione al KIST è disattivata, a un centro commerciale, dove sedendomi in un caffè ho l’accesso gratuito alla rete.

Da lì scarico le e-mail e dai giornali on-line, gli articoli che mi interessano per eddyburg; dopo un paio d'orette torno a casa, preparo i pezzi da inserire in eddyburg, leggo la posta e rispondo off-line; il giorno successivo invio le e-mail, carico gli articoli su eddyburg e scarico quello che nel frattempo è arrivato.

Eddy, 23 gennaio 2012

Titolo originale: NM farm, ranch museum adjusts to urban sprawl - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

LAS CRUCES, New Mexico — Nei ranch da queste parti c’è un paio di semplici regole da seguire: non mancare alla parola data, non cercare di fare il furbo quando arriva il tuo turno di sistemare il fieno, ma soprattutto non dar mai – assolutamente mai – da mangiare le patatine al bestiame. “Certo hanno un buon sapore, loro le mangiano, ma non gli fanno bene” spiega Mark Santiago, direttore del New Mexico Farm & Ranch Heritage Museum sulla Dripping Springs Road fuori da Las Cruces. Coi nuovi quartieri che arrivano a lambire i terreni del museo, anche la vita di campagna deve adesso adattarsi a quei curiosi cittadini che sbirciano dentro al ranch. Così Santiago deve stare a pensare alle patatine — che qualcuno ha offerto al bestiame — o alle carte di caramelle, e a tutta la serie dei rischi che corre la gente di città incontrando le bestie, mentre attraversa la tenuta di 19 ettari dedicata alla memoria di tremila anni di storia dell’allevamento in New Mexico.

Quando il museo ha aperto nel 1998 era circondato da spazi aperti. “Adesso siamo circondati da edifici” continua Santiago, indicando dal sentiero sabbioso i quartieri circostanti che confinano con quella che era una zona totalmente isolata. L’unica soluzione adesso sarebbe di costruire una recinzione tutto attorno al ranch per controllare gli incontri fra la gente e il bestiame, soprattutto i ragazzini che ci passano attraverso e potrebbero pensare di scavalcare le palizzate che già ci sono per avvicinarsi di più agli animali. “Il nostro timore è che con sempre più spazi residenziali e attività varie che crescono attorno al museo, finiremo per diventare un’isola rurale in un oceano urbano”.

A agosto si è inaugurata la scuola superiore Centennial — migliaia di studenti, personale e altri addetti che si muovono a qualche centinaio di metri di distanza – e chi lavora nel ranch spera che almeno con una recinzione si possa evitare una tragedia, se qualche studente volesse avventurarsi nella zona delle stalle. La scuola una recinzione d’alluminio ce l’ha, ai margini, ma oltre c’è il deserto senza alcun ostacolo, fino alle palizzate dietro le quali si trova il bestiame. “La gente non capisce quanto sono pesanti”, racconta Greg Ball, responsabile di gestione, e si riferisce ad alcuni degli animali del ranch. Abbiamo qui un toro che pesa circa una tonnellata e mezza. Per quanto tu gli possa voler bene, basta che faccia un movimento sbagliato e ti schiaccia, fine del divertimento”.

I responsabili del museo si sono rivolti all’Ufficio Cultura – quello che dà i finanziamenti – per costruire la recinzione. A luglio l’ufficio ha presentato alla commissione finanze statale una richiesta di complessiva per tutto il territorio di 16 milioni di dollari, spiega la responsabile Anne Green-Romig, nella quale erano compresi i 750.000 per la recinzione di sicurezza “spiegando chiaramente il motivo e il contesto” precisa. Ma da qui alla scadenza del governo il 16 febbraio la distribuzione dei finanziamenti può modificarsi: “Si sa quello che entra, ma non quello che esce”. Anche se si dovesse finanziare tutto quanto, il governatore potrebbe comunque esercitare un diritto di veto condizionando i finanziamenti. Dopo l’erogazione c’è ancora aperto l’equilibrio nella distribuzione dei fondi nel territorio dello stato. Dave DeWitt, presidente del comitato da cui dipende il Farm & Ranch Heritage Museum, è convinto che quel recinto sia “una questione di sicurezza da risolvere ora, non da rinviare. Animali grossi, pericolosi, voglio evitare che qualcuno si faccia male. Vogliamo che il nostro museo non danneggi nessuno”.

Aggiunge il direttore Santiago: “C’è un toro da una tonnellata e mezza, e un ragazzino da cinquanta chili scarsi: chi vince? Questo è il nostro problema”

Titolo originale: Can retrofit enhance urban ecosystems? - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Piace a tutti avere una camera con vista, ma quando pensiamo al futuro di un edificio di solito ci scordiamo del tutto il mondo che sta oltre le pareti. Ci soffermiamo sul manufatto in sé – fondamenta, pavimenti, cavità, crepe – isolandolo dal contesto che lo circonda. Mentre invece il suo funzionamento più o meno efficiente dipende moltissimo dalle condizioni esterne. La progettazione più attenta diventa parte attiva dell’ecosistema locale: si sfrutta il calore del sole, si favorisce il flusso di aria fresca, si trae vantaggio dalle piante o dalle alture come schermi. Si restituisce anche qualcosa: piccoli habitat per la fauna, deflusso acque piovane, verde per mantenere fresco un denso isolato urbano.

Il valore degli ecosistemi locali per le aree urbane inizia solo ora ad essere riconosciuto. Una recente ricerca condotta a New York City rileva che il valore degli alberi può essere calcolato in 122 milioni di dollari, per il ruolo nella riduzione dell’inquinamento, il miglioramento estetico, il mantenimento delle temperature nei quartieri a livelli accettabili. Si tratta però di “servizi” raramente presi in considerazione quando si progettano adeguamenti alla struttura urbana. Mentre una loro rigorosa valutazione potrebbe accompagnarsi a tantissimi aspetti, per i potenziali di risparmio energetico, riduzione dei costi, e magari non si tiene conto dei vantaggi di un tetto verde. Si riducono gli impatti per il pianeta controllando le emissioni, e non si calcola quanto costa sigillare una mansarda per i pipistrelli del quartiere.

Un’occasione persa. Se diamo uno sguardo di insieme, capiamo quanto alcune azioni siano di benefizio sia alla città che all’ambiente naturale. I tetti verdi ad esempio. Non solo isolano un edificio come un’imbottitura, ma gestiscono anche il deflusso delle acque piovane, rinfrescano l’ambiente del quartiere, aiutano la vita di preziosi impollinatori e altra fauna. La vegetazione riesce a prolungare la vita attiva in piena efficienza di un tetto, riducendo le sollecitazioni sui materiali caratteristiche dell’erosione e degli agenti atmosferici.

Il rovescio della medaglia è il costo di installazione, in certi casi fino al doppio di un tetto normale. Un anticipo che però si può ripagare coi risparmi energetici. In alcuni progetti l’aria condizionata si è tagliata di un terzo, secondo Paul Mankiewicz, direttore esecutivo dell’Istituto Gaia, centro studi ambientali di New York. Seimila metri quadrati di tetto verde al Canary Wharf, Londra, hanno fatto risparmiare enormi somme per il riscaldamento. Secondo l’amministrazione dell’edificio al numero 10 di South Colonnade, sede della Barclays Capital, col nuovo tetto si riesce a ridurre praticamente a zero la necessità di riscaldare o condizionare l’ultimo piano “e risparmiamo quattro o cinquemila sterline l’anno”. A Singapore, il grande ospedale Changi ha scoperto che le verdure coltivate idroponicamente sui tetti non solo possono essere portate in tavola ai pazienti, ma assorbono il calore dei reparti interessati. Quei risparmi sulle bollette si possono curare meglio i pazienti. E l’energia non è l’unico vantaggio economico del tetto verde. Migliora la produttività e riduce il turnover dei dipendenti degli uffici urbani: il fenomeno si chiama “biofilia”.

Otto piani sopra al fragore della Avenue of the Americas di New York, c’è una piccola foresta di trifoglio, file d’erba e fiori che mostra lo scorrere delle stagioni. Un terrazzo di copertura opera dello studio di architettura Cook+Fox. Attraverso le finestre i dipendenti guardano libellule e farfalle svolazzare sui fiori colorati che spuntano là dove prima c’era una desolante nera copertura catramata. Uno strato di colore che cresce dai sacchi di plastica per terriccio chiamati Green Pak. Riempiti di una miscela di ghiaia e compost, sono più leggeri del classico tetto a verde, i cui strati di terriccio e filtrante richiedono strutture portanti rinforzate. E poi costano la metà: 100 dollari al metro quadrato anziché 180-200. I committenti sostengono che questa realizzazione, completata nel 2006, è uno dei migliori investimenti mai fatti. Magari al settimo piano ci si guadagna dall’effetto termico di quella copertura, però il progettista Rick Cook dice che il suo studio ci guadagna per via del panorama.

Anche altri si sono accorti del potenziale di un ambiente artificiale ma bio-diverso per migliorare i profitti. British Land, il principale costruttore del Regno Unito, ha progettato una “collana verde” attorno al centro commerciale di Teeside – nel quadro di un intervento di modernizzazione del complesso da 26.000 sterline – che comprende un ambiente per le lontre, laghetti, arbusti, casette per gli uccelli. “La gente si sente più vicina alla natura e ci lavora meglio”, spiega Sarah Cary di British Land. Ma aggiunge che è difficile giustificare questi investimenti a bilancio. “Purtroppo, il valore [percepito] è prevalentemente sociale”, commenta. Rafael Marks dello studio di architettura Penoyre & Prasad concorda: “Nel modo in cui si gestiscono preventivi progetti realizzazioni la biodiversità finisce per essere la cugina povera. Tutto dipende dalla discrezione del committente”.

Al momeno, Marks sta lavorando al rifacimento per un centro giovani di una vecchia centrale dismessa di smistamento elettrico dentro a un parco londinese. La nuova funzione sarà di educazione ecologica, e quindi si tratta di un’ottima occasione per rendere complementare l’edifico all’ambiente circostante. Una delle soluzioni è la luce dall’esterno attraverso una specie di “palpebra”, a contenere quell’inquinamento luminoso che può rivelarsi micidiale per i pipistrelli. Quando tramonta il sole i pipistrelli escono a caccia, ma con sempre più luci artificiali nelle aree urbane spesso non si accorgono esattamente di quando arriva il crepuscolo. “Le luci si devono mantenere il più possibile tenui, certo nei limiti di sicurezza di uscire nel parco”, spiega Marks. Il complesso avrà anche tetti verdi, riciclaggio delle acque grigie, massimo sfruttamento della luce solare all’interno.

Restiamo però ai pipistrelli. Il cui numero è nettamente diminuito da quando si è presa l’abitudine di convertire mansarde e sigillare in genere gli edifici. Il Bat Conservation Trust raccomanda di lasciare un varco da 10 cm nei solai: sufficiente all’ingresso degli animali e importante per la ventilazione. Se deve anche evitare di seppellirli vivi nelle pareti cave totalmente isolate, lasciando spazio per uscire. In un progetto di trasformazione ci si è dovuti confrontare con un intero stormo di civette che abitavano in un granaio del XVIII secolo. “Per la conversione di quel granaio vicino a Cambridge abbiamo realizzato uno spazio per civette in ciascun abbaino del tetto”, ricorda Katie Thornburrow di Granta Architects, specializzati in progetti sostenibili. Il committente, Chris Bristow, si sente “lusingato dall’avere queste magnifiche creature in casa. Ci sono costati [gli spazi per le civette] nell’ordine di qualche centinaio di sterline”.

Pare piuttosto economico, ma si tratta comunque di interventi di nicchia se non ci sono stimoli economici chiari per i progettisti. “Siamo onesti”, osserva Stuart Wykes, direttore aggiunto a Lafarge A&C Gran Bretagna. “Le attività edilizie e di escavazione sono per loro natura impattanti sull’ambiente. Sono però anche un’occasione per creare nuovi ambienti e habitat: a volte migliorare ciò su cui si lavora. Dal nostro punto di vista, si inizia il ripristino quando si comincia ad eliminare materiale”. Difficile non essere d’accordo. Il problema è se conservazionisti e investitori con interesse per l’ambiente riusciranno a capire in pieno l’occasione che rappresentano questi interventi per riportare armonia fra città e preziosi ecosistemi. Oppure tutto il nostro impegno per ridurre le emissioni si risolverà contro la vita nei quartieri?

A un anno di distanza eccomi di nuovo in Africa. Ricomincio, riprendendo da un altro paese africano, il Ruanda, i miei appunti di viaggio, cominciati a Nairobi nel ottobre del 2010. Nel frattempo ho finito il dottorato e cominciato a lavorare sul serio. Ho lasciato lo studio di Londra e la mia attivita di conservation architect per cominciare quella di insegnante universitario.

Il 12 dicembre è iniziata la mia prima vera esperienza di insegnamento universitario, a Kigali, in Rwanda. Ho accettato un posto di senior lecturer alla facoltà di Architettura del KIST, università pubblica ruandese. Tengo un corso teorico di “urban design” e un laboratorio di progettazione, entrambi per gli studenti del quarto anno. Il prossimo semestre insegnerò “urban planning”, un altro laboratorio di progettazione e, vista la carenza di docenti, un terzo corso… ve ne parlerò più avanti, è ancora in via di definizione.

Sono atterrata a Kigali il 9 dicembre, di sera. Ad aspettarmi c’era il mio collega Tomà Berlanda, un altro italiano – veneziano per la precisione – arrivato qui l’anno prima. E’ grazie a lui che ho saputo che il KIST cercava docenti per la loro nuova facoltà di architettura, iniziata solo tre anni fa. Il che significa che i miei studenti del quarto anno saranno i primi ruandesi a laurearsi in architettura in Ruanda. Very exiting don’t you think?

Questa è una delle tanti ragioni che mi hanno spinto a fare domanda e partire. D’altronde non è che l’Italia offra di più o di meglio per una giovane (o peggio, non più giovane) ricercatrice che vuole insegnare all’università!

Devo confessare che quando si è prospettata quest’occasione e ho cercato di fare mente locale su quello che sapevo, mi sono accorta che non sapevo nulla sul Ruanda. Ancora meno sulla sua capitale, Kigali. Certo la prima e immediata associazione è quella del genocidio del 1994, che ha sterminato in poco più di cento giorni quasi un terzo della sua popolazione e constretto all’esilio circa 1.350 000 persone, poi rientrate tra il 1996 e il 1997. Il toccante film “Hotel Rwanda” anch’esso legato al genocidio è stata la seconda associazione. A parte che il film non è stato girato nell’ Hotel in cui si è svolta la vicenda, ma in Sud Africa, non riuscivo a farmi un idea di questo piccolo paese schiacciato tra il Congo a ovest, l’Uganda a nord, la Tanzania a Est e il piccolo Burundi a sud. Distante dalle coste.

Il Ruanda rimane ancora ad oggi un paese di agricoltori. Circa 11 milioni di abitanti, di cui un decimo nella capitale. Con una densità di circa 408 abitanti per Kilometro quadrato è il paese africano più densamente popolato, ma uno dei meno urbanizzati - almeno per ora. Infatti, anche qui l’urbanizzazione è un fenomeno prorompente, che sta cambiando totalmente il rapporto tra uomo e ambiente e sconvolgendo il territorio, non solo da un punto di vista fisico e ambintale, ma anche sociale e culturale.

Di questa città so pochissimo, a differenza di Nairobi, non ho ancora molto da dirvi. Imparerò a conoscerla man mano, anche attraverso il labpratorio degli studenti, impegnati in questo semestre a progettare uno spazio multifunzionale in un area umida di Kigali, affrontando il tema dell’intefaccia tra urbano e rurale e dello spazio pubblico/collettivo. Condividerò con voi le cose che imparerò, le mie impressioni e la mia esperienza di docente alle prese con l’insegnamento dell’architettura e della progettazione urbana ad un gruppo di giovani student appartenenti ad una cultura profondamente diversa dalla mia.

Questo diario è arricchito dagli appunti di Eddy Salzano, che mi raggiungerà in Ruanda per lunghi periodi. Attualmente l’impegno scolastico è enorme e il tempo libero per scrivere al di fuori delle lezioni è limitato. Quando non sono in classe sono a casa o in facoltà a preparare le lezioni. A parte questo faccio spola da un ufficio all’altro per regolarizzare la mia posizione nel paese e nell’Università. Finito questo rimane di fare la spesa, cercare casa, cercare un automobile (ancora un miraggio…). Sarà quindi Eddy ad introdurvi per il momento alla nostra vita a Kigali.

Un imagine di Kigali, bellissima, sembra un ricamo, in cui ogni punto è il risultato del lavoro dell’uomo. E’ un territorio profondamente addomesticato, ma nello stesso tempo selvaggio, forse per il rapporto ancora così stretto ed evidente con madre natura.

La città dalle mille colline, questa è Kigali agli occhi del viaggiatore. Il resto, l’urbano - la città moderna - non ha molto da dire, ma certamente è una città dove è facile vivere, se la si paragona a Nairobi.

Titolo originale: Why Portland's Public Toilets Succeeded Where Others Failed - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Per gli abitanti di Portland, Oregon, una capatina al gabinetto pubblico non è solo questione di bisogno: è un vero e proprio atto di orgoglio cittadino. Tutto per via del Portland Loo, particolarissimo gabinetto da strada brevettato, che ispira ai suoi appassionati un’adorazione tale da far pensare che l’abbia inventato Steve Jobs in persona. Un’adorazione che regge nonostante quel servizio attivo 24 ore su 24 sia progettato per essere il più possibile inospitale. Un gabinetto certo non fatto per essere amato, ma che a Portland è di sicuro il Numero Uno (probabilmente anche il Numero Due). Un più che prosaico ricettacolo di rifiuti umani che è dotato di proprio blog, account Twitter, pagina Facebook. Qualcuno che odia i gabinetti a giugno ne ha incendiato uno, solo per provocare un vero e proprio assalto a Facebook. “Portland Loo è rock! Quale altra città può vantare gabinetti pubblici a prova di incendio?” scrive Laura Mears, e aggiunge Charlie Clint “Lo raccomando a tutti quelli che incontro: straordinario quanto sia solido! (woo hoo)”.

Una recensione del nuovo gabinetto in Jamison Square pubblicata da Yelp è intitolata “Mitico” e trabocca di amore. “Credo proprio che passerò da lì a lasciarci un ricordino al più presto” scrive Andrew C. Il 31 gennaio l’amministrazione di Portland tiene a battesimo il quinto gabinetto della città, all’incrocio fra Couch Street e l’Ottava Avenue, con un inaugurale colpo di sciacquone. Arricchito dai lavori artistici della vicina scuola elementare Emerson, potrebbe anche diventare il più famoso di tutti. Ma come sono riusciti questi piccoli bugigattoli di metallo e plastica, che magari puzzano pure on po’ di orina, a diventare un oggetto di culto fra gli appassionati di Portland? Facile: non sono dei pasticci come successo in altre città. Basta pensare ad esempio ai gabinetti da strada autopulenti di San Francisco. Subito carichi di problemi di manutenzione, sin da quando si sono inaugurati nel 1995. Qualcuno non funziona proprio, altri puzzano al punto che qualcuno li ha paragonati alla carcassa di un bisonte morto da una settimana.

Poi ci sono i bagni automatici di Seattle: un vero disastro. L’amministrazione avrebbe speso meglio quei cinque milioni di dollari anche pagando l’ingresso con consumazione a un locale Starbucks. Erano progettati in modo che chiunque poteva chiudersi dentro, trasformandoli nel proprio reame. La spazzatura si accumulava sul pavimento rendendo inutile il sistema automatico di pulizia. Alla fine dell’esperimento, nel 2008, anche i tossici avevano smesso di usare i gabinetti di Seattle. Volendo li si può ancora comprare a prezzi stracciati su eBay. Quando qualche politico a Portland ha cominciato a pensare a un proprio esperimento di gabinetto da strada, la prima cosa è stata quella di dare un’occhiata alle macerie fumanti delle altre varie esperienze simili della West Coast, prendendo accuratamente appunti. “Abbiamo considerato quello di Seattle come percorso da non seguire” ricorda Anna DiBenedetto, collaboratrice dell’assessore Randy Leonard, padre spirituale del Portland Loo. “Siamo convinti che l’errore fatale lì sia stato il tipo di progettazione. Cercare comodità e riservatezza fa sì che la gente poi si senta autorizzata a comportamenti scorretti, quelli soliti nei gabinetti pubblici”.

Così nel 2006 l’assessore Leonard ha riunito un super elitario Gruppo Gabinetti, a cui apparteneva anche il progettista di punta Curtis Banger, per realizzare il modello perfetto per la gente. Si è lavorato senza sosta – salvo quando si andava in bagno naturalmente, anche se non era un bagno perfetto – per ideare uno spazio interno in grado di scoraggiare soste troppo lunghe, anzi di spingere ad andarsene il più in fretta possibile. E due anni più tardi, il duro lavoro ha finalmente partorito il primo Portland Loo del mondo, collocato nel Vecchio Quartiere-Chinatown. Nonostante fosse proprio di fianco a una stazione degli autobus Greyhound, ad oggi resta ancora lì: una resistenza che si può attribuire senza dubbio all’idea base di spazio difendibile. “La cosa che ci mette un passo avanti rispetto ad altri tipi di gabinetto, è aver capito quanto alla gente piaccia far cose tremende” nei bagni pubblici, spiega la DiBenedetto. Così il Portland Loo è attrezzato di una serie di accorgimenti proprio per controllare certa utenza degenerata:

• Niente acqua corrente all’interno: “C’è gente, i senza casa per esempio, che usa i lavandini per farci il bucato” spiega la DiBenedetto. Così niente lavandino, solo un cannello esterno da cui esce acqua fredda.

• Niente specchio: La gente gli specchi spesso li rompe. Anche più di frequente se non trova acqua corrente a portata di mano.

• Sbarre sopra e sotto: Fa sembrare il gabinetto una specie di gabbia per gorilla, ma si tratta di aperture che possono rivelarsi di grande importanza. Un poliziotto può guardar dentro in basso e verificare che non ci siano più di due piedi per volta. Attraverso le aperture i rumori si diffondono senza ostacoli, chi passa fuori sente sospiri e sciacquii di chi sta dentro, chi sta dentro ascolta i passi e le conversazioni. Insomma nessuno ha la tentazione di star da quelle parti a lungo.

• Rivestimento a prova di graffiti: Non ci scarabocchierà sopra nessuno, a quelle latrine.

• Pareti e porte di solido acciaio inossidabile: “L’abbiamo pensato con l’idea che qualcuno potrebbe prenderlo a mazzate” continua la DiBenedetto. “Se ci sono dei danni, si può sostituire l’elemento”.

Sinora, il gesto più frequente dei malintenzionati pare quello di spaccare il bottone dello sciacquone, probabilmente usando qualche genere di attrezzo. Tutte queste caratteristiche espressamente rivolte ad atteggiamenti psicologicamente tipici fanno parte della domanda di brevetto n. D622,408 S presentata da Leonard e registrata nel 2010. Il gabinetto ha anche il discutibile onore di essere il primo brevetto della città di Portland. Il primo esemplare è costato circa 140.000 dollari. Per quelli successivi si è scesi a 60.000, più 12.000 dollari l’anno di manutenzione ciascuno. Portland ne ha anche venduto uno all’amministrazione di Victoria nella Colombia Britannica, a poco meno di 100.000 dollari. E si spera di piazzarne altri con la ripresa economica. L’idea di veder spuntare Portland Loo agli angoli delle strade di tutta l’America entusiasma la DiBenedetto, che non è solo una dipendente espressamente pagata per promuoverli, i gabinetti, ma anche una loro soddisfatta utente. “Quando sono in macchina con degli amici e passiamo vicino a uno si dice sempre ecco un gabinetto!. Dentro si prova una sensazione strana, fredda, viene da pensare: Wow, sto troppo vicino al marciapiede, mi possono sentire tutti che faccio pipì, ma è straordinario lo stesso”

Titolo originale: Let’s choose towns for all, not suburban sprawl - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Il governo britannico è sul punto di prendere la decisione più importante da un decennio a questa parte sul futuro delle città e delle campagne. Il sistema nazionale di pianificazione può condurci alla ricchezza economica proseguendo nel processo di rinascita urbana, oppure scatenare le devastanti energie della dispersione. Sono trascorsi quasi tredici anni, da quando ci trovammo di fronte a una simile scelta. Nel 1999, dopo un approfondito dibattito pubblico sulla casa, l’espansione urbana, il degrado delle zone centrali, il governo istituì una apposita task force, da me presieduta. Nostro obiettivo era di porre termine a un’epoca di cattiva progettazione urbana periferica che risucchiava la vitalità dei centri riempiendo le strade di milioni di automobili. Volevamo sfruttare lo sviluppo economico per rivitalizzare città grandi e piccole, in modo sostenibile. Le nostre indicazioni erano sostenute da tutti i principali partiti politici.

Lunghi anni di lavoro sui grandi progetti di architettura in tutto il mondo, mi hanno convinto che un buon sistema urbanistico rappresenta la chiave della riqualificazione, e quindi dello sviluppo economico nelle città. Nel Nord America si notano enormi differenze fra situazioni come quelle di Detroit o Phoenix, dove l’assenza di buona pianificazione ha cancellato la vitalità dei quartieri centrali, e Portland o Vancouver, dove ci si è invece preoccupati di concentrare le trasformazioni nell’area interna. In Inghilterra ci sono più superfici già urbanizzate disponibili che in qualunque altro paese. Dando loro la precedenza, negli ultimi dieci anni, abbiamo visto tornare la vitalità nei centri più importanti del paese. Quartieri storicamente emarginati che si trasformavano, si ripopolavano, vedevano crescere i valori immobiliari. Aree urbane che si rafforzavano grazie a una coordinata crescita di case, uffici, negozi, attività culturali. Si sosteneva la vita collettiva, si arginava l’invadenza delle auto, si ripristinavano antichi edifici e spazi. Una città compatta non ha solo valore economico e sociale, ma è anche molto più energeticamente efficiente (fino a cinque volte tanto) di quanto non lo sia un insediamento disperso.

Se la Gran Bretagna vuole restare competitiva nello scenario globale, c’è bisogno di case e spazi del lavoro meglio concepiti. Purtroppo la rinascita urbana resta un fenomeno fragile, e con la recente crisi economica è molto rallentata, in alcuni casi si è addirittura fermata o peggio. Condivido la preoccupazione del comitato congiunto della Camera dei Comuni, quando si rileva che la bozza attuale di riforma urbanistica mette in primo piano gli aspetti economici, al di sopra di quelli sociali e ambientali. Sono anche del tutto d’accordo con la necessità di concentrarsi in prima istanza sulle superfici già urbanizzate, prima di pensare alle trasformazioni di aree libere; prima il centro, delle zone extraurbane. Anche il rapporto sulle arterie commerciali curato da Mary Portas afferma: “Una volta investito nella creazione di un capitale sociale nel cuore delle città, il capitale economico seguirà”. Sono perfettamente d’accordo: lo spazio pubblico è un diritto civile.

Al governo non mancano certo le migliori informazioni di prima mano su cosa dovrebbe essere cambiato. Credo che il sottosegretario responsabile, Greg Clark, le abbia ascoltate, spero che seguirà le raccomandazioni del comitato. Clark deve anche sfruttare il nuovo sistema urbanistico per dar senso a una crescita sostenibile. Che non vuol dire coniare nuove definizioni sul significato, ma di cosa vuole dire quel termine quando si tratta di territorio e edifici, ovvero esprimere un chiaro orientamento verso per quartieri compatti e a varie funzioni, inseriti nelle aree urbane esistenti, riqualificare ciò che già c’è, rispettare l’ambiente, la storia, rafforzare il tessuto economico e sociale dell’Inghilterra urbana.

Però si sta discutendo di qualcosa di più di questi particolari. In gioco c’è il riconoscimento da parte del governo, per usare le stesse parole di Clark, che c’è bisogno di “più pianificazione, non di meno” per garantire la certezza degli investimenti, prerequisito per una rapida ripresa economica. C’è anche bisogno di un nuovo impegno da parte delle amministrazioni locali per predisporre i piani regolatori. Scandalizza, che solo meno della metà del totale sia dotata di un piano aggiornato per governare lo sviluppo del proprio territorio. Il governo deve anche occuparsi delle competenze interne alle amministrazioni, che sono carenti. Se non si interviene, esistono zone del paese che resteranno ancora senza piani aggiornati per molti anni.

Arrivare a questa riforma nazionale è cruciale per il futuro del paese. Il 90% di noi abita e lavora in aree classificate urbane. Ci avviene gran parte della nostra attività economica. Se usassimo il sistema urbanistico per sostenere e rafforzare il sistema urbano, esso diventerà il motore economico dello sviluppo. Ma se consentiamo troppa libertà al mondo delle costruzioni per operare in zone extraurbane, sicuramente le prossime generazioni non ci ringrazieranno, perché saranno costrette a pagare un prezzo molto salato in termini di coesione sociale, degrado naturale, e anche occasioni economiche perdute

Titolo originale: Putin suggests a public green space to replace wasteland of Soviet grey – scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Da quando è stato demolito il mostruoso Hotel Rossiya nel 2006, pare che nessuno abbia più saputo che farsene, di quell’enorme spazio che occupava, appena alle spalle delle cupole a forma di cipolla della cattedrale di San Basilio, vicino alla Piazza Rossa. Perlomeno, finché da lì non è passato qualche giorno fa Vladimir Putin. In visita insieme al sindaco di Mosca, al primo ministro è venuta un’idea. “Lo sa cosa penso? – ha detto Putin. Che in pratica negli ultimi anni si sono ormai costruite tutte le zone a parco del cuore di Mosca. Magari qui potremmo farci proprio un parco”.

Una osservazione casuale che potrebbe cambiar faccia al centro della città nei prossimi decenni. Il sindaco Sobyanin ha risposto che gli pare una idea “interessante”, e nell’arco di poche ore il suo ufficio annunciava ufficialmente la redazione di un progetto di parco in quell’area. Negli anni si erano accumulate una serie di proposte, tutte accantonate. All’inizio si pensava a un altro enorme albergo con centro commerciale, progettato dall’architetto britannico Lord Foster. Abbandonato dopo le difficoltà del costruttore per la crisi finanziaria. Poi si è passati a nuovi edifici amministrativi, per una zona che sta fra la Piazza Rossa e la Moscova. Un altro progetto che pare abbandonato. Nonostante la natura piuttosto estemporanea dell’ultima idea, sarebbero molti i moscoviti favorevoli a un parco, a mantenere a spazio pubblico una bella zona centrale della città, anziché trasformarla nell’ennesimo albergo di lusso o centro commerciale per ricchi.

Un importante critico di architettura, Grigory Revzin, l’ha definita una “idea brillante”. A Mosca è molto cambiato l’atteggiamento nei confronti dei parchi nell’ultimo anno, dopo che l’imprenditore Roman Abramovich ha iniziato a finanziare il rinnovo di Gorky Park e gli interventi di architetti e urbanisti. L’albergo Rossiya era un grigio mastodonte, in grado di contenere oltre 4.000 persone. All’epoca della costruzione negli anni ’60 per fargli posto era stato demolito un quartiere tradizionale. Oggi è stata demolita gran parte degli alberghi di epoca sovietica nel centro di Mosca, per sostituirli con moderni cinque stelle. L’area del Rossiya però era rimasta vuota, transennata e ingombra di macerie.

Titolo originale: Redlining 2.0: Microsoft App Would Help You Avoid Blighted Areas—And Keep Them Blighted - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Qualche giorno fa è stato annunciato il brevetto di una nuova app che consente a un pedone di usare il GPS per costruirsi un percorso attraverso la città.

Direttamente dal brevetto:

”Quando si parla di costruire percorsi si pensa sempre a un veicolo, meno al pedone. Certo sono molti coloro che si spostano in auto, ma sinora si sono ignorate le applicazioni per chi va a piedi. Mentre invece si averte molto forte la necessità di funzioni di questo tipo rivolte a chi di norma non usa l’auto, ad esempio perché non ne possiede una a causa del reddito, e abita in zone con problemi economici” .

Una buona notizia. Pare interessante vedere che una grande compagnia come Microsoft riconosca l’esistenza di modi per spostarsi anche diversi dall’auto. Mentre invece a guardare politici e amministratori cittadini parrebbe scontato che tutta l’attenzione vada in esclusiva agli automobilisti, quasi nulla agli altri (pedoni, ciclisti, utenti dei mezzi pubblici). Insomma che un marchio tanto importante si rivolga al pedone con un prodotto tanto utile è un piccolo ma fondamentale passo avanti per legittimare anche i non-guidatori.

Ma, come qualcuno ha già osservato, quella app fa sorgere un grosso problema: volendo, si può anche attivare un meccanismo che aiuta a evitare i “quartieri non sicuri”.

E quel “quartieri non sicuri” per tanti si traduce automaticamente in “ghetto” sollevando una serie di questioni razziali, di classe, violenza, cose già discusse da parecchi blog in modo più o meno approfondito e condivisibile. Comunque la si pensi sugli orientamenti più o meno marcati di consapevolezza – su cosa dovrebbe o non dovrebbe fare Microsoft e con quale urgenza – l’applicazione sembra proprio almeno confermare le cose così come stanno oggi: i quartieri degradati si devono distinguere in modo netto da quelli vivaci, e occorre avvisare la gente perché li eviti.

Ma allontanare i pedoni da certe aree può solo rafforzarne la condizione di “ghetto” allontanando ulteriormente quel passaggio che magari potrebbe riempire negozi, far vivere le strade quel tanto che basta per reagire al degrado. Rendersi visibili dall’esterno attira l’attenzione sulle potenzialità di un quartiere, scuote dal ristagno e dalla rassegnazione. Ad esempio il corridoio H Street a Washington DC con l’incredibile sviluppo degli ultimi cinque anni, o quanto sta ancora accadendo sulla St. Claude Avenue di New Orleans.

O ancora Brewerytown, un quartiere appena a nord ovest del centro di Filadelfia. Da tanto tempo emarginato, con elevati tassi di criminalità, ma zona ad elevata accessibilità pedonale individuata dall’amministrazione quando qualche anno fa si è voluta rilanciare la tranvia lungo Girard Avenue. Sollevando l’interesse di operatori immobiliari e investitori, e innescando un processo di calo della criminalità e incremento delle attività.

Una piccola precisazione: fra chi ha aperto una sede su Girard Avenue c’è anche Next American City, e io stesso ci ho comprato un appartamento. Come lo classificherebbe l’applicazione Microsoft un quartiere in piena trasformazione tipo Brewerytown? La app mi inviterebbe ad allontanarmi da casa, dal lavoro? Magari facendomi fare un giro lunghissimo per “quartieri sicuri”?

Bei tempi cinquant’anni fa, quando i buoni erano proprio buoni, e i cattivi si vendevano già dotati di serie dell'odioso ghigno beffardo tiraschiaffi! I tempi in cui la pimpante casalinga acculturata Jane Jacobs, nel tempo libero che le lasciavano la famiglia e la scrittura del futuro best-seller La Vita e la Morte delle Grandi Città, guidava l’assalto dei comitati di cittadini contro l’autostrada urbana dell’autocrate razionalista Robert Moses, un tipo poco abituato a discutere alcunché. Alte elaborazioni teoriche a parte, quando i buoni e i cattivi indossavano l’apposito contrassegno di riconoscimento c’era lo scontro fra yin e yang, bianco e nero, macchine e pedoni, quartiere contro cementificatori, eccetera, eccetera. E adesso? Adesso si fa tutto più intricato e difficile da capire.

Come si fa a sostenere che una università è il cattivo? Gli atenei sono la quintessenza della città postindustriale, portano posti di lavoro altamente qualificati, sono per tradizione e necessità strettamente legati alle economie locali ai vari livelli, dalla ricerca per le grandi imprese ai piccoli affari del bar d’angolo o delle camere affittate. Gli atenei per loro natura non sono spazi chiusi, astronavi che escludono il tessuto del quartiere, come magari rischiano di fare complessi per uffici, spazi della produzione, ospedali. Una università è anche un posto per passeggiare, attraversabile, non fa rumore, non ha emissioni nocive salvo un po’ di studenti tabagisti che fumano sul ballatoio …. Ma è proprio così?

No che non è così, e lo sa benissimo ad esempio qualunque abitante delle classiche città universitarie europee, magari quelle dove gli atenei sono cresciuti da secoli insieme a tutto il resto, rivelandosi inquilini legittimi e pure protagonisti, ma con una forte tendenza ad essere piuttosto invadenti. Immensi isolati urbani occupati in esclusiva, e gestiti come se fossero una caserma, tempi e ritmi propri, decisioni che possono cambiare il destino di enormi aree, spesso prese senza alcun rapporto con quanto accade o potrebbe accadere attorno. Ora la New York University presenta – data ufficiale di consegna della documentazione 3 gennaio 2012 - il suo progetto NYU Core, e con un colpo d’occhio alla sola planimetria generale viene davvero un pochino di tremarella.

In nude cifre, si tratta di oltre duecentomila metri quadrati di superficie di pavimento complessiva dedicati a funzioni sia didattiche e di ricerca che accessorie e di servizio. Poi c’è una parolina inquietante per chi ha qualche memoria proprio dei tempi dello zar delle grandi opere Robert Moses: superblocco. Il concetto era un tempo molto caro agli architetti razionalisti; c’è una foto storica che ritrae le Corbusier mentre guarda quasi adorante lo stesso Moses, artefice della trasformazione concreta di un suo schizzo nel famosissimo superblocco della sede Onu sull’East River. Peccato che dietro la bella parolona si nasconda la cancellazione brutale del sistema stradale urbano, della permeabilità dei quartieri, e potenzialmente la privatizzazione di ogni spazio, come ci hanno spiegato infinite volte prima William Whyte e poi Anna Minton.

Il tutto senza però mettere sul piatto della bilancia il corrispettivo economico-occupazionale di 18.000 posti di lavoro per le trasformazioni edilizie, o i 2.600 a lungo termine, nel quadro dell’espansione di una istituzione universitaria che dà lavoro a 16.000 newyorkesi per 55.000 studenti. C’è poi l’affermazione ufficiale secondo cui si intende “reinserire nel tessuto cittadino” gli spazi ad esso sottratti nelle operazioni di urban renewal (anche quelle gestite da Moses) negli anni ’50, in particolare nei due quartieri di case economiche a sud di Washington Square, area già ampiamente colonizzata dall’ateneo, secondo un sistema di spazi edificati e aperti con campi da gioco e verde. (qui il comunicato ufficiale della NYU)

Però tocca sempre ricordare anche come già negli anni precedenti delle grandi sostituzioni urbane, fossero le autostrade litoranee, o i complessi popolari razionalisti da migliaia di abitanti per volta, o la vera e propria deportazione di certi quartieri per nulla degradati per far posto a qualcos’altro (vedi Stuyvesant Town o la famigerata Bronx Expressway che innescò la leggenda della metropoli infernale), si prospettavano puntualmente futuri luminosi. Non è un caso se la più netta opposizione arriva da chi di storia se ne dovrebbe intendere, ovvero l’associazione per la tutela del Greenwich Village. Che seguendo il famoso metodo della sua madrina Jane Jacobs ha fatto una cosa: guardare il progetto. E ci ha visto un sovraccarico di metri cubi più o meno monofunzionali, “torri costruite sopra altre torri”, che poco avrebbero a che vedere con le teorie densificazioniste new urbanism, e molto invece con un classico approccio monopolista spaziale, non diverso da quello di qualunque progetto di insediamento di un campus di impresa, magari con le telecamere e le guardia armate su tutto il perimetro.

Sono i soliti nimby? Sono dei borghesi fortunati, che abitano una zona piuttosto esclusiva a bassa densità in centro e non vogliono vedersela rovinare dall’espansione universitaria? Oppure esprimono davvero una preoccupazione che dovrebbe essere di tutta la città, per quel genere di progetti sbandierati come perfettamente postmoderni, “sostenibili” per antonomasia, e invece dietro la retorica delle belle parole nascondono una logica particolare, se non addirittura speculativa? Beh, chi vuole farsi un’idea si può scaricare da qui la scheda di massima del progetto, magari dopo aver scorso le puntuali critiche pubblicate un paio di giorni fa da The Villager. Dati e informazioni più complete e disaggregate sul progetto scaricabili anche dal sito Valutazione di Impatto, dell'Ufficio Urbanistica cittadino.

p.s. per un parziale confronto di metodo coi temi di casa nostra, si vedano gli sviluppi della polemica milanese in corso fra Gianni Biondillo, il sindaco Pisapia, e altri (f.b.)

Titolo originale: The Irish squatters taking on empty homes and a bankrupt system – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

L’Irlanda esce da un altro anno di bilanci austeri e sofferenza economica, e un gruppo di giovani militanti ha iniziato a entrare negli immobili vuoti realizzati nel periodo del boom, e poi abbandonati da banche e immobiliaristi in tutto il paese. Il gruppo, che è legato al movimento irlandese Occupy, dice di volere una azione di massa verso case e appartamenti di proprietà della “cattiva banca” National Asset Management Agency (Nama), che li ha rilevati dagli speculatori dopo il crollo. Guidati da un ventisettenne che parla in gaelico, laureate a Galway, hanno occupato un edificio nella zona nord di Dublino che valeva 550.000 euro nel periodo del boom ma che ora è valutato 200.000. É vuoto da anni, così Liam Mac an Bháird e i suoi amici l’hanno occupato questo autunno per denunciare il problema della casa, oltre che il modo in cui costruttori e banche sono stati salvati coi soldi dei contribuenti.

Sono circa 400.000 gli immobili vuoti nel paese, e il National Institute of Regional and Spatial Analysis (NIRSA) avverte che così si potrebbero tener bassi i prezzi delle case per anni. Mac an Bháird ammette che il suo gruppo stia violando la legge, però aggiunge che così si evidenzia una importante questione politica. “Ci sono migliaia di senzatetto nel paese, 2.000 solo per le strade di Dublino stasera. E in tutta la città migliaia di alloggi, case e appartamenti vuoti: se ne potrebbe anche usare qualcuno come abitazione. Occupiamo anche mostrare in quale sistema ci tocca vivere. Le case potrebbero restar vuote anche dieci anni o più: e allora perche non dare un tetto a chi non ce l’ha?”

Il nascente movimento ha preso di mira una serie di immobili, tra cui una fabbrica di apparecchiature elettroniche nella zona Smithfield di Dublino. “Ho iniziato a discutere dentro al movimento Occupy sulla necessità di prendere possesso dagli immobili Nama a Dublino, per gettar luce sull’ingiustizia di un sistema che dà miliardi alle banche che hanno prestato soldi agli speculatori. Bisognerebbe trovar posto per tante persone dentro a quei quartieri fantasma che altrimenti andrebbero a pezzi vuoti. I circa 600 “quartieri fantasma” costruiti negli anni della Tigre Celtica sono diventati il simbolo della recessione irlandese. I costi di salvataggio delle banche che avevano prestato soldi a costruttori e speculatori negli anni di boom sono stati enormi. Gli economisti valutano le perdite delle banche a 106 miliardi di euro.

Cresce la rabbia verso coloro che la maggioranza degli irlandesi accusa del collasso: banche salvate e speculatori immobiliari. Una rabbia che si mescola alla povertà diffusa con la recessione che continua. I dati più recenti dell’Ufficio Statistica nazionale pubblicati prima di Natale rilevavano una contrazione del Pil dell’1,9% nell’ultimo trimestre 2011. Nello spazio gestito da Occupy davanti alla Banca Centrale Irlandese, punto di riferimento per l’opposizione ai salvataggi indiscriminati, Mac an Bháird ha sottolineato che il movimento imporrà alcune regole per l’occupazione di immobili.

“Niente droghe e niente alcolici nelle nostre occupazioni, perché si tratta di un’azione politica. É anche un’azione rigorosamente non-violenta, coerente con il movimento Occupy. E non ci approprieremo di qualcosa non nostro, nelle occupazioni”. Spiega che per sopravvivere praticheranno lo “skip diving”, raccogliendo ogni giorno gli scarti alimentari delle grandi di supermarket. Il governo irlandese ha imposto a dicembre ulteriori tagli di 2,2 miliardi di euro a dicembre, per ridurre il debito, e Mac an Bháird dice che vuole raccogliere sostegni anche da gruppi normalmente conservatori.

“Anche nello spazio Occupy alla Banca Centrale, vengono dei borghesi a dirci che sono d’accordo con noi. Sono loro che oggi stanno pagando l’avidità di banchieri e costruttori, di un sistema corrotto. Capiscono la logica di occupare edifici che altrimenti sarebbero lasciati per anni a marcire”. Il gruppo vuole ora occupare un importante edificio di proprietà Nama a Dublino per mettere alla prova l’atteggiamento delle autorità. “Sarà interessante vedere se sono proprio decisi a evacuare dei senzatetto da quell’edificio, di proprietà dello stato e dunque dei cittadini, e lasciato lì vuoto per anni”.

Titolo originale: The city of the future begins to rise in Kenya's suburbs – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Suddivisa in aree residenziali miste o commerciali e terziarie, coi suoi complessi ad appartamenti da otto piani che si affacciano su viali alberati a tre corsie, la città di Tatu dà un’impressione di ordine che di solito non evocano le altre città del Kenya. Ma si tratta della “prima città davvero pianificata dell’Africa”, secondo Cameron Rush di Planning, l’impresa promotrice di questo insediamento da mille ettari, mentre ci mostra i progetti di cosa sarà quando nel 2013 arriveranno i primi abitanti. Sicuramente non manca la domanda: ogni anno sono 200.000 i kenyani che si trasferiscono dalle zone rurali in città, e lì si vive già in una situazione congestionata.

L’attuale carenza di abitazioni nella sola Nairobi si calcola in 200.000 alloggi l’anno, dove il 60% della popolazione vive sul 6% della superficie. Tatu è una visione, magari ambiziosa, di come il paese stia cercando di trovare soluzioni al problema. “I confini della città non consentono di operare su grandi superfici per la crescita” spiega Arnold Meyer di Renaissance Capital, branca immobiliare della banca russa di investimenti Renaissance. Che da molto tempo acquista terreni in Africa, convinta delle grandi potenzialità del continente, superiori a quelle dei paesi ricchi.

Quando si è messa in vendita una piantagione di caffè vecchia di 120 anni, a nord di Nairobi, l’hanno comprata e immediatamente iniziato a riflettere su una possibile trasformazione urbana vicino alla capitale. Era l’idea iniziale di Tatu. Le dimensioni sono di due o tre volte il centro di Nairobi, più o meno identiche a quello di Johannesburg, Tatu è pensata per ospitare 62.000 persone. Se il centro terziario di Nairobi vive 12 ore al giorno, con gli impiegati degli uffici bloccati nel traffico delle ore di punta la mattina, e poi la sera per tornare a casa, Tatu dovrebbe vivere su ventiquattro ore.

La Renaissance non costruisce direttamente. Si sono acquistati i terreni, ottenuti i permessi, realizzate le infrastrutture, dalle reti dell’acqua a quelle dell’elettricità. Corsi d’acqua e falde esistenti mettono a disposizione 25 milioni di litri al giorno, e l’ente statale del Kenya per l’energia fornisce 150MW, il 10% del consumo attuale. Così si creano possibilità immobiliari, trasformando ex zone agricole in aree edificabili. L’idea è che a quel punto entrino in campo i costruttori a fare il resto.

La Renaissance sta sviluppando progetti simili di altre città in Zambia, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo e Ghana, e vorrebbe che Tatu non apparisse come certi progetti improbabili del passato, partiti e quasi mai portati a termine in Africa. Il contesto di crescita gioca a suo favore. Nel 1980 la popolazione del continente era di 400 milioni. L’anno scorso si era superato il miliardo, entro i prossimi 30 anni si arriverà a due miliardi. Nel giro di meno di dieci anni saranno almeno quindici le città a superare il milione di incremento. Nairobi è una, e poi Cairo, Lubumbashi, Accra, Lusaka e Addis Abeba. Per Lagos in Nigeria si prevede una crescita di due milioni, e la Renaissance immagina di riproporre il concetto di nuova città pianificata in tutta l’Africa.

“Ovunque si guarda, ci sono città capitali e non tanto congestionate e non più in grado di gestire alcuno sviluppo” continua Meyer. “Molti investitori capiscono in fretta quanto le città possano essere il principale fattore di crescita in Africa. Spingono l’innovazione, la creatività. Di solito si pensa all’Africa come un posto senza speranza. Pensiamo invece a come nel 1880 fosse Londra, il peggiore slum del mondo. All’epoca il censimento dava 35 persone per alloggio. Niente gabinetti, e le fogne erano a cielo aperto per strada. Sicuramente un posto poco piacevole. Ma dalla congestione è scaturita l’innovazione, con effetti moltiplicatori. Oggi la stessa cosa sta accadendo in Africa. Le città attirano persone, che nella grande densità trovano soluzioni”.

Una delle critiche al progetto di Tatu, è che possa togliere vitalità al centro di Nairobi, inducendo una migrazione di case e uffici nel suburbio. La Renaissance risponde che invece Tatu avrà un effetto di stimolo sulla capitale, non diverso da quanto accaduto a Johannesburg anni fa. “Sandton era un’area interessante e ci si trasferirono da un momento all’atro molte attività. Si crearono dei vuoti in centro. Arrivarono alcuni imprenditori a convertire quegli spazi a uso residenziale, era una cosa che avrebbe dovuto succedere anni prima. Così cominciarono ad arrivare dei giovani, che apprezzano lo stare vicino alla vita sociale”. Se non ci si può spostare a piedi, allora arriva l’idea della città coordinata come Tatu, che integra servizi e trasporti collettivi.

“Tatu sarà gestita in modo integrato per assicurare una qualità urbana, ambientale, di gestione scarichi e rifiuti senza pari nelle municipalità del Kenya” conclude Rush. “Ciò significa migliore spazio pubblico, qualità della vita e dell’ambiente per tutti”.

Nota: il sito ufficiale con molte informazioni e materiali a disposizione, è http://www.tatucity.com Scaricabile qui di seguito il piano urbanistico generale della nuova città

POSTILLA

In realtà la critica principale che viene sollevata a Tatu City da un certo numero di professionisti, ricercatori e movimenti urbani non è che la nuova città satellite possa sottrarre forza al centro di Nairobi. Piuttosto viene contestata la capacità del progetto di essere una soluzione al vero problema di Nairobi, rappresentato dal degrado degli insediamenti informali, che accolgono due terzi della popolazione urbana.

La nuova Tatu City non sarà in grado di ospitare nessuno dei due milioni di abitanti che vivono oggi a Nairobi e che infittiscono le fila dei poveri urbani. La nuova città è pensata e progettata in funzione di una middle upper class, in ascesa ma che comunque rappresenta una percentuale molto bassa della popolazione attuale, e oggi può già contare su un offerta abitativa di tutto rispetto. Negli ultimi due anni infatti a Nairobi si è costruito moltissimo. Non mancano le case, mancano le case per i poveri, che è tutta un’altra faccenda.

Peraltro l’espansione urbana collegata a Tatu city non consisterà solamente nella costruzione della nuova città. Tutt’intorno sorgeranno automaticamente nuovi quartieri informali, dove la lower class - che sarà impiegata per mantenere puliti e sorvegliati i nuovi quartieri – troverà posto non potendosi di sicuro permettere l'affitto o l'acquisto di uno dei nuovi immobili. La nuova città quindi attirerà una nuova popolazione urbana tendenzialmente abbiente, o sposterà quella esistente, lasciando invariato l’enorme problema dei quartieri informali, e aprendo la strada a nuovi problemi, infrastrutturali, di espansione delle baraccopili e di gestione dell’area metropolitana.

Il processo di acquisizione delle terre a piantagione e la loro parziale rivendita ha già consentito alla multinazionale di intascare un’enorme rendita sulla base della trasformazione del suolo da inedificabile ad edificabile. Il processo che ha reso la trasformazione di queste aree in edificabile è stato poco trasparente e presumibilmente viziato da ‘corruption deals’. Tra l’altro l’amministrazione ha concesso l’autorizzazione senza chiedere in cambio oneri di urbanizzazione adeguati che avrebbero consentito di coprire spese infrastrutturali e alla costruzione della “città pubblica” così carente di servizi e infrastrutture.

Anzi, la rete di trasporto per collegare la nuova città con il centro e l’aeroporto (dall’altra parte della città) è completamente a carico dei contribuenti e assorbe una parte del bilancio che potrebbe essere investito in altre zone della città, più bisognose. Per non parlare della sostenibilità ambientale di occupare terre agricole e aumentare lo sprawl di questa città che già soffre di inquinamento e invivibilità ambientale. Magari è proprio l’insalubrità del centro di Nairobi che crea la spinta e la domanda di nuovi insediamenti ai margini della bella e pulita campagna keniota. Non è comunque un mistero che oggi il settore immobiliare risulti trainante più del caffè e del tè!

Si tratta di una vera e propria città privata: Tatu City è solo l'ennesima ‘gated community’, solo un po’ più grande delle altre! La regia di questo progetto è totalmente privata, il governo nazionale, per parola di alcuni ministri, ha dato il suo beneplacito, mentre la municipalità di Nairobi è rimasta estranea all’intero processo e i cittadini completamente all’oscuro. Certamente non è questo che rappresenterà il progetto giusto per Nairobi, certamente non per la maggior parte dei suoi abitanti che rimarrà estranea al processo di sviluppo e beautification così auspicato dalle forze politiche ed economiche del paese.

Come si studia anche a scuola, o almeno si dovrebbe studiare quando ci si prepara in discipline del territorio, una delle particolarità dell’urbanistica americana è quella di avere profonde radici naturali. A differenza della tradizione europea di intervento socio-sanitario per migliorare le condizioni abitative delle masse inurbate, o di quella specificamente italiana di dialettica fra città antiche e vita moderna, oltre oceano esiste il contributo fondante e fondamentale della landscape architecture, da Andrew Jackson Downing attraverso Frederick Law Olmsted Sr. fino a John Nolen e all’interdisciplinarità di Clarence Stein, Lewis Mumford, Benton MacKaye.

Ce lo ribadiscono spesso mostrandoci i percorsi sinuosi delle stradine a cul-de-sac che si inoltrano fra dune erbose, siepi, alberature, dove le case unifamiliari paiono solo un comodo guscio per proteggere la famiglia dalle intemperie, in un ambiente che pur fortemente artificioso tenta il più possibile di rispettare o riprodurre uno spazio naturale. E non si capisce poi benissimo come mai il famoso progetto di Seaside in Florida, quello che ha lanciato nel firmamento archistar lo studio DPZ di Andrés Duany dopo essere stato usato come sfondo del film The Truman Show, si distingua da tutti gli altri. In fondo il modello sembrerebbe identico, salvo qualche dettaglio.

E invece no: a Seaside c’è qualcosa che è silenziosamente ma quasi totalmente sparito dalla produzione corrente di planned communities, ovvero i quartieri suburbani chiavi in mano dove abita una quota maggioritaria dei cittadini Usa, cioè un certo rapporto con la natura. Altrove, questo rapporto è del tutto finto e anzi di pura aggressione, dagli scarichi delle auto indispensabili per fare qualunque cosa, alla materia prima stessa di cui quei simil-villaggi sono fatti, inclusa terra e piante. Per capirlo con un impressionante colpo d’occhio, basta guardare questa serie di immagini su AtlanticCities. (f.b.)

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