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Titolo originale: Plan for Charter City to Fight Honduras Poverty Loses Its Initiator – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

CITTÁ DEL MESSICO — Paul Romer è uno stimato economista con idee controcorrente per sollevare la gente dalla povertà. In Honduras credeva di aver trovato un governo seriamente pronto a mettere in pratica queste idee. Basterebbe spazzar via la corruzione, certe élite che fanno solo i propri interessi, le regole economiche che ostacolano la crescita di tanti paesi poveri, creando città dotate di proprie leggi e forme di governo. La Città Franca ( charter city), come la chiama Romer, risponde a solidi principi di garantiti da uno stato estero, come nel caso di Hong Kong. In Honduras, una volta che il parlamento ha approvato la necessaria legge all’inizio del 2011, l’idea è passata dal concetto astratto a possibilità concreta. Vari articoli l’hanno raccontata sull’ Economist, il Wall Street Journal e il New York Times Magazine. (in Italia il Corriere della Sera)

Ma adesso Romer, economista esperto di crescita, è escluso dal suo progetto, ha inciampato nel genere di decisioni poco trasparenti che voleva superare con la sua idea. Una contraddizione interna alla teoria: per fondare una nuova città dotata di nuove regole, prima bisogna trattare con governi immersi in quelle tradizionali. “Sono a dir poco perplesso e deluso, di fronte alla gente a cui mi rivolgevo” commenta Romer, responsabile del Progetto Urbanizzazione alla Stern School of Business della New York University. “e cioè gli honduregni che speravano si trattasse di una possibilità di uscita dalla logica del business as usual”.

Il punto di svolta è stato l’annuncio, qualche settimana fa, che l’agenzia incaricata dal governo di coordinare il programma aveva siglato un accordo con un gruppo di investitori. Una notizia arrivata a sorpresa per Romer. Il quale era convinto che ci sarebbe voluta anche l’approvazione della commissione per la trasparenza che aveva costituito insieme a un gruppo di esperti. Così ha abbandonato il progetto.

La legge che vara l’esperimento delle città franche in Honduras, aree speciali di sviluppo, RED nella sigla in spagnolo, introduce flessibilità per promuovere innovazione, ma richiede assoluta apertura e trasparenza nei processi decisionali, precisa Romer. “L’unico principio assoluto è proprio l’impegno alla trasparenza”.

Octavio Sánchez, responsabile del gruppo di lavoro del presidente Porfirio Lobo e riferimento governativo per il progetto, concorda sul fatto che la commissione per la trasparenza è essenziale una volta approvate e in corso di attuazione tutte le leggi necessarie. “Lo vogliamo con noi” conferma a proposito di Romer. “Perché ci crede davvero”.

Il gruppo di investimento è guidato da Michael Strong, attivista già in collegamento con esponenti libertari [ il termine libertario negli Usa si riferisce a posizioni anarco-liberiste n.d.t.] come John Mackey, il fondatore di Whole Foods. Promette di coinvolgere anche imprese della Silicon Valley e capitali del Centro America, ma alla richiesta di ulteriori particolari fa solo il nome di un uomo d’affari del Guatemala.

A partire da una disponibilità di 15 milioni di dollari, spiega, si inizia da un piccolo progetto pilota di costruzioni infrastrutturali, e dai contatti con potenziali occupanti degli spazi.

Strong aggiunge di avere dei progetti future per abitazioni low-cost e scuole, ma ammette anche come “tantissime cose non le sapremo finché il governo non istituirà la RED”.

Con queste pochissime indicazioni pratiche, anche la stampa honduregna di solito piuttosto filogovernativa ha cominciato a chiedersi se ci siano davvero dei capitali, dietro a questo piano.

Chi si oppone al progetto da sinistra aveva già inoltrato ricorsi alla Corte Suprema dell’Honduras contro le città nuove. Altri ne sono arrivati dopo le notizie sugli investimenti.

Secondo Strong e altri coinvolti nel programma, ad esempio il consulente americano Mark Klugmann che collabora con Sánchez, la commissione per la trasparenza non è mai stata formalmente istituita. Dello stesso parere Sánchez, che però non ne ha mai messa in discussione l’esistenza in passato.

Romer sostiene che il Presidente Lobo ha firmato il decreto in sua presenza a dicembre. Ma riconosce quanto la commissione avesse basi legali vaghe, per via di problemi con la Corte Suprema. Quel decreto non è mai stato pubblicato.

A ben vedere ci sono problemi anche in altri aspetti del piano, come il progetto di legge del Congresso che doveva determinare l localizzazione della città (Strong va avanti comunque con le possibilità di acquisto di terreni sulla costa caraibica nell’area di Puerto Cortés).

nessuno discute il fatto che il povero violento Honduras abbia un gran bisogno di qualche genere di terapia d’urto. “Facciamo un elenco generale delle cose da cambiare, e poi proviamo a realizzarle tutte insieme in un piccolo caso” spiega Sánchez. “Dobbiamo costruire le condizioni adeguate anche nel mezzo di turbolenze politiche”.

Sánchez ha 37 anni, è laureato in legge a Harvard, da dieci anni coltiva idee simili a quelle di Romer, e stava lavorando insieme a Klugmann a uno schema di zone economicamente autonome, quando un amico gli ha mostrato un video di una conferenza di Romer. “Certo non valeva la possibilità di intromissione di uno stato estero. Ma tutto il resto sì” ricorda.

Sánchez intervistato al telefono spiega come si debbano adottare idee che hanno già funzionato altrove. Un gruppo di nomina governativa ha già visitato la Corea del Sud e Singapore. Poi in Georgia si è scoperto il modello della instant city a Lazika, in corso di realizzazione e ispirata al concetto di città franca.

Strong ha una sua particolare idea sul rapporto di Romer col progetto. “Quando poi Sánchez ha visto quel video della conferenza di Romer, ha capito che poteva essere una forma di validazione di alto profile a sostegno della sua idea – ci scrive via email – e il progetto di Romer è stato davvero un catalizzatore promozionale”.

Ma Romer adesso sta guardando altrove. “Se le riforme sociali fossero tanto facili le avrebbero già fatte. Bisogna continuare a provarci”.

A titolo di riferimento, quasi ovviamente, aggiungo qui il sito Charter Cities che racconta almeno le intenzioni politico-accademiche di Romer (f.b.)

Titolo originale: Concrete Jungles – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

SAVDA GHEVRA è una espansione periferica di minuscole povere case di mattoni con le porte di latta ammaccata, a ovest di Delhi. Sciami di mosche su fogne a cielo aperto. In assenza di rete idrica, ogni giorno arrivano 55 autobotti. Solo una minoranza delle case, quelle “ pukka”, ha i gabinetti. Si sono piantati degli alberi, ma complessivamente la sensazione non è molto diversa da quella di essere in una baraccopoli.

In teoria Savda Ghevra rappresenta un progresso: un progresso minimo, e del tutto insufficiente. L’area era stata destinata a presunti 500.000 abitanti dello slum sgombrati da Delhi per i giochi del Commonwealth del 2010: pescivendoli del puzzolente fiume Yamuna, sarti, chi trascina il rickshaw, venditori ambulanti a cui erano state rase al suolo le baracche. In alcuni casi erano stati accompagnati a Savda Ghevra, con un lotto assegnato su cui potevano costruire.

Adesso hanno casa e luce elettrica, ma si sono separate tante famiglie: il padre che dorme da qualche parte a Delhi, e gli altri nella nuova casa. Qualcuno si è venduto illegalmente il lotto, cedendolo a speculatori poco raccomandabili. All’angolo si vede una casa in vendita per la cifra improbabile di 2,7 milioni di rupie.

Le città dell’India, quasi tutte, sono prive di identità e rabberciate. Ed è uno dei motivi per cui il paese resta in gran parte rurale. Due terzi della popolazione (833 milioni di abitanti) vive sparsa in 640.000 villaggi. Ci sono politici come A.P.J. Abdul Kalam, ex presidente, o Narendra Modi, primo ministro del Gujarat (che parla di modello “ rurbano”), che vogliono tenere la gente lontano dalle città, e preferirebbero invece portare internet, elettricità, scuole e posti di lavoro verso le zone rurali.

Dato il peso complessivo del voto rurale, va in quella direzione molta spesa pubblica. Si sostiene il carburante diesel che i contadini usano per le pompe. Il programma NREGA crea posti di lavoro assistenziali a basso salario. Il governo paga a prezzi maggiorati grano e riso, per poi rivenderlo a prezzo politico agli abitanti dei villaggi. Così si evitano migrazioni, e in alcuni stati si sostiene la corruzione. Un esponente del governo calcola che il 44% delle razioni alimentari governative svanisca in qualche “buco”.

Certi stati,come il Kerala e Tamil Nadu, hanno servizi pubblici discreti e indicatori sociali accettabili nonostante la lenta urbanizzazione, ma questa resistenza ha un prezzo. La vita nei villaggi è dura per le caste inferiori, per le donne, per le minoranze religiose e di altro genere. Nei villaggi ci sono le peggiori scuole, la peggiore sanità, il lavoro meno produttivo.

Ritardare l’urbanizzazione può significare ritardare il benessere. Quando i contadini abbandonano la terra per le fabbriche, i call centre o altro, crescono il loro reddito e consumi, migliorano tutti i vari indicatori di sviluppo. In Cina oggi è urbana più di metà della popolazione.

Aromar Revi, direttore dell’Indian Institute for Human Settlements (IIHS), racconta che le 100 grandi città del paese, col 16% della popolazione totale, contribuiscono per il 43% al reddito nazionale. Anche chi abita lo slum produce e commercia. Ma sono frequentissimi i casi come Savda Ghevra, che ereditano pessima progettazione e gestione.

Gurgaon, zona terziaria vicina a Delhi, è piena di grattacieli di cristallo ma povera di condotti fognari e fili elettrici, solo ora sta cominciando ad avere mezzi di trasporto pubblici. La Mumbai sempre bloccata in un ingorgo cade a pezzi, specie quando piove.

La popolazione urbana, oggi 377 milioni, cresce di circa 5 milioni l’anno. Storicamente le città crescono per incremento naturale, non per immigrazione. Le cose stanno cambiando man mano le popolazioni delle campagne capiscono l’occasione. Dunque in futuro l’India urbana crescerà molto più in fretta, raddoppiando verso la metà di questo secolo.

Certe città diventeranno mega-città. Secondo alcune previsioni, l’intera costa occidentale potrebbe trasformarsi in un’unica conurbazione, estesa da Ahmedabad in Gujarat al nord, attraverso Mumbai e verso sud fino a Thiruvananthapuram in Kerala. Nell’entroterra Delhi e la regione che la circonda sarebbe un nodo da 60-70 milioni di abitanti people, sempre che ci sia acqua a sufficienza. Entro vent’anni l’India avrà probabilmente dieci città più grandi di New York, ciascuna da almeno dieci milioni di persone: Ahmedabad, Bangalore, Delhi, Mumbai, Hyderabad e Chennai.

Delhi dispone in abbondanza di fondi pubblici, e anche di donazioni giapponesi, che hanno contribuito a finanziare la nuova metropolitana. Anche altre città come Bangalore e Ahmedabad, stanno costruendo metropolitane. Ogni grande centro può attingere a risorse centrali, quelle del Jawaharlal Nehru National Urban Renewal Mission, per nuove infrastrutture. Ma crescono molto anche centri più piccoli. Sono già 53 le città con almeno un milione di abitanti. In alcuni casi sono migliorate, ma tante sono sporche e mal governate.

Gorakhpur è una grande città vicino al confine col Nepal nell’Uttar Pradesh orientale, famigerata per la politica religiosa, la criminalità e il contrabbando. Ha 670.000 abitanti, una pessima situazione sanitaria e strade a pezzi. Ai margini estremi della città c’è un campo da cricket così ricoperto di rifiuti che risulta quasi impossibile vedere il terreno che ci sta sotto. Nelle vie le vacche brucano sacchetti di plastica.

L’India è mal attrezzata per rendere questi luoghi più efficienti in termini sia di sviluppo che di qualità della vita. “Non vedo progressi nella riflessione sulle città” commenta un alto esponente del mondo immobiliare e commerciale. Gran parte dei terreni è di proprietà privata, ma i meccanismi di mercato restano opachi, troppo dipendenti da rapporti familiari e politici.

Particolarmente grave la situazione di Mumbai. “Sull’edilizia in città si innescano delle rivolte” commenta Guzder, uomo d’affari di etnia parsi. Spuntano grattacieli, specie attorno a Sea Link, il ponte che college la parte meridionale a quella settentrionale della città. “Mancano del tutto le infrastrutture fondamentali urbane, non si allargano le strade, non ci sono servizi di polizia”. Prithviraj Chavan, primo ministro dello stato del Maharashtra, dà la colpa di tutti i problemi ai “profondi intrecci tra interessi immobiliari e discrezionalità politica nei finanziamenti”.

Anche nei comuni c’è bisogno di maggiore professionalità. Guzder racconta che a sovrintendere l’intera regione metropolitana di Mumbai c’è un solo urbanista (“e presto andrà in pensione”). Revi calcola che nel 2031 l’India mancherà di almeno 100.000 tecnici — tra urbanisti, ingeneri ecc. —per la gestione urbana. È a capo di una nuova struttura universitaria che cercherà di riempire il vuoto.

Per i ricchi dotati di risorse si prova ad aggirare il problema fondando città nuove. Come Lavasa, in corso di realizzazione su un’area di circa 10.000 ettari di collina affacciati su un lago artificiale vicino a Pune in Maharashtra. Pare bella: quartieri dove si può camminare, buone strutture, una specie di oasi per 300.000 abitanti. Ma è piena di contraddizioni, e sicuramente non può essere un modello per le città destinate ad ospitare un sesto della popolazione mondiale.

Molto più interessante da questo punto di vista l’esempio che troviamo risalendo la costa. Surat, nel Gujarat, 4,5 milioni di persone, fiorente nodo commerciale che non molto tempo fa era una specie di discarica come Gorakhpur. Nel 1994, dopo un dichiarato (mai confermato) scoppio di un’epidemia di polmonite, divenne simbolo di squallore, ingorghi, slum e pessimo governo. Da allora è cambiata. Un’amministrazione efficiente l’ha ripulita. Rifiuti raccolti, trasporti migliorati, strade spazzate, servizi attivati. E, miracolo, si è trattato di riforme durature. Il 96% degli abitanti paga le imposte locali entro i termini. Manoj Kumar Das, oggi sindaco, racconta come negli utlimi dieci anni la popolazione di Surat sia cresciuta in media del 5% l’anno, percentuale tra le più alte del mondo. Secondo i tecnici, nel 2031 potrebbe avere 9,3 milioni di persone, più di Londra.

Aiuta il fatto che l’economia locale prospera, lavorazione dei diamanti, tessili e petrolifere in particolare. Il capo di una delle imprese dei diamanti racconta come quella sua città natale abbia cambiato volto e sia orgogliosa. Gli investitori apprezzano l’energia elettrica senza interruzioni, un traffico che scorre, la mentalità concreta. Migliorano anche le più estreme periferie. In una giornata del torrenziale monsone colpisce per stranezza l’assenza di puzza, sciami di mosche, fango, baccano, anche ala discarica municipale. Funziona, gestita in appalto privato, un modello che le altre città potrebbero imitare anche da subito. E anche la spazzatura si può sfruttare: presto se ne bruceranno 1.200 tonnellate al giorno nell’inceneritore di fabbricazione tedesca.

Impressiona anche il sistema fognario: efficiente, computerizzato, alimentato dall’elettricità di un impianto a biomasse e metano. Sono allacciate alle fogne il 90% delle case. L’ingegnere municipale spiega come le reti idriche siano estese a tutta la città. Si demoliscono gli slum e si realizzano parchi lungo il fiume. Il prossimo progetto è di un sistema di autobus veloci, passerelle di attraversamento sopraelevate, e un parco a tema stile Bollywood ispirato a Disneyland. Si vedono saloni di automobili molto alla moda, marchi commerciali come Jimmy Choo, Burberry, Armani o Gucci arriveranno presto.

Cosa funziona a Surat? Tanti uomini d’affari, il rappresentante dell’associazione gioiellieri, la camera di commercio, un importante giornalista locale, tutti danno la medesima risposta: una buona amministrazione. Quando gli abitanti possono fidarsi di chi li amministra e dei progetti, contribuiscono volentieri al successo della città. Quest’anno i privati hanno piantato 200.000 alberi per migliorare la situazione del verde.

Secondo Das se si dà la giusta motivazione agli enti pubblici e a chi ci lavora, altre città possono fare lo stesso. Per esempio, oggi a Patna, la capital del Bihar dove è nato, tutti hanno la luce elettrica. Quando era un ragazzo ha dovuto studiare con una lanterna.

Nota: questo articolo dell’Economist, che ovviamente sostiene una propria tesi diciamo “liberale” come si addice agli orientamenti della testata, dal punto di vista dei dati proposti è praticamente identico ad altri già pubblicati sulla stampa internazionale, che probabilmente corrispondono a qualche tipo di informazioni standard rese note dal governo indiano in forma aggregata, mai citate. Posso rinviare qui, per una prospettiva forse diversa e ad altre dichiarazioni dei protagonisti, a quello dal Bangkok Post che ho tradotto su Mall alcuni giorni fa (f.b.)

Titolo originale: How an Austrian Mountain Village Ended Up in China – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Ad appena un anno dall’annuncio dell’ambizioso progetto di copiare un minuscolo idilliaco villaggio di montagna austriaco, i costruttori cinesi hanno inaugurato il loro clone. Appena fuori dalla città sud-orientale di Huizhou, il nuovo villaggio assomiglia in tutto e per tutto a Hallstatt, Vienna, completo di schiere di chalet color pastello, particolari architettonici e anche una replica fedele della torre dell’orologio, segno caratteristico dell’originale da 900 anni. Coordinato e realizzato da Minmetals Land Inc., il progetto per un investimento da 940 milioni di dollari è stato inaugurato sabato con l’apertura ai turisti alla presenza del sindaco di Halstatt, Alexander Scheutz.

L’estate scorsa, quando si era diffusa la notizia del progetto, gli abitanti di Hallstatt si erano ritenuti offesi dall’idea del falso cinese, minacciando di fare appello all’UNESCO per bloccarlo. Si sono comunque presto ricreduti, dopo aver capito che si trattava di una grande occasione promozionale. All’inaugurazione questo fine settimana Scheutz ha partecipato dopo la firma ad un accordo di scambi culturali con l’amministrazione locale, esprimendo orgoglio per la partecipazione comune all’idea.

Come riferisce l’agenzia Reuters, la riproduzione cinese di Hallstatt si compone di residenze per i nuovi ricchi della città, a cui si aggiungono spazi e negozi per turisti. La piazza centrale, modellata su quelle del mercato austriache, espone fotografie caratteristiche del luogo, e c’è personale incaricato che costantemente innaffia e cura tutto il verde interno e circostante il villaggio. Funziona benissimo, secondo i costruttori cinesi e la delegazione austriaca in visita. I turisti cinesi nella Hallstatt originale praticamente non esistevano cinque anni fa, ma col progetto a quanto pare si è innescato un importante flusso, e a migliaia sciamano verso i pascoli alpini. È da vedere se anche alla Hallstatt ricopiata arriderà il medesimo successo.

Recentemente nel dibattito sulla riforma complessiva del sistema di pianificazione britannico (che non comprende solo gli aspetti urbanistici, ma anche la legge sul localismo e la partecipazione, i provvedimenti per la casa legati all’assistenza sociale ecc.) si è inserita autorevolmente la Town and Country Planning Association, con un documento di ampio respiro che auspica un ritorno allo spirito originario delle Città Giardino, declinate secondo i contemporanei criteri della sostenibilità e della risposta ai nuovi obiettivi sociali, economici, climatici, energetici. Di particolare interesse, visto il tipo di interlocutore politico governativo, a dominanza Tory, era il sostanziale ottimismo con cui la TCPA sembrava leggere tutto il percorso di riforma prospettato e sin qui attuato dalla coalizione conservatori-liberali, in particolare riguardo alle potenzialità di un nuovo patto fra stato centrale e territori, fra pubblico e privato, fra esigenze ambientali e di crescita economica.

Anche altre associazioni, come la Campaign to Protect Rural England, o il prestigioso National Trust (che conta fra i suoi iscritti tale David Cameron) pur nella chiarezza delle posizioni rispetto alla riforma del Planning Framework avevano dato segnali analoghi. Ma questo atteggiamento, a ben vedere e abbastanza ovviamente nella logica conservazionista, si spiegava in sostanza “in negativo”, ovvero una volta messo al sicuro il proprio territorio di beni culturali e paesaggi da tutelare, il resto non importava gran che. Profondamente diverso il caso TCPA, che nell’evocare alcuni caratteri del programma originale di Ebenezer Howard (un po’ meno le prospettive stataliste delle New Town post belliche) indicava linee forti di possibile sinergia coi programmi neoliberali di nuova partecipazione pubblico-privata allo sviluppo nazionale, in una prospettiva di sostenibilità al tempo stesso ambientale ed economico-sociale. Ora però arrivano i fatti, che come tutti sanno aiutano a capire meglio cosa c’è dentro le dichiarazioni di principio.

Non paiono tanto consolanti, questi fatti. Lo si era visto già con i progetti in joint-venture delle eco-città all’epoca di Gordon Brown, miseramente crollati proprio studiandone la sostenibilità, spesso ridotta a trucchetti ridicoli come travestire burocraticamente da “recupero di area dismessa” la cementificazione di ettari di pascoli, o calcolare la riduzione delle emissioni senza tener conto dei trasporti privati. Ma si trattava appunto di progetti di iniziativa privata, anche se in collaborazione con comuni e contee. Quello che è stato pubblicato questa settimana dal Warwick District Council però è un piano urbanistico, o per meglio dire un allegato-linea-guida che rafforza (o dovrebbe rafforzare) gli indirizzi generali del nuovo piano urbanistico, oggi nella fase di dibattito pubblico. Il titolo riecheggia esplicitamente e volutamente proprio quello della TCPA: Garden Towns, Villages and Suburbs: a Prospectus. ma chi ci cercasse, con tutte le attenuanti del caso, una vaga ombra della carica utopica e riformatrice di Howard, sarebbe a dir poco deluso. Al massimo, siamo dalle parti di uno di quegli opuscoletti in stile new urbanism che qualche amministrazione americana prova cautamente a inserire nei piani locali, sperando di convincere gli operatori ad allontanarsi un pochino dal modello della villettopoli coatta. Ma niente di più.

Ecco, se la Città Giardino è evocata, in questa prima piccola prova “istituzionale” del nuovo corso urbanistico di centrodestra, lo è nei suoi aspetti storicamente deteriori, ovvero prima nella citazione del villaggio tradizionale britannico voluta a suo tempo e abbastanza casualmente da Raymond Unwin (e che non a caso tanti critici avevano sfottuto), e poi nel lodevole ma sconfitto modello di adattamento alla mobilità automobilistica introdotto da Stein-Wright a Runcorn, non certo prototipo di sostenibilità come voleva essere, ma madre involontaria di tutti i cul-de-sac dell’urbanizzazione dispersa. L’allegato al piano del Warwick District Council, insomma, più che insediamenti sostenibili evoca certa comunicazione immobiliare da televisioni private, naturalmente di alto profilo, e altrettanto naturalmente inserita in un programma di sviluppo locale anziché appesa al nulla di uno svincolo o di una rotatoria in mezzo ai campi.

Si legge anche dell’esigenza di coordinare casa, servizi, posti di lavoro, trasporti … ma pare proprio il minimo, trattandosi appunto di un documento urbanistico pubblico. Resta aperto il dubbio: ma saranno tutti così, questi piani sedicenti sostenibili? Queste Città Giardino che ricordano più la omonima lottizzazione speculativa immersa nel verde voluta in pieno ‘800 dal magnate Alexander Stewart, che non l’utopia sociale di Ebenezer Howard a cavallo fra i due secoli? Vedere per credere, disegnini compresi, nel pdf scaricabile di seguito.

Titolo originale: Rooftop fish farms to feed Germany's sprawling urban population – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

L’itticoltura si è dimostrata un’attività quantomeno discutibile negli estuari del nord Atlantico di fiumi da salmoni, o nel Mediterraneo, coi pescatori sportivi e gli ambientalisti a lamentarne gli effetti collaterali e gravi danni agli habitat naturali. C’è invece un programma in Germania che mira all’alimentazione degli abitanti urbani portandoci direttamente gli allevamenti, con serbatoi installati su tetti delle case e parcheggi, e sfruttando scarti per far crescere verdure. Un’idea abbastanza semplice. Ci sono dei pesci persico che nuotano in serbatoi metallici, l’ammoniaca che producono si sfrutta per fertilizzare pomodori, insalate, erbe aromatiche che crescono in un a serra installata immediatamente sopra. Itticoltura e orticoltura idroponica realizzano un sistema integrato che offre agli abitanti delle città una produzione biologica, locale, sostenibile.

“Dobbiamo realizzare sistemi che ci consentano una produzione alimentare con uso molto efficiente delle risorse” spiega il cofondatore di Efficient City Farming, Nicolas Leschke, guidando i visitatori nel piccolo prototipo in un’ex impianto per il malto nel quartiere Schöneberg a Berlino. Spinti dal problema dell’eccesso di prelievo nella pesca oceanica, dalle lunghe distanze percorse da ciò che mangiamo, da quello che definiscono “una generale mancanza di trasparenza” del settore alimentare, Leschke e i suoi colleghi propongono il prototipo di un possibile sistema esteso a tutte le città tedesche, e sono due oggi gli impianti in progetto. I lavori inizieranno dall’anno prossimo in una installazione acquaponica su 7.000 metri quadrati di tetto in una fabbrica dismessa della capitale, la più grande del mondo.

“Negli oceani si pesca troppo, e non occorre essere profeti per sapere che le cose non cambieranno” commenta Leschke. “E poi con tutti i pesticidi, antibiotici, modificazioni genetiche, non si sa più cosa mangiamo”. Montati su sottili piloni, i contenitori Efficient City Farming si possono installare ovunque, secondo Leschke, e tutto quello che devono fare gli operatori è mantenere il livello dell’acqua e alimentare il pesce. ‘è anche bisogno di un piccolo flusso di corrente elettrica per pompare l’acqua ricca di nitrati verso la coltura idroponica sovrastante con le verdure. “Con questi pochi interventi il sistema funziona indefinitamente”.

Il sistema si chiama Astaf Pro, è stato sviluppato dagli scienziati dell’istituto Leibniz di Berlino per conto di Efficient, e consente di controllare le quantità di azoto per una migliore produzione di pesci e verdure. Le popolazioni urbane aumenteranno n ei prossimi decenni, e ci saranno tante bocche da sfamare: metà della popolazione del mondo urbana, e secondo l’ONU il 70% nel 2050. Anche se per adesso l’idea non salva ancora il mondo, perché la tecnologia –35.000 euro a contenitore – significa sostenibilità economica solo con grandi impianti e grosse rese. “Non facciamo prodotti a buon mercato, non stiamo salvando il mondo, ma di sicuro è un passo nella direzione giusta” conclude Leschke.

Nota: ovviamente questa tedesca è una delle tantissime sperimentazioni (che speriamo escano presto da quello stato sperimentale) di produzione alimentare urbana. Solo per fare un esempio, ho provato tempo fa raccoglierne alcune secondo lo slogan Mangiare la città; ce ne sono a disposizione centinaia nella cartella Ambiente di Mall (f.b.)

Titolo originale: Social mobility - on the spot – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Le attuali discussioni sulla mobilità sociale sembrano non coglierne un aspetto essenziale. Viene definita in quanto possibilità e capacità di uscire da uno stato di povertà, per entrare in una fascia sociale “più alta”. In altre parole siamo ancora all’idea di meritocrazia secondo cui, per usare una frase rivelatrice di Peter Hain: “Facciamo dei buchi nella società attraverso cui qualcuno riesce a sgattaiolare, e lo consideriamo un successo”.Una definizione angusta di mobilità sociale, e pericolosa. Concentrandoci su quel 20% che “sta in cima”, come spesso succede, alimentiamo sempre più delusione e frustrazione nel rimanente 80%, con effetti potenzialmente disastrosi. Una delle conseguenze inattese delle scelte progressiste del dopoguerra è stata di consentire ai giovani con più capacità e iniziativa di abbandonare I quartieri “difficili” dei centri città del paese. Che si tratti della legge del 1944 coi criteri di valutazione scolastica per gli assegnatari, delle trasformazioni urbane, della vendita di case pubbliche, tutte le varie scelte hanno spinto ad aumentare gli squilibri.

Il che è andato bene per pochissimi, che se ne sono andati dalle loro zone lasciandole senza una classe dirigente e sempre più senza speranza di trasformazione: ed entrambi gli aspetti sono possenti catalizzatori di comportamento antisociale. Abbiamo così enormi zone urbane nelle quali chi potrebbe operare per un miglioramento mira invece ad andarsene. Pochi insegnanti che abitano vicino alle scuole centrali in cui insegnano, nessun avvocato accanto ai suoi clienti poveri, i pochi preziosi dottori a cui capita di abitare nei pressi degli ambulatori, praticamente nessun poliziotto con la casa nelle zone difficili che pattuglia, addirittura parroci e predicatori che oggi tendono a stare lontani dalle comunità delle proprie chiese. Fanno parte della medesima tendenza anche gli amministratori. Basta dare un’occhiata ai collegi con popolazioni a basso reddito di Leeds per vedere che oltre la metà degli eletti laburisti risiede in lontani verdeggianti suburbi, e non nelle zone che rappresentano (in cinque casi sul sito del comune non ci sono neppure gli indirizzi). Per dimostrare che non sono di parte, anche due dei tre consiglieri liberaldemocratici che rappresentavano le circoscrizioni di Burmantofts e Richmond Hill abitavano nei verdeggianti lontani suburbi.

Nel 1981 ai tempi delle rivolte nei quartieri di Brixton, Bristol e altri luoghi, la più incisiva analisi delle motivazioni fu pubblicata dall ’Economist. L’articolo era di Nick Harmon, residente a Brixton,e sottolineava come le aree delle rivolte avessero avuto le quote maggiori di investimenti pubblici in servizi vari rispetto al resto del paese. Era invece mancata una leadership locale. Ovvero chi poteva andarsene lo faceva di corsa. Letteralmente:

Uno degli aspetti comuni fra le zone delle rivolte è che tutte hanno sofferto per decenni l’assenza totale della politica e della cultura, sparite insieme alle persone più preparate dei quartieri. Le amministrazioni locali hanno usato le risorse del governo centrale per comprarsi gli spazi, a volte anche con l’esproprio, di chiunque avesse interessi economici nelle zone – proprietari di case, gestori di negozi, affittuari, piccoli imprenditori – e tutto andava ad alimentare i grandi progetti di trasformazione urbana. Sono queste persone ad essere le prime a cui vengono offerti dei soldi, e trattamenti di favore per un nuovo alloggio, se escono da un’area, magari proprio perché sono i cittadini più indipendenti e mobili. Con l’effetto di spezzare legami sociali ed economici che tengono unita la comunità, e fungono anche da strumenti di autocontrollo”.

Le scelte attuali confermano quel genere di impostazione. L’immagine proposta è che successo corrisponde a trasferimento, anziché partecipare attivamente a cambiare. Finché le nostre politiche non saranno concepite per aiutare e sostenere lo sviluppo di quartieri diversificati, solidi, inclusivi, la mobilità sociale sarà una contraddizione. Lo si può fare attraverso scelte economiche, per la casa, l’istruzione, l’urbanistica, in grado di sostenere i potenziali leaders a restare. La nostra società ha bisogno di consapevolezza, oltre che di mobilità.

Michael Meadowcroftè stato amministratore a Leeds e parlamentare liberale negli anni ’80.

Titolo originale: Detroit: From Urban Blight to Tech Might – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

La tecnologia per rispondere al degrado urbano?

A Detroit di sicuro ci credono imprenditori, amministratori, cittadini.

Sono ben noti, i problemi della città. Il declino dell’industria automobilistica e la fuga di cervelli ha fatto di Detroit uno dei simboli più solidi della Grande Recessione.

Nel luglio 2009, la disoccupazione ha raggiunto il 18%.

E oggi?

Siamo ancora a un bel 10,5%, però si migliora, e c’è un motive per questa tendenza positiva: i posti di lavoro nel settore tecnologie.

“L’energia della città, le cose che succedono, gli spazi che si riempiono, sembra che non siamo più in bilico, forse siamo già oltre” commenta il trentottenne Scott Aberle, che è venuto da San Francisco, dalla Silicon Valley, qui a Detroit per lavorare da Quicken Loans. “Siamo davvero nel mezzo di un Rinascimento”.

Avete capito giusto: ha detto Rinascimento.

Magari la mette un po’ giù pesante … o magari no.

A Detroit però ci è nato il presidente di Quick Loans, Dan Gilbert, e sta comprando più o meno tutti gli edifici commerciali abbastanza in ordine che riesce a trovare. Quando non lavora a risistemarli, Gilbert sfrutta l’altra sua compagnia di investimento, la Detroit Venture Partners, per seminare quello che sta diventando un mini-boom di nuove imprese tecnologiche.

“Le tecnologie creano valore e ricchezza molto rapidamente” spiega Gilbert. “Con l’industria, ci vogliono cinque-sette anni dall’idea alla costruzione dell’impianto. Nel settore tecnologico l’arco di tempo è ridotto e ridotto anche l’investimento di capitale”.

Ad esempio, la stessa compagnia, in sigla DVP, poco tempo fa a ha rilevato un vecchio edificio di uffici teatrali risistemato come incubatore di nuove attività. Battezzato
“M@dison”, cosa curiosa un po’ con quel nome ha funzionato visto che Twitter si è affittata un pochino di spazi.

Un edificio particolare anche al di là del nome. C’è anche la sede di chi ha investito i capitali, insieme alle altre imprese su cui si è investito. Spazio aperto, con grandi travi industriali sopra a tutto. Pareti di cartongesso, e dappertutto idee di nuove applicazioni per cellulari, appiccicate coi post-it o sui vetri delle finestre.

Una delle imprese è “ UpTo”. Nato nel Michigan, Greg Schwartz si è trasferito da New York a Detroit solo l’anno scorso. Sta già sull’iPhone e arriverà poi su Android e iPad. Schwartz considera UpTo il passo successivo nel percorso tracciato da Facebook-Twitter. Un social media app che consente a certe persone di comunicare con certe altre a costruire insieme ciò che sta OLTRE. Se si vuole aggiornarsi su un amico della stessa rete, basta verificare i suoi programmi, e vedere se magari c’è tempo per prendersi un caffè insieme tra una riunione e l’altra.

Si propone come la cornice della nuova era di comunicazione: Facebookracconta il passato, Twittersi occupa del presente, UpTo gestisce il FUTURO.

Un’ottima metafora se si parla di questa città, visto che Schwartz e i suoi pochi colleghi puntano proprio al futuro di Detroit.

“Solo dopo che ci siamo trasferiti qui a Detroit ho capito che si tratta di qualcosa non assolutamente esagerato” commenta Schwartz. “Si tratta di energia imprenditariale. Aprono nuovi ristoranti ogni giorno. Fuori dal guscio dell’ufficio basta spostarsi pochissimo per vedere la straordinaria quantità di cose innovative che accadono qui”.

Naturalmente non sono tutte solo rose e fiori.

Certo, in centro esiste molta più energia di quanta non ce ne fosse quattro anni fa. Ma l’area di Detroit in genere resta in gran parte in pessimo stato, la città deve ancora scoprire un modo per raddrizzarsi e tornare a prosperare nel suo insieme.

Per capire meglio, Detroit sei anni fa aveva due milioni di abitanti. Oggi sono circa 700.000.

Ma anche questi aspetti sembrano avere un lato positivo per chi lavora al
M@dison.

“Credo che Detroit possa essere letta come una specie di tabula rasa” commenta Dan Ward, co-fondatore di Detroit Labs, che pure sviluppa nuove applicazioni e finanziariamente sostenuta … da DVP. “Anche una persona individualmente può avere effetti sulla ricostruzione della città, collaborare in positivo a un risultato finale”. Che secondo Dan Gilbert potrebbe chiamarsi “ Detroit 2.0”.

Magari dalla Silicon Valley possono non essere così entusiasti del nuovo high-tech, ma a Gilbert non pare importar molto.

“Ci hanno chiamato da Filadelfia, New York, Chicago, dalla California. Vogliono partecipare a quello che succede qui a Detroit”.

Non c’è Kool Aid da bere a sufficienza per tutti, e quindi c’è qualcosa di vero. Anche se solo il tempo ci dirà se basta a reinventare l’ex città industriale dominante. “Questo edificio si presenta da solo” commenta Dan Ward di Detroit Labs. “La città di Detroit si presenta da sola”.

È comunque una cosa che non avremmo sicuramente sentito dire pochi anni fa da un ventottenne della tecnologica Generazione Y.

La privatizzazione della città è un fenomeno con molte sfaccettature, diffuso in tutto il mondo. A proposito dell’aumento del cemento e del traffico nell’hinterland romano, dove migliaia di cittadini si sono spostati negli ultimi anni a causa del prezzo delle case,Paolo Berdini su «Comune» scrive: «Al danno di essere stati costretti a trasferirsi lontano dalla capitale si aggiunge dunque anche la beffa di vedere aggravate le proprie condizioni di vita … Questo sconvolgente risultato è stato causato dalla cancellazione di qualsiasi regola: ci hanno raccontato che lasciando mano libera all’iniziativa privata tutto sarebbe stato risolto. Era vero il contrario e oggi scopriamo il terribile imbroglio. Dobbiamo invertire la rotta e investire risorse economiche nelle città e nei sistemi di trasporto collettivi. Soltanto con la mano pubblica si creano migliori condizioni di vita e di uguaglianza tra i cittadini».

Anche a Rosario, città argentina di un milione e mezzo di abitanti, la privatizzazione della città è palese e fino a pochi giorni fa era legale. Poi è accaduto qualcosa che in molti altri luoghi appare impensabile: il consiglio comunale ha approvato all’unanimità la legge contro la privatizzazione della città, dei suoi spazi e dei suoi servizi. Una legge che ha alle spalle un lungo e complesso percorso promosso da movimenti sociali, come Giros. Quelli di Giros appartengono alla generazione nata negli anni ’70, quando la dittatura militare argentina, cosi come in Cile, Uruguay e Brasile, è stata la porta d’ingresso per una selvaggia privatizzazione dei servizi pubblici. La normativa per la privatizzazione delle terre con la finalità di creare «barrios privados» (quartieri chiusi), nasce proprio nel ’76. Ci sono voluti più di trent’anni per superare le profonde e diverse ferite della dittatura, ed è forse per questo che il lavoro di un movimento come Giros ha un carico particolare di «giustizia storica sociale».

Nel discorso dei consiglieri comunali di Rosario, durante la seduta che ha approvata la legge contro la privatizzazione della città, c’era un chiaro messaggio di ringraziamento ai giovani che hanno saputo riportare in primo piano i temi dell’«uguaglianza» e quello del «diritto alla città», ricostruendo un ponte importante di memoria con la generazione precedente.

Dal punto di vista urbanistico, i «barrios privados» sono veri e propri ostacoli alla costruzione di una città aperta, accessibile, e connessa tra le sue parti. Se si considera che intere porzioni della città sono chiuse e recintate, è evidente l’enorme disagio pratico per chi gli spostamenti in queste aree. Diagio che riguarda non solo per i mezzi privati, ma soprattutto le ambulanze e i mezzi pubblici. La città si riempie di «buchi», di aree fantasma: in uno dei quartieri privati più grandi, la concessione di terre arrivava a cento ettari, e nel piano dei costruttori i diversi quartieri privati venivano collegati da ponti e strade. In questi quartieri, inoltre, sono stati costruti servizi come asili nido e campi sportivi che hanno favorito la riduzione della comunicazione degli abitanti con quelli dei quartieri circondanti, portando anche a un impoverimento delle micro-economie locali. Dal punto di vista sociale, il fenomeno della segregazione fisica è stato molto studiato, e si è arrivati alla conclusione che la divisione in quatieri chiusi e la privatizzazione della città creano favoriscono l’immobilità degli status sociali: i pari vivono tra loro e si difendono, trincerandosi dentro quelle cittadelle fortificate dall’esterno e dall’interno.

Il movimento Giros in questi anni ha denunciato tutto questo, ma ha anche dimostrato che la pianificazione urbanistica era economicamente insostenibile, segnalando come questi quartieri sono un vero spreco di risorse pubbliche: da una parte, si mangiano la poca terra disponibile per le urbanizzazioni della città, e da un’altra parte non portano alla città beni e servizi pubblici, nonostante abbiano goduto dell’urbanizzazione comunale. Questo trasferimento di fondi pubblici a interessi privati viene definito da Giros in questo modo: «Esiste un interesse di speculazione e di trasferimento di plusvalore pubblico a interessi privati, dalla rete delle fognature alle strade, passando per i mezzi pubblici di trasporto. Si calcola un passaggio di 32 milioni di dollari dal comune ai monopoli». A questo si aggiungono tutte le modifiche al piano regolatore, con il cambio di destinazione d’uso di terreni rurali a terreni urbani edificabili che rircoda quello di moda in molte altra città, ad esempio Roma.

Il dibattito pubblico che poco a poco Giros ha proposto alla città, facendolo entrare nel confronto diretto con i monopoli e con molte forze politiche, si può sintetizzare con queste domande: «Chi ha diritto alle terre urbane rimaste nella città di Rosario, i mega-progetti privati oppure le vere emergenze abitative e sociali della città?». Quello che colpisce di più di questa storia, è stato il risvegliarsi da una situazione paradossale in cui più del 80 per cento di quello che restava della città edificabile andava a soddisfare standard di vita dei benestanti, con altissimo consumo di suolo. E tutto questo nell’assoluto silenzio dei media e delle parti politiche. Nello stesso tempo, più di 40.000 nuclei familiari erano in emergenza abitativa, e altrettanti erano costretti a vivere in insediamenti semi-rurali su terre destinate alla privatizzazione e quindi allo sgombero senza alternative. La straordinaria campagna pacifica di informazione promossa da Giros contro la privatizzazione ha coinvolto vari pezzi della società civile, ma anche artisti, giornalisti, studenti di tutta la città. Rosario ha alle spalle già altre battaglie vinte per i beni comuni, basta ricordare i progetti di agricoltura urbana a grande scala durante la crisi del 2001, diventati oggi realtà consolidate di micro- reddito e di riconversione ecologica e sociale dell’occupazione per migliaia di cittadini, che hanno contribuito a mettere al centro il problema della sovranità alimentare dell’Argentina. Ma Rosario è stata anche una delle prime città a promuovere la partecipazione dal basso attraverso i bilanci partecipativi o i piani di comunità, oltre a essere piuttosto vivace nella lotta contro la privatizzazione dell’acqua.

E mentre i cittadini riscoprivano e reinventavano l’idea dei beni comuni, cresceva la consapevolezza nei movimenti (con un forte impegno del movimento studentesco universitario) che ogni settore della vita pubblica e privata nell’Argentina era gradualmente consegnato ai monopoli economici, e che la politica restava paralizzata o complice di questo processo. Poco a poco i movimenti sono passati dalla consapevolezza alla protesta e dalla protesta alla sperimentazione della «Città Futura», attrverso un percorso di costruzione partecipativo (sul modello diffuso in altre città latinoamericane) promosso soprattutto dal movimento Giros. La prima tappa di questo percorso di partecipazione è stata la condivisione di tutte le dettagliate informazioni raccolte sulla speculazione urbana e sulla situazione di emergenza abitaviva di migliaia di famiglie. Subito dopo, il movimento ha proposto un percorso per «sognare», ovvero un percorso partecipativo che parte dal «desiderio» dalla «ciudad de nuestros sueños» (la città dei nostri sogni) per arrivare alla «Città Futura» (a proposito di città inedite, suggeriamo la lettura diquesto articolo).

Con le proposte emerse, e grazie al sostegno degli studenti universitari il movimento Giros è stato in grado di fare una controproposta urbana articolata. Per ogni «barrio privado» è stata studiata una formula alternativa di città aperta, ricca di spazi pubblici di qualità e legata al resto del territorio. Qualche esempio: il «barrio privado» Palos verdes nel progetto originario prevede l’edificazioe di 40 ettari per 160 famiglie, con progetto di Giros prevede 40 ettari per 960 famiglie più spazio pubblico; «barrio privado» Nuevo Alberdi, 260 ettari per 1.000 famiglie, con il progetto di Giros, 260 ettari per 6.000 famiglie più spazi pubblici di qualità. Il movimento ha così dimostrato che è possibile ricavare da ogni «barrio privado» interi quartieri di edilizia popolare, in grado di accogliere in modo dignitoso più di diecimila famiglie che vivono in emergenza abitativa.

Chiaramente l’impatto simbolico di questa legge, segna un cambio di rotta storico perché la città dal basso, coinvolta dai giovani di Giros, grida «Ya basta» («Adesso basta»), e chiede non solo una redistribuzione di terre per l’emergenza casa, ma di avere voce in capitolo contro le prepotenze dei poteri forti in molti altri ambiti. I percorsi avviati dai movimenti di Rosario sono piuttosto chiari: dalla terra come merce alla terra come bene comune inalienabile, dal mercato dei monopoli al diritto all’abitare, dai latifondi speculativi alla democratizzazione della terra con finalità produttive, dai centralismi tecnocratici alla pianificazione partecipativa.



Su questi temi viene promosso l’incontro sulla difesa del «Diritto alla Città. Argentina/Rosario contro le “Gated communities”. Quando le strategie di resistenza della società civile diventano Legge comunale».

Lunedì 28 Maggio ore 17,30 presso il dipartimento di Studi Urbani – Aula Ponzio – via Madonna dei Monti 40, Roma

Moderatrice, Adriana Goni Mazzitelli, Laboratorio di Arte Civica, Università Roma Tre.

ore 17.30 Saluti e Introduzione

Marco Cremaschi- DipSU –Roma Tre

ore 17:40 Il contributo del CISP all’articolazione tra movimenti, università e istituzioni locali per uno sviluppo urbano inclusivo

Claudia Gatti – CISP-Sviluppo dei Popoli

ore 18: Dalla proibizione normativa dei quartieri privati alla costruzione della “Città Futura”

L’esperienza del Movimento GIROS nella città di Rosario (Argentina)

Tomás Monteverde- Movimiento GIROS

(http://www.girosrosario.org/ – girosrosario [at] gmail [dot] com)

ore 19 Dibattito, Scambio con i movimenti di lotta per il diritto alla Città in Italia e a Roma, introduce, Sofia Sebastianelli, DipSU Roma Tre.

Serena Tarabini Roma in ACTION, Irene Di Noto, Blocchi Precari Metropolitani, Roberto Suarez, Porto Fluviale-Coordinamento cittadino di lotta per la casa, Francesco Careri DipSU Roma Tre.

La città di Vallejo, in California, è troppo lontana da Hollywood per potersi permettere un happy ending, ma in quel fazzoletto della Bay Area caduto in depressione nel 2008 qualcosa è successo. Qualcosa di intimamente americano. Vallejo è stata la prima città degli Stati Uniti a dichiarare la bancarotta; lo ha fatto nel maggio del 2008, quando la crisi globale non era ancora scoppiata ma la California già manifestava sintomi di un malessere che non sarebbe passato in una notte. La città, un porto industriale con 120 mila abitanti, rappresentava lo standard negativo della gestione municipale. Lo stipendio del city manager era superiore a quello di un giudice della Corte suprema, il capo della polizia aveva un salario da 200 mila dollari l’anno e gli stipendi degli amministratori cittadini erano modellati su standard di quel genere, tanto che a fine anno l’80 per cento del budget municipale veniva usato per coprire gli emolumenti della pubblica amministrazione.

Non poteva durare, e infatti Vallejo è collassata nel modo più doloroso, sopraffatta dai debiti e incapace di far fronte alle spese ordinarie. Molti abitanti hanno abbandonato la nave che affondava e negli ultimi anni si è parlato di Vallejo soltanto per la migrazione di prostitute, ultima resistenza della logica di mercato, e per il tasso di criminalità in spaventoso aumento. Quella che una volta era stata una cittadina laboriosa plasmata dalle braccia della working class si è trasformata in una suburra senza legge.

I cronisti del Washington Post però sono tornati a Vallejo per documentare un’inversione della tendenza degradante, una spinta nata dal basso che sta alleviando le pene che l’amministrazione cittadina aveva iniziato ad affrontare quando ormai i problemi erano insolubili. Da tragedia ineluttabile mandata come contrappasso per le colpe di una classe dirigente irresponsabile, la bancarotta si è trasformata nell’occasione per una rinascita. I consiglieri comunali Marti Brown e Stephanie Gomes si sono guardati intorno alla ricerca di modelli di città “rinate” da imitare e hanno importato le ricette giuste per fronteggiare la crisi. Hanno installato telecamere in tutta la città per aumentare la sicurezza contenendo i costi e hanno coinvolto la popolazione per aiutare volontariamente il lavoro della polizia.

Un sistema basato sui social network permette di condividere in modo capillare le segnalazioni criminali, e nello spirito della collaborazione per tenere in piedi la città, gli “watch group” di quartiere – le ronde, per intenderci – sono passate da 15 a 350. Gli abitanti della città si sono kennedianamente chiesti cosa avrebbero potuto fare loro per la città non viceversa, e hanno agito di conseguenza. Il consiglio della città ha disposto il taglio dei salari della pubblica amministrazione, ma non ha toccato le pensioni e altri benefit per non dare agli abitanti un ulteriore incentivo a lasciare la città.

La tassa sui beni di consumo è stata aumentata di un centesimo, e in cambio l’amministrazione comunale ha disposto che siano i cittadini a decidere come spendere i nove milioni di dollari raccolti. Brown dice che la rinascita di Vallejo “è una cosa che non avremmo voluto affrontare, ma si sta trasfromando in un’esperienza positiva”. E in questa frase è incastonato lo spirito americano, un valore non monetizzabile che finisce per generare modelli funzionanti, nel settore privato come in quello pubblico. Vallejo è un esperimento geograficamente ed economicamente limitato al quale non si può chiedere di ispirare la salvezza americana, ma è l’incarnazione di una pragmatica positività che si esprime fattivamente soltanto oltreoceano.

Saranno le città autogestite come Vallejo a trainare il “nuovo secolo americano” di cui Obama – riprendendo Reagan, i neoconservatori e rubando la citazione a Mitt Romney – ha parlato ai militari di stanza in un’altra città “rinata”, Colorado Springs? Forse non direttamente. Ma le parole del presidente e gli anonimi cittadini di Vallejo che ridipingono le cancellate arrugginite e puliscono i parchi pubblici pescano dal comune bacino dell’ottimismo americano, fonte inesauribile di azione e antidoto contro le tentazioni sterili delle lamentele.

Gli abitanti di Vallejo non possono guardare lo stato alla ricerca di soluzioni, semplicemente perché lo stato, in questo caso, è parte del problema, non la soluzione, sempre per volare in quota Reagan. Allo stesso modo, il presidente democratico e pragmatico Obama non può fare a meno di rispondere ai venti di crisi rilanciando un’idea eccezionalista che prima di essere progressista o conservatrice è intimamente americana. Il presidente aveva già mostrato la sua posizione antideclinista quando aveva fatto sapere, con strategico tempismo, di avere molto apprezzato il libro “The World America Made” dello storico neocon Bob Kagan, sontuoso debunking della mitologia declinista che si è impossessata degli americani.

A Colorado Springs ha mandato in onda il sequel. Per capire che la possessione declinista è soltanto uno sbandamento, un’ubriacatura, non la norma del pensiero americano, si può andare ad assistere alla rinascita civile di Vallejo, oppure, con più agio, si può compulsare l’ultimo volume di Daniel Gross “Better, Stronger, Faster: The Myth of American Decline… and the Rise of a New Economy” e rendersi conto che la rinascita, del rimbalzo, le maniche rimboccate, la responsabilità personale, la reazione alle avversità sono concetti che vengono prima di qualsiasi distinzione ideologica. L’America che mostra la maglia di Superman sulla copertina di Newsweek è un’immagine potente, e anche quella è un sequel dell’“America is back” con cui il settimanale ha scandalizzato il coro delle cassandre nel 2010. Fra Washington e Vallejo qualcosa succede. Qualcosa.

Titolo originale: Augmented reality adds a new dimension to planning decisions – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Sull’urbanistica si scatenano le più accese discussioni pubbliche. Gli abitanti spesso non capiscono esattamente che tipo di trasformazione viene proposto, o quale effetto possa avere sull’area circostante una volta portato a termine. Iniziano a operare le ruspe, la trasformazione prende forma, e qualcuno lamenta che quella cosa non assomiglia affatto alle rappresentazioni artistiche viste. Si era magari pensato a un edificio di dimensioni medie, che adesso improvvisamente si trasforma in un incombente struttura commerciale che sbarra la vista dalla finestra della camera. Spesso alla radice del problema c’è il mancato coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni di trasformazione, e a volte si tratta di qualcosa di non intenzionale. E se tutti coloro che sono interessati a un progetto lo potessero verificare su un perfetto modello virtuale, direttamente sul telefonino o sul tablet? Un modello inserito nel contesto, verificabile da tutte le angolazioni? È quanto promette la nuova generazione di strumenti per l’urbanistica a “realtà aumentata” [ è la traduzione italiana di augmented reality proposta anche da Wikipedia, e mi adeguo, aggiungendoci rigorosamente le virgolette, anche se mi pare orrenda, e pure un po’ fuorviante n.d.t.].

Sommando informazioni digitali e mondo reale, il software per “realtà aumentata” costruisce un accurato contesto in cui si compongono area e progetto. Invece di doversi aggirare fra le complesse terminologie tecniche di un elaborato, o essere obbligati a formarsi un’opinione sulla base di schizzi artistici o modelli in scala, diventa possibile una specie di visita diretta al luogo della trasformazione, e con un clic si ottiene immediatamente una serie di impressioni sull’aspetto finale dell’edificato inserito nello spazio. Imprese e università stanno sperimentando la tecnologia. C’è un progetto europeo denominato Arturo concluso nel 2004, che consentiva a architetti e committenti di discutere progetti prima della realizzazione. Avveniva in base a modelli generati dal computer in “realtà aumentata”, su schermi che consentivano una lettura virtuale a tre dimensioni, modificando in tempo reale punti di vista e proporzioni. Un altro prototipo si chiama Urban Sketches e utilizza un’interfaccia a “realtà mista”. Consentendo alle parti interessate a una trasformazione di sfruttare contemporaneamente filmati dello spazio di trasformazione e strumenti di disegno. Con le nuove applicazioni per smartphone, gli strumenti urbanistici di “realtà aumentata” potranno andare oltre l’uso di macchine di lettura particolari.

Strumenti in corso di verifica

Il Centro di Ricerche Tecnologiche VTT in Finlandia è uno dei pionieri nell’uso di “realtà aumentata” su dispositivi mobili con fini urbanistici. Le sue applicazioni sono state sperimentate per il progetto della Torre Kämp nella zona di Jätkäsaari a Helsinki, e di un albergo nell’area industriale di Billnäs. “Abbiamo mostrato i progetti ai consiglieri comunali che dovevano decidere” spiega Charles Woodward, responsabile di ricerca per la “realtà aumentata” al VTT. “Quindi è un criterio di giudizio aggiunto”. Più piccola la trasformazione, più facile risulta inserire e comporre tutti i dati sullo spazio, spiega il professor Eckart Lange, direttore del Department of Landscape all’Università di Sheffield, che ha lavorato a visualizzazioni tridimensionali per oltre vent’anni. “Aiuta l’uso di semplice geometria”. Possono costituire un problema di software gli ostacoli visivi. “Ad esempio se ci sono alberi a nascondere in tutto o in parte la trasformazione da alcune angolazioni”.

Lange spera che le applicazioni di “realtà aumentata” per dispositivi mobili migliorino la partecipazione del pubblico alle trasformazioni urbanistiche. “Così potranno partecipare davvero alle decisioni facendo pesare la propria opinione, anche usando direttamente i medesimi strumenti per esprimerla”. La stessa idea su cui sta lavorando VTT, una nuova versione del software con cui i cittadini possano esprimere un voto. In teoria si potrebbe eliminare così l’obbligo di partecipare direttamente alle assemblee, per far pesare la propria opinione.

Le tecnologie non si limitano all’aspetto esterno delle trasformazioni. È possibile verificare su apparecchiature mobile anche finiture e decorazioni interne, o impianti. La VTT ha inserito anche la possibilità di “vedere in trasparenza” e guardare la posizione di un tubo o sistema di aerazione dietro una parete o pannello. Ciò consentirebbe ai costruttori – e ovviamente anche a tutti coloro che sono coinvolti in una manutenzione – di comparare gli interventi con lavori eseguiti in precedenza. “Si tratta di nuovi territori per quanto riguarda le possibilità d’uso nelle situazioni reali” commenta Lange. È comunque convinto di un enorme potenziale per questi strumenti: “Possono cambiare il modo in cui si decide”.

Le tecnologie di “realtà aumentata” possono anche essere incorporate direttamente negli edifici, come ha dimostrato nella sua tesi di laurea, Mediating Mediums, lo specializzando della Harvard Graduate School of Design Greg Tran. Che parla di “ibridazione” fra ambiente costruito e mondo digitale: concetto che si capisce meglio guardando uno dei suoi video. Una visione ancora puramente ipotetica. La “realtà aumentata” su dispositivi mobili è un settore in piena evoluzione nel campo urbanistico-edilizio, e sono destinate ad emergere altre funzioni anche più commerciali. Appare chiaro comunque che i progetti saranno molto più verificabili per tutti.

postilla

Il problema è il solito. Il sistema può aiutare a comprendere gli interventi alla piccola scala (l’edificio o il complesso edilizio, il villaggio, il quartiere) ma non quelli a scala superiore, urbana, territoriale ecc.

(dalla versione originale dell'articolo diversi links a siti di ricerca)

Non ci sono scuse: se proprio non potete farne a meno, provate se non altro a variare la ricetta, ci sono parecchi metodi di solito. La cosa da evitare assolutamente, è proprio quell’inevitabile corollario della vita, l’ingresso nell’abitacolo dell’auto la mattina, il percorso sul vialetto o la rampa o dal parcheggio, poi gli incroci, magari la superstrada, e poi la piazzola o il posto riservato all’altra estremità, una mezzoretta più tardi. Chi non lo evita dovrebbe iniziare presto ad avvertire i primi sintomi, inequivocabili. Quel leggero tirare dei jeans (sarà il caldo?), il fiato un po’ pesante dopo quattro gradini (è di sicuro il caldo!), il medico che vi ha trovato la pressione piuttosto alta, spiegandovi che il caldo non c’entra nulla, visto che è gennaio. C’è solo un caso in cui questo genere di pendolarismo trova una adeguata compensazione, ovvero quello improbabile in cui appena scesi dalla macchina si inizi una bella attività fisica, perché di mestiere si fa il collaudatore di biciclette, l’istruttore di nuoto, il cacciatore di orsi a mani nude. Di solito però la gente appena scesa dall’auto si infila in un ascensore, e poi dentro una poltroncina. Lì iniziano ad accumularsi i guai.

Spesso si parla di vita sedentaria, di mancato esercizio fisico, consumo di calorie, pensando alla figura della classica patata da divano, televisore acceso e spuntino a portata di mano. E ognuno cerca di non identificarcisi proprio, in quell’immagine. Il gruppo di ricerca scientifica interuniversitario che ha lavorato a questo progetto parte però da un presupposto parallelo, e si pone preliminarmente una domanda del tutto lecita: per qualificare uno stile di vita come sedentario sono proprio indispensabili le ciabatte, la merendina scartocciata, i telefilm o le partite a ciclo continuo? La risposta può darla chiunque, ed è certamente NO. Sedentario significa letteralmente stare seduti, e non c’è nulla al mondo di più seduto della postura da guidatore d’automobile. Magari certa retorica delle avanguardie storiche sui bolidi sfreccianti ci può ancora prendere in giro dopo un secolo e passa, ma che piaccia o meno non c’è tanta differenza fra il “muoversi” stando dentro un abitacolo, e lo stare stravaccati sul divano. I ricercatori quindi hanno provato a verificare sistematicamente una tesi: esiste un rapporto diretto fra il tempo trascorso al volante per andare al lavoro, e la massa corporea, la pressione arteriosa, insomma tutti i rovesci della medaglia sedentaria?

La risposta è, desolantemente, SI. Il campione seguito è di oltre quattromila persone, di ogni fascia di età, secondo spostamenti casa-lavoro precisamente verificabili (non tramite interviste, insomma), Si è tenuto conto nella valutazione anche di alcune co-variabili in grado di influenzare lo stato di salute complessiva dei partecipanti all’esperimento: fumo, consumo di alcol, patologie di tipo ereditario ecc. Al netto, però, emerge e si conferma un rapporto diretto fra quei jeans che iniziano a tirare in vita e la quantità di ore passate al volante, a “muoversi” da una piazzola di sosta all’altra. In conclusione, per citare le parole esatte del gruppo di ricerca, lo studio “fornisce nuove informazioni sulle dinamiche che conducono a un incremento di rischio per l’obesità, l’ipertensione, un generale peggiore stato di salute, così come osservato fra adulti che risiedono in contesti urbani dispersi”. Che fare? Magari aiuta cercarsi casa in contesti urbani un po’ meno dispersi, ma se non potete permettervelo (peccato, si conosce un sacco di gente nuova) provate almeno a fare due conti: come posso controbilanciare qualche ora al giorno seduto immobile in macchina? Ognuno se la trovi ovviamente da sé, la risposta. La ricerca, pubblicata sul numero di giugno dell’American Journal of Preventive Medicine, potete scaricarla direttamente da qui.

Titolo originale: Public health: bridging the cultural faultlines – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Con la riforma delle competenze delle amministrazioni locali britanniche la salute tornerà ad essere fra i compiti dei comuni, ed è una enorme occasione per orientarsi verso un’idea più “olistica” dello star bene: ma sono ancora troppi nel settore a ritenere che questo termine olistico sia solo una generalizzazione gergale e impropria. Per l’amministrazione, vuol dire in realtà non limitarsi a servizi specifici, come un sostegno a chi vuol smettere di fumare, ma pensare anche in termini di parchi, giardini, scuole, centri per i giovani, attività fisica, settore alimentare. In breve, tutto ciò in cui una amministrazione locale può intervenire.

Gestire la salute collettiva può essere qualcosa di spaventosamente difficile. Bisogna partire dall’affrontare questioni poco conosciute, come tutto quanto si lega all’obesità, una sana vita sessuale, il problema del bere, e poi c’è il timore di confrontarsi con quella che è la cultura dominante dei medici. Ci fidiamo tutti quanti del nostro dottore (almeno, secondo i più recenti sondaggi, l’88% si fida), e quindi perché mai un amministratore dovrebbe mettersi a discutere quel loro specifico punto di vista sulla salute? E invece è un problema molto reale quello di superare la distanza fra due culture che determina il nostro modo di pensare alla salute, dal considerare la persona in quanto paziente o invece cittadino. Per dirla come mi spiegava un collega: “Il servizio sanitario nazionale cura le persone, noi siamo al loro servizio". Davanti a un dilemma del genere, la cosa più facile sarebbe che un comune assumesse una funzione di erogatore di servizi sanitari decisi da medici e dai loro organismi: parrebbe tutto risolto.

Ma non è certo l’unico metodo. Le amministrazioni hanno già oggi a disposizione molti strumenti diretti e indiretti per intervenire sulla salute, si tratta soltanto di farli crescere e adeguarli. Ad esempio urbanistica e politiche urbane. Si tratta di una delle competenze centrali di un governo locale, qualcosa che fanno tutti, e ha un rapporto immediato con la salute collettiva. Solo che sinora quegli aspetti di solito non sono stati sufficientemente considerati, tanti uffici tecnici e di programmazione sono del tutto estranei alle riflessioni di comitati ed enti di settore. Mentre invece il rapporto diretto tra forma urbana e salute è stato esplicitamente riconosciuto in sede ufficiale quando si tratta di diseguaglianze, come testimoniano i rapporti ufficiali. Ed è stata anche esplicitamente raccomandata una correlazione diretta proprio fra programmazione del territorio e dell’intervento sanitario. Attuarla potrebbe anche far risparmiare risorse.

Ad esempio per affrontare l’obesità, certo esiste l’aspetto sperimentato delle campagne di informazione, dei servizi territoriali sull’alimentazione e le diete, ma esistono anche chiare indicazioni del rapporto diretto fra diffusione dei fast food in un’area e tassi di obesità fra la popolazione. Qui gli uffici comunali possono intervenire molto direttamente, sviluppando programmi contro l’obesità che partono da strategie contro l’eccessiva concentrazione di questo genere di esercizi. Certo si tratta solo di uno degli aspetti. Ma occorre iniziare a fare dei collegamenti, fra settori di intervento noti, e questi aspetti relativamente nuovi riguardanti la salute, un’amministrazione non solo deve dimostrarsi in grado di svolgere una funzione delegata, ma anche di costruire nuove culture più integrate.

Titolo originale: Free food, caring and sharing: a new spirit of community is being created in the Yorkshire hills – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

C’è un particolarissimo cartello fuori da un molto ben tenuto orto del West Yorkshire: " Prego Servitevi". Nella medesima cittadina quest’estate si potrà anche approfittare del granturco piantato attorno alla stazione della polizia. Il compost e gli innaffiatoi sequestrati nelle irruzioni alle piantagioni illegali di droghe servono per gli orti locali. Con l’autunno poi andando da dottore si potrà anche raccogliere gratis della frutta, visto che si è trasformato in frutteto lo spazio attorno all’ambulatorio. Qualche famiglia che ha avuto un lutto e vorrebbe mettere dei fiori al cimitero, magari potrebbe anche pensare in modo più ampio e produttivo: un parco delle rimembranze a broccoli? E i pendolari dalle aiuole e fioriere appena fuori dalla stazione raccolgono ciuffi di erbe aromatiche. Il tutto mantenuto sgombro da erbacce grazie all’esercito di abitanti del posto, volontari domenicali per un’oretta circa.

Sono 40 i volontari apicoltori che hanno appena finito il corso di formazione, e fra poco ci sarà miele per tutti. Chiunque abbia voglia di iniziare un proprio orticello può attingere dal deposito comune di attrezzi all’orto centrale. Nel villaggio accanto si è fatto pure di più. Gli abitanti stanno cercando di rilevare il pub dopo aver già rilevato il cinema, il teatro e addirittura la sala comunale. In questo angolo delle umide colline del Yorkshire, la popolazione di Hebden Bridge e Todmorden è l’avanguardia di una tendenza che prende piede in tutto il paese, disilluso dalla cultura di impresa, del governo, dei tagli. Niente hippies o New Age, solo gente comune, vecchi e giovani, dalle grandi ville come dalle case popolari.

La si potrebbe definire una rivoluzione del condividere. "Chiamiamolo pure community empowerment, o impresa sociale, o cooperazione, i termini sono diversi, ma la cosa sta comunque diventando enorme" commenta Mike Perry della Plunkett Foundation, struttura nazionale vitalissima che sostiene iniziative del genere. "Non credo che abbia a che vedere solo con la recessione economica; è la gente che inizia a riflettere su cosa è davvero importante. Si comincia con ciò che si mangia, poi magari rilevando un negozio che stava per chiudere. O si innesca sul collegamento a banda larga, o sulle energie rinnovabili, le infrastrutture della comunità. Siamo all’inizio di un movimento molto significativo". In tutto il paese esistono 9 pub gestiti dalla collettività e 300 esercizi, quantità destinate a crescere moltissimo perché se ne è dimostrata la straordinaria resistenza in un momento difficile, ma anche perché le persone reagiscono decisamente quando chiudere significherebbe influire pesantemente sulla propria qualità della vita. Magari non si creano molti posti di lavoro, ma si rafforza la comunità, si fa circolare localmente denaro.

Non succede solo nelle zone di campagna; sono parecchie le iniziative via web in cui ci si scambiano cose o si regalano nella medesima area. Depositi di attrezzi, bike sharing, sono sempre più diffusi. A Londra, Streetbank.com aiuta a organizzarsi per scambiare cose, dal tosaerba ai DVD, entro un raggio di un paio di chilometri. Nei primi mesi hanno aderito in 3.000. La catena di distribuzione fai da te B&Q ha un programma pilota di scambio attrezzi a Reading, contro i danni ambientali di milioni di macchine comprate e usate al massimo un paio di volte. Mary Clear, quella che ha messo il cartello " Prego Servitevi" a Todmorden, è travolta dal successo del suo programma Incredible Edible, organizzato insieme all’amica Pam Warhurst dopo la crisi del credito. Imitata presto in altre trenta cittadine. “Una reazione al vuoto di iniziative nazionali” spiega. "Volevamo far qualcosa che incidesse sui comportamenti, a unire la gente. Mangiamo tutti, ma il cibo è anche un simbolo di ingiustizia sociale, così abbiamo cominciato col guerrilla gardening”.

La signora è nonna di dieci nipoti ma ancora molto energica, una vita frugale da prepensionata per tagli agli enti pubblici. “Non abbiamo né uffici, né collaboratori, né soldi. Non ho nulla contro supermercati o banche; ma ho molto a favore della bontà e della giustizia sociale. Volevamo rivolgerci a chi non può permettersi di leggere quei libroni patinati tipo Raccogliamoci da Soli le Insalate o simili. “Io e Pam siamo signore di una certa età, non certo gente da assalto, ma qui si tratta solo di non aver paura di farsi avanti”. A luglio, a Hebden Bridge si terrà il convegno Ambitious Communities per comunicare esattamente questo tipo di messaggio. Gli intervenuti potranno sperimentare di persona l’ultimo grido di inziativa comunitaria Britannica: il campeggio sul retro della casa di Richard Holborow. Che insieme alla moglie si è iscritto all’elenco di Hebden Bridge aderente a campinmygarden.com sito web in rapida crescita, gente ben lieta di ospitare tende di sconosciuti nel giardino, sia che vogliano evitare di farsi pelare da un albergo coi prezzi gonfiati dalle Olimpiadi di Londra, sia che vogliano solo viaggiare spendendo poco.

La Hebden Bridge Community Association, oltre 500 iscritti su una popolazione totale di 5.000, sa benissimo che Hebden Bridge non è proprio la cittadina media britannica, e che non tutto quanto succede qui si può replicare immediatamente altrove. C’è una lunga storia di impegno, sin dalle cooperative e dal movimento ottocentesco dei Cartisti. Dopo la chiusura delle fabbriche c’è stato l’arrivo di molti artisti e scrittori, e dopo gli anni ’70 una vera e propria colonizzazione a ondate successive di varie tribù, intellettuali non ricchi, hippies, ecologisti radicali. C’è una colonia lesbica che in percentuale sulla popolazione è la più grande di tutto il paese. Le vie del centro pullulano di esercizi indipendenti, ma nessun segno della solita grande distribuzione. Ma ultimamente l’arrivo dall’esterno di gente più agiata in fuga ha fatto impennare i prezzi delle case, qualcuno comincia a pensare che forse un supermercato a prezzi contenuti andrebbe meglio dei negozi biologici, quindi meglio impegnarsi per far entrare nei gruppi gente di tutte le estrazioni sociali, spiega il responsabile dell’associazione Andrew Bibby, che fra poco dovrebbe riaprire la sala comunale a gestione comune, come luogo di riunione, servizi, piccoli esercizi.

“L’amministrazione locale fatica a trovare risorse, dobbiamo farci carico noi. E siamo fortunati ad avere qui tante competenze”. Hebden Bridge non è certo un posto senza problemi, ci sono disoccupazione giovanile, droghe, non è l’Utopia. “Poi c’è la questione del rispondere alla collettività: un problema che non si pone con le istituzioni democraticamente elette che gestiscono servizi. Qualcosa su cui dobbiamo ancora riflettere. Non si può aver sempre tutto deciso da persone che si nominano da sole”. Però risultati concreti ce ne sono. Amy Leader, 35 anni, tornata a casa tre anni fa dopo aver lavorato a lungo a Londra, è una delle tre nuove assunte dalla Hebden Bridge Community Association. Presiede anche la sezione locale del Women's Institute che ha fondato dopo aver scoperto che ci sono “donne straordinarie che non si conoscono tra loro. Quando sono tornata ho deciso di impegnarmi qui. E il resto è venuto da sé, straordinario. C’è tanta energia avvertibile in tutte le attività, che si tratti di un incontro abbastanza noioso di gestione, o in qualcosa di più creativo. C’è la sensazione profonda di una vera soddisfazione, una qualità di vita collettiva che significa qualità della vita di ognuno”.

Titolo originale: Tory borough plans to move homeless away from London – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Le persone senza fissa dimora rischiano di essere escluse dalla propria area verso case in affitto, anziché essere inserite nelle normali liste d’attesa locali, nei programmi di una delle circoscrizioni simbolo dei conservatori nella capitale,secondo un documento riservato che è arrivato alla nostra redazione.

Il consiglio di Hammersmith & Fulham settimana scorsa già parlava di discussioni in corso a proposito con le amministrazioni di Westminster e Kensington & Chelsea, per trasferire 500 famiglie che ricevono sussidi verso la regione delle Midlands: si precisa però che non si tratterebbe di un esodo di massa.

Le strategie di Hammersmith & Fulham hanno già chiarito quanto la condizione di senza casa ufficiale significhi disponibilità a ricollocarsi "potenzialmente fuori dalla circoscrizione ": una rottura rispetto all’abitudine passata di offrire una sistemazione locale temporanea in attesa delle abitazioni sociali. Scelta che si inserisce tra l’altro nelle politiche generali per la casa: ci sono 10.000 alloggi in corso di autorizzazione nell’area quest’anno, ma nessuno destinato a poveri a canone sociale, nonostante anche nel piano metropolitano di Boris Johnson esistano prescrizioni perché un quarto dei nuovi alloggi sia reso disponibile ai redditi più bassi. L’amministrazione ammette che così si “mette fine al collegamento automatico fra la iscrizione alle liste ufficiali di senza casa e le abitazioni a canone sociale”.

I tagli alla spesa sociali comportano di fatto la trasformazione del rivolo di senza tetto della capitale in una vera e propria alluvione. Secondo uno studio della Cambridge University for Shelter, nel 2011 era classificabile in qualche modo come economico e sussidiato il 40% dei quartieri di Hammersmith, lo sarà solo il 6% nel 2016. Il locale piano per la casa blocca l’assegnazione di alloggi pubblici secondo criteri di fabbisogno. Da ora in poi costituisce criterio di preferenza un “rapporto col territorio locale” da cinque anni, il lavoro o l’attività di volontariato. Si vogliono mettere in primo piano anche con le politiche della casa i “creatori di ricchezza” anziché i poveri. Si sostiene di averne già troppi, di poveri a canone sociale nella circoscrizione. L’amministrazione di Hammersmith, tenuta in notevole considerazione anche a Downing Street, spiega nella relazione che il 70% dei propri inquilini di abitazioni sociali è "disoccupato e dipende da sussidi ... [non] dà alcun contributo allo sviluppo economico”.

Le associazioni avvertono che con politiche del genere si avranno gravi effetti sulle fasce più vulnerabili. Duncan Shrubsole, direttore di Crisis, commenta: “Questo ci potrebbe portare a una specie di lotteria territoriale e alla fine di ammortizzatori nazionali per la casa che esistono dal dopoguerra”. Oggi l’amministrazione, con liste d’attesa per le abitazioni pubbliche di 10.000 famiglie, promuove case in affitto “economiche” destinate a redditi che si aggirano verso i 70.000 euro l’anno. Ciò significa ad esempio che dei 6.700 nuovi alloggi del progetto di Earl's Court dietro gli spazi espositivi [ uno dei maggiori piani di riqualificazione urbana europei n.d.t.] nessuno sarà accessibile a chi ha un salario minimo. Cosa anche peggiore, commentano i critici, negli spazi si stanno sostituendo i servizi essenziali con abitazioni di alto profilo. A Shepherd's Bush, i costruttori sono stati autorizzati a demolire un dormitorio e centro assistenza per farci una torre da 200 appartamenti di lusso e altro. Sono stati venduti al miglior offerente più di 300 alloggi pubblici, incassando oltre cento milioni di euro.

Scelte decisamente radicali che avvengono secondo i poteri conferiti nel 2011 dal Localism Act, che consente alle amministrazioni di decidere autonomamente chi ha diritto alle case pubbliche e in che termini. Nell’ovest londinese chi entra ora in un alloggio pubblico sa che gli è garantito per cinque, non più per sempre. Chi poi ha meno di 25 anni, e chi ha precedenti di “comportamento antisociale e criminale” lo vede ridotto a soli due anni. Andrew Slaughter, parlamentare Labour eletto nel collegio di Hammersmith, commenta: “Si sradicano le famiglie obbligandole a spostarsi anche per centinaia di chilometri, solo perché i Conservatori dicono di non potersi permettere altro. È la dimostrazione che si vuole distruggere il sistema delle case economiche per la gente comune, e non costruirne mai più”

Secondo l’amministrazione non sono state ancora prese decisioni definitive. Andrew Johnson, responsabile per la casa parlamentare per Hammersmith & Fulham, spiega: “La nostra priorità è di premiare le famiglia volenterose. Continueremo a dare la casa agli anziani e ai soggetti vulnerabili. Vogliamo aiutare a migliorarsi, non fare regali. Vogliamo incentivare gli abitanti a usare bene la loro vita. Le case pubbliche possono essere una straordinaria rete di protezione e contribuire a superare momenti di difficoltà: ma sono una spinta, non una meta. Introducendo un termine ai nuovi contratti, intendiamo superare l’idea secondo la quale la casa pubblica è sempre per tutta la vita. Il sistema attuale non promuove le aspirazioni personali né dà alcun incentivo agli inquilini per diventare proprietari di un’altra abitazione, consentendoci di sfruttare al meglio il patrimonio esistente”.

Del leggendario racconto Il Pozzo e il Pendolo di Edgar Allan Poe di solito ci si ricordano soprattutto i passaggi più scioccanti, ad esempio quell’involontario immondo bacio con gli animaletti (their cold lips sough my own …) dimenticandosi l’aspetto per così dire ottimista di tutta la faccenda. Perché Poe, a suo modo fiducioso nella razionalità e nel progresso, ci descrive un protagonista che lungo tutto lo svolgersi del terrificante incubo prova a sforzarsi di conoscere, capire, riflettere. Fin quando lontane iniziano a riecheggiare le fanfare dei liberatori, i mortali nemici dei suoi carcerieri.

Conoscere, quindi. Conoscere quanto ci stanno togliendo, inventandosi di sana pianta che tutto è merce, di proprietà di chi la rivendica per primo e con gli interlocutori giusti. E poi rivendendoci a caro prezzo l’aria, l’acqua, la terra. Come in quella vignetta di tanti anni fa, dove due innamorati guardavano il sole scendere nel mare, ma bloccarsi di colpo perché nel cielo compariva una gigantesca scritta rossa: questo tramonto vi è stato offerto da Coca Cola! In particolare del cosiddetto land grabbing – l’accaparramento di terre agricole sottratte agli usi comuni dei villaggi – si è iniziato a parlare solo pochi anni fa, quando il fenomeno è esploso ad esempio in riferimento alla produzione di agro carburanti, ma non solo. Un disastro, che sfruttando soprattutto l’assenza di norme e la corruzione locale, aveva già trasformato superfici gigantesche (dell’ordine di decine di migliaia di ettari per volta) da campagne tradizionali abitate da popolazioni rurali sparse, a colture estensive semindustrializzate, deportando gli abitanti, imponendo leggi da far west, spremendo l’ambiente e le risorse locali con immediati e gravissimi squilibri.

E tutto avveniva – avviene - nella più totale opacità, con incontri assai riservati fra ceto dominante locale ed emissari governativi esteri e/o di multinazionali interessate al grabbing, il passaggio intermedio da dignitari tribali o simili che fanno commercio di cosa non loro, e l’attuazione concreta del piano. Ovvero forzosa obliterazione etnica, ambientale, socioeconomica. Oggi un sito (è attivo dalla scorsa settimana) ci aggiorna in presa diretta con informazioni, dati, grafici. Facendoci scoprire subito, per esempio, che una percentuale terrificante del 5% dell’Africa agricola è già scomparsa dentro a questo pozzo, e che quindi gli allarmi lanciati dalle varie organizzazioni negli ultimi anni erano più che giustificati. E non dimentichiamoci quanto il medesimo fenomeno, magari con qualche variante, interessi anche Asia e Sud America. Conoscere per agire a far reagire (ad esempio i governi: cosa dicono i paesi democratici alle loro imprese?). Visto che alla fine del racconto di Poe l’esercito liberatore arrivava dall’estero: oggi con la globalizzazione al massimo potremmo sperare nell’invasione da un altro pianeta? Meglio di no.

Sito land matrix (in inglese, francese, spagnolo)

Titolo originale: The Great Recession: A Slayer of Sprawl – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

La dispersione suburbana, apparentemente inevitabile sparpagliamento di popolazione verso fasce metropolitane sempre più esterne, forse negli Stati Uniti è arrivata alla fine. Se è vero, sarebbe uno dei pochi risultati positivi di questa Grande Recessione e della bolla edilizia.Una analisi del quotidiano USA Today su dati censuari indica come la crescita di abitanti avvenga nelle zone più centrali, nelle circoscrizioni di contea più prossime ai nuclei urbani, mentre quelle verso i margini perdono popolazione dal 2006. Un sorprendente ribaltamento di tendenze, che avviene per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale più di sessant’ani fa. Quello che l’analisi evidenzia in dati dell’ufficio censimento conferma le osservazioni forse meno sistematiche condotte in tutto il paese. I due tipi di zone che appaiono più colpiti dalla crisi e dai pignoramenti sono, decisamente, insediamenti di fascia più esterna e quartieri degradati centrali con popolazione a bassissimo reddito.

Sino al crollo edilizio, erano invece le fasce esterne il luogo dove avveniva la maggior parte delle trasformazioni, dove si trasferivano le famiglie spesso utilizzando finanziamenti sub-prime o altre tipologie rivelatesi poi tossiche. Il crollo ha provocato nuovi quartieri lasciati a metà, spazi vuoti, strade e reti incomplete; case terminate cedute poi in affitto, o tornate a banche e investitori e lasciate vuote.In queste aree non avvengono più trasformazioni, e non è chiaro se e quando quelle lasciate a metà saranno mai terminate. Né si capisce che fine possano fare le case acquisite da banche e investitori, e men che meno se qualcuno costruirà mai nei lotti lasciati vuoti. Anche se quest’anno o il prossimo si stabilizzassero i valori immobiliari, si spera assai poco nel ritorno di un solido mercato della casa, almeno fino a fine decennio. Ciò sta a significare che le fasce suburbane più esterne resteranno in una situazione di stasi per parecchi anni a venire.

Ma l’analisi di USA Today [disponibile in italiano anche su eddyburg] ci mostra solo una anomalia causata dalla recessione, oppure indica un totale ribaltamento nelle modalità di crescita metropolitana? Si può rispondere che esistono ottimi motivi per ritenere superato il paradigma suburbano.Le trasformazioni sono spinte dal mercato, e quello che le ricerche concretamente mostrano è quanto i due gruppi demografici maggioritari, gli ultracinquantenni e la cosiddetta Generazione Y dei loro figli, preferiscano sempre più un modello di vita urbano. I più anziani sono quelli che anni fa nel suburbio ci sono andati, e intendono o invecchiare lì, o trasferirsi altrove, magari in città. Non esiste un mercato che li sposti a risiedere verso fasce più esterne.

La Generazione Y, la più ampia della storia Usa, che oggi ha dai venti ai poco più che trent’anni, in teoria sosterrebbe la classica trasformazione suburbana in quanto acquirente di prima casa. Ma a causa della recessione si compra sempre meno. Ciò è dovuto a un insieme di cause, dalle poco promettenti prospettive occupazionali, allo schiacciante debito contratto a suo tempo per studiare che devono sopportare, e all’ovvio desiderio di non acquistare in una situazione di precarietà del lavoro.E la generazione successiva, quella dei trenta-quarantenni? È la Generazione X che per la prima volta da 70 anni è meno consistente di quella che l’ha preceduta. Il senso di tutto questo per il mercato immobiliare è stato troppo a lungo sottovalutato: significa che la domanda sarebbe stata comunque più scarsa anche senza recessione.

In breve, non esiste alcun consistente gruppo demografico che sia in grado di spingere la domanda immobiliare, per parecchi anni. E ci sono molti che osservano come nei classici quartieri a cul-de-sac suburbani ci siano ormai già oggi case a sufficienza a anche per rispondere ad una eventuale domanda, per anni a venire. Quindi la scarsità nella costruzione di abitazioni unifamiliari da diversi anni potrebbe riflettere qualcosa di diverso dal semplice crollo da recessione.Anche la geografia conferma che quando il mercato dovesse riprendersi, si sarà meno pressione ad espandersi verso le fasce più esterne ai quartieri esistenti e oggi agricole. Ci sono già tante aree inedificate negli anelli urbanizzati esterni. E ci potrebbero volere parecchi anni per riempirle, così come per completare le trasformazioni oggi ferme.

Altro fattore determinante dello sprawl sono le finanze pubbliche. Le circoscrizioni di contea esterne hanno amministrazioni alle strette, senza soldi per nuove strade e altre infrastrutture. Ciò ha determinato un cambio nelle scelte di pianificazione urbanistica, favorevoli a insediamenti più compatti e sostenibili, soprattutto per i loro bilanci.Infine, ma non certo in ordine di importanza, c’è qualcosa che conferma una crisi di lungo periodo: l’immagine del suburbio esterno appare quella di una rosa sfiorita. Che sia per le preoccupazioni sul prezzo della benzina, per il tempo perso negli spostamenti, per la tristezza dell’abitare in posti dove metà delle case sono vuote, il quartiere suburbano esterno non brilla molto. Gli unici a comprare lì sono quelli attirati da prezzi davvero minimi. Ma scopriranno assai presto che credendo di risparmiare vedranno le proprie spese crescere, senza alcun servizio o posto di lavoro vicino. E al momento di venderla, quella casa, non sarà rivalutata, una scelta complessivamente sciocca.

Disastri e tempi difficili accelerano tendenze già in corso, la recessione e la crisi immobiliare non fanno eccezione. La tendenza ad un abitare più urbano cresce lentamente da una ventina d’anni, e oggi accelera. Quello che probabilmente ci dice l’analisi di USA Today è una anticipazione di tendenze di lungo termine: sempre più sviluppo in fasce centrali, sempre meno in quelle più metropolitane esterne. Appare sempre più chiaro che se il secolo scorso è stato quello della suburbanizzazione, quello attuale negli USA è un secolo urbano.

Titolo originale:Stemming rural depopulation in Ethiopia– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Dall’ufficio di Fasil Giorghis in centro a Addis Abeba si ha una ottima vista sulla capitale etiopica. Cantieri aperti sparsi ovunque, strutture di cemento da cui sporgono armature metalliche, avvolte in impalcature di legno di eucalipto. La pressione sulla città è enorme. La popolazione del paese in meno di trent’anni è raddoppiata sino ad arrivare a più di novanta milioni. Si calcola che ogni giorno arriva a Addis Abeba un flusso di 1.200 persone dalle campagne. Sperano in una vita migliore, disponibilità di acqua potabile, ospedali, scuole. Nonostante il livello di vita nella città da tre milioni di abitanti sia migliore di quello delle aree rurali, più della metà della popolazione abita in baracche auto costruite di legno, teli di plastica e lamiera ondulata, senza elettricità e fogne. “Siamo a un punto cruciale” avverte Fasil Giorghis. “Se non riusciamo ad arrestare lo spopolamento rurale andremo dritti verso una situazione catastrofica per le città”.

Concentrazioni di conoscenza e infrastrutture

Giorghis è uno dei più stimati architetti dell’Etiopia, ha scritto un libro sulla storia della capitale. “Questo è uno stato rurale. L’83% delle persona vive ancora nelle campagne. E dobbiamo offrir loro nuove prospettive. Possiamo farlo soltanto cambiando il modello di vita, da rurale a urbano”. Concentrando conoscenze e infrastrutture nei centri urbani, Giorghis vorrebbe iniziare un percorso verso un maggiore benessere. Franz Oswald e Marc Angélil, entrambi professori alla Eidgenössische Technische Hochschule di Zurigo, importante università svizzera, condividono la medesima visione. L’idea di NESTown [letteralmente Città/Nido n.d.t.] sviluppata da Oswald è di creare centri semi-urbani efficienti rispetto allo sfruttamento delle risorse, autogestiti dai contadini, e arginare così lo spopolamento rurale.

Il governo etiopico si è convinto della bontà dell’approccio e nel piano quinquennale si prevede la realizzazione di centinaia di villaggi e piccole cittadine nelle zone rurali. Oswald sta lavorando a uno che fungerà da modello, insieme a Giorghis: Burakebele(kebele è una circoscrizione municipale di campagna). Lo si può considerare una forma di ricerca-progetto, un “esperimento di vita reale”, finanziato dal Dipartimento di Architettura della scuola di Zurigo.

Giardini dell’Eden, ma solo per qualche mese

Bura si trova nell’Etiopia settentrionale, 350 chilometri da Addis Abeba in linea d’aria. C’è l’architetto Benjamin Stähli, dalla città più vicina, Bahir Dar, a coordinare il nuovo centro di villaggio per conto di Oswald e Angélil. È unamattina di sole, e Stähli parte per Bura insieme al suo ingegnere civile Teklehaimanot Daniel. Vogliono verificare gli avanzamenti. Per 90 minuti attraversiamo campi di mais, riso e grano. Difficile immaginare che negli anni ’80 queste terre siano state devastate dalla fame. “Nella regione di Amhara c’è una media di precipitazioni annue superiore a quella di Zurigo” spiega Stähli.

“Ma si concentrano in tre o quattro mesi”. Nel giro di sei mesi l’area sarà irriconoscibile: campi bruni o giallastri, terra spaccata dalla siccità, corsi d’acqua prosciugati. I contadini sono obbligati a portare tutte le vacche, le capre, gli asini ai pochi punti dove ancora è disponibile un po’ d’acqua. Stähli abbandona la strada ed entriamo in un sassoso pascolo. Nessun villaggio in vista, solo capanne sparpagliate, i tradizionali tukul rotondi fatti di rami di eucalipto e fango, col tetto di paglia intrecciata. Ci abitano famiglie anche con sette figli, in quindici metri quadrati circa, senza acqua corrente né elettricità.

A Burakebele oggi abitano in722 fra uomini, donne, bambini, sparpagliati su 1,6 chilometri quadri. Tutti vivono dell’agricoltura. C’è un rudimentale percorso pietroso, costruito dall’autorità regionale, che porta al punto in cui sta iniziando a prendere forma il “nido di Bura”, un’area erbosa delle dimensioni di un campo di calcio. Un piccolo corso d’acqua segna il confine col villaggio esistente. Gli operai lo stanno escavando con una draga meccanica. Si creerà un bacino artificiale in grado di proteggere la zona dagli allagamenti nella stagione delle piogge, e che poi servirà da abbeveratoio per il bestiame nei mesi asciutti.

Una fonte d’acqua affidabile

Una volta finita la stagione delle piogge, gli operai del kebele getteranno le fondamenta della prima “Unità Acqua Piovana”. È il modo in cui Stähli e i suoi colleghi chiamano il nucleo architettonico del villaggio. È uno spazio abitabile che si può espandere, e al tempo stesso raccoglie acqua; un tetto a spioventi di lamiera ondulata fa andare la pioggia in quattro contenitori della capacità di 20.000 litri. Che forniranno agli abitanti di che bere, cucinare, lavare, innaffiare. Si prevede che le cisterne trabocchino nella stagione delle piogge, e poi si preleva l’acqua per irrigare i campi nella stagione secca. Il tetto poggia su una struttura di travi di eucalipto a sua volta collegata a fondamenta di pietre naturali.

“Sin dall’inizio siamo partiti con materiali facilmente disponibili localmente, adeguati a costruzioni durature, accettabili dai contadini” racconta Stähli. Le pareti sono composte di fango raccolto nell’area circostante, impastato di paglia e intonacato di calce. Un blocco, con spazio abitabile per quattro famiglie ciascuna su 90 metri quadrati, costa circa 20.000 euro. Sono i futuri abitanti a costruire le strutture e se le manterranno da soli, con il sostegno di una scuola che insegna tutte le tecniche necessarie.

Da contadino ad abitante semi-urbano

Stähli è convinto che la sfida principale degli abitanti del nido di Bura non è di tipo tecnico, ma nello stile di vita. “Abitare più concentrati significa avere fiducia nella comunità. Qualcosa che è andato perduto durante il terrore del regime Derg fra gli anni ’70 e ‘80”. Stähli nutre comunque forti speranze nelle nuove generazioni, più propense a cambiar modello di vita. Per il giovane Aboset Adane in nido di Bura è soprattutto un’occasione per posti di lavoro ai ragazzi del villaggio, vuole contribuire personalmente alla costruzione del prototipo. Anche la giovane e timida Fentahun Denie spera che nella nuova comunità le donne saranno più protette dalle violenze sessuali. Avverte Stähli: “Un Amhara non dirà mai apertamente che il progetto non gli piace. In questa cultura esistono centinaia di modi per dire di no”.

Ma resta convinto che oggi in gran parte riconoscano che il nido di Bura è un’occasione. Non sono ancora state convinte e coinvolte le autorità locali. Obiettivo non semplice, perché mancano competenze, esperti, materiali, la burocrazia spesso rallenta le decisioni. Per questo Stähli cerca di fare opera di convincimento. Oggi pomeriggio a Addis Zemen, a qualche chilometro da Bura, proverà a passare senza appuntamento da Ato Tessalin,il responsabile di “cantone” del woreda (circoscrizione amministrativa superiore). E dopo aver ripetuto per l’ennesima volta di non voler assolutamente sprecare il preziosissimo tempo di Tessalin, Stähli assicura che la nuova strada è stata mappata e si cominciano a sistemare le alberature in vivaio, progetto questo cofinanziato da un Ong svizzera.

Tessalin deve anche stabilire una data per la presentazione ufficiale degli ultimi progetti. Stähli sa bene che dovrà insistere più volte. Ma non c’è nulla che possa arrestare il suo entusiasmo: appena uscito di corsa dall’ufficio ripete al collega Daniel: “Stiamo costruendo un nuovo villaggio! Nin facciamo il più bel lavoro del mondo?”

Titolo originale: MSU pitches urban farm plan in Detroit – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

L’Università dello Stato del Michigan propone alle autorità cittadine un piano da 100 milioni di dollari per trasformare ex superfici industriali, edifici abbandonati e parcheggi in spazi per l’agricoltura urbana dedicati alla ricerca di settore. Così Detroit potrebbe diventare un modello globale di produzione alimenti e colture per l’energia in un ambiente urbano prima impensabile: dentro edifici cadenti, terreni avvelenati, complessi commerciali e industriali di prefabbricati. E il tipo di tecnologie che i ricercatori della MSU sperano di sviluppare sperimentando colture in un ambiente a scarsità energetica e di acqua potrebbero diventare un modello da esportare in tante città dense del mondo che hanno difficoltà di approvvigionamento alimentare.

Il degrado urbano è “un limite che si può trasformare in una risorsa” spiega Rick Foster, direttore del Greening Michigan Institute, autore del programma che, calcola, costerebbe all’Università complessivamente 100 milioni di dollari. “Detroit è davvero una risorsa straordinaria se la guardiamo da questo punto di vista”. Il progetto è alle prima fasi, ma già l’ufficio del sindaco e l’università stanno discutendo su una bozza di accordo per collaborare a quello che t Foster definisce un “polo di innovazione alimentare”. “Significa collaborare per individuare strutture urbane, superfici e sostegni finanziari per il progetto. Siamo alle fasi preliminari di individuazione dei terreni nell’area orientale della città.

Una proposta che si somma al piano di John Hantz, magnate dei servizi finanziari residente in città, per acquistare 80 ettari nella medesima fascia urbana per colture commerciali. Il progetto dell’Università del Michigan dovrebbe iniziare da 2-4 ettari all’aperto e al coperto, racconta ancora Foster. L’ateneo opera anche a Johannesburg, Amsterdam, Sao Paulo e altre città del mondo per un’iniziativa di carattere generale legata all’alimentazione di un numero rapidamente crescente di abitanti, sfruttando quantità limitate di acqua ed energia. La popolazione mondiale dovrebbe balzare da 7 a 9 miliardi nel 2050, di cui il 70% residente nelle città. Ciò significa raddoppiare la produzione di cibo per rispondere al bisogno.

Titolo originale: How location spotting can help spruce up the city– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Un posto diventa più abitabile quanto più è riconoscibile? È una teoria che il gruppo di ricerca della Cambridge University e della brasiliana Universidade Federal de Minas Gerais vuole verificare. Attraverso Urbanopticon: un gioco che mette alla prova la immediata identificazione delle vie di Londra, scelte a caso da Google Street View e proposte agli utenti per capire se sanno dove sono (strada, o quartiere, o fermata del metro) esclusivamente guardando edifici, insegne ecc.

L’esempio che mostriamo (si vede la colonna di Nelson sullo sfondo) è sicuramente facile, ma salvo forse per i tassisti londinesi, capire se una via si trova a Brent o a Croydon può dimostrarsi complicato. Daniele Quercia è uno dei ricercatori del gruppo di Cambridge che lavora al progetto: "Vogliamo verificare i presupposti di chi progetta quegli spazi. L’idea è di capire attraverso una grande quantità di osservatori quali aree risultano più identificabili".

Perché è importante? "Abbiamo dei dati che ci mostrano quali aree siano socialmente più povere, o no. Possiamo provare a mettere in relazione questo aspetto con quello della riconoscibilità. Una volta fatto questo, si capisce il rapporto fra i due aspetti. Che deve essere tenuto in conto da chi progetta gli spazi urbani, per concepirli in modo diverso da come accade oggi". La vera efficacia di Urbanopticon per I progettisti futuri, dipende però da quante più persone lo usano. Iniziate voi andando a urbanopticon.org

Titolo originale: 'Slum cities' in south Asia need better planning – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

La capitale dello Sri Lanka Colombo, cuore economico e amministrativo di questa nazione-isola in piena crescita, si sta rapidamente trasformando in uno slum. Ci sta più del 30% della popolazione totale del paese, ma la metà degli abitanti dell’area metropolitana di Colombo abita lo slum. Certo non una rarità nell’Asia meridionale, questa crescita tumultuosa, dove le grandi metropoli dell’intera regione stanno facendo di tutto per non scoppiare. La capital del Bangladesh, Dacca, ospita il 34% della popolazione nazionale, ed è la città in crescita più veloce dell’intero continente. Circa il 40% dei cittadini di Dacca però sta nello slum. È urbano un quarto dei cittadini del Nepal, si concentra nelle zone urbane il 36% di quelli del Pakistan. In India, si calcola che siano 93 milioni complessivamente coloro che vivono nei quartieri informali, a partire dalla capitale Delhi, e la percentuale è del 60% anche nella scintillante Mumbai.

Indu Weerasooriya, vicedirettore generale della Urban Development Authority dello Sri Lanka, a un recente simposio della Banca Mondiale sulla sostenibilità nelle metropoli della regione ha dichiarato che “Il 43% degli abitanti della Grande Colombo abita in slum e nelle baracche”. Ming Zhang, responsabile di settore per l’acqua alla Banca Mondiale nonché per la gestione dei rischi in Asia meridionale, prevede che la popolazione urbana della regione possa raddoppiare nei prossimi 25 anni. Già oggi uno su quattro abita insediamenti in qualche modo classificabili “informali”, o decisamente slum o baraccopoli nelle zone urbane. Una crescita così rapida a Dacca,secondo il presidente del Centro Studi Urbani di quella città, Nazrul Islam, che una delle attività più lucrose è diventato proprio costruire e affittare nello slum case a palafitte vicino ai corsi d’acqua.

Perché quando ci sono le alluvioni, come a Colombo nel novembre del 2010 e a maggio l’anno scorso, sono le zone più basse dello slum a andare sotto per prime. L’hanno sperimentato in Bangladesh a luglio dell’anno scorso. Gli esperti della regione e quelli della Banca Mondiale concordano sul fatto che si tratti di problemi creati dall’assenza di una adeguata pianificazione. “Se ragionassimo in termini urbanistici, di buona amministrazione e partecipazione, potremmo far molto [per questo problema]" osserva il responsabile finanziario per gli investimenti urbani della banca Abha Joshi-Ghani. Gotabaya Rajapaksa, del ministero per le aree urbane, dichiara all’assise che ilo problema delle alluvioni è soprattutto quello degli insediamenti informali troppo vicini ai corsi d’acqua, canali, bacini, tutto ciò che via via è influenzato dal cambiamento climatico.

In alcune zone di Colombo, come lungo dei tratti del canale Hamilton e affluenti nel nord, gli edifici sono addirittura dentro l’acqua. Secondo Weerasooriya il cambiamento climatico e le più intense precipitazioni piovose hanno esasperato il problema. Joshi-Ghani spiega che città come Colombo vicine alla costa oggi sono anche a rischio per l’erosione. "Nell’Asia meridionale sono parecchie le città costiere minacciate da inondazioni". Grosso problema anche quello dell’acqua potabile in atri centri cime Dacca. Islam sottolinea come il supersfruttamento di due dei quattro fiumi che alimentano la città fiumi ne abbia reso le acque inutilizzabili perché "sono in secca". Gli esperti di cambiamento climatico avvertono dell’urgenza di intervenire rapidamente per le città. "Gran parte di questi luoghi sono cresciuti in modo non pianificato per decenni, bisogna cambiare" giudica Rutu Dave, della Banca Mondiale.

Anche Joshi-Ghani aggiunge come i centri urbani debbano risolvere la questione delle risorse limitate: "Le stiamo sprecando con un uso indiscriminato e inefficiente". Rajapaksa spiega che si è iniziato un grande programma di rilocalizzazione per 70.000 famiglie dei quartieri di Colombo, e anche per liberare i canali, ma "Realizzare abitazioni adeguate per queste popolazioni è un grosso problema, per architetti e urbanisti”. Lo spazio è poco, e si progetta di ricollocare gli abitanti dello slum in edifici a torre. Secondo Joshi-Ghaniva tenuto conto sia del reddito che degli stili di vita attuali degli interessati, uno sconvolgimento potrebbe anche trasformare la soluzione in un nuovo problema. "Molti pensano che le città rendano poveri, mentre invece attraggono poveri convinti di una vita migliore [lì]".

Dave ritiene che stia crescendo la consapevolezza sia delle amministrazioni che dei comuni cittadini, riguardo ai pericoli di una crescita incontrollata. "Sono molto riuscite le campagne nelle scuole. I più giovani sono protagonisti del cambiamento". Ma finché non esiste volontà politica locale e nazionale a sostenere certe decisioni di piano, città come Colombo, Dacca e altre dellaregione dovranno affrontare sempre più caos, che poi si mescola all’ignoranza. "Spaventa di più, che i disastri non badano ai confini, e colpiscono per primi i poveri" conclude Jesse Robredo, ministro per l’interno e le amministrazioni locali delle Filippine, anche lui a Colombo per discutere il problema coi colleghi.

Titolo originale: Urban sprawl link to health concerns – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

L’espansione dispersa di Perth è diventata un rischio per la salute, obbligando migliaia e migliaia di persone a una vita sedentaria e a fare tutto con l’automobile. Una nuova ricerca dell’Università del West Australia, School of Population Health, ha individuato un legame diretto fra obesità e sprawl, rilevando come chi abita nelle fasce suburbane esterne cammini molto meno di chi abita in città. Cresce l’uso dell’auto perché all’aumento di popolazione non riesce a corrispondere un parallelo intervento della pubblica amministrazione in termini di trasporti collettivi, percorsi pedonali, verde pubblico.

L’espansione dispersa di Perth è una delle più rapide in Australia. I dati della scorsa settimana resi noti dall’Ufficio Statistica mostrano come siano soprattutto le circoscrizioni più esterne delle aree di Perth e Melbourne a crescere. Lo studio dell’Università del West Australia, commissionato dalla National Heart Foundation, spiega come allo sprawl corrisponda una ridotta mobilità pedonale, comportamenti in genere sedentari, maggiore uso dell’auto. Recita il rapporto: “Nella metropoli dispersa si trascorre più tempo in automobile. Nella città densa gli spostamenti sono più brevi e ci si può muovere di più a piedi, o usare il mezzo pubblico. Cosa confermata da studi sulle città americane, che mostrano ad esempio come ci siano meno incidenti stradali con vittime nelle città dense rispetto a quelle più disperse".

Il responsabile Heart Foundation per le malattie cardiovascolari, Trevor Shilton spiega quanto chi abita in quartieri ben concepiti sia fisicamente più attivo, abbia tassi di obesità inferiori, e un generale migliore stato di salute. "Perth continua disperdersi e sempre più famiglie trascorrono spropositate quantità di tempo in auto". Pare sia la circoscrizione di Subiaco quella urbanisticamente meglio concepita, con un buon sistema stradale, la ferrovia in trincea, negozi e spazi pubblici. Mentre invece chi sta in altre zone, Duncraig o Greenwood, è costretto a guidare fino agli shopping centre. Il professor Peter Newman, responsabile del Sustainability Policy Institute alla Curtin University, aggiunge che le grandi città come Perth si stanno sempre più dividendo fra un nucleo centrale ben concepito, circondato da un infinito suburbio del tutto auto-dipendente per accedere ai servizi, al lavoro, all’istruzione e tempo libero.

“Ne deriva anche un traffico impossibile, e la gente resta dentro a queste aree senza molto da fare, aumenta la violenza e tutti gli altri segnali di noia e apatia. Il presidente della Local Government Association, Troy Pickard, avverte che tutta la fascia suburbana si sta espandendo a ritmi del tutto insostenibili, e che le pubbliche amministrazioni sono obbligate a contrarre enormi prestiti per le infrastrutture. “Lo sprawl è una vera e propria sfida sia per le amministrazioni locali che per lo Stato in termini di reti idriche, fognarie, elettriche. La sindaco di Wanneroo, Tracey Roberts, racconta come lo sprawl significhi anche costruire in posti dove ci sono solo dune di sabbia. E così “Nelle nostre aree in crescita ci troviamo del tutto senza strade, stazioni, arterie veloci, verde, servizi, scuole, ospedali, e tutto andrebbe realizzato molto in fretta”.

Nelle circoscrizione a nord di Landsdale, ad esempio, gli abitanti stanno ancora chiedendo un servizio di autobus adeguato, un ufficio postale, spazi aperti accessibili. Solo il mese scorso, e dopo tre anni di lotta, hanno ottenuto un percorso pedonale a collegare le nuove abitazioni ai negozi. La presidente del comitato Jessica Stojkovski spiega che pareva assurdo mobilitarsi così a lungo per servizi e infrastrutture che di solito in altri posti si danno per scontate. "C’era un servizio di autobus, che non passava però da dove ci sono davvero le case. Lo spazio pubblico verde, poi, è una specie di boscaglia inadatta a camminarci o a giocare". E così, conclude la Stojkovski, non c’è altra alternativa che salire in macchina: per andare a lavorare, a far spese, a passare il tempo libero.

Nota: il rapporto descritto nell'articolo si inserisce naturalmente in un filone già ampiamente documentato anche su questo sito, ad esempio con gli studi di americani di Howard Frumkin; specificamente per il caso australiano (che evocherebbe invece immagini di salute per antonomasia) ulteriori informazioni scientifiche, links e materiali scaricabili, alla pagina dedicata sul sito della Hearth Foudation. (f.b.)

Titolo originale: America’s romance with sprawl may be over – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Quasi tre anni dopo la fine ufficiale della recessione, che ha impedito materialmente di trasferirsi devastando con nuove lottizzazioni suburbane, la gente continua però ad evitare le fasce metropolitane più esterne, come confermano le previsioni dell’Ufficio Censimento. Crisi economica e pignoramenti hanno obbligato molti ad abitare in affitto. I costi lievitati dei carburanti hanno reso molto meno attraenti I lunghi percorsi quotidiani. E l’alto tasso di disoccupazione attira verso le concentrazioni di impiego. Il paese esce faticosamente dalla crisi, e a guidare la ripresa ci sono città e periferie consolidate. La crescita di popolazione nelle fasce più esterne si è quasi bloccata del tutto nell’anno statistico chiuso al luglio 2011. Per contro, le circoscrizioni centrali metropolitane crescono più rapidamente del paese nel suo insieme. "Un’ombra si addensa sulle fasce esterne" commenta John McIlwain, responsabile per la casa dell’Urban Land Institute, ente che promuove trasformazioni più sostenibili. "Pignoramenti, edifici invenduti, strade lasciate a metà. Non è certo un bell’ambiente. Fine del sogno".

Le nostre analisi dei dati mostrano che:

• Tranne due – in Michigan la Wayne (Detroit) e in Ohio la Cuyahoga (Cleveland) - tutte le 39 circoscrizioni di contea con popolazione oltre un milione dal 2010 al 2011 crescono.

• Ventotto fra queste grandi contee crescono più rapidamente del paese nel suo insieme, che ha la crescita più lenta dai tempi della Grande Depressione (0,73%). Per le contee invece il tasso è dell’1,3% mediamente (la metà più rapido, l’altra più lento).

Queste 28 — fra cui in California Alameda e Contra Costa, in Florida Broward e Hillsborough, in Texas Harris e Dallas — producono oltre un terzo della crescita totale Usa. Prima della recessione e della bolla edilizia, quando tutti parevano andare verso nuove aree ex agricole, questo contributo era al 27%.

"Si conferma il vantaggio localizzativo della grande città" commenta Robert Lang, professore di Studi urbani all’Università del Nevada di Las Vegas, e autore di Megapolitan America. "È in quel nucleo che sta la nostra forza come paese".

Le contee metropolitane più centrali pesano per il 94% della crescita Usa, contro l’85% prima della recessione.

"Potrebbe essere la fine dell’esurbio come luogo in cui tutti aspirano ad andare per far crescere la famiglia" commenta William Frey, demografo alla Brookings Institution. "Si sono scottati in parecchi. … Gente che comprava la prima casa, immigrati, minoranze, sono stati tutti molto colpiti". Nei periodi di scarsità dei carburanti negli anni ’70 e in quello di crisi del prestito anni '80 erano in molti a prevedere la fine dello sprawl suburbano. Non si è verificata allora, ma le tendenze attuali potrebbero cambiare in modo permanente le tendenze di sviluppo del paese. Chi invecchia e sta per andare in pensione, e la generazione dei Millennials, adolescenti o ventenni, paiono più propensi ad abitare in zone urbane, continua McIlwain. "Non sono certo che vedremo altro sprawl, anche se certe spinte continuano. Le amministrazioni ormai non ce la fanno più nemmeno a fare manutenzione stradale, o dei servizi a rete. … Viviamo nel secolo dell’urbanizzazione". Magari però, aggiunge Lang, "lo sprawl è un po’ il Freddy Krueger della crescita americana. Lo danno sempre per morto, ma poi risorge a nuova vita".

Titolo originale: Planning for the future – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Si tratta, semplicemente, della più radicale revisione del sistema urbanistico che si sia mai vista. Dopo mesi di dibattito e migliaia di occasioni di consultazione pubblica, abbondanza di critiche sui media e scontri politici, alla fine il governo ha approvato il nuovo National Planning Policy Framework (NPPF). Le leggi urbanistiche di solito non sono un argomento troppo appassionante, ma il forte coinvolgimento dell’opinione pubblica dimostra quanto si tenga al nostro territorio, e si comprenda il ruolo fondamentale delle scelte pubbliche nella sua organizzazione. Attraverso tutto il percorso di dibattito, la Campaign to Protect Rural England si è sempre espresso a favore di una forte regolamentazione, esprimendo le proprie riserve quando la prima stesura del documento non riconosceva il valore intrinseco del territorio rurale, che per il 52% della superficie non è specificamente tutelato in quanto rilevante. Quanti fra noi hanno partecipato a questa immersione urbanistica totale degli ultimi mesi erano naturalmente molto curiosi di capire come si sarebbe riusciti all’interno del NPPF a condensare le precedenti 1.000 pagine in sole 50.

La buona notizia è che a quanto pare il governo ha ascoltato noi della CPRE, insieme alle altre associazioni ambientaliste, inserendo nella stesura finale alcune modifiche ai punti che ci avevano lasciato perplessi, ad esempio una definizione più chiara di sviluppo sostenibile, o il valore intrinseco attribuito al territorio rurale in quanto tale; ma l’orientamento governativo esplicitamente favorevole alla crescita fa sì che si debba restare vigilanti, perché tale crescita non si traduca in danni al territorio delle campagne.

La nostra posizione

“Ci rassicura che il ministro Greg Clark abbia riconosciuto il valore intrinseco delle campagne “sia quando sono specificamente tutelate che quando non lo sono” e che siano stati inseriti nel documento i cinque principi della Strategia nazionale di Sviluppo Sostenibile” ha dichiarato il responsabile esecutivo CPRE, Shaun Spiers. “Per noi si tratta di questioni essenziali. E siamo compiaciuti che il ministro abbia ascoltato tutte le critiche che corrispondevano alle nostre”. Nelle sezioni CPRE di tutto il paese si sono studiate le nuove norme. Nel collegio elettorale di David Cameron in Oxfordshire, la responsabile locale Helen Marshall sembra accogliere favorevolmente il nuovo Planning Framework. “Greg Clark sembra averci ascoltati, ma la vera verifica sarà nell’attuazione pratica. Se la formulazione attuale si rivela troppo vaga e aperta alle interpretazioni, se ne potrebbero anche vanificare le buone intenzioni, rallentando ogni cosa”.

Roger Smith, vicepresidente CPRE per il West Sussex, si unisce a questi dubbi nella sua nota. “Credo non si debba essere troppo ottimisti sul NPPF, e aspettare di verificare in dettaglio. Avrei preferito veder definito meglio cosa sia sviluppo sostenibile, soprattutto esplicitando come ciò si traduce in pratica”. Helen sottolinea come le scadenze nella redazione dei piani metteranno in difficoltà le amministrazioni. Il periodo intermedio sarà complicate per i governi locali qui nella zona di Oxford: oggi sono solo il 20% del totale ad avere strumenti adeguati. Gli altri si trovano a qualche punto dell’iter, e potrebbero o meno concluderlo entro la scadenza prefissata di dodici mesi. Naturalmente faremo di tutto per avere degli ottimi piani, ma non è detto che le decisioni affrettate siano le migliori”. Roger resta convinto che il NPPF difficilmente raggiungerà gli obiettivi per le case economiche. “Se si costruisce eccezionalmente poco non è per colpa delle decisioni urbanistiche burocratizzate: sono semplicemente le imprese che ci mettono troppo, anche se i permessi già ci sono. E poi riducono le percentuali di abitazioni economiche negli interventi, fino al solo 20% o 30%. Col nuovo documento non cambierà nulla per questo problema”.

Un territorio straordinario

Poco prima della pubblicazione del nuovo NPPF, il primo ministro David Cameron aveva pubblicamente apprezzato l’idea urbanistica di fondo di uno dei fondatori CPRE, Sir Patrick Abercrombie, quando in un discorso all’Istituto di Ingegneria Civile affermava di voler emulare l’ideale di Abercrombie, di un territorio ordinato. Vale però la pena ricordare che Abercrombie era fortemente critico rispetto ai rischi di un approccio pubblico troppo attento ai vantaggi economici, quando osservava: “Occorre riflettere seriamente su come in periodi di difficoltà finanziarie sia sempre la bellezza ad essere sacrificata sull’altare del vantaggio immediato”. Ce lo dirà solo il tempo, se questo nuovo orientamento urbanistico, tanto a lungo atteso, sia in grado di tutelare davvero, oppure sacrificare, la bellezza delle campagne. Non c’è bisogno di ripetere che la CPRE a partire dai prossimi giorni continuerà sia nell’esame particolareggiato del NPPF, sia nel lavoro sull’urbanistica insieme a organi governativi, amministrazioni locali e abitanti, per difendere ciò che anche Greg Clark ha giustamente definito “il nostro territorio straordinario”.

Uno sguardo al National Planning Policy Framework: Verde (passi avanti/buono), Giallo (non cambia nulla/cautela), Rosso (non ci siamo/attenzione):

Verde – Valore intrinseco:Uno degli aspetti più dubbi della prima bozza di NPPF era l’omissione di tutto quanto riguardava il valore intrinseco del territorio rurale, anche quando non si tratta di aree specificamente individuate. Il ministro Greg Clark ha confermato che adesso si riconoscono valore e bellezza intrinseca delle campagne “specificamente tutelate e non”. Certo non vuol dire che lì non si può affatto trasformare nulla, ma sottolinea almeno che in prima istanza non si costruisca su spazi aperti.

Verde – Piani comunali:Il documento sottolinea chiaramente come tutte le decisioni sulle trasformazioni debbano essere in linea con piani e programmi locali, salvo particolari e motivate eccezioni. Ottimo anche che il governo abbia accettato di concedere alle amministrazioni il tempo di aggiornare i propri piani prima dell’entrata in vigore dell’orientamento “preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili”, anche se in parecchi casi sarà una sfida rispettare la scadenza dei dodici mesi.

Verde – Inquinamento luminoso e silenzio: buona cosa aver inserito la lotta delle amministrazioni locali all’inquinamento luminoso attraverso la progettazione e i controlli. Speriamo che ora aumentino i limiti agli effetti dell’illuminazione artificiale sulla qualità spaziale, nei luoghi che devono restare normalmente al buio e ambienti naturali. E per la prima volta in un documento nazionale si tutela la tranquillità dei luoghi. Siamo del tutto favorevoli a questa scelta che contribuisce alla salute e alla qualità della vita.

Giallo – Sviluppo sostenibile:osservavano in molti come nella prima bozza di NPPF si sostenesse uno “sviluppo sostenibile” a tutti i costi, senza però spiegare chiaramente cosa si voleva dire. Nella versione finale si entra di più nei particolari, facendo riferimento alla Strategia nazionale per lo Sviluppo Sostenibile in cinque punti, e Greg Clark in parlamento ha ripetuto più volte come tra gli elementi chiave dei progetti sostenibili ci siano società e ambiente. Ma non esiste ancora chiarezza sufficiente su cosa possa significare in pratica questa sostenibilità, e mancano limiti ambientali specifici.

Giallo – Recupero di superfici dismesse:la bozza non comprendeva le precedenti indicazioni sulla priorità di trasformazione per le superfici già urbanizzate, quindi accogliamo favorevolmente che nel documento finale si riconosca in modo esplicito questa priorità. Ma nel nuovo NPPF non si prescrive sempre, come accadeva, la trasformazione delle superfici dismesse prima di considerare gli spazi aperti.

Rosso – Ambiente contro crescita?Se il governo ha eliminato tutte le affermazioni allarmanti della prima bozza di NPPF, come il famigerato “SI preliminare” alle trasformazioni sostenibili, si continua comunque ad assegnare “peso significativo” agli aspetti di crescita economica, il che implica considerare regole certe un ostacolo a questa crescita. Un aspetto con cui la CPRE ha da sempre polemizzato, visto che i nostri studi confermano quanto una attenta pianificazione, lungi dall’impedire sviluppo, apporti notevoli e duraturi vantaggi economici di lungo termine.

Rosso – Emergenza case: nel documento si mantiene l’orientamento sbagliato a chiedere che siano messe a disposizione attraverso i piani superfici sufficienti su un arco di cinque anni a realizzare case “immediatamente”, più un’altra quota del 5-20% “cuscinetto” in base ai programmi locali. Non si tratta di un’idea nuova, e la quota cuscinetto potrebbe spingere le amministrazioni a costruire a costi inferiori su zone agricole.

scaricabile qui di seguito la versione finale del National Planning Policy Framework così come proposta dal Ministero per le Aree Urbane; il dibattito precedente, compresa la bozza preliminare e relative polemiche, è stato seguito con una certa puntualità nei mesi scorsi, e se ne può trovare ampia documentazione anche in italiano su queste pagine (f.b.)

Titolo originale: Gates, sprawl, and 'walking while black' – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Il paese è giustamente inorridito per la tragedia di Sanford, Florida, dove un robusto e armato Vigilante di Quartiere ha inseguito, e poi ucciso a colpi di pistola, un ragazzo mingherlino che era semplicemente uscito a comprarsi delle caramelle. Chi ha sparato, il ventottenne George Zimmerman, dichiara di aver agito per legittima difesa e al momento non è stato fermato. Molti si sono soffermati sulla legge della Florida, troppo permissiva per quanto riguarda le armi da fuoco per difesa personale in qualunque situazione; o sull’indagine assai frettolosa della polizia; magari sugli aspetti razzisti dell’avvenimento. Ma si dimentica un altro fattore: uno spazio mal progettato e segregante.

Gli spari contro il diciassettenne Trayvon Martin avvengono alla Retreat at Twin Lakes, quartiere recintato di 260 case collegato al mondo circostante (o tagliato fuori dal mondo circostante, dipende da come si guarda la cosa) da arterie principali con traffico veloce e edifici commerciali. Il quartiere ha un bassissimo indice di praticabilità pedonale. The Retreat at Twin Lakes sta nel bel mezzo dello sprawl della Florida, dove quasi tutti quelli che possono si spostano in auto. E chi non guida di solito si colloca economicamente ai margini, oppure è un intrepido ragazzino – grande a sufficienza per uscire da solo ma senza auto — che si lancia ad attraversare tutte quelle corsie superando le difficoltà quasi insormontabili per un pedone. E il pedone in un ambiente del genere suscita al massimo pietà, se non automaticamente sospetti, fino al punto estremo che ha portato alla morte di Martin, andato a piedi al negozio a comprarsi Skittles e del tè freddo la sera del 26 febbraio.

Il recinto del quartiere crea una mentalità dell’assedio, dove qualcuno è considerato abitante legittimo e altri degli intrusi, come scrive ad esempio Laurence Aurbach su Pedshed. Il cancello funziona per le automobili, mentre i pedoni possono entrare e uscire abbastanza facilmente scivolando fra i cespugli che dividono il quartiere dalla superstrada. E i pedoni sono una specie abbastanza temuta da alcuni degli abitanti, come raccontava un articolo sul Palm Beach Post. “La nostra è una gated community, ma a piedi si può entrare a rubare quando si vuole” spiegava uno di loro. Poi c’è la crisi economica. The Retreat at Twin Lakes esiste da solo sei anni, ma i valori immobiliari sono crollati di colpo. Così molte case sono state affittate anziché comprate, a “gente da poco o banditi” come spiega al giornale un altro abitante.Oggi nel quartiere c’è una “maggioranza di minoranze”: 49% bianchi anglosassoni, 23% ispanici, 20% afroamericani, 5% asiatici. E la vicenda è così anche un esempio di cosa può accadere quando ci si ritrova insieme a chi si teme di più dalla stessa parte del muro.

Il comportamento di Zimmerman esprime paranoia. Dal gennaio 2011 aveva chiamato il pronto intervento più di quaranta volte, spesso parlando di “comportamenti sospetti” ovvero di qualcuno che aveva lasciato una finestra aperta, o di qualcun altro che osservava una casa. Lo si vedeva girare per il piccolo quartiere col cane, e la sua pistola (regolarmente denunciata) calibro 9, a chiedere conto a chiunque gli apparisse sospetto. Era anche piuttosto esplicito nel considerare comunque sospetti tutti giovani maschi neri, nonostante ce ne fossero parecchi abitanti nello stesso quartiere. Martin è stato ucciso in quanto giovane, nero, e pedone, sufficientemente avventato da attraversare quello spazio inospitale che lo separava dal negozio per comprare dolci.

La vittima avrebbe potuto essere chiunque corrisponde a questa descrizione. Il Palm Beach Post, ancora, racconta di un altro giovane maschio nero, che ha consapevolmente deciso di non camminare mai, a The Retreat at Twin Lakes, perché teme di essere scambiato per un intruso. Spiega il giornale: "Quando vuole camminare, al massimo va fino in centro”. La vicenda non è affatto chiusa. Forse Zimmerman sarà arrestato, la domanda si fa sempre più pressante anche via internet, ben 800.000 firme raccolte a mercoledì. Si chiede di allontanare il capo della polizia di Sanford, o di cambiare la legge statale sulle armi da fuoco per difesa personale. Ma in tutto questo si dimentica un ambiente fisico che discrimina, fra chi guida e chi no, facendone dei sospetti. E sarebbe difficile ambientare una tragedia del genere a un angolo di strada di una città fruibile a piedi.

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