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«Nicholas G. Roegen, Kenneth Boulding e Herman Daly nel 1973, per l'American Economic Association scrissero: "Dobbiamo inventare una nuova economia il cui scopo sia la gestione delle risorse e il controllo razionale del progresso"». Sbilanciamoci.info, 31 ottobre 2014

Economisti ed ecologisti non si sono mai stimati troppo. Se depuriamo il dissenso dalle accuse ingenerose rimane negli uni la convinzione che a furia di proteggere la sacralità della «natura» non si sarebbe mai usciti dalle caverne, mentre gli altri replicano che continuando a distruggere la natura si finirà ben presto nelle stesse caverne di prima.

Gli uni dicono agli altri che non hanno studiato; replicano i secondi che studiare le cose sbagliate nei libri sbagliati è ancor peggio. Un dissenso che non ha fine. Ancora recentemente Vandana Shiva, ecologista rinomata, è stata presa di mira con una punta di disprezzo dagli avversari, non per la sua lezione, ma per qualche bollo universitario mancante nel suo curriculum.

Era il 1973 in ottobre quando Nicholas Georgescu Roegen, Kenneth Boulding e Herman Daly scrissero il loro Manifesto, firmato da altri duecento economisti, per la riunione annuale dell'American Economic Association in agenda due mesi dopo. l testo, brevissimo, è stato ripubblicato varie volte, per esempio nel 2006 da Capitalismo Natura Socialismo, (Jaca Book a cura di Giovanna Ricoveri), un'antologia degli scritti della rivista Cns. Ecco quel che i tre suggerivano: «Nel corso degli ultimi due secoli gli economisti sono stati portati sempre più spesso non solo a misurare, analizzare e teorizzare la realtà economica, ma anche a consigliare, pianificare e prendere parte attiva nelle decisioni politiche. Noi invitiamo i colleghi economisti ad assumere un loro ruolo nella gestione del nostro pianeta.

Dobbiamo inventare una nuova economia il cui scopo sia la gestione delle risorse e il controllo razionale del progresso e delle applicazioni della tecnica, per servire i reali bisogni umani, invece che l'aumento dei profitti e del prestigio nazionale o le crudeltà della guerra».

Difficile dire meglio di così. Come si può capire, Barry Commoner era d'accordo. Il «controllo razionale del progresso e della tecnica» era una scelta indispensabile per garantire la stessa sopravvivenza umana.

In uno scritto di Commoner della fine degli anni ottanta e poi letto e riletto fino agli anni recenti: «Una valutazione del progresso ambientale: la ragione del fallimento» (Economia & Ambiente, novembre dicembre 2012) si trova una chiave interpretativa che tutti possono fare propria: «Quando un inquinante è al punto di origine, può essere eliminato; una volta che è prodotto, è troppo tardi. Insomma, l'inquinamento ambientale è quasi una malattia incurabile; può solo essere prevenuto. ...L'approccio convenzionale è quello per cui queste tecnologie che sono altamente produttive dal punto di vista economico, generalmente hanno un serio impatto sull'ambiente».

Più avanti si legge: «Ciò porta a pensare che tali tecnologie debbano essere usate come mezzi per lo sviluppo economico, in modo che la qualità ambientale possa essere raggiunta solo aggiungendo ad esse i mezzi di controllo dell'inquinamento».

È possibile farlo, oppure sono controindicazioni i costi aggiuntivi alla produzione vera e propria? Commoner esamina il caso dell'industria del petrolio. «L'industria petrolchimica è ugualmente famosa per il suo successo economico, essendo cresciuta negli Stati Uniti, ad esempio, fino a 250 miliardi di dollari in meno di 40 anni. Ciò che è meno noto è che fare un serio sforzo per rettificare i difetti ambientali dell'industria significherebbe distruggere letteralmente la sua vitalità economica.

L'industria petrolchimica genera circa 300 milioni di tonnellate di scorie tossiche ogni anno, il 90% delle quali viene introdotto nell'ambiente in un modo o nell'altro: nei pozzi, nelle lagune di superficie, nei serbatoi. Solo l'uno per cento delle scorie viene distrutto, che è l'unico modo per assicurarsi che queste sostanze altamente pericolose e che durano a lungo non si accumulino e alla fine minaccino gli esseri viventi. Insomma, l'industria petrolchimica è profittevole solo perché è riuscita, finora, ad evitare di pagare il suo conto all'ambiente».

Gli economisti dovrebbero applicarsi a questi problemi, ma lo fanno troppo poco. La casa-madre di tutti gli economisti, la World Bank, funziona assai spesso come megafono delle compagnie petrolifere, non solo, ma fa anche profittevoli collette per i maggiori investimenti che trasformano il globo in uno spazio attraversato per ogni dove da strade e ponti, gallerie e viadotti, stazioni di rifornimento e oleodotti e ne fanno l'ambiente adatto per auto e camion, considerando quasi il genere umano come un inutile, ingombrante, soprammobile.

Non tutti gli ecologisti sanno arrivare fino in fondo, ma si fermano a un compromesso che considerano insuperabile, originato dal buonsenso. Solo che è il buonsenso della serie, famosa dai tempi del Maggio francese, del sindacalista che si rivolge nervosamente all'attivo dei suoi che lo ascoltano senza fiatare. «Insomma, cosa volete?» e alla risposta: «Fare la rivoluzione», replica a sua volta: «Impossibile. I padroni non ci staranno mai!»

Una serie di incentivi per le trasformazioni edilizie sostenibili potrebbe e dovrebbe anche interessare ambiti urbani e tematici ben diversi e più ampi di quelli supposti. La Repubblica, 9 ottobre 2014, postilla (f.b.)

Vivere con un orto o un giardino sopra la testa è tecnicamente possibile. Oggi però è anche economicamente conveniente. La delibera del ministero dell’Ambiente concede infatti incentivi fiscali fino al 65% a chi trasforma il tetto o il “lastrico solare” (per esempio il terrazzo condominiale o la copertura piana dei parcheggi) in uno spazio verde. Un passo in avanti verso la diffusione del verde in città e verso la trasformazione degli edifici in senso ecologico: i tetti verdi trattengono l’acqua piovana, assorbono il rumore, aumentano la qualità della vita, ma soprattutto aiutano l’isolamento termico. Ed è questo aspetto che l’agevolazione fiscale vuole favorire.

«Il verde è un eccellente sistema di coibentazione, che aumenta le capacità di contenimento energetico dell’immobile», spiega Patrizia Pozzi, paesaggista milanese che si è dedicata intensamente a questo tipo di progetti. «Negli ultimi cinque, sei anni l’85% dei miei interventi sono stati su lastrico solare, vasti spazi come quello delle sedi della Vodafone e dell’Oréal, dove oltre al verde ci sono aree per il relax e altre attività». Patrizia Pozzi ha creato una joint venture con la società di progettazione architettonica Lombardini22.

Con la formula “Milano Green Roof” hanno dato vita a una collaborazione sul tema delle coperture vegetali offrendo un servizio chiavi in mano, dai vari progetti fino alla certificazione energetica, indispensabile per poter ottenere le agevolazioni fiscali. La paesaggista, i suoi partner e altri esperti presenteranno i diversi aspetti del tema in un incontro il 23 ottobre, a Milano, nella sede di Lombardini22. «Questi interventi non interessano solo le grandi aziende, ma anche i privati, perché i costi non sono stellari», precisa Patrizia Pozzi.

«Molti immobiliaristi, per esempio, hanno capito che se trasformo il terrazzo condominiale in un giardino, aumento il valore e le possibilità di uso dell’edificio da parte di chi ci abita». Per quanto riguarda i fabbricati già esistenti, basta una perizia che valuti la tenuta della struttura e la sua impermeabilizzazione. Il processo di installazione poi è piuttosto ben rodato: «Oggi sono sufficienti pochi centimetri di terra. Si tratta di pacchetti preconfezionati di semplice installazione: bastano 15 centimetri per avere un prato, 20-30 per dei cespugli, 40-60 per piante anche di sette metri di altezza». Così, per una volta, un taglio delle tasse sembra voler aggiungere bellezza alle nostre città.

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Se la mano pubblica arriva a sostenere in questo modo un po' di sostenibilità ambientale, non potrebbe anche arrivare oltre? Ovvero far sì che gli incentivi, la rinuncia da parte della pubblica amministrazione a un introito fiscale in cambio di qualcos'altro, non si traducano semplicemente nella gioia degli immobiliaristi, ma anche in un incremento di valore d'uso dello spazio urbano. Il fiorire di terrazze va benissimo, ma se si riuscisse anche a tradurre questo verde privato in un vantaggio collettivo oltre quello genericamente ambientale, la cosa assumerebbe senso e dimensioni infinitamente maggiori. Per esempio diversificare gli incentivi a seconda delle specifiche funzioni di quel verde (che può essere di dimensioni anche rilevanti), o promuovere la formazione di reti di qualche tipo, ad esempio di produzione e distribuzione alimentare quando possibile, magari non necessariamente gestite dalle proprietà degli immobili. In fondo, anche queste cose fanno la differenza tra destra e sinistra, e non è mica poco (f.b.)

Qualche riflessione in più dallo spunto di questo articolo, su la Città Conquistatrice

Il territorio, nella sua accezione ampia, è il luogo in cui si incrociano e manifestano tanti elementi della complessità, ma l'abitudine a fidarsi del camice bianco ci tradisce. La Repubblica, 5 ottobre 2014, postilla (f.b.)

Da mesi seguo i copiosi interventi che si susseguono sulla stampa italiana a proposito di organismi geneticamente modificati, devo ammettere che qualcosa non mi è chiaro. La prima perplessità nasce quando chi si dichiara a favore degli Ogm destinati all’alimentazione umana sembra ritenersi, per ciò stesso, autorizzato a concedere patenti di scientificità o di emotività. La scientificità va a chi concorda con le sue opinioni, tutti gli altri sono vittime dell’emotività. Questo non riguarda solo le persone, ma anche le pubblicazioni: gli studi a supporto delle tesi pro-Ogm vengono citati come scientificamente validi; quelli che indagano su problemi — a livello ecologico, economico o giuridico — legati a quelle coltivazioni e al consumo di quei prodotti invece non esistono, non sono affidabili, oppure non sono, indovinate? scientifici.

Del resto tutti sanno o dovrebbero sapere, che il mondo scientifico è tutt’altro che concorde su questo argomento. Ma tant’è in questo momento chi si presenta tenendo alta la bandiera della scientificità pro-Ogm suscita più attenzione di chi con curricula altrettanto rispettabili, posizioni accademiche indiscusse e valanghe di pubblicazioni all’attivo, ritiene che quei prodotti non siano una scelta opportuna per la nostra agricoltura, per la nostra economia e — nel senso più complesso e completo — per la salute dei nostri ecosistemi.

Quello che mi diverte osservare, però, è che a fronte di tanta agitazione a mezzo stampa, le aziende produttrici non fiatano. Il New Yorker si lancia, con sacro furore, contro una persona che ha un nome e un cognome, la mia amica e compagna di tante riflessioni e battaglie, Vandana Shiva; una senatrice della nostra repubblica si schiera a supporto di quanto scritto da quella rivista; ma mentre tutti si scaldano così tanto, le voci dei protagonisti non si sentono.

D’altronde questa è la principale caratteristica delle multinazionali che si occupano del nostro cibo (e spesso anche delle malattie correlate, quindi dei nostri farmaci): non si sanno i nomi dei responsabili delle scelte che fanno. Se la fondazione Navdanya prende una posizione, trovare Vandana Shiva è la cosa più semplice del mondo, si fa un numero di telefono e lei risponde di sé e di quel che ha fatto o deciso. Quando invece parliamo di Monsanto, Syngenta, Bayer sembra di parlare di società anonime, non si sa chi c’è, cosa pensa, cosa vuole e che progetti ha, perché non c’è modo di associare un nome a un’azione. Questo, se ci penso bene, non mi piace affatto. Perché in generale un po’ di trasparenza e rintracciabilità, quando si parla di cibo, farebbe piacere, a tutti i livelli, etichette comprese.

Ma — per quanto possa sembrare paradossale — tutto quel silenzio ha anche un lato positivo. Le multinazionali, parrebbe, tacciono ma ascoltano. Nel mese di agosto, la Monsanto ha comunicato al mondo che visto che in generale le popolazioni europee non sembrano propense al consumo di Ogm e che non c’è un forte appoggio politico, l’azienda, in Italia, si concentrerà sulle varietà di mais non Ogm, studiando varietà per l’agricoltura convenzionale, con particolare attenzione al risparmio idrico. Così la situazione è abbastanza surreale: da un lato i giornali si fanno in quattro per difendere gli Ogm in Italia, gli “scienziati veri” gli danno una mano, alcuni agricoltori arrivano addirittura a seminare illegalmente mais Ogm con tutto quel che ne consegue in termini di provvedimenti e — ancora! — spazi sui giornali, e tutto questo senza prendere mai in considerazione le volontà, chiaramente espresse, dei cittadini; dall’altro l’azienda che dovrebbe beneficiare di tanto scalmanarsi in sua difesa che fa? Prende atto dell’ostilità del pubblico italiano e dice d’accordo, cambiamo strategia, in Italia lavoreremo sul mais convenzionale. È interessante, come fenomeno.

Le ragioni del no agli Ogm in agricoltura, si basano su considerazioni più complesse e articolate del ritornello “fa male/non fa male”, “conviene/ non conviene”: esse riguardano un modello di agricoltura, alimentazione, ecologia, solidarietà, sviluppo, cultura ed economia che abbiamo già raccontato mille volte e che viene praticato ogni giorno, sia dagli agricoltori sia dai consumatori sia dalle tantissime associazioni della task force per un’Italia libera da Ogm le quali, e tra queste c’è Coldiretti, lavorano per proteggere filiere compromesse anche da normative insensate. Sono ragioni che riguardano da vicino un modo rispettoso, prudente e gentile non solo di fare reddito, ma anche di fare scienza.

Chi porta ad esempio la Spagna dimentica la significativa quota di biodiversità che questa nazione ha perso aprendo alle coltivazioni Ogm e con essa la sua immagine nel campo agroalimentare di qualità. La Francia ha infatti detto no agli Ogm proprio per difendere le sue produzioni tipiche, fonte economica importante. Negli stessi Stati Uniti il dibattito sull’inutilità di queste coltivazione è in costante crescita. Così come cresce in ogni parte del mondo la produzione di mangimi Ogm free , e la questione del benessere animale trova sempre più consensi e buone pratiche. Tutti questi comportamenti fanno parte di un pensiero scientifico in grande espansione.

Ma la ragione principale si chiama sovranità alimentare, ed è una bellissima espressione, coniata quasi vent’anni fa da La Via Campesina, per indicare il diritto di ogni paese (e dunque dei suoi cittadini, del suo popolo) ad avere il controllo politico su quel che si coltiva e si mangia sul proprio territorio, cioè a decidere le proprie politiche agricole in base alle proprie necessità nutrizionali, economiche, culturali ed ecologiche. Questo diritto è fondamentale per il benessere di un popolo, quel benessere che non si misura con il Pil ma con strumenti ben più accurati e — lasciatemelo dire — scientifici: si misura andando a rilevare la quantità di glifosato presente nelle acque di falda, si misura monitorando le incidenze di determinati tipi di tumori, si misura rilevando le competenze alimentari diffuse tra le giovani generazioni, si misura in termini di identità, quella stessa identità che rende così economicamente rilevante il nostro made in Italy, il quale — e parlo da gastronomo — non si valuta all’atto della vendita o della degustazione, non inizia quando ci si siede a tavola davanti a un piatto. Il made in Italy inizia quando un agricoltore decide cosa seminare e sceglie un seme che a sua volta ha una storia, un’identità e un legame con un luogo.

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Qualche lettore di Eddyburg forse si ricorderà di un appello lettera aperta pubblicato anni fa a proposito di energia nucleare, a contestare nel metodo esattamente quanto qui Petrini chiama la contrapposizione fra scienziati veri, obiettivi, e approccio emotivo, sotto sotto superstizioso, che si oppone al progresso umano esclusivamente sulla base dell'istintiva diffidenza verso ciò che turba il proprio primitivo animalesco ordine mentale. Diceva, quell'appello poi ripreso in forme lievemente diverse anche su una pubblicazione tematica di Italia Nostra, che una centrale nucleare, esattamente come una produzione Ogm, è difficile da assimilare a una provetta, o a un centro ricerche in un dipartimento universitario, mentre va letta invece nei suoi rapporti col territorio, e quindi alla luce delle discipline territoriali, le quali non sono meno scientifiche di altre solo perché i loro cultori non indossano un camice bianco, magari sulle pagine dei giornali a dare maggior autorevolezza e respiro universale al loro punto di vista. E il concetto di sovranità alimentare citato sempre da Carlo Petrini, invece, queste competenze e prospettive le comprende eccome, proiettandole appunto sul territorio e le sue dinamiche reali, a cui i camici bianchi dovrebbero fare il favore di portare un minimo di rispetto, almeno quando escono dal laboratorio. A meno che non considerino, dall'alto delle proprie conoscenze, comunità scientifica solo il campo allargato delle loro parziali ricerche, luogo legittimato a ricomporre ogni contraddizione. Ma siamo certi che non è così (f.b.)
Cfr. Il Territorio del Nucleare, Eddyburg Archivio ottobre 2010

Una vera e propria rassegna di ovvietà che pare presa di peso da certi supplementi illustrati patinati da anticamera del dentista, non si può fare di meglio? In fondo il materiale non mancherebbe: basta provare a capirlo, prima di scrivere. La Repubblica, 28 settembre 2014 (f.b.)

C’erano una volta i vecchi giardinetti. Ora quello che è stato per anni l’unico, striminzito, assediato presidio della natura nelle periferie delle città, si appresta a essere travolto da un’ondata di verde che trasformerà radicalmente i paesaggi cittadini. Boschi verticali e foreste, corridoi e tetti verdi, orti urbani e serre idroponiche. Le nuove politiche lanciate dalle amministrazioni comunali di mezzo mondo promettono di fare delle città luoghi dove la natura si intreccia sempre più col vecchio paesaggio di asfalto e cemento. C’è perfino chi vorrebbe nominare già oggi Londra “parco nazionale”, visto che il 47 per cento del suo territorio è verde. Ormai è chiaro non solo ai soliti ambientalisti, ma anche ad amministratori avveduti e imprenditori illuminati: sarà nelle metropoli che si combatterà la battaglia per la qualità della vita, che sarà scavata la trincea della resistenza ai cambiamenti climatici, che si lotterà per sfamare una popolazione mondiale che entro fine secolo potrebbe arrivare a tredici miliardi di persone.

Le città ospitano più della metà della popolazione mondiale, consumano due terzi dell’energia e producono oltre il 70 per cento delle emissioni di CO2 responsabili del riscaldamento globale. Bastano queste cifre a far capire la portata di una sfida che si gioca attraverso un ventaglio di iniziative: messa in efficienza del vecchio patrimonio edilizio (come ha appena ribadito di voler fare il sindaco di New York), costruzione di nuovi quartieri carbon neutral, diffusione delle energie alternative, sistemi di trasporto sostenibile a zero emissioni e, soprattutto, integrazione della natura nel tessuto urbano, compresa la diffusione di piccole aree paludose capaci di depurare le acque reflue. «Il verde in città significa maggiori capacità di assorbimento delle acque piovane e riduzione dei rischi di inondazione, temperature più basse e quindi minori esigenze di raffreddamento, oltre che maggiore vivibilità», ricorda Piero Pelizzaro, responsabile della cooperazione internazionale del Kyoto Club. Detto in altre parole, gli ecosistemi che si fanno spazio tra tangenziali e cavalcavia ci offrono quello che Yvonne Baskin in un saggio ha ribattezzato “Il pasto gratis”: una serie di preziosi servizi come la pulizia dell’aria, la depurazione dell’acqua, l’eliminazione di insetti fastidiosi. «Si pianta erba ovunque è possibile, persino, come in Germania, tra i binari dei tram», dice ancora Pelizzaro. «Dei tetti verdi e dei giardini verticali che assorbono acqua piovana e tengono freschi gli edifici si è parlato già molto», aggiunge. «Anche l’Italia, cronicamente in ritardo su questi temi, ha iniziato a muoversi con l’installazione voluta da Renzo Rosso per la nuova sede di Diesel a Breganze o con il bosco verticale creato con il Progetto Porta Nuova nel centro Direzionale di Milano. Ciò che è meno noto è il proliferare delle foreste e delle aree umide urbane.

Sempre più spesso il compito di recuperare le vecchie zone industriali o le infrastrutture dismesse, come la High Line di New York, è affidato al lavoro della natura, anche perché più economico rispetto alle costose demolizioni ». Da questo punto di vista uno progetti più interessanti già realizzato è quello di Vitoria-Gasteiz, nei Paesi Baschi spagnoli, European Green Capital 2-012 , dove è stata creata una “cintura verde” che abbraccia la città con tre fasce concentriche che mettono in comunicazione i parchi del centro con le foreste e le montagne dei dintorni, passando attraverso l’ex area industriale. Anche l’Epa, l’agenzia statunitense per l’ambiente, ha scelto di riqualificare nientemeno che Detroit, capitale della deindustrializzazione, attraverso il progetto Greenstreetscape che prevede il coinvolgimento dei cittadini nella creazione di nuovi spazi verdi «casa per casa». Un’operazione destinata a ripetersi in molte altre metropoli, conquistando il consenso, come hanno captato le attente antenne di quegli scopritori di nuove tendenze che sono i pubblicitari. Non a caso hanno scelto per uno degli ultimi spot per Tim un gruppo di guerrila gardening che notte tempo trasforma in aiuole fiorite i brulli e abbandonati ritagli di terra delle nostre città.


«Il summit di New York. "Bisogna invertire la rotta", tutti d’accordo al vertice Onu sul riscaldamento globale. Ma Obama ha le mani legate. Gli Usa, in pieno boom petrolifero, non firmeranno trattati internazionali». Il manifesto, 24 settembre 2014

Nella time line dei sum­mit ambien­tali quella di ieri a New York è stata una tappa più che altro sim­bo­lica in attesa del ver­tice «di lavoro» in pro­gramma a Parigi a fine 2015 da cui dovrebbe sca­tu­rire un vero pro­gramma. Dal quar­tiere gene­rale Onu, alla­gato durante l’uragano Sandy due anni fa, il segre­ta­rio gene­rale Ban Ki-Moon ha dichia­rato che è essen­ziale che il mondo diventi carbon-neutral entro la fine del secolo. Sul podio ieri si sono suc­ce­duti ora­tori come il sin­daco di New York Di Bla­sio, Al Gore e Leo­nardo di Caprio, ognuno ha par­lato degli effetti distrut­tivi ormai incon­tro­ver­ti­bili di un clima in uno sta­dio avan­zato di muta­mento e del tempo ormai in sca­denza per agire.

Ma il sum­mit sul clima ha visto il pre­si­dente degli Stati Uniti in una posi­zione fin troppo con­sueta. Obama ha esor­tato i 125 capi di stato che hanno accolto l’invito del segre­ta­rio Ban Ki-Moon, a «intra­pren­dere passi con­creti» per limi­tare le emis­sioni serra, riba­dendo che non agire oggi sul riscal­da­mento glo­bale equi­var­rebbe a un tra­di­mento delle gene­ra­zioni future. Pur­troppo anche que­sta volta, come in tanti pre­ce­denti con­sessi, i lea­der in pla­tea hanno leci­ta­mente potuto chie­dersi da che pul­pito è arri­vata la predica.

Il fatto è che dalla disfatta di Kyoto la posi­zione ame­ri­cana sul clima è stata segnata dall’impotenza se non dalla col­pe­vole iner­zia. Il pro­to­collo di Kyoto venne sottoscritto nel 1997 da Bill Clin­ton ma non fu mai rati­fi­cato da un con­gresso ostile e for­te­mente influen­zato dalle potenti lobby petro­li­fere Usa. A quella scon­fitta ne seguì una incas­sata per­so­nal­mente da Obama con il nulla di fatto a Cope­n­ha­gen nel 2009, all’inizio del suo mandato.

Le pro­spet­tive per Parigi non si pro­fi­lano migliori. La firma di un accordo inter­na­zio­nale vin­co­lante richiede una mag­gio­ranza di due terzi nel par­la­mento ame­ri­cano. Impen­sa­bile nell’attuale clima poli­tico che fra meno di due mesi potrebbe addi­rit­tura vedere entrambe le camere in mano a un par­tito che sposa uffi­cial­mente il nega­zio­ni­smo cli­ma­tico. Fra i prin­ci­pali osta­coli alle effet­tive riforme spicca quindi un sostan­ziale ecce­zio­na­li­smo ame­ri­cano per cui gli Usa non hanno ad esem­pio mai sot­to­scritto i trat­tati inter­na­zio­nali con­tro la discri­mi­na­zione delle donne e per l’eliminazione della tor­tura, delle mine anti-uomo e delle bombe a grap­polo. In ognuno di que­sti casi l’argomento uffi­ciale è stata la tutela della pre­ro­ga­tiva «indi­pen­dente» degli Stati Uniti.

Pre­ce­denti che non depon­gono certo a favore della bat­ta­glia con­tro le emis­sioni atmo­sfe­ri­che, dove sono in gioco miliardi di fat­tu­rati e pro­fitti indu­striali. Obama ha quindi avuto un bel esor­tare ma la realtà è che ha le mani legate. Eppure senza una piena par­te­ci­pa­zione ame­ri­cana non sono rea­li­sti­che le pro­spet­tive per inver­tire la rotta. Il pre­si­dente Usa ieri ha riman­dato l’annuncio di nuovi obiet­tivi a lungo ter­mine al 2015. John Pode­sta, segre­ta­rio per il clima e l’energia, ha con­fer­mato che biso­gnerà aspet­tare il primo tri­me­stre del pros­simo anno.

Obama si è dun­que limi­tato a dichia­ra­zioni di gene­rico intento e a ricor­dare le sue recenti riforme come le nor­ma­tive varate a giu­gno per il con­te­ni­mento delle emis­sioni e la ridu­zione del 30% entro il 2030 dell’inquinamento delle cen­trali ter­mi­che a car­bone rispetto ai livelli del 2005. Un passo con­creto che gli è valso l’aperta oppo­si­zione di molti espo­nenti, anche demo­cra­tici, degli stati in cui l’industria carboni­fera è più forte. E que­sto è il discorso emerso come cen­trale a New York. Tutti gli inter­ve­nuti hanno infatti ripe­tuto che una effi­cace poli­tica ambien­tale pre­sup­pone una effet­tiva riforma eco­no­mica, che non può esserci pro­gresso sul clima senza una fon­da­men­tale revi­sione delle pra­ti­che indu­striali. Nelle mani­fe­sta­zioni popo­lari orga­niz­zate alla vigi­lia del sum­mit Naomi Klein aveva riba­dito il con­cetto di sostan­ziale «incom­pa­ti­bi­lità ambien­tale» dell’imperante libe­ri­smo capi­ta­li­sta. Un con­cetto ripreso anche da molti rela­tori all’interno del palazzo di vetro, come Leo­nardo Di Caprio. «Dob­biamo smet­tere di dare agli inqui­na­tori la licenza che hanno avuto nel nome del libero mer­cato — ha detto l’attore rivolto ai capi di stato — non meri­tano i nostri con­tri­buti fiscali ma sem­mai il nostro attento scru­ti­nio». Un idea riba­dita anche dall’ex pre­si­dente mes­si­cano Felipe Cal­de­rón che ha ricor­dato che glo­bal­mente il com­parto ener­ge­tico gode ancora di 600 miliardi di dol­lari di sus­sidi e incen­tivi pub­blici rispetto ai soli 100 a favore delle ener­gie rinnovabili.

È una realtà par­ti­co­lar­mente evi­dente nel paese ospite. Nono­stante i nuovi limiti impo­sti al car­bone infatti, gli Stati Uniti sono nel pieno del mag­giore boom petro­li­fero dagli anni 40, un enorme revi­val degli idro­car­buri che ha il tacito appog­gio di un’amministrazione che ha auto­riz­zato un numero record di esplo­ra­zioni off shore. Gra­zie a nuove tec­ni­che di estra­zione super inqui­nanti come il frac­king, sono diven­tate acces­si­bili enormi riserve di gas e petro­lio. Acqua e agenti chi­mici iniet­tati ad alta pres­sione hanno «libe­rato» metano pro­fondo e petro­lio. Nuovi oleo­dotti si sno­dano dai pozzi del Dakota e dalle sab­bie bitu­mi­nose del Canada verso le raf­fi­ne­rie del Golfo del Messico.

Il boom sta tra­sfor­mando l’America da impor­ta­trice a espor­ta­trice netta di idro­car­buri. Le impor­ta­zioni infatti sono dimi­nuite del 50% solo negli ultimi 7 anni e il paese sarebbe pra­ti­ca­mente auto­suf­fi­ciente se non fos­sero le stesse com­pa­gnie petro­li­fere a non volerlo. È di gran lunga più lucroso gestire un mar­gine di scar­sità, non satu­rare il mer­cato interno e otti­miz­zare invece quote di gas e petro­lio su quello inter­na­zio­nale. In que­ste con­di­zioni si pre­vede un aumento del 60% della domanda di idro­car­buri nei pros­simi 20 anni — l’esatto oppo­sto di ciò che è stato auspi­cato nei discorsi di ieri.

In que­sta sbor­nia di car­bo­nio, il ruolo poli­tico è stato di col­pe­vole acquie­scenza nel nome di un'imprescin­di­bile ripresa eco­no­mica. Enne­sima con­ferma che forse solo quando i danni eco­no­mici del muta­mento cli­ma­tico - il calo dei con­sumi nel vor­tice artico dello scorso inverno, ad esem­pio, o la dram­ma­tica sic­cità nel paniere cali­for­niano - supe­re­ranno i rapidi pro­fitti petro­li­feri, i poli­tici ritro­ve­ranno la «lun­gi­mi­ranza». Salvo poi essere troppo tardi.

Quello dell'orsa inopinatamente abbattuta non è un problema da animalisti romantici e mollaccioni, o di caso specifico, ma pone una questione di metodo nel nostro approccio all'ambiente e al territorio, fondamentale nel millennio dell'urbanizzazione planetaria. Corriere della Sera, 12 settembre 2014, postilla (f.b.)

L’epilogo della storia di Daniza è stato definito il fallimento di una convivenza. Il fallimento, a mio parere, è nostro e la convivenza di fatto non è mai iniziata né mai si sono creati corretti presupposti perché comunque potesse durare nel tempo. Il presupposto fondamentale è culturale. La salvaguardia della fauna selvatica si fonda su conoscenze scientifiche di ecologia, biologia, fisiologia, comportamento delle diverse specie. La gestione della fauna selvatica è una disciplina inserita nei corsi di laurea e tema anche di prestigiosi master. È stata introdotta da decenni proprio per rispondere alla necessità di formare competenze specifiche in materia di valorizzazione del nostro patrimonio faunistico. Oggi abbiamo una generazione preparata ad affrontare temi di gestione ambientale che opera anche nelle amministrazioni locali. Ma evidentemente non basta. La presenza dell’orso in Trentino era stata accolta positivamente in quanto garanzia di buona qualità di quel territorio. Ma quando mamma Daniza ha reagito verso un uomo invadente solo per proteggere la prole è stata dichiarata «animale problematico». Il resto è cronaca nota. Si poteva forse non arrivare al triste epilogo con un maggiore e più capillare impegno di educazione.

Gli orsi se non disturbati non attaccano. Va reso noto il loro comportamento, le loro esigenze e cosa fare in caso di incontri ravvicinati. In altri Paesi questo è fatto tutto l’anno con operatori specializzati e cartellonistica sparsa ovunque. In caso di razzie di bestiame i rimborsi sono garantiti e veloci. Insomma si opera per attenuare tensioni e conflitti fra interessi opposti. Nel caso di Daniza, al contrario si è creata una pressione quasi ossessiva, una sorta di ridicola sfida antica fra uomo e fiera. Mamma orsa inspiegabilmente andava catturata, al di là di ogni ragione della scienza e dei sentimenti. La cattura, si sa, prevede un’anestesia, operazione di per sé complessa e delicata. Ho consultato un po’ dell’ampia letteratura scientifica e ho scoperto interessanti dettagli. Ad esempio ci sono aree del corpo più sensibili su cui indirizzare l’anestetico; periodi più favorevoli per farlo, ad esempio quando l’orso entra in stato di ipotermia; è ovviamente indispensabile una valutazione attenta del dosaggio. Infine vanno rilevati i parametri fisiologici di base per garantire l’eventuale trasporto. Per Daniza qualcosa non ha funzionato ed è morta. Aveva solo reagito per difendere i suoi cuccioli e ora, rimasti soli, anche su di loro grava un destino incerto.

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Forse hanno a modo loro ragione, quelli che liquidano la faccenda con sorrisetto da compatimento, come romanticismo da orsacchiotti, ma senza sapere che proprio l'orsacchiotto di peluche segna un passaggio fondamentale nell'idea di gestione del territorio naturale in epoca urbana e industriale. Il pupazzetto “Teddy Bear” nasce come immagine popolare, infatti, quando il presidente americano Teddy Roosevelt manifestò un primo gesto di riflessione ufficiale sul nostro rapporto non meccanico con l'ambiente, proprio durante una battuta di caccia all'orso, rifiutandosi di abbatterne uno ferito. Il fatto è datato 1902, e pochi anni più tardi iniziavano ad esempio le riflessioni sulla “megalopoli verde” dell'Appalachian Trail, appendice naturale del grande sistema insediativo e socioeconomico delle metropoli atlantiche che un paio di generazioni più tardi la geografia avrebbe ribattezzato Bos-Wash. Un progetto di pianificazione regionale sviluppato da un tecnico del settore parchi federale molto sponsorizzato dal Presidente. In altre parole, col gesto originario di pietà di Roosevelt nasce la prima scintilla di una consapevolezza piuttosto dura da affermare: non solo siamo parte integrante dell'ambiente come esseri umani, ma anche le nostre attività di trasformazione dell'ambiente, l'industria, l'agricoltura, l'urbanizzazione, in esso si inseriscono e con esso si devono confrontare in un dialogo. Dialogo che deve farsi sempre più stretto, va quasi da sé, nel millennio dell'urbanizzazione del pianeta. Nel millennio in cui passa quasi inosservato quel particolare, dell'orsa abbattuta nel suo territorio, a pochi minuti da un centro abitato. Ne dobbiamo fare di strada, e non solo per inventarci migliori dosaggi di sedativo (f.b.)

«Le maggiori istituzioni internazionali individuano la crescita come panacea universale di tutti i problemi economici. Ma il riconoscimento dei difetti dell’accumulazione capitalistica è il frutto di un’analisi critica dello scambio metabolico tra società e natura». Sbilinciamoci.info, 25 luglio 2014

La logica dell'accumulazione capitalistica contrasta con l'etica kantiana di un sistema di regole fondato sui limiti imposti all'uomo dal pianeta Terra. «Anche oggi», notava intorno alla metà degli anni '60 Kenneth Boulding, «siamo molto lontani dall'aver effettuato quei cambiamenti morali, politici e psicologici che dovrebbero essere impliciti nella transizione dalla prospettiva del piano illimitato a quella della sfera chiusa». Eppure, c'è chi fa finta di niente e nega che il pianeta Terra abbia alcun limite (...). Dieci anni prima del collasso del sistema finanziario globale, l'economista statunitense Richard A. Easterlin glorificava nel suo libro la Crescita trionfante. Anche oggi, cinque anni dopo l'inizio della crisi finanziaria globale, le principali pubblicazioni di tutte le maggiori istituzioni internazionali come la Banca Mondiale (Bm), Il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), l'Unione Europea (Ue) o l'Ocse individuano la crescita come panacea universale di tutti i problemi economici. In paesi come la Germania o il Brasile l'accelerazione della crescita economica è prevista per legge. Non sono previsti né limiti né alcuna gradualità nella crescita.

Nei consessi di economisti non sembra esserci alcuna tendenza a domandarsi se i gravi problemi economici, sociali e ambientali che vengono discussi quotidianamente sui giornali possano essere il risultato di decenni di crescita capitalistica. E lo stoicismo di tali studiosi non è stato scalfito nemmeno da eventi disastrosi quali quelli di Fukushima e della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, o dalle «condizioni climatiche eccezionali» degli ultimi anni. Quasi tutto il pensiero economico critico è stato soffocato dall' economia mainstream – quasi tutto, poiché alcune isole di pensiero critico sono riuscite a costruire strutture teoriche avanzate, idee alternative solide e visioni lungimiranti che le torbide inondazioni del mainstream non si sono dimostrate in grado di spazzare via.

Le strutture teoriche rilevanti in questo scenario comprendono la termodinamica economica di Nicholas Georgescu-Roegen, una teoria che riconosce il ruolo dello scambio metabolico tra società e natura. Le attività umane e lo sviluppo sociale sono contestualizzati nel tempo e nello spazio e non vivono in un ambiente artificiale privo di qualunque dimensione spazio-temporale, popolato da degli omuncoli quali gli homini oeconomici protagonisti delle teorie mainstream .

I «limiti alla crescita» discendono in termini logici dall'estensione limitata del pianeta e dalle caratteristiche peculiari del processo di accumulazione capitalistica mondiale.

Nel 1870, un secolo prima che il Club di Roma lanciasse il suo grido di allarme, Friedrich Engels discusse i limiti della natura nel suo La dialettica della natura: «Non dovremmo glorificare noi stessi contando ad ogni piè sospinto le conquiste del genere umano sulla natura. Per ciascuna di queste conquiste la natura si prende la sua rivincita [...] Cosicché, ad ogni passo, siamo obbligati a ricordare di non essere in grado di dominarla in alcun modo [...] ricordando al contrario di esserne parte integrante con la nostra carne, il nostro sangue ed il nostro cervello e di esistere nel mezzo di essa [...] e tutta la nostra supremazia su di lei deriva dal vantaggio umano sulle altre creature dato dal saper apprendere le sue leggi e dal poterle potenzialmente applicare in modo corretto».

In altre parole, il riconoscimento dei limiti della crescita e dell'accumulazione capitalistica è anche il frutto di un'analisi critica dello scambio metabolico tra società e natura. In un'economia capitalistica questo scambio è espansivo, non solo per il «soddisfacimento dei bisogni-godimento della vita», indentificato da Nicholas Georgescu-Roegen come uno dei motori principali dell'attività economica, ma anche per il ruolo svolto dalla ricerca del profitto e dall'accumulazione compulsiva come Karl Marx notava nel primo libro del Capitale: «Accumulare, accumulare! Questa l'esortazione di Mosè e dei profeti!» (...). Nell'accumulazione capitalistica, uno stato di crescita stazionaria dell'economia è pressoché impossibile. (...) Lo stato stazionario potrebbe realizzarsi solo in termini approssimativi e in un orizzonte temporale limitato; presto o tardi collasserà».

A questi argomenti Georgescu-Roegen aggiunge la fondamentale conclusione che, chiunque «creda di poter disegnare un progetto mirato alla salvezza ecologica dell'umanità non ha compreso né la natura dell'evoluzione né quella della storia».

Herman E. Daly, uno dei principali difensori dell'economia dello stato stazionario, rappresenta i sistemi economici come dei cicli di produzione e di consumo, di estrazione di risorse dall'ecosistema e di emissioni che vi riaffluiscono. Ma, facendo ciò, egli ignora l'importante intuizione di Georgescu-Roegen sulla base della quale una dinamica analoga a quella disegnata da Daly può forse essere vera dal punto di vista quantitativo ma non può di certo esserlo da quello qualitativo, dal momento che l'entropia tenderà a crescere in modo irreversibile in questi cicli.

Assumendo come valide le leggi della termodinamica, uno stato stazionario è dunque impossibile. Nondimeno, dati i noti limiti delle risorse naturali e l'odierna realizzabilità di numerose tecniche di riduzione delle emissioni, una diminuzione del consumo della Terra in chiave ecologica è oggi un imperativo assoluto.

I movimenti sociali stanno reclamando esattamente questo, basando le loro rivendicazione sul «programma bioeconomico minimo» che si fonda sulle otto massime di Nicholas Georgescu-Roegen, suggerite nel 1975 come una sorta di imperativo ecologico.

Il suo primo punto riguarda il disarmo degli eserciti; nel secondo, egli promuove un sostegno universale rivolto verso l'indipendenza nello sviluppo dei popoli e degli individui capace di garantire a tutti il godimento delle condizioni materiali proprie di una vita dignitosa; nel terzo, viene sostenuta la necessità di una riduzione nelle dimensioni demografiche del pianeta tale da rendere possibile il sostentamento di tutti gli esseri umani attraverso i prodotti dell'agricoltura organica; il quarto, il quinto ed il sesto punto sono connessi al tema della riduzione degli sprechi vertendo rispettivamente sulla necessità di misure volte al risparmio energetico, al blocco della produzione dei beni di lusso ed alla rimozione degli incentivi allo spreco e al sovraconsumo incoraggiati dalla moda. Giunto al settimo punto, Georgescu-Roegen afferma la necessità di una progettazione dei beni che preveda la loro riparabilità e ne riduca al massimo la potenziale obsolescenza.

Infine, contrastando la globale tendenza verso l'adozione di modelli capaci di garantire una costante accelerazione dei processi produttivi, egli propugna l'opposta necessità dell' «imparare a rallentare».

Anche Hermann Scheer ha definito un «imperativo energetico» identificandolo come uno strumento utile allo sviluppo di azioni e obiettivi politici in grado di tener conto e di affrontare i limiti, ormai tangibili, all'utilizzazione delle risorse naturali e le pressioni sulla Terra.

L'ipotesi dell'«astronave Terra» potrebbe essere presa in considerazione, nella logica proposta da Scheer, solo nel caso in cui non prevedesse l'utilizzo di carburanti fossili ma fosse in grado di convertire in energia i raggi solari. In altre parole, il sistema energetico della Terra dovrebbe abbandonare l'attuale schema di alimentazione basato sul consumo delle risorse fossili esauribili, convertendosi altresì ad un sistema aperto dove i raggi solari costituiscano la fonte unica di sostentamento energetico.

Altrimenti, i «passeggeri» potrebbero finire come Phileas Fogg nel Giro del mondo in ottanta giorni di Julius Verne, dove, come notato da Peter Sloterdijk, «...giunto all'ultima tappa della circumnavigazione, la tappa atlantica [...], esaurite le scorte di carbone [...] egli comincia a bruciare la parte superiore della struttura lignea della sua stessa navicella nel tentativo di continuare ad alimentare le camere di combustione del motore. Con questa immagine della navicella di Phileas Fogg in preda all'autocombustione, Julius Verne ha fornito niente di meno che una metafora, su scala mondiale, dell'età industriale».

Qui bisogna aggiungere solo che la rotta e la velocità della barca sono determinate dalla compulsione per l'accumulazione capitalistica; solo con questo vincolo il capitano e il suo equipaggio sono pronti a navigare attorno al mondo e, inoltre, a farlo ad una velocità adeguata a raggiungere lo scopo in un tempo fortemente compresso come gli ottanta giorni di Julius Verne.

Aprire il sistema energetico del pianeta alla potenza del sole è ciò che realmente conta. Tuttavia, per assicurare che tale trasformazione non prenda le sembianze delle teorie economiche dello stato stazionario criticate da Georgescu-Roegen o delle iniziative per la decrescita, la ristrutturazione del sistema energetico planetario dovrà essere connessa con le trasformazioni sociali già in atto in alcune parti del mondo e alla base dell'«economia della solidarietà»: produzione cooperativa, protezione dei beni pubblici, democrazia economica nelle imprese, pianificazione economica dov'è utile e necessaria e reinserimento del mercato nella società

(traduzione di Dario Guarascio).

« Il premio Nobel Stiglitz ha dei dubbi: «Molte regole esistono proprio per proteggere i lavoratori, i consumatori, l’ambiente. E furono decise in risposta a una domanda democratica. Nei patti segreti per la de-regolamentazione rischia di riaffiorare una gara al ribasso». La Repubblica, 21 luglio 2014 (m.p.r.)

New York. Nuovi patti di libero scambio vengono negoziati in gran segreto. «Siamo costretti a inseguire fughe di notizie». A lanciare per primo l’allarme è stato Joseph Stiglitz, premio Nobel dell’economia, uno dei pensatori più ascoltati dalla sinistra americana. Tra i pericoli che Stiglitz denuncia, quello che ci riguarda ha una sigla altrettanto misteriosa dei suoi contenuti. Ttip, non è un acronimo entrato nel linguaggio corrente. Sta per Transatlantic Trade and Investment Partnership. Se va in porto, sarà il più ambizioso accordo di libero scambio della storia. Una fase due della globalizzazione, dopo quella che nel dicembre 2001 spalancò alla Cina le porte dell’Organizzazione mondiale del commercio, quindi dei nostri mercati.

In Europa, del Ttip si parla a sprazzi, solo quando viene agitata una minaccia di “veto” per motivi che poco hanno a che vedere coi contenuti di quel patto. Angela Merkel ha evocato rappresaglie contro il Ttip, per protesta verso lo spionaggio della National Security Agency e della Cia in Germania. Francois Hollande ha fatto lo stesso per tentare di ridurre la maxi-multa americana contro la più grande banca francese, Bnp Paribas. Ma che cosa ci sia dentro la “scatola nera” del Ttip, pochi lo sanno, perfino ai vertici dei governi. Se Stiglitz parla di «segretezza eccessiva», c’è di che far scattare sospetti e diffidenze anche in Europa. Perché dentro le cabine di regia dei tecnocrati, i negoziati avanzano comunque, e le loro conseguenze si faranno sentire sulle economie nazionali, l’occupazione, il livello di tutela dei consumatori.
La nuova intesa Usa-Ue su commerci e investimenti riguarda il più vasto mercato del mondo: 45% del Pil mondiale è racchiuso nelle due grandi economie dell’Occidente, l’americana e l’europea. Tra i fautori più accesi del Ttip figurano Barack Obama e il premier inglese David Cameron, in omaggio all’ideologia liberoscambista che accomuna i Paesi anglosassoni. La U. S. Chamber of Commerce che è una specie di Confindustria, fa la stima seguente: se va in porto, farà salire di 120 miliardi di dollari il volume degli scambi tra le due sponde dell’Atlantico. Quindi potrebbe dare una spinta alla crescita globale, e soprattutto a quella dell’Eurozona che ne ha un gran bisogno. I calcoli del Centre for Economic Policy Research di Londra, fatti propri dalla Commissione di Bruxelles, dicono che da un simile accordo l’Unione dei 27 ci guadagnerebbe 120 miliardi di euro di reddito in più all’anno, l’America 95 miliardi. L’export europeo salirebbe del 28%, nel lungo periodo.
Due milioni di posti di lavoro in più, è la stima ventilata da Cameron. 545 euro all’anno per la famiglia media in Europa, è il vantaggio stimato da Londra: molto più di quel che il governo Renzi ha potuto fin qui aggiungere alle buste paga. Ma uno studio dell’economista Dennis Novy, disponibile sul sito La-Voce.info, ci ricorda che le medie sono sempre ingannevoli. Il vero nodo, spiega Novy, è capire chi sarebbero i vincitori e i perdenti.
Il Ttip interverrà non tanto sui dazi (già ridotti dalle liberalizzazioni precedenti) quanto sulle barriere non tariffarie. Cioè normative che ostacolano la libera circolazione delle merci. Un settore che ne ricaverebbe soprattutto vantaggi è l’automobile, dove troppi standard di sicurezza dissimili tra le due sponde dell’Atlantico frenano l’export. Tra quelli che rischiano di perderci, sempre nell’analisi di Novy, c’è l’agricoltura mediterranea almeno in quei settori che hanno goduto di sostegni. Una partita molto delicata riguarda la sicurezza alimentare. Cioè la salute dei consumatori. Non solo ogm: in molti comparti dell’alimentazione ormai il consumatore europeo è protetto da regole più severe rispetto all’americano. Anche se in certi casi la salute diventa un alibi: tanti prodotti genuini della filiera made in Italy hanno sofferto “inique sanzioni” all’ingresso in America, per normative sanitarie che coprivano precisi interessi dei produttori locali.
Il Ttip può aprire il ricco mercato nordamericano a tanti prodotti italiani ancora in lista d’attesa. Ma chi garantisce che l’esito sarà davvero quello? Il problema del Ttip è che coincide con una fase di ripensamento critico sulla globalizzazione, di riflussi nazionalisti, e in particolare una diffusa “sfiducia nella delega” verso i tecnocrati europei. Il nuovo Europarlamento sarà un interlocutore coriaceo. In America la questione s’intreccia con le nuove normative sui mercati finanziari, soprattutto la legge Dodd-Frank che ha stabilito limiti e controlli più severi sulla finanza speculativa. Dentro il Ttip è previsto un arbitrato per dirimere conflitti fra gli Stati e i grossi investitori. Come dimostra l’affaire Bnp Paribas e la furia francese contro la maxi-multa, è un altro terreno minato.
Obama vorrebbe che questa globalizzazione 2.0 nascesse all’insegna di garanzie sociali, clausole sui diritti dei lavoratori, e regole a tutela dell’ambiente. Per lui il Ttip deve servire da modello ad un analogo patto trans-Pacifico dal Giappone all’Australia, con cui mettere alle strette la Cina e ogni forma di concorrenza sleale. Stiglitz ha dei dubbi: «Molte regole esistono proprio per proteggere i lavoratori, i consumatori, l’ambiente. E furono decise in risposta a una domanda democratica. Nei patti segreti per la de-regolamentazione rischia di riaffiorare una gara al ribasso». Obama vorrebbe firmare l’accordo prima della fine del suo mandato. Altrimenti a vararlo potrebbe essere Hillary Clinton: ironia della sorte, la moglie del presidente che avviò la prima globalizzazione, attraverso il Nafta (mercato unico dal Canada al Messico) e l’avvio dei negoziati con la Cina.

Riferimenti
Eddyburg si è più volte occupato di questa orrenda nuova creatura del finanzcapitalismo, nei confronti della quale il silenzio degli ambienti filogovernatori è assordante. Per comprendere meglio le caute critiche di Stiglitz vedi ad esempio l'articolo di Dario Guarascio, ripreso dal sito Sbilanciamoci.info

Una soluzione tecnologica è un passo in avanti, purché non venga applicata da sola, ma adeguata al contesto complesso di problemi in cui si inserisce. La Repubblica 25 giugno 2014, postilla (f.b.)

Cespugli di fiori e prati all’inglese al posto di paraboliche e panni stesi. Così potrebbe cambiare la vista dall’alto delle nostre città in base alla prima delibera del Comitato per lo sviluppo del verde urbano del ministero dell’Ambiente, che prevede incentivi fiscali fino al 65 per cento per chi trasforma il tetto di casa in un giardino pensile.

La terrazza condominiale e il lastrico solare che diventano un’oasi green , per godersi il panorama, prendere il sole o fare una festa, non è più solo un capriccio o un lusso: secondo il comitato di saggi che deve indirizzare i regolamenti attuativi della legge numero 10 del 2013, quella sullo sviluppo degli spazi verdi in città, è una metamorfosi da incoraggiare perché migliora le prestazioni energetiche degli edifici quanto l’installazione dei pannelli solari o la sostituzione degli infissi vecchi. Quindi deve godere degli stessi sgravi fiscali.

Diffusi soprattutto al centro sud, i lastrici solari sono una costante delle periferie italiane costruite a partire dagli anni Sessanta. Solo a Roma ce ne sono 20mila, per un polmone verde potenzialmente vasto 400 ettari: cinque volte Villa Borghese o 570 campi da calcio. Ma la delibera approvata in aprile può aiutare anche città poco verdi a riempirsi di parchi ad alta quota: a Mestre, per esempio, ci sono tanti lastrici e solo l’1 per cento di verde urbano. Per ottenere gli incentivi le strade sono due: presentare la certificazione che attesta il risparmio energetico, e in questo caso si arriva allo sgravio del 65 per cento sulla spesa sostenuta, o presentare l’intervento come ristrutturazione generale e sfruttare l’incentivo del 50 per cento.

Tantissimi i benefici: le “coperture verdi” riducono le emissioni di anidride carbonica, assorbono i rumori, filtrano le polveri sottili, trattengono l’acqua piovana alleggerendo la rete fognaria, tallone d’Achille degli allagamenti, migliorano l’isolamento termico dei palazzi e il panorama. «I giardini pensili cambiano anche il clima estivo nelle città perché smorzano l’isola di calore » spiega l’ingegnere Giorgio Boldini, membro del comitato e presidente dell’Associazione italiana verde pensile.

«A Roma in agosto la temperatura è più alta di cinque gradi rispetto alle campagne circostanti: il sole batte sull’asfalto, sui muri di cemento e questi si arroventano, riscaldano l’aria e il calore resta durante la notte. A Milano i gradi diventano anche nove in più». Nel suo giardino sul tetto, cento metri quadrati di erba e arbusti a quota 24 metri nel quartiere Prati, a Roma, Boldini ha addirittura piantato dei pioppi argentati che hanno raggiunto i sei metri di altezza. «Grazie a queste piante a casa non ho bisogno dell’aria condizionata» continua.

Non serve la bacchetta magica per mutare un lastrico in giardino ma basta sostituire le piastrelle con uno strato impermeabile, un altro inerte e qualche centimetro di terra. L’operazione costa sui 150 euro al metro quadrato. «Esattamente quanto ci vorrebbe per rifare un lastrico vecchio: per questo la trasformazione conviene quando bisogna ristrutturare » chiarisce Boldini. «L’intento della delibera è dire che si può trasformare un tetto in giardino e ricavarne un beneficio economico».

Questa posizione apre grandi prospettive per architetti e garden designer amanti della biodiversità: Roma, Milano, Napoli o Bari non conquisteranno certo lo splendore dei mitici giardini pensili di Babilonia, considerati una delle Sette Meraviglie dell’antichità, ma riconvertire in verde le distese di tegole e piastrelle impone un nuovo sguardo sulla progettazione. «Le città del futuro saranno sempre più integrate con gli elementi naturali» spiega Edoardo Bit, architetto specializzato nel verde verticale. «Questo significa riportare in quota i corridoi ecologici per le specie animali e vegetali spodestate dai palazzi».

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Non è certo un caso se pur in mezzo a tanti altri aggeggi assai più ingombranti e vistosi, dentro il quartiere forse più decantato d'Italia dei nostri tempi, spicchi fra tutti il cosiddetto Bosco Verticale: la natura va di moda, e in una certa prospettiva è pure ottima cosa provare a uscire dalle secche di certi approcci meccanici puri alla città che sull'arco del '900 hanno creato tanti guai. Ed è ulteriormente positivo che questo guardare alla natura non si declini più in quelle versioni ideologiche fallimentari della città giardino villettara, energivora, palesemente insostenibile e a orientamento automobilistico detta comunemente sprawl e non solo dai suoi critici. Però tocca come sempre distinguere la parte dal tutto: c'è una bella differenza tra un adeguamento edilizio e la cosiddetta “città del futuro”, esattamente come c'è un abisso fra un terrazzo, per quanto verdissimo e produttivo di cose pure da mangiare, e un parco metropolitano, una rete ecologica, un campo agricolo. Per esempio in questi giorni si sta sviluppando con l'iniziativa http://www.habitami.it/ una campagna pubblico-privata di riqualificazione energetica degli edifici, e va benissimo, ma nessuno si sognerebbe mai di definire, da sola, una cosa così “la città del futuro”. Ecco, proviamo a considerare sempre, tutto, nelle giuste proporzioni, non di più, non di meno (f.b.)

Uno strano appoggio di Legambiente al perverso lavorìo distruttivo che Renzi sta conducendo contro le tutele che ostacolano il suo FARE. Eppure, chi volesse suggerire qualcosa al PMR in materia di ambiente ed ecologia avrebbe un ricco elenco di atti da proporre, a partire da un serio piano nazionale per l'energia e della definizione dei "lineamenti fondamentali dell’assetto del territorio nazionale". Magari non affidandoli alla coppia Lupi-Realacci. Greenreport, 12 giugno 2014

Legambiente festeggia il Wind Day, la giornata del vento promossa da European Wind Energy Association e Global Wind Energy Council dimostrando che anche in Italia dal vento può arrivare energia pulita a prezzi competitivi. L’associazione, accusata proprio in questi giorni da una campagna del Fatto Quotidiano di essere troppo vicina alla “lobby” delle energie rinnovabili, rivendica il suo sostegno all’eolico e spiega che «Complessivamente sono 8.650 MW installati in Italia a fine 2013, tra impianti di grande taglia e mini eolico, che hanno consentito di soddisfare i fabbisogni di oltre 5,5 milioni di famiglie attraverso 14,8 TWh prodotti dal vento (quasi il 5% dei consumi complessivi). In ogni parte del mondo cresce la potenza eolica installata, che negli ultimi dieci anni è decuplicata, con oltre 300 GW installati e per il 2014 si stima che le nuove istallazioni potranno raggiungere i 47 GW di potenza».

Edoardo Zanchini, vice presidente di Legambiente, sottolinea che «L’eolico è oggi una realtà in Italia e in tutti i continenti che nessuno può più considerare marginale. n particolare in un periodo di crisi e di necessità di ridurre consumi e importazioni di fonti fossili, un Paese come l’Italia ha tutto da guadagnare nel puntare sull’eolico. Oggi siamo a un passaggio decisivo, perché le rinnovabili garantiscono oltre un terzo dell’energia elettrica consumata in Italia e possiamo costruire un modello energetico moderno e distribuito incentrato su efficienza energetica e rinnovabili».

Cogliendo l’occasione del Wind Day Legambiente lancia anche un appello al Governo Renzi perché intervenga rispetto ai troppi problemi e veti che fermano lo sviluppo di impianti eolici: «Il principale problema su cui intervenire riguarda le regole – dicono al Cigno Verde – perché in tante Regioni è di fatto impossibile realizzare nuovi impianti eolici: dalla Sicilia alla Sardegna, dall’Emilia Romagna alle Marche, norme e linee guida bloccano ogni tipo di progetto. Inoltre, le Soprintendenze sempre più spesso bloccano i progetti anche quando sono al di fuori di aree protette e di vincoli per un pregiudizio estetico sempre più evidente. Ultimo caso è il progetto di 4 torri bocciato nei comuni di Vado Ligure e Quiliano, fermato proprio per ragioni estetiche dopo aver avuto una VIA positiva da parte della Regione».

Secondo Zanchini, «Occorre fare finalmente chiarezza rispetto alle regole per l’approvazione degli impianti eolici, perché l’incertezza delle procedure sta diventando una barriera insormontabile ovunque. Basti dire che a fronte di 15 progetti presentati per impianti off-shore nessuno è in funzione o in cantiere, per l’assenza di qualsiasi riferimento normativo e per i veti di Regioni e Soprintendenze».

E l’eolico offshore, che vive da tempo un boom in Europa e che sta prendendo piede anche in Cina, mentre sono stati sbloccati da Obama progetti al largo della costa Atlanti Usa, in Italia non ha nemmeno in vigore le linee guida nazionali introdotte nel 2010, e Legambiente evidenzia che «La situazione di conflittualità è tale che vengono bocciati anche progetti a diversi chilometri dalla costa o davanti all’impianto siderurgico di Taranto». Per quesyto gli ambientalisti chiedono al Governo PD-NCD-centristi di «Intervenire con un provvedimento che affronti questi temi come fatto negli altri Paesi europei, dove la gestione dei progetti avviene in maniera molto diversa e trasparente».

Legambiente fa l’esempio della Spagna, dove il governo centrale ha approvato un piano che individua le aree incompatibili con la realizzazione di impianti eolici per ragioni ambientali o di rotte di navigazione commerciali o militari, «Così nelle altre aree si possono proporre impianti da sottoporre a valutazione». La Francia ha scelto una procedura differente, che prevede l’individuazione da parte del Governo delle aree dove realizzare impianti eolici off-shore e recentemente si sono aperte gare trasparenti per la selezione delle proposte, individuati incentivi ma anche vantaggi per i territori. Per Legambiente «Procedure analoghe devono essere introdotte anche in Italia in modo da superare l’attuale situazione, e permettere alle imprese di avere certezze rispetto agli investimenti, escludendo le aree incompatibili e fissando criteri per la selezione delle proposte».

Gli ambientalisti non sfuggono però ad un’altra tematica cara a chi, come Lipu e Italia Nostra, si oppone agli impianti eolici e sottolineano che «Un ritardo rilevante lo sconta il nostro Paese anche rispetto al tema dell’interazione tra impianti e avifauna, al momento infatti non vi sono regole nazionali o linee guida in materia. L’obiettivo anche qui dovrebbe essere di alzare il livello del confronto scientifico su questi temi, per aprire un confronto con Regioni, studiosi, associazioni, al fine di evitare o limitare al minimo gli impatti nei confronti della biodiversità, studiando attentamente le diverse situazioni territoriali e le specie presenti».

Zanchini conclude: «Al Governo chiediamo di cambiare marcia rispetto alla situazione degli impianti eolici nel territorio italiano. Per continuare nella crescita delle installazioni si deve intervenire con politiche attente ai territori, come la sostituzione e il repowering degli impianti esistenti, la realizzazione di nuovi progetti di piccola e grande taglia integrati nel paesaggio e poi attraverso impianti off-shore nei tratti di costa dove le condizioni di vento e ambientali lo consentono. Legambiente stima una potenzialità dell’eolico pari al 10% dei fabbisogni elettrici italiani complessivi con lungimiranti politiche di sviluppo degli impianti e di efficienza energetica, che sarebbero una garanzia importante per un futuro energetico realmente sicuro e pulito».

Una essenza vegetale non autoctona che si insinua ovunque nelle nostre città: come reagire o adeguarsi? Di norma evitando eccessi. Corriere della Sera, 24 maggio 2014, postilla (f.b.)

Gli alieni sono tra noi. Vedete quegli spilungoni che spuntano qua e là, senza dare troppo nell’occhio? Mai notati? Eppure, ormai, sono dappertutto. Una ventina d’anni fa erano ancora una curiosità venuta dalla Cina. Anche il mondo vegetale, però, adesso va più veloce, si globalizza. Una volta l’Abc lo imparavi da bambino (Abete, Bosso, Castagno…) e con quello arrivavi alla vecchiaia; oggi, nel giardino planetario, l’abbecedario va aggiornato in continuazione. A partire dalla A di Ailanto (nella foto) . Una pianta che tende a puntare in alto. Lo sottolinea il nome scientifico: Ailanthus altissima. Ribadito da altri appellativi popolari, come il Toccacielo. O l’albero del paradiso. Poi si scopre che il paradiso può essere un inferno.

L’ultima scomunica porta il sigillo Royal Botanic Gardens: «È una delle piante più infestanti che si conoscano. Non deve essere coltivata in nessun luogo». Torna il fantasma dei baccelloni e delle liane carnivore. E la fantascienza, stavolta, è sotto casa: l’ailanto, l’alieno, ormai s’è infiltrato ovunque, da Nord a Sud. Guardatevi attorno. Il portamento è leggiadro, le foglie ben ordinate, il tronco svettante, venato di esotismo orientale. L’indole rusticissima tollera l’inquinamento, si accontenta di poca terra. Cresce in fretta. Così l’hanno piantato di qua e di là: davvero una bella pianta, senza problemi. Il problema, invece, era proprio quello. L’ailanto è uno che si adatta fin troppo. Riproducendosi sia attraverso le radici, che avanzano partorendo una raggera di nuovi alberelli, sia dai semi che in soli sei mesi dalla germinazione ti sfornano un intero boschetto già pronto, a sua volta, a fiorire e fruttificare. Se lo tagli ricaccia peggio di prima. Ultima nota dell’identikit: l’ailanto è una specie allopatica. Avvelena tutte le piante che la circondano.

Viste le premesse: difficile che non lo abbiate ancora incontrato. Identificate la prima volta quegli spilungoni imparruccati di foglioline verdi (in questi giorni sono appena spuntate). E comincerete a rivederli ovunque: ai margini del parco, tra i ruderi, negli spartitraffico. Un’invadenza che supera robinie e canneti. Imponendo anche al giardiniere dilettante gli ultimi aggiornamenti dettati dalla flora globalizzata: A come Ailanto. Un vegetale senza troppi scrupoli, s’è detto. Da trattare con circospezione. Ma anche, in fondo, con il rispetto per chi, colonizzando tanti spazi abbandonati, inquinati, schifati dalle piante nostrane, si ritrova a fare uno sporco lavoro: un effetto, non la causa del degrado. Sembra un allarme rosso sui pericoli di un’infiltrazione extraterrestre. E invece è un monito: per ricordarci che, agli alieni, le piste di atterraggio le costruiamo noi.

postilla
Il tono leggero dell'articolo non nasconde certo la natura del problema, del resto analogo a quello delle nutrie e di tante altre specie vegetali e animali che in tempi recenti e meno recenti si sono sia “globalizzate” che “urbanizzate” andando spesso a costruire associazioni e ambienti che anche gli ecologi considerano di notevole interesse. Ci sono poi altri aspetti, sociali e identitari, curiosa la campagna contro l'abbattimento di un filare di ailanti, cresciuti lungo le sponde di un canale per pura incuria, e che una tardiva manutenzione voleva eliminare allo stadio di piante adulte: gli abitanti di un quartiere, diventati adulti vedendo crescere quelle piante “aliene e infestanti”, le consideravano un valore, altro che fastidio! Ovvero, pur con tutte le ovvie cautele del caso, come con la vicenda della nutria di Milano Due già riportata su questo sito, non sarà certo un integralismo ambientale di stampo “eco-leghista” l'approccio adeguato ai nuovi equilibri urbani e naturali, ma la ricerca di forme di convivenza diverse e avanzate tutte da scoprire (f.b.)

In un quartiere simbolo una vicenda emblematica di nuovi possibili atteggiamenti ed equilibri fra città e natura. Corriere della Sera Milano, 17 maggio 2014, postilla (f.b.)

C’è una nutria che vive nel laghetto di Milano 2. Nuota insieme alle anatre selvatiche, pascola nel prato dove si riscalda al sole e assaggia le margherite. «È socievole, non dà fastidio e non fa danni», dicono alcuni residenti, che hanno chiesto alla Polizia provinciale di poterla sterilizzare e mantenere nello specchio d’acqua. Invece, è scattata l’operazione di cattura, «nell’ambito del piano di contenimento delle nutrie». Nel laghetto sono state posizionate due grosse gabbie. Ed ecco lo scontro. Nei giorni scorsi una abitante, scrive la Polizia provinciale, «è stata colta in flagrante mentre liberava la nutria dalla gabbia, indagata e denunciata per sabotaggio e interruzione di pubblico servizio». E l’assessore alla Sicurezza Bolognini aggiunge: «Per quanto si cerchino di comprendere le posizioni degli ambientalisti, è irragionevole che venga ostacolato il lavoro dei nostri agenti, costretti a svolgere servizio di appostamento di notte per evitare che venga vanificata un’operazione finalizzata a salvaguardare la comunità da una specie dannosa per l’ambiente». La donna nega: «Le gabbie non avevano contrassegni istituzionali, avrebbero potuto danneggiare la fauna del laghetto. Sterilizzino la nutria e la riportino qui».
postilla
Forse salta abbastanza all'occhio, o forse no, sino a qual punto stia cambiando non solo il rapporto fra città e natura, ma l'atteggiamento dei cittadini rispetto a questo cambiamento. C'è da un lato la nutria, animale considerato infestante per i danni agli argini e l'enorme potenzialità riproduttiva tipica dei roditori, e dall'altro gli abitanti di un quartiere che ne hanno non solo adottata una, ma paiono ben consapevoli della necessità di cercare una specie di “terza via” fra il classico equilibrio città-campagna e le forme tradizionali di gestione del territorio. Che, provano a spiegare loro le autorità locali, prevedono l'eliminazione fisica dei soggetti devianti. Era successo qualcosa del genere anche con l'oasi naturale cresciuta nel vecchio cantiere abbandonato alla Darsena di Milano, ma forse lì il tema appariva troppo complesso. Qui ci sono un grosso simpatico topone, dei cittadini che cercano di capire, e dei funzionari che applicano regole. La domanda suona: non sarebbe forse il caso di porre l'enfasi sull'obiettivo (l'equilibrio città campagna) anziché sulla lettera burocratica delle regole, senza per questo cedere ai particolarismi e a una specie di rischiosa deregulation ideologica?

Qualunque cosa diventa potenziale elemento di degrado quando è di massa, e quindi quella demografica è per forza una tematica centrale per il futuro. Le prospettive della prossima enciclica ecologica di Papa Francesco. Corriere della Sera, 16 maggio 2014, postilla (f.b.)

Leggo che papa Francesco sta preparando una enciclica «verde», vale a dire una enciclica che condanna la crescente scomparsa delle zone vergini della Terra, sempre più erose dalla cementificazione dell’uomo. Una cementificazione prodotta dal crescente e insensato aumento della popolazione. Siamo già più di sette miliardi e, se le proiezioni di poco fa indicavano un tetto massimo di nove miliardi, oggi se ne prospettano persino dieci. Dove li mettiamo? Per ora affollano città sempre più smisurate e squallide periferie rese pericolose da immigrati affamati senza lavoro e senza mestiere. Tokyo potrebbe arrivare (nella ultima proiezione dell’Economist ) a 39 milioni di abitanti, Delhi a 30 milioni, San Paolo e Città del Messico a più di 20 milioni, e così via.

Ma la popolazione che cresce di più e più rapidamente è in Africa con punte di nascite fino a 40 figli, una follia che potrebbe e dovrebbe essere contrastata. Senonché nel 1968 papa Paolo VI con l’enciclica Humanae Vitae ha condannato l’uso dei contraccettivi. Nessun’altra religione e nemmeno i cristiani protestanti hanno recepito questo messaggio. Ma la Chiesa di Roma, con l’appoggio dei Paesi sudamericani e dei potentissimi cattolici americani, ha bloccato perfino la politica della contraccezione sia alle Nazioni Unite sia e soprattutto in Africa (dove gran parte delle missioni sono cattoliche).

La storia della enciclica Humanae Vitae è nota ed è stata minutamente raccontata. Il Papa costituì una commissione di teologi che concluse i suoi lavori dichiarando che la dottrina cattolica non forniva nessun sostegno alla tesi di Humanae Vitae . Ma Paolo VI non si lasciò convincere.
Per la fede l’uomo è tale e diverso da tutti gli altri esseri viventi perché dotato di anima. E San Tommaso, il massimo pensatore della Chiesa, nella sua Summa Teologica distingue tre forme e fasi dell’anima. La prima è «l’anima vegetativa», la seconda è «l’anima animale», e solo la terza è «l’anima razionale» che caratterizza gli esseri umani, e che arriva tardi, soltanto quando il nascituro è formato o anche già nato. Dunque il Tomismo vieterebbe l’aborto di una anima razionale, ma certo non vieta i contraccettivi.

Dunque spero ardentemente che l’enciclica «verde» di papa Francesco lasci cadere la Humanae Vitae . Il Papa argentino ha scelto di essere francescano ma è anche stato educato dai gesuiti, un ordine che assieme ai domenicani costituisce l’ordine colto della Chiesa. L’enciclica che sta elaborando papa Francesco non può ignorare che un formicaio umano ucciderebbe anche il verde della Terra, la natura «vera». Gli esperti ci dicono che ci restano 10 anni prima della catastrofe climatica che sarebbe anche la catastrofe umana delle donne e degli uomini che la stanno vivendo.

Papa Francesco, si obbietterà, non può ignorare e tanto meno contraddire la tesi dei suoi recenti predecessori. Invece nulla lo vieta. La dottrina della infallibilità papale è del 1876, e riflette la caduta del potere temporale della Chiesa. In ogni caso questa infallibilità vale soltanto per i pronunciamenti solenni ex cathedra , su materie di fede e di morale. E quindi papa Francesco è liberissimo di asserire — come ha già fatto, visto che cito proprio lui, da una omelia del 19 marzo 2013 — che «la vocazione del custodire non riguarda solamente noi cristiani ma una dimensione che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero Creato, la bellezza del Creato». Sante parole.

postilla
Anche al netto della pessima abitudine del professor Sartori di provare a dare la linea pure al Papa. Anche al netto dal fatto che (lo avranno già pensato in molti) quello del problema demografico è un antico pallino del professore. Ecco, anche al netto da queste considerazioni, e dei probabili sorrisetti di compatimento di chi sta già pensando ai fallimenti di politiche come quella cinese sul figlio unico eccetera eccetera, va detto che il problema sovrappopolazione è ovviamente centrale. Tutto quanto chiamiamo temi ambientali, ovvero gli impatti delle attività umane sugli equilibri naturali, dalle emissioni al land grabbing ai consumi energetici e alla produzione di rifiuti, tutto insomma, dipende in buona sostanza da quello. E non a caso quando si discute di una cosa o dell'altra, spessissimo emerge la solita considerazione: beh, finché si tratta di una cosa di élite possiamo non farci caso, ma quando riguarda centinaia e centinaia di milioni di persone diventa inquietante. Appunto: al netto delle simpatie per il professor Sartori, quei quaranta figli africani citati dovrebbero dare i brividi, e ovviamente non perché sono africani, ma esattamente perché gli augureremmo, a tutti quanti, una casa, doppi servizi, un'auto, tre pasti abbondanti al giorno, il weekend al centro commerciale. Chiaro, no? (f.b.)

Ecco perchè bisogna opporsi all'approvazione del TTIP: non perchè è un fastidioso acronimo. ecco infatti «tutte le conseguenze (su diritto del lavoro, ogm, sanità, ambiente, proprietà intellettuale e energia) del trattato di libero scambio che Usa e Ue vogliono approvare». www.sbilanciamoci.info, 8 aprile 2014 (m.p.r.)

L’obiettivo dichiarato del Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) è quello di costruire la più grande area di libero scambio al mondo attraverso l’eliminazione delle barriere, tariffarie e non, che ancora limitano i flussi commerciali tra Europa e Usa. Le previsioni ufficiali in merito ai presunti benefici associati al Ttip non sembrano però esaltare, a fronte della brusca deregolamentazione di cui il Trattato è foriero. È già riscontrabile una divaricazione tra quanto affermano i report ufficiali e gli studi commissionati dalle lobby interessate (la Commissione ha recentemente ridimensionato i dati già forniti ad uno 0.1% di crescita del Pil per entrambe le parti coinvolte nell’accordo, che equivarrebbe ad una crescita risibile dello 0.01% annuo su di un orizzonte di dieci anni. (Dettagli qui)

Ciò che preoccupa maggiormente però è l’assenza, a parte alcune meritorie eccezioni come Attac!, S2B Network e la rete Sbilanciamoci, di una intensa campagna che informi in merito alle conseguenze sociali ed ambientali che un trattato come questo potrebbe produrre. L’obiettivo dei negoziatori è quello di armonizzare le rispettive regolamentazioni in materia di commercio internazionale. Il riferimento nient’affatto implicito è alle differenze che tuttora intercorrono tra Ue ed Usa nelle regole in materia di protezione sanitaria, alimentare, di diritto d’autore e del lavoro. Parlare semplicisticamente di “armonizzazione”, tuttavia, può apparire perlomeno riduttivo se si adotta una prospettiva che identifica in quei “..costi e ritardi non necessari e dannosi per le imprese..” delle conquiste di civiltà irrinunciabili per chi ambisce ad un mondo più giusto e sostenibile dal punto di vista ambientale. È noto infatti come in molti ambiti gli standard Ue, basati sul principio di precauzione, siano più stringenti di quelli Usa ed uno scivolamento verso i livelli di deregolamentazione americani diverrebbe la conseguenza più naturale del Ttip. Si starebbero in questo modo realizzando le ambizioni che le organizzazioni di impresa hanno ripetutamente manifestato negli anni recenti (vedi)

Il primo blocco di diritti ad essere minacciato sono quelli a protezione del lavoro. Potrebbe non essere remota la possibilità che una normativa analoga al “Rights to Works” americano, ribattezzata dai sindacati statunitensi l’Anti-Unions-Act (Greenhouse, S. “States seek laws to curb power of unions”. NYT 3 January, 2011), si affacci con sembianze analoghe anche in Europa. La sostanza liberista di una normativa di questo tipo verrebbe ad alimentare una rinnovata concorrenza al ribasso fra i lavoratori sui loro diritti e le loro retribuzioni. Si tratta esattamente della logica in virtù della quale i recenti governi di emergenza italiani hanno messo mano, flessibilizzandola, alla legislazione in materia di lavoro augurandosi di avere in cambio un salvifico ed ingente afflusso di capitali internazionali.

La conseguenza immediata di un superamento de facto del principio di precauzione sarebbe l’ineffettività di gran parte delle normative europee sulla sostenibilità ambientale. Una delle maggiori fonti di rischio in questo senso è il cosiddetto shale-gas, o “fracking-gas” dalla particolare tecnica estrattiva che contraddistingue questi idrocarburi. Questa tecnica richiede l’uso di una procedura ritenuta letale per le falde acquifere ed il suolo sottostante i giacimenti e le zone ad essi limitrofe. L’approvazione del Ttip potrebbe, anche in questo caso, spalancare le porte dell’Europa (Polonia, Francia e Danimarca sembrano essere le regioni con le più ricche di shale-gas) alle imprese americane del settore le quali potrebbero efficacemente sfruttare i vantaggi competitivi dati da una tecnologia che perfezionano in patria da più di dieci anni.

Non meno importanti sono le limitazioni che la Ue impone all’uso ed all’importazione degli Ogm e delle carni trattate con ormoni o sterilizzate tramite l’uso di cloro. Le barriere che secondo Max Baucus, attuale presidente della Commissione Finanze del Senato Americano, “..non sono in linea con le attuali posizioni della comunità scientifica internazionale..” sono quelle che sino ad oggi hanno parzialmente impedito che prodotti di questo tipo fossero diffusi sui campi o nei supermercati europei. Inoltre, una brusca eliminazione delle tradizionali barriere commerciali esporrebbe le imprese agricole europee alla concorrenza dell’agri-businness statunitense forte di una concentrazione di mercato imparagonabile a quella europea (2 milioni di imprese agricole negli Usa contro 13 milioni nella Ue).

Il Ttip potrebbe concretamente rappresentare il tentativo di reintrodurre ciò che è stato respinto dal Parlamento europeo nel 2012. Si tratta del Anti Counterfeiting Trade Agreement (Acta), un accordo in materia di proprietà intellettuale tentato senza successo tra Ue ed Usa. A spingere i parlamentari europei ad esprimersi contro l’Acta è stata la duplice implicazione che lo stesso avrebbe avuto, ovvero quella di limitare in modo rilevante il libero accesso alla conoscenza sul web e di dare un potere enorme nella gestione dei dati personali alle imprese del settore.

Una particolare attenzione andrebbe poi riposta sui rischi che gravano sul settore sanitario europeo che rischia di trasformarsi in terreno di conquista per le grandi imprese americane. Così come le norme ambientali europee ci hanno sin qui tutelato dagli Ogm e dalle carni trattate, il Reach (Regulation on Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals, entrato in vigore il 1° giugno 2007 con lo scopo di regolamentare il mercato dei prodotti chimici nella Ue) ha consentito ai cittadini di tutelarsi dall’invasione di prodotti farmaceutici che per le autorità europee sono potenzialmente nocivi per la salute umana e animale. Grazie al Ttip, nondimeno, nascerebbe la possibilità per le imprese, qualora volessero contestare una regolamentazione statale o comunitaria troppo stringente, di rivolgersi ad un organismo arbitrale terzo dotandosi così di un potente mezzo per il contrasto di politiche e leggi democraticamente adottate ma divergenti dalle loro strategie aziendali.

I rappresentanti della grande finanza stanno chiedendo agli estensori del Ttip di prevedere esplicitamente una “disciplina” per la regolamentazione della finanza da parte degli Stati (vedi qui). Ciò significherebbe in termini concreti una limitazione alla dimensione ed alla pervasività della regolamentazione finanziaria nei due blocchi. L’ambiguità di questo metodo di redazione del Trattato potrebbe essere foriera di una nuova diffusione di massa degli eredi di quegli strumenti finanziari protagonisti del crack della Lehman Brothers.

La breve sintesi fornita rispetto a quanto hanno in mente gli estensori del Ttip allarmerebbe chiunque non fosse un lobbista o un percettore di dividendi da parte di un impresa multinazionale. Per i cittadini europei la sfida è però duplice. Le urne francesi hanno segnalato il raggiungimento di un livello critico di sopportazione da parte dei cittadini per i metodi antidemocratici che guidano le decisioni delle istituzioni europee. Appare chiaro come un futuro diverso da quello che ha caratterizzato gli ultimi anni non possa che passare per una riforma radicale delle istituzioni e delle prospettive della Ue. Da questo punto di vista il Ttip appare un emblema ed una sintesi di quei “valori” che hanno condotto l’occidente, e l’Europa in particolare, nella situazione di crisi in cui ancora versa. Una discussione profonda, pubblica e democratica rispetto ai contenuti del Ttip non potrà non essere un punto fermo della campagna per le imminenti elezioni europee che si profilano come un crocevia fondamentale per il nostro futuro.

«Ecco perché mi preoccupa, e molto, come il nostro cibo quotidiano potrebbe cambiare, in modo silenzioso e totalmente sconnesso da ogni condivisione popolare, se venisse approvato l’accordo di commercio transatlantico Europa-Usa». La Repubblica 12 aprile 2014

Che ne direste di dare la delega al vicino per l’assemblea di condominio e sapere (ma solo quando il demolitore sarà arrivato davanti a casa vostra) che lui e gli altri hanno deciso di buttare giù il palazzo e ora nessuno ci può più fare nulla? La domanda può sembrare strampalata ma serve per chiedersi: la democrazia può legittimare qualcuno ad adottare scelte che interessano tutti gli altri, senza che gli elettori possano più dire la loro? I governi dei Paesi moderni sono i nostri delegati all’assemblea di condominio mondiale. Se decidono qualcosa che alla maggioranza dei cittadini non piace o che ne mette in discussione il diritto a fare libere scelte per sé e per i propri figli, allora quelle decisioni non solo dovrebbero poter essere discusse, ma dovrebbero almeno poter essere ben conosciute.

Ecco perché mi preoccupa, e molto, come il nostro cibo quotidiano potrebbe cambiare, in modo silenzioso e totalmente sconnesso da ogni condivisione popolare, se venisse approvato l’accordo di commercio transatlantico Europa-Usa (quello che, con una delle consuete e criptiche sigle, si chiama Ttip, Transatlantic Trade & Investment Partnership).
Il trattato viene annunciato come una straordinaria opportunità economica e di crescita, perché dovrebbe creare tra Europa e Usa, quelle facilitazioni commerciali che mitologicamente dovrebbero rendere tutti più ricchi. Dico mitologicamente, perché un Nobel dell’economia come Joseph Stiglitz ha scritto apertamente che la teoria — secondo cui se si arricchiscono i ceti più abbienti in una società certamente staranno meglio tutti — è semplicemente una bugia. Gli accordi di libero scambio, dal Nafta in poi, infatti non hanno visto migliorare il tenore di vita dei più poveri e dei piccoli produttori, ma solo moltiplicare i guadagni dei più ricchi speculatori.
Sarebbe bello che il Ttip servisse a definire standard comuni di sicurezza alimentare, che proteggesse le produzioni nazionali e i territori che danno loro vita. Sarebbe un nobile accordo, un compromesso al rialzo. Purtroppo però sappiamo bene che non sarà così, che ancora una volta trionferanno i pochi attori multinazionali a scapito della volontà dei molti cittadini che vivono e lavorano ben lontano dal vertice della piramide. Con buona pace dei consumatori e dei loro diritti e soprattutto, in questo caso, con un percorso di sola andata, che si svolge a porte chiuse.
Le delegazioni della Commissione Europea e degli Usa, infatti, svolgono i propri lavori in sedute non pubbliche, elaborando documenti che non vengono diffusi. L’unica informazione trapelata è che nascerà un tribunale transatlantico del commercio. Questo non sarà legato a un’autorità politica e funzionerà come un arbitrato di altissimo livello, attraverso cui le grandi corporazioni potranno anche chiedere e ottenere sanzioni contro gli Stati che dovessero, in qualche misura, limitare la portata dell’accordo attraverso leggi o altre norme approvate dalle proprie istituzioni rappresentative. Spero che si comprenda cosa significa che le multinazionali possono fare causa agli Stati con il beneplacito di quest’ultimo, anche se gli Stati decidono conformemente alle loro Costituzioni e a procedure democratiche: è la nascita certificata di un nuovo ordine mondiale. Così, per i consumatori e soprattutto per i cittadini europei, si prepara una pietanza che si preannuncia ben poco digeribile, ancora una volta cucinata secondo lo stile delle decisioni che piovono dall’alto, nel nome dell’interesse nazionale che è spesso l’interesse di pochi e ben individuabili gruppi, assolutamente elitari. Finiti i tempi dei corridoi dove operano le lobby: le multinazionali acquisiscono il potere di bacchettare pubblicamente gli improvvidi governanti.
Mi sembra incredibile la situazione in cui siamo: alcuni delegati — la cui legittimazione democratica è già molto più che mediata — discutono in segreto i termini di un accordo che i cittadini conosceranno solo quando sarà pronto per la firma. Prendere o lasciare. Senza la possibilità per gli Stati membri dell’Ue di ritornare su quanto verrà sottoscritto. Nemmeno se le maggioranze dei cittadini che li abitano si esprimessero per imboccare una direzione diversa.
Mi trovo sempre più spesso a dubitare che le istituzioni politiche che decidono riguardo al nostro fondamentale bisogno alimentare finiscano per dare vita a regolamentazioni al servizio dell’uomo. Avevo già maturato questa considerazione quando il “tribunale” del Wto aveva stabilito che il bando della carne agli ormoni — deciso in Europa, a furor di popolo, negli anni ‘80 — era ingiustificato e doveva venir meno proprio perché corrispondente alla sola volontà popolare e non a univoche evidenze scientifiche della pericolosità del consumo di questa carne.
Ora, io nutro grande rispetto della scienza e credo davvero che non si debba decidere sulla base di un consenso agitato dalla demagogia, ma mi chiedo allora: perché non obbligare chi vuole vendere carne prodotta usando ormoni della crescita, o prodotti tra i cui ingredienti ci siano materie prime ogm, a indicarlo in etichetta? Perché la scienza serve come scusa, al fine di non permettere una scelta consapevole al consumatore? Perché come già in passato per il cioccolato fatto anche con grassi diversi dal burro di cacao, si consente una produzione, si ammette alla vendita un cibo diverso da quello che ben conosciamo (il che è legittimo) ma non si impone a chi lo produce di rendere evidente la sua procedura produttiva, consentendo al consumatore di scegliere a ragione veduta?
Sospetto fortemente che la risposta alle mie domande siano gli stessi interessi che sono alla base della decisione di trattare l’accordo Ttip a porte chiuse, senza condivisione prima e senza possibilità di retromarcia dopo.

Di solito parlando di urbanizzazione impropria si pensa soprattutto al suolo, ma anche l'acqua ha il medesimo ruolo di risorsa finita non sostituibile. Il manifesto, 2 aprile 2014 (f.b.)

Lo scorso autunno Los Angeles ha celebrato in pompa magna il centenario del «Los Angeles Acqueduct», il canale che rifornisce d’acqua la città inaugurato nel 1913. L’anniversario è stato commemorato da gonfaloni appesi ai lampioni delle maggiori arterie cittadine e l’acquedotto celebrato come «sorgente di vita» in altisonanti articoli di giornale. Plauso per un’opera di ingegneria idrica che rende bene la misura dell’importanza tuttora attribuita all’acqua in questa regione – perlopiù in funzione della sua cronica scarsità. Si dà il caso, infatti, che nell’inverno appena concluso sia piovuto meno che in ogni anno dal 1850, quando la California, da poco strappata al Messico, è diventata uno stato americano. Inevitabile che nel mezzo della peggiore siccità a memoria d’uomo le commemorazioni civiche abbiano assunto un che di rito propiziatorio, una liturgia del «cargo cult» che in questa città come nell’intero quadrante sud occidentale d’America è legato alla risorsa più preziosa e scarsa e alla grande e perenne sete.

Le fasi aride come l’attuale in questa regione degli States sono una certezza climatica che torna con ciclica regolarità. E ogni volta rammentano come la California e l’Ovest americano (gran parte di Nevada, Utah, Arizona e Nuovo Messico, parti del Colorado e del Texas) siano sostanzialmente regioni desertiche in cui negli ultimi 100 anni si sono insediate 60 milioni di persone. Questa colonizzazione arbitraria, senza logica geografica e soprattutto senza riguardo per le risorse naturali, è avvenuta in una regione dove oltretutto esiste ampia documentazione archeologica di civiltà indigene la cui scomparsa viene ormai attribuita proprio a cause climatiche (ad esempio quella rupestre degli indiani Anasazi). Oggi paradossalmente – assurdamente – quelle che erano le regioni più inospitali del continente sono diventate l’epicentro della crescita demografica del paese.

Los Angeles, senza insenatura, senza porto naturale o un fiume navigabile, priva di vere risorse minerarie e circondata dall’aridità implacabile del Mojave è il prototipo originale di questo sviluppo «contronatura» predicato sull’irrigazione su scala mastodontica. Per un secolo il Pueblo de Los Angeles rimase poco più di un bivacco dei frati francescani spagnoli che l’avevano fondato, circondato da sterpaglia, macchia mediterranea e da piccole coltivazioni in balia di un clima imprevedibile. A fine ‘800, grazie allo scalo ferroviario della Union Pacific, la popolazione era arrivata a 80.000 abitanti e nel 1903 aveva già esaurito l’acqua dell’esiguo Los Angeles River, il torrente che raccoglieva le acque stagionali delle vicine montagne San Gabriel. Non a caso chi ancora oggi più si avvicina a un santo patrono, colui al quale è intitolata una delle strade più celebri della città, Mulholland Drive, è l’ingegnere che progettò il canale lungo 674 chilometri che a questo lembo di deserto meridionale portò l’acqua che nei decenni successivi avrebbe permesso l’insediamento di oltre 10 milioni di esseri umani.

William Mulholland era un ingegnere autodidatta irlandese arrivato in California per tentare la fortuna come cercatore d’oro, ossessionato dall’approvvigionamento idrico della città. Finanziato dai petrolieri, baroni ferroviari e speculatori dell’edilizia e agroindustriali che rappresentavano gli interessi fondativi della giovane Los Angeles, l’acqua decise di andarla a prendere alle pendici della Sierra Nevada orientale, nella verdeggiante valle dell’Owens, 600 km a nord, e trasportarla attraverso l’infuocato deserto Mojave.

Gli agenti del Department of Water and Power di Los Angeles cominciarono ad acquisire i diritti d’uso dell’acqua dagli agricoltori della Owens Valley sotto le mentite spoglie di fantomatici «ottimizzatori dell’irrigazione». E quando con proditorietà da insider trader ante litteram ebbero in mano i necessari pacchetti di maggioranza sulle acque montane, annunciarono la diversione nel canale in costruzione. In sostanza avviarono il commissariamento delle acque che avrebbe condannato la ridente vallata a trasformarsi in polveroso deserto. In quel momento il bacino aveva già perso metà del proprio volume ed era avviato a prosciugarsi. 700 famiglie di agricoltori locali occuparono allora le chiuse e tentarono di dirottare il flusso dell’acquedotto nuovamente verso i campi moribondi. Los Angeles rispose inviando centinaia di agenti di polizia mentre gli sceriffi del luogo presero la parte dei ribelli. Lo scontro armato venne evitato in extremis solo da un accordo che avrebbe restituito una parte delle acqua ma che non fu mai rispettato da Los Angeles. Tanto che una campagna di attentati dinamitardi contro l’acquedotto – 17 in tutto sarebbe continuata per diversi anni fin quando la rivolta dell’acqua non venne sedata con la legge marziale e l’istituzione di guarnigioni con mitragliatrici poste ad intervalli regolari lungo tutto il percorso della tubatura.

La vicenda è accennata in chiave di noir nello splendido Chinatown di Roman Polanski (nel film Mulholland è l'inquietante patriarca interpretato da John Huston) e costituisce il «peccato originale» del trionfo di Los Angeles. Un’allegoria perfetta per l’ipersviluppo degli stati dell’Ovest. L’esproprio delle acque è stato replicato in varia misura da tutte le metropoli del deserto: la fondazione di Phoenix e Las Vegas, la crescita di Salt Lake City e San Diego sono dovute a massicce opere di irrigazione, dato che come dichiarò all’epoca il ministro degli interni di Herbert Hoover, Ray Lyman Wilbur, «con l’aggiunta di acqua, la conquista del Sudovest assicurerà la crescita di una grande e stabile civiltà».

Un secolo dopo, nel mezzo dell’ennesima drammatica siccità, e ora con milioni di abitanti che dipendono da una risorsa ancora altrettanto incerta, il costo della «grande civiltà», quella dei 100 campi da golf di Palm Springs, delle mega-fontane di Las Vegas, delle mille suburbie spuntate come funghi nel deserto, è infine ineluttabile. Del lago Owens oggi rimane un fondale secco da cui si levano turbini di polveri sottili che rendono irrespirabile l’aria della valle un disastro ecologico simile a quello del lago Aral in Kazakhstan. Appena fuori Bishop, capoluogo della Owens Valley, ancora oggi ci sono incongrui tombini recanti la dicitura «acque di Los Angeles» e le chiuse sono ancora protette da imponenti reticolati spinati con la stessa scritta.

Ma quando negli anni ’70 il Department of Water and Power decise di mettere in atto la terza fase del progetto Mulholland, andando a pescare ancora più a nord nelle acque vulcaniche di Mono Lake, condannando anche questo splendido lago alpino a una morte sicura, la campagna per salvarlo diventò subito una pietra miliare del movimento ecologista californiano, che organizzò proteste e petizioni e ricorse in tribunale per fermare la conquista dell’acqua cominciata 80 anni prima. Nel 1988 la corte federale decretò che l’intrinseco interesse alla tutela del patrimonio naturale prevaleva su quelli di singole municipalità; Los Angeles stavolta dovette interrompere i prelievi e istituire invece misure di risparmio idrico. Il lago, una delle meraviglie naturali della Sierra Nevada, venne salvato e oggi sta lentamente recuperando volume.

Tra il Gran Sasso e la Maiella la discarica di veleni più vasta d’Europa. La Repubblica, 24 marzo 2014

Questa è la discarica di veleni più grande d’Europa. Qui intorno, su una superficie di circa 30 ettari, sono state “intombate” quasi 250 mila tonnellate di rifiuti tossici e scarti industriali. Una bomba ecologica al confine tra il Parco del Gran Sasso e quello della Maiella, a Bussi su Tirino, in Abruzzo. Ma oggi, dopo quarant’anni di denunce e polemiche approdate finalmente nelle aule giudiziarie, dalle ceneri contaminate di questo disastro potrebbe cominciare un’operazione di bonifica e riqualificazione di tutta l’area, per sperimentare un modello di riconversione industriale su scala internazionale.

La storia comincia nel 1972, quando l’allora assessore all’Igiene e alla sanità del Comune di Pescara, Giovanni Contratti, scrive una lettera alla Montecatini Edison, proprietaria dello stabilimento chimico di Bussi, chiedendo di ripulire il sito e adottare misure anti-inquinamento. Passarono 35 anni prima che la Guardia forestale mettesse nel 2007 i primi sigilli alla discarica Tre Monti. Fino ad arrivare ai nostri giorni, con il processo davanti alla Corte d’assise di Pescara in cui 19 responsabili dell’ex colosso devono rispondere di disastro doloso e avvelenamento delle acque, mentre sono finiti sul registro degli indagati anche otto dirigenti della società francese Solvay che nel 2002 aveva acquistato il polo chimico dall’Ausimont (gruppo Montedison).

Una prima stima dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) per il ministero della Salute valuta un danno ambientale di 8,5 miliardi di euro e un costo di 500-600 milioni per la bonifica della discarica che al momento appare ricoperta da un “sarcofago”, con un telone impermeabile e sopra un terrapieno di ghiaia, come la tomba di un faraone. Per effetto della legge per il terremoto dell’Aquila, finora ne sono stati stanziati una cinquantina. Ma questi soldi - come precisa il sindaco di Bussi, Salvatore La Gatta – sono destinati alla bonifica e alla reindustrializzazione dello stabilimento che oggi è fermo.

Oltre alla discarica Tre Monti, a monte del polo industriale se ne trovano altre due, di minore estensione e criticità. Originariamente furono autorizzate per lo stoccaggio degli scarti di produzione, ma poi anch’esse sono state sequestrate dalla magistratura e recentemente risequestrate a causa di una malagestione. Un deposito di veleni, insomma, che continua a inquinare la terra e il sottosuolo in forza di un’antica maledizione chimica che risale alla fine dell’Ottocento. Già allora questo appariva il luogo ideale per localizzare la “nuova industria”, sfruttando la portata dei due fiumi Tirino e Pescara: il primo è stato deviato con un salto di 70 metri e addirittura inglobato nello stabilimento, caso unico in Italia, per produrre energia elettrica e alimentare un impianto di scomposizione elettrolitica del cloruro di sodio da cui si ricavano cloro e soda. Qui, durante l’ultimo secolo, più di mille operai sfornavano la formaldeide, il potente disinfettante poi bandito dal mercato perché riconosciuto cancerogeno. E, ancora, varechina, perclorati (componenti sbiancanti dei detersivi) e cloruro di ammonio. Nei periodi di guerra, dal paese-fabbrica di Bussi è uscito perfino l’yprite, il terribile gas nervino con cui i nostri soldati furono sconfitti a Caporetto e che noi stessi utilizzammo poi nella campagna d’occupazione in Africa.

Nel tempo gli scarti di queste produzioni, insieme alle acque di scarico che, filtrate, confluivano nei due fiumi, sono stati sparsi sul territorio come il sale a Cartagine. L’operazione di bonifica, quindi, deve comprendere il polo chimico e tutta l’area contaminata. E per quanto riguarda in particolare la discarica dei veleni, c’è chi dice che è sigillata dallo strato di argilla sottostante e chi invece sostiene come il presidente regionale di Legambiente, Angelo Di Matteo, geologo - che si tratta di un’argilla porosa, per cui non si può affatto escludere il rischio di inquinamento delle falde freatiche.

Oggi l’attenzione di tutti è concentrata sullo stabilimento e sul piano di reindustrializzazione, da cui l’amministrazione comunale si aspetta almeno un centinaio di posti di lavoro per ridare vita a un paese di 2.800 abitanti con uno dei redditi pro-capite più bassi dell’Abruzzo (11mila euro all’anno). Ma su questo futuro i pareri e i desideri divergono, anche in rapporto agli appetiti degli imprenditori interessati all’operazione. A cominciare da Carlo Toto, patron di Air One, considerato vicino al Pd e amico personale dell’ex sindaco di Pescara Luciano D’Alfonso: il suo progetto è di trasformare l’ex polo chimico in un cementificio, per approvvigionare il quale avrebbe già chiesto le concessioni minerarie sulle montagne vicine.

Il sindaco La Gatta (Rifondazione comunista) riferisce di aver ricevuto una ventina di manifestazioni d’interesse da parte di altrettante aziende, tre delle quali chimiche: «Per noi sarebbe un’occasione storica: da quarant’anni qui non investe più nessuno». Ma il presidente di Legambiente Di Matteo avverte: «Siamo d’accordo sulla reindustrializzazione. Bisogna fare, però, un salto di qualità: questo deve diventare un Laboratorio delle bonifiche, per realizzare un esperimento di frontiera da replicare eventualmente nel resto d’Italia e d’Europa».

Il modello che sottende decenni di strategie di sviluppo mostra tutti i suoi limiti, in ogni senso, ma a una intera classe dirigente manca il coraggio, o la coscienza e capacità, di ammetterlo

Ci stiamo abituando a fare i conti con i disastri ambientali e con le difficoltà ad accertare le responsabilità di tanta devastazione. I sintomi nelle aree di crisi evidenziano guasti profondi. Oggi l'attenzione è su Porto Torres (dopo il proscioglimento gli imputati di inquinamento per intervenuta prescrizione); ieri su Olbia, ma l'elenco è lungo come sappiamo: tanti casi diversi ma non sfugge il denominatore comune. Quel disegno afferra-afferra a cui guardano inchieste della Magistratura, che ci dirà – se non vi saranno altre assoluzioni decise dalla politica. Che dovrebbe interrogarsi a fondo su quest' ultimo mezzo secolo di sviluppo evanescente che ha lasciato povertà e drammi sociali. E reso l'isola brutta e insicura in molte parti, sfortunatamente per sempre. Per questo ci aspettiamo un nuovo corso senza titubanze.

Sull'ambiente – terra, acqua, aria– i governi locali hanno competenze importanti. Più di quanto non ne abbiano per altre questioni dipendenti da centri decisionali lontanissimi.

Non ci dovrebbero essere esitazioni se si mettesse nello sfondo la storia. Basterebbero una trentina di immagini per documentare la spoliazione dell'isola avvenuta in tempi tutto sommato brevi. Un quadro attutito per la grande estensione del territorio, dove tutto sfuma, e l'opinione pubblica non si accorge o fa finta. “E gli orrori arrivano solo fino a dove i nostri occhi hanno il coraggio di guardare” – è la sintesi di Alessandro De Roma nel racconto pubblicato da Einaudi (nel libro «Sei per la Sardegna», bel regalo alle popolazioni colpite dalla recente alluvione).

Il coraggio di guardare e di ammetterlo: siamo stati defraudati a lungo, e chi ha potuto prendere dalla Sardegna senza restituire nulla, ha contato su troppe complicità locali. E così tre quarti del patrimonio boschivo sono andati in fumo nell'Ottocento per produrre energia oltre il mare; così nell'ultimo mezzo secolo terre preziose sono state concesse per esercitazioni militari deleterie per la salute, o regalate a industriali sovvenzionati per inquinare liberamente. Così circa 450mila (!) ettari di territorio sono compromessi da forme di inquinamento pericolose e comunque sottratti all'uso. Il ciclo edilizio è stato spesso senza regole, e in assenza di strumenti urbanistici adeguati sono cresciuti insediamenti in grado di mettere in pericolo le comunità residenti, basta che piova un po' più forte.

La Sardegna “innocente” è quinta nelle classifica dell'abusivismo edilizio, dopo Campania e Sicilia che hanno quattro volte gli abitanti dell'isola, e quindi è prima. Uno scenario preoccupante e che impone di provvedere, e subito, almeno per limitare i rischi per le comunità più esposte.

Ma è vietato illudere e illudersi sulla palingenesi di bonifiche che – si sa – non ci restituiranno la Sardegna com'era, perché è impossibile. A sicut erat non torrat mai. Figurarsi in casi di terre maltrattate e avvelenate in quelle misure come a Porto Torres, o a Portoscuso dove da ieri agli agricoltori è vietato vendere i loro prodotti. Ci toccherà pagare, insomma (e attenzione a chi s'immagina i tornaconti del risanamento ambientale nella successione inquinamento-disinquinamento forever). E il danno, come per il debito pubblico, ricadrà comunque sulle generazioni future, e in modo inedito.

Perché è prevedibile che le agenzie di rating che oggi certificano la solidità economica degli Stati, prenderanno in esame la condizione del patrimonio territoriale per conto di investitori attenti in modo crescente a questi aspetti. E che i valori immobiliari dipendano sempre di più dalla qualità dei luoghi non è un mistero. Gli economisti più avveduti lo dicono da un po'.

Per questo occorre cogliere i segnali interessanti. I programmi per eolico, termodinamico, chimica verde – in quel solco distruttivo dove sta anche la speculazione edilizia – sono finalmente avversati dalle popolazioni che ne temono la presenza. Questa nuova “coscienza di luogo” ci potrebbe aiutare a progettare un futuro diverso.

Condono ambientali, patto del diavolo con gli inquinatori, coperto in extremis con la solita pelle d'agnello. Il manifesto, 12 febbraio 2014
Le imprese potranno com­pen­sare per il 2014 le car­telle esat­to­riali con i cre­diti verso la pub­blica ammi­ni­stra­zione; il fondo cen­trale delle Pmi potrà pre­stare garan­zia anche per le società di gestione del rispar­mio; i soldi per i bonus libri erano troppo pochi e quindi sono diven­tati cre­dito d’imposta per i librai, ma soprat­tutto l’articolo quat­tro ribat­tez­zato sul Web come «con­dono ambien­tale». Tutto que­sto è il decreto Desti­na­zione Ita­lia appro­vato ieri alla Camera con 320 sì e 194 no (1 aste­nuto) che entro il 21 feb­braio dovrà diven­tare legge al Senato, pena la deca­denza. Per cui sem­bra più che pro­ba­bile il ricorso alla fidu­cia. Un decreto che ha stral­ciato diverse norme rispetto al testo licen­ziato dal Con­si­glio dei mini­stri ma che con­serva comun­que nume­rosi arti­coli molto contestati.

Uno su tutti pro­prio l’articolo 4 che nel testo ori­gi­na­rio sem­brava scritto per favo­rire le aziende inqui­nanti. In extre­mis ieri pome­rig­gio è arri­vata una modi­fica voluta dal depu­tato Pd Ermete Rea­lacci che ha comun­que lasciato aperti nume­rosi dubbi. Per affron­tarli ieri sono arri­vati a Roma i comi­tati ambien­ta­li­sti pro­ve­nienti da tutta Ita­lia e la Rete dei comuni Sin, i Siti di inte­resse ambien­tale, cioè i buchi neri d’Italia, i ter­ri­tori più inqui­nati del Paese.

L’articolo pre­vede che qual­siasi azienda respon­sa­bile di aver inqui­nato un deter­mi­nato ter­ri­to­rio (dall’Ilva di Taranto all’Eni di Porto Tor­res all’Enel di Porto Tolle, alla Caf­faro di Bre­scia, c’è solo l’imbarazzo della scelta) potrà, gra­zie a que­sto arti­colo, sti­pu­lare un accordo con lo Stato e rice­vere finan­zia­menti pub­blici (la quan­tità non è spe­ci­fi­cata) per la ricon­ver­sione indu­striale dei siti. Inol­tre – que­sto è il punto che ha subito una modi­fica – era pre­vi­sto un con­dono delle respon­sa­bi­lità per le aziende che sot­to­scri­ve­vano l’accordo. I soldi sareb­bero ser­viti per l’ammodernamento azien­dale o per le bonifiche.

«Salta il prin­ci­pio euro­peo del “chi inquina paga” – ha detto Mariella Maf­fini, asses­sore all’ambiente di Man­tova e coor­di­na­trice della rete dei comuni Sin – è come scen­dere a patti col dia­volo». Gli ambien­ta­li­sti pro­met­tono dieci giorni di lotta in piazza men­tre i sin­daci affi­lano le armi per pre­sen­tare un ricorso alla Com­mis­sione euro­pea. «L’articolo deve essere can­cel­lato, senza modi­fi­che», hanno detto in coro. La rispo­sta è stata indi­retta, ma senza dub­bio era inviata al pre­si­dente ono­ra­rio di Legam­biente Rea­lacci che, in con­tem­po­ra­nea con la con­fe­renza stampa, faceva sapere in una nota di aver modi­fi­cato l’articolo in questione.

Con il nuovo testo – poi votato – si pre­vede che il con­dono delle respon­sa­bi­lità possa avve­nire, ma solo dopo che l’Arpa abbia accer­tato «l’avvenuta boni­fica e messa in sicu­rezza dei siti». C’è scritto così: boni­fica e messa in sicu­rezza, come se non fos­sero due azioni che si eli­mi­nano a vicenda. E poco importa se Rea­lacci ha anche pre­ci­sato che i soldi rice­vuti dallo Stato dovranno essere spesi per l’impianto indu­striale e non per le boni­fi­che, di com­pe­tenza delle aziende respon­sa­bili del danno.

Infatti poco dopo è inter­ve­nuto il por­ta­voce dei Verdi Angelo Bonelli in un com­mento che sem­bra tec­nico ma non lo è: «Boni­fica e messa in sicu­rezza sono due cose dif­fe­renti. Se c’è l’una è inu­tile l’altra. Il testo così come è scritto è pro­prio diven­tato inapplicabile».

I Sin sono 39. Rispetto a un anno fa sono 18 in meno: con un decreto del governo Monti, zone che vanno da La Mad­da­lena alla Valle del Sacco inclusa anche la Terra del Fuoco sono stati «declas­sati», dive­nuti Sir, siti di inte­resse regio­nale. La com­pe­tenza della boni­fica spetta alle regioni. Con­tro que­sto decreto sono scese in capo anche le asso­cia­zioni che lo hanno impu­gnato al Tar. Insomma, un pastic­ciac­cio con­tro il quale medi­tano guerra gli ambientalisti.

«Occu­pe­remo le piazze, saranno dieci giorni di bat­ta­glie», assi­cura Egi­dio Gior­dani, por­ta­voce del comi­tato stop bio­ci­dio della Cam­pa­nia, forte della mani­fe­sta­zione che il 16 novem­bre scorso ha por­tato in piazza a Napoli circa cen­to­mila per­sone. I sin­daci si muo­vono su un piano più isti­tu­zio­nale, pre­pa­rando il ricorso alla Com­mis­sione euro­pea per­ché, sosten­gono, anche in que­sta ultima acce­zione modi­fi­cata è sal­tato il prin­ci­pio valido in tutta Europa del «chi inquina paga».

Tutto giusto, tutto vero. L’ennesima argomentazione del perché tutela del territorio e tutela del lavoro siano due temi strettamente intrecciati e la prevenzione sia essenziale per la nostra sopravvivenza. Però… La Repubblica, 1 febbraio 2014, con postilla

Una scena che si ripete a ogni inverno, anzi quasi a ogni pioggia. E se non ci sono vittime, ceri in tutte le chiese,Te Deum e processioni di ringraziamento. Questa Italia che si vuole tecnologica e si scopre incapace di badare a se stessa rivive ogni anno la stessa stagione di disastri, condita da dichiarazioni dei padri della patria che promettono immediate contromisure, elogiando l’indomito popolo italiano che sfida le avversità. Una sola cosa, a quel che pare, non viene in mente ai Soloni che affollano le aule della politica, le penombre dei partiti, le stanze dei bottoni: che bastava un po’ di prevenzione per evitare, o quanto meno ridurre, il danno. O meglio, di prevenzione si parla, ma senza poi far nulla. Per citare la voce più autorevole, è di ieri il discorso del Presidente Napolitano dopo l’alluvione delle Cinque Terre (quattro morti, ottobre 2011): «bisogna affrontare il grande problemanazionale della tutela e della messa in sicurezza del territorio, passando dall’emergenza alla prevenzione». Sagge parole, alle quali non è seguito nulla di concreto.

In preda a colpevole amnesia, dimentichiamo la fragilità del nostro territorio, il più franoso d’Europa (mezzo milione di frane censite), il più esposto al danno idrogeologico e all’erosione delle coste. Fragilità che colpiscono periodicamente, con danni gravissimi alle persone, alle attività economiche, al paesaggio, al patrimonio storicoartistico. Non sono i colpi di un destino avverso, ma eventi che dovrebbero innescare meccanismi di consapevolezza e di prevenzione: una miglior conoscenza dei territori, mappe del rischio, soluzioni possibili. E invece, rassegnati, passiamo dalla retorica della prevenzione a una cultura dell’emergenza che piange perennemente su se stessa.

Un esempio solo, ma eloquente: la carta geologica d’Italia, indispensabile per la conoscenza del territorio. La prima, al 100.000, fu voluta da Quintino Sella, ma è largamente superata, se non altro per l’enorme crescita degli insediamenti e delle cementificazioni che fragilizzano il territorio. La nuova carta, avviata da più di vent’anni, prevedeva 652 fogli al 50.000, ma solo 255 sono stati realizzati: abbiamo dunque una carta aggiornata solo per il 40% del territorio, e per completarla manca un adeguato finanziamento. Eppure, secondo il rapporto Ance-Cresme (ottobre 2012), il 6,6% della superficie italiana è collocato in frana (547 frane per Kmq nella sola Lombardia), il 10% è a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico. I costi della mancata manutenzione del territorio sono stati valutati in 3,5 miliardi di euro l’anno (senza contare le perdite di vite umane): negli anni 1985-2001 si sono registrati 15.000 eventi di dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti. Nonostante questi terribili segnali di allarme, cresce ogni anno «l’abbandono della manutenzione e presidio territoriale che assicuravano l’equilibrio del territorio ».

Ma che vuol dire “prevenzione”, se mai il governo volesse prendere sul serio questo tema? Vuol dire limitare il dissennato consumo di suolo che “sigillando” i suoli ne riduce l’elasticità e accresce gli effetti di frane e sismi; vuol dire incentivare l’agricoltura di qualità, massimo baluardo contro il degrado dell’ambiente e dei paesaggi, mettendone in valore l’alto significato culturale ed economico. Vuol dire porre una moratoria alla cementificazione dei suoli, rinunciando alla menzogna secondo cui le “grandi opere” e l’edilizia sarebbero il principale motore dello sviluppo. Vuol dire rilanciare la ricerca sulle caratteristiche del nostro suolo e le strategie di prevenzione. Capire che la messa in sicurezza del territorio è la prima, la vera, l’unica “grande opera” di cui il Paese ha bisogno. Secondo il rapporto Ance-Cresme, un piano nazionale per la messa in sicurezza del territorio richiederebbe un investimento annuo di 1,2 miliardi per vent’anni, che assorbirebbe una consistente manodopera bilanciando il necessario decremento delle nuove fabbricazioni: e invece negli ultimi anni gli investimenti pubblici per la messa in sicurezza del territorio sono diminuiti mediamente del 50%. Un piano come questo può generare occupazione convogliando anche risorse private, purché sia evidente l’impegno pubblico in volontà politica, risorse economiche e capacità progettuale. Il governo Letta si mostrerà capace di un’inversione di rotta come questa, per esempio spostando sulla difesa del territorio, e su connesse politiche di occupazione giovanile, una parte dei 26 miliardi di spese militari?

postilla
Peccato che il “pensiero unico” che è alla base delle “grandi intese” e degli accordi renzusconiani, entrambi sponsorizzati dall’attuale presidente della Repubblica, abbiano nella delegittimazione della pianificazione del territorio e negli altri strumenti del governo pubblico del territorio, il fondamento della loro ideologia e delle conseguenti prassi. Peccato che da mezzo secolo si ripete invano che il governo pubblico del territorio e il metodo della pianificazione costituiscono l’unica prevenzione effice dai disastri reiteratamente annunciati. Leggete, sd esempio, questo articolo di Antonio Cederna del 3 gennaio 1973, nell’archivio del vecchio eddyburg.

«Ieri la piog­gia rica­dendo tro­vava un ter­ri­to­rio ancora inte­gro, ovvero orga­niz­zato secondo razio­na­lità eco­lo­gica. Oggi incontra la "città diffusa"». Il manifesto, 31 gennaio 2014
Affoga la «città dif­fusa». Ormai basta un tem­po­rale un po’ più consistente,neppure allu­vio­nale, e pezzi interi di quar­tieri vanno sott’acqua, i fiumi eson­dano, i sot­to­passi diven­tano cisterne di acqua sporca e mel­mosa, pronta a river­sarsi nell’intorno. Il clima impaz­zito, per­ché sovrab­bon­dante di entro­pia ed ener­gia da atti­vità antro­pi­che, sca­rica le pro­prie biz­zar­rie su un ter­ri­to­rio inde­bo­lito; para­dos­sal­mente dall’elemento che più doveva con­so­li­darlo, oltre che moder­niz­zarlo, il cemento delle città.

In que­sti giorni – che sareb­bero quelli della «Merla», ovvero i più freddi dell’anno – regi­striamo tem­pe­ra­ture e pre­ci­pi­ta­zioni da ini­zio autunno. I trend ci dicono che il riscal­da­mento glo­bale pro­voca fre­quenti alter­nanze di sic­cità e forme allu­vio­nali, che pro­vo­cano sem­pre più spesso, con pre­ci­pi­ta­zioni con­cen­trate (le così dette bombe d’acqua), auten­tici disa­stri. Che si evi­te­reb­bero se le piogge rica­des­sero su un ter­ri­to­rio eco­lo­gi­ca­mente solido. Al con­tra­rio un ciclo dell’acqua alte­rato ricade su con­te­sti ambien­tali e inse­dia­tivi for­te­mente inde­bo­liti pro­prio dalla dif­fu­sione urbana, con con­sumo di suolo e cemen­ti­fi­ca­zione che hanno dis­se­stato, degra­dato, scas­sato gli eco­si­stemi, oltre ogni pos­si­bile capa­cità di tenuta. Fino ad ieri, spe­cie in un ambiente ten­den­zial­mente chiuso come quello medi­ter­ra­neo in cui si estende la nostra peni­sola, cicloni ed ura­gani costi­tui­vano eventi ecce­zio­nali. Oggi invece pre­ci­pi­ta­zioni allu­vio­nali diven­tano la norma e tro­vano un ter­ri­to­rio stra­volto da un’urbanizzazione che ormai ingom­bra circa il 20% della super­fi­cie nazio­nale. Con il para­dosso di aver scon­volto gli eco­si­stemi ed i pae­saggi del Bel­paese per rea­liz­zare un enorme patri­mo­nio di volumi edi­fi­cati, abi­ta­tivi, com­mer­ciali, indu­striali, infra­strut­tu­rali, che in gran parte oggi restano vuoti; a testi­mo­niare il dop­pio danno, da spreco e da disa­stri ambien­tali con­se­guenti alle loro rea­liz­za­zioni. Decine di milioni di stanze vuote, miliardi di metri cubi di capan­noni abban­do­nati sono un monu­mento al trionfo della ren­dita, ma soprat­tutto allo sfa­scio e all’idiozia nazio­nale. E con­tri­bui­scono costan­te­mente a innal­zare i livelli di rischio idro­geo­lo­gico — come appare evi­dente ogni giorno di più — ma anche sismico, ci ricor­dano L’Aquila e gli altri cen­tri col­piti da eventi recenti.

Ieri la piog­gia (o la neve) rica­dendo tro­vava un ter­ri­to­rio ancora inte­gro, ovvero orga­niz­zato secondo razio­na­lità eco­lo­gica. I bacini mon­tani erano i primi ad inter­cet­tare le pre­ci­pi­ta­zioni, ma ne trae­vano gio­va­mento nell’alimentazione delle fonti e del patri­mo­nio boschivo. Il deflusso verso valle dell’acqua riscon­trava ver­santi saldi e vie di fuga libere, pronte ad essere fruite in caso eventi allu­vio­nali. A valle col­ture e inse­dia­menti rispet­ta­vano gli alvei flu­viali: in pros­si­mità di que­sti rima­ne­vano ambienti ten­den­zial­mente natu­rali o col­ture umide.

Oggi la città dif­fusa, non solo ita­liana, ha stra­volto tale pae­sag­gio: dalla Mega­lo­poli Padana, alla blob­biz­za­zione del Nord Est, alla mega conur­ba­zione lineare adria­tica, alle città allar­gate dell’Emilia, della Toscana, della cam­pa­gna romana, alla sporca mar­mel­lata inse­dia­tiva napo­le­tana, alle coste ipe­rur­ba­niz­zate e spesso abu­sive di Cala­bria e Sici­lia, fino alla cemen­ti­fi­ca­zione dei con­te­sti urbani sardi (che Cap­pel­lacci vor­rebbe ancora ampliare). Così le col­ture mon­tane abban­do­nate favo­ri­scono il dis­se­sto e le frane, anche per l’abbandono della cura del bosco pro­tet­tivo. Ancora l’urbanizzazione si è spinta spesso verso i ver­santi sub col­li­nari, negando le vie di fuga di fiu­mare e tor­renti, spesso intu­bati o cemen­ti­fi­cati. In regime allu­vio­nale, i corsi d’acqua tro­vano argini sem­pre più alti – che devono «pro­teg­gere» la città estesa fino al limite o den­tro gli alvei — e diven­tano con­dotte for­zate. La rot­tura delle reti eco­lo­gi­che e della con­ti­nuità dei col­let­tori per la dif­fu­sione urbana non per­mette più eson­da­zioni «tran­quille», in caso o fuo­riu­scita o rot­tura degli argini, o di innal­za­menti repen­tini delle falde. Si ten­dono a for­mare così le «macro­va­sche urbane» che abbiamo visto l’anno scorso in Veneto e poi in Sar­de­gna e oggi a Roma: muri e costru­zioni hanno chiuso cor­ri­doi di deflusso e vie di fuga; l’intorno si riem­pie di acqua e fango e il liquido mel­moso sale repen­ti­na­mente. Urge una svolta dra­stica nelle poli­ti­che ter­ri­to­riali e ambientali

« Il vero problema, cioè, è che in Italia ci sono troppi territori ormai sottratti alla sovranità dello Stato. E non saranno le nuove pene per la combustione di rifiuti a restituirceli Occorre, quindi, in primo luogo riaffermare in questi territori la sovranità dello Stato con le sue leggi ed i suoi controlli». Lexambiente, 27 dicembre 2013

Adesso basta. Ogni volta sembra che si sia toccato il fondo ma al peggio non c'è fine. Perchè, guardate, non è facile scrivere tante sciocchezze "giuridiche" tutte insieme come ha fatto il governo in carica introducendo, per la cd. "terra dei fuochi", il nuovo delitto di "combustione illecita di rifiuti" nel decreto legge 10 dicembre 2013 n. 136 ("Disposizioni urgenti dirette a fronteggiare emergenze ambientali e industriali ed a favorire lo sviluppo delle aree interessate"). Purtroppo il problema è reale e gravissimo; e quindi è meglio trattarlo seriamente. Perchè altrimenti sarebbe da ridere.

Intendiamoci, l'intento è condivisibile se, come scrive il governo, "la norma ha l’obiettivo di introdurre sanzioni penali per contrastare chi appicca i roghi tossici, oggi sanzionabili solo con contravvenzioni". Aggiungendo che si tratta di un "fenomeno preoccupante al quale conseguono immediati danni all’ambiente ed alla salute umana, con la dispersione in atmosfera dei residui della combustione, incluso il rischio di ricadute al suolo di diossine".

Dopo di che decreta con urgenza che chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata in aree non autorizzate è punito con la reclusione da due a cinque anni. Dove è il "rogo tossico" ? Dove sono gli immediati danni all'ambiente e alla salute umana? Dove sono le ricadute di diossine? Perchè, sia chiaro, con questa norma anche chi fa un focherello all'aperto con una vecchia cassetta di legno per riscaldarsi rischia almeno 2 anni di reclusione. Tanto per capirsi, più di un omicidio colposo che ha pena minima 6 mesi.

Certo, le cose possono cambiare se si bruciano rifiuti pericolosi. Ma questa è solo una ipotesi di aggravante, con reclusione da 3 a 6 anni. L'ipotesi base fa di tutt'erba un fascio: quanto meno avrebbe, invece, potuto specificare che si applica in caso di combustione di rifiuti suscettibile, per quantità e qualità, di provocare danni reali alla salute ed all'ambiente.

Tanto più che siamo in un paese dove i roghi di rifiuti molto spesso sono rose e fiori di fronte alle "fumate autorizzate" di tante industrie ed inceneritori. Tanto per fare un esempio, l'Ilva. Con questo-intendiamoci- non voglio affatto giustificare chi dà fuoco a rifiuti. Dico solo che era sufficiente applicare le leggi che già c'erano e ci sono, al massimo con una aggiunta per i casi di danno e pericolo concreto. Infatti, già esistevano ed esistono, per i fatti più gravi, i delitti di incendio e di disastro doloso aggravato, oltre a quello, specifico, di traffico illecito di rifiuti, mentre negli altri casi poteva (e può) farsi ricorso allo smaltimento non autorizzato di rifiuti previsto dall'art. 256, comma 1, D. Lgs 152/06 (arresto da 3 mesi a un anno o ammenda da 2.600 a 26.000 euro, ovvero da 6 mesi a 2 anni e stessa ammenda per rifiuti pericolosi). Senza contare che, in caso di emissioni di fumo atte a offendere, imbrattare o molestare le persone c'è il sempresialodato art. 674 c.p. (arresto fino a 1 mese o ammenda fino ad euro 200). Se proprio si volevano introdurre nuove ipotesi di reato per la "terra dei fuochi", sarebbe stato meglio, peraltro, limitarle, appunto alle "terre dei fuochi" con specifico riferimento alla criminalità organizzata. E non a considerare queste circostanze solo come aggravanti di un reato base applicabile indiscriminatamente in tutto il paese.

Ma il fatto più sconcertante è che, nella sacrosanta lotta per la "terra dei fuochi", l'appiccare fuoco ai rifiuti è solo, diciamo così, il secondo atto. Perchè, per dare fuoco ai rifiuti, prima bisogna che qualcuno li abbia buttati o li abbia portati. E allora è in questa fase essenziale che occorre severità; perchè senza di essa non ci sono "roghi tossici", che, peraltro, molto spesso sono appiccati da cittadini esasperati e stanchi di vivere con i rifiuti sotto casa.

Invece, il nostro ineffabile governo, che fa? Inasprisce, è vero, le pene per chi abbandona o deposita in modo incontrollato rifiuti, anzi stabilisce che si applicano le stesse, pesanti pene della "combustione illecita". Ma solo se abbandono e deposito incontrollato avvengono " in funzione della successiva combustione illecita di rifiuti".

Arriviamo, così, al nocciolo della questione che non riguarda le sanzioni ma i controlli sul territorio. Senza controlli e senza una forte coscienza sociale non si ferma chi abbandona i rifiuti nè chi li brucia. Ma oggi, per carenza di uomini e di mezzi, la polizia giudiziaria a stento riesce ad intervenire dopo la commissione di un reato, figuriamoci se può fare controlli generalizzati sul territorio per i rifiuti. In questa situazione, se, come abbiamo già detto per bruciare rifiuti in modo illegale bisogna prima depositarli in modo illegale, non ha senso stabilire che il deposito incontrollato e l'abbandono di per sè siano delitto solo se si provi che essi sono finalizzati alla combustione. Perchè questo si vede dopo la combustione. E ci vuole qualcuno che faccia controlli sia sul deposito sia sulla combustione. In più, si consideri che molto spesso i rifiuti dell'ecomafia sono stati interrati nel sottosuolo dove non si vedono e non vengono bruciati, anche se provocano danni gravissimi all'ambiente e alla salute. E spesso ciò è avvenuto nell'indifferenza dei cittadini e con la complicità delle autorità.

Il vero problema, cioè, è che in Italia ci sono troppi territori ormai sottratti alla sovranità dello Stato. E non saranno le nuove pene per la combustione di rifiuti a restituirceli. Occorre, quindi, in primo luogo riaffermare in questi territori la sovranità dello Stato con le sue leggi ed i suoi controlli. Certo, anche con le sue sanzioni. Ma per fare questo occorre ben altro. Non serve, come fa il decreto legge, inventarsi un Comitato ed una Commissione interministeriale per il "monitoraggio" (tra l'altro) dei terreni sospetti della regione Campania, ai cui componenti, peraltro, "non sono corrisposti gettoni, compensi, rimborsi spese o altri emolumenti comunque denominati". Nè basta la disposizione (art. 3, comma 2) del decreto legge che autorizza i prefetti delle province della Campania ad avvalersi di personale militare delle Forze Armate nell'ambito delle operazioni di sicurezza e di controllo del territorio prioritariamente finalizzate alla prevenzione dei delitti di criminalita' organizzata e ambientale: non è con la militarizzazione del territorio che si risolvono questi problemi.

Ci vogliono, invece, uomini delle "normali" istituzioni, mezzi e soprattutto volontà politica e coinvolgimento delle popolazioni interessate. Occorre garantire il lavoro e la legalità generale. Occorre cultura. Occorre far sentire che lo Stato esiste, assolve ai suoi compiti ed è al servizio dei cittadini. Di certo non basta una norma sanzionatoria del tutto avulsa, come sistema e razionalità, dal contesto in cui viene inserita.

E che, peraltro, è infarcita di inesattezze. Che senso ha dire che occorre che i rifiuti vengano "depositati in maniera incontrollata in aree non autorizzate"? Come se ci fossero aree autorizzate per i depositi incontrollati.E che senso ha, nel nuovo art. 256-bis, comma 2, richiamare le condotte di cui all'articolo 255, comma 1, quando, in realtà queste condotte (abbandono e deposito incontrollato) sono vietate dall'art. 192, comma 1 mentre l'art. 255, comma 1 fornisce solo la sanzione amministrativa e solo per la condotta dei privati (per la condotta di enti e imprese la sanzione contravvenzionale è prevista dall'art. 256, comma 2)?

E che senso ha, nel comma 6, l'ulteriore richiamo alle sanzioni dell'art. 255 se la combustione illecita ha ad oggetto rifiuti vegetali, provenienti da aree verdi quali giardini, parchi ed aree cimiteriali? Infatti, bruciare rifiuti sembra più propriamente rientrare nell'ambito dell'art. 256 che attiene alle attività illecite di gestione di rifiuti. Deve ritenersi, allora, che probabilmente il richiamo sia fatto quoad poenam ; con la conseguenza che oggi anche il caso frequente di bruciamento di stoppie da parte di privato deve intendersi vietato e punito con la sanzione (amministrativa) di cui all'art. 2551.

E ancora: il comma 5 prevede la confisca obbligatoria "ai sensi dell'art. 259, comma 2", dei mezzi di trasporto utilizzati per commettere i delitti di combustione illecita. Ma, ovviamente, i mezzi di trasporto non possono essere utilizzati per bruciare rifiuti; ed allora, non resta che ritenere, al di là della pessima formulazione, che ci si riferisca ai mezzi di trasporto utilizzati per trasportare i rifiuti poi oggetto di combustione illecita. Ma, in questi termini, la norma è superflua e fuorviante. Fuorviante perchè l'art. 259, comma 2 prevede la confisca dei mezzi di trasporto in caso di trasporto illecito e non di smaltimento illecito, come nel caso della combustione. Superflua perchè l'art. 260-ter, comma 5 (in relazione al comma 4), già prevede la confisca obbligatoria del veicolo e di qualunque altro mezzo utilizzato per il trasporto dei rifiuti qualora si accertino i reati (contravvenzionali) previsti dall’art. 256, comma 1; e cioè quelli commessi da «chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216». E, quindi, anche lo smaltimento per combustione illecitPotremmo continuare, ma ci sembra abbastanza.

Concludiamo: speriamo che l'anno nuovo induca il legislatore, nella conversione in legge, ad affrontare seriamente il gravissimo problema delle "terre dei fuochi", pensando più alla sostanza che ai comunicati stampa. Con norme serie ed efficaci per controllo e prevenzione, fugando il sospetto che, alla fine, l'unica cosa che interessa è il business delle bonifiche, magari affidate agli stessi che hanno creato l'emergenza. E magari ricordandosi che forse è tempo di rivedere tutta la normativa sanzionatoria ambientale, depenalizzando le violazioni formali ed introducendo finalmente nel codice penale i delitti contro l'ambiente, come da tempo ci ha chiesto l'Europa.

Altrimenti è prevedibile che "al più si coglieranno in flagranza di reato gli zingari, gli extracomunitari e la manovalanza che viene arruolata dai clan e prontamente viene "sacrificata" agli eventuali organi di polizia (e alla pubblica opinione)...."2. Tutti puniti con la reclusione da 2 a 5 anni.

note

1 In proposito si rinvia al nostro Bruciare stoppie e residui vegetali è veramente reato ? in www.industrieambiente 2008, dove concludevamo che, se l'autore era un privato, non era applicabile alcuna sanzione, visto che l'art. 256, in realtà, configura ipotesi di reato solo a carico di titolari di enti o imprese.
2 PIEROBON, Il d.l. sulla terra dei fuochi e sull'Ilva, in www.lexambiente. it, 12 dicembre 2013

«Se la crescita non ridiventa progresso, cioè ridistribuzione dei redditi, salute, istruzione, casa, salario e pensione dignitosi, ambiente sano, allora sarà solo un altro episodio effimero dell’accumulazione della ricchezza nelle mani di pochi». Greenreport, 19 dicembre 2013

Oggi, poche ore dopo che l’Onu aveva annunciato che la crescita mondiale sarà del 3% (ne parliamo in un altro articolo) e mentre l’Istat si accorge che l’Italia è più povera, ma il mondo è più ricco, il centro studi di Confindustria avverte che «La profonda recessione, la seconda in 6 anni, è finita. I suoi effetti no» e poi aggiunge che parlare di ripresa «E’ per molti versi improprio» e «derisorio». Secondo Confindustria «Il Paese ha subito un grave arretramento ed è diventato più fragile, anche sul fronte sociale» e parla di «Danni commisurabili solo con quelli di una guerra».

Fuoco amico, verrebbe da dire, visto che Confindustria ha sposato e chiesto tutte le politiche liberiste in salsa italo-populista che ci hanno portato a questa situazione. I lettori di greenreport.it sanno che non siamo certo teneri con il governo delle (ex) grandi intese, ma è un filino ingeneroso quanto scriveva ieri sul Sole 24 Ore il direttore Roberto Napoletano: «Il presidente del Consiglio, Enrico Letta, deve trovare il coraggio di scalare la montagna e tornare a respirare aria buona altrimenti è destinato a morire velocemente di smog. Ci siamo rivolti a lui poco più di tre settimane fa chiedendogli di ascoltare il Paese e di avere come stella polare della sua legge di stabilità il lavoro, l’industria, la domanda interna». Ingeneroso perché quella montagna hanno contribuito a costruirla molti imprenditori, la vera classe dirigente di questo Paese che non può far finta di non aver avuto anche pesanti responsabilità politiche e di aver indicato la strada economica (che troppe volte portava a delocalizzare in Romania, Moldavia, Cina e Vietnam) che ci ha portato a questo stretto sentiero, sul baratro sotto la montagna, dal quale ci tocca passare, se ne saremo capaci.

Non ci si può lamentare di un milione e 810 mila posti di lavoro a tempo pieno persi dal 2007 ad oggi dopo aver inneggiato per anni alla flessibilità ed averla tradotta in una precarietà umiliante che sconfina con il lavoro nero, non ci si può lamentare della rivolta sociale e della disperazione delle piccole imprese dopo aver detto (e continuato a dire) che il welfare State era una ferrovecchio socialdemocratico e che il mercato avrebbe sistemato tutto… bastava scatenare gli spiriti animali e fare un po’ di piazza pulita del ciarpame sinistroide e sindacale.

In un Paese dove giornalisti e telecamere corrono dietro ad un manipolo di facinorosi con forconi e ignorano completamente grandi manifestazioni sindacali, dove si dà più spazio ad un qualsiasi tizio sul lastrico che la globalizzazione ha prima arricchito con il trucco della delocalizzazione e della manodopera malpagata e senza diritti, a gente che ha scoperto che se si impoveriscono e si licenziano gli italiani poi non possono più nemmeno comprare il made in Italy prodotto a Tamisoara, in un Paese dove chi chiede dignità e diritti viene fatto passare per un attempato ideologico e il fascismo di Casa Pound diventa qualcosa a cui dare ascolto perché interpreta la rabbia di chi solo poche settimane fa avrebbe investito con il Suv o la Jaguar i suoi operai in sciopero… In questo Paese ingannato, piegato ed incanaglito che vive il peggiore inverno del suo scontento, è difficile riportare tutto quello che sta succedendo alla reale dimensione che si può riassumere in una parola che è diventata una bestemmia: politica, o meglio politiche.

E’ stata politica la decisione di Barack Obama di prendere atto del fallimento del liberismo neo-conservatore ed avviare un intervento dello Stato nell’economia che sta portando gli Usa fuori dalla crisi e creando nuovi posti di lavoro, è stata politica la scelta dei partiti conservatori e liberisti che dominano l’Europa da 10 anni di tentare di chiudere la partita con il welfare state socialdemocratico, è stata politica la scelta di non salvare la Grecia e di mettere in atto un esperimento di shock economy che ha ridotto quel piccolo Paese in miseria, è politica la politica incarnata nella Troika che ha imposto a governi come quelli spagnolo, portoghese, irlandese ed italiano di diventare volenterosi carnefici di una visione ideologica dell’economia e dei rapporti sociali.

E è politico, maledettamente politico, chi semina l’illusione che la via di uscita da questa crisi, che ci toglie il respiro del futuro e ci annebbia la vista e l’orizzonte, sia uscire dall’Europa e dall’euro per recuperare una “sovranità monetaria” che negli anni ormai dimenticati della lira significava svalutazioni a ripetizione e inflazione a due cifre che erodeva rapidamente ogni aumento salariale.

E’ politica, maledettamente politica, che la crescita nei Paesi che stanno uscendo dalla crisi sia per ora un rimbalzo del baratro nel quale ci ha precipitati l’economia neoconservatrice del pensiero unico e che questo rimbalzo significhi un ulteriore arricchimento di chi ha già enormi ricchezze e posti di lavoro precari e mal pagati per chi ha già enormi disagi ed ha perso diritti e garanzie.

Il fatto è che l’economia è politica, può farla od esserne condizionata, e gli anni che (forse) ci lasciamo alle spalle sono stati anni di sudditanza della politica all’economia più ingorda, e non viceversa come vorrebbero farci credere e come credono i forconi. La verità è che non è uscendo dall’Europa e dall’Euro che si salva l’Italia e si dà una speranza ai nostri giovani e un lavoro ai nostri disoccupati, non è chiedendo un nuovo (l’ennesimo) uomo forte che si riparano i torti, la verità è che si ottiene più giustizia sociale solo se in Europa ritornano a contare quelli che quella giustizia sociale la vogliono, se si ritorna a parlare di welfare state, di progresso, se si rompe l’incantesimo dei vari Barroso, Merkel, Berlusconi. Aznar, applauditi e sostenuti dalle varie confindustrie, e che si è tramutato nell’incubo senza colpevoli dell’Europa neoconservatrice.

La verità è che se la crescita non ridiventa progresso, cioè ridistribuzione dei redditi, diritto alla salute, all’istruzione, alla casa, ad un salario e ad una pensione dignitosi, ad un ambiente sano, allora si tratterà solo di un altro episodio effimero dell’accumulazione della ricchezza nelle mani di pochi, dell’eterna ingordigia umana all’opera prima della nuova crisi in un mondo in crisi ecologica e dove nascono ogni giorno molti più poveri che ricchi.

No imballaggi: «Gli scarti sono in costante aumento: da 49 milioni di tonnellate nel 2012 saliranno a 65 nel 2017 Per molti un peso di cui liberarsi, seminando veleni da Nord a Sud. Come rivela un rapporto Onu». La Repubblica, 17 dicembre 2013

Se li caricassimo su camion da 40 tonnellate, formerebbero una fila lunga tre quarti dell’equatore. È la fotografia al 2017 dei computer, palmari, televisori, frigoriferi e lavatrici che buttiamo nel corso di un anno. La definizione tecnica di questi materiali è “raee”, “rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche”, quella sostanziale è più difficile: per molti rappresentano un peso di cui liberarsi clandestinamente, spesso attraverso rotte che viaggiano da Nord a Sud seminando veleni; per altri costituiscono una risorsa preziosa perché recuperare i metalli preziosi e le terre rare contenuti nei beni gettati via può essere un buon affare.

Di sicuro questa nuova categoria di rifiuti costituisce una presenza sempre più ingombrante con cui bisogna fare i conti. I numeri contenuti nel rapporto Solving the E-Waste Problem (StEP) Initiative, un’iniziativa promossa dalle Nazioni Unite, rivelano una tendenza molto netta. Già oggi ognuno dei 7 miliardi di esseri umani che popolano il pianeta butta 7 chili di rifiuti elettrici ed elettronici all’anno, per un totale che sfiora i 49 milioni di tonnellate. Nei prossimi cinque anni ci sarà una crescita di un terzo, portando la cifra a 65,4 milioni di tonnellate: l’equivalente di 200 grattacieli come l’Empire State Building o di 11 Piramidi di Giza.

Il settore legato all’e-waste (i rifiuti elettronici) diventa così un termometro per misurare la crescita e la maturità delle varie economie. Nel 2012 la Cina si è collocata al primo posto nella classifica delle merci appartenenti a questa categoria con 11,1 milioni di tonnellate immesse sul mercato, seguita dagli Stati Uniti con 10 milioni di tonnellate. Ma la graduatoria si inverte quando si passa alla quantità dei prodotti elettronici buttati via: gli Usa, essendo partiti prima, hanno maggiori volumi di scarto: 9,4 milioni di tonnellate contro i 7,3 della Cina. E anche sul piano dell’ewaste pro capite la distanza è notevole: 29,8 chili per ogni statunitense rispetto ai 5,4 chili per ogni cinese.

Ma dove finiscono questi flussi in continua crescita? «L’obiettivo dello studio è comprendere meglio le rotte illegali per sistemare il puzzle delle esportazioni dei rifiuti elettrici ed elettronici», risponde Jason Linnell, direttore del Centro nazionale per il riciclo degli apparecchi elettronici (Ncer). «A fronte di aumenti così vistosi si tratta di ottenere un quadro il più preciso possibile per impostare la migliore linea di risposta».

Anche perché al momento la quota di commercio clandestino resta molto alta. La ricerca mostra che gli apparecchi più grandi, soprattutto tv e monitor, dagli Stati Uniti vengono esportati verso destinazioni come Messico, Venezuela, Paraguay e Cina, mentre i pc usati, soprattutto portatili, hanno più probabilità di andare verso i paesi asiatici e africani. Nei villaggi dei paesi più poveri questo afflusso si traduce in un drammatico aumento delle malattie legate allo smaltimento, senza le più elementari norme di sicurezza, di beni solo apparentemente innocui.

Qui è possibile leggere integralmente il rapporto StEP

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