Venezia docet, e dopo Firenze, anche a Napoli cartelloni della pubblicità rendono osceni i monumenti più insigni. La cronaca di Silvia Truzzi e il commento di Tomaso Montanari a proposito del Palazzo Reale a Piazza Plebiscito. Il Fatto quotidiano, 25 aprile 2014
Una gigantesca pubblicità su palazzo reale. Eppure in Piazza del Plebiscito sono vietati “eventi commerciali”
Può la Nutella far venire mal di pancia, anche senza mangiarne cinque chili? Assolutamente sì, e succede precisamente a Napoli. Protagonisti: la famosa crema di nocciole in odore di un importante genetliaco (50 anni) e un sovrintendente assai puntiglioso (ma non sempre). Location: la famosa piazza del Plebiscito nella sopracitata Napoli. Breve riassunto: qualche mese fa – informa il Mattino – un cartellone pubblicitario di notevoli dimensioni campeggiava, a copertura dei lavori di restauro, sulla facciata di Palazzo Reale con tanto di faccione di Gerry Scotti e Linus. A pochi metri da lì c’è l’ufficio del Sovrintendente Giorgio Cozzolino, che l’estate scorsa ha firmato un perentorio decreto per vietare in Piazza del Plebiscito “eventi a carattere commerciale”. Proprio lì c’era appena stato il concerto di Bruce Springsteen, attorno al quale si erano scatenate mille e una polemica. Che c’entra oggi tutto questo?
La Ferrero ha deciso di festeggiare i cinquant’anni della Nutella non ad Alba, bensì nella più assolata Napoli con un concerto gratuito, previsto per il 18 maggio, della popstar Mika.
In cambio l’azienda piemontese, oltre a pagare 50 mila euro per l’occupazione del suolo pubblico, s’impegna a restaurare le due statue equestri della piazza e ha offerto “disponibilità per altri eventuali aiuti”. Ma sarà considerato evento commerciale, e dunque incapperà nella scure del decreto di Cozzolino? Napoli fibrilla perché il concerto sta già richiamando moltissimi fan del cantautore libanese. Dal Comune obiettano che non si tratta di evento commerciale perché gratuito (per tutta la giornata: al mattino sono previste attività per i bambini, primi consumatori della Nutella). Luigi De Magistris, che da quando è sindaco ha litigato praticamente con chiunque, ha dichiarato che “la piazza simbolo della città deve vivere anche attraverso i grandi eventi internazionali, che rilanciano l’immagine di Napoli e producono ricadute positive sull’indotto economico e commerciale”. Gli eventi internazionali sono la sua passione (le prove dell’America’s Cup, la Coppa Davis, un improbabile invito ad Al Pacino), però (nonostante strascichi poco edificanti di alcune vicende) tocca dargli ragione. Anche se in città i detrattori degli eventi al Plebiscito ricordano i danni alla pavimentazione che arrecano i Tir quando montano i palchi o i ricordini sotto forma di graffiti che regolarmente lasciano gli spettatori . Dirimente sarà la decisione del Sovrintendente Cozzolino, oggetto di una polemica piuttosto vivace sulle pagine de il Mattino dove ieri si criticava un’intransigenza intermittente. Ha bocciato le luci d’artista in piazza Plebiscito (quest’anno erano di rara bruttezza), la scogliera finta costruita per la Coppa America, i concerti di Pino Daniele e Mark Knopfler sempre in Piazza del Plebiscito, l’Arena del mare, ma a vedere le partite di Coppa Davis c’è andato. E poi c’è anche la questione delle piattaforme sul lungo mare: sull’unica installata, al circolo Canottieri, è intervenuta la Polizia municipale. Dov’era il Sovrintendente? A prendere il sole, proprio lì.
Prende le sue difese Gregorio Angelini, direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Campania: “Un linciaggio mediatico che mi ha ricordato la storia del magistrato con i calzini celesti”. A parte il riferimento poco pertinente al giudice Mesiano, dell’affaire Nutella al Plebiscito, dice: “C’è un vincolo su quella piazza.
Dopo l'impugnazione del decreto, il Tar aveva concesso una sospensiva, annullata dal Consiglio di Stato che però deve ancora esprimersi sul merito. È vero che la Nutella rappresenta il Made in Italy, ma ci sono norme a tutela della monumentalità della piazza. Lunedì il dottor Cozzolino e io incontreremo l’assessore all’Urbanistica, per verificare la proposta del Comune. Nessuno mette in discussione che la piazza debba essere un luogo vitale e vissuto della città, tuttavia c’è un’area di rispetto che restringe un poco la ricettività: esiste un problema di attività compatibili. Ma lo spirito è quello di collaborare per trovare una soluzione”. In tarda serata un comunicato del ministro Franceschini sembra mettere la parola fine alla querelle: “Io credo che la salvaguardia dei monumenti e delle piazze non debba necessariamente tradursi in un impedimento a manifestazioni pubbliche, soprattutto quando possono essere, come un bel concerto, un’occasione di utilizzo e valorizzazione del patrimonio pubblico mettendolo a disposizione di tutti i cittadini”. Che Napoli sarebbe, senza Nutella?
COME PER PONTE VECCHIO
IL PROBLEMA È POLITICO, NON DI TUTELA
di Tomaso Montanari
Concedere a un grande marchio commerciale Piazza del Plebiscito a Napoli non è un problema di tutela dei monumenti. Non so cosa deciderà il soprintendente architettonico Giorgio Cozzolino – specie dopo la nota del suo ministro Dario Franceschini, che sembra volerne impropriamente condizionare il verdetto –, ma in ogni caso il problema è politico, non certo tecnico.
Esattamente come nel caso del Ponte Vecchio noleggiato da Matteo Renzi alla Ferrari per una cena di lusso, del Teatro Greco di Siracusa concesso a un raduno di auto da corsa, della sala di lettura della Biblioteca Nazionale di Firenze usata come location per il lancio di una collezione di moda di Alessandro Dell'Acqua. In tutte queste occasioni in gioco non c'era la salvaguardia materiale dei luoghi, ma quella dei valori immateriali connessi a quegli spazi pubblici. Per secoli la forma dello Stato e la forma dell’etica pubblica si sono definite nella forma dei luoghi pubblici. Le città italiane sono sorte come specchio, e insieme come scuola, per le comunità politiche che le abitavano. E la funzione delle loro piazze era permettere ai cittadini di incontrarsi come liberi e come pari. Se trasformiamo questi luoghi in un centro commerciale più o meno occulto, essi non produrranno più cittadini, ma clienti, consumatori, sudditi del mercato. Il sociologo americano Cristopher Lasch ha scritto che “quando il mercato esercita il diritto di prelazione su qualsiasi spazio pubblico, la gente corre il rischio di perdere la capacità di autogovernarsi”. Un enorme cartellone pubblicitario issato pochi anni fa sui monumenti di Piazza San Marco a Venezia gridava a caratteri colossali lo slogan: “Non rispettare le regole, dettale”. Che è esattamente il messaggio che mandiamo sottoponendo al mercato i grandi spazi pubblici del Paese.
Non ho nulla contro la Nutella (anzi...), ma dobbiamo chiederci se sia giusto che tutto abbia un prezzo: è questo il nostro progetto di città, e dunque di società? Il fatto che le soprintendenze (quando funzionano) siano rimaste (sole) a difendere lo statuto non commerciale dello spazio pubblico italiano appare sempre più intollerabile, ed è per questo che da destra a sinistra si propone di abolirle.
Una lettera aperta al sindaco di Napoli, affinchè Bagnoli non continui a essere il buco nero dell'urbanistica napoletana, in contrasto con il vigente piano regolatore, Corriere del Mezzogiorno, 30 marzo 2014 (m.p.g.)
Caro Sindaco De Magistris, tra i troppi beni comuni che sono stati negati ai cittadini di Napoli ci sono, e da troppo tempo, anche la salute e il mare. In nessun luogo come a Bagnoli è drammaticamente tangibile l'intreccio tra queste due privazioni.
Oggi la criminale distruzione della Città della Scienza mette le amministrazioni napoletane – il Comune, ma anche la Regione e gli organi di tutela – di fronte all'ennesimo bivio di questa lunga storia: e per l'ennesima volta si rischia di imboccare la direzione sbagliata. Fu un errore fatale collocare un insediamento industriale così enorme in uno dei luoghi simbolo del paesaggio e del patrimonio culturale europei, fu un errore farlo ripartire dopo la Grande Guerra, fu un errore ricostruirlo dopo la Secondo Guerra mondiale, fu un errore piegare la pianificazione urbanistica ai diktat industriali e permettere la realizzazione della colmata a mare.
Oggi sarebbe un errore imperdonabile rinunciare a rimuovere la colmata, a condurre fino in fondo la bonifica, a ripristinare la linea di costa, a restituire ai napoletani una vera spiaggia urbana. Oltre ad essere un errore, sarebbe una gravissima violazione della legge. Lo storico vincolo apposto dal Ministero per i Beni culturali nell'agosto del 1999 (basato sull'esemplare relazione di Antonio Iannello) e la legge 582 del 1996 impongono infatti di abbattere gli edifici che impediscono il ripristino della morfologia originale della costa. Coerentemente, l'attuale Consiglio Comunale ha deliberato, nella seduta del 25 settembre 2013, di destinare a spiaggia pubblica l’arenile da Nisida a Coroglio, accogliendo così la petizione popolare del comitato “Una spiaggia per tutti”, sottoscritta da oltre 13.000 napoletani.
Il primo passo, importantissimo in sé e importantissimo come pegno concreto della volontà di perseguire effettivamente questo processo di affermazione dei valori costituzionali, è rappresentato dalla decisione di ricostruire la Città della Scienza non dov'era, ma bensì al di là della strada di Coroglio.
Come membri dell'Osservatorio per i Beni Comuni rivolgiamo un accorato appello a Lei, alla Giunta e al Consiglio Comunale perché questo passo venga compiuto senza esitazioni e ambiguità.
E ricordiamo che ove si imboccasse, invece, la strada contraria, il nostro stesso lavoro sui beni comuni non avrebbe più senso, perché sarebbe smentito alla radice.
Alberto Lucarelli è Presidente dell'Osservatorio sui Beni Comuni del Comune di Napoli, Tomaso Montanari ne è membro
Quale alibi migliore della Scienza per derogare un piano urbanistico a privatizzare un pezzo di litorale? Ecco un ulteriore colpo di piccone volto distruggere un progetto urbanistico odiato dal “blocco edilizio”, dai fanatici dello sviluppismo e tenacemente difeso degli ambientalisti e, soprattutto, dei comitati cittadini. L’ennesimo episodio di malgoverno urbanistico di una giunta molto discussa. Riferimenti in calce
Il 30 gennaio il sindaco di Napoli ha firmato presso il Ministero della coesione territoriale un accordo preliminare con la fondazione Idis-Città della Scienza, che consentirà a quest’ultima di ricostruire in loco i fabbricati del museo scientifico bruciati l’anno scorso. Un blocco di oltre 100mila metri cubi di fronte al mare, arretrato di qualche metro per consentire la realizzazione della spiaggia pubblica. Ma quello che per De Magistris costituisce un buon compromesso viene invece denunciata come una scelta sciagurata da molte realtà di base napoletane ed associazioni ambientaliste, tra cui Italia Nostra. Quest’ultima ha preannunciato un ricorso al TAR contro la firma dell’Accordo di programma quadro, fissato per il 4 marzo, primo anniversario dell’incendio. L’Accordo si rende necessario per modificare gli strumenti urbanistici comunali: infatti la Variante al PRG per la zona occidentale, approvata nel 1998, ed il Piano urbanistico attuativo per Bagnoli-Coroglio, ratificato nel 2005, prevedono il trasferimento di tutti i volumi edilizi esistenti sul litorale (inclusa una parte di Città della scienza) per fare posto ad una spiaggia pubblica di quasi due chilometri.
Città della Scienza, che occupa un’ex area industriale di 6,5 ettari sita ‘a cavallo’ della strada litoranea, è stata infatti realizzata con un Accordo di programma del 1997 che andava in deroga alla variante, adottata l’anno prima dal consiglio comunale ed all’epoca in via di approvazione: l’accordo stabilì che il trasferimento dei volumi ricadenti nell’area destinata a spiaggia sarebbe avvenuto una volta ammortizzato il finanziamento pubblico erogato per ristrutturare a science center i fatiscenti capannoni della ex Federconsorzi. Questo espediente, voluto dall’allora sindaco Bassolino, ha aperto un pericoloso vulnus nella realizzazione del piano, di cui si sono avvantaggiati anche altri soggetti: basti ricordare che, al momento di approvare il Piano attuativo, si stabilì di posporre parimenti il trasferimento dell’adiacente borgo di Coroglio (una misura tacitamente estesa de facto anche al vicino circolo ILVA). Di fatto, rinviando indefinitamente la liberazione del lungomare, si è permesso il progressivo coagulo di numerosi interessi privati intorno al suo utilizzo ‘provvisorio’: nello stesso anno, il 2005, un consorzio di concessionari balneari ha privatizzato con l’avallo di Comune ed Autorità portuale gran parte degli arenili esistenti, ancorchè non fosse avvenuta alcuna bonifica del mare e della spiaggia.
Avverso le disposizioni urbanistiche, nonché in contrasto con la legge 582/1996 (che all’articolo 1, comma 4, prevede “il ripristino della morfologia naturale della costa”) ed il vincolo paesaggistico posto nel 1999 sulla piana di Bagnoli-Coroglio (che aveva esplicitamente escluso una richiesta di vincolo per archeologia industriale avanzato dalla locale soprintendenza su sollecitazione dell’Idis per i propri capannoni), intorno alla struttura di Vittorio Silvestrini è cresciuto negli anni un fronte del rifiuto che considera inattuabile la riqualificazione urbanistica ed ambientale disposta dalla Variante e ne propugna la modifica per garantire la valorizzazione degli interessi privati esistenti. Queste forze, agevolate dalle vecchie amministrazioni di centrosinistra, non sono state contrastate nemmeno dalla nuova giunta arancione che, malgrado le forti aspettative iniziali, si è posta in sostanziale continuità con il loro operato. Il ‘braccio di forza’ ingaggiato con l’Idis all’indomani del rogo per assicurare il rispetto del piano con la ricostruzione in altra sede dei volumi distrutti (essendo tragicamente venuta meno ogni esigenza di ammortamento) si è infine risolto a favore di quest’ultima; non è forse un caso che l’assessore all’urbanistica De Falco, sostenitore delle posizioni di Italia Nostra, sia stato dimissionato nel bel mezzo della trattativa.
Eppure non mancano le ragioni e i mezzi per contrastare le pretese di Città della Scienza, oltre quelle già esposte; qualcuna De Magistris ha tentato di giocarla, senza però andare fino in fondo. Con un’ordinanza sindacale emessa lo scorso 3 dicembre, ha imposto (vanamente) all’Idis di presentare il certificato definitivo di bonifica delle proprie aree: nel corso della trattativa è infatti emerso che per quindici anni Città della Scienza ha ospitato milioni di visitatori (in gran parte bambini) senza avere il necessario attestato di sicurezza ambientale. E’ poi legittimo sostenere l’opportunità, prima di ogni decisione, di aspettare che l’indagine giudiziaria in corso faccia luce sugli autori e le ragioni che si celano dietro l’incendio della struttura: benchè i dirigenti di Città della Scienza sostengano che il rogo sia collegabile a non meglio precisate mire speculative della camorra, i giornali hanno più volte riferito l’esistenza di un ‘pista interna’, che ha portato la magistratura a sequestrare i registri contabili della fondazione. Last but not least, va fatta valere l’esistenza di una delibera d’iniziativa popolare, sottoscritta da 13mila cittadini ed approvata il 25 settembre 2012 dal consiglio comunale, che dispone la destinazione ad uso balneare gratuito e la gestione comunale di tutto il litorale da Coroglio a Bagnoli.
E’ comunque evidente come l’indisponibilità dell’Idis ad abbandonare la spiaggia non sia determinato dalle pur spesso addotte ragioni funzionali bensì dal valore economico dell’area, come candidamente esplicitato sulla stampa locale dal consigliere delegato della fondazione, Vincenzo Lipardi. Non va poi dimenticato che il progetto di Città della Scienza redatto dall’architetto Pica Ciamarra prevede la realizzazione di un attracco per le Vie del Mare sul vecchio pontile della ex Federconsorzi: una scelta attualmente sospesa ma su cui l’Idis punta ancora, e che, se realizzata, incrementerebbe notevolmente i visitatori della struttura ma al prezzo di compromettere la balneabilità di gran parte del litorale vicino Nisida.
In conclusione, la questione non ruota intorno a qualche metro quadro di spiaggia in più o in meno, come piace credere al sindaco De Magistris, bensì sulla legittimità e credibilità delle norme urbanistiche per Bagnoli. Cedere (e stavolta definitivamente) su Città della Scienza significa aprire la strada ad una revisione peggiorativa della Variante e del Piano attuativo, con lo spostamento dei volumi edificabili sul lungomare ed il ridimensionamento di indispensabili attrezzature pubbliche, come il parco urbano e la spiaggia. La vicenda si inserisce infatti in un contesto estremamente critico sia per Bagnoli che per la città: la bonifica è in stallo, le aree sono sequestrate ed è appena iniziato il processo per truffa e disastro ambientale. Il 13 febbraio è stata messa in liquidazione Bagnoli-Futura, la società di trasformazione urbana del Comune incaricata della riqualificazione, indebitata per centinaia di milioni di euro con le banche e con Fintecna, ex proprietaria dei suoli industriali di Bagnoli; quest’ultima, reagendo all’ordinanza sindacale che le imponeva di rimuovere la colmata a mare realizzata nel 1962 sul litorale dall’ex Italsider, aveva già chiesto al Tribunale il fallimento di BagnoliFutura per recuperare 60 mln di indennità mai corrisposti. La possibilità che i suoli e le opere pubbliche finora realizzate finiscano per pochi soldi in mani private, che un’amministrazione comunale politicamente debole e sottoposta al rischio del dissesto finanziario ceda al ricatto e modifichi gli strumenti urbanistici secondo le convenienze degli speculatori, è quindi più che un’ipotesi. Infatti pochi giorni fa il Sindaco, per coinvolgere la Cassa depositi e prestiti (proprietaria di Fintecna) e gli investitori privati, ha comunicato l’avvio di una revisione ad hoc del piano urbanistico, preannunciando modifiche inquietanti, come la realizzazione di un porto turistico nella riserva naturale marina di Nisida.
Lungi dal costituire il faro della riqualificazione di Bagnoli, Città della Scienza (che ha già usufruito di due Accordi di Programma in deroga alle norme urbanistiche, nel 1997 e nel 2003) sta contribuendo attivamente al suo affossamento, con la complicità di quegli intellettuali e mass media che l’hanno avvolta in un’aura di incriticabilità. Solo una decisa mobilitazione dei cittadini potrà porre con forza i decisori pubblici coinvolti (Ministero dell’Ambiente, Soprintendenza, Sindaco e Consiglio Comunale) di fronte alla loro precisa responsabilità di difendere l’interesse collettivo. E’ quello che le realtà territoriali di base napoletane si stanno impegnando a fare tra mille difficoltà, e per cui chiedono il sostegno attivo del mondo urbanistico ed ambientale nazionale. Al di là dei giochi di parole, per Bagnoli e Napoli si tratta davvero dell’ultima spiaggia.
Riferimenti
comitato
Una denuncia e un appello del Comitato "Una spiaggia per tutti" e dell'"Assise Cittadina per Bagnoli"per la salvaguardia di un bene prezioso cui i cittadini di Napoli non sono disposti a rinunciare. Per aderire vedi in calce
Il recupero ad uso pubblico del litorale di Bagnoli corre un serio rischio. Da alcuni mesi autorevoli esponenti della fondazione Idis sostengono pubblicamente di avere raggiunto con il Comune di Napoli un accordo per la riedificazione dei fabbricati di Città della Scienza distrutti dal rogo del 4 marzo scorso; gli edifici verrebbero ricostruiti “com’erano e dov’erano”, a meno di una piccola area marginale che sarebbe trasformata in giardinetto con vista sul mare e graziosamente concessa alla fruizione della cittadinanza, la quale potrebbe accedervi tramite due accessi pedonali attrezzati dalla fondazione. Tale accordo, secondo fonti giornalistiche, dovrebbe essere formalizzato il 19 novembre a Roma durante un incontro tra Idis, Comune e Governo. Il sindaco De Magistris continua ad proclamare di aver raggiunto un “compromesso soddisfacente”, sul quale però non fornisce alcuna delucidazione, ed ha ribadito durante la recente seduta monotematica su Bagnoli del Consiglio Comunale che spetterà a tale organo l’ultima parola in merito. Appare tuttavia strano che su una questione così delicata non ci sia stata una discussione pubblica e che il ruolo del consiglio debba ridursi ad approvare o rigettare, a scatola chiusa, un accordo definito dal Sindaco in altre sedi.
Affermiamo senza mezzi termini che l’approvazione di un tale accordo, indipendentemente dalla sede dove eventualmente dovesse avvenire, costituirebbe un atto gravissimo sia per le sorti dell’ex area industriale di Bagnoli che per le procedure democratiche di governo del territorio.
E’ bene precisare subito che la riqualificazione di Bagnoli è imprescindibilmente legata al recupero del suo lungomare per la pubblica balneazione ossia alla realizzazione di quella grande spiaggia cittadina a cui napoletani anelano da oltre un secolo. A questo fine mirava la legge per il primo finanziamento della bonifica di Bagnoli, la 582/96, stabilendo al comma 14 dell’articolo 1 l’obbligo di ripristinare la morfologia naturale della costa. Nella stessa direzione andava la Variante al PRG per l’area occidentale del 1998, disponendo di demolire e riedificare in altra sede gli edifici siti a valle di via Coroglio, per realizzare un arenile continuo da Nisida a la Pietra. Questo sacrosanto obiettivo, sostanzialmente recepito nel 2005 dal Piano Urbanistico Attuativo per Bagnoli-Coroglio, è stato recentemente ribadito dal Consiglio Comunale di Napoli, che il 25 settembre 2012 ha approvato con larghissima maggioranza (praticamente all’unanimità) una delibera d’iniziativa popolare, sottoscritta da oltre13mila cittadini napoletani, la quale impegna la Giunta ed il Sindaco a compiere una serie di atti per destinare ad uso balneare gratuito il tratto di litorale tra Nisida ed il confine comunale con Pozzuoli.
Purtroppo nessuna amministrazione pubblica ha finora tradotto questi provvedimenti in azioni concrete; tuttora il lungomare di Bagnoli, ancorchè inquinato da sostanze pericolose come quelle sparse sui fondali e negli arenili o nella famigerata colmata a mare, è sottoposto ad un processo di privatizzazione strisciante, imperniata prevalentemente sugli interessi dei concessionari balneari privati e della fondazione Idis. Com’è noto, un accordo di programma ha imposto nel 1997 che il trasferimento dei volumi di Città della Scienza siti a valle di via Coroglio, previsto dalla Variante, avvenisse solo alla data di ammortamento dei finanziamenti pubblici erogati per la loro ristrutturazione. Dopo l’incendio che ha distrutto tali fabbricati, evento sulle cui oscure motivazioni la magistratura tuttora indaga, la fondazione Idis ha promosso una campagna martellante per assicurarsene la ricostruzione in loco, malgrado logica e diritto andassero in un’altra direzione. Il Comune, che sembrava in un primo momento deciso a trasferire la struttura nel rispetto delle norme urbanistiche, si è successivamente attestato su una posizione attendista, se non addirittura conciliante, verso le richieste dell’Idis.
Ben si comprende l’interesse particolare della fondazione Idis a mantenere un affaccio diretto sul mare, benchè esso sia marginalmente o per nulla collegato alle sue attività istituzionali. Molto meno comprensibile è l’esitazione del Comune ad affermare il prevalente interesse generale a recuperare integralmente alla balneazione quel prezioso tratto di costa dove Napoli può ancora sperare di riavere la sua spiaggia. Lo stesso interesse generale che dovrebbe spingerlo a verificare quale bonifica abbia effettuato l’Idis sui suoli dell’ex Montecatini dov’è insediata Città della Scienza, come anche gli effetti ambientali del recente incendio, prima di prendere in considerazione ogni ipotesi di riuso dell’area. Appare poi una beffa che il Governo (all’epoca presieduto da Mario Monti) abbia saputo reperire in poche settimane oltre 20 milioni di euro per la ricostruzione di Città della Scienza, mentre solo un anno prima aveva tagliato senza scrupoli 50 milioni di euro destinati al ben più importante obiettivo della bonifica del mare di Bagnoli.
E’ quindi necessario affermare senza equivoci che avallare le pretese dell’Idis significherebbe violare tutte le disposizioni precedentemente richiamate, facendo strame delle procedure democratiche e sabotando il fondamentale obiettivo di restituire ai napoletani una spiaggia pubblica balneabile degna di questo nome. La ricostruzione in loco dei fabbricati distrutti autorizzerebbe tutti gli edifici e le funzioni che attualmente insistono sull’area destinata a spiaggia dagli strumenti urbanistici a rimanere dove sono: al posto di un arenile pubblico attrezzato secondo un disegno unitario di qualità, rimarrebbe l’attuale spezzatino di manufatti scadenti ed attività commerciali private. Verrebbe inoltre incoraggiata la volontà dell’Idis di completare il suo originario progetto e realizzare sul pontile dell’ex Montecatini un approdo per le Vie del Mare, con il conseguente traffico di barche ed aliscafi che comprometterebbe definitivamente il ripristino della balneazione in quell’area.
Va invece ribadito che le attività di Città della Scienza allocate nei fabbricati distrutti dall’incendio possono e devono trovare nuova sede in un’area adeguata da individuare a monte di via Coroglio, secondo le previsioni della Variante al PRG per l’area occidentale, essendo tragicamente quanto ineluttabilmente venuta meno ogni esigenza di ammortamento. La risposta adeguata ad un atto criminale come quello che ha colpito gli edifici di Città della Scienza non può consistere certo nell’avvalorare scelte contrarie a quelle norme di governo del territorio che la città si è data da tempo ma nella celere e puntuale individuazione di autori, mandanti e ragioni del gesto da parte della magistratura.
Per questo chiediamo al Sindaco, alla Giunta ed al Consiglio Comunale di impegnarsi formalmente affinché in nessuna sede di confronto istituzionale venga rimessa in discussione la scelta, sancita nelle leggi nazionali e negli strumenti urbanistici comunali, di rimuovere sia la colmata a mare che tutti gli edifici siti a valle di via Coroglio per realizzare un arenile ininterrotto da Nisida a La Pietra, da destinare a spiaggia pubblica cittadina.
Tra le molte ombre del governo napoletano di De Magistris anche qualche sprazzo di luce: l'Osservatorio sui Beni comuni: un tentativo controcorrente per restituire all'uso comune beni privatizzati. Il Fatto quotidiano, 30 agosto 2013 L'esperienza del governo napoletano di Luigi De Magistris presenta, come è ormai evidente, non poche zone d'ombra. Alcune di queste riguardano proprio la politica culturale: e in modo particolare la gestione infelicissima del luna park noto come Forum delle Culture, un progetto fallimentare ereditato dalla precedente amministrazione, e che il sindaco arancione non ha avuto il coraggio di cestinare. La vicenda ha registrato proprio in queste ore un passaggio grottesco: con l'assessore alla Cultura Nino Daniele (subentrato alla bravissima Antonella Di Nocera, rimossa per eccesso di onestà intellettuale) che affida al fratello del sindaco un importante incarico retribuito collegato al Forum. E quest'ultimo poi costretto a rinunciare.
Nelle nostre prime riunioni siamo partiti da una base giuridico-politica per nulla ovvia, e cioè che «laddove beni, anche in proprietà privata, siano abbandonati e perciò non assicurino quella funzione sociale, imposta dalla Costituzione, per cui il diritto di proprietà è riconosciuto e garantito dalla legge, sia possibile ritenere non più sussistente il diritto di proprietà e, dunque, acquisire il bene stesso alla collettività, ritenendolo un bene comune, ossia un bene oggetto di proprietà collettiva». Si tratta di tentare un'applicazione sistematica di quel radicalismo costituzionale che ha condotto a esperienze notissime (come il Valle a Roma, l'Asilo Filangieri a Napoli e molte altre in tutta Italia). Non solo: si tratta anche di alzare il piano di questa applicazione, coinvolgendo un'intera amministrazione comunale e non solo singoli cittadini, inevitabilmente più esposti ad eventuali azioni penali.
Da un punto di vista procedurale, l'Osservatorio sta definendo gli strumenti amministrativi di acquisizione di beni (privati o pubblici), abbandonati e dismessi. Nel merito, si tratta invece di elaborare una mappatura dei beni abbandonati e/o dismessi, e poi di elaborare procedure amministrative di nuova destinazione, di modelli partecipati di assegnazione e gestione, di piani di sostenibilità finanziaria.
Il caso del patrimonio artistico, di cui mi sto occupando, è particolarmente delicato. Non c'è città al mondo che abbia un patrimonio culturale tanto importante e al contempo tanto degradato, e inaccessibile ai cittadini. La cosa è atrocemente paradossale, se si pensa che il patrimonio, a Napoli, è diffuso capillarmente: ogni strada del gigantesco centro storico, anche la più devastata, è in qualche modo monumentale. In particolare, l'enorme «Napoli sacra», la cittadella religiosa fatta di chiese, oratori, confraternite, conventi, monasteri, innerva capillarmente il corpo della città: e ne è, in qualche modo, l'anima. Un'anima che può assolvere ad un cruciale funzione civile: la Napoli sacra offre alla Napoli di oggi un'enorme quantità di spazio pubblico di straordinaria qualità, ubicato in una zona popolarissima e disagiata.
Ma come è possibile rendere di nuovo accessibile ai cittadini (e specie agli ultimi) questo straordinario patrimonio negato? Con un intollerabile ritardo culturale (che, per esempio, rispetto agli Stati Uniti si misura in almeno tre decenni) l'opinione dominante in Italia vuole che la via d'uscita sia affidare in concessione questi luoghi monumentali a società private con scopo di lucro, o nel migliore dei casi ad onlus. La sfiducia nella gestione pubblica del bene comune è così elevata che siamo disposti a credere che società con il legittimo fine dell'interesse privato saprebbero coltivare l'interesse pubblico in modo più efficiente dello stato. Una posizione puramente ideologica, quest'ultima, che non solo rigetta alla base il progetto della Costituzione sul patrimonio culturale (rivolgendosi non a cittadini sovrani, ma a clienti a pagamento), ma non tiene in minimo conto i pessimi risultati della sostanziale privatizzazione della gestione del patrimonio inaugurata dalla Legge Ronchey all'inizio degli anni Novanta.
Rinasce, grazie al prezioso lavoro della Cineteca nazionale un altro splendido film: dopo la Roma della lotta al fascismo (Roma città aperta, di Rossellini) è la volta della Napoli del comandante Lauro e della speculazione, Le mani sulla città di Rosi: quasi un documentario di un'Italia che è dura a morire. Il manifesto, 25 agosto 2013
Rosi denunciava lo sfascio urbanistico e politico di Napoli, in grande espansione in quegli anni. Non poteva sapere –forse lo intuiva- che la sua opera avrebbe costituito una magistrale, anche se assai inquietante, previsione circa i disastri delle politiche, non solo urbanistiche , che avrebbero segnato tutto il Paese,l’Italia intera, nei cinquantenni successivi. Sfregiandone irrimediabilmente quel volto “illuminato e gentile” colto dai viaggiatori del Gran Tour e che le era valso il soprannome di “Belpaese”.
Nonostante i disastri, i tentativi di riforma urbanistica e di “nuovo regime dei suoli”, portata avanti dal democristiano Fiorentino Sullo con l’appoggio della sinistra socialista e del PCI venne bloccata, segnando addirittura la fine politica dell’ex ministro. Le emergenze ambientali della crescita territoriale portarono ad una serie di provvedimenti normativi, parziali, che nell’arco di un decennio, dal 1967 alla fine dei settanta, avviarono un processo pure timidamente riformista; la legge Ponte-Mancini, sulla scissione tra diritto di proprietà e di superficie, del ‘67; i decreti su zoning e standard, nel ‘68; la legge sulla casa e gli espropri, del ‘71; l’onerosità della concessione a costruire e degli oneri di urbanizzazione, del ‘77; l’avvio dei piani di recupero, del ‘78.
Questa intenzione –ed i modesti tentativi di pianificazione progressista che avevano comportato- venivano frustrati all’alba del decennio successivo da una serie di sentenze della Corte Costituzionale che mettevano in discussione vincoli urbanistici e criteri di esproprio. Annunciavano gli anni ottanta, con la crisi di Welfare state, l’avvio di un ventennio abbondante di iperconsumismo e una sorta di controriforma urbanistica, introdotta dalle sentenze citate e continuata con i tentativi di svuotare le capacità prescrittive dei piani con la cosiddetta “programmazione concertata”, in nome di un “Nuovo”, che invitava a “Fare”, in realtà a consumare senza senso e limiti,anche il territorio. E meno male che di lì a poco esplodeva anche in Italia la “questione ambientale”. In realtà, le criticità urbane e le “mani sul territorio nazionale” non si erano mai interrotte; la rendita speculativa, agraria ed edilizia, diventava industriale, poi commerciale e infrastrutturale,infine finanziaria dettata dal marketing urbano globalizzato:la semplice operazione di trasformazione diventava un affare, con i relativi lavori,più o meno grossi;migliore, se la nuova,anche ipotetica destinazione d’uso,trovava dei potenziali investitori. Neutralizzata la pianificazione efficace, razionalmente basata sulla domanda sociale, la città diffusa pervadeva sempre più i vari ambiti del territorio nazionale: una blobbizzazione cementizia industriale, che cancellava il paesaggio, seppelliva i beni culturali, degradava l’ambiente, deterritorializzava.
.Per “aver fornito un contributo fondamentale alla cultura e alla cultura urbanistica nazionale”, Francesco Rosi qualche anno fa è stato insignito della Laurea ad honorem dal Corso di laurea in Urbanistica dell’Università di Reggio Calabria. È emblematico come –a causa dei tagli e delle controriforme Gelmini/Tremonti/Profumo - oggi, perfino quel Corso di laurea sia stato cancellato (i Corsi di laurea di Urbanistica e Pianificazione peraltro si continuano a tenere in diverse altre sedi). Nonostante le accorate declaratorie e denuncie sulla necessità di svolte radicali nelle politiche ambientali nazionali, il sistema politico decisionale restringe anche ricerca e formazione. Per tutto questo –ha ragione Roberto Saviano- il film resta un capolavoro, “una grande rappresentazione non solo di Napoli,ma dell’Italia, anche di oggi”. Anche se oggi forse Rosi girerebbe gli esterni in Val di Susa e gli interni tra Parlamento e Ministeri.
«Mai sono apparse così gradualmente trascurate e lasciate a se stesse come da una ventina di anni a questa parte. Bagnoli è solo l'emblema massimo». Corriere del Mezzogiorno, 1 agosto 2013, con postilla
«Ci chiediamo esterrefatti quanto tempo ancora dovrà passare perché Napoli torni a essere una città civile. Perché essa – sia detto a chiare lettere – oggi non lo è». Così inizia una lettera di tale Vittorio Gennarini a La Stampa, apparsa venerdì 26 luglio, che si conclude affermando che «questa è una città per modo di dire, in cui anche i più pazienti non possono continuare a vivere». Il motivo dell'inciviltà napoletana? Le condizioni dei trasporti cittadini, poiché «nelle domeniche d'estate alcuni autobus pubblici scompaiono completamente dalla circolazione, spesso per intere mattinate, ricomparendo poi all'improvviso, quando i passeggeri in attesa alle fermate si sono già sentiti male per l'angoscia e il sole che picchia».
Gennarini (un nome di chiara origine meridionale, se non proprio napoletana) doveva avere un forte mal di pancia quando ha scritto una tale lettera sulla civiltà di Napoli, e stupisce che un giornale di grande tradizione come La Stampa l'abbia pubblicata senza nemmeno una parola di commento. Noi, però, saremmo pronti a scommettere che il Gennarini abbia vissuto le sue avventure estive domenicali aspettando qualche mezzo di trasporto in qualsiasi parte dell'ampio arco periferico napoletano da San Giovanni a Bagnoli. E lo crediamo perché, malgrado i grandi progressi fatti con la metropolitana collinare e urbana, le comunicazioni rimangono in quelle periferie, a dir poco, problematiche.
Con una Cumana, i cui orari sono spesso una scommessa, con una Vesuviana, lontana ormai da quella puntualità e regolarità che una volta ne facevano un modello europeo, con altre carenze a tutti ben note, il trasporto urbano è diventato uno dei tanti settori critici della Napoli odierna, ma ben più che critico proprio per l'arco periferico della città. E magari fossero solo i trasporti a essere critici in questo arco! È vero che per tutta la città l'attuale amministrazione è del tutto al di qua del mostrarsi capace di delineare un progetto o un'idea di città, un disegno urbano da perseguire in tutto o in parte, con un ritmo d'insieme o modulare.
Che cosa intenda dire il sindaco quando dice che sta trasformando la città, nessuno ha finora capito. Trasformando in che cosa? L'impressione non a caso prevalente è che siamo nel pieno di una faticosa marcia verso il nulla in un contesto di inefficienza operativa quotidiana inconsueta anche nella non brillantissima storia amministrativa napoletana. E se questo è vero per la città nel suo insieme, certo molto di più lo è per le periferie.
L'attuale periferia della città si è formata con l'ampliamento della circoscrizione cittadina operata nei primi tempi del fascismo, attuando, male e parzialmente, una delle geniali intuizioni di Nitti all'alba del Novecento. I comuni allora inclusi nel perimetro cittadino rimpiansero a lungo la loro perduta autonomia municipale, che però non molto giovava né ad essi, né a Napoli. Il negativo non era nell'annessione e nella loro perduta personalità municipale. Il negativo è derivato dal modo come è stata effettuata e poi sviluppata l'annessione. Mai, tuttavia, le periferie napoletane sono apparse così gradualmente trascurate e, infine, lasciate a se stesse come da una ventina di anni a questa parte. Bagnoli è solo l'emblema massimo, e forse insuperabile, di questa tristissima verità. Ma se si parla di Napoli Est o della periferia Nord o di quartieri come quelli occidentali, il bilancio non migliora per nulla, ed è così negativo da esimere dal fermarsi sui particolari. Eppure, quelle periferie rimasero per un bel po' un polmone vivo e compartecipe della vita cittadina.
La geografa Anna Maria Frallicciardi, con una lettera inviata a questo giornale, ha ricordato la Bagnoli della sua infanzia. Io ricordo la Bagnoli della mia infanzia, prima della guerra, che era un grande e ameno lido popolare della città, così come lo era, anche se meno ameno, San Giovanni a Teduccio; ricordo che Barra e Ponticelli ospitavano anche villeggianti d'estate con la loro posizione già vesuviana; che Secondigliano e altri rioni erano mete di gite e scampagnate non solo popolari; ricordo il gioiello che era la conca di Agnano. Cose del tempo che fu, dissolte dalla nefanda espansione edilizia che ha rovinato tanta parte della città dal Vomero alto e basso a Posillipo, da Capodimonte a Capodichino, o, in pieno centro, ai Fiorentini. E, tuttavia, pur nel corso di questa dissennata moltiplicazione edilizia, sempre di volta in volta vi fu un disegno di città o almeno l'esigenza di un disegno di città, che salvaguardasse la fisionomia storica alla quale Napoli deve la sua grande ed evidente importanza urbana mediterranea ed europea; e in questo disegno un certo luogo era riservato anche alle periferie, come negli ultimi tempi è accaduto sempre meno, sino all'attuale vuoto, non pneumatico, di ogni progettualità urbana. Ancora trent'anni fa si disegnava con Andrea Geremicca un «piano delle periferie», e poco dopo si disegnavano altri scenari urbani. Ora il nulla è completo sotto questo aspetto, come su questo giornale è stato ricordato con una bella pagina dedicata a Benedetto Gravagnuolo, e, per le periferie, con l'inchiesta qui ad esse dedicata.
Intanto, condizioni materiali della città si sono andate deprimendo oltre ogni possibile previsione, costituendo l'attuale terreno sociale e umano minato, che in molti sempre più indicano nel drammatico rilievo delle sue emergenze il sindaco non ci racconti, perciò, che egli sta trasformando la città, né se la prenda coi poteri forti, la camorra, la magistratura, i giornali e i giornalisti cattivi, e soprattutto non si arrocchi nei trenta mesi che ancora (salvo imprevisti) gli restano del suo mandato. Faccia altri discorsi, e soprattutto faccia qualcosa che non sia la minacciata e minacciosa rimozione dei marciapiedi di via Caracciolo (!). Dopo di essere passato dall'arancione al grigio, non precipiti in un nero profondo, aggravando ancora, come ha aggravato finora, la già così brutta condizione della città. Certo, non è che, andando via lui, si risolvano i problemi napoletani. Ma è convinzione ormai comune a Napoli e fuori che, se egli voleva «scassare tutto», c'è brillantemente riuscito; e che se qualcosa si può fare per la città, ne è un indispensabile preliminare un altro tipo di amministrazione e di attività amministrativa.
Dalla società dell’eguaglianza, che parlava di pieno impiego e di fine delle povertà materiali, si è così passati ad una società della diseguaglianza, dove distanze abissali dividono le persone.
postilla
Lo sguardo degli storici ha una lunga gittata, a volte vede le epoche, non i lustri e gli anni più vicini. E così l'amico Galasso, quando denuncia, giustamente, il degrado cui la giunta De Magistris ha portato Napoli, ricorda, dei decenni a noi più vicin, il "piano delle periferie promosso da Andrea Geremicca ma non ricorda il successivo sviluppo di quella esperienza negli anni della prima giunta Bassolino: fino all'approvazione del PRG del 2004. Se avesse abbassato lo sguardo fino a quegli anni avrebbe forse anche ricordato che il primo atto scriteriato del sindaco De Magistris fu lo scioglimento di quegli uffici comunali che erano riusciti a condurre una delle più interessanti e positive esperienze di pianificazione urbana, nella quale salvaguardia del territorio, soddisfacimento delle esigenze sociali, ampie dotazioni di spazi pubblici ed efficace riorganizzazione del sistema della mobilità trovavano la loro sintesi. Il lettore che voglia documentarsi meglio e che conosca ancora poco eddyburg potrà condividere il nostro giudizio scorrendo i documenti raccolti nella cartella dedicata a Napoli dell'archivio di eddyburg.
Abbiamo chiesto al nostro collaboratore di fare sinteticamente il punto sulla situazione di Napoli ripercorrendo l'arco di tempo che separa gli anni del "Rinascimento napoletano fino alle vicende recenti, che hanno trovato ampio spazio nelle cronache ma scarsi riferimenti al loro spessore. In calce alcuni riferimenti
Il declino napoletano che ha contraddistinto il lungo decennio jervoliniano, continua inarrestabile in questo primo inconcludente biennio della giunta de Magistris. Due anni, un tempo prezioso, sono stati consumati in un evanescente spot, con la mente rivolta non ai problemi della città ma ad una affermazione nazionale, considerata a portata di mano. Le cose sono andate diversamente, altri sono stati beneficiati dai frutti di questo inverno dello scontento. Nel frattempo la crisi della città si aggrava, ed è crisi strutturale.
C’è il dissesto economico, che andava affrontato subito, con decisioni coraggiose, e non ora, sotto dettatura del governo. Il costosissimo colosso delle aziende partecipate, più di 8.000 dipendenti, è sempre lì, grande fabbrica di consenso malato, con una gestione opaca della quale non sono chiari gli obiettivi e i benefici reali per la città. Il corpo fisico della città, in mancanza di manutenzione quotidiana, si sta sfarinando, tra buche stradali e crolli. L’urbanistica e la macchina amministrativa sono in stand by: manca assolutamente un’agenda, una strategia per le dieci municipalità, che sono dieci città nella città, mentre il dibattito, anziché allargarsi alla scala metropolitana, si attorciglia su pochissime priorità, i grandi eventi innanzi tutto. L’impiantistica per i rifiuti non c’è ancora, mentre la differenziata segna il passo: preferiamo esportare monnezza, continuando a pattinare su un ghiaccio estremamente sottile.
C’è poi la crisi principale, che è crisi di classe dirigente, affatto superata dal decisionismo del ristrettissimo cerchio magico che attornia de Magistris, che continua stancamente a parlare di beni comuni e partecipazione diretta, sponsorizzando poi provvedimenti dai profili di legittimità sempre pericolosamente incerti, vedi la delibera di giunta con la quale si voleva sperimentare un regime di devolution fiscale, una sorta di inedita extraterritorialità, a beneficio di un’intera insula urbana di proprietà dell’immobiliarista Romeo, che avrebbe trattenuto a sé le imposte, provvedendo autonomamente alla manutenzione urbana.
Poi naturalmente c’è la questione di Bagnoli, con le lunghe indagini della magistratura, il sequestro delle aree, la brutta storia di una bonifica fantasma, che addirittura avrebbe peggiorato le cose. Cosa dire? Quando arrivano i giudici il danno è già fatto, la distruzione dolorosa di tempo, risorse, fiducia e prospettiva è oramai difficilmente recuperabile.
Qui, l’errore è stato quello di considerare la bonifica del sito industriale come un’operazione meramente tecnica, di competenza specialistica: insomma, cose troppo complicate da spiegare ai cittadini comuni. Nei paesi civili, le grandi bonifiche industriali sono operazioni all’insegna del pragmatismo, della sobrietà, con un forte controllo politico e partecipazione sociale. Gli obiettivi, le tecniche e i tempi sono chiaramente definiti, le risorse sono quelle strettamente necessarie, i controlli periodici estremamente rigorosi ed efficienti.
A Bagnoli, invece, per più di due lustri abbiamo delegato la gestione esclusiva delle operazioni ad un ente strumentale – la società di trasformazione urbana – che ha operato in solitudine, senza rapportare periodicamente alla città e ai suoi amministratori, senza spiegare niente, spendendo per di più una barca di soldi. Come se la bonifica non fosse parte del progetto urbanistico complessivo, ma un affare a sé stante.
Ad ogni modo, io penso che la responsabilità politica prevalga su quella dei tecnici infedeli. In questioni come queste, lo si voglia o no, sono il sindaco, la giunta, il consiglio a dover sovrintendere alle operazioni, esercitando il diritto/dovere di controllo, ma anche di impulso, mettendo in gioco tutto il capitale politico e istituzionale disponibile, nei confronti sia della macchina amministrativa locale, sia dei livelli di governo superiori: regione, stato, commissione europea, che pure hanno un ruolo importante nella vicenda, non per niente tengono i cordoni della borsa.
Non ci sono scorciatoie. Anche oggi, quando siamo al punto più basso, resta questa la strada da intraprendere, aprendo finalmente un dialogo trasparente con la città, definendo rapidamente un nuovo programma, un modo di procedere. Su questo punto ha ragione De Lucia: niente è definitivamente compromesso.
Resta la domanda su chi dovrebbe mai fare queste e cose, ora che il capitale di fiducia è oramai dilapidato. Peccato, perché Napoli dispone, nonostante tutto, di una molteplicità di risorse, culture, esperienze, capacità inutilizzate, dalla precedente come da questa amministrazione. Sarebbe questo il momento di aggregarle, in un’assunzione generale di responsabilità, consapevoli che non ci sono traiettorie e carriere personali da lanciare. Tenere in vita la città è un lavoro duro, ingrato, alla fine nessuno ringrazierà.
Riferimenti
Sugli argomenti trattati sinteticamente da di Gennaro eddyburg ha raccolto nel tempo molti materiali, consultabili nella cartella dedicata a Napoli. Della città e dei progetti per la sua rinascita si è parlato anche nelle prime edizioni (2005, 2006, 2008) della Scuola di eddyburg e nella prima visita della serie "una città un piano"
«Napoli è una bussola, ma l’impressione è che il nostro Paese non sia più alla ricerca di una direzione, che non voglia più trovare l’orientamento». La Repubblica, 15 aprile 2013
Sette anni sono un tempo lungo, troppo lungo. Un tempo infinito di assenza dalla città in cui sei nato e hai vissuto gli anni più importanti della tua vita, della tua formazione. È da sette anni che non calpesto il basalto dei vicoli di Napoli, di cui conoscevo a memoria tutto: le macchie di umidità sui palazzi, le vetrine delle botteghe, i pacchi di pasta e i barattoli di conserve impolverati. I piennoli di pomodorini che i turisti credono decorativi, ma fanno il sugo più buono della domenica. Tutto per me era casa. Negli ultimi anni, invece, di Napoli ho visto solo il Palazzo di Giustizia, che sembra un corpo estraneo nella città più luminosa che io abbia mai visto. Di quella luce che ferisce gli occhi, le fredde aule del Tribunale con le vetrate che sembrano mai lavate conservano ben poco.
Negli ultimi anni sono stato ovunque, mai a Napoli. Ecco perché ora, alla vigilia del mio ritorno, sono emozionato, nervoso, impaziente. Perché torno dove tutto è cominciato. Sento di chiudere finalmente il cerchio. Cosa mi aspetto? Francamente non lo so. A Napoli ho ancora molti amici che sentono il peso di dovermi difendere da una città che non mi ama.
«Speculatore». «Ti sei arricchito sulle disgrazie della tua città». «Furbo, furbetto, furbone». «Hai detto il noto, hai venduto l’invenzione dell’acqua calda». «Ti sei appropriato del lavoro di tutti noi». «Scampiamoci da te». Queste le accuse che mi sono state rivolte. Che ho percepito negli sguardi, tra le mezze parole sussurrate e quelle urlate. Parole che vengono rivolte spesso, anzi sempre, a chiunque venga letto, ascoltato, seguito oltre una misura che la città non tollera. Perché parlare di Napoli si può, ma devi farlo a Napoli, con i napoletani. Eppure tutto questo per me è sempre stato inaccettabile.
A chi ci vive, a chi la studia, Napoli offre infatti un enorme privilegio: poter assistere a un grande laboratorio dove tutto ciò che accade altrove, dove tutto ciò che accadrà altrove, è già accaduto.
È qui che sono state poste le fondamenta del centrosinistra al governo a metà degli anni Novanta. Antonio Bassolino ha a lungo cullato il sogno della ribalta nazionale, perché riteneva che il suo partito gli fosse debitore: se non avesse ingoiato i bocconi amari delle alleanze con Mastella e De Mita il governo Prodi non sarebbe mai nato. Forse è vero. Ma è inaccettabile credere che una stagione lunga vent’anni fatta di successi prima e di fallimenti poi possa chiudersi con l’assoluzione politica per il suo maggiore rappresentante. Il fallimento del Rinascimento napoletano è stato quel credersi diversi solo in quanto diversi e non per la diversa gestione della cosa pubblica. Come se tutto fosse ancora fermo a prima della caduta del muro di Berlino. In apparenza, comunisti contro democristiani; in realtà a braccetto, come per tutto il secondo dopoguerra.
È a Napoli che il definitivo fallimento del centrosinistra si è realizzato. È l’esperienza napoletana ad aver anticipato nei fatti la prossima crisi del Partito Democratico. Questa diaspora è avvenuta qui prima che nel resto d’Italia. Napoli avrebbe potuto insegnare, se ascoltata. La sconfitta definitiva del bassolinismo — del suo sistema clientelare, a metà strada tra Mosca e il distretto metapolitico Ceppaloni-Nusco — è coincisa con il trionfo del rifiuto, oramai esasperato, delle logiche e delle corruzioni partitocratiche. Addirittura è da Napoli che sono partiti gli scandali privati di Berlusconi. Non a caso da Casoria, paesone di quella enorme e caotica periferia che è la città, ma che costituisce allo stesso tempo il colpevole rimosso della stagione bassoliniana. Tutto è cominciato da quella imprudente partecipazione al diciottesimo compleanno di Noemi Letizia.
Qui tutto è laboratorio. Curzio Malaparte aveva ragione: “Quando Napoli era una delle più illustri capitali d’Europa, una delle più grandi città del mondo, v’era di tutto a Napoli: v’era Londra, Parigi, Madrid, Vienna, v’era tutta l’Europa. Ora che è decaduta, a Napoli non c’è rimasta che Napoli. Che cosa sperate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli. È il destino dell’Europa di diventare Napoli”.
Napoli sta attraversando una fase difficilissima, forse la più difficile degli ultimi decenni. Si era illusa di nuovo, aveva di nuovo sperato e dato la sua fiducia a un amministratore che non ha avviato alcun percorso di rinnovamento. Mi scrivono: “Verrai a Napoli, non criticare De Magistris, in questo momento c’è bisogno di unità”. Ma io vorrei che una cosa fosse chiara: non c’è nulla di personale nelle mie critiche, i problemi che Napoli ha, non sono stati generati dal sindaco De Magistris. La sua responsabilità sta nell’aver indicato una via facile, nel non aver ascoltato consigli e previsioni di chi gli era accanto. Di chi è stato malamente allontanato. Gli va riconosciuto che Napoli è un territorio difficilissimo e che lo ha trovato allo sbando, in ginocchio, senza speranza. Divorato dal clientelismo. Chiunque si sarebbe trovato in grande difficoltà. A maggior ragione non doveva porsi degli obiettivi così immediati, ma puntare a soluzioni lungimiranti. Tutto questo non è stato in grado di farlo. E deve, con onestà, ammetterlo. Qualche esempio? Il dramma di rifiuti è lontano dall’essere risolto: la raccolta differenziata (che doveva raggiungere secondo le promesse il 70% in due anni) è un miraggio, mentre è una triste realtà l’allontanamento degli uomini che dovevano affiancare il sindaco nel rinnovamento. Persino un’operazione meritoria come la creazione della Ztl si è trasformata in un boomerang, perché (visto lo stato del trasporto pubblico a Napoli) rischia di essere solo un’operazione effimera, destinata a essere cancellata al prossimo cambio di giunta.
E poi la crisi. Oltre il 40% di disoccupazione giovanile, lavoro nero, lavoro criminale come uniche alternative e costanti oramai endemiche. La classe intellettuale spesso allevata e pagata dagli amministratori con prebende e consulenze che in questo modo comprano un silenzio assordante. E un’aggressività tremenda contro i nemici del padrone. Cani da guardia affamati e zelanti, per i quali cultura militante è difesa delle misere briciole del non più lauto banchetto del potere. Il vecchio estremismo privo di idee nuove contagia le nuove generazioni che, guidate da figure oramai caricaturali, giocano per le strade della città “agli anni Settanta”. Un estremismo identico e precario: sempre lo stesso, immobile e ignorante.
La Napoli di oggi è una Napoli che sisognava diversa e che diversa non è. Come dice Riccardo Realfonzo, ex assessore al bilancio, le uniche certezze che Napoli ha nell’immediato futuro sono l’aumento dell’Imu, dell’addizionale Irpef, della tassa sui rifiuti, dei costi di asili nido e mense scolastiche. Aumenti a fronte di servizi che non possono più essere erogati o quasi. Aumenti a fronte di stipendi che non possono essere più pagati. Napoli avrebbe bisogno di riforme per ripartire, non di una cappa sullo sviluppo. Napoli è anche e soprattutto un territorio di risorse. Ed è a queste che oggi si deve fare appello. Perché a Napoli la crisi è atavica. A Napoli non ci si sente smarriti dall’assenza di diritto, come invece accade altrove. E allora è da qui che si può ripartire: dalle energie della città e dalla sua capacità di far fronte alla mancanza di opportunità. È dalle persone, lavoratori che — non risulti ironico — lavorano il triplo di qualsiasi lavoratore nordeuropeo, guadagnando la metà.
Quell’enorme fascia sociale che lavora alacremente perché sa che con il proprio sudore dovrà farsi carico delle prebende di una classe dirigente imbelle, i cui privilegi De Magistris non ha neanche provato a mettere in discussione. Quell’enorme massa di cittadini che — nonostante la mancanza di servizi pubblici e la progressiva distruzione del già insufficiente welfare, svuotato dall’interno dalle mafie sindacali e politiche, prima ancora che dalla crisi attuale — ogni mattina, col sorriso sulle labbra e la sua enorme dignità vive nonostante tutto. Rassegnata, ma viva e determinata a dare ai propri figli una possibilità: fosse anche quella di andar via, ché la vita è una sola e non tutti possono permettersi di “giocare agli autonomi” in eterno. Napoli patisce da sempre, ha gli anticorpi e la capacità di insegnare come affrontare emotivamente questo momento difficile, come non perdere la speranza, come prendere le misure. Come rinascere.
Napoli è una bussola, ma l’impressione è che il nostro Paese non sia più alla ricerca di una direzione, che non voglia più trovare l’orientamento. Ed è triste constatare come, ancora una volta, il Sud sia stato tenuto fuori da quest’ultima campagna elettorale. Considerato peso, zavorra, luogo del quale parlare il meno possibile, dove ogni cosa è in mano alla criminalità e tutto il resto è trascurabile. Non mi stancherò mai di dire che sono i ragazzi del Sud a riempire le università del Nord contribuendo in questo modo a tenere in piedi quella parte di economia che attorno a questo ruota. Che la manodopera dal Sud arriva ovunque. Manodopera specializzata, operai che fanno ogni genere di sacrificio pur di non arrendersi a un territorio da troppo tempo negletto. Il Mezzogiorno è centrale nell’apporto intellettuale al nostro Paese, nel contrasto alle organizzazioni criminali cui le procure del Nord sono arrivate tardi. Eppure tutto questo al Sud, a Napoli, non viene riconosciuto. Nonostante la città abbia interlocutori pronti a parlare al Paese. Quando vivevo a Napoli c’era solo l’Assise di Palazzo Marigliano come voce altra rispetto al potere, oggi grazie ai social network c’è una partecipazione della cittadinanza che è incredibile: va incanalata, utilizzata. Come vanno condivise le esperienze, vanno ascoltate le proposte.
Ecco, la colpa più grande di De Magistris è proprio questa: aver finto di ascoltare e di essersi, invece, dimostrato più sordo di chi lo ha preceduto, forse troppo occupato ad immaginare un suo ruolo da politico nazionale, nella sfortunata avventura con Ingroia. Tornerò dunque a Napoli. A via Toledo, strada che frequentavo moltissimo quando vivevo a piazza Sant’Anna di Palazzo. Tornerò con ansia e paura. Vorrei che questa città smettesse di ferire a morte, eppure so che è un’illusione. Ferire fa parte di questa terra travagliata e colma di una tale bellezza che chiunque abbia la fortuna di viverci aspira a essere felice sempre; è convinto di poterlo essere, felice. Quando si vive qui tutto sembra possibile. Anche continuare a vivere sebbene feriti a morte.
Andrea Fabozzi intervista, per il manifesto del 13 aprile 2013, l'autore del piano per l'area di Bagnoli, assessore alla vivibilità nella prima giunta Bassolino: «Bagnolifutura va sciolta, è feudo dei partiti, dice l'urbanista che ha redatto il piano. E Città della Scienza va ricostruita dall'altro lato della linea di costa»
Un'amministrazione memorabile e il suo prodotto più rivoluzionario. Il ricordo della prima giunta Bassolino è legato alla variante per Bagnoli e l'urbanista che quel piano ha preparato, Vezio De Lucia, ne è il custode. Piuttosto arrabbiato. «Le responsabilità penali - dice commentando il sequestro di ieri - andranno accertate. L'inchiesta della magistratura sembra molto fondata, ma non bisogna distrarsi dalle responsabilità politiche».
La giunta chiede altri fondi, ma la magistratura ritiene che quelli spesi fin qui siano serviti addirittura ad aumentare l'inquinamento.
È evidente che il problema non può essere ridotto a una questione di finanziamenti. Il ritardo è immane e insopportabile. Cominciai a occuparmi di Bagnoli esattamente venti anni fa. Non è possibile che sia stato fatto così poco e così male. I paragoni sono sempre difficili, ma il Guggenheim di Bilbao si è fatto, bonifica e museo, in sette anni. No, non è un problema di fondi, ma di cultura della città.
In che senso?
La città, e per essa la politica e l'amministrazione, hanno sempre visto Bagnoli con l'horror vacui. L'idea di base del grande parco pubblico e della spiaggia non è mai stata condivisa fino in fondo. Dalla classe imprenditoriale e dai costruttori, e si capisce, ma non solo. Napoli non riesce a liberarsi dalla cultura del cemento. Il parco di 120 ettari sarebbe più o meno come Villa Borghese, che fu regalata a Roma quando la città aveva poche centinaia di migliaia di abitanti. Ferrara gestisce un parco di 1.200 ettari. E invece il fior fiore dei sapienti e degli amministratori di Napoli ripete che a Bagnoli non ce lo possiamo permettere.
Eppure la gran parte dei bagnolesi, e dei napoletani, quelli che come dice uno slogan efficace hanno un costume ma non una barca, frequentano quel mare con avidità. Nonostante il fondale e le sabbie restino inquinate, e la colmata sia ancora lì.
Secondo me questo desiderio non è rappresentato e nemmeno raccolto dall'amministrazione comunale. La spiaggia pubblica non l'accettano. Secondo me, mi auguro di sbagliare ma non lo credo, si sta aspettando l'occasione per rimettere tutto in discussione. L'abbiamo visto ai tempi della Coppa America. Allora sembrava di sentire il sospiro di sollievo, «finalmente ci liberiamo dell'incubo del parco». Il punto è che la politica dovrebbe orientare la città, non può essere a rimorchio di una malintesa opinione pubblica. Se no prevale il peggio. Il primo Bassolino praticamente impose il progetto, ricordo un'assemblea sulla spiaggia nel '94 con i caschi gialli in cui annunciò che avremmo fatto lì il più grande parco pubblico della città. Non prese i fischi, temuti, ma un'ovazione. Lui, operaista, era riuscito a spiegare la nostra idea di risarcimento ai cittadini.
Realisticamente, si può ancora fare la bonifica?
Ultima domanda, Città della Scienza. Va ricostruita lì dov'è, sulla spiaggia?
Assolutamente no, per tutti i motivi che ho spiegato. Coroglio deve tornare ad esser la spiaggia dei napoletani, è questo il primo punto del nostro piano, quello in vigore. Città della Scienza crebbe grazie a un cospicuo finanziamento pubblico contemporaneamente all'approvazione della variante per Bagnoli, che non la prevede. Non poteva star lì, ma ci furono appelli di premi Nobel contro l'amministrazione di Napoli. Alla fine si firmò un accordo di programma che prevede che una volta ammortizzati i capitali investiti, Città della Scienza andava demolita e ricostruita al di là della strada. Dove già c'è una parte delle strutture. A questo punto, dopo l'incendio, non vedo il problema. Si ricostruisca più bella e più grande di prima, ma dall'altro lato della spiaggia. C'è tutto lo spazio che serve.
La posizione dell’assessore all’urbanistica De Falco: come ricostituire la città della scienza, restituire all’uso degli abitanti l’area dell’ex Ilva e ripristinare la legalità. Il Mattino, 12 marzo 2013
Si può fare, a patto che ci sia un dibattito, che non si divida, che si faccia presto nella ricostruzione di Città della Scienza. Però l’ipotesi di delocalizzaione all’interno del grande parco di Bagnoli della struttura distrutta dalle fiamme a Palazzo San Giacomo nessuno la nega. Nel senso che è nel novero delle possibilità.
Altri ancora, come i dipendenti di Città della scienza possa essere simbolicamente una resa a chi quel rogo lo ha voluto. «Città della scienza va ricostruita subito - scrive ancora l’assessore - non in altri quartieri della città, messa in rete con i gioielli della zona occidentale che motivarono la prima iniziativa della pianificazione urbanistica negli anni del rinascimento napoletano: la Mostra d’Oltremare, le terme di Agnano, con i poli della ricerca e delle comunicazioni (il Cnr, le Università, la Rai), il complesso Ciano, lo stadio San Paolo, l’ippodromo di Agnano».
Un omaggio, se si vuole, al grande sforzo fatto all’epoca di Bassolino sindaco per mano di Vezio De Lucia titolare dell’urbanistica. Il padre della Variante occidentale che così si è espresso sulla materia: «C’è stata la tragedia e tutta ci siamo commossi però questo potrebbe consentire di tornare all’idea originale: la spiaggia e solo spiaggia tutto il resto va via. Ora si possono determinare le condizioni. Sfruttiamo la tragedia in modo positivo per fare la Città della scienza più bella di prima, del resto un pezzo della struttura sta già a monte di Coroglio».
Il riferimento è ai manufatti di archeologia industriale. In particolare l’ex acciaieria il cui rilancio è interamente finanziato dalla Ue. Sulla questione si sono espressi favorevolmente anche Raimondo Pasquino presidente del Consiglio comunale nelle vesti tecnico. E anche le asssisi di Bagnoli che addirittura si stanno battendo per promuovere un referendum comunale.
Al di là del dibattito vale la pena aprire una discussione di tipo tecnico, come suggerisce lo stesso De Falco. «In fumo sono andati anche i 50 anni che restano per ammortizzare i costi di Città della scienza». Ora che i capannoni non esistono più - il ragionamento dell’assessore - ci sono buoni motivi per immaginare anche altro alla luce di una serie di fatti. Se si volesse ricostruire in loco ci vorrebbe una nuova legge dell’ente di Santa Lucia con la quale consentire costruzioni sulla spiaggia. In secondo luogo serve fare la bonifica che da sola costerebbe i 20 milioni messi a disposizione dal governo. In terzo luogo l’escamotage tecnico per tenerla li dove si trovava e spostare in avanti nel tempo la sua delocalizzazione è stato inserire nella mission l’obbligo di recuperare i costi di investimento entro più o meno un secolo dalla sua andata in funzione. Ora quest’obbligo non c’è più.
La ricostruzione della Città della Scienza, distrutta da un gesto criminoso, può essere occasione per realizzare finalmente uno dei migliori progetti del "Rinascimento napolitano": è la speranza non solo dell'assessore alla vivibilità della prima giunta Bassolino, ma di chiunque abbia seguito le vicende di quella felice stagione
Bagnoli è stato il punto d’avvio del cosiddetto rinascimento napoletano. Quando si insediò la prima amministrazione Bassolino era stato appena spento l'ultimo altoforno. In un incontro a Palazzo Chigi mi chiesero di sottoscrivere un’intesa fra governo, regione, Iri per affidare all’Italstat un progetto di “valorizzazione” dell’area. Rifiutai, spiegando che il futuro dell’ex Italsider doveva deciderlo il consiglio comunale di Napoli. Fu questa l’origine dei nuovi indirizzi urbanistici e poi della variante di Bagnoli che prevedeva, tra l’altro, un parco di centoventi ettari e il recupero della spiaggia di Coroglio. La filosofia era di sfruttare l’occasione fornita dalla dismissione dell’acciaieria per risarcire la città di tutto ciò di cui era stata privata a causa del mostruoso sviluppo del dopoguerra, tutto asfalto e cemento, senza un metro quadrato di verde. A Napoli, l’impatto dell’Italsider era lo stesso dell’Ilva su Taranto: un inferno. Volevamo trasformalo in un paradiso, restituendo alla città spazio aperto, ossigeno, il libero godimento di uno dei luoghi – senza retorica – più belli del mondo.
Fu molto faticoso far passare la nostra proposta. L'idea prevalente era che Bagnoli industria era e industria dovesse essere, anche se non più inquinante. Durante un convegno Bertinotti mi additò: “Compagno De Lucia, il bello non ci salverà”. Fu decisiva per far partire il progetto la credibilità di Antonio Bassolino. Ingraiano operaista, andò a parlare sulla spiaggia di Bagnoli ai cassintegrati Italsider, l'aristocrazia operaia napoletana a cui era devoto, e disse: “Lo spazio che sta alle vostre spalle sarà il parco pubblico più grande di Napoli”. Arrivò un'ovazione, mentre un sindacalista sconcertato commentò: “Vuole trasformare i metalmeccanici in boscaioli”.
Ma a Napoli il parco di Bagnoli continua a essere considerato un lusso che la città non può permettersi (quando Ferrara, con poco più di un decimo degli abitanti gestisce la cosiddetta addizione verde di mille duecento ettari). Detto questo mi pare importante chiarire che a Bagnoli – a differenza di altre grandi operazioni di trasformazione di aree ex industriali, come quelle, per esempio, dell’ex Falck di Sesto San Giovanni – non ci sono scandali. L’unico grande scandalo è l’immane ritardo rispetto ai tempi originariamente previsti. Un ritardo ingiustificabile, derivante dal fatto che la società di trasformazione urbana, istituita per rendere rapida ed efficiente l'attuazione del progetto, superando le difficoltà tradizionali della pubblica amministrazione, si è trasformata invece in un feudo autoreferenziale, una sinecura lottizzata dai partiti, dominata da una logica di piccolo cabotaggio. Come se bastasse la gestione pubblica a garantire buoni risultati. La gestione pubblica di Bagnoli è inadeguata e ha finito per scoraggiare l’intervento degli operatori privati.
La paralisi non è però irreversibile. Nulla è perduto: il progetto è ancora valido, a condizione che si sviluppi una coraggiosa ripresa dell’iniziativa istituzionale. Mi riferisco in primo luogo al sindaco e al comune. E mi piace sperare che proprio dalla tragedia della Città della Scienza, che è stata la prima e unica realizzazione del progetto Bagnoli, si tragga la forza per ricominciare. Contando anche sulla vasta e commovente solidarietà manifestata in questa circostanza dalla comunità nazionale. La Città della scienza bisogna ricostruirla, come e meglio di prima, allontanandola dalla spiaggia che il piano regolatore destina alla balneazione. A Bagnoli non mancano certo le aree adatte.
I nudi fatti di cronaca e le possibili interpretazioni e prospettive del disastro napoletano, in due articoli di Maurizio De Giovanni e Raffaele Nespoli. L'Unità, 7 marzo 2013
Una speculazione edilizia
di Raffaele Nespoli
Alle 21.40 un allarme scuote la centrale operativa dei vigili del fuoco. Sei minuti dopo le autobotti sono sul posto, ma è troppo tardi. Non c’è vento, non quanto ne servirebbe per creare un fronte di fuoco tanto vasto in soli sei minuti. Eppure l’incendio a Città della Scienza è già fuori controllo. Ecco perché, in attesa che dalla scientifica arrivino risposte certe, l’ipotesi più accreditata sul disastro che ha colpito il polo culturale di via Coroglio resta quella di un incendio doloso.
A ribadirlo è stato anche il procuratore della Repubblica Giovanni Colangelo, ieri con il ministro Paola Severino nei locali distrutti dalle fiamme. Il procuratore non ha escluso che con il passare delle ore si possano acquisire elementi più concreti. Prove «che consentano di indirizzare le indagini verso una direzione precisa». Al vaglio degli inquirenti anche alcune immagini che potrebbero rivelare dettagli importanti. Intanto, ieri, prima che la pioggia spazzasse via ogni possibile traccia, gli investigatori hanno acquisito una serie di campioni prelevati dall’area distrutta. E non si esclude affatto la possibilità di un coinvolgimento della camorra, anche perché è difficile credere che qualcuno possa aver agito senza ottenere prima il consenso dei clan che controllano la zona.
Quello che serve è un movente. A chi fa gioco la devastazione di Città della Scienza? Impossibile stabilirlo, ma diverse piste porterebbero ad un giro di affari di milioni di euro che ruota attorno alla bonifica di Bagnoli e alla vendita dei suoli. E come sempre, quando non ci sono indizi certi, la cosa migliore da fare è guardare alle «note stonate». Dettagli apparentemente irrilevanti che possono creare vere e proprie piste. Un primo elemento che non quadra è nella genesi dell’incendio. Dalle immagini che da subito hanno invaso internet e i social network sembrerebbe chiaro che le fiamme siano divampate contemporaneamente in diversi punti della struttura. La sensazione è quella di un vero e proprio blitz. Come se una squadra fosse entrata in azione dal mare, con le idee ben chiare sui punti da colpire.
Un’altra stranezza emerge poi dai racconti dei vigili del fuoco. Gli uomini impegnati sul posto hanno dovuto combattere per tredici ore prima di riuscire a domare la fiamme. Quasi che a contatto con l’acqua degli idranti il fuoco riprendesse vigore. Questo suggerirebbe la presenza di una sostanza accelerante. Non convince gli inquirenti, nella ricerca di un movente, l’idea di un legame con il premio assicurativo. Così come si esclude un collegamento tra le fiamme e la crisi che attanagliava la struttura, per la quale i dipendenti non ricevevano lo stipendio da undici mesi. Torna allora la pista degli appalti, degli interessi che ruotano attorno alla bonifica dell’area che un tempo ospitò l’Ilva di Bagnoli. Torna alla mente anche un indagine coordinata dal pm Michele Del Prete; tre anni fa si arrivò al sequestro di un appunto con i nomi di tutte le imprese interessate ai lavori di Bagnolifutura. La nota fu ritrovata nell’auto di un esponente di un clan locale.
Sospetti, ombre che si allungano su ciò che resta di un sogno, di una piccola città andata in fumo in una notte. Intanto, l’enorme risonanza dell’incendio ha dato origine a decine e decine di iniziative di solidarietà. Ma anche in questo caso le polemiche non mancano. Sulla rete si moltiplicano infatti gli avvertimenti alla cautela per «alcuni Iban “farlocchi”».
Accanto ad una raccolta ufficiale, organizzata grazie al sito di Città della Scienza, ce ne sono altre che in realtà nascondono delle truffe. Vere e proprie forme di sciacallaggio elettronico. Del tutto reale è invece il falsh mob in programma per il 10 marzo, alle 11, in via Coroglio. Una manifestazione che non avrà bandiere, nata dal passaparola virale creatosi sul web. In attesa che si faccia luce sulle cause dell’incendio è probabilmente il modo migliore per reagire alla distruzione di un simbolo. Sul posto ci saranno anche i dipendenti della struttura.
Per loro un piccolo segno di speranza già c’è, l’assessorato al Lavoro della Regione ha infatti autorizzato la cassa integrazione in deroga fino alla fine del 2013.
Quelle fiamme che non si spengono
di Maurizio De Giovanni
C’è ferita e ferita. I due colpi che hanno deturpato Napoli, nel terribile lunedì nero, corrono il rischio di lasciare un segno profondo, oltre che nel territorio, nella coscienza dei cittadini: e nella loro fiducia nella sopravvivenza della città.
Da qualche giorno era in corso un dibattito, sul principale giornale locale, avviato dalla lettera di un adolescente che a seguito di una rapina subita aveva dichiarato la propria intenzione di andare via per cercare migliori condizioni di vita. Asseriva, il ragazzo, di non voler nemmeno provare a rimanere a Napoli: che in questo luogo disperato non c’è modo di procurarsi un futuro accettabile. Molti personaggi appartenenti alla cultura, allo spettacolo, all’informazione sono intervenuti asserendo che le cose possono essere cambiate dall’interno, che le forze positive devono restare, per guarire col lavoro e l’onestà le malattie gravi di questa terra.
Il crollo del palazzo della Riviera di Chiaia, e l’incendio, a questo punto evidentemente doloso, della Città della Scienza a Bagnoli costituiscono il più violento e raccapricciante degli interventi nel dibattito. Sia chiaro: si tratta di avvenimenti radicalmente diversi nella genesi e negli effetti, che non hanno in comune che la tragica coincidenza temporale. Ma testimoniano dell’abbandono, dell’incuria e del mancato governo del territorio da parte degli stessi napoletani.
Il palazzo semicrollato appartiene al prospetto nobile che la città propone dal mare, ed era là dagli inizi dell’ottocento. Una delle immagini, per intenderci, che rimanevano negli occhi pieni di lacrime degli emigranti che partivano alla ricerca della speranza, come l’adolescente rapinato si propone di fare oggi. Una costruzione di valore, abitata da professionisti del massimo livello, che ospitava uffici di rappresentanza, a pochi metri dal Consolato statunitense e dal mare. Niente ignoranza, nessun degrado: niente povertà, nessuna mancanza di cultura a giustificare una ritardata segnalazione. A brevissima distanza, il perenne cantiere della linea sei della metropolitana, e la sua profonda camera stagna che impedisce la millenaria discesa a mare delle acque reflue delle colline sovrastanti. Ovvio, dite? Ovvio. Ma nessuno che si sia posto il problema. Ora si discute con preoccupazione dello stato dei palazzi confinanti, che da tempo emettono scricchiolii di avvertimento: come se annunciare una disgrazia fosse sufficiente a prevenirla. La risposta televisiva del vicesindaco Sodano, a un geologo che definiva i termini del problema, è stata: ma lei la vuole o no, la metropolitana? Come se fosse un’alternativa.
Il rogo della Città della Scienza, a quanto appurato sinora, è un’altra cosa. I responsabili sarebbero arrivati dal mare, come un commando della seconda guerra mondiale, e avrebbero completato con cura e precisione il proprio disegno attraverso ben sei inneschi, collocati con la massima attenzione. Colpendo al cuore la Cultura della città, distruggendo un simbolo della riacquisizione da parte della cittadinanza di un’area, quella della ex Italsider, che è un simbolo dello stupro subito dal territorio fin dagli inizi del secolo scorso. Un’area, Bagnoli, di una bellezza commovente nonostante la nuova, profonda ferita.
La Cultura colpita è la risorsa principale di un luogo che di risorse ne ha poche. Napoli è ricchissima di scrittura, teatro, musica, arte: in ogni settore dello spettacolo, del mondo accademico, della letteratura tra i personaggi più autorevoli numerosi sono quelli nati qui. E nella loro espressione, nei linguaggi, nelle luci e nelle ombre, molto deriva dalle peculiarità di una città che nel bene come nel male è profondamente diversa da qualsiasi altra. Sarebbe ora che, dopo aver tanto preso, si pensasse a restituire al territorio diventando finalmente, senza aspettare interventi dall’alto, parte integrante e nutritiva di questa terra.
Le fiamme che hanno divorato in poche ore una delle pochissime strutture culturali moderne corrono il rischio di continuare a bruciare, distruggendo i sogni e le speranze di migliaia di bambini che si sono accostati proprio là a una modalità divulgativa della scienza che altrove è la normalità. Sono fiamme che bruceranno finché non ci si renderà conto che Napoli è una città italiana, la terza per popolazione: che la distruzione della speranza di una generazione è un problema per tutto il Paese, non circoscritto a un territorio limitato. Fiamme che bisogna spegnere immediatamente, perché non distruggano il poco che rimane.
Il Prg innanzitutto. Proprio il Prg, sul tema scogliere sollevato da Giulio Pane (e unisco Francesco Bruno) dispone, all’articolo 44, «la realizzazione di scogliere, esclusivamente sommerse o affioranti, … soggetta alle preventive valutazioni e agli studi meteo marini prescritti dalle norme vigenti». I prolungamenti delle scogliere di Rotonda Diaz a fine evento sportivo del 2012 avrebbero dovuto essere eliminati, al contempo il parere della Soprintendenza sul progetto prescrive la condizione che sia «approntato uno specifico studio meteomarino teso a valutare la possibilità di rimuovere unicamente le parti affioranti dei nuovi tratti di scogliera, trasformandole in barriere soffolte… con la condizione che venga rimessa in vista la muratura frangiflutto storicizzata…». È noto solo agli esperti che la realizzazione (ovvero la trasformazione) di una nuova scogliera, presuppone pure, per obbligo di legge, la preventiva valutazione ambientale delle opere (le preventive valutazioni e gli studi meteo marini prescritti dalle norme vigenti). Il percorso amministrativo intrapreso dall’amministrazione statale con il Provveditorato alle Opere pubbliche e quella comunale intende accelerare il processo di valorizzazione paesaggistica della città con la riqualificazione di un tratto significativo della linea di costa. L’evento velico, oltre alle innegabili finalità sportive e di richiamo turistico e d’attenzione imprenditoriale verso la città, è pure strumentale a conseguire l’obiettivo disegnato sia dal Piano regolatore che dai vincoli che obbligano il recupero della lettura del muro storico e il ridisegno delle scogliere. Tale intendimento è stato ulteriormente dichiarato con la delibera 51 del 2 febbraio 2012 approvativa degli indirizzi per la riqualificazione del tratto Rotonda Diaz – via Caracciolo, nel rispetto dei vincoli e in coerenza con la normativa del Piano regolatore, in occasione $del successivo ripristino dei luoghi dopo l’evento. In tale percorso, con la novità rappresentata dalla prescritta nuova progettazione degli interventi di trasformazione della scogliera, non trova più riferimento la limitazione della permanenza dei prolungamenti della scogliera ai giorni immediatamente successivi all’evento, ma appare invece opportuno commisurarla ai tempi occorrenti per la loro trasformazione (conforme alle norme e definitiva) che chiede gli adempimenti tecnici correttamente avviati dal Provveditorato alle opere pubbliche. Su ciò alcuni non riflettono. Italia Nostra lo fa ed evidentemente riconosce nell’operato dell’amministrazione comunale quanto essa ha sostenuto sull’argomento 25 anni orsono quando, e da sola, diceva un netto “no” alle scogliere emergenti e alla copertura del muro in piperno. Mai si sarebbe potuto attendere che Italia Nostra avrebbe sostenuto alcun progetto alternativo per l’evento velico, che proponesse un piastrone di oltre 8 mila metri quadrati calato sulle antiche strutture del Molo San Vincenzo, per allocare i capannoni. A Giulio Pane mi unisce, spero, invece, la saggia difesa di una tutela del paesaggio che passi attraverso una corretta pianificazione, sotto il rigido controllo dello Stato.
L'autore è Assessore all'Urbanistica del Comune di Napoli
Napoli:la strada in salita per la partecipazione
I mass media napoletani hanno battuto la grancassa per sponsorizzare il sesto World Urban Forum, megaconvegno internazionale promosso dall’ONU per analizzare problemi e opportunità dello sviluppo urbano, che si terrà a Napoli dal 1 al 7 settembre. Nessuno spazio è stato invece dedicato a un altro convegno internazionale sulle questioni urbane, anch’esso ospitato a Napoli negli stessi giorni. Il Forum Sociale Urbano (il cui programma è consultabile all’indirizzo web del FSU), organizzato da reti, associazioni e movimenti che lottano a livello locale, nazionale e internazionale per il diritto alla casa, alla terra, ai beni comuni e alla città, e che si pone in un’ottica popolare e antiliberista, alternativa alle prospettive di mercificazione urbana del WUF. Durante la giornata del 5 settembre, dedicata alla difesa delle risorse (acqua, mare, suoli e spiagge), si è svolto un incontro sul diritto alle spiagge, dove cittadini e movimenti di varie realtà italiane hanno discusso lo stato delle coste tra inquinamento, sfruttamento del lavoro, demanio pubblico, regimi concessori e applicazione della direttiva Bolkestein; nel pomeriggio è stata effettuata una passeggiata pubblica sul litorale di Bagnoli, ex area industriale della città, per indagare opportunità e problemi della sua riqualificazione. Promotore delle due iniziative è il comitato “Una spiaggia per tutti” di Napoli, che sta conducendo un’interessante esperienza di democrazia partecipativa incentrata proprio sul recupero dell’inquinato litorale bagnolese; di essa è utile tracciare qui un primo bilancio, al fine di verificare la possibilità di sviluppare processi di partecipazione popolare alle scelte di governo della nostra città.
Il 3 luglio è stata consegnata al comune di Napoli una proposta di delibera per destinare tutto il litorale di Bagnoli a spiaggia pubblica gratuita, sottoscritta da oltre quattordicimila cittadini napoletani; attualmente attende di essere assegnata al consiglio, il quale è tenuto a discuterla entro novanta giorni. Se la delibera venisse rigettata o non fossero rispettati i tempi di discussione, il comitato potrà chiedere con un supplemento di firme l’indizione di un referendum cittadino consultivo. Il ricorso a questi strumenti partecipativi, che costituisce una novità per Napoli ma non ha evidentemente nulla di “rivoluzionario” (il potere deliberativo non viene trasferito ai cittadini ma resta al consiglio, che decide se e come accogliere i contenuti delle proposte popolari), ha incontrato consistenti ostacoli pratici. La loro rimozione avrebbe richiesto uno sforzo non eccessivo né incongruo da parte dell’attuale amministrazione, che della partecipazione ha fatto una bandiera; questa ha però preferito dare priorità ad architetture partecipative apparentemente più avanzate come le consulte popolari.
Il primo impedimento è costituito proprio dalle norme comunali sugli istituti partecipativi. Il numero di firme necessarie a chiedere il referendum non è fissato univocamente (lo statuto dice ventimila, il regolamento attuativo trentaduemila e cinquecento: rispettivamente, il 2,46% ed il 4% degli elettori napoletani) ed è in ogni caso sproporzionato. Basti pensare che per indire il referendum abrogativo nazionale bastano cinquecentomila firme, ossia l’1,06% del corpo elettorale italiano. Inoltre il tempo massimo per la raccolta delle firme è fissato in sessanta giorni, a fronte dei novanta previsti dalla legge 352/70 per il nazionale. Perché mai l’esercizio di uno strumento consultivo dovrebbe essere sottoposto a limitazioni maggiori di quelle richieste per uno strumento abrogativo? E che senso ha condizionare la validità di un referendum consultivo al raggiungimento di un quorum, come fa il regolamento (oltretutto senza fissarne l’entità, abbandonata alla discrezionalità degli equilibri politici contingenti)? Siamo evidentemente di fronte a limitazioni arbitrarie, poste dalle precedenti amministrazioni comunali, che quella presente non ha ancora corretto. Il consiglio comunale discute da mesi una riforma che dovrebbe sciogliere questi e altri nodi (finora ha istituito il referendum abrogativo ed esteso il voto referendario comunale ai sedicenni), ma nulla assicura che essa arriverà in tempo a garantire lo svolgimento del referendum sulla spiaggia pubblica di Bagnoli, né vi è certezza su come si interverrà su questi punti critici.
Un altro ostacolo è costituito dalle modalità di raccolta delle firme, che escludono il ricorso ai moderni strumenti di certificazione telematica. Questo costringe a scontrarsi da un lato con la burocrazia comunale – che impiega una settimana per autorizzare l’allestimento sulla pubblica via di banchetti di sottoscrizione grandi un metro quadro – dall’altro con la scarsa disponibilità dei soggetti autenticatori (solo cinque consiglieri comunali, un presidente e un vicepresidente di Municipalità hanno accettato di effettuare le operazioni di autentica). Malgrado si sia ottenuto che il sindaco istituisse in ogni municipalità punti di raccolta con funzionari delegati, l’assenza di comunicazione al pubblico ha determinato che sette municipalità restituissero tutti i moduli di raccolta in bianco e le altre tre raccogliessero in tutto sette firme!
La mancanza di un’adeguata informazione è il punto critico della vicenda. Il comitato promotore ha incontrato continue difficoltà sia per comunicare l’iniziativa ai cittadini che nel ricevere informazioni dall’amministrazione comunale. Nessun mass media locale ha seguito adeguatamente la campagna e i pochi spazi ottenuti vanno addebitati perlopiù alla sensibilità dei singoli giornalisti, magari reiteratamente sollecitati. Inoltre è rimasta inevasa la richiesta di poter fruire gratuitamente, a tempo limitato, di alcuni tabelloni comunali per affissioni pubblicitarie. Per quanto riguarda l’interlocuzione con il comune, questa è stata lenta e farraginosa, con ripetute manifestazioni di disponibilità cui non corrispondevano adeguate azioni di sostegno. Malgrado le sollecitazioni, il comitato ha verificato il permanere di comportamenti che ignoravano la necessità di risolvere problemi pratici come quelli descritti, e di essere correttamente informato sull’iter di discussione della delibera. Il sospetto che fosse in atto una strumentalizzazione politica, se non un sabotaggio silenzioso dell’iniziativa, spingeva in agosto lo stesso comitato ad affiggere un manifesto in cui si denunciava l’ambiguità dell’amministrazione. Questa critica sortiva due effetti: da un lato, un gruppo di consiglieri di maggioranza presentava una mozione che impegnava il consiglio a discutere la proposta entro settembre; dall’altro l’assessore alla partecipazione, Lucarelli, replicava sdegnato il suo sostegno all’iniziativa e fustigava il comitato per aver insozzato la città con manifesti abusivi!
L’estate sta finendo, la partita si riapre e speriamo che qualcuno abbia spiegato all’assessore come, in mancanza di bacheche pubbliche per le attività civiche, l’attacchinaggio abusivo sia una dolorosa necessità per chi non disponga di sostegni economici. Verificheremo se il consiglio manterrà gli impegni, evitando rinvii o stravolgimenti della proposta di delibera, che inficerebbero la possibilità di ricorrere al referendum. Nel frattempo rileviamo che, date le condizioni sfavorevoli descritte, il fatto che un comitato composto da cittadini, piccole associazioni e qualche gruppo politico abbia raccolto in due mesi oltre quattordicimila firme autenticate, senza l’appoggio di una grande organizzazione cittadina, testimonia quanta capacità di coinvolgimento possano esercitare le realtà di base quando si mobilitano su temi socialmente sentiti, attivando intorno a sé una più vasta rete di cittadinanza attiva (inclusi alcuni settori della macchina comunale). Ma evidenziamo anche i limiti di ipotetiche rivoluzioni arancioni, laddove manchi la volontà politica di agire con fermezza per superare norme e prassi burocratiche ostili, mettendosi davvero “al servizio del popolo” (per usare ironicamente un termine desueto). Siamo convinti che tale volontà si misuri più col concreto sostegno alle esperienze di autorganizzazione dei cittadini che nella costruzione di astratte architetture partecipative.
(Tutte le informazioni sulle attività del comitato so disponibili nel sito una spiaggia per tutti
Si è parlato in questi giorni dell’iniziativa intrapresa dal Comune per porre ordine nella “piaga” ultraventennale del condono edilizio. Qualcuno ha equivocato (o volutamente inteso) che si tratti di una riapertura di termini o di dare spazio a nuove attività abusive. C’è solo malafede dietro queste interpretazioni, e il desiderio, ingenuamente malcelato, di insinuare che l’amministrazione de Magistris strizzi l’occhio agli abusivi dell’ultim’ora.
Non mi spendo molto a dire quanto i fatti viceversa dicono: 100 demolizioni è il programma del Sindaco per il 2012, 85 eseguite nello scorso anno. Inconfrontabili i numeri degli anni passati: 15 nel 2010, 32 nel 2009. Significativa la demolizione dello scheletro dell’Arenella, lì da trent’anni.
La strada è tuttavia in salita in una città come Napoli dove l’abuso è nel sangue di molti. Ma è sull’abuso e sulle necessità dell’abusivo che si è> allattata la malapolitica. Quella fondata sulla tutela delle illegalità e non sulla difesa dei beni comuni: il territorio tra questi. La Giunta de Magistris ha decretato il “no” a nuovi condoni, spesso camuffati dietro iniziative di legge d’altro tenore, nazionali e regionali, e pure ribadendo la propria contrarietà a qualsiasi provvedimento che potesse interrompere le demolizioni delle opere abusive insanabili per legge. Il provvedimento della Giunta è stato recepito integralmente anche dal Consiglio comunale, a larghissima maggioranza. Larghissima, ma a maggioranza e ciò lascia pensare. Perché a Napoli c’è pure una minoranza che, a buon diritto, la pensa diversamente.
Oltre all’abusivismo, il condono è una vera piaga sociale: riguarda 45 mila pratiche ancora inevase da uffici comunali storicamente depotenziati. Ma è stato pure argomento politicamente “utile”. Fino a ieri. Utile perché su quelle 45 mila pratiche ci sono 45 mila cittadini (o nuclei familiari) che attendono di risolvere il problema e non ci riescono. E’ qui l’appagante arma politica del bisogno. “A Frà che te serve?” era la frase attribuita ad Andreotti che così si dice si rivolgesse al suo Evangelisti. E “che glie serve” a quei 45 mila richiedenti o meglio, moltiplicati per tre, 135 mila cittadini? E “che glie’ servito” a quei 28 mila che il condono l’hanno avuto? Provvedimenti centellinati da uffici sempre più decimati. 29 mila le pratiche concluse e la legge risale al 1985: 27 anni, mille pratiche l’anno. Dunque 45 anni ancora, se le pratiche sono 45 mila. Si dice che la colpa è della Soprintendenza. Falsità: la Soprintendenza non va certo a prendere le carte al Comune, ma è il Comune che deve inviarle, ma prima deve istruirle. Delle 45 mila, sono 25 mila le domande che riguardano aree di tutela in gran parte idrogeologica o paesaggistica. Sulle prime l’Autorità di Bacino ha riferito che nelle zone ad alto rischio di condono neanche a parlarne.
Col rischio non si tratta. Sul vincolo paesaggistico il caso è diverso. Sinora si è ragionato valutando se l’opera fosse sanabile “se bella piuttosto che se brutta”. La discrezionalità dietro tale criterio è enorme. Il legislatore ha voluto superare questo criterio, senza dubbio degenerante, quando ha stabilito nel 2008 (decreto n. 63) che i provvedimenti di vincolo debbano obbligatoriamente essere “vestiti”. Che significa? Per legge le Regioni, con il Ministero beni culturali, dovevano stabilire quali opere, nei territori vincolati, potessero essere ammesse e quali no. E se le Regioni non avessero attivata la procedura, il Ministero le avrebbe sostituite, facendo da solo. Ma in Italia (e in Campania) le Regioni non si sono mai attivate. I vincoli (a Napoli risalgono agli anni ’50-‘60) sono ancora senza “vestito” e le Regioni (Campania compresa) avrebbero dovuto per legge trasferire queste nuove prescrizioni nelle norme dei nuovi Piani paesaggistici. Intanto, sulla newsletter numero zero dell’assessore regionale all’urbanistica si legge che “redigere il Piano Paesaggistico Regionale è stata una vera e propria sfida”. Ma dove sono i vincoli “vestiti” la cui redazione competeva alla Regione e al Ministero, e dal 31 dicembre 2009 al solo Ministero, che per legge dovranno essere assorbiti nel nuovo Piano Paesaggistico? Dove i decreti di vincolo integrati con le norme di trasformazione possibili nelle aree di pregio paesaggistico?
Per il momento abbiamo (Dio ce li conservi) i piani ministeriali vigenti sulle aree cosiddette “Galasso”. Intanto il Comune di Napoli spiega alla città come si condona e come non si condona all’interno di quelle aree, nel rispetto di quelle condivise indicazioni che pervengono dai piani paesaggistici del Ministero. Il Sindaco ha quest’obiettivo ineludibile: regole chiare, diritti irrinunciabili e certi, quanto i doveri. Tutto qui.
Domanda: ma a chi verrà dato il condono verrà concesso il privilegio di mantenere la propria villa con piscina nelle aree di più elevato pregio? Risposta: no. Anche qui l’amministrazione comunale decide di obbligare i condonati a riunirsi in “comparti” per il successivo trasferimento delle consistenze sanate (demolendo) in siti alternativi, realizzando anche piccoli condominii, ma riducendo il consumo di suolo, liberando e trasferendo al patrimonio comunale quelle aree rimediabilmente recuperabili per più naturali funzioni che il prg individua nel verde dei parchi. Nelle aree compatibili si realizzeranno invece le attrezzature per lo sport e l’istruzione dell’obbligo, gli asili nido, le biblioteche, i luoghi per lo svago.
E’ tutta un’ invenzione? No. Era già scritto nella legge 47 del 1985, quella che istituì il condono. All’articolo 29, disatteso a Napoli come altrove, si dispone che le regioni disciplinano le “varianti” ai piani regolatori per il recupero urbanistico degli insediamenti abusivi in un quadro di convenienza economica e sociale, prevedendo il razionale inserimento territoriale dell'insediamento, un’adeguata urbanizzazione delle aree, il rispetto degli interessi storici, artistici, archeologici, paesistici, ambientali, idrogeologici.
La Campania ha sì disciplinato, ma rinviando il problema a quando i Comuni dovranno redigere i Puc (piani urbanistici comunali), ovvero chissà quando, mentre la legge 662/96 obbligava le Regioni, decorso il 9 aprile 1997, a commissariare i Comuni che risultavano inadempienti. Napoli sta allora semplicemente anticipando i tempi… con 27 anni di ritardo, e rispettando le regole. A dimostrare che, anche attraverso l’urbanistica, la vera rivoluzione sta “semplicemente” nell’amministrare, lasciando agli altri i proclami e le promesse.
L’autore è assessore all’urbanistica del Comune di NapoliIl testo che eddyburg pubblica in anteprima, costituisce anche la risposta e il commento all’articolo del Mattino del 21 agosto scorso, dal titolo a dir poco fuorviante: In città è pronto il condono per diecimila abusi (m.p.g.)
Come è possibile che una giunta che aveva fatto della difesa dei beni comuni il suo principale punto di forza, l’astro guida dell’ampio spettro delle sue politiche, potesse in pochi giorni di fatto smantellare l’ufficio comunale che più di ogni altro aveva nel corso degli ultimi venti anni realmente e concretamente lavorato per tutelare il principale bene comune e cioè la nostra città?
Ho studiato e seguito il gruppo — conosciuto ormai come “I ragazzi del piano”, il titolo del mio libro del 2007 — che ha dato vita agli inizi degli anni Novanta all’Ufficio di Piano e che aveva lavorato insieme fin dalla fine degli anni Settanta a importanti progetti di riqualificazione urbana. Si è trattato di un gruppo molto competente che ha fatto pratica di urbanistica pubblica, realizzata negli uffici comunali, svincolata da interessi speculativi, ispirata ai valori della riqualificazione, della tutela della salute, delle risorse naturali, del paesaggio.
Un’urbanistica che ha guardato alle politiche per il territorio urbano non come interventi giustapposti, e segmentati, ma tenendo conto delle intime e profonde relazioni che legano insieme parti diverse della città. Per svariati anni l’Ufficio è stato un laboratorio dove si sono formati molti giovani urbanisti, e meta di gruppi di stranieri giunti qui per imparare come creare strumenti di politica urbana ispirati ai principi dell’interesse collettivo e della tutela ambientale.
Non sarà che di tutto ciò si è parlato e si continua a parlare poco? Cosa ne sanno i cittadini di Napoli, anche i più colti e informati, di quello che ha realizzato l’Ufficio di Piano? Si sussurra, quasi a vergognarsi, che qualcosa in questa città ha funzionato bene. E infatti, a parte gli articoli di firme autorevoli apparsi su “Repubblica” e la protesta isolata di Carlo Iannello, non assistiamo a un vivace e acceso dibattito pubblico su queste tematiche. Eppure qualcosa di importante che riguarda tutti noi è successo, la cui perdita potrebbe essere immensamente più grande rispetto al guadagno puramente di immagine che deriva dalla Coppa America o dalla costruzione dello stadio o dalle insule di Romeo.
Ho studiato e seguito questo gruppo perché ho sempre fortemente creduto che Napoli abbia bisogno di rappresentarsi anche per ciò che di buono cresce e matura in sé. La reificazione senza fine e senza speranza all’interno del dibattito pubblico locale, nazionale e internazionale dell’immagine della Napoli dell’inefficienza, della corruzione, della speculazione, della clientela, della camorra, del malaffare e via dicendo non solo produce danni gravissimi sul piano economico, ma finisce con l’indurre tutti a confermarla, a non lottare per migliorarla. Lo stereotipo assolutizza una parte della realtà. E le altre?
Ricordiamo qui in estrema sintesi alcune delle principali esperienze realizzate dall’Ufficio del Piano nel corso di due decenni. Innanzitutto l’elaborazione del Piano regolatore generale, la cui elaborazione è durata circa dieci anni dal 1993 al 2004. Il Piano impone vincoli e regole all’attività dei privati (che pure trova grande spazio a dispetto di quanto dicono i suoi detrattori) volti a tutelare un ambiente urbano fragilissimo, come ci ha insegnato la storia della Napoli contemporanea corredata di dissesti idrogeologici e degli effetti più disastrosi di un uso indiscriminato e scriteriato del suo territorio. Ed è nell’ambito del Prg che è stato concepito quel sistema di mobilità su ferro di cui cominciamo a godere i frutti grazie all’apertura delle nuove stazioni metropolitane. Oltre a ciò esso ha consentito l’istituzione del Parco delle Colline, un ampio polmone verde a nord di Napoli che ha salvato quest’area di confine dalla speculazione edilizia e dove di realizza una agricoltura urbana con produzioni pregiate di vino, olio e frutta.
Occorre inoltre ricordare che secondo un dato dell’Unione industriali dall’approvazione definitiva del Piano, i progetti di riuso e riqualificazione a fini sia produttivi che abitativi che sono stati avviati da privati nel suo ambito ammontano nel loro complesso a 3 miliardi di euro. Progetti che portano soldi sotto forma di oneri di urbanizzazione che il Comune può reimpiegare per servizi pubblici come scuole, asili, parchi, impianti sportivi e così via.
Una grande mobilitazione di risorse, dunque, di cui il Comune potrebbe avvantaggiarsi portando benefici alla città proprio in un momento di acutissima crisi finanziaria.
So che l’assessore all’Urbanistica Luigi De Falco, che è persona di sicura provenienza ambientalista, nella sua intervista a Stella Cervasio, ha ribadito che il Prg non verrà messo in discussione. Non è chiaro, tuttavia, quali parti della città rimarranno di competenza del suo assessorato e quali passeranno ad altri. Il ridimensionamento dell’Ufficio del Piano, tuttavia, non è poca cosa e riveste comunque un grande valore simbolico. E la politica, si sa, si nutre di simboli.
In conclusione, l’Ufficio del Piano andrebbe sostenuto, potenziato e rilanciato dalla politica e dall’amministrazione proprio in virtù di ciò che è stato realizzato nel passato e delle straordinarie potenzialità per il futuro che esso incarna. Siamo ancora in tempo? La decisione della giunta suscita serie perplessità. E se dovesse essere confermata, la Napoli dei nostri figli potrebbe pagare amaramente le conseguenze di scelte prive di una visione riformatrice di lungo periodo, non fondate sulla consapevolezza di quale sia l’interesse generale, schiacciate invece sul bisogno del consenso immediato. E sarebbe, ancora una volta, il trionfo della Napoli dello stereotipo.
È giustificato l’allarme delle associazioni ambientaliste sull’inclusione del Dipartimento di pianificazione urbanistica nella Direzione Ambiente del comune di Napoli? Si teme — pare — una confusione fra controllato e controllore: «Interesse speculativo e conservativo: sono in contrasto e non possono essere accentrati nelle stesse mani, dicono gli oppositori del provvedimento » (la Repubblica, 14 luglio, II di Cronaca).
A parte il dubbio circa l’identificazione dell’interesse speculativo con una delle due articolazioni degli uffici, mi sembra che si debba discutere anche — e prima — di altre cose. Tento di contribuire, in modo schematico per brevità.
Il Prg vigente ha il merito di aver costruito un convincente sistema di regole per la tutela, manutenzione, riqualificazione e valorizzazione sostenibile delle parti di territorio in cui si riscontrano pericolosità o si registrano valori storico-culturali, naturalistici e/o paesaggistici. È questo uno dei contenuti fondamentali della componente strutturale della pianificazione. Deve essere difeso e conservato anche nelle future strumentazioni per il governo del territorio.
L’altro contenuto fondamentale è di tipo strategico: quali trasformazioni si vogliono realizzare per migliori condizioni economico- sociali dei suoi cittadini? Pure per questo aspetto, il Prg ha assunto scelte rilevanti: l’incremento dei servizi e degli spazi pubblici; l’intermodalità dei trasporti basata sulla centralità del ferro; un sistema di grandi parchi, da Bagnoli ai Camaldoli e al Sebeto. Anche queste scelte vanno confermate.
Ma non possono ritenersi sufficienti. In primo luogo per i confini: si evoca di continuo la dimensione metropolitana, ma non si compie alcun passo concreto per uscire dal generico richiamo verbale. E poi per la consistenza e la qualità dell’apparato economico e dell’organizzazione sociale.
Napoli, quella vera, da Monte di Procida ai Regi Lagni a Nola e Castellammare, non può vivere di turismo e di costruzioni (comparto a cui appartengono anche infrastrutture e attrezzature pubbliche), specie nella crisi, che fra l’altro falcidia le finanze pubbliche. E l’edilizia nel Napoletano è troppo spesso speculativa aggressione ad ambiente e paesaggio. Occorre un grande rilancio produttivo di segno alternativo, soprattutto una pervasiva e articolata green economy: rinvio per brevità alla terza rivoluzione industriale di Jeremy Rifkin, che qui può trovare condizioni più che favorevoli se si dà vita a coesione sociale e cooperazione pubblico-privato. Ma occorre una forte regia istituzionale che indirizzi e coordini — anche nel breve termine operativo — le iniziative private secondo linee convergenti, se non proprio secondo un disegno unitario. Anche perché il disagio sociale è a Napoli esteso e profondo e di ciò si deve tenere costantemente conto (per fare un esempio, non servono tanto più case, quanto più case per i ceti a debole capacità finanziaria).
Il Prg ha oltre un decennio di vita e vige da otto anni, nei quali hanno avuto avvio numerosissime iniziative edilizio-urbanizzative di varia dimensione e portata, a riprova della falsità
dell’accusa di impostazione generalmente vincolistica. Il punto è che tali iniziative sono scaturite di volta in volta dalla specifica convenienza del privato di turno, su cui l’azione pubblica non è spesso andata oltre il controllo del rispetto della norma, in assenza di un’organica e complessiva prospettiva di sviluppo. E c’è da temere che le cose non stiano cambiando con la nuova giunta: gli interventi per la Coppa America, il progetto “insula” di Romeo, lo “stadio del tennis”, il nuovo stadio di calcio (fra l’altro tutto nei confini comunali, come se Napoli fosse un’isola).
Se di una cosa le riflessioni sulla sostenibilità hanno convinto, questa è la necessità di valutare preventivamente gli effetti di ogni intervento sia sotto il profilo ambientale che sotto quello sociale. Il governo del territorio non può che essere perciò integrato, articolato per orizzonti temporali differenziati, frutto di un’attività plurale e interdisciplinare, adeguatamente coordinata, condotta da competenti.
Non ha senso, dunque, contrapporre ambiente e pianificazione. Ha senso impegnarsi nella costruzione di strategie istituzionali adeguate per migliorare la vivibilità urbana e la sua base economica in una prospettiva di vera solidarietà sociale. E certo — a tali fini — occorre compiere ogni sforzo per non disperdere e per utilizzare al meglio competenze ed esperienze di grande valore, quali quelle pervenute al Dipartimento di pianificazione attraverso una lunga vicenda (ne sono stato testimone e inizialmente co-artefice) iniziata con il Piano quadro delle attrezzature e il Piano delle Periferie, consolidatasi con il Programma straordinario post-sisma e culminata con la redazione del Prg. È questa la priorità organizzativa da garantire.
C’erano una volta i ragazzi del piano, il gruppo di giovani urbanisti, funzionari pubblici, le cui storie sono state raccontate nel bel libro di Gabriella Corona, il cui percorso umano e professionale a un certo punto ha finito per identificarsi con quello che ha condotto, nel 2004, all’approvazione del nuovo Piano regolatore della città. La notizia di questi giorni è che quel gruppo non c’è più, perché è stato decapitato nel giro di pochi giorni, si potrebbe dire di poche ore, con l’urbanistica napoletana letteralmente allo sbando, priva di guida, proprio nel momento in cui la giunta comunale annuncia alla città provvedimenti rilevanti, come la variante per i 20.000 alloggi nella zona orientale, e l’avvio della manifestazione di interesse per il nuovo stadio Come è noto, Roberto Giannì era già andato via, subito prima dell’insediamento della giunta de Magistris, chiamato dal presidente della Regione Puglia Nichi Vendola a dirigere l’urbanistica pugliese. Un’altra figura di spicco, Elena Camerlingo, è in pensione da pochi giorni. Poi, in un fine settimana convulso, si è improvvisamente dimesso Giovanni Dispoto, che era succeduto a Giannì alla direzione del Dipartimento urbanistica. Mentre tutto il gruppo storico di dirigenti in servizio, a partire da Laura Travaglini, è stato degradato, dopo dieci anni, al rango di semplici funzionari. Tutto ciò per effetto di un vecchio e controverso ricorso, che ha invalidato la graduatoria concorsuale in base alla quale Dispoto e i suoi colleghi erano stati reclutati. Dulcis in fundo, nello stesso giorno, il Comune ha pensato bene di licenziare tutti giovani borsisti che coadiuvavano il lavoro degli uffici.
È inutile precisare che qui non si sta parlando di persone, che pure meritavano ben diverso trattamento per il servizio reso in questi anni alla città, ma del governo dell’urbanistica nella terza città d’Italia. La maniera con la quale l’amministrazione e la giunta hanno assecondato gli eventi, senza uno straccio d’iniziativa in grado di assicurare la continuità di delicate funzioni amministrative, getta ombre lunghe sul futuro. La sensazione è che ci sia un gran desiderio di cambiar rotta; che il modello napoletano dell’ultimo ventennio, caratterizzato nel bene e nel male dal fatto che la programmazione fosse svolta direttamente all’interno degli uffici competenti, con l’idea che questo potesse meglio garantire l’interesse pubblico, sia ritenuto oramai superato.
Perché a ben vedere gli eventi delle ultime ore appaiono come il naturale esito di un processo che parte da lontano, sin dai primi passi della nuova amministrazione, quando ha iniziato a delinearsi il nuovo stile di governo della città, con gli uffici chiamati ad apprendere dalla stampa le
decisioni di volta in volta già assunte, ed il Dipartimento urbanistico relegato in un ruolo marginale in tutte le decisioni di forte rilevanza territoriale, si tratti di Vuitton Cup come della localizzazione degli impianti di compostaggio; dello svincolo della tangenziale spuntato all’improvviso a Bagnoli, come del nuovo stadio.
È come se i ritmi concitati, l’orizzonte temporale compresso che l’amministrazione comunale si è data, non necessitino più di valutazioni complesse, di scala urbana, in grado di contemperare i diversi interessi sociali ed economici di una cittadinanza estremamente variegata; ma vivano piuttosto della sola dimensione progettuale: un annuncio e un progetto alla volta, il cui carattere di urgenza è soprattutto legato agli accordi preventivi che l’amministrazione ha già stipulato con i diversi gruppi di interesse.
È evidente come per governare questi processi risulti più funzionale il lavoro solerte degli staff, anziché quello a volte pedante degli uffici, condannati come si sa al rispetto delle regole, ed allora viene anche da riflettere sui contenuti di una proposta di ristrutturazione della macchina comunale, che circola in questi giorni, nella quale una funzione urbanistica autonoma non esiste più, declassata al rango di articolazione secondaria di una mega direzione “Ambiente”.
In conclusione, se è vero, come recita l’adagio, che “la pianificazione è umana, ma l’implementazione è divina”, è anche vero che disporre di un Prg, al quale pure si assicura assoluta fedeltà, ma non di strutture amministrative adeguate e robuste per il governo quotidiano dei procedimenti che da esso discendono, significa essersi messi proprio in una brutta situazione.
All’amministrazione l’onere di rassicurare tempestivamente le forze politiche e la cittadinanza circa il modello di governo della città pubblica degli anni a venire: dirci se esso sarà basato sulla riflessività e le garanzie delle procedure democratiche, oppure sull’adrenalinica velocità di più efficienti elites e tecnostrutture.
Si vedano, in questa stessa cartella i molti articoli sul PRG094 e sugli “scivoloni” recenti della Giunta De Magistris
«Ecco, sarebbe bello che l’amministrazione riprendesse lo spirito di allora e scardinasse la subcultura che intanto si è affermata ». È un po’ una sorpresa. Vezio De Lucia, il padre del piano regolatore, nume tutelare di tutti coloro che vogliono difendere Prg e programmazione, torna a Napoli, invitato da Sel a un convegno sull’urbanistica che sembra fatto apposta per crocifiggere le ultime scelte dell’amministrazione arancione. Non che De Lucia salga sulla barca di de Magistris, però alla fine gli rivolge quasi un appello. E scassa, anche lui, il clima con una rivelazione pessimistica assai sulla città: «Mi sono reso conto che la proposta che facemmo per Bagnoli era in realtà estranea alla cultura di una città che preferisce l’“horror vacui”, che ha paura di godersi la bellezza e un posto in cui passeggiare, e dove invece contano solo il cemento e l’asfalto».
Una requisitoria che lascia sul tappeto anche «tanti geni», come li definisce l’ex assessore. Finiscono nel suo «sillabo» economisti come Mariano D’Antonio, «che sostiene che Napoli non può permettersi 120 ettari di parco, ovvero una cosa come Villa Borghese a Roma». Oppure «l’ex assessore regionale Cascetta: perché hanno cancellato la Metro fino a Bagnoli? Come diavolo ci si arriva ora?».
I guasti del passato sembrano deviare gli strali che parevano dover correre verso l’attuale giunta, peraltro rappresentata in aula dall’assessore Luigi De Falco. Ad aprire il fuoco su Palazzo San Giacomo ci pensa però Carlo Iannello, consigliere di “Napoli è tua”, molto in rotta di collisione con il sindaco. I casi da segnalare sono soprattutto il nuovo stadio e la famigerata Insula proposta dalla Romeo immobiliare. Due esempi di proposte non discusse da una amministrazione che Iannello definisce «disordinata». Si salva De Falco, lodato dagli intervenuti per aver posto il problema della non aderenza della delibera. Mentre De Lucia si dice totalmente d’accordo sui rilievi mossi da Iannello a Insula, che comprendono anche il patto perverso con il quale il Comune dovrebbe poi riconoscere degli introiti al privato in cambio dell’aumento di valore catastale che il suo intervento produrrà agli immobili. La conclusione politica spetta al padrone di casa, il segretario di Sel Peppe de Cristofaro: «Vogliamo dare il nostro apporto all’amministrazione, ma senza esimerci da critiche. E sull’urbanistica poniamo due questioni. Una di metodo, c’è troppo accentramento nelle decisioni. L’altra di merito, ovvero l’esigenza di tenere il piano regolatore come punto fermo».
Vezio De Lucia voleva creare «al posto delle ciminiere Italsider, una riviera di città turistica, bella forse più di via Caracciolo, nell’incantevole scenario tra l’isoletta di Nisida e il litorale flegreo», mare balneabile per due terzi, un parco, strutture per la ricerca scientifica, con attrezzature alberghiere e un massimo di 2 milioni di metri cubi di edifici. Ma non si è mai realizzato. E ora all’orizzonte c’è un impianto per trattare i rifiuti.
Professor De Lucia, che ne voleva fare lei di Bagnoli?
«Quello che fu deciso quando io ero lì: volevo risarcire la città di quello che non ha mai avuto sin dall’Unità d’Italia».
Da urbanista metterebbe insieme finalità legate al ciclo dei rifiuti e turismo?
«Naturalmente mi ha stupito molto. Non ho pregiudizi verso questo tipo di impianti, se sapessi di una cosa del genere nei pressi di casa mia non scenderei per strada, perché credo ci si debba fidare dei poteri pubblici. All’estero, a Parigi sulla Senna, a Vienna sul Danubio ci sono impianti anche più hard di quello ipotizzato a Bagnoli, che funzionano perfettamente. Però non posso negare la mia perplessità».
Su che cosa?
«Sul fatto che la prima cosa di cui si parla a proposito di Bagnoli sia appunto un impianto di compostaggio».
Perché?
«Secondo me continua a essere prevalente l’idea che Bagnoli sia uno spazio vuoto da riempire. Non ci si crede. Stiamo ancora a domandarci "che ne facciamo?", in preda all’horror vacui».
Non si crede in che cosa? Nel suo progetto, nella possibilità di un recupero come quello avvenuto per la Ruhr in Germania?
«L’unica cosa che si fa è la Porta del parco. Un giorno mi telefona una tv per un’intervista e mi danno appuntamento "alla Porta del parco". Chiedo che cos’è, ci vado e trovo edifici in vetro e cemento. Questa è la rappresentazione pratica dell’idea del vuoto da riempire. Illustri personaggi della politica e anche del mio mestiere di fronte all’ipotesi di 120 ettari di parco replicano: "Non ce li possiamo permettere". E allora Ferrara, che ne gestisce 1200 dalle mura fino al Po? C’è il rifiuto della cultura politica ma anche della cultura napoletana tout court di immaginare questo spazio che doveva servire alla ricreazione dell’anima e del corpo, e che era però anche un’operazione fattibile, credibile, finanziariamente verificata. Questo non passa. La concreta operatività del progetto Bagnoli sarebbe stata dimostrata aprendo l’impianto sportivo, gli 80 ettari di parco. Sarebbe stato meglio dirlo alla fine: "In un angolino mettiamo anche l’impianto per i rifiuti"».
Invece?
«Invece a un anno dall’insediamento dell’amministrazione de Magistris, con Bagnoli in sofferenza, il primo intervento concreto di cui si parla non mi pare una cosa esteticamente convincente. Non sono contro. Ma fa pensare di nuovo che a Bagnoli si possa mettere quello che ci pare. Credo che questa amministrazione non sia accusabile di niente. Ma sono ora 20 anni che ha chiuso l’altoforno e dopo 20 anni stiamo ancora così».
Schiacciata dal peso di 50 milioni di debito, la giunta comunale di Napoli ha firmato una transazione con Alfredo Romeo. Il gestore del patrimonio immobiliare, ma anche l'imprenditore al centro dello scandalo Global Service, condannato a due anni di carcere in primo grado. E sotto processo davanti alla Corte dei Conti per danni erariali al comune. A margine dell'accordo, l'imprenditore offre un suo progetto di riqualificazione del territorio attorno al suo albergo a 5 stelle. Una proposta che è anche una sfida per l'amministrazione paladina dei beni comuni.
PATRIMONIO NAPOLETANO
di Andrea Fabozzi
Il palazzo era già lì cinquant'anni fa, quando la celebre panoramica dall'alto che apre il film di Rosi Le mani sulla città portò al festival di Venezia gli orrori del sacco edilizio napoletano. Dal suo ufficio in quel palazzo, Achille Lauro guidava i destini della compagnia di navigazione e di tutto il resto. Adesso in quelle stanze c'è un vistoso ristorante, rispettosamente denominato Il Comandante, e tutto intorno un hotel a 5 stelle che ha piantato il super lusso nello scheletro del vecchio palazzo Lauro e nel cuore del quartiere del porto. L'hotel Romeo, di Alfredo Romeo, l'imprenditore al centro dello scandalo Global Service che due anni fa coinvolse la giunta regionale insieme a politici nazionali di destra e sinistra, è l'origine e la causa prima di un progetto di riqualificazione urbanistica piovuto sulla testa della giunta di Luigi De Magistris. Un progetto che Romeo ha voluto inserire in una transazione con il comune e che sta complicando la vita all'amministrazione napoletana. Fin qui attenta a presentarsi come paladina degli interessi pubblici e dei «beni comuni» e adesso condotta dai debiti sulla strada di una mediazione con un potere molto privato e per niente immacolato. Nel bene o nel male, è una storia il cui esito segnerà le ambizioni di una giunta che appena un anno fa ha iniziato la sua «rivoluzione» e che intanto, su questa vicenda, perde il consenso della parte sinistra del consiglio comunale guadagnando invece l'imbarazzante solidarietà della destra.
Una montagna di debiti
Dal 1998 il comune di Napoli affida ad Alfredo Romeo la gestione - dalla manutenzione alla riscossione degli affitti - del patrimonio immobiliare. Una ricchezza sconfinata stimata in due miliardi e trecento milioni di euro che però non riesce a produrre reddito. Al contrario, è Romeo che vanta crediti dal comune per qualcosa come 50 milioni di euro, metà dei quali rafforzati da decreti ingiuntivi. L'amministrazione De Magistris non riesce a pagare. Ha ereditato una situazione economica pesantissima, in più il governo ha ridotto i trasferimenti. Deve abbassare il debito senza tagliare i servizi, e non vuole aumentare le tasse locali. È un peso enorme che può affondare i sogni della nuova giunta. Ma è una situazione nota, conosciuta anche in campagna elettorale.
Il contratto di Romeo scade alla fine di quest'anno. Con lui l'amministrazione ha condotto una lunga trattativa, conclusa in un'ultima notte di confronto a fine marzo. C'è un accordo è c'è una delibera di giunta del 27 marzo che lo recepisce. Romeo rinuncia alle azioni legali contro il comune. Anche il comune rinuncia alle sue cause con le quali imputava a Romeo una cattiva gestione dei servizi. La transazione vale per tutti i debiti, anche per la metà sulla quale non c'è ancora un decreto di ingiunzione. Su 50 milioni Romeo fa uno sconto di 5, il resto il comune deve pagarlo. Anzi, ha già cominciato a pagarlo versando per la prima volta e tutti insieme oltre 16 milioni. Il resto a rate, la prima scade a giugno. Nel frattempo Romeo si «impegna ad accelerare» la vendita degli immobili comunali. L'unica fonte possibile di finanziamento per il comune. Del resto, richiama la delibera, lo prevede anche il decreto «salva Italia» di Monti. Bisogna vendere.
In realtà Romeo dovrebbe già farlo, in forza di un altro contratto con il comune. Ma dal 2004 a oggi risultano venduti solo 400 edifici su 2mila in vendita. Gli immobili comunali sono molti di più, circa 30mila. Nonostante i non ottimi risultati raggiunti fin ora, Romeo in forza del nuovo accordo potrà metterne in vendita altri tremila. Se tutto andrà bene, il comune - che fa fatica a censire le sue proprietà perché l'archivio aggiornato è in possesso di Romeo - con quei soldi dovrà pagare all'imprenditore i vecchi crediti.
La Corte dei Conti accusa
La transazione prevede che il comune continui a pagare Romeo fino a dicembre 2013, quindi per un anno oltre la scadenza del contratto. Per quella data potrebbe essersi definito il procedimento aperto contro Romeo dalla Corte dei Conti. L'imprenditore è accusato di aver creato al comune un danno erariale di 87 milioni di euro proprio nella gestione degli immobili pubblici. Lo si sospetta di aver chiesto in pagamento al comune percentuali calcolate sugli affitti accertati eppure mai riscossi. Anche per questo il comune si è rifiutato di pagare alcune fatture e ha citato Romeo in giudizio. Tutte cause, queste, che adesso saranno estinte per effetto della transazione. Non solo, secondo la Corte dei Conti a fronte di questo cattivo servizio Romeo ha ricevuto anche un incentivo dall'amministrazione pubblica (un milione e 200mila), in cambio Romeo ha chiesto il rimborso di esorbitanti spese legali (3 milioni).
La delibera proposta dall'assessore al patrimonio - la persona che ha condotto la trattativa con Romeo - è uscita dalla giunta comunale in maniera diversa da come era entrata. Modifiche sono state fatte nei settori di competenza dell'assessore all'urbanistica e dell'assessore al bilancio. Una parte dei crediti riconosciuta a Romeo è stata cancellata. Debiti che, spiega l'assessore al Bilancio Riccardo Realfonzo, «Romeo si era auto liquidato». Soprattutto sono stati messi da parte due progetti che Romeo chiedeva come contropartita. La possibilità di costruire un parcheggio sotterraneo da avere in gestione per 90 anni. E il via libera al suo piano di riqualificazione urbana che riguarda la cosiddetta «Insula Antica Dogana», un trapezio di 45mila metri quadri tra la piazza del Municipio e il porto che comprende all'interno il teatro stabile di Napoli e l'attraversamento pedonale verso il mare. Al centro c'è l'hotel Romeo.
Una condanna a due anni
Alla riunione di giunta del 27 marzo scorso che ha approvato la delibera di transazione, non era presente l'assessore alla trasparenza e sicurezza Giuseppe Narducci, ex sostituto procuratore a Napoli. È contrario all'accordo. Alfredo Romeo nel 2009 è stato in carcere per 79 giorni, accusato di aver pilotato dall'esterno l'appalto Global Service con il quale la giunta Iervolino intendeva dare in gestione a un solo soggetto la manutenzione di tutte le strade di Napoli. Un appalto che sebbene approvato anche dal Consiglio non andò mai in porto. L'inchiesta mise in luce il potere di persuasione di Romeo su mezza giunta comunale ma anche le sue relazioni con politici nazionali, da Rutelli a Lusetti a Bocchino. Da molte accuse Romeo è stato assolto in primo grado, ma non da tutte. È stato condannato a due anni per corruzione. Avrebbe promesso di assumere due persone segnalate dall'ex provveditore alle opere pubbliche in cambio di un interessamento all'affare Global Service. Ma la procura ha presentato appello e in questi giorni è in corso il processo di secondo grado. Il procuratore generale ha chiesto per lui la condanna a 4 anni e 4 mesi riproponendo l'accusa di associazione per delinquere. Come pena accessoria, in primo grado, Romeo è stato condannato all'interdizione a trattare con la pubblica amministrazione. Non potrebbe più avere rapporti con il Comune. Ma la pena è stata sospesa. Nel gennaio del 2009, quando era giudice del Tribunale del Riesame, Luigi De Magistris ha scritto le motivazioni in base alle le quali a Romeo fu confermata la carcerazione preventiva: «È divenuto nel tempo anche un po' il dominus dell'amministrazione comunale».
Un omaggio pericoloso
In una lettera spedita il 19 marzo al sindaco di Napoli, Alfredo Romeo spiega diffusamente il suo progetto per l'«Insula». Si tratta di un intervento di riqualificazione urbana di grandi dimensioni che prevede la pedonalizzazione di una vasta area che al momento è piuttosto degradata, pur essendo collocata in una posizione strategica. È la prima Napoli che incontrano i turisti che arrivano con le navi da crociera. Fino a non troppi anni fa era più nota per qualche locale di strip tease e per i rivenditori di contrabbando, memorie da vecchio porto. Il piano di Romeo prevede la pedonalizzazione dell'area e una sistemazione anche del lato a mare. Nel progetto si insiste sulla volontà di recuperare la memoria dell'antica piazza della Dogana, che fu però cancellata negli anni Cinquanta proprio dalla costruzione del palazzo Lauro, quello dell'hotel. Romeo assicura che l'opera non costerà nulla al comune, pagherà tutto lui «a titolo di omaggio alla città». Propone anzi un modello di finanziamento iper locale, un federalismo fiscale di quartiere. «Le risorse necessarie - si legge nel progetto - devono essere recuperate, value capture, nell'area stessa attraverso tasse di scopo, i servizi offerti ai privati e i flussi finanziari usualmente garantiti dagli enti locali. Le risorse acquisite nell'area devono restare nell'area per percentuali significative». «È un'ipotesi non conforme ai regolamenti comunali e alle leggi nazionali», taglia corto l'assessore Realfonzo. Eppure Romeo vuole sperimentare questo modello nell'Insula per «replicarlo a scacchiera in tutta la città». In più ci sarebbe il parcheggio.
«Io non sono contrario all'intervento dei privati - chiarisce l'assessore all'urbanistica Luigi De Falco che per aver espresso perplessità è stato pesantemente attaccato da Romeo sulla stampa locale - al contrario, dobbiamo andare verso una stagione di grande progettazione. Ma il contesto urbanistico lo definisce il potere pubblico. Il parcheggio contrasta con il piano regolatore. Il resto della proposta è un intervento condominiale non ben inquadrato». Spiega l'assessore che «tutto il progetto gravita attorno all'hotel, un hotel per il quale sono stati riscontrati abusi edilizi. Il progetto che ho visto prevede la rimozione degli abusi, ma quelli degli altri, anche quello di una caserma della Finanza». C'è in effetti un ordine di demolizione del 2011 per gli interventi abusivi che secondo gli uffici del comune sono stati realizzati all'interno dell'albergo. Sono aumentate le volumetrie all'ultimo piano e nel sotterraneo, è stato scavato un tunnel che porta a una «luxury spa». Battezzata «Dogana del sale».
La consultazione via sondaggio
«Si tratta di una sfida importante sul piano della "rivoluzione" che Lei auspica per dare un volto nuovo alla città», scrive compiacente Romeo a De Magistris. L'imprenditore, che ha fatto affari con tre diverse amministrazioni in città - a Roma la giunta Alemanno ha rinunciato all'accordo Global Service dopo l'apertura dell'inchiesta di Napoli - punta a continuare così. E infatti illustra al primo cittadino una procedura che, secondo lui, è perfetta per un'amministrazione che spinge tanto sulla condivisione delle scelte e sui beni comuni. «Per la prima volta al mondo - scrive Romeo, esagerando - un intervento sul tessuto urbano e sulla gestione di una parte del territorio comunale nasce da un processo di democrazia partecipata innescata da un sondaggio di opinione che raccoglierà le indicazioni degli utenti/cittadini sulle priorità da affrontare». La democrazia innescata da un sondaggio è certo un'idea originale, non proprio una prima mondiale perché, come spiega Renato Mannheimer incaricato dal sondaggio «abbiamo già fatto sondaggi del genere a volte su incarico delle amministrazioni». Stavolta il committente è proprio colui che vuole realizzare l'opera. E il sondaggio è già in corso. «Abbiamo ascoltato le persone che lavorano nella zona dell'Insula della Dogana - dice ancora Mannheimer - i cosiddetti opinion leader come il presidente dell'autorità portuale e il rettore dell'Università. Adesso stiamo per intervistare tutti gli abitanti della zona». Difficile però che possano avere un'idea precisa del progetto Romeo che si compone di 10 tomi e 27 grafici. «Li informeremo abbastanza compiutamente», promette il sondaggista.
Nella delibera con cui la giunta comunale ha approvato lo schema di transazione, è rimasta una traccia dell'Insula. È stabilito «l'interesse di massima del Comune alla proposta di intervento di valorizzazione». Comunque troppo per i consiglieri della lista Napoli è tua, la lista civica di De Magistris. In sei su sette si dichiarano «scandalizzati» dalla disponibilità verso Romeo «la cui complessa vicenda è paradigmatica di un non corretto rapporto pubblico-privato. La riqualificazione della città - aggiungono - non passa per accordi con imprenditori con cui secondo il programma elettorale dobbiamo interrompere ogni rapporto». Contro anche tutti i consiglieri della sinistra e due dell'Idv. Passasse in Consiglio, oggi, l'Insula avrebbe bisogno dei voti della destra. E li avrebbe. «È proprio il mio programma elettorale», ha detto lo sconfitto Gianni Lettieri.
DE MAGISTRIS
Valuteremo le proposte in base al piano regolatore
«È l'interesse pubblico»
intervista di Andrea Fabozzi
Sindaco Luigi De Magistris, quello con Romeo è il miglior accordo possibile?
«Non è un accordo, è una transazione giudiziaria. Romeo vantava un credito ingente verso il Comune. Non fare questa transazione avrebbe voluto dire non avere la disponibilità del patrimonio immobiliare, non poterlo collocare in bilancio. Sarebbe stato devastante, rischiavamo di non pagare gli stipendi.»
È però una transazione che fa risparmiare al comune solo il 10% dei debiti.
«Era indispensabile, su questo convenivamo tutti. Romeo partiva da una punteggio di sei a zero in suo favore, per usare un termine tennistico. Non è al sindaco che spetta fare la transazione, l'hanno fatta persone di cui ho la piena fiducia. Dunque sono certo che viste le condizioni di partenza sia la migliore possibile. Noi Romeo lo ereditiamo dalla giunta Iervolino, assieme a questa situazione disastrosa. L'accordo con Romeo scade a dicembre, stiamo già predisponendo la nuova gara. Sono molto soddisfatto di poter avere il patrimonio immobiliare a disposizione.»
È soddisfatto anche della proposta dell'«Insula Antica Dogana» che avanza Romeo?
«È solo una proposta, come tantissime che riceviamo. Non capisco la polemica, è eccessiva. Di ogni proposta si valuta innanzitutto la fattibilità in termini giuridici e urbanistici, lo faranno gli uffici. Solo dopo ed eventualmente si può fare una valutazione politica. Comunque la proposta dell'Insula non fa parte della transazione, non c'entra nulla. Dopo la transazione Romeo l'ha avanzata, ed è suo diritto anche perché lui è, lo si voglia o no, il nostro gestore.»
La Corte dei Conti lo accusa di aver gestito male, causando un danno economico al comune.
«Può essere inquisito, processato, condannato, resta il nostro gestore fino a dicembre. È quindi interesse del Comune avere da lui il massimo dei risultati possibili dalle vendite e dalle rivalutazioni immobiliari. E sulle sue proposte decidiamo noi.»
A lei la proposta piace? Romeo ha scritto che «il sindaco si è appassionato all'idea».
«Non ho visto la proposta. È all'attenzione dell'assessorato al patrimonio, faranno loro una prima valutazione. Ma è solo una questione ai margini della transazione, è molto più importante che vada in porto tutto quello che è previsto. È una grandissima operazione di vendita di edilizia residenziale pubblica, tremila alloggi. Significherebbe dare risorse certe a noi e la proprietà della casa ai ceti popolari.»
Anche dalla sua lista civica le dicono che è sbagliato fare accordi con un imprenditore che ha la storia di Romeo.
«Io sono un amministratore, non faccio dibattiti politici su questo. Così come non ho detto "non voglio avere rapporti con Berlusconi" quando lui era il presidente del Consiglio. La storia giudiziaria di Romeo io la conosco benissimo. E ripeto: non lo sto scegliendo io come gestore. Io sto solo facendo gli interessi della mia amministrazione e dei cittadini di Napoli. Per questo adesso mi aspetto che Romeo faccia bene il gestore e vada avanti con le dismissioni previste dalla transazione.»
Teme che un eventuale stop alla proposta sull'Insula possa condizionarlo?
«L'Insula non c'entra con la transazione. Questo dev'essere chiarissimo. Io su quel progetto non posso dire nulla, non l'ho visto. Quando lo vedrò, se qualcuno dovesse decidere di passarmelo, allora mi pronuncerò. Nel frattempo posso solo dire una cosa che vale per tutti i progetti, provengano da Romeo o dai centri sociali. Tutti saranno valutati sulla base della nostra linea politica e nel rispetto del piano regolatore generale. Se ci sono elementi di contrasto con il piano non passeranno mai.»
VEZIO DE LUCIA
«Una modello sbagliato di urbanistica contrattata»
Intervista di Andrea Fabozzi
«Con le elezioni i cittadini hanno scelto la difesa del piano, non si torni indietro. Il rischio è che il comune resti l'amministratore dei poveri», dice l'ex assessore di Bassolino. «Alla campagna elettorale di De Magistris non ho partecipato - dice Vezio De Lucia - perché non vivo a Napoli e mi tengo defilato». Ma l'urbanista, assessore della prima giunta Bassolino, non ha smesso di seguire con passione le vicende cittadine. Racconta: «Quando ho sentito dal nuovo sindaco che il primo punto del suo programma sarebbe stato la difesa del piano regolatore mi sono commosso».
Quel piano De Lucia l'ha firmato. E poi difeso, da vicino e da lontano. Fino a quando è toccato a Rosa Russo Iervolino condurlo in porto definitivamente. Per una città cresciuta sugli abusi, è stato il primo piano regolatore generale dal 1972. «Mentre sentivo con grande gioia De Magistris che diceva quelle cose - aggiunge De Lucia - avevo ben presente che nel frattempo il candidato di destra Lettieri si proponeva di "liberare la città dalla gabbia del piano regolatore". Per fortuna è andata bene. Il popolo ha scelto e ha scelto la prima ipotesi, De Magistris e il piano. Ma adesso quella scelta va rispettata da tutti».
L'ipotesi di accordo tra il Comune e l'imprenditore Romeo secondo lei non coincide con questa impostazione?
«Per niente. Sono nettamente contrario a un'ipotesi del genere. Che non è affatto una nuova forma di urbanistica partecipata, come dice chi vuole confondere le idee. È urbanistica contrattata della peggior specie. Il risultato è un patto leonino che imbriglia il potere pubblico, l'unico a cui spetta il governo dello spazio urbano. Mi torna in mente quello che dicevano i costruttori laurini ai tempi del sacco della città: "Il piano regolatore serve a chi non si sa regolare".»
Romeo dice: alla città non costa niente, se non mi volete vado altrove.
«Ma che se ne vada sul serio. Ponti d'oro. Forse il mio è "vecchiume intellettuale" per citare le sue espressioni sprezzanti, quelle che ha rivolto all'assessore De Falco che invece ha ragione e voglio difendere. Sul fatto poi che non ci saranno costi per la città mi permetto di avanzare dei dubbi. Intanto storicamente non è mai stato così, e poi il costo della valorizzazione di quell'area, il costo della trasformazione di piazza Municipio in un grande spazio aperto con da un lato la quinta di palazzo San Giacomo e dall'altro quella della Stazione Marina lo stanno sopportando le casse pubbliche. Mentre le rendite catastali di Romeo sono solo sue.»
Un imprenditore non è libero di fare una proposta? Tanto più che sostiene di aver trovato un sistema di auto finanziamento?
«Ci mancherebbe, faccia tutte le proposte che vuole. Ma non spetta a Romeo proporre soluzioni di questo livello. Un privato può proporre una cosa specifica, un cantiere edilizio. Non chiedere una delibera urbanistica. Non spetta a lui, la valorizzazione di uno spazio è la conseguenza della tutela. Quanto all'idea di finanziarsi con una quota delle tasse dei residenti è il frutto avvelenato del federalismo e della sussidiarietà. Se si estendesse a tutta la città vorrebbe dire che i quartieri ricchi avrebbero servizi di qualità e gli altri si dovrebbero arrangiare. La parola d'ordine del piano, unificare la città, così va a farsi benedire. E l'ambito di intervento del Comune si ridimensiona: resta il comune dei poveri e dei disgraziati.»
Non crede che questa amministrazione sia una garanzia in fatto di tutela dei beni comuni?
«Senta, io non sono un accanito sostenitore della filosofia dei beni comuni, e sto usando un eufemismo. Quando leggo del superamento della contrapposizione tra pubblico e privato resto diffidente, non capisco. Non vorrei che i risultati fossero quelli alla Romeo.»
Un marziano potrebbe pensare che in una città amministrata nel nome della legalità e del bene comune la discussione verta su come incarnare e rendere concreto lo spirito delle leggi, onorandone, e financo superandone, la lettera in nome dei principi superiori che esse traducono in norma.
Tradotto in pratica: quel marziano potrebbe pensare che a Napoli si discuta su come rendere più bella, pulita e sicura la Villa Comunale o su come proteggere dal traffico Via Caracciolo.
E quel marziano si sbaglierebbe di grosso, perché – tutto al contrario – la discussione non è sullo spirito, ma sulla lettera della legge: e cioè su come e su quanto si possano aggirare i numerosi vincoli che mettono al sicuro quei luoghi meravigliosi.
In questa nobile caccia al cavillo, poi, nessuno vuole rimanere col cerino acceso in mano.
Il primo passo lo ha fatto l’amministrazione comunale, chiedendo alla Soprintendenza se i vincoli consentono di prolungare la scogliera e di collocare le installazioni necessarie alle regate. E qui c’è la prima anomalia: ad un’amministrazione che ha i valori che dice di avere quella presieduta da Luigi De Magistris non dovrebbe venire nemmeno in mente di compromettere (anche solo temporaneamente) uno straordinario bene comune come il paesaggio del Lungomare. E il punto non è se il vincolo lo consente o meno: ma se quel progetto è giusto, sano ed educativo. Non tutto quello che i vincoli consentono va necessariamente fatto: almeno se il progetto è quello di rivoluzionare il modo di fare politica e di amministrare una città.
E qui inizia il balletto delle responsabilità.
Il soprintendente al Paesaggio Stefano Gizzi è chiaramente poco entusiasta del progetto, ma si limita a dire ‘ni’ rinviando la decisione.
Vista la complessità dei vincoli e la molteplicità delle competenze coinvolte, la palla passa dunque al Direttore generale regionale del Mibac, Gregorio Angelini: il quale si guarda bene dal decidere, e interpella l’Ufficio legislativo del Ministero, a Roma. Naturalmente, il responso dell’ufficio non sostituisce formalmente la decisione del Direttore regionale: ma è evidente che la mossa ha anche il valore mediatico e politico di condividere la responsabilità con Roma, se non proprio di scaricarsela di dosso.
Ebbene, ora che Roma locuta est, è finita questa interminabile causa? Manco per sogno, perché anche al Legislativo del Mibac stanno bene attenti a non rimanere col cerino in mano. Il parere (firmato dal capo dell’Ufficio, Paolo Carpentieri) è per certi versi così abilmente ambiguo che il marziano di cui sopra potrebbe ben chiedersi a cosa diavolo servano questi benedetti vincoli, visto che un vincolo che vieta di collocare gli ombrelloni d’estate potrebbe esser piegato a consentire la costruzione di oltre centocinquanta metri di scogliera.
Ciò nonostante, ci sono alcuni punti fermi.
Il primo è che, mentre strutture stagionali sarebbero vietate, la Soprintendenza può, in questo caso, dare parere favorevole perché le «opere precarie» della Coppa (cioè passerelle, ormeggi, ponti e boe) rimarranno in loco «pochissimi giorni».
A questo ragionamento sfugge però il prolungamento della scogliera, che – con tutta la buona volontà – è difficile definire un’«opera precaria». In un passaggio, i giuristi del Mibac riconoscono, infatti, che la scogliera «presenta un notevole impatto sull’ambiente», per poi precisare: «ma non sembra porre problemi di compatibilità con il vincolo». E qui è impossibile non chiedersi: la Direzione generale avrà a cuore l’ambiente, o avrà a cuore il vincolo?
Si tratta a quel punto di fidarsi dell’Amministrazione, accettando di considerarla opera «di cui si assume sia certa la rimozione, stante l’impegno espressamente assunto in proposito dal Comune di Napoli». Dunque, conclude il parere, il progetto potrà essere autorizzato «soltanto sulla base di idonea valutazione che – previo specifico e puntuale accertamento degli elementi e delle circostanze di fatto idonei a rendere certa e sicura la pronta rimozione dei manufatti – tenga conto, da un lato dell’impatto visivo delle opere sul paesaggio marino, e dall’altro, del tempo più o meno lungo di permanenza della modificazione dello stato dei luoghi, anche in considerazione dei tempi stimati di installazione e di rimessione in pristino».
Ora cosa succederà? Al Mibac si fa notare che il direttore generale Angelini potrebbe, sì, dare l’autorizzazione, ma condizionandola a tali e tanti paletti da rendere l’operazione di montaggio e smontaggio macchinosissima e costosissima. Perché almeno una cosa, il parere la rende chiarissima: la scogliera e le altre opere non potranno restare fino alle regate del 2013, ma dovranno essere realizzate e dunque smontate per ben due volte, quest’anno e il prossimo (il che, se ha ragione Gian Antonio Stella, vuol dire 3200 camion carichi di pietre che vanno e vengono per quattro volte: senza contare le messe in opera). Ed entrambe le volte dovranno rimanere in loco solo per lo strettissimo indispensabile: cioè pochissimi giorni oltre ai nove delle regate.
Dunque, il cerino tornerà probabilmente nelle mani del sindaco De Magistris: a cui spetterà chiedersi se davvero Napoli ha bisogno di questo Grande Evento, a queste condizioni.
E a quel punto, piegata la lettera della legge, vedremo almeno chiaramente dove soffierà lo spirito.
E se avesse ragione Ennio Flaiano? Se venisse confermato per l’ennesima volta che da noi niente è più definitivo del provvisorio? È questo il dubbio di chi si oppone, a Napoli, alla trafelata costruzione per l’America’s Cup di due barriere di 170 metri, il carico di almeno 3.200 camion, in faccia a via Caracciolo. « Piano B. Extralusso » dopo il fallimento del milionesimo piano per Bagnoli. Vi chiederete: ma proprio davanti alla Villa Comunale e a via Caracciolo, che tanti napoletani dicono essere «la più bella strada del mondo col più bel panorama del mondo» dovevano programmare le regate dei catamarani dell'America's Cup Events? Proprio lì devono costruire due «baffi» di una nuova scogliera per 95 metri da una parte e 75 dall'altra per «ricavare un maggiore spazio d'acqua in sicurezza, cioè al riparo della barriera, in caso di mare grosso» più una decina di capannoni di tela per il ricovero delle barche più le altre strutture d'appoggio?
L'errore è nell'uso del verbo «programmare»: come ha ricostruito sul Corriere del Mezzogiorno Angelo Lomonaco, qui non hanno programmato proprio niente. E il luogo è stato scelto all'ultimo istante, nel ricordo delle regate napoletane per le Olimpiadi del '60 (altro secolo, altro mondo...), per mettere una pezza, come dicevamo, all'evaporazione del progetto originale, quello di sfruttare la scusa dell'America's Cup per risanare almeno un pezzo dell'ex area industriale di Bagnoli.
L'ultima puntata di un tormentone iniziato un quarto di secolo fa. Basti dire che sono passati 23 anni da quando Edoardo Bennato compose una canzone che già aveva capito tutto: «Ma che occasione, ma che affare / Vendo Bagnoli chi la vuol comprare / colline verdi mare blu / avanti chi offre di più...» E ne sono passati 16 da quando il governo Dini presentò un progetto di bonifica della zona che prevedeva una spesa di 267 miliardi dell'epoca e si intitolava «Bagnoli 2000» perché avrebbe dovuto «essere completato entro il 1999». Campa cavallo...
Sono anni che i piani per Bagnoli tornano e ritornano. In tutte le salse. Compresa, appunto, la salsa velista. Con il progetto di portare nell'area un tempo occupata dall'ex Italsider le finali dell'America's Cup del 2003. Quella vera, finita poi a Valencia. Obiettivo fallito. Anche stavolta erano ripartiti da lì, da Bagnoli. Quel territorio un tempo stupendo stuprato da una industrializzazione sbagliata insieme con l'isola di Nisida cantata dallo stesso Bennato: «Non è un problema ecologico per carità / Nisida è un classico esempio di stupidità».
Solo pochi mesi fa, il 6 agosto, una nota del governatore campano (di destra) Stefano Caldoro, del sindaco (vendoliano) Luigi de Magistris e del presidente partenopeo dell'Unione degli Industriali Paolo Graziano esultava: «Siamo ormai vicinissimi a un grande traguardo che rappresenta una occasione di crescita e sviluppo per l'intero territorio». Che te ne fai del sole, del Vesuvio, del mare, di Capri, di Castel dell'Ovo e dei musei meravigliosi senza uno straccio di regata velica? Poi, l'autoelogio: «È il segno evidente che quando funziona la collaborazione fra le diverse istituzioni e c'è voglia di fare...».
Sì, ciao. Mancava il via libera del ministero dell'Ambiente. Per settimane e settimane, l'hanno aspettato. Finché il 15 dicembre, quando mancavano solo tre mesi e mezzo all'inizio delle regate fissato il 7 aprile, gli amministratori hanno dovuto arrendersi: «Abbiamo pronto un piano B». Via Caracciolo. Con il vantaggio di poter usare l'occasione, se proprio non si può risanare Bagnoli, di risanare almeno il cosiddetto «lido Mappatella», una spiaggia definita dagli stessi organizzatori «una vergogna cittadina» da sostituire con «un'attrezzatura balneare e di svago degna di una città civile». Tre giorni dopo Caldoro confermava: «Piano B». Via Caracciolo. «Soluzione molto apprezzata dagli americani», parola del vicesindaco Tommaso Sodano. Ci credo: e dove lo trovavano un palcoscenico più bello? Che importa loro dei problemi urbanistici napoletani?
Il guaio è che devono esser fatte le scogliere che dicevamo per allungare di qua e di là la barriera già esistente davanti alla rotonda Diaz. Totale delle rocce da posare: il carico, se il mare non consentisse l'uso delle chiatte, di almeno 3.200 camion. Un viavai infernale. Che costringerà a chiudere per settimane al traffico via Caracciolo dirottando il caos della viabilità partenopea, che già impressionò Alphonse de Sade, sulla parallela riviera di Chiaia.
Problema: tutta l'area sottoposta a tutela. «Sono vietati ormeggi stagionali, passerelle, pontili, boe fisse e simili in acqua, finalizzati all'ormeggio dei natanti, nonché tavolati, passerelle e attrezzature da spiaggia al di sopra delle scogliere; piattaforme in cemento armato o in muratura; baracche e/o prefabbricati». Parole così rigide da non poter essere aggirate. Come uscirne? Idea: il vincolo non parla di opere «provvisorie». Passata la settimana di regate, basta togliere tutto...
Ma ve li immaginate, a Napoli, gli escavatori e le gru e i camion che rimuovono una scogliera artificiale di 170 metri perché «provvisoria»? Per poi magari ricostruirla, avanti e indrè, per l'altra settimana di regate nel 2013? Dicono: ci sono già i finanziamenti per la rimozione. Sinceramente: dopo tante prove di inaffidabilità ci si può fidare?
Se lo sono chiesti in tanti, sul Corriere. Da Gerardo Ragone a Paolo Macrì, da Benedetto Gravagnuolo a Mirella Barracco, anima della fondazione «Napoli novantanove». La quale ha posto il tema: perché spacciare l'iniziativa come «una panacea di tutti i nostri mali»? Perché ripetere («Ancora!») la formula imbolsita che le regate serviranno a offrire «una nuova immagine di Napoli nel mondo»? Molto meglio, «per dimenticare la mortificazione mondiale del disastro rifiuti, dal quale si comincia appena a venir fuori» recuperare un «grado di civiltà e di vivibilità. Un bene comune, questo sì, che non può essere tolto ai napoletani sottoponendoli a mesi di inferno in cui diventerà impresa ardua recarsi al lavoro o a scuola». È con la buona manutenzione e il ritorno a una vita «normale», insomma, che si recupera credibilità: «Perché perseverare a farci del male?».