loader
menu
© 2024 Eddyburg

Le politiche urbane, anche se a ben vedere non paiono affatto integrate e orientate, sostengono stili di vita sostenibili. Che andrebbero sostenuti anche di più, in fondo non ci vuol molto a coordinare alcuni interventi. La Repubblica Milano, 11 marzo 2015, postilla (f.b.)

Anomalia milanese. Mentre in tutta Italia il mercato dell’auto si riprende, con un +4,2 per cento delle immatricolazioni nel 2014 rispetto al 2013, qui gli acquisti delle nuove auto continuano a scendere di un -1,4 per cento. È la combinazione di vari fattori: dalle politiche contro la congestione e in favore della mobilità sostenibile, al mutamento delle abitudini dei milanesi dopo anni di crisi. Esultano gli ambientalisti: «Non ci aspettavamo un dato ancora in calo, era normale attendersi un rimbalzo. Adesso bisogna rendere i mezzi pubblici sempre più competitivi»

Come si spiega quindi la diversa tendenza? Gli ambientalisti non hanno dubbi: «Significa che a Milano sta succedendo qualcosa di importante — spiega Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia — non solo la gente rinvia sempre di più la sostituzione della vecchia auto, ma molti stanno andando verso la rottamazione definitiva delle quattro ruote». E se anche la riduzione si sta assottigliando, il numero è comunque una buona notizia per chi da anni chiede politiche per abbattere il tasso di motorizzazione in Lombardia, uno dei più alti d’Italia. «Dopo il lungo periodo di crisi del settore delle auto — aggiunge Di Simine — era legittimo aspettarsi una ripresa delle vendite o comunque un assestamento. Che però a Milano non c’è stato. E anche il dato regionale è ben al di sotto di quelle che erano le nostre aspettative».

Andando a vedere nel dettaglio le cifre che riguardano le immatricolazioni sulla base dell’alimentazione, si ha poi un altro indizio sui nuovi criteri che i milanesi usano nella scelta dei mezzi. Il calo più sensibile lo fanno registrare le immatricolazioni delle vetture più inquinanti a diesel (—1,5 per cento) e a benzina (—4,2 per cento), mentre sono in netta crescita — sebbene con numeri assoluti più contenuti — le ibride, in particolare quelle benzina+elettrico, passate dalle 1.130 vetture del 2013 alle 1.588 del 2014. Numeri che certificano quindi come il mercato delle auto a Milano sia particolarmente influenzato dalle misure anti-inquinamento, sia dei divieti regionali ai diesel, sia dalle restrizioni alla circolazione imposte dal Comune. Tra le cause del calo generale c’è poi anche l’esplosione dei servizi di car sharing che rendono per molte famiglie inutile l’acquisto della seconda auto.

Una vittoria, per i promotori della mobilità sostenibile, su cui però è bene non adagiarsi troppo. «Il modo per consolidare questa tendenza — aggiunge Di Simine — è far sì che i trasporti pubblici siano un’alternativa valida per il cittadino rispetto all’uso dell’auto. Per molti, purtroppo, questa è ancora un mezzo necessario per recarsi a lavoro, ad esempio. Bisogna avere un trasporto pubblico competitivo per l’utenza, ed è una competizione che deve essere fatta all’auto privata. Quindi bisogna avere il coraggio di dire basta agli appalti eterni: i servizi di Tpl si mettano a gara, e che sia una gara vera. Il problema del trasporto pubblico non è tanto il volume dei trasferimenti di risorse piuttosto la scarsa competitività degli operatori del settore».

“Il mercato cambierà ancora chi abita fuori non rinuncia”, intervista a Fabio Torta

Fabio Torta, già docente di economia dei trasporti al Politecnico, adesso direttore di Trt, società di consulenza sulla mobilità.
Lei cosa ne pensa di questi dati? Quali sono le cause di questa tendenza opposta rispetto al dato nazionale?
«A una prima valutazione, direi che possono esserci varie motivazioni. La prima è che il parco veicolare lombardo è alto in termini percentuali rispetto alla popolazione. Siamo in una delle regioni in cui il livello di motorizzazione è tra i più elevati d’Italia. E probabilmente è anche più recente e di qualità maggiore. Motivo per cui alcune famiglie magari hanno fatto il cambio auto in tempi pre-crisi, o comunque più recentemente rispetto al resto del paese».

Le misure anti inquinamento e per la mobilità sostenibile secondo lei c’entrano?
«Sicuramente sì. Le politiche contano. Non a caso a diminuire sono principalmente le vendite di auto a diesel che possono circolare sempre meno, mentre per le elettriche che sono in crescita, ad esempio, è rimasta la deroga in Area C. Infine c’è il car sharing che per molti è un incentivo a non acquistare una seconda autovettura».

Cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro?
«Sicuramente ci saranno delle oscillazioni. Le grandi aziende stanno investendo miliardi nel settore delle auto, sia per renderle più tecnologiche sia concentrandosi su forme di alimentazione alternative alla benzina. Motivo per cui ci si potrà aspettare una ripresa del mercato, magari non da subito. Anche perché oltre a chi vive in città bisogna pensare a chi sta fuori, nell’hinterland. Se anche il Comune investe molto nei mezzi pubblici, per queste persone l’automobile resta un mezzo di trasporto fondamentale».

postilla
Forse vale la pena sottolineare ancora una volta quanto pesino, in questo relativo “stupore” per la mancata ripresa del mercato automobilistico, stili di vita e aspettative dei cittadini, oltre che naturalmente una serie di investimenti infrastrutturali che si vorrebbero quantomeno più coordinati di quanto non siano oggi. E quanto potrebbe pesare ciò che qui non si nomina, ma invece entra massicciamente nel conto, ovvero il ruolo delle telecomunicazioni che va ben oltre i messaggini tra amici o qualche email spedita col telefonino per avvisare del ritardo causa ingorgo. Se l'ambiente che ci circonda lo consente, ovvero se la metropoli e i suoi servizi la smettono di essere tarati su misura per l'auto, i suoi spazi, i suoi tempi (pensiamo alla spesa, alla scuola, al tempo libero, oltre che al lavoro) pare quasi naturale che l'istinto umano riprenda il sopravvento. E al tempo stesso, come ci ricorda l'intervista al trasportista, per il mondo della dispersione insediativa la soluzione sostenibile dovrà essere diversa, proprio perché si tratta di un universo cresciuto al 100% attorno all'auto, che ne può fare parzialmente a meno per alcuni aspetti, ma appunto solo per alcuni. Forse, se il governo delle dinamiche territoriali, e la promozione di quelle sociali virtuose, terrà conto in modo equilibrato delle possibilità offerte dalle tecnologie, alla scala dei bacini urbani di pendolarismo attuali e potenziali, emergeranno ulteriori “sorprendenti” comportamenti collettivi, visto che la sostenibilità o meno dipende esattamente dalla sommatoria di quegli aspetti, nessuno escluso (f.b.)

Scenari futuri di mobilità collettiva: l'auto senza pilota. Ma siamo proprio sicuri che l'unica innovazione sia quella di poter pasticciare col telefonino o leggere il giornale mentre si viaggia? Corriere della Sera, 7 marzo 2015, postilla (f.b.)

«Forse sarebbe meglio definirla passività del tempo libero». Chissà se il filosofo Eric Fromm, nell’anno 2023, riterrebbe ancora l’automobile una camicia di forza, un abito stretto, una sovrastruttura prodotta dalla società dei consumi. Tra meno di dieci anni l’uomo non dovrà più guidare la propria vettura. Ci penserà da sé, disintermediando le nostre abilità al volante e (anche) le nostre disattenzioni. Cinquanta minuti al giorno in più per noi — calcola un profetico studio della società di consulenza Mc Kinsey presentato in questi giorni al Salone internazionale di Ginevra —, noi guidatori per diletto o per imposizione, noi 1,2 miliardi di persone. Risparmio globale complessivo: 140 mila anni uomo.

Benvenuti nell’era della guida senza conducente. Procede a tappe forzate il progresso, spinto dagli investimenti dei colossi hi-tech come Google e dei grandi produttori automobilistici, consapevoli che quel differenziale di costo — circa 10mila euro a prototipo — sia il vero lusso del futuro. Immaginate che la vostra auto si converta in un moderno Frecciarossa. Amanti del libro o con il tablet di ordinanza, asserviti al vostro smartphone o tremendamente innamorati dei quotidiani avete davanti a voi almeno un’ora al giorno di consumi elettronici o culturali. Aggiuntivi. Al posto dei vostri occhi, delle vostre mani e dei vostri piedi troverete sofisticati sistemi radar, delicatissime camere per acquisizioni video in tempo reale per leggere la carreggiata senza patemi. In sintesi: sistemi di intelligenza artificiale utilizzati ora solo nella robotica industriale. Secondo Michele Bertoncello, associate partner di Mc Kinsey, curatore per l’Italia della ricerca, a fregarsi le mani saranno soprattutto i produttori di videogiochi. E le grandi major americane dell’intrattenimento, che presumibilmente amplieranno a dismisura il loro giro d’affari in un tempo ora giudicato inutilizzabile. L’ipotesi che è l’automobile a guida automatica possa persino incrementare la condivisione, i giochi di società e quelli di ruolo, la fruizione di talk-show e contenuti in streaming.

D’altronde finora il maggiore interrogativo riguardava l’individuazione di una sorta di «conducente a riposo», in grado di intervenire in caso di emergenze ripristinando la guida manuale. Rileva lo studio Mc Kinsey che le vetture in circolazione dal 2023 — dopo una prevista sperimentazione su camion e veicoli industriali da qui a quella data — saranno perfettamente in grado di fare autodiagnostica senza la necessità dell’intervento umano. Soprattutto perché gli investimenti dei produttori e delle società hi-tech saranno talmente ingenti da raggiungere straordinarie economie di scala in grado di raggiungere la cosiddetta «massa critica del mercato», cioè circa il 90% dei modelli di automobile ora in circolazione. Non sarà pertanto un servizio a valore aggiunto di nicchia. Tutt’altro. Perché sicuramente non interessa i marchi di lusso ed extra-lusso: le case automobilistiche eviteranno infatti di portare l’intelligenza artificiale su pochi prototipi. Al tempo stesso la guida automatica con buona approssimazione non riguarderà nemmeno il segmento low-cost delle utilitarie. Perché la clientela non sarebbe in grado di permetterselo. Gli osservatori concordano che la guida automatica sarà uno straordinario propulsore della sharing economy. Start-up come Uber, capaci di generare ricavi da capogiro in pochi anni, verranno emulati su larga scala, perché porterà a un importante risparmio sul costo del lavoro. Il (nuovo) tempo libero della guida senza conducente porterà però allo sparizione di posti di lavoro? O meglio: che fine faranno gli autisti di mezzi di linea e di operatori privati? Qui lo studio non contabilizza l’effetto in termini occupazionali, ma la sensazione è che l’avveniristica (e terrificante) analisi dell’università di Oxford secondo la quale il 47% dei lavoratori odierni potrebbe essere automatizzato nei prossimi due decenni, sembra calzare perfettamente a pennello. Presto per dire se ci troveremo di fronte alla cancellazione di un’intera filiera, certo è che l’auto a guida automatica porterà con sé anche la consacrazione definitiva dei veicoli elettrici. Ecco perché potremmo anche giocare comodi alla playstation davanti al volante, ma non dovremo sicuramente dimenticare di ricaricare la vettura prima di un lungo viaggio.

Nell’economia del tempo risparmiato rientra anche il guadagno in fase di parcheggio, incubo di molti alle prese con i centimetri da ricavare dopo infinite manovre perché noi saremo semplici osservatori di mosaici perfetti. Secondo Mc Kinsey ricalibreremo anche la toponomastica. Perchè le aree adibite alla sosta dei veicoli saranno sensibilmente ridotte, addirittura si risparmierà solo negli Stati Uniti circa 5,7 miliardi di metri quadri di suolo urbano. Tempo libero guadagnato anche in fase di manutenzione, perchè l’auto automatica andrà in officina da sola, al netto delle complicazioni riguardanti i pagamenti (qui sarà impossibile non essere presenti con la propria carta di credito). Resta il dubbio sulla responsabilità civile in caso di danni. Presumibilmente i colossi assicurativi, con l’abbattimento degli incidenti, riconvertiranno anche le loro strategie (e i loro massimali). Resta l’interrogativo sulla passività (o l’attività) del tempo. Non saremo più schiavi dell’auto ma dei videogiochi? E se Fromm fosse ancora contemporaneo?

postilla
Vorremmo, come l'autore dell'articolo, partire da una considerazione filosofica: non solo esiste ancora, e sempre, una distinzione tra destra e sinistra, tra conservazione e progresso collettivo, ma si tratta di una distinzione evidente anche nella fantascienza. Anzi, che distingue la fantascienza autentica dalla letteratura di evasione commerciale vagamente fantasy. Sostenevano infatti i critici del genere (in testa il leggendario Theodore Sturgeon) che fare davvero science fiction non potesse significare ambientare una storia in uno scenario artificiale, determinato da qualche genere di fatto tecnologico o ambientale, dove l'azione però si sviluppava secondo canoni del tutto classici. Ovvero, come per esempio succede nei cartoni animati dei Flintstones (gli Antenati) o dei Jetsons (i Pronipoti) girare un telefilm suburbano, dove le villette e i supermercati sono semplicemente fatti di pietra grezza, oppure a reazione atomica. Il vero futurologo racconta le eventuali conseguenze dell'innovazione, guardando davvero avanti, così come in fondo aveva fatto probabilmente anche l'innovatore stesso. L'automobile senza autista, con buona pace dei venditori di videogiochi e assimilati, apre scenari inediti per la mobilità, i produttori, e soprattutto la collettività, intesa sia come cittadini/consumatori che come le istituzioni che li rappresentano. A partire da una considerazione apparentemente banale, che però sfugge a tantissimi: con un mezzo che si muove senza pilota, si potrebbe eliminare in tutto o in parte (con una adeguata programmazione e intervento pubblico) la barriera storica fra mobilità individuale e collettiva. In pratica si potrebbe già oggi pensare a una sorta di fusione tra i sistemi attuali di car sharing e quelli di autobus, magari legandoli allo sviluppo parallelo di una rete di rifornimento da energie rinnovabili, e ovviamente allargando il sistema anche agli insediamenti a non altissima densità, oggi esclusi. Ma bisognerebbe appunto pensarci: alcuni produttori già lo fanno, parlando di progressiva demotorizzazione; lo fa anche qualcun altro? Speriamo proprio di si (f.b.)

L'entusiasmo muscolare degli attivisti biciclettari e in genere anti-auto, di sicuro potrebbe dispiegarsi meglio riflettendo un istante sulla forma urbana dentro cui ci si sposta: perché è caduta in disuso la scuola (e in genere lo spazio pubblico) come fulcro del quartiere? La Repubblica, 18 gennaio 2015, postilla (f.b.)

Sono pochi, pochissimi, i bambini italiani che vanno a scuola da soli, senza essere accompagnati dai genitori. E il loro numero continua a diminuire. Secondo i dati del Consiglio nazionale delle ricerche sono appena il 16 per cento dei piccoli che frequentano le scuole elementari. Il 70 per cento, invece, viene portato in auto. Ma non è sempre stato così. Anzi. Negli Anni Settanta i numeri erano capovolti. E l’autonomia dei bimbi cala, oggi, all’8 per cento nel Nord e sale al 30 per cento nel Sud. Il Cnr spiega, poi, che queste percentuali si alzano insieme al titolo di studio di madre e padre. Altre ricerche dicono, ancora, che soltanto metà dei ragazzini delle medie va a scuola senza accompagnamento adulto. Accade quindi, in Italia, che i nostri ragazzi ricevano il motorino e le sue chiavi senza aver mai sperimentato la libertà e la responsabilità di dover organizzare spostamenti autonomi.

Il pediatra-ricercatore Francesco Tonucci (del portale online “Un pediatra per amico”), ricorda che in Inghilterra nel 1970 andavano a scuola a piedi (e da soli) otto bambini su dieci, vent’anni dopo il rapporto era crollato a uno su dieci e oggi è di nuovo in risalita: il 32 per cento. L’accompagnamento di massa è una tipicità occidentale e metropolitana, ma altrove in Europa è stata affrontata e risolta. Grazie a piste ciclabili, diffusione del messaggio e moral suasion. In Germania — dove le città hanno numeri di residenti raffrontabili con le nostre — la percentuale dei bambini sciolti dai genitori nel percorso casa-scuola è del 76 per cento.

Una risposta consapevole ai bimbi auto-dipendenti è quella pratica chiamata Bike to school che si sta diffondendo nel nostro Paese. I pionieri sono stati i genitori della “Di Donato” di Roma, scuola materna, elementare e media multietnica all’Esquilino. Ci provarono nella settimana europea della mobilità sostenibile, venerdì 20 settembre 2013. In onore del Critical mass adulto, i genitori scelsero di radunarsi sul colle a gruppi sempre crescenti ogni ultimo venerdì del mese per dirigersi verso la scuola: oggi i venerdì in bicicletta sono diventati quattro al mese: i baby bikers sono cresciuti. Come gli ispiratori critici, i ciclomarmocchi in rotta per la classe spesso nel percorso rallentano le auto dietro di loro: segnale politico. Gli eventi Bike to school sono diventati nazionali, Roma è rimasta capofila e in questa stagione scolastica ha pedalato verso scuola nell’ultimo venerdì prima della chiusura natalizia — 19 dicembre 2014 — contando oltre 60 istituti partecipanti, ciascuno con tre-quattro percorsi possibili. Nell’evento precedente, quello del 28 novembre, in un gruppo della Di Donato con pettorina verde c’era anche il sindaco Ignazio Marino: ha accompagnato i bambini fino al portone della scuola. A Napoli si sono attivati diversi istituti superiori: un percorso è stato individuato e praticato a Scampia, con patrocinio del Comune. Aderiscono da due anni all’iniziativa genitori e figli di Caserta, Milano, Torino, Genova e Bologna.

E scrivono nei gruppi aperti su Facebook: «I bambini percepiscono che non è sano passare, la mattina, da un ambiente chiuso (la casa) a un altro (la macchina) e infine a un terzo (la classe) senza fare alcuno sforzo né attività fisica». Anna Becchi, madre della Di Donato, racconta: «Ho tre figli, sono un’attivista del gruppo romano #salvaiciclisti e insieme abbiamo voluto dimostrare che andare a scuola in bici è bello e si può fare, soprattutto se si è in tanti. La prima volta eravamo una trentina, adesso non li conto più».

Già. Perché i bimbi vivono la loro lunga giornata tra banchi, tv in salotto, corsi pomeridiani. Tutto sempre al chiuso. «Assistiti e vigilati da adulti, ma il rischio è una condizione necessaria per procedere nello sviluppo cognitivo, sociale, delle capacità e delle competenze», dice Tonucci. I bambini che vanno a scuola accompagnati in macchina, sostiene la letteratura medica, sono meno reattivi di quelli che vanno in bicicletta o a piedi. Giocano meno, sono spesso in sovrappeso, hanno minore sicurezza e minore autostima. Durante l’adolescenza soffriranno di più la solitudine. Chi si è abituato a spostarsi in macchina tenderà a conservare l’abitudine da adulto. Il numero di bambini investiti da automobili con alla guida genitori che portano i loro figli a scuola è il doppio della media.
E infine, come dice il pediatra Tonucci: «I nostri figli in bicicletta o a piedi per strada rendono più sicura la città».

postilla

Francamente, vengono i nervi, ogni volta che si leggono questi articoli dove qualcuno ha scoperto la pietra filosofale, la soluzione panacea ai problemi urbani dell'umanità tappandosi occhi e orecchie rispetto a cosa dovrebbe poi significare quell'aggettivo, “urbano”. Ovvero al contesto dentro cui sono maturati i problemi, e a cui si dovrebbe guardare sempre: perché si va e viene da scuola (come da ogni altra cosa) in auto? Certo esistono aspetti abitudinari, psicologici, di ansia dei genitori e nonni da iper protezione dei pupi, ma ancora: cosa stuzzica questa ansia, se non un ambiente generale che non si percepisce come sicuro? Di questo, buona parte del cosiddetto dibattito sulla mobilità dolce non parla mai, salvo con quella rituale richiesta di piste ciclabili, che pare ormai assimilabile a quella dei militari per strada a tutela del cittadino, o all'essere giovani per occupare dei posti, quanto a banalità. Ci si muove in auto perché lo spazio dentro a cui ci spostiamo è stato concepito male, senza seguire il criterio minimo individuato da un sociologo dei servizi scolastici nel 1913: l'edificio con la scuola dell'obbligo si deve trovare a una distanza percorribile facilmente a piedi in tutta sicurezza rispetto alle abitazioni. Quel sociologo si chiamava Clarence Perry, dieci anni dopo perfezionò il tutto nella teoria della “unità di vicinato”, che però venne al volo sequestrata da un commando mascherato di architetti, e rapidamente ridotta a un confuso ammasso di slogan estetizzanti, pronti a evaporare, nonostante alcune positive sperimentazioni negli odiati quartieri razionalisti del '900. Forse tornare a quel concetto base, dove c'è un bambino in età scolare, la porta della casa da cui esce, e quella della scuola all'altra estremità, aiuta. Oppure siamo come sempre “oltre”? (f.b.)

Serie di osservazioni condivisibili sull'opportunità di spostare il tiro negli investimenti infrastrutturali, che così servirebbero certamente meglio il territorio. Corriere della Sera Milano, 10 gennaio 2015

Il tema della mobilità nell’area metropolitana milanese merita qualche nota per capire se esistono margini di miglioramento. Quella che segue è la sintesi di riflessioni che per molti anni sono state condotte da un fertile gruppo di pensiero all’interno del Politecnico di Milano. Di recente esse sono avvalorate da un serio rapporto della Corte dei conti francese. L’analisi che qui interessa sostiene che «mettere in esercizio un sistema europeo di segnalamento e gestione del traffico lungo le linee ferroviarie esistenti raddoppierebbe la capacità, con un costo pari a un quindicesimo di una linea ad alta velocità». Una verifica veloce conferma la possibilità di ottenere risultati analoghi anche da noi. Oggi questa tecnologia in Lombardia è attiva solo sulle linee Alta Velocità e il costo della gestione è pari a circa 1,5 milioni/km, anche se sono allo studio sistemi molto meno costosi. Di contro, realizzare ogni chilometro di linea Alta Velocità della Milano-Torino è costato, incluse le compensazioni territoriali, circa 62 milioni (in pianura, un primato di costo).

Veniamo al dunque. Con risorse scarsissime (ma per la diffusione della tecnologia c’è il Fondo europeo per gli investimenti), le disponibilità andrebbero orientate verso le opere più efficaci, in primis il potenziamento del sistema ferroviario metropolitano e dei parcheggi di corrispondenza nei luoghi di partenza dei pendolari. Sarebbe illusorio pensare di dotare l’area metropolitana di servizi di trasporto pubblico capillari, mentre è ragionevole pensare che l’auto privata possa coprire il primo segmento dello spostamento, casa-stazione. Il risultato sarebbe la riduzione di congestione e inquinamento. Se gli amministratori saranno coraggiosi, fra qualche anno in città troveremo, oltre ai mezzi pubblici collettivi, bici e micro veicoli elettrici da noleggiare, in quantità decisamente superiore a quelli oggi disponibili, per coprire primo e ultimo miglio.

Questo significa rinunciare all’Alta Velocità? Sì, se pensiamo al modello Milano-Roma; no se pensiamo a infrastrutture meno ambiziose e più adatte a un territorio caratterizzato dalla presenza di città medie, più o meno a 50 chilometri l’una dall’altra. Che senso avrebbe non servirle con cadenze ragionate? E se il servirle implicasse una riduzione delle velocità di punta da 300 a 200 chilometri/ora sarebbe un problema? Certamente no. La Germania, con una struttura urbana molto simile alla nostra, ha già optato con successo per un modello simile, risultato efficace e redditizio, sulla rete esistente.

«Alcuni brani da La parola contraria di Erri de Luca, da oggi nelle librerie per Feltrinelli. La difesa preparata dallo scrittore nel processo che lo vede imputato per le sue dichiarazioni sulla necessità di bloccare i lavori in Val di Susa». Il manifesto, 8 gennaio 2015
Uno scrit­tore ha in sorte una pic­cola voce pub­blica. Può usarla per fare qual­cosa di più della pro­mo­zione delle sue opere. Suo ambito è la parola, allora gli spetta il com­pito di pro­teg­gere il diritto di tutti a espri­mere la pro­pria. Tra i tutti com­prendo in prima fila i muti, gli ammu­to­liti, i dete­nuti, i dif­fa­mati da organi d’informazione, gli anal­fa­beti e chi, da nuovo resi­dente, cono­sce poco e male la lingua.

Prima di dovermi impic­ciare del mio caso, posso dire di essermi occu­pato del diritto di parola di que­sti altri.

«Ptàkh pìkha le illèm»: apri la tua bocca per il muto (Proverbi/Moshlé 31,8). Oltre a quella di comu­ni­care, è que­sta la ragione sociale di uno scrit­tore, por­ta­voce di chi è senza ascolto. Sal­man Rush­die con il suo romanzo Ver­setti sata­nici ha sca­te­nato mani­fe­sta­zioni di masse isla­mi­che con­tro una bla­sfe­mia risen­tita nel suo rac­conto. Delle per­sone sono scese in piazza e sono morte per que­sto effetto di rea­zione. Il romanzo di Goe­the I dolori del gio­vane Wer­ther sca­tenò un’ondata di sui­cidi nei gio­vani europei.

Con minori con­se­guenze, Rei­n­hold Mes­sner 25 con le sue pub­bli­ca­zioni ha atti­rato let­tori a salire in mon­ta­gna e alpi­ni­sti a ten­tare le sue imprese. Mauro Corona ha fatto venire voglia ai suoi let­tori di visi­tare Erto e la diga del Vajont. Que­sti sono casi di isti­ga­zione? O con più pro­prietà di lin­guag­gio e nes­suna con­se­guenza penale sem­pli­ce­mente sug­ge­stioni dovute al verbo ispi­rare? Se dalla parola pub­blica di uno scrit­tore seguono azioni, que­sto è un risul­tato ingo­ver­na­bile e fuori del suo controllo.

Le parole pos­sono solo que­sto, anche quando inci­tano a più impe­tuosi impe­gni: Aux armes citoyens è isti­ga­zione pre­sente nella Mar­si­gliese, inno nazio­nale fran­cese, il più bello che cono­sco. Incita alla guerra civile, a pren­dere le armi con­tro il tiranno. Fa da colonna sonora sot­tin­tesa di ogni insur­re­zione. Claude Joseph Rou­get de Lisle, autore del testo, aspetta da un paio di secoli denun­cia per istigazione.

L’utopia non è il tra­guardo ma il punto di par­tenza. Si imma­gina e si vuole rea­liz­zare un luogo che non c’è ancora.

Uno stu­pro del territorio

La Val di Susa si batte dal tempo di una gene­ra­zione per il motivo oppo­sto: per­ché il luogo ci sia ancora. Non quello imma­gi­nato da chi, pur di rea­liz­zare pro­fitto su uno dei tanti grandi lavori, è indif­fe­rente al danno pro­cu­rato alla salute pub­blica. Uto­pia, e delle peg­giori, è l’asservimento di un ter­ri­to­rio a una spe­cu­la­zione dichia­rata, per meglio abu­sare, stra­te­gica. Le per­fo­ra­zioni e la pol­ve­riz­za­zione di gia­ci­menti di amianto fanno inor­ri­dire chiun­que abbia noti­zia del gua­sto mici­diale di uno spar­gi­mento delle sue fibre tos­si­che. La mia defi­ni­zione è: stu­pro di ter­ri­to­rio. La Val di Susa si batte con­tro il disa­stro ambien­tale per scon­giu­rarlo, per non doverlo pian­gere dopo. Si tratta della più intensa e dure­vole lotta di pre­ven­zione popo­lare. Paga que­sta sua volontà con una repres­sione su scala di massa e con la mili­ta­riz­za­zione della sua vita civile.

Una grande pre­po­tenza pre­tende di schiac­ciare le ragioni e i corpi di una pic­cola val­lata. Resi­stono da una gene­ra­zione con deter­mi­na­zione com­mo­vente. Da com­mosso ho ade­rito alle loro ragioni aggiun­gendo spesso e da molti anni la mia pre­senza fisica alle loro mani­fe­sta­zioni. Il nostro paese ha biso­gno di rin­no­varsi scrol­lan­dosi di dosso i paras­siti delle cor­ru­zioni, degli inte­ressi pri­vati a danno delle pub­bli­che spese, dei pri­vi­legi. L’organismo è sano ma il suo manto è aggre­dito. In Val di Susa il corpo rea­gi­sce e osta­cola lo scavo degli acari infe­stanti, dei tarli rosic­chianti le mon­ta­gne. La resi­stenza civile pro­duce gli anti­corpi necessari.

Così pure a Lam­pe­dusa una comu­nità ha saputo rea­gire alla degra­da­zione impo­sta da leggi cri­mi­nali. Gli ordini venuti dal con­ti­nente hanno voluto strin­gere un nodo scor­soio intorno all’isola e farne terra chiusa. I Lam­pe­du­sani hanno sle­gato e fatto terra aperta.

Dare cibo, acqua, vestiti, allog­gio, pre­mura per gli amma­lati, i pri­gio­nieri, i morti: le sette opere di mise­ri­cor­dia sono state com­piute da loro, che vivono sul mare e usano leggi oppo­ste. E non sono Lam­pe­du­Santi, ma sem­pli­ce­mente Lam­pe­du­Sani. La rima nord e sud, Val di Susa e Lam­pe­dusa, riscatta oggi il titolo di cit­ta­dini da pre­po­tenze che li vogliono sudditi.

Per­ché si dia isti­ga­zione alla vio­lenza biso­gna dimo­strare la con­nes­sione diretta tra parole e azioni com­messe. In una dichia­ra­zione ripor­tata su «Left», sup­ple­mento di «l’Unità» (21 giu­gno 2014), Gae­tano Azza­riti, pro­fes­sore di Diritto costi­tu­zio­nale, afferma: «L’articolo 21 della nostra Costi­tu­zione ci per­mette la mas­sima libertà di espri­mere le nostre opi­nioni. Per que­sto i pub­blici mini­steri, in un caso come quello di De Luca, dovranno dimo­strare la con­nes­sione diretta tra le parole e l’azione… Se non si può dimo­strare un’immediata suc­ces­sione di eventi tra parole e azioni, allora il reato non esi­ste».

Isti­ga­zione alla vio­lenza: negli anni pas­sati degli auto­re­voli espo­nenti di par­titi, con largo seguito di iscritti e mili­tanti, hanno di volta in volta pub­bli­ca­mente minac­ciato il ricorso alle armi per rag­giun­gere dei loro obiet­tivi. In altre cir­co­stanze hanno annun­ciato il ricorso all’evasione fiscale di massa. Non sono stati inqui­siti dalla magi­stra­tura per il reato di istigazione.

Omis­sione di confronto

Sono d’accordo: anche se inve­stiti di auto­rità e di con­se­guente facoltà di pro­muo­vere azioni cri­mi­nose presso il largo seguito di ade­renti, hanno eser­ci­tato il loro diritto di parola. Nel mio caso la pub­blica accusa afferma che le mie parole hanno avuto un seguito di azioni. Mi attri­bui­scono un ruolo che nem­meno gli alti espo­nenti di par­tito hanno avuto.

Non appar­tengo a nes­suna for­ma­zione poli­tica. Par­te­cipo da cit­ta­dino a mani­fe­sta­zioni che con­di­vido e per inte­resse di testi­mone. Ma la pub­blica accusa afferma che avrei influen­zato il com­por­ta­mento di per­sone e la com­mis­sione di reati.

Si è arri­vati a pro­nun­ciare que­sto ragio­na­mento: dopo le mie frasi si sono pro­dotti tali epi­sodi. E prima delle mie frasi? Manca per omis­sione il con­fronto. Dopo la fab­bri­ca­zione dei faz­zo­letti di carta le per­sone si sono sof­fiate il naso. E prima? L’argomento è di quelli messi in ridi­colo da un buon mil­len­nio e fis­sati dalla frase latina: «Post hoc, ergo prop­ter hoc»: dopo di que­sto, dun­que a causa di questo.

I pub­blici mini­steri hanno esi­bito un elenco di epi­sodi com­piuti da mili­tanti No Tav, com­pi­lato dalla Digos di Torino, acca­duti a par­tire da set­tem­bre 2013. Tutti que­sti epi­sodi sono stati riven­di­cati da ano­nimi mili­tanti No Tav che dichia­ra­vano di avere agito in soli­da­rietà con quat­tro loro mili­tanti arre­stati. Tutti gli autori degli epi­sodi di quell’elenco hanno agito per soste­nere la causa dei loro com­pa­gni. Almeno uno, uno solo, poteva aggiun­gere, magari anche in mar­gine come postilla: e poi per­ché l’ha detto De Luca sull’«Huffington Post».

I pub­blici mini­steri esi­bi­scono come dimo­stra­zione un elenco incom­pleto, privo di raf­fronto con il periodo pre­ce­dente, e che per giunta dimo­stra il con­tra­rio.

Que­gli epi­sodi non c’entrano niente con le mie frasi incri­mi­nate da loro.

Dalle mie parti, al Sud, esi­ste un altro tipo di respon­sa­bi­lità della parola. Uno augura il peg­gio a una per­sona e quella più tardi subi­sce un inci­dente. Il tale del malau­gu­rio viene rite­nuto respon­sa­bile dell’accaduto e dà così avvio alla sua fama di iettatore.

Quando in uno sta­dio del Nord Ita­lia si incita la natura invo­cando «Forza Vesu­vio» si sta isti­gando un vul­cano all’eruzione. La rea­zione da parte meri­dio­nale non è stata una denun­cia ma l’esorcismo effi­cace di una grat­ta­tina in zona pubeale. Che la linea Tav in Val di Susa possa essere sabo­tata, che possa non sbu­care dall’altra e da nes­suna parte. Che pos­sano finire i fondi pub­blici desti­nati all’affarismo di aziende col­le­gate ai par­titi. Che un governo di nor­mali capa­cità di inten­dere e volere la lasci incom­piuta, come già altri 395 (tre­cen­to­no­van­ta­cin­que) grandi lavori in Ita­lia. Che possa essere dichia­rata disa­stro ambien­tale e i suoi respon­sa­bili per­se­guiti per que­sto. La linea Tav va sabo­tata: la frase rien­tra nel diritto di malaugurio.

Mini­stri di que­sto e di altri governi hanno dichia­rato la linea Tav in Val di Susa opera stra­te­gica. Stra­te­gico è agget­tivo di ori­gine mili­tare, stra­tega era il coman­dante dell’esercito greco. L’effetto è anche mili­tare: il can­tiere della per­fo­ra­zione e la val­lata sono sotto pre­si­dio di forze armate oltre che di corpi di poli­zia e carabinieri.

Stati di emergenza

Area di inte­resse stra­te­gico vuol dire sem­pli­ce­mente area sot­tratta a dis­senso, dove non si può pro­te­stare e dove per­tanto si può usare l’esercito con fun­zione di ordine pub­blico. La defi­ni­zione di area d’interesse stra­te­gico è pom­posa ma recente. Appli­cata al can­tiere Tav di Chio­monte, con legge del 12 novem­bre 2011, è stata in pre­ce­denza inven­tata per la Regione Cam­pa­nia, allo scopo di pro­teg­gere dalle pro­te­ste civili la costru­zione di impianti di smal­ti­mento rifiuti. Si capi­sce che l’aggettivo «stra­te­gico» infi­lato nella legge del 2011 è stato preso dalla spaz­za­tura (il DL 23/5/2008 n. 90 32 attri­bui­sce qua­li­fica di «area di inte­resse stra­te­gico nazio­nale» a siti, aree, impianti con­nessi alla gestione di rifiuti).

Sono incri­mi­nato per avere espresso la neces­sità di sabo­tare un’opera stra­te­gica per lo Stato. Ma a costi­tuirsi parte civile con­tro di me è una ditta pri­vata, Ltf sas. Non dovrebbe essere lo Stato con la sua avvo­ca­tura? Lo Stato non si ritiene dan­neg­giato dalla mia insu­bor­di­na­zione con­tro l’opera così deci­siva per le sorti pub­bli­che? Si nasconde die­tro la parte civile di una qua­lun­que ditta privata?

A pro­po­sito, la ditta in que­stione non è ita­liana ma fran­cese, con sede a Cham­bery: ltf sta per Lyon Turin Fer­ro­viaire. Biz­zar­rie del destino: caso vuole che in Fran­cia non siano in vigore le nostre nor­ma­tive anti­ma­fia nell’assegnazione degli appalti. Caso vuole che per la Fran­cia la linea Lyon-Torino non sia stra­te­gica né prio­ri­ta­ria. L’entusiasmo della ditta ltf non è con­di­viso in patria.

Chiedo che sia lo Stato a costi­tuirsi parte civile con­tro di me. Mi si pro­cessa per una dichia­ra­zione con­tro un’opera solenne e stra­te­gica del nostro ter­ri­to­rio e in caso di con­danna dovrei rim­bor­sare un’azienda fran­cese anzi­ché lo Stato ita­liano? Chiedo alla pub­blica e distratta auto­rità di pro­ce­dere alla costi­tu­zione di parte civile con­tro di me. Sarò con­dan­nato per essermi oppo­sto a un’opera di Stato e non a una qua­lun­que ditta estera venuta a far danno da noi

«Nella legge di stabilità 300 ml di euro per l'autostrada nata "senza soldi statali". Aiuti anche dalla Regione Lombardia, 60 ml sottratti dal fondo destinato all’edilizia sanitaria. Svelato il grande inganno chiamato project financing il miracoloso sistema che apparentemente fa finanziare le grandi opere dai privati». Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2014

L’autostrada meno trafficata d’Italia la dovevano pagare i privati. E invece no. Perché alla fine tra le pieghe della legge di Stabilità 2015 approvata nelle scorse settimane dal governo spunta uno stanziamento pubblico di 300 milioni per la A35 meglio conosciuta come Brebemi. Contributo che la società concessionaria controllata da Intesa Sanpaolo e dal gruppo Gavio aveva chiesto per riequilibrare il suo piano economico e che va ad aggiungersi agli altri 60 milioni assegnati dalla Regione Lombardia prima di Natale.

A sollevare il caso è stato ieri l’Eco di Bergamo ricordando anche che il finanziamento della Regione aveva suscitato non poche polemiche anche fra lo stesso governatore Roberto Maroni, favorevole alla concessione, e il ministro ai Trasporti e alle Infrastrutture Maurizio Lupi il quale, solo pochi giorni fa, era sembrato contrario. Durante un conferenza stampa a Palazzo Lombardia aveva, infatti, evidenziato che i vertici della Brebemi spa si erano spesso vantati di essere riusciti a costruire l’autostrada solo con soldi privati: «Mentre ora ci chiedono un contributo pubblico» aveva detto. Non solo. Durante la discussione per l’approvazione della legge regionale finanziaria 2015, il capogruppo del Pd in Consiglio regionale, Enrico Brambilla ha duramente criticato la decisione della Regione di partecipare al riequilibrio del piano economico della Brebemi-A35 attraverso un contributo da 60 milioni da versare in tre anni, dal 2015 al 2017. Ad aggravare la questione, secondo Brambilla, è che i 60 milioni sono stati stanziati togliendoli dal fondo destinato all’edilizia sanitaria.

Dalla maggioranza è stato però fatto notare come anche il governo Renzi, che ha come principale partito all’interno lo stesso Pd, abbia deciso di sostenere Brebemi. Sono così affiorati i fondi pubblici inseriti attraverso un emendamento, nella legge di stabilità 2015 con un nome tecnico che passa inosservato. Si chiama “Fondo interconnessione tratte autostradali” e ha una dotazione complessiva di 300 milioni di euro che verranno stanziati, 20 milioni di euro all’anno, dal 2017 al 2031. Alla ripartizione delle risorse, da utilizzare esclusivamente in erogazione diretta, si provvede con delibera Cipe (il comitato che coordina gli investimenti statali) su proposta del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

«Nata con la promessa di autofinanziarsi, la Brebemi diventa ora l’autostrada più sussidiata del mondo», ha commentato Dario Balotta, responsabile trasporti di Legambiente Lombardia. A rendere i contributi pubblici «una farsa», secondo Balotta, ci sono poi gli sconti del 15 per cento (fino a maggio) per i pendolari annunciati da Brebemi. Dalla sua inaugurazione, avvenuta a luglio, la “direttissima” di 61 chilometri che collega Milano, Bergamo e Brescia viene utilizzata da meno di 17 mila veicoli al giorno contro i 60 mila previsti. «Inoltre - conclude l’esponente di Legambiente - lo sconto di 1,60 centesimi non basterà a far cambiare idea agli automobilisti, perché il pedaggio costerà comunque il 45 per cento in più della parallela A4».

Di certo è stato svelato il grande inganno chiamato project financing di cui aveva già scritto il Fatto Quotidiano nell’agosto scorso. Il miracoloso sistema che apparentemente fa finanziare le grandi opere dai privati perché le casse pubbliche sono vuote. Solo che alla fine paga comunque lo Stato.

«Ma non ci avevano detto che il mercato nel settore dell’elettricità avrebbe portato dei benefici? È allora tempo, ancora una volta, di qualche riflessione». La Repubblica, 29 dicembre 2014 (m.p.r.)

Ho avuto occasione di sfogliare un corposo studio sui costi dell’energia elettrica in Italia. Esso è stato redatto da Rse, società dello Stato che sviluppa attività di ricerca nel settore. Alla fine quello che più impressiona un lettore generico è che la bolletta elettrica per gli italiani è la più cara di tutte. Lo sapevamo, ma non con così tanta differenza. Paghiamo la luce il doppio della media famiglia francese.

Viene spontanea e diretta la domanda: ma non ci avevano detto che il mercato nel settore dell’elettricità avrebbe portato dei benefici? È allora tempo, ancora una volta, di qualche riflessione. Andiamo per ordine. Fino a tutti gli anni Novanta esisteva il monopolista Enel e qualche azienda municipalizzata che producevano e distribuivano l’energia elettrica. Il suo prezzo veniva stabilito dallo Stato sulla base principalmente dei costi del petrolio e del carbone, tenendo comunque conto della situazione generale del Paese. Le aziende elettriche non avevano i bilanci in rosso, non erano forse efficientissime, ma tutto sommato non pesavano più di tanto sui contribuenti.
Arrivò poi una direttiva europea che impose di introdurre il mercato dell’elettricità (anche quello del gas). Un po’ difficile da comprendere come si possano applicare le regole di mercato su un prodotto “invisibile” al cliente. La modalità che noi scegliemmo fu quella di vendere gli impianti migliori dell’Enel a francesi e tedeschi. Poi dopo la svendita ci siamo messi a competere con loro in Italia. Il governo francese scelse diversamente: mantenne intatta la sua azienda di Stato (la Electricité de France - EdF), lasciando aperte agli altri le ulteriori quote di mercato disposte a competere. Alla luce di quanto è successo, sono stati più bravi loro. Le ragioni del mercato erano molto semplici: più concorrenza avrebbe portato a maggiore efficienza così che l’utente francese avrebbe avuto l’energia elettrica a minor prezzo. I governi dell’epoca decisero di fare ancor di più: privatizzarono l’Enel e la quotarono in Borsa, tenendosi il 30%. Lo Stato fece cassa ma il risparmiatore certamente no. All’epoca (circa 12 anni fa) ogni azione Enel valeva più di 8 euro, oggi 3,7. Per di più l’azienda è oggi oberata di debiti. Alcune aziende municipali seguirono la stessa strada (Acea, Aem,…), un disastro per i piccoli azionisti.
Per quanto riguarda il mercato va anche detto che è molto poca l’energia elettrica che viene gestita secondo le sue regole, in quanto deriva per il 30% da fonti rinnovabili immesse in rete con il beneficio di apparire bene di importazione meno caro di quello prodotto dalle centrali nucleari francesi. Allora continua ad aver ancora senso tenere ferme tantissime moderne centrali a gas? Sotto il profilo del regime tariffario, gli utenti finali si distinguono principalmente in due categorie: clienti in regime di mercato libero che si riforniscono direttamente senza intermediari e clienti in regime di maggiore tutela.
I clienti in regime di mercato libero rappresentano sia utenti industriali/ commerciali sia domestici che hanno esercitato il diritto a scegliere un proprio fornitore. In questo caso la tariffa elettrica applicata è definita sulla base di condizioni economiche determinate in regime concorrenziale fra gli operatori (venditori/compratori). Per le famiglie con consumi molto bassi si applica un regime cosiddetto di “maggior tutela” garantito dallo Stato. Il problema è che per poter soddisfare i consumi ed il benessere di una famiglia di oggi con tenore di vita “europeo” occorre impegnare una potenza di circa 6KW (lavatrice, condizionatore, ferro da stiro, forno,..). E guarda caso le tariffe odierne vanno a penalizzare proprio questa fascia di utenti, che finisce per pagare per tutti e che comprende anche negozi, artigiani e piccoli uffici.
La prima azione “democratica” da compiere consisterebbe nel far pagare in maniera proporzionale alla quantità utilizzata, in regime di mercato infatti chi consuma di più dovrebbe godere di sconti corrispondenti. Ma il vero nodo sta nella “struttura della bolletta”. Nonostante ci sia una diversificazione degli utenti finali per tipologia di consumo e di trattamento tariffario, tutti sono accomunati dalla stessa struttura di prezzo del kilowattora consumato, che include le seguenti componenti: costo di approvvigionamento (combustibili, produzione, commercializzazione,..); costo per il servizio di gestione del sistema elettrico italiano; costo dei servizi di trasmissione e distribuzione (trasporto dell’energia dalla centrale di produzione fino al cliente Terna ed Enel); oneri generali di sistema (incentivazione alle fonti rinnovabili ed altre voci); imposte.
È tra queste componenti che si deve andare a trovare la riduzione dei costi. Su quelli di approvvigionamento, una volta ottimizzata la gestione operativa delle centrali alimentate con combustibili tradizionali, il risparmio dipende dai prezzi internazionali del petrolio (in questo periodo la congiuntura sarebbe favorevole). Una sforbiciata sui costi di funzionamento del Gse (gestore della rete) e di altre società collegate non farebbe male (spending rewiew). Per quanto riguarda i servizi di trasmissione ad alta tensione e di distribuzione gli oneri pretesi dalle due società Terna ed Enel sono molto più alti rispetto a quelli praticati in Europa. Gli utili delle due società appaiono comunque eccessivi perché dovuti a questi elevati margini. Non sono necessarie strategie energetiche, ma urgenti misure di equità.

Insistere nella realizzazione della cosiddetta TAV Torino-Lione è una clamorosa stupidaggine, ma non aiutano a sgonfiare il pallone di menzogne propalate dei difensori della costosa e devastante iniziativa quanti scelgono lo strumento degli attentati. Il Fatto quotidiano, 27 dicembre 2014

Quando si parla di Tav vi sono una serie di elementi fuori discussione, cioè non “di parte”, benché il progetto resti controverso e non più di Alta velocità (nome improprio). Era nato come una linea di alta velocità, cioè principalmente destinata ai passeggeri, tra Torino e Lione. Poi, data l’esiguità delle previsioni ufficiali per i passeggeri (16 treni al giorno su 250 di capacità della linea), è stato degradato a progetto merci. Infine, data l’evidente non necessità di una linea veloce per le merci, al solo tunnel di base, con costi previsti passati da circa 23 miliardi a 9.

I dati sul traffico merci sono eloquenti: la linea esistente, recentemente rimodernata, ha una capacità ufficiale di 20 milioni di tonnellate annue. Attualmente ne passano 4 e il traffico complessivo (autostrada compresa) è in declino da prima della crisi.

Del progetto è stata fatta un’analisi costi-benefici da parte dei promotori a posteriori rispetto alla decisione politica di realizzarlo (e con queste premesse appare difficile un responso negativo). L’analisi è stata criticata per eccesso di ottimismo da molti studiosi indipendenti, per vistosi errori tecnici e ottimismo delle previsioni di traffico. A tali circostanziate critiche non è mai stata data risposta. Si noti tra l’altro che gli studiosi critici di quell’analisi chiedevano solo che si facessero studi indipendenti e comparativi per decidere priorità di spesa, non per dire dei “sì” o dei “no”, e ciò secondo le migliori prassi internazionali. Neppure a questa istanza è stata data risposta.

Per quanto riguarda gli aspetti finanziari del progetto, cioè il rapporto costi pubblici-ricavi, cruciale in una fase di scarsità di risorse pubbliche, non esiste alcuno studio, se non uno che calcola questi risultati solo in base ai costi e ai ricavi di esercizio, senza includervi i costi di investimento(!). Lo studio dell’opera non è nemmeno giunto al livello di progetto esecutivo, per cui l’incertezza dei costi rimane elevata anche a livello di preventivo. E il contributo finanziario europeo appare “auspicato”, ma tutt’altro che certo.

La corte dei conti francese ha espresso una valutazione fortemente negativa sul progetto, rinforzata recentemente da perplessità molto più generali su tutta la politica ferroviaria del Paese. La revisione delle priorità effettuata per le grandi opere francesi (pur dopo l’esclusione da tale revisione di questo progetto, in quanto “internazionale”), ha valutato come non prioritaria la prosecuzione della linea dal tunnel a Lione, “per insufficienza di traffico” (questa tratta, avendo anche il traffico locale, sarà comunque più trafficata del solo tunnel di base).

Ora, le proteste ambientaliste o pseudo tali, sono spesso opportunistiche, fatte al fine di ottenere compensazioni delle più inverosimili (si veda il caso di Firenze e di Bologna). Nel caso del Tav Torino-Lione tuttavia appaiono nel complesso motivate ed informate.

Ma il ricorso alla violenza in tali proteste appare del tutto funzionale agli interessi dei promotori dell’opera (“cui prodest?” non è una domanda peregrina, a volte). Infatti giustamente “lo Stato non può cedere alla violenza…” e questa violenza, secondo chi scrive, potrebbe effettivamente prendere una deriva terroristica. Certo che la mamma dei cretini è sempre incinta, ma forse alcuni di questi non sono tanto cretini, anche se a pensar male si va all’inferno.
Postilla

Veramente "a pensar male "si fa peccato", quindi non si va necessariamente all'inferno. Ciò che è rilevante è che, secondo il fortunato aforisma di Giulio Andreotti, "a pensar male spesso ci si azzecca"

Prosegue dopo un decennio la battaglia contro una scelta sbagliata e costosa, per una ragionevole e meno dispendiosa. A pensar male la pervicace volontà autostradale ha proprio nel risparmio la sua ragione. Proposta delle associazioni ambientaliste, link al testo integrale

Il documento unitario “La Strada Statale Aurelia sicura subito - contro l’Autostrada della Maremma: progetti privati e costi pubblici” è stato presentato e discusso durante l’incontro pubblico svoltosi a Capalbio il 15 novembre scorso e promosso da Associazione Bianchi Bandinelli, Comitato per la Bellezza, FAI, Legambiente, Rete dei Comitati per la Difesa del Territorio, WWF Italia.Il documento è stato inviato alla Regione Toscana, alla Provincia di Grosseto e ai Comuni interessati dal tracciato, con proposta di un incontro per un confronto nel merito.
I relatori sui vari temi: Edoardo Zanchini, Maria Rosa Vittadini, Valentino Podestà, Anna Donati. Stefano Lenzi, cui hanno fatto seguito interventi di Luigi Bellumori, Sindaco di Capalbio, Angelo Gentili, Legambiente Grosseto, Luciano Piccolotti, Consigliere M5S Capalbio, Gianni Mattioli, Presidenza Nazionale SEL, e Nicola Caracciolo, Presidente onorario di Italia Nostra Toscana, che ha aderito a nome dell’associazione.

Il documento affronta la storia dei progetti per il corridoio stradale tirrenico, le osservazioni presentate dalle Associazioni Ambientaliste al progetto definitivo del 2011 e i problemi non risolti, la fragilità del piano economico-finanziario, la riapertura della procedura di infrazione in sede di Unione Europea, i problemi irrisolti di intermodalità, le proposte di adeguamento e messa in sicurezza della SS.Aurelia.

Le proposte si possono così sintetizzare:

Ø Destinare i 270 Milioni che il Governo sembrava disposto a fornire a SAT o più in generale le risorse pubbliche disponibili, alle più urgenti opere di adeguamento e messa in sicurezza della Strada Statale Aurelia, iniziando necessariamente dai tratti ancora a due corsie ed eliminando i più pericolosi incroci a raso e immissioni dirette.

Ø per quanto riguarda i tratti già in esercizio e quelli in fase di realizzazione esonerare il pedaggio per il traffico locale di ambito provinciale che potrà così restare sull’Aurelia potenziata e sicura. Si riduce così drasticamente il potenziamento della viabilità alternativa e si riducono i costi ambientali ed economici del progetto.

Ø eliminare il sistema di esazione con barriere e sistemi chiusi utilizzando solo le innovazioni tecnologiche come il multilane free flow, con l’obiettivo di far pagare chi attraversa la Maremma (TIR e traffico veicoli) ed escludendo tutto il traffico locale, sia dei residenti, delle imprese e del trasporto pubblico, dal pedaggio. Gli attuali sistemi tecnologici di riconoscimento, selezione e pagamento automatico consentono sistemi flessibili e selezionati di gestione.

Ø Gli incassi dei pedaggi di attraversamento della Maremma devono essere reimpiegati per la messa in sicurezza ed adeguamento dell’Aurelia, con priorità alle tratte ancora a due corsie ed agli attraversamenti a raso più pericolosi.

Ø ritornare al progetto Anas di adeguamento della Strada Statale Aurelia implica anche rivedere con l’adozione di una norma la concessione a SAT, escludendo dall'affidamento di questa tratta la concessionaria.

Valentino Podestà, Rete dei Comitati per la Difesa del Territorio

qui il link al testo integrale

Si profila una sperimentazione pratica di alcune idee abbastanza diffuse in Europa, ma osteggiate qui in Italia dai paladini della circolazione segregata delle opere dedicate e dei quartieri recintati. Corriere della Sera nazionale e la Repubblica Milano, 8 novembre 2014

Corriere della Sera

SENZAMARCIAPIEDI, SEMAFORI, SEGNALETICA.
L’IDEA DI UNA CITTÀ CON STRADE CONDIVISE

di Anna Tagliacarne

Strade senza segnaletica, senza semafori, senza marciapiedi, senza una «grammatica» che separi gli spazi per pedoni da quelli per ciclisti o automobilisti. Strade dove l’unica regola è la precedenza a destra e l’eliminazione dei divieti diventa sinonimo di sicurezza stradale, di qualità ambientale. Il rispetto nei confronti del prossimo nasce dalla condivisione, non dalla separazione. E dai limiti di velocità, 30 chilometri orari, non di più. È questa, in sintesi la filosofia degli «shared space», spazi condivisi da chi cammina, chi pedala e chi sta al volante, nati in Olanda e applicati anche in Germania sul modello proposto dall’ingegnere del traffico Hans Monderman, che ha concepito la mobilità responsabilizzando chi guida e chi cammina.

Ed è questo il progetto che un team di architetti guidati dallo studio Piuarch hanno realizzato, con il logo Farespazio ( http://farespazio.tumblr.com) per ripensare una grande area di Milano, quella compresa tra il Castello Sforzesco, Largo Cairoli, Foro Buonaparte, includendo anche Piazza Cadorna, la Triennale, il Piccolo Teatro Studio: teatri, musei, spazi verdi, negozi, stazioni sarebbero all’interno di una macro-area dove le auto circolerebbero a velocità ridotta al fianco delle biciclette e dei pedoni, che avrebbero a disposizione ampi spazi attrezzati dove sedere, sostare, fare sport oltre alle indicazioni sui luoghi da visitare. L’occasione è stata la pedonalizzazione di piazza Castello, la successiva installazione di bancarelle che hanno suscitato polemiche da parte dei milanesi e l’onerosa costruzione di una pista ciclabile con cordoli ai margini: in tutta Europa questo modello è superato da anni.

Il Comune, alla ricerca di un nuovo consenso, ha avviato un concorso di architettura partecipata: gli undici progetti sono esposti da ieri fino all’8 dicembre alla Triennale alla mostra Atelier Castello. Il progetto del team Fare spazio è il solo che prevede la reintroduzione delle auto nell’area da poco pedonalizzata. Non perché gli altri architetti siano favorevoli alla pedonalizzazione, ma perché il team è andato oltre le richieste comunali.

«Le proposte dovevano essere temporanee, ma reversibili in permanenti nel caso fossero rispondenti alle esigenze dell’area dopo l’Expo. A noi, invece, piaceva avere una visione a lungo termine, e abbiamo pensato alla città che vorremmo vivere ogni giorno, con una grande area dove il Castello Sforzesco torni a essere centrale, con i suoi musei che contengono capolavori come la Pietà Rondanini di Michelangelo e i fossati che sarebbero trasformati in aree attrezzate per lo sport, per sostare. Immaginando questa parte di Milano, abbiamo necessariamente pensato a Exhibition Road che a Londra va da South Kensington ad Hyde Park», spiega Francesco Fresa, uno dei quattro soci dello studio Piuarch, fondato con Germán Fuenmayor, Gino Garbellini e Monica Tricario. La via londinese include attrazioni che vanno dal Victoria and Albert Museum al Natural History Museum, dal Science Museum al Royal Albert Hall: ha milioni di visitatori. «L’obiettivo era integrare veicoli e pedoni, l’abbiamo ottenuto riducendo la velocità e di conseguenze il volume del traffico: si è creato così un ambiente molto piacevole», spiegano i due architetti che hanno seguito il progetto, Jeremy Dixon e Edward Jones.

A Milano succederebbe qualcosa di simile: la piazza che connette il Castello con Largo Cairoli sarebbe liberata dalle barriere architettoniche che la rendono frammentata, la circolazione automobilistica tornerebbe in Piazza Castello ma pensata in modo innovativo. Non è un’utopia, in altre città già succede. «Exhibition Road non è esattamente uno shared space perché è presente segnaletica verticale, come paletti e dissuasori che delimitano gli spazi riservati ai pedoni e quelli previsti per le auto — commenta Federico Parolotto, socio dello studio Mobility in Chain, architetto esperto in pianificazione trasporti —. Hans Monderman faceva un esperimento per dimostrare quanto gli shared space siano sicuri: chiudeva gli occhi e camminava all’indietro». È dimostrato, da uno studio dello stesso Monderman che, mentre i segnali proliferano, nessuno presta attenzione agli stessi: conta di più ridurre la velocità. «È molto intelligente l’idea di grandi zone con circolazione a velocità limitata — conclude l’urbanista Marco Romano —. I casi di shared space realizzati, dimostrano che il primo effetto di questi spazi è ridurre il numero e la gravità degli incidenti stradali. Certo, nelle zone dove esiste già il limite dei 30 chilometri orari, l’automobilista che suona il clacson c’è sempre, ma è un fenomeno che ha a che fare con le nevrosi. Sta comunque cambiando la testa di chi guida: in auto siamo ormai abituati a pensare anche come ciclisti che pedalano contromano, perché tutti siamo anche ciclisti e pedoni. Per questo è inutile dividere e delimitare le aree».

la Repubblica Milano

CASTELLO,CORRETTIVI ANTI-CODE PER L’ISOLA PEDONALE

di Laura Asnaghi

A più di sei mesi dalla pedonalizzazione di piazza Castello, il Comune fa i conti con la lista di lamentele presentata dai residenti. Ieri la verifica sul campo, dalle 9 alle 10.30, nell’orario di punta, quando il traffico, da Cadorna a Cairoli, va in tilt e le auto, insieme a bus, pullman e taxi restano imbottigliate, creando pesanti ingorghi. Il traffico, insieme alla sicurezza notturna dell’isola pedonale del Castello e le linee guida per le manifestazioni che possono essere fatte in quest’area («Se no qui si rischia di diventare un luna park», dicono i residenti) sono stati i temi fondamentali affrontati durante il sopralluogo.

Carlo Monguzzi, il presidente della Commissione ambiente e trasporti, guidava la delegazione del Comune composta da 12 consiglieri. Con loro, Fabio Arrigoni, il presidente del Consiglio di zona 1, accompagnato da 7 consiglieri e 25 cittadini del Comitato Buonaparte-Cairoli. «Le osservazioni dei residenti sono giuste ma si tratta di trovare soluzioni per rendere quest’isola gradevole e utile a tutti», ha commentato Monguzzi, ricordando che, da Cadorna a Cairoli, a paralizzare il traffico «sono gli autobus che sostano per scaricare i passeggeri e bloccano una carreggiata». Sul lato opposto di Foro Buonaparte, oltre via Cusani, a intralciare il traffico sono invece i pullman diretti all’outlet di Serravalle. E poco più in là, all’altezza di via Sella, i residenti segnalano la storia di un semaforo che dura 15 secondi e «per attraversare la strada bisogna essere Speedy Gonzales». Non solo, perché sempre in questo tratto i parcheggi per le auto sono sui marciapiedi «così alti che solo i Suv possono accedervi».

Note dolenti anche sull’isola del Castello, solo in parte digerita dai residenti. Molti infatti sostengono che «era meglio prima, quando le auto potevano circolare e di notte c’era più sicurezza». Ora, con le strade deserte, i residenti sollecitano la vigilanza notturna «perché c’è chi scambia quest’area per un bagno a cielo aperto». Nel mirino dei residenti anche «i cordoli sproporzionati della pista ciclabile. Inutili oltre che dannosi». L’altro tema è quali manifestazioni consentire «evitando di danneggiare una zona storica». E tra gli abitanti c’è già malcontento per le manifestazioni natalizie programmate o concesse dal Comune, come quella di Save the children. La struttura che sarà inaugurata l’11 novembre invadeva, di poco, la pista ciclabile e ieri pomeriggio i vigili sono intervenuti per farla spostare di qualche metro. «I residenti contestano la mancanza di una cabina di regia sul progetto del Castello — spiega Monguzzi — . Ora però Maurizio Baruffi, capo di gabinetto del sindaco, ha preso in mano la situazione e le cose miglioreranno». Tutti i punti critici emersi dal sopralluogo saranno affrontati giovedì prossimo nella seduta della commissione Ambiente e Traffico. «Vanno trovate soluzioni — conclude Monguzzi — da sottoporre agli architetti che sistemeranno temporaneamente quest’area, con una spesa contenuta in 200 mila euro».

«Gli esperti economici di Palazzo Chigi vogliono imporre l'analisi costi-benefici mai fatta. Dimostrerebbe che sono soldi buttati. Lobbisti del cemento in allarme». Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2014 (m.p.r.)



Un tecnicismo è il detonatore e la bomba sta per esplodere sulla scrivania di Matteo Renzi. Ancora una volta - come ai tempi di Prodi - un governo guidato dal centro-sinistra sta per spaccarsi sulle grandi infrastrutture, rilanciate con entusiasmo dal decreto Sblocca Italia. Il tecnicismo è una strana mossa di Rfi, la società Fs che gestisce la rete ferroviaria. Nel nuovo contratto di programma con il ministero delle Infrastrutture ha corretto da 8,4 a 12 miliardi di euro il costo previsto del Tav Torino-Lione, con un’impennata del 40 per cento. In realtà è stata solo applicata al preventivo originario, stilato a prezzi 2012, l’inflazione degli anni occorrenti alla realizzazione, calcolata al tasso pessimista del 3,5 per cento annuo. Tanto che Mario Virano, commissario governativo della Torino-Lione, ha subito minimizzato: il costo previsto per il governo italiano (2,9 miliardi se arriva un cospicuo finanziamento europeo) non aumenterà di un euro.

Ma tant'è, quel numerino scritto da Rfi ha toccato nervi scopertissimi. Stefano Esposito, sostenitore acceso della Torino-Lione – tanto da essere nel mirino di frange violente dei No Tav – considera la correzione verso l’alto un siluro all’opera, tanto da aver ottenuto per l’11 novembre prossimo la convocazione dei vertici di Rfi alla commissione Trasporti del Senato. Il parlamentare piemontese punta a stroncare subito ogni resistenza facendo uscire allo scoperto i frenatori delle grandi opere. Solo che stavolta la lobby del cemento non se la dovrà vedere con localismi e ambientalismi, bensì con un’agguerrita pattuglia di economisti piazzati proprio a palazzo Chigi.

Il Tav Torino-Lione è solo la prima stazione di una via crucis destinata a toccarne numerose, soprattutto ferroviarie, come ilterzo valico Genova-Tortona, il nuovo tunnel del Brennero e l’alta velocità Napoli-Bari, investimenti più celebrati che finanziati nel decreto Sblocca Italia, approvato alla Camera e in attesa del voto del Senato.

Il fatto è che la tesi principale degli oppositori della Torino-Lione – sono soldi buttati – ha sempre convinto anche Renzi. Ancora un anno e mezzo fa diceva: «Prima lo Stato uscirà dalla logica ciclopica delle grandi infrastrutture e si concentrerà sulla manutenzione delle scuole e delle strade, più facile sarà per noi riavvicinare i cittadini alle istituzioni. E anche, en passant, creare posti di lavoro più stabili» . Sulla Torino-Lione la bocciatura era quasi sprezzante: «Non credo a quei movimenti di protesta che considerano dannose iniziative come la Torino-Lione. Per me è quasi peggio : non sono dannose, sono inutili. Sono soldi impiegati male».

Poi la politica ha imposto i suoi prezzi e Renzi, conquistando palazzo Chigi, ha confermato Maurizio Lupi al ministero delle Infrastrutture per non perdere l’appoggio parlamentare del Ncd e quello lobbistico del potente e trasversale partito del cemento. Il decreto Sblocca Italia è stato il trionfo di Lupi e dei suoi sostenitori, con grandi opere a strafare e ampi varchi per cementificazioni di ogni tipo.

Adesso però sono proprio i lobbisti del cemento e delle imprese di costruzione a notare con preoccupazione che tra gli esperti economici che Renzi ha portato a palazzo Chigi ci sono autorevoli avversari dello spreco di miliardi in nome delle imprescindibili infrastrutture. Il più insidioso è il bocconiano Roberto Perotti, uno che già sei anni fa pubblicò sul Il Sole 24 Ore rasoiate del seguente tenore: «Che cosa sarebbe più utile per l’immagine del Paese: ripulire i treni utilizzati da milioni di turisti stranieri o fare una galleria di dubbia utilità a costi esorbitanti? (...) Nonostante i loro eccessi, gli ambientalisti hanno ragione: deturpare una vallata per ridurre le emissioni dell’1% al costo di 16 miliardi è un buon investimento per le imprese appaltatrici, ma non per il Paese».

Soldi buttati, dunque, come diceva Renzi finché ha potuto. E come pensa un altro esperto di palazzo Chigi, il deputato Pd ex McKinsey Yoram Gutgeld, che già in tempi non sospetti definiva le nuove linee ad alta velocità “opere faraoniche, miliardarie e inutili”. Per adesso la legge di Stabilità andrà liscia, e vedrà la conferma di tutti i finanziamenti previsti per la Torino-Lione e le altre grandi opere. Ma lo scontro è solo rinviato. Gutgeld e Perotti pensano all’arma totale, a uno scherzetto che per il partito del cemento è come l’aglio per i vampiri: imporre al Cipe - l’opaco comitato interministeriale dove si fanno i giochi per i grandi investimenti, una cosa che in Italia nessuno ha mai fatto, la cosiddetta analisi costi-benefici. Un esercizio che serve agli economisti per sapere se si sta spendendo bene o male. Domande come: serve davvero questa nuova ferrovia? Quanti posti di lavoro crea? È possibile spendere gli stessi soldi in qualcosa che dia risultati più interessanti? Siccome in Italia l’analisi costi-benefici non è mai stata adottata, a domande del genere si è risposto finora con slogan come “è per la competitività” o “ce lo chiede l’Europa”. Ma oggi l’unico argomento politicamente solido per andare avanti con la Torino-Lione è anche il più antipatico: non darla vinta ai No Tav.

Il nodo adesso sta per arrivare al pettine. Già la Corte dei Conti francese ha fatto notare che i miliardi di euro per la nuova ferrovia Torino-Lione sono sostanzialmente soldi buttati. Gli esperti di palazzo Chigi adesso si preparano a dare una spallata nella stessa direzione, scommettendo che nella difficile situazione dei conti pubblici si potrebbero risparmiare o spendere meglio decine di miliardi. Per adesso l’operazione è tenuta sotto traccia. Il momento propizio, superato lo scoglio della Legge di stabilità, potrebbe essere l’inizio del 2015, per evitare un duello con la lobby del cemento in un momento politicamente complicato. Nello scontro frontale tra il partito anti-spreco e quello del cemento guidato da Lupi è proprio Renzi che rischia di trovarsi schiacciato, se non si inventa una delle sue mosse.


«I Comuni auspicano che il gruppo guidato da Elia si occupi anche di trasporto urbano, sperando così di ricevere più fondi. Ma i cittadini alla fine ci rimetterebbero». Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2014

Le ferrovie dello Stato da un po’ di tempo hanno aggiunto a FS una I (“FSI”), dove la I finale sta per l’Italia, per non essere da meno ad Autostrade per l’Italia, e sarebbero disponibili a estendere la loro attività ai trasporti urbani, in particolare quelli di Roma e di Milano. Sono già presenti nel settore: stanno concorrendo per l’azienda torinese e hanno già vinto la gara (a lotto unico) per quella di Firenze. Secondo alcune voci maligne, a Firenze hanno vinto soprattutto perché si è preferita un’azienda italiana politicamente “robusta” a infidi stranieri, quali erano gli altri due concorrenti.

C’è comunque un aspetto positivo nella vicenda fiorentina: per la prima volta in Italia abbiamo una grande città che non solo ha fatto una gara, ma ha rinunciato alla proprietà dell’azienda. Se il Comune di Firenze non sarà contento dei risultati, litigherà con FSI, e non con se stesso come fanno tutti gli altri, proprietari delle aziende urbane. Ma l’eventuale avvento di FSI nel settore presenta molti più aspetti negativi che positivi, e questo certo non per qualche colpa o demerito dell’azienda ferroviaria, ma al contrario perché questa è troppo forte, cioè ha un potere politico ed economico “innegoziabile” (questo potere, nel linguaggio degli economisti, è noto come clout).

Infatti FSI ha caratteristiche peculiari. È un’azienda totalmente pubblica, quindi per definizione gode di forti appoggi politici, riceve moltissimi sussidi dallo Stato (“corrispettivi”, come FSI preferisce chiamarli ), la rete ferroviaria è un monopolio naturale esteso e la gran parte dei servizi passeggeri sono esercitati in condizione di monopolio legale, anche se vi sono state gare per alcuni servizi locali (nessuna di queste è stata vinta da concorrenti). FSI è un’impresa fortemente dominante (circa il 90 per cento del fatturato del settore) e non può fallire, a differenza di ogni altra impresa. Ciascuno dei punti precedenti sarebbe motivo sufficiente per sconsigliare l’ulteriore rafforzamento di FSI, rendendola ancor meno controllabile dal regolatore pubblico (in questo caso dalla neo-costituita Autorità per la Regolazione dei Trasporti). Si tratterebbe di “integrazione verticale di impresa dominante”, e di solito in questo caso si registra un intervento censorio da parte del regolatore pubblico.

Proprio per questo potere la cessione di aziende di trasporto urbano a FSI è auspicata dagli amministratori locali. Cesserebbero di colpo per loro moltissimi problemi economici e gestionali. Illuminante in proposito è l’affermazione (in privato) dell’assessore ai trasporti di una delle città coinvolte: «Come sarebbe bello cedere l’azienda a FSI, quelli i soldi dallo Stato riescono sempre ad averli, e quanti ne vogliono». Una assoluta verità. E ovviamente questo ingresso di FSI renderebbe impossibile fare gare per piccoli lotti, cioè la strategia che in Europa si è rivelata la più efficace per razionalizzare i servizi. Ma la perla finale di questa vicenda è verbale, e scaturisce dalla dichiarazione di interesse di FSI per l’ingrasso nelle aziende di Roma e Milano: si tratterebbe, secondo l’amministratore delegato di FSI di Michele Elia, di una “privatizzazione”, anche se FSI è al cento per cento di proprietà pubblica.

Tutte le ferrovie europee aborrono l’uso dei termini “monopolio”, “sussidio”, “dominante”, “pubblico”. Amano raffigurare se stesse, e spesso riescono a farsi raffigurare dai media, come aziende private che operano nel mercato. Poi però, nei rari casi in cui emergono pubblicamente gli elevatissimi costi che generano alle casse pubbliche, ribadiscono la loro vocazione sociale, e il fatto che operano soprattutto per il benessere della collettività troppo umano. Al management ferroviario non tocca certo rinunciare a parte del proprio potere. Tocca allo Stato costringerlo a farlo, per difendere utenti e contribuenti.

Ma sembra esserci una lodevole eccezione al quadro sopra descritto: il presidente di FSI, il professor Marcello Messori aveva una importate delega di cui si stava occupando: quella sulle modalità di privatizzazione parziale del colosso pubblico. Due scuole di pensiero si fronteggiano: una è quella di fare entrare investitori privati con la cessione di quote azionarie, operazione che garantirebbe la forza contrattuale e politica del gruppo FSI. L’altra visione è opposta: cedere quei rami d’azienda che non ha più senso siano in mano pubblica (l’Alta Velocità, i servizi merci, alcuni asset della rete). In questo modo il potere politico-monopolistico di FSI diminuirebbe, con benefici per gli utenti e le casse pubbliche. Domenica Messori ha annunciato di aver rimesso tutte le deleghe, escluse quelle, in gran parte formali, di “controllo”, con motivazioni che sembrano attinenti proprio a divergenze sulle modalità di privatizzazione. Conoscendone il pensiero e il rigore, vi sono pochi dubbi di quale modello dei due sopra descritti fosse sostenitore. La coerenza con le proprie convinzioni nella sfera del top-management pubblico è cosa davvero rara in Italia. C’è da sperare che la politica, per una volta ne prenda atto, e ne tragga le conseguenze.

Il caso di un'anziana morta per un incidente stradale, battendo la testa urtata da un ciclista, scatena il partito degli automobilisti, tutti uniti al ministro Lupi nella richiesta di repressione e/o (improbabili) opere pubbliche. Ma basterebbe così poco. La Repubblica nazionale e Corriere della Sera Milano, 29 ottobre 2014, postilla (f.b.)


la Repubblica
L’ultima battaglia della strada
“Contromano e imprudenti
anche i ciclisti sono un pericolo”
di Luca De Vito


MILANO - Sono croce e delizia del traffico in città. I ciclisti non inquinano, riducono gli ingorghi e obbligano gli automobilisti a rallentare. Ma sempre più spesso sono oggetto di critiche feroci per comportamenti ritenuti poco o per nulla rispettosi delle regole. Il fatto di cronaca più recente è la tragedia che, domenica scorsa, ha visto un ciclista investire una signora di 88 a Milano. La donna ha perso l’equilibrio ed è morta dopo aver battuto la testa. Un caso su cui non sono ancora state chiarite del tutto le responsabilità, ma che ha comunque dato il via alle polemiche. Per primo è stato il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, a rivolgere un appello direttamente a chi si muove in bicicletta: «Troppi ciclisti oggi pensano di passare col rosso, ma così mettono a rischio la propria incolumità e quella degli altri. Lo vedo tutti i giorni: vanno contromano. Ecco, questo è pericoloso».

In effetti, la crescita esponenziale delle due ruote in città — per la prima volta nel 2011 sono state vendute più bici che auto — ha fatto aumentare anche le occasioni di conflitto. E ingrossato le fila del partito anti-bici, che invoca più sanzioni e forme di controllo per chi pedala. Per esempio, c’è chi chiede di rendere i ciclisti sempre identificabili: «Bisogna obbligarli a munirsi di un contrassegno di identificazione visibile a distanza — ha spiegato Achille Colombo Clerici, presidente di Assoedilizia — perché ogni mezzo di trasporto deve essere munito di targa quando circola ». Spesso nel mirino finiscono alcuni comportamenti - pedalare sui marciapiedi, passare con il rosso, andare contromano -, e non mancano le polemiche contro le piste ciclabili: da Napoli a Treviso, comitati di residenti e ne- gozianti raccolgono firme per chiedere che non ne siano più costruite. Sempre a Milano, un’insolita alleanza tra tassisti e tranvieri ha chiesto di aumentare i controlli contro i ciclisti che entrano nelle corsie preferenziali per bus e taxi: «Sono un pericolo prima di tutto per se stessi — ha sottolineato Pietro Gagliardi, dell’Unione Artigiani Taxi — dovrebbero essere estromessi dalle corsie preferenziali che sono a scorrimento veloce».

Le critiche arrivano anche dalla rete, dove sempre più spesso blogger e gruppi sui social network si lasciano andare a commenti che scadono nella violenza verbale. Nelle settimane scorse, è saltato fuori il caso del gruppo Facebook che istigava a «investire i ciclisti che non usano la pista ciclabile». La pagina è stata chiusa dopo le polemiche, quando aveva già raggiunto oltre tremila like. Violenza, e non solo verbale, si è vista invece a Catania, dove a metà ottobre un ciclista è stato aggredito da alcuni gestori di camionbar sul lungomare cittadino con calci e pugni, durante la domenica senz’auto voluta dal sindaco Enzo Bianco. Motivo? Attriti tra i ciclisti e una manifestazione di commercianti contrari all’iniziativa pro-bici.

Contro la rabbia e l’emotività scatenati da un incidente come quello di Milano, c’è però anche chi richiama alla calma. E a ragionare con statistiche (reali) alla mano: «Quello di Pisapia è un appello giusto e legittimo — spiega Alberto Fiorillo, promotore della campagna #Salvaiciclisti, nata sul web dall’iniziativa di blogger e associazioni per aumentare la sicurezza dei ciclisti sulle strade italiane — ma mi piacerebbe che i sindaci delle grandi città e i presidenti delle regioni facessero dieci appelli analoghi ogni volta che sulle strade muoiono ciclisti e pedoni a causa di incidenti con le auto. Quello è un bilancio drammatico: ogni anno sulle nostre strade registriamo 4mila morti».

Corriere della Sera ed. Milano
Più rispetto sulle strade
di Isabella Bossi Fedrigotti

Pur essendosi probabilmente trattato di una tragica fatalità — perché quanto in fretta può andare una bicicletta? — ha comunque fatto molta impressione il primo incidente mortale, a danno di un’anziana signora in piene strisce pedonali, provocato in città da un giovane ciclista che, come hanno scritto i giornali, avanzava con grande velocità. E lasciando perdere i paradossali messaggi di soddisfazione, se non quasi di esultanza, apparsi in rete a firma di automobilisti che notoriamente detestano più di tutti gli utenti delle due ruote, paghi di poter una volta dare loro addosso a ragione veduta, è comunque davvero tempo di richiamare questi ultimi alle regole della strada.

È vero che nessuno le rispetta, non gli automobilisti, non i motociclisti, non i ciclisti e nemmeno i pedoni, tuttavia sarebbe saggio che almeno le due categorie più deboli, quelle che lasciano il maggior numero di vittime in strada, le osservassero in vista, se non altro, della loro sopravvivenza. La rieducazione sotto la minaccia concreta di un pericolo dovrebbe, tra l’altro, essere meglio accetta di quella imposta dal puro obbligo di osservare il codice. In questo senso il semaforo vale per tutti allo stesso modo, ma se lo «brucia» un pedone o un ciclista nella maggioranza dei casi rischia molto di più di un automobilista che compie la medesima infrazione.

E attraversare una carreggiata — a piedi — fuori dalle strisce, così come viene, fidando nella ragionevolezza dei padroni della strada, è probabilmente pericoloso come girare —
in bicicletta — senza luci alla sera oppure infilare vie in contromano o peggio percorrere le corsie preferenziali in avventurosa, rischiosa convivenza con taxi e autobus. Tuttavia, anche questo tipo di rieducazione — in un certo senso «opportunistica» — non può che passare, almeno inizialmente, dal controllo; controllo — purtroppo soltanto eventuale — che per certo farebbe dire ai controllati, pedoni e ciclisti, in tono niente affatto conciliante: cari vigili, gentili poliziotti, non avete niente di meglio da fare? Non guardate come si comportano quegli automobilisti, come corrono, come parcheggiano dove loro pare?

E quelle moto, quei motorini che salgono sui marciapiedi non li vedete? Proprio a noi dovete dare le multe? Eppure, visto che la disciplina non sembra ormai più fare parte del nostro dna, soltanto sanzionando — sia pure in maniera ovviamente più morbida — anche le categorie più deboli del traffico si potrà assicurare loro maggior sicurezza.

postilla

L'idea di città porosa, concetto vagamente evocato in uno degli ultimi progetti di Bernardo Secchi, per Parigi, oltre alla componente strettamente fisica comprende anche quella indispensabile dei flussi, ovvero dei comportamenti di tutto ciò che quella porosità, reale o virtuale, sfrutta. Ed è proprio questa duplicità a non essere a quanto pare colta (forse per crassa ignoranza, forse per interessi lobbistici, forse per un miscuglio di entrambe le cose) da chi continua a ragionare di mobilità urbana a soli colpi di trasformazioni fisiche, e pure assai tradizionali: corsie riservate, segregazione modale, grandi percorsi lineari. Saltando a piè pari, nel proprio automatismo ottuso, incollato a certe desuete convinzioni novecentesche, il fatto che quando i comportamenti dei flussi puntualmente contraddicono certe organizzazioni spaziali, di sicuro qualcosa che non va c'è, e di solito sta nel metodo più che nel merito. Scendendo parecchio di quota rispetto a queste considerazioni generali, nella pratica quotidiana, si può osservare che: con le regole attuali, anche prendendo per buona la logica segregazionista modale, per provare a risolvere qualcosa occorrerebbero tempi e risorse non disponibili. Ergo, è molto, ma molto, più conveniente cambiare regole, ed effettuare anche sulla base di queste nuove regole le piccole trasformazioni fisiche in grado di amplificarne l'effetto: eliminazione di barriere alla porosità (dislivelli, sbarramenti, passaggi, sensi di marcia), realizzazione di minimi requisiti di sicurezza per tutti gli utenti, a partire da una adeguata segnaletica. Sono cose che si possono anche fare a livello locale, ma subito. Altrimenti, all'italiana, si continuerà ad arrangiarsi, male, provando ogni volta a scordarsi la “fatalità”, o parlando di crisi urbane come di questioni filosofiche (f.b.)

Qualche considerazione in più e "in positivo" su la Città Conquistatrice: Mobilità cittadina, il problema non è un altro

«Gestire un’autostrada è attività molto semplice e senza rischi imprenditoriali. Tutti gli interventi sono stati finanziati a debito e i debiti ripagati con i pedaggi. Eppure, attraverso le proroghe si perpetuano le rendite per le società concessionarie. Investimenti pagati due volte dai cittadini». La voce info, 24 ottobre 2014

I “REGALI” AI CONCESSIONARI

Lo Stato francese, dopo aver incassato 15 miliardi nel 2005 dalla privatizzazione delle principali concessioni autostradali, si accorge oggi di aver fatto un pessimo affare, tanto che il sottosegretario al bilancio Christian Eckert ha dichiarato che gli altissimi profitti delle concessionarie sono “immorali se non illegali”.

In Italia ci si appresta invece a fare enormi “regali” alle concessionarie, senza introiti per lo Stato, occultando questi benefici sotto la veste di proroghe, previste dall’articolo 5 del decreto sblocca Italia. C’è scarsa opposizione nell’opinione pubblica (o nel parlamento) perché pochi si rendono conto di quanto valga per una concessionaria la proroga della concessione.

Possiamo fare una stima proiettando la differenza tra ricavi e costi operativi (Mol, milioni) realizzati nel 2013 per gli anni di proroga che il Governo sembra intenzionato a concedere:

INVESTIMENTI PAGATI DUE VOLTE

I pedaggi continueranno poi a crescere nel tempo oltre i livelli del 2013 per l’inflazione e altri fattori e con essi continuerà a crescere anche il Mol; quindi le stime di cui sopra possono considerarsi una buona approssimazione del valore attuale dei maggiori flussi di cassa ottenuti grazie alle proroghe.

È una cifra imponente, circa 16 miliardi, quasi la metà della manovra annunciata da Matteo Renzi. Solo una piccola parte di questi flussi di cassa serviranno a coprire i costi degli investimenti già effettuati e non ancora ammortizzati. Per il resto, il beneficio della proroga viene giustificato dal Governo come compenso per i nuovi investimenti, circa 11 miliardi, che le concessionarie si sarebbe impegnate a fare. Pare però che il beneficio delle proroghe superi di gran lunga il costo dei nuovi investimenti, tanto più che, poi, quando si realizzano, i pedaggi vengono aumentati per coprirne i costi: finiamo per pagare due volte il costo degli investimenti, prima con le proroghe e poi con gli incrementi di pedaggio?

Alle concessionarie viene assicurato un rendimento molto elevato, 9-10 per cento (almeno), sul capitale investito, ma qual è il loro ruolo e quale il loro contributo che giustifichi tale redditività? Gestire un’autostrada è attività molto semplice: non occorre cercarsi clienti né temere concorrenza o innovazioni tecnologiche. Non ci sono rischi: nemmeno il forte calo di traffico degli ultimi anni ha ridotto i loro profitti. Gli azionisti non hanno poi mai versato in passato capitali nelle società concessionarie se non per importi irrisori, né prevedono di versarne in futuro. Tutto è stato finanziato a debito e i debiti ripagati con i pedaggi. Anche i nuovi investimenti di cui si parla verranno interamente finanziati dalle concessionarie con i margini man mano accumulati o con crediti ottenuti grazie ai flussi sicuri dei pedaggi e alla certezza che le tariffe verranno comunque adeguate per garantire il livello dei profitti pattuito. Non pare quindi che le concessionarie svolgano un ruolo che giustifichi la perpetuazione di rendite a loro favore.

Lo Stato potrebbe, alla scadenza delle concessioni, affidarle senza gara a una società pubblica emanazione dell’Anas o di Cdp reti, senza dover remunerare così generosamente alcune società private e assicurando altri benefici per la collettività, come gare per le costruzioni aperte senza preferenze per le controllate delle concessionarie. Si dice che ciò sarebbe oneroso per i prezzi di subentro da versare alle concessionarie a fine concessione per investimenti effettuati e non ancora ammortizzati. Ma a fronte di questi costi le concessionarie hanno debiti che potrebbero semplicemente passare a carico della società pubblica, che sarebbe in grado di rimborsarli con i proventi dei pedaggi, esattamente come fanno le concessionarie. Con l’unbundling la società pubblica potrebbe subappaltare con gare i vari servizi (esazione, manutenzione) alle società più efficienti, magari alle stesse ex concessionarie, senza dar vita a nuovi carrozzoni di Stato. Anche l’Autostrada del Sole fu costruita tutta a debito creando un patrimonio pubblico poi monetizzato dall’Iri.

Se venissero concesse le proroghe previste (ancora subordinate all’approvazione da parte della Commissione europea) tutta la rete autostradale italiana verrebbe “ingessata” con concessioni non più alterabili per trenta-quaranta anni e finiremmo ben presto di rammaricarcene, come avviene oggi in Francia, ma senza poter nulla cambiare se non violando i contratti con misure retroattive. Come succede oggi dopo l’altra follia dei sussidi alle energie rinnovabili.

CHI DECIDE LE PRIORITÀ?

C’è poi il problema delle scelte di priorità degli investimenti, che sembrano decisi più dalle concessionarie che li propongono che dal potere pubblico. Un buon esempio è la E45, 400 chilometri da Orte a Mestre, una delle poche arterie con due corsie per parte e senza pedaggio. Ampliare le carreggiate e costruire una corsia d’emergenza con un costo di circa 10 miliardi non parrebbe un progetto prioritario per il paese, considerando che oggi la strada è ampiamente sufficiente per il traffico (vi sono ingorghi solo per lavori di manutenzione). Ma c’è una società di progetto che preme da anni per trasformarla in autostrada – cioè per fare quegli investimenti che giustificherebbero l’introduzione del pedaggio e quindi la trasformazione di un’arteria stradale in un nuovo, profittevole (sperano) “affare”. E il Governo sembra intenzionato ad agevolarli, avendo previsto, all’articolo 4 del decreto sblocca Italia, la possibilità di concedere la defiscalizzazione con un beneficio di circa 2 miliardi per la società di progetto della Orte-Mestre.

Prima di impegnare risorse pubbliche in quello che pare un altro investimento a redditività sociale scarsa o negativa meriterebbe che fosse resa pubblica una convincente analisi costi-benefici e che si effettuasse anche un sondaggio tra gli attuali utenti dell’arteria per chiedere loro se preferirebbero viaggiare su carreggiate un po’ più ampie con corsia di emergenza, ma pagando un elevato pedaggio oppure mantenere la situazione attuale. Gli investimenti dovrebbero essere intesi ad accrescere i benefici per gli utenti o i profitti degli investitori?

«La città dei Sassi è l’unico capoluogo tagliato fuori dalla rete Fs Dal 1986, data di inizio dei lavori, si sono sprecati 270 milioni. Un progetto nato male e finito peggio». La Repubblica, 21 ottobre 2014 (m.p.r.)

Matera. Per le Ferrovie dello Stato Matera non esiste. Cancellata. Il nome della futura capitale europea della cultura non appare in nessun tabellone delle partenze. Non viene mai pronunciato dalla voce metallica degli speaker nelle stazioni. Inutile pure cercarlo tra le destinazioni sul sito di Trenitalia dove si comprano i biglietti online: “Nessuna soluzione trovata”. La città dei Sassi, il patrimonio dell’umanità riconosciuto dall’Unesco, è l’unico capoluogo d’Italia tagliato fuori dalla rete ferroviaria nazionale. Benvenuti a Matera, dove il binario che non c’è porta alla stazione mai aperta. Questa che da altre parti suonerebbe come un paradosso, una frase ad effetto, qui è la realtà.

Perché uno scalo targato Fs, Matera, ce l’ha. Basta scendere in località “la Martella”, a pochi minuti dal centro, per goderselo in tutta la sua incompletezza. Centinaia e centinaia di metri quadrati di piazzale, l’ipotetico parcheggio, nel mezzo del quale si erge la stazione rivestita in pietra: le porte sono murate, le pensiline cadono a pezzi, nei due solchi per i binari crescono sterpaglie alte due metri. Abbandonata e in rovina. Presenza ormai accettata dai 60mila materani, che tra cinque anni vedranno arrivare, quasi tutti in macchina o in pullman, almeno 5 milioni di turisti.
Già così, fa male. E però dallo scalo mai aperto si allunga una lingua di cemento di 29 chilometri, che passa davanti alla Cripta del Peccato Originale sfregiandone la bellezza, attraversa colline su ponti con pilastri di trenta metri e campate di acciaio, taglia tutta la valle del Basento con una cicatrice di calcestruzzo, si infila in una galleria lunga 11 chilometri sotto il bosco della Manferrana fino a sbucare a Ferrandina. Un vilipendio alla Basilicata che rimarrà tale, perché dal 1986, data di inizio lavori, le Fs non sono state in grado di completare l’opera con rotaie e cavi elettrificati. Dunque la linea che doveva collegare Matera e creare un corridoio fino a Napoli, è rimasta incompiuta.
«Un progetto nato male e finito peggio», sostiene Pio Acito, architetto di Legambiente, che ha seguito la storia maldestra della Ferrandina- Matera fin dalla sua genesi. «Già allora pareva inutile, perché poco fruibile. Sarebbe stato meglio seguire un percorso diverso, collegare Metaponto sullo Ionio allo snodo di Foggia, passando per Matera». I lavori sono andati avanti a passo di lumaca: le aziende ingaggiate fallivano una dopo l’altra, per colpa degli eccessivi ribassi nelle gare d’appalto. La costruzione della galleria Miglionico, scavata nel terreno argilloso e resa fragile da gas sotterranei, fu un disastro e comportò un incremento di spesa di decine di miliardi di lire e il giorno del varo del ponte di ferro sul fiume Bradano la struttura si piegò. «Costò alle casse pubbliche 115 miliardi di vecchie lire», ricorda Acito. Secondo altri calcoli, la spesa complessiva della Ferrandina- Matera ammonta a 530 miliardi di lire (270 milioni di euro).
Nel 2007 la ferrovia morta sembrò risorgere, ma fu un fuoco di paglia. La regione Basilicata e il ministero delle Infrastrutture conclusero un accordo per completarla, «entro il 31 dicembre 2008» con i fondi delle aree sottosviluppate. Non si è mossa una ruspa. Ormai era evidente a tutti che fosse un affare in perdita. Le Fs hanno recentemente dichiarato che per completare l’opera servirebbero altri 150 milioni di euro, che non hanno. Aggiungendo una frase che sa di epitaffio: «Per questo progetto al momento tutti i lavori sono sospesi ».
Matera non avrà i convogli di Trenitalia entro il 2019, quando vestirà i panni della capitale europea della cultura. Forse non li avrà mai. «Non ci interessa nemmeno più quel rudere di stazione — sbotta Nino Paternoster del comitato Matera2019 — abbiamo in programma 600 milioni di euro di investimenti in infrastrutture, raddoppieremo le corsie della strada che porta a Bari, allargheremo le due statali che vanno a Gioia del Colle e Ferrandina. Le navette con l’aeroporto Bari Palese al momento sono tre, ma le faremo diventare quindici, copriranno la distanza in 50 minuti. E poi i treni, Matera, ce li ha già».
È vero. Sono i vecchi Fiat diesel a due e quattro vagoni delle Fal, le Ferrovie Appulo Lucane (di proprietà del ministero dei Trasporti) che arrancano fino al capoluogo, tra olivi e mandorli, su un binario a scartamento ridotto, uno dei pochi che non è stato smantellato dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fu inaugurato nel 1915. Difficile immaginare che la gran massa di turisti arriverà a bordo di quei trenini, se non cambieranno le cose. Attualmente ce ne sono solo 13 che, nell’arco della giornata, servono Bari e Matera. Ci mettono un’ora e 40 per fare una settantina di chilometri, fanno 15 fermate, nelle ore di punta molti passeggeri devono stare seduti a terra o in piedi nel corridoio. E c’è da sperare pure di trovarsi nella parte giusta del convoglio, perché ad Altamura il trenino si divide in due, la testa va a Matera, la coda a Gravina. Alle biglietterie è vietato pagare con carte di credito e bancomat: accettano solo i contanti (9,80 euro andata e ritorno).
«È la ferrovia calabro- lumaca — scherza Giuseppe Appella, creatore e direttore del Musma, il museo della scultura contemporanea — abbiamo un problema di accessibilità, è vero. Ma mancano ancora cinque anni, e non è il caso di lamentarsi per la stazione delle Fs mai aperta. Le Fal, ad esempio, possono diventare una sorta di “metropolitana” molto efficiente, se aumenteranno le corse». Intanto però non fanno servizio su rotaia di domenica e nei festivi. Suppliscono con i pullman. Quello da Potenza delle 14.24, per dire, ci mette 3 ore e 55 per arrivare a Matera e prevede 4 cambi. Insomma, la capitale europea è fatta, il problema ora è portarci l’Europa.

«Ferrovie e autostrade sono monopoli naturali regolati. Con molte similitudini. A partire dal fatto che manca la volontà di intaccarne il potere. Permettendo così a Fsi di bloccare qualsiasi apertura alla concorrenza o riduzione dei sussidi pubblici». Lavoce.info, 17 ottobre 2014

Le vite parallele di ferrovie e autostrade


Appare evidente che i concessionari autostradali costituiscano “poteri forti”, soprattutto dopo il decreto “sblocca Italia”, che di fatto elimina ogni possibilità di avere competizione in un settore che ha già visto vistosi fenomeni di rendita nel passato (vedi gli interventi su lavoce.info di Giorgio Ragazzi e di Tito Boeri su La Repubblica). Ma qui cercheremo di dimostrare che le Ferrovie dello Stato (Fsi) non sono da meno. Entrambi i gruppi sono monopoli naturali regolati (solo l’infrastruttura, nel caso ferroviario), di grandi dimensioni, con fatturati rilevantissimi, dell’ordine dei 5 miliardi annui per le autostrade e di 8 per Fsi. Generano forti interessi esterni tramite forniture e appalti, anch’essi miliardari, interessi che ovviamente contribuiscono a generare una straordinaria capacità di pressione politico-economica (“clout”, in termini regolatori).
Fin qui le similitudini. Le differenze forse sono a favore di Fsi. Infatti, mentre l’occupazione diretta nel settore autostradale è limitata a poche migliaia di unità, e frazionata tra i diversi concessionari, per Fsi si tratta di 80mila lavoratori di una stessa azienda, per di più interamente pubblica, quindi con straordinarie capacità di influire sul consenso elettorale. E qui il fatto che Fsi costi alla Stato 8 miliardi annui in media (12 miliardi calcolando anche il fondo pensioni straordinario di cui gode l’azienda), paradossalmente ne aumenta il “clout”: mentre la redditività delle autostrade garantisce sia l’occupazione che i livelli retributivi, per Fsi questi dipendono strettamente dalla sfera politica.
La durata delle concessioni vede in vantaggio Fsi: 60 anni per l’infrastruttura, una durata di fatto eterna, mentre le concessioni autostradali hanno scadenze lunghe, ma finite. Inoltre, Fsi è anche monopolista nei servizi passeggeri che eroga (si tratta di monopoli legali) sulle linee non di alta velocità. E lo è di fatto nei servizi regionali, avendo sempre vinto le poche gare bandite per l’affidamento, gare il cui bando non era certo favorevole a “new entrants”, a volte per esplicita scelta politica.

Un'impresa troppo grande

Vediamo ora alcune caratteristiche tecniche che per entrambe le realtà rafforzano il ruolo tutto politico della loro natura di “grandi monopolisti” (per il settore autostradale ci si riferisce all’impresa di gran lunga dominante, Autostrade per l’Italia, che detiene circa il 60 per cento della rete a pedaggio, ma percentuali ancora maggiori in termini di traffico). La teoria regolatoria, ma anche il buon senso, insegna che occorrerebbe, per le imprese regolate, che il regolatore determini “dimensioni minime efficienti”. Cosa significa? Che il regolatore deve soppesare le economie di scala possibili (l’efficienza produttiva delle imprese) con dimensioni tali da non rendere eccessivo il peso politico-economico dei soggetti regolati, che vanificherebbe nei fatti il suo stesso reale potere regolatorio (accanto al già citato termine “clout” si potrebbe introdurre quello del “too big to fail”).

Per Fsi, la separazione verticale tra rete e servizi già sarebbe una azione che ne diminuirebbe sensibilmente il “clout”, e l’ipotesi è allo studio da parte della neo-costituita Autorità di regolazione dei trasporti (Art), ma solo a fini conoscitivi. Per le reti infrastrutturali di entrambi i regolati, l’esistenza di economie di scala è quantomeno dubbia, e comunque mai misurata. Per la ferrovia, un tentativo fu fatto anni fa da Gian Carlo Loraschi, che lo portò a ipotizzare in termini intuitivi la suddivisione della rete in quattro imprese (Nord, Centro, Sud e Isole, sul modello giapponese), da sottoporre a una qualche forma di “yardstick competition” (competizione per confronto).
Si ricorda solo l’ira delle ferrovie per tale ipotesi e la fine improvvisa della collaborazione con quello studioso. E in effetti qualche economia di scala si potrebbe verificare per la rete solo negli acquisti di materiali di manutenzione, comunque già oggi frazionati dalla dimensione nazionale della rete stessa perché l’obsolescenza non è certo simultanea nel tempo, per tali materiali. Un’altra componente che potrebbe scoraggiare il frazionamento delle rete è il livello di progresso tecnico del settore (è stata questa una delle basi della difesa di Microsoft contro ipotesi regolatorie di frazionamento dell’impresa, allora dominante, anche in termini di contendibilità). Ma la natura di monopolio naturale della rete ferroviaria, al contrario del caso Microsoft, esclude ogni possibilità di apertura della concorrenza per questa via.

Il sostegno politico

Da ultimo, va considerata la solida capacità di entrambi i monopolisti di avere supporti politici, sia a livello parlamentare che a livello locale. Per il livello locale, la cosa è ovvia: entrambi i settori non pesano sulle risorse locali, ma costruendo infrastrutture e, per Rfi, gestendo anche servizi finanziati dallo Stato, costituiscono importanti fattori di consenso locale “senza costi politici”. Il tentativo di modificare l’incentivo perverso implicito nei finanziamenti statali “earmarked” per i sussidi ai servizi ferroviari locali, trasferendo le risorse corrispondenti direttamente alle Regioni, è paradossalmente fallito a causa delle Regioni stesse, che hanno “restituito” allo Stato la discrezionalità di tale finanziamento. E ciò al fine di evitare conflitti locali nell’allocazione delle risorse, soffocando così anche il contenuto democratico di un dibattito esplicito sulle priorità sociali della spesa.

A livello centrale, il “clout” di Rfi è costituito verosimilmente anche dalla pressione delle lobby dei costruttori, data l’enorme quantità di risorse pubbliche destinate alle infrastrutture ferroviarie, finanziate integralmente a fondo perduto (si stimano 40 miliardi , in moneta attuale, solo per l’alta velocità). Su tutto, regna l’asimmetria informativa: Fsi continua (giustamente, dal suo punto di vista) a dichiarare utili di esercizio, ma nessuno sembra ricordare che tali utili avvengono a valle di trasferimenti pubblici (che, secondo Ugo Arrigo, hanno contribuito per non meno di 300 miliardi di euro al debito pubblico nazionale. Quei conti possono essere discussi, ma l’ordine di grandezza è indubbio). A fronte di tali trasferimenti, non è mai stata tentata una verifica di risultati (per esempio, rapporto costi/benefici per gli investimenti, riduzione delle emissioni, effetti distributivi, eccetera).
Per concludere: come per le autostrade nessuna azione politica sembra intenzionata a intaccarne il potere monopolistico, così Fsi sembra godere di un simmetrico e forse ancor maggiore potere, in grado di sventare qualsiasi disegno sia di reale apertura alla concorrenza, almeno tale da metterne a rischio la posizione dominante, sia di riduzione dei sussidi pubblici (chiamati pudicamente “corrispettivi”). Si può stimare infatti che Fsi detenga circa il 90 per cento del fatturato del settore ferroviario italiano, tra ricavi e trasferimenti pubblici. E il problema è notoriamente presente anche a livello europeo, come è emerso nel convegno sulle ferrovie promosso recentemente a Torino proprio dalla Autorità di regolazione: il Parlamento europeo poche settimane fa ha sostanzialmente bocciato il “quarto pacchetto” della Commissione (organo tecnico del Parlamento), che proponeva timide accelerazioni del processo di liberalizzazione del settore ferroviario, pacchetto giudicato eccessivamente pro concorrenziale. Se Sparta piange, Tebe non ride: la lobby ferroviaria appare fortissima anche a livello europeo.

«Se soltanto il 5 per cento delle risorse destinate alle grandi infrastrutture fosse indirizzato a moderni sistemi pubblici di car-sharing e neo-autostoppismo, ci sarebbero molte meno auto nelle strade. Meno auto in coda. Meno inquinamento e forse più socialità». Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2014

Autostrade, raccordi, anelli tangenziali, concessioni, project financing, Sblocca Italia oggi, Legge Obiettivo ieri. Miliardi di euro per fantomatiche opere pubbliche. Cemento e asfalto per realizzare infrastrutture che dovrebbero, queste le intenzioni delle istituzioni pubbliche, aiutare la mobilità dei cittadini.

Non è questa la sede per affrontare le critiche al decreto Sblocca Italia e la devastazione ambientale che potrebbe portare con sé. Ci ritorneremo, magari con una parentesi di questa rubrica. Ma tutta la retorica del fare, delle grandi opere, ha sostanzialmente fatto intravedere ai cittadini italiani un grande sogno: basta con il traffico! Stop alle lunghe code! L’Italia si muove!

Quando i vari premier, di ogni colore politico, si presentano in tv e tracciano sulla grande cartina del Belpaese tante linee colorate per quante sono le nuove vie di comunicazione che promettono di regalare agli italiani, il telespettatore-automobilista sogna.

Sogna ad occhi aperti. Come un moderno Fantozzi. “Alle 8 in punto suonerà la sveglia. Barba e doccia. Uscirò fresco come una rosa dal garage. Imboccherò la nuova superstrada che passa proprio li, a due passi dal mio quartiere. Via veloce a 130 chilometri all’ora lungo l’asfalto liscio e pulito. Potrò fermarmi a fare colazione all’autogrill. Poi, sterzata a destra, ecco la mia uscita. Direzione centro città. Sopra la nuova sopraelevata. Parcheggio sotterraneo. Ascensore. Ufficio. Dalla sveglia alla scrivania: 45 minuti.” Sogna il telespettatore. Sogna. Si sente in sintonia con il Gallo Cedrone: “Finalmente se score signori…”. Poi, il brusco risveglio. La benzina è sempre più cara. Le strade esistenti sono un colabrodo. Le autostrade nuove sono care. I treni, dove ci sono, sono fatiscenti e sempre in ritardo. Dalla sveglia di casa alla scrivania (per i fortunati che hanno un lavoro) 2 ore e 40. Questo avviene perché le istituzioni, a tutti i livelli, hanno poca fantasia, oppure devono accontentare la lobby del cemento e dell’asfalto. Perché se si invertissero le proporzioni tra risorse per la mobilità privata e risorse per i pendolari la situazione sarebbe ben diversa.

O magari, se soltanto il 5 per cento delle risorse destinate alle grandi infrastrutture fosse indirizzato a moderni sistemi pubblici di car-sharing e neo-autostoppismo, ci sarebbero molte meno auto nelle strade. Meno auto in coda. Meno inquinamento e forse più socialità. Abbondano le idee, le apps per smartphone e i siti internet (clacsoon.com , blablacar.it, roadsharing.com e tanti altri). Ma il nostro tweet-premier nella cartella hashtag per la mobilità ha solo le opzioni #asfalto #autostrade #concessionarie e vedrete come le twitterà veloce grazie allo #sbloccaitalia.

Il Movimento No TAV e l’Opposizione francese alla Lyon-Turin richiamano l’attenzione degli organi di informazione sui ritardi dell'opera e sulla consistente perdita di finanziamenti europei. Notav.info, 4 ottobre 2014

La Torino-Lione è pronta a perdere altri 33 milioni di euro di contributi europei. E’ ufficiale: lo scavo del Tunnel de La Maddalena non sarà ultimato entro il termine perentorio fissato dall’Unione Europea del 31 dicembre 2015. A sconfessare tutti i pomposi annunci governativi è la stessa LTF (la società pubblica italo-francese cui è affidata l’opera): nelle sue ultime gare di appalto, pubblicate questa estate, la fine lavori è indicata a dicembre 2016. Ancora più pessimista il Ministero delle Infrastrutture: il suo sito web comunica che la galleria sarà finita solo a giugno 2017. Eppure la Commissione Europea era stata chiara: nessun contributo sarà erogato per lavori svolti oltre il termine. Sconti e indulgenze sono passati di moda a Bruxelles.

Strano ma vero, a dirlo sono proprio loro. L’11 giugno 2014 LTF pubblica un avviso di gara di appalto per il monitoraggio ambientale sullo scavo del Tunnel de La Maddalena. LTF richiede di indicare il costo di tali servizi «jusqu'au PK 7+741 environ (qu'il est actuellement prévu d'atteindre en décembre 2016)» ovvero fino a 7741 metri di scavo “che attualmente si prevede di raggiungere nel dicembre 2016” (1). Le pagine “Cantieri Italia” del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti pubblicano i dati ufficiali e aggiornati delle opere finanziate dal CIPE. La scheda “Cunicolo esplorativo de La Maddalena in variante” non lascia spazio ad interpretazioni: “Fine lavori: Data Prevista: giugno 2017” (2).

Solo metà galleria? Perso metà contributo. Nel marzo 2013 la Commissione Europea è costretta a revocare metà dei contributi agli studi preliminari per la Torino-Lione, in quanto “per via di ulteriori ritardi, l’azione non potrà essere portata a termine entro il 31 dicembre 2015. Si è dovuto pertanto aggiornare l’ambito dell’azione per includervi unicamente le attività che potranno effettivamente essere realizzate.” (3).

Oggi, dopo 39 mesi dall’apertura del cantiere, LTF ha scavato appena il 17% dei 7541 metri totali del tunnel geognostico (4). E non finirà prima di dicembre 2016, forse giugno 2017, forse oltre. La decisione UE è perentoria: sarà erogato il contributo esclusivamente su quanto realizzato effettivamente entro la “data di completamento dell'azione: 31.12.2015”. Ad allora, al ritmo attuale, LTF non sarà che al 50% dello scavo. Quindi metà dell’importo non risulterà finanziabile perché fuori tempo massimo. Il conto è presto fatto. L’intero Tunnel de La Maddalena sono 131,6 milioni € di costo ammissibile, metà Tunnel non realizzato vale 65,8 milioni €. Qui il contributo UE coprirebbe il 50%, quindi si perdono 32,9 M€.

L’Europa non starà a guardare. Il 30 settembre scorso alcuni eurodeputati del nuovo Parlamento Europeo hanno incalzato Maroš Šefčovič
, candidato Commissario ai Trasporti, nel corso della sua audizione, per richiamare la sua attenzione sulla necessità di una revisione delle decisioni sul progetto Torino-Lione, inutile, esorbitante e sottostimato. Una riunione al Parlamento Europeo di Bruxelles avrà luogo il 14 ottobre per scambiare conoscenze tra esperti No TAV ed eurodeputati e per migliorare il dialogo tra cittadini e istituzioni europee affinché i nuovi deputati possano argomentare le loro posizioni in vista delle decisioni che il PE dovrà assumere nei prossimi mesi sul progetto della Torino-Lione (5)

Numerosi eurodeputati invieranno interrogazioni scritte al nuovo Commissario ai Trasporti, non appena sarà nel pieno dei suoi poteri, con riferimento all’inutilità del progetto, alla cattiva gestione dei lavori in corso a La Maddalena, e alla necessità che il co-finanziamento europeo sia erogato a progetti sicuramente utili e con ritorno economico rapido proprio con riferimento alla necessità di risanamento dei bilanci di Italia e Francia. Una richiesta di esame delle attività svolte da LTF sarà inviata anche alla Corte dei Conti e all’OLAF.

Le ultime parole famose di Lupi e Virano, Il 15 luglio 2014, durante una visita al cantiere de La Maddalena, il Ministro Lupi conferma che «i tempi di conclusione al 31 dicembre 2015 dell'intero tunnel saranno rispettati» (6). Peccato sia sconfessato in contemporanea proprio dal suo stesso Ministero, il cui sito segnala già un ritardo di un anno e mezzo rispetto alle “garanzie” del Ministro. L’8 settembre 2014 il Commissario Virano rincara dicendo che “gli scavi di Chiomonte per la Tav Torino-Lione«stanno procedendo senza reali problemi ed è confermata la previsione di terminarli entro la fine del 2015» (7). Un’affermazione che ha dell’incredibile, in plateale contraddizione con quanto indicato in appalti pubblici usciti solo due mesi prima. Il Commissario controlla l’operato di LTF o si affida all’immaginazione?

Confrontate con le banali informazioni di immediata consultazione pubblica qui richiamate, le roboanti quanto compulsive rassicurazioni di ministri e commissari si salvano a malapena dal ridicolo. In un paese normale la conclusione sarebbe una sola: dimissioni.

Dossier
Il dossier con la documentazione completa è disponibile qui, nel sito NoTAV:

Note e riferimenti
(1) LTF - Lyon Turin Ferroviaire, Francia-Chambéry: Servizi di consulenza in ingegneria ambientale, 2014/S 110-195236, Avviso di gara – Settori speciali, Servizi, II.2.1
(2) Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Cantieri Italia, Cunicolo esplorativo de La Maddalena in variante, Cronoprogramma dell'opera
(3) Decisione della Commissione C(2013)1376 5.3.2013
(4) LTF - Lyon Turin Ferroviaire, http://www.ltf-sas.com/accueil-italien/
(5) http://www.presidioeuropa.net/blog/?p=5025
(6) Adnkronos, “Tav: Lupi, ad agosto riunione task force su opere compensazione”, 15 luglio 2014,
(7) Ansa, “Tav: Virano, si procede senza problemi”, 8 settembre 2014,

«Salire sui treni è ancora troppo spesso complicato per le persone con ridotte capacità motorie. Peccato che anche il “Governo del fare” si sia fatto trascinare sul terreno delle grandi opere che fanno immagine, ma non producono ricadute sui territori attraversati e comportano vantaggi marginali per i potenziali utenti». Lavoce.info, 30 settembre 2014 (m.p.r.)

La doppia barriera di treni e marciapiedi
La normativa italiana sull’abbattimento delle barriere architettoniche (Dpr 503/1996, articoli 24 e 25) vorrebbe che le stazioni e i mezzi di trasporto pubblico su gomma e su ferro fossero accessibili alle persone con ridotte capacità motorie: per i veicoli sono cogenti le specifiche tecniche di interoperabilità previste dalla decisione della Commissione europea 2008/164 (emendata dalla 2012/464/EC), e si applicano inoltre le norme del regolamento Ce 1371/2007, capo V.

Nei mezzi su gomma, il pianale ribassato – ed eventualmente le piattaforme elevatrici – fanno a volte o’miracolo, soprattutto se l’autista accosta bene il mezzo a marciapiedi alti almeno 30 centimetri come spesso sono quelli alle fermate del tram su rotaie, però il combinato autista-autobus-marciapiede non sempre è collaborativo.

Per i treni, invece, il macchinista si accosta automaticamente al marciapiede, ma se questo è basso (la vecchia misura italiana è 25 centimetri sul piano del ferro) c’è poco da fare, la “scalata” è garantita anche se il treno ha il pianale basso. E pensare che le prime carrozze con le porte a 60 centimetri dal piano del ferro (le celeberrime pianale ribassato) furono ordinate nei primi anni Sessanta – una vera novità per l’epoca – e divennero di uso abbastanza comune negli anni Ottanta. In seguito, dopo vari lotti di carrozze ed elettromotrici più (o meno) indovinate e affidabili, tutte però con il pianale alto, da quasi venti anni il nuovo materiale rotabile del trasporto regionale, sia di Trenitalia che delle imprese “regionali”, ha una buona parte del pianale basso, con porte a 55-60 centimetri sul piano del ferro. Sono i tipi EtrY0530 di Fiat, Taf e Tsr di Ansaldo, Vivalto di Corifer, Flirt e Gtw di Stadler, Atr 220 di Pesa, Coradia di Alstom, Civity di Caf, Alfa2 di Firema.
I treni ad alta velocità, a cominciare da Etr 1000 (“Zefiro” di Bombardier) e Agv di Alstom, invece, hanno il pianale alto e la fretta con cui sono stati ordinati è sospetta: ci si è riforniti prima della entrata in vigore, all’inizio del 2013, delle specifiche tecniche di interoperabilità relative alle persone con ridotta mobilità? Parallelamente si vanno diffondendo (con molta lentezza) sia sulla rete in gestione a Rfi sia sulle reti “regionali” i marciapiedi alti 55 centimetri sul piano del ferro. Quando treni e marciapiedi “giusti” finalmente si incontrano, l’incarrozzamento è rapidissimo, come in metropolitana, e un eventuale cliente a ridotta capacità motoria può salire o scendere senza bisogno di assistenza.

Ascensori o rampe?
Certo tutto questo non basta, è bene che sul treno vi sia anche un’area dove si possano ancorare una o più sedie a rotelle, un bagno accessibile e, se si tratta di una stazione importante o comunque di località con sottopassaggio, dovrebbe esserci anche un ascensore o le rampe a pendenza adeguata. E qui il problema diventa spinoso. Rete ferroviaria italiana ha deciso unilateralmente di installare “elevatori” o ascensori solo a patto che il comune o un altro ente o società pubblica si accollino l’onere della manutenzione ordinaria e (soprattutto) del servizio di pronto intervento in caso di guasto e per liberare persone imprigionate. Dato che si tratta di circa 10mila euro all’anno per ascensore, è evidente che pochissimi comuni si sobbarcano la spesa, soprattutto ultimamente. In alcuni casi, sono stati installati dei “montascale”, vittima di vandalismo nel giro di poche settimane e che comunque richiedono spesso la presenza di un operatore terzo.

Gli elevatori hanno poi il brutto vizio di rompersi, e non sempre Rfi, che è titolare della manutenzione straordinaria, interviene rapidamente. Il marciapiede diventa così inaccessibile anche per settimane (per esempio, a Modena l’ascensore tra atrio e sottopassaggio è chiuso per lavori da oltre tre mesi). Talvolta, durante i lavori di costruzione del sottopassaggio, è stato predisposto il “pozzo” per l’ascensore, poi murato per mancanza di un accordo con l’ente locale. Eppure, nella maggior parte dei casi, basterebbe realizzare una rampa: con pendenza 8 per cento si tratta di solito di cinque tronchi da 10 metri e relative piazzole, in totale 60 metri. La rampa ha il vantaggio di non rompersi ed eventualmente permette di rinunciare alla scala. Il problema è che costa circa il triplo dell’ascensore (che viaggia sui 15-20mila euro).

Lavori in corso in poco tempo
In molte stazioni e fermate, tuttavia, l’ascensore c’è già o addirittura non serve, bisogna invece alzare il marciapiede. Le direzioni territoriali di Rfi hanno intrapreso azioni in tal senso, ma la scarsità di risorse (non è alta velocità…), la necessità di lavorare sotto esercizio e la “non visibilità mediatica” degli interventi non ne incoraggiano la diffusione. Sarebbero lavori facili, senza necessità di gara perché rientrano nella manutenzione straordinaria e realizzabili con il “global service” che le strutture di Rfi hanno sottoscritto con imprese di lavori edili opportunamente qualificate e selezionate. Il costo si aggira sui 250 euro al metro quadro e i lavori si possono avviare e concludere in meno di un mese.

Se ne è visto un esempio questa estate nella stazione centrale di Bologna dove un marciapiede lungo oltre 300 metri e largo 9 con tre sottopassaggi (cinque scale) e tre ascensori (due di servizio) è stato alzato in 15 giorni, interrompendo completamente i due binari adiacenti (10 e 11). Certo, non in tutte le stazioni si può chiudere per due settimane marciapiede e binario adiacente, ma in molte – medie e grandi – sì. E dunque quante centinaia di cantieri si possono aprire in poche settimane, oltretutto offrendo occasioni di lavoro ai relativi operai? Quante (centinaia di) migliaia di viaggiatori si possono agevolare? Quanti minuti di percorrenza si possono togliere ai treni regionali che per evitare le penali dei contratti di servizio hanno ormai velocità da sbadiglio? Quante ore di ritardo per servizio viaggiatori si possono risparmiare ogni giorno?
Negli ultimi tempi, in alcune stazioni sono stati alzati solo quei marciapiedi dove fermano i treni alta velocità, ma non gli altri: Rimini, Pesaro, Verona PN, Firenze SMN, Milano Centrale,Roma Termini, per citarne solo alcune, nonostante i treni alta velocità non abbiano il pianale ribassato. È una strategia per certi versi incomprensibile e anche un po’ odiosa.
Per le piccole stazioni su linee che chiudono in agosto (o per tutta l’estate) sarebbe facile da programmare un intervento a tappeto in quel periodo e forse permetterebbe anche qualche risparmio. In casi limite, si può anche chiedere un sacrificio agli utenti: per due-tre settimane i treni non fermano per i lavori, oppure non fermano dalle 9 alle 17, oppure si sale e scende solo dalla prima carrozza mentre sul resto del marciapiede si lavora, preferibilmente in periodi di “morbida” come ferie estive, Natale, Pasqua.
Sono lavori con una notevole parte manuale, che quindi darebbero lavoro a centinaia e forse migliaia di operai per qualche anno. Ed è anche improbabile che si formino comitati “anti-marciapiede”, che soprintendenze poco sensibili frenino, che qualche ricorso al Tar o ritrovamento archeologico blocchi tutto sul nascere. Peccato che anche il “Governo del fare” si sia fatto trascinare sul terreno delle grandi opere che fanno immagine (come l’alta velocità Napoli-Bari), ma non producono ricadute sui territori attraversati e comportano vantaggi marginali per i potenziali utenti.
Per quanto riguarda i treni del trasporto regionale, poi, una parte è prossima alla fine della vita utile, ma la parte (di Trenitalia come di altre imprese, sia chiaro) che ha più di 20 anni ma meno di 35 e quindi potrà servire per altri 15-30 anni, potrebbe essere adattata alle esigenze delle persone con mobilità ridotta con una spesa irrisoria, molta buona volontà e senza rischio di incorrere in procedure di infrazione UE, basterebbe aggiungere una carrozza a pianale ribassato.
Insomma, la domanda che rivolgiamo al presidente del Consiglio e al ministro dei Trasporti è semplice: è troppo difficile sbloccare treni e marciapiedi per le persone a ridotta mobilità? Ricordando che la categoria comprende genitori con passeggini, turisti con valige, bambini, persone attempate.

«Alla faccia dell’authority, del mercato, dell’Europa. Un film già visto al momento della privatizzazione della società Autostrade, quando la concessione venne prolungata ope legis di vent’anni senza colpo ferire». Corriere della Sera, 28 settembre 2014

Andrea Camanzi lo ha definito: «Un passo indietro». Anche la diplomazia vuole la sua parte. Ma il piatto che il decreto «sblocca Italia» sta servendo ai potentissimi concessionari autostradali va ben oltre una semplice retromarcia. Perché per l’authority dei Trasporti presieduta da Camanzi, a cui la legge affida il compito di regolare quel settore, è uno smacco duro da digerire.

Basta leggere l’articolo 5. Le società autostradali possono ottenere la proroga delle concessioni con «l’unificazione di tratte interconnesse» impegnandosi a fare investimenti e mantenendo «un regime tariffario più favorevole all’utenza». Senza gare, ovviamente. Alla faccia dell’authority, del mercato, dell’Europa. Un film già visto al momento della privatizzazione della società Autostrade, quando la concessione venne prolungata ope legis di vent’anni senza colpo ferire. Con qualche differenza. Allora non esisteva l’autorità dei Trasporti. E la proroga oggi proposta dal governo di Matteo Renzi riguarda solo di striscio il gruppo Autostrade. L’impronta digitale sembra di Fabrizio Palenzona, ex presidente margheritino della Provincia di Alessandria, vicepresidente di Unicredit e da ben undici anni presidente dell’Aiscat, l’associazione che riunisce le concessionarie autostradali. Un gruppo di pressione dalla forza irresistibile, come sta a dimostrare la frequenza incessante degli aumenti tariffari. Cascasse il mondo.

Dal 1999 al 2013 le tariffe sono salite mediamente del 65,9 per cento, contro un’inflazione del 37,4 per cento. E dietro Palenzona non è difficile intravedere il gruppo imprenditoriale che fa capo agli eredi di Marcellino Gavio. Ovvero uno dei principali concessionari privati. I legami fra Palenzona e i Gavio, che l’avrebbero anche voluto alla presidenza di Impregilo, non sono in discussione. Il presidente dell’Aiscat risulta essere fra l’altro uno degli azionisti di riferimento della società di autotrasportatori Unitra di Tortona: proprio insieme al gruppo Gavio. Certamente uno dei soggetti più interessati a una soluzione quale quella prevista dal decreto «sblocca Italia». La sua concessione della Torino-Piacenza dovrebbe essere infatti fra le prime a scadere. La data prevista, secondo i dati pubblicati lunedì 22 settembre da Alessandra Puato sul CorrierEconomia , è il giugno 2017. Dieci mesi prima, nell’agosto 2016, scadrà un’altra concessione nella quale è coinvolto Gavio, quella della Torino-Valle D’Aosta.

Ma dietro il rompighiaccio Palenzona nemmeno qualche concessionario pubblico ha rinunciato a far pesare le proprie ragioni. Come le Autovie Venete. La società è controllata all’88,8% dalla Regione Friuli-Venezia Giulia e al 4,8% dalla Regione Veneto. Dovrebbe realizzare la terza corsia, un’operache richiede investimenti per 1,7 miliardi. Ma le banche, argomentano, non sarebbero disposto a finanziarla se la concessione scadesse, com’è previsto, nel marzo 2017. Occorre quindi prolungarla.

La concessione dell’Autobrennero, società con un consiglio di amministrazione da 14 poltrone, è invece scaduta nell’aprile 2014 ed è in attesa di gara. Però i suoi azionisti preferirebbero la proroga. Sono la Regione Trentino Alto Adige, le Province autonome e i Comuni di Trento e Bolzano, le Province di Modena e Mantova, il Comune di Mantova... Nell’elenco, anche alcune banche finanziatrici che vantano diritti di pegno: fra queste la famosa Banca del Mezzogiorno di Poste Italiane, fortemente voluta dall’ex ministro Giulio Tremonti per sostenere l’economia del Sud (Tirolo?).

A dispetto del guard rail perennemente arrugginito, per le Province e i Comuni azionisti l’Autobrennero è una gallina dalle uova d’oro: 140 milioni di utili negli ultimi due anni. Senza considerare un tesoretto di 550 milioni investiti in titoli di Stato costituito dal prelievo sulle tariffe per finanziare il tunnel ferroviario del Brennero. Di sicuro la lobby autostradale ha lavorato di fino. Come dimostra il raffronto fra il testo entrato nel Consiglio dei ministri e quello pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Nel primo si stabiliva che la concessione venisse estesa al massimo a quella più lunga delle autostrade accorpate: poi questo limite è scomparso. Nella versione iniziale c’era pure come contropartita alla proroga un aumento del canone pagato allo Stato dai concessionari, dall’attuale 2,4% dei pedaggi netti al 3 o al 4%: scomparso anche questo.

Certo è che la stessa Authority, del tutto scavalcata in questo frangente, ha incontrato non poche difficoltà fin da subito quando ha cominciato a occuparsi di autostrade, nel gennaio scorso. Dice tutto una lettera del capo della Struttura di vigilanza sulle concessionarie autostradali del ministero delle Infrastrutture, in risposta alle richieste dell’Autorità per il passaggio di consegne. Che si concludeva così: «Si rappresenta l’impossibilità di trasmettere i relativi contenuti della banca dati della Struttura tenuto anche conto dei protocolli di riservatezza che caratterizzano l’accesso al sistema e l’obbligo da parte degli uffici di Struttura di attenersi a precisi vincoli di riservatezza».

«Nonostante un’inflazione vicina allo zero, i pedaggi continuano ad aumentare. Il motivo sarebbe la necessità di remunerare gli investimenti. Ma spesso si tratta di investimenti utili solo alle concessionarie, che così ottengono proroghe ingiustificate». Lavoce.info, 26 settembre 2014

Pedaggi sempre più cari
Da qui a fine anno si deciderà il futuro della rete autostradale italiana. Con tre concessioni scadute e altre tre di prossima scadenza si potrebbe avviare un loro graduale ritorno allo Stato. Ma l’intenzione del Governo sembra tutt’altra: l’articolo 5 del decreto “sblocca Italia” prevede infatti che si possano accorpare concessioni prorogandole alle scadenze più lontane. Così, ad esempio, quattro delle concessioni del gruppo Gavio in prossima scadenza potrebbero essere prorogate sino al 2038: il futuro della rete sarebbe così cristallizzato per i prossimi due decenni e oltre, assicurando la perpetuazione delle ricche rendite del settore.

Nel 2012-13 il traffico è diminuito del 10 per cento, ma grazie agli aumenti tariffari gli introiti complessivi da pedaggi sono persino lievemente aumentati e i profitti pure. Dal 2010 i pedaggi (in media) sono cresciuti del 15 per cento, cioè il doppio dell’inflazione del periodo. Ci dicono che il motivo principale degli aumenti sia la necessità di remunerare gli investimenti. Dai dati risulta però che di investimenti le concessionarie ne hanno sempre fatti molto pochi e con ritardi addirittura di decenni rispetto ai piani concordati.
Nel 2013 le concessionarie hanno registrato introiti di 4.900 milioni per pedaggi e registrato utili di 1.100 milioni, ma gli investimenti ammontano a poco più di 900 milioni. Autostrade per l’Italia, la maggiore, ha avuto un flusso di cassa operativo di 1.230 milioni, ma ha investito solo 470 milioni (dato della Vigilanza). Paghiamo un altissimo scotto sulla mobilità a fronte di investimenti modestissimi.
Per remunerare gli investimenti la delibera Cipe del 2007 prevede che l’incremento di tariffa debba essere tale che “il valore attualizzato dei ricavi previsti sia pari al valore attualizzato dei costi ammessi (…) scontando gli importi al tasso di congrua remunerazione”. Il criterio è perfetto, ma la sua applicazione è largamente discrezionale. L’eventuale incremento del pedaggio dipende essenzialmente dalla redditività attesa dell’investimento nell’arco della sua vita utile. Dunque, il pedaggio dovrebbe aumentare solo se la redditività attesa dell’investimento fosse inferiore al tasso di rendimento che si intende assicurare al concessionario. Ma, in tal caso, perché l’Ispettorato autorizza investimenti non remunerativi?
Investimenti, proroghe e rendite
Quantificare i benefici degli investimenti è difficile e incerto. Le concessionarie (e l’Aspi in particolare) notoriamente sostengono che gli investimenti per la costruzione di nuove corsie (i più rilevanti) migliorano la qualità del servizio, ma non generano apprezzabili aumenti di proventi da maggior traffico e devono pertanto essere remunerati con incrementi di tariffa. Ma su una rete già tanto congestionata come quella italiana, l’aggiunta di corsie parrebbe invece essenziale per sostenere ulteriori incrementi di traffico i cui proventi andranno interamente a vantaggio della concessionaria: se si quantificasse questo beneficio potrebbe non esservi alcun bisogno di aumentare i pedaggi. Se il costo di una nuova corsia non è in grado di ripagarsi con maggior traffico nell’arco dei venticinque anni di vita residua di una concessione come quella dell’Aspi, perché realizzarla? E se è in grado di ripagarsi, perché concedere anche incrementi di tariffa?
Gli investimenti sono poi proposti dalle concessionarie e pertanto il sistema tende a selezionare quelli che, di volta in volta, sono più utili a loro e non al paese. Un tipico esempio è quello dell’autostrada Torino-Milano. Negli anni Novanta aveva tre corsie con piazzole d’emergenza ed era ampiamente sufficiente per il traffico. Allargare l’autostrada e costruire una corsia d’emergenza non era certo un investimento prioritario per il paese, lo era invece per la concessionaria che così è riuscita a ottenere una proroga della concessione in scadenza nel 1999, prima sino al 2014 e poi sino al 2026. Intanto, i lavori per la corsia di emergenza non sono ancora terminati, mentre i pedaggi negli ultimi anni sono addirittura raddoppiati. Parrebbe che, in questo caso come in altri, gli investimenti vengano pagati due volte: prima con le proroghe della concessione e poi con gli aumenti di tariffa.
Ogni concessionaria a rischio di scadenza individua nuovi lavori “urgentissimi” che giustifichino la proroga della concessione: nuove corsie o nuovi tratti, come il prolungamento da Parma a Nogarole Rocca che ha consentito alla Cisa di ottenerne il prolungamento dal 2010 al 2031 (oltre a forti aumenti di tariffa). Per la Serenissima (Brescia-Padova) è assolutamente necessario costruire il tratto Piovene Rocchette-Rovigo (Valdasticco nord), che di per sé non pare né essenziale né remunerativo, perché solo così potrebbe ottenere una bella proroga della concessione già scaduta ed evitare quindi il rischio più temuto, la gara per il rinnovo.
Per le concessionarie non esistono investimenti a rischio: la remunerazione in tariffa è garantita e c’è sempre la possibilità di richiedere il “riequilibrio” del piano economico finanziario. Anche quando si sbagliano di molto le previsioni di costo e di traffico, come nel caso della Asti-Cuneo, a evitare il rischio di perdite ecco che viene prospettata una soluzione facile e profittevole: accorparla ad altri due tronchi (Torino-Milano e Torino-Piacenza), ottenendo così pure una proroga di quelle due concessioni che altrimenti scadrebbero prima della Asti-Cuneo.
Se la convenzione di Autostrade per l’Italia prevede incrementi tariffari senza alcuna relazione col livello di profitto, la maggior parte delle altre concessionarie si è avvalsa della facoltà di richiedere il “riequilibrio del piano economico-finanziario”. In sostanza, all’inizio di ogni periodo regolatorio (ogni cinque anni), su proposta della concessionaria, si definisce un piano economico-finanziario che prevede incrementi di tariffa tali da assicurarle una “congrua remunerazione” sul capitale investito. Il rendimento assicurato è di 4 punti sopra quello medio dei buoni del tesoro decennali: davvero ottimo, per i tempi che corrono, considerato anche che si tratta di investimenti senza rischio.
Se però guardiamo alla storia, gli azionisti non hanno mai versato capitali nelle concessionarie, se non per importi irrisori: tutto è stato finanziato da debiti, poi rimborsati coi proventi dei pedaggi. Qual è dunque l’origine e come è determinato il capitale proprio da remunerare? Resta un mistero sepolto nella storia dei piani finanziari, rigorosamente secretati. Le rivalutazioni monetarie effettuate ancora pochi anni addietro da varie concessionarie vengono considerate come maggior capitale proprio investito? Con un’inflazione ormai prossima allo zero, i cospicui aumenti dei pedaggi (3,91 per cento nel 2013 e 3,9 per cento nel 2014) appaiono sempre più inaccettabili per gli utenti e imbarazzanti per il Governo. Per contenerli in futuro, è stato istituito un tavolo di lavoro tra Aiscat e Governo che si dice consideri interventi in quattro direzioni: 1) prolungamento delle concessioni; 2) accorpamenti di concessioni e proroghe alle scadenze più lontane; 3) maggiori indennizzi di subentro a fine concessione; 4) slittamenti, cioè riduzioni, degli investimenti previsti.
Tutte queste misure hanno in comune un chiaro obiettivo: prolungare sempre di più, verso un orizzonte infinito, la durata delle attuali concessioni, e quindi gli utili delle concessionarie e l’onere dei pedaggi, rendendo nello stesso tempo sempre più difficile l’effettuazione di gare a fine concessione per il crescere degli indennizzi richiesti all’eventuale subentrante. I pedaggi, introdotti per finanziare opere come l’Autostrada del sole, sono divenuti per le concessionarie una rendita pressoché perpetua, sulla quale poi lo Stato carica anche Iva e parte dei costi dell’Anas. L’elevato onere sulla mobilità non contribuisce certo alla crescita e alla competitività del paese.

Novant'anni, e sembra ieri, soprattutto per quanto riguarda il modo di concepire e non governare le grandi arterie stradali alimentatrici di sprawl. Corriere della Sera Lombardia, 19 settembre 2014, postilla (f.b.)

«Uniforme, disadorna ma levigatissima, si dilunga come la guida di un corridoio d’albergo, evitando sino al possibile le curve ed ogni contatto, ogni intimità e ogni emozione, il pittoresco e il romantico; arida e muta come un’asta, precisa come una pagina di orario, obbediente a una disciplina, la brevità, e a uno scopo, l’utilitarismo». Doveva apparire davvero strabiliante agli occhi di cronisti dell’epoca, quel grande miracolo che in soli 15 mesi aveva portato un paese in miseria alla ribalta internazionale. L’apertura della Milano-Varese, prima autostrada del mondo, inaugurata il 21 settembre del 1924, proiettava di colpo l’Italia nel futuro in un momento in cui (era l’anno del delitto Matteotti) il regime aveva bisogno di consensi e di un rilancio dell’immagine.
Tutto era nato due anni prima dalla lungimiranza di un imprenditore lombardo, Piero Puricelli,che costruendo strade aveva costruito la propria fortuna. Il suo sogno era quello di realizzare la prima «via per sole automobili», intravedendo le grandi possibilità che lo sviluppo della motorizzazione avrebbe presto avuto. Una vera scommessa se si pensa che all’epoca in Italia circolavano solo 85 mila veicoli.

All’inizio del 1922 Puricelli, proprio mentre stava progettando l’autodromo di Monza (il terzo più vecchio impianto fisso dopo Indianapolis e Brooklands) che sarebbe stato inaugurato a luglio dopo soli 50 giorni di lavori, cominciò a dedicarsi a tempo pieno al suo sogno, quello di unire con un’autostrada Milano a Varese ma anche a Como e al Lago Maggiore. Preparò uno studio di fattibilità è trovò subito l’entusiastico appoggio dall’Aci e dal Touring Club. Il 18 novembre del 1922 costituì la «Società anonima autostrade» e, 5 giorni dopo, a meno di un mese dalla marcia su Roma, andò da Mussolini a illustrare il suo progetto.

Il capo del governo capì al volo che quella era un’occasione da non perdere («grandiosa anticipazione italiana, segno della nostra potenza costruttiva degna degli antichi figli di Roma», avrebbe detto a opera conclusa), anche perchè i costi per la realizzazione, 90 milioni, sarebbero stati a carico dell’imprenditore: un prototipo del tanto sbandierato project financing cui si fa ricorso oggi per costruire le nuove autostrade, ma che allora (come adesso) finì poi per mostrare tutti i suoi limiti. Il duce chiamò il ministro dei lavori pubblici ordinandogli di mettere a punto tutti gli atti necessari per autorizzare l’opera. Fissò il giorno dell’inizio lavori, a Lainate, in cui sarebbe intervenuto con il primo colpo di piccone, e quello dell’inaugurazione. Tra le due date c’erano soltanto 500 giorni per costruire 43 chilometri. Tempi pienamente rispettati.

Fu così un grandioso cantiere quello che si aprì nel maggio del 1923, considerate anche le tecnologie dell’epoca. Ci lavoravano a tempo pieno, 7 giorni su 7, quattromila operai che movimentarono due milioni di metri cubi di terra, costruendo 219 manufatti in cemento, tra cui 35 ponti e 71 sottopassi. Per la pavimentazione (spessa sino a 20 centimetri), realizzata mischiando sassi con sabbia e cemento, furono usati 120 mila metri cubi di pietrisco che venivano trasportati in treno dalle cave di Puricelli alle stazioni più vicine e poi, con vagoncini che si muovevano su appositi binari, sino al luogo di utilizzo.

Per il calcestruzzo Puricelli comprò nelle Stati Uniti cinque grosse betoniere che potevano produrre 1200 metri cubi di conglomerato al giorno. I progettisti trovarono soluzioni all’avanguardia anche per realizzare le opere più impegnative, come il cavalcavia sulla stazione di Milano Certosa (che ancora esiste), tre campate ad arco di 21 metri l’una, il ponte sull’Olona a Castellanza e la galleria di Olgiate Olona. L’autostrada (la prima al mondo, anche se i tedeschi ritengono che il primato vada alla loro Avus, un circuito di prova inaugurato a Berlino nel 1921)aveva solo una corsia per ogni senso di marcia ed era larga tra gli 11 e i 14 metri. A Milano il casello era in viale Certosa all’altezza di Musocco, i dipendenti erano in divisa e avevano l’obbligo di fare il saluto militare. La sbarra si alzava alle sei del mattino e si chiudeva a mezzanotte.

Alla cerimonia di inaugurazione intervenne il re, a bordo di una Lancia Trikappa guidata da Puricelli. Per l’ingegnere fu il coronamento di un sogno ma pure l’inizio di un’intensa attività che lo portò a costruire molte autostrade anche all’estero. Ricevette onoreficenze, lauree honoris causa, il titolo di «conte di Lomnago» e, nel 1929, fu pure nominato senatore.

postilla
Negli anni '20, come si è ricordato anche alla penultima edizione del Seminari di Eddyburg, dedicata alla dimensione metropolitana, insieme alle autostrade nascevano, o provavano a nascere, anche piani territoriali per affrontare l'emergere della nuova geografia urbana indotta dalla compressione spazio-temporale delle autostrade. Come ci spiegava poco dopo (1933) il sociologo Roderick McKenzie, la scala metropolitana si sostituiva in senso identitario, fisico, socioeconomico, a quella urbana così come la grande città industriale delle stazioni ferroviarie, e poi dei tram, aveva soppiantato la città murata della tradizione. Anche nell'area milanese si discuteva della possibilità di questi “piani regionali”, puntualmente sabotati da chi riteneva di sapersi regolare benissimo da solo, ed è continuata così nel dopoguerra facendo saltare i modelli virtuosi del Pim, fino ai nostri giorni della cosiddetta città infinita, che si allarga ad archi concentrici principalmente (guarda un po') dal vecchio asse dell'Autolaghi, all'altrettanto storica Milano-Brescia, via Pedemontana Lombarda. Di piani territoriali, neppure l'ombra, salvo quelli che “recepiscono” passivi un nuovo segmento della mega lottizzazione in corso. C'è un'alternativa? Lo chiediamo spesso (f.b.)

Evoluzione quasi naturale delle politiche su una mobilità meno legata all'auto privata, il nuovo limite di velocità manca però di una indispensabile chiara idea spaziale di riferimento. La Repubblica Milano, 13 luglio 2014, postilla (f.b.)

É il provvedimento con l’impatto più forte sulla mobilità di Milano, dopo Area C: Palazzo Marino vara il progetto di trasformare tutte le strade all’interno della Cerchia dei Navigli in un’unica “Zona 30” in cui, quindi, le auto dovranno viaggiare a bassissima velocità. L’ordinanza è stata firmata venerdì e disegna il percorso che arriverà a completa attuazione entro l’inaugurazione di Expo, anche se una prima partenza è fissata già a inizio 2015. È tanto il lavoro da fare: bisogna far realizzare e sistemare tutti i cartelli che andranno posizionati all’inizio delle vie lungo l’intera Cerchia per segnalare agli automobilisti l’obbligo di rallentare.

Spiega l’assessore alla Mobilità Pierfrancesco Maran che «con questo passaggio il centro diventa a tutti gli effetti una zona a pedonalità privilegiata, sull’esempio di altre metropoli europee». Tradotto, più spazio a chi lo percorre a piedi, in bici o con i mezzi pubblici, scoprendone i suoi tesori artistici e archeologici, spingendo (metaforicamente) sull’acceleratore di un percorso già iniziato con la congestion charge, le isole pedonali, le piste ciclabili. L’obiettivo è anche quello di ridurre il rumore e il pericolo incidenti, come si è visto nelle città in cui i limiti di velocità in centro sono già realtà da tempo.

La filosofia è contenuta lì, in quelle due pagine di ordinanza che l’assessore ha firmato tre giorni fa a nome del sindaco. E che fa nascere la nuova “Zona a velocità limitata”. Perché la circonferenza della Cerchia dei Navigli abbraccia pezzi di città «di pregio dal punto di vista artistico, storico e urbanistico», si legge, da vivere ancora di più a piedi o in bicicletta: da Sant’Ambrogio con il reticolo di vie della Milano romana a Brera, dal «polo attrattivo di fama mondiale» rappresentato dal Quadrilatero della Moda a Corso Venezia che corre costeggiando i giardini, fino ai raggi — corso di Porta Ticinese, corso di Porta Romana, corso Italia, corso di Porta Vittoria — che puntano verso il Duomo, «dove la componente di mobilità pedonale risulta preponderante rispetto alle altre», cita il documento. Un altro strumento che Palazzo Marino ha scelto «per aumentare la vivibilità » e che si affianca alle chiusure vere e proprie ai motori, come l’ultima isola pedonale di piazza Castello. «Questa ordinanza — spiega Maran — certifica quello che sta già avvenendo con i progetti della “Milano Romana” ad esempio, o gli interventi per le piste ciclabili e l’allargamento dei marciapiedi in corso Venezia, e che sarà ancora più evidente durante i sei mesi di Expo: il centro storico è sempre più pedonale ». Non solo centro, però. Il piano complessivo di Palazzo Marino, infatti, prevede che sempre più porzioni di città diventino “Zone 30”. «In questi giorni stanno finendo i la- vori in via Caterina da Forlì e presto partiranno quelli in via Melzo. L’idea è di aprire un cantiere in ogni quartiere», continua Maran. Seguendo una mappa da disegnare negli anni che va dall’Isola a via Washington.

L’ordinanza sul centro storico, dopo gli studi e i progetti accarezzati anche nel piano del traffico approvato l’anno scorso, ora fa scattare la fase operativa. La macchina del Comune può mettersi in moto per organizzare la rivoluzione (dolce) per la mobilità. L’obiettivo, sull’esempio di altre metropoli europee è ridurre la velocità delle auto, il numero e la pericolosità degli incidenti, il rumore. Secondo i dati del Comune, ad esempio, con questo modello a Londra c’è stato un calo degli incidenti del 40 per cento; in Germania la norma è partita dal 1980 e, ormai, le stime dicono che il 70 per cento della popolazione delle grandi città vive in “Zona 30”. Inizialmente, Palazzo Marino aveva ipotizzato di far partire la sua rivoluzione in un’area ancora più vasta, ovvero farla coincidere con la Cerchia dei Bastioni per irrobustire gli effetti della congestion charge.

«Ma in questo momento — è la spiegazione dell’assessore — ci sembra che quelli dei Navigli siano i confini migliori perché sono già quelli di una sorta di Zona 30 naturale». Cosa succederà quando saranno montati i cartelli? In tutte le vie all’interno della Cerchia le auto dovranno viaggiare a 30 chilometri all’ora. Lungo la circonvallazione più piccola non cambierà il limite, così come non saranno modificate le strade già oggi pedonali o riservate a bus e tram. L’ordinanza prevede anche sanzioni: «L’inosservanza è punita ai sensi del combinato disposto de- gli articoli 7 e 142 del vigente Codice della strada», si scrive nel documento. «Ma non ci saranno telecamere o autovelox per dare multe — dice già oggi Maran — . Questo non è un provvedimento per fare cassa, ma per dare una visione di progressiva pedonalizzazione del centro, per responsabilizzare chi si muove in macchina a rispettare chi si muove a piedi. Servirà anche agli stessi progettisti del Comune come un impegno a intervenire in quest’ottica ogni volta che sarà rivisto un incrocio o ridisegnata la viabilità».

postilla


Pare davvero logico, intelligente, consequenziale, che il primo grande spazio in cui applicare quella che a New York e altrove chiamano Visione Zero, ovvero la massima sicurezza stradale garantita dal limite dei 30kmh, sia il nucleo più centrale di Milano. In fondo non stiamo neppure parlando di chissà cosa, al netto della ipersensibilità dei pochi che considerano questa fettina urbana “la città”, se pensiamo che non si chiude un bel nulla, ma semplicemente si riduce di qualche punto percentuale il pessimo vizio di schiacciare troppo l'acceleratore. Non si costruisce neppure un tappo alla circolazione, visto che le auto continueranno a entrare e uscire, solo un po' più lente, e neppure tanto. Ma rispetto a New York e alle altre grandi città della Visione Zero, le lacune (superabili) del piano milanese traspaiono se necessario dal fatto che si senta solo ed esclusivamente la voce del pimpante assessorino a ambiente e mobilità, solo lui. Così come successo in occasione delle Isole Digitali, o del progetto attorno al Castello, pare che tutto ruoti attorno a un'idea sola, mentre invece non è affatto così: che si dice ad esempio dell'indispensabile adattamento spaziale delle carreggiate, degli attraversamenti, dei nodi? Le amministrazioni delle città del mondo pubblicano addirittura dei manuali divulgativi, con tanto di nomignoli per il nuovo tipo di innesto a L con scivolo e aiuola, dove l'auto può curvare e il passeggino attraversare in comodità e sicurezza. Noi niente, solo cartelli, vigili e multe, perché “non è di mia competenza”? (f.b.)

A furia di pensare i flussi di mobilità in modo meccanico e sconnesso rispetto alla qualità degli spazi, dei soggetti, dei comportamenti, si combinano un sacco di evitabili guai. Due aspetti diversi da due articoli di Ivan Berni ( la Repubblica) e Marta Ghezzi (Corriere della Sera Milano), 6 luglio 2014 (f.b.)

la Repubblica
CHE AVVENTURA RISPETTARE I LIMITI
di Ivan Berni


Fra le notizie, diciamo così minori, delle ultime settimane mi ha particolarmente colpito quella del numero delle multe per eccesso di velocità «prodotte» dai nuovi sette autovelox installati da Comune e Prefettura lo scorso 10 marzo. Sono 9000 infrazioni al giorno, di cui 4349 inflitte ai trasgressori del limiti sul Cavalcavia Ghisallo. Per chi non lo sapesse, il cavalcavia Ghisallo è il grande raccordo che porta alle autostrade dei Laghi e alla Milano Venezia. Siccome sono fra chi percorre, un paio di volte al mese, quel raccordo — e dato che mi è quasi certamente capitato, senza accorgermene, di violare i limiti — mi sono impegnato in una prova di autodisciplina: rispettare rigorosamente la segnaletica, senza sgarrare di un solo chilometro rispetto alle indicazioni. Sono sopravvissuto, ma ho corso il rischio di essere travolto da un paio di camion, da una decina di furgoni e da un numero incalcolabile di auto. Nessuno andava piano come me. Sono stato sorpassato da sinistra e da destra — e strombazzato — da camioncini carichi di macerie, compattatori dell’Amsa, una Panda con quattro suore e persino da un carro funebre. La quantità di contumelie, insulti, esibizioni di dito medio e vaffa assortiti la lascio, facilmente, immaginare a chi legge.

È stata una pessima e pericolosa avventura perché chi ha posizionato gli autovelox — segnalati, è vero, da appositi (ma piccoli) cartelli — se ne è allegramente sbattuto di «armonizzare » la segnaletica verticale (sui pali) e orizzontale (sulla strada). Sicché imboccando viale De Gasperi, che precede l’inizio del Cavalcavia Ghisallo vero e proprio, i cartelli indicano un limite di 50 all’ora, mentre sulla carreggiata è dipinto un limite di 70 chilometri orari. Quando inizia la rampa ecco apparire i cartelli con i 70 all’ora, ma un centinaio di metri più avanti — mentre le corsie disponibili per senso di marcia sono quattro, come in una highway di Los Angeles — ecco ricomparire nuovamente un limite di 50 all’ora. Poco dopo si torna a 70, ma è un’illusione che dura un attimo, perché in corrispondenza di una immissione da destra tornano in vigore i 50. La tortura dura all’incirca tre chilometri e l’automobilista ligio alle regole ne esce con una doppia convinzione: non ripetere mai più l’esperienza per non subire un tamponamento rovinoso e che anche a Milano i limiti di velocità, come più in generale le regole in Italia, funzionano, per così dire, a la carte. A seconda della convenienza di chi li impone. Non sappiamo, infatti, quante delle 4349 infrazioni quotidiane registrate sul «Ghisallo » vengano realmente perseguite. Sappiamo, però, che chi si propone di non violare le regole lo fa a suo rischio e pericolo.

Per uscirne basterebbe stabilire un limite unico — i 70 all’ora citati dagli assessori al momento della messa in servizio degli autovelox, (ma perché non i 90 all’ora di qualsiasi strada provinciale a due corsie?) — togliere la segnaletica verticale contraddittoria e, magari, mettere un pannello a segnaletica variabile all’imbocco del cavalcavia con una indicazione chiara. E a quel punto punire severamente chi sgarra. Gli automobilisti ligi, ma anche quelli discoli, ringrazierebbero. E comincerebbero a pensare che i limiti di velocità, nelle strade urbane di grande scorrimento, non sono un trucco per far cassa. Ma sono un provvedimento sensato, che serve alla sicurezza di tutti.

Corriere della Sera
UNA CITTà A MISURA DI TUTTI
di Marta Ghezzi


I conti sono stati fatti partendo da dati concreti. Nelle ultime edizioni di Expo i visitatori con disabilità erano 800 mila. La differenza, questa volta, la farà la crisi. Ma secondo le associazioni di settore, «Nutrire il Pianeta, Energia per la vita» attirerà il prossimo anno almeno 300 mila disabili. All’inizio di Expo mancano 300 giorni. Pochi per mappare l’accessibilità del capoluogo lombardo, sufficienti per testare una decina di percorsi «sensibili». Itinerari ad alto tasso di interesse artistico-culturale, arterie dello shopping, zona del nuovo skyline che devono dimostrarsi friendly con chi ha mobilità o vista ridotta.

In un pomeriggio di sole, Marco Rasconi, presidente Ledha, ne verifica uno. E mentre da piazza Duomo si avvia verso la Loggia dei Mercanti, lancia subito una proposta. «Quando c’è carenza di risorse bisogna mettere in campo tutte quelle disponibili — dice —. La mappatura è un’operazione complessa, che richiede tempo ed energie: perché non coinvolgere Università e scuole superiori? Sarebbe anche un modo indiretto per creare cultura sulla disabilità». Parla e intanto le ruote della carrozzina faticano sul pavé. «È un problema, ovviabile asfaltando o rendendo piani i soli attraversamenti pedonali».

Lungo i marciapiedi del centro gli scivoli sono onnipresenti (anche se di frequente occupati da mezzi con le quattro frecce accese), e il percorso non risulta difficile. Il problema sono i negozi: un gradino di 3-4 centimetri è sempre presente, spesso anche più alto. «Un brutto biglietto da visita, a pochi passi dal Duomo», riflette Rasconi. È solo cattiva volontà: basterebbero piccole pedane». Poca sensibilità e zero spirito pratico. Mohamed Baidi, studente di Economia in Cattolica, ferma la carrozzina davanti all’insegna di una toilette per disabili di un bar. «Ma come la raggiungo se è in fondo a una rampa di scale?», osserva divertito. Abituato a girare sui mezzi pubblici, aspetta un tram con pedana estraibile. Salita perfetta, discesa rocambolesca: il pulsante per l’autista è rotto, bisogna affidarsi agli altri passeggeri, rischiando di non scendere in tempo. «Sono abituato — commenta — abito a Qt8, ma la prima fermata di metrò accessibile è Amendola, la distanza la copro in carrozzina».

Anche l’Unione Italiana Ciechi ha risposto all’appello del Comune sulla mappatura. Franco Lisi, referente Commissione Autonomia Lombardia, e Francesco Cusati, delegato Tavolo tecnico Expo, affrontano il percorso da via Vivaio ai Giardini di Porta Venezia. Si muovono rapidi, evitando angoli e ostacoli. «Non sarà così per chi viene per la prima volta», chiariscono. La riflessione davanti alle strisce pedonali di via Cappuccini. Un punto pericoloso: la curva del marciapiede, non in asse con le strisce, invita a una discesa sbagliata. «Gli attraversamenti sono la criticità: dovrebbero essere sempre indicati con l’apposito codice tattile a terra, in colore contrastante per gli ipovedenti», rilevano. Stesso problema per il semaforo. In corso di Porta Venezia mancano guide tattili a terra: affidarsi all’intuito? Fermare un passante? «Si pensa che il dispositivo sonoro risolva tutto, ma per attivare il pulsante di chiamata devo prima raggiungere il semaforo». Intanto fioriere, cartelli pubblicitari, moto, costringono chi cammina con il bastone a uno zig zag continuo e improvviso. Nuovo pericolo a pochi passi dall’ingresso del parco.

C’è la ciclabile, ma come scoprirlo? «Le bici sono mezzi silenziosi e veloci: è fondamentale segnalarne il passaggio». Nello stesso momento, Guido Marchetto e Paolo Parimbelli testano l’accessibilità nella nuova zona di Porta Garibaldi. E provano a individuare la fermata di un mezzo pubblico. Impossibile, senza un aiuto. «Basterebbe poco: guide a terra e segnalazione sonora, come all’estero», dicono. Expo è oramai dietro l’angolo, ma potrebbe essere il punto di partenza.

© 2024 Eddyburg