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«Processo veloce. Le divergenze con le difese sono nell'ultimo anello: in sostanza i fondi neri c'erano, ma nessuno degli imputati ammette di averli presi». la Nuova Venezia, 30 giugno 2017 (m.p.r.)

Venezia. La pena più pesante è per l'ex ministro An alle Infrastrutture Altero Matteoli: 6 anni. E poi: 5 per l'imprenditore romano Erasmo Cinque, 4 per l'ex presidente del Magistrato alle Acque Maria Giovanna Piva, 3 per l'imprenditore Nicola Falconi, 2 anni e 6 mesi per l'architetto Danilo Turato, 2 anni e 4 mesi per l'ex presidente di Adria Infrastrutture Corrado Crialese, 2 anni e 3 mesi e 1 milione di multa per l'ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, 2 anni e 500 mila euro di multa per l'ex europarlamentare di Forza Italia Lia Sartori. Inoltre: la confisca dello stipendio e delle somme dei collaudi per Piva; del profitto di 33 milioni 960 mila euro oltre alle somme ricevute per Matteoli e Cinque. Queste le richieste di condanna della Procura di Venezia - 27 anni e 1 mese complessivamente per 8 imputati accusati a vario titolo di corruzione e finanziamento illecito - dopo cinque ore di requisitoria nell'ambito del processo per le tangenti del Mose. «Si tratta di fatti gravi perché hanno riguardato una delle opere pubbliche più importanti del nostro Paese e gli episodi sono durati anni», ha spiegato il pm Stefano Ancilotto, «Nel conteggio si è tenuto conto dei fatti e delle pene di chi ha patteggiato».

Processo veloce.
Ancilotto ha esordito con un ringraziamento al presidente Stefano Manduzio e alle difese per l'equilibrio e la velocità del processo scongiurando così i rischi prescrizione. Tutto è stato scandagliato, ha aggiunto il pm Stefano Buccini, «nessun fantasma aleggia sul processo, nulla è rimasto incompiuto». A garantire la velocità ha sottolineato Ancilotto entrando nel merito delle accuse, è la presenza di alcuni punti fermi. Punti fermi che costituiscono l'impianto del "sistema Mose", durato 10 anni. Si tratta delle frodi fiscali, dei fondi neri alimentati dalle aziende del Consorzio Venezia Nuova, della rete di relazioni del presidente del Cvn Giovanni Mazzacurati sia con i politici locali che con quelli nazionali e dai fatti di grave corruzione «che hanno riguardato destra e sinistra, potere centrale e locale». Le divergenze con le difese sono nell'ultimo anello, ha sottolineato Ancilotto: in sostanza i fondi neri c'erano, ma nessuno degli imputati ammette di averli presi.
L'attendibilita degli accusatori.
Ad accusare sono in molti, tutti ritenuti attendibili dalla Procura. «La collaborazione è frutto non di pentimenti, ma di un interesse processuale», ha messo le mani avanti Ancilotto, «vi è una ricostruzione da parte di persone che arrivavano da mondi diversi e che erano portatori di interessi diversi. Eppure si sono trovate d'accordo nel ricostruire un sistema univoco».
Il sistema e il suo padrone.
Al centro del "sistema Mose" c'era il presidente Mazzacurati, padrone assoluto del Consorzio Venezia Nuova che «grazie all'attività di corruttela si è assicurato un flusso di denaro continuo, l'assenza di controlli e di opposizione al progetto», ha affermato Ancilotto. La "filosofia" di Mazzacurati è stata così riassunta dal pm: corrompo a livello nazionale e locale perché non si sa come cambieranno le maggioranze politiche, mentre l'opera rimane. L'ingegnere è per la Procura perfettamente attendibile quando bel 2013 rende i suoi interrogatori. E decide di collaborare «perché capisce che è finita un'epoca, ancora una volta è arrivato prima degli altri». Le rivelazioni che fa non sono dettate dall'astio: «Fa fatica a usare il termine di mazzetta, tutt'al più parla di oliare il meccanismo», ha sostenuto il pm, «questo non è l' atteggiamento di chi vuole ferire». La sua, secondo la Procura, è un'attendibilità intrinseca ed estrinseca visti i patteggiamenti che ci sono stati.
Le pene più pesanti per Matteoli e Cinque.
La richiesta più severa della Procura è per l'ex ministro Altero Matteoli che, secondo l'accusa, subordinò la concessione dei fondi per le bonifiche di Porto Marghera al fatto che nel Consorzio entrasse la Socostramo, società del suo compagno di partito Erasmo Cinque «al quale Matteoli era completamente soggiogato», ha detto Ancilotto. E ancora: «Il ministro era totalmente asservito agli interessi del Cvn». Lo dimostrerebbe in particolare la lettera con la quale autorizzava l'affidamento diretto dei lavori per la bonifica di Porto Marghera (anziché procedere con gara), rispondendo a una lettera di chiarimenti di Piva che aveva dubbi su come assegnare i fondi ottenuti dalla transazione Montedison (versò i soldi per l'inquinamento causato). «Con questa autorizzazione il ministro "si sporca le mani"», ha detto Ancilotto, «E la condotta del ministro va oltre: sollecita fondi a Tremonti e a Berlusconi».
Maxi risarcimento.
Otto milioni di euro, uno per ogni imputato, è la somma a titolo di risarcimento chiesta dall'Avvocatura di Stato, parte civile, avvocato Simone Cardin, per grave danno d'immagine, danno alla collettività e danno da sviamento. Si tratta della provvisionale, quindi della somma da versare subito: quella complessiva andrà quantificata dal tribunale.

Passata la bufera per i 35 arrestati dello scandalo MoSe. «Tutti liberi». Ma c'è di peggio. la Nuova Venezia, 4 giugno 2017 , con postilla

Lo tsunami porta la data del 4 giugno 2014 e spazza via il mondo della politica veneta. È la terza ondata di arresti, 35, da quando è scoppiato uno dei più gravi casi di corruzione in Italia, quello sulle tangenti del Mose. Un lavoro di indagine difficilissimo - vista la dimensione dello scandalo, la durata e gli intrecci - e per il quale la Procura veneziana ha schierato i suoi pm di punta.

Chiusa l'indagine per corruzione

Ora, nel terzo anniversario, la Procura mette a segno un importante risultato: la chiusura del troncone della maxi-inchiesta sulla corruzione e finanziamento illecito a carico dei "Grandi Accusatori" che finora avevano patteggiato solo per le false fatture. Per l'ex ad della Mantovani Piergiorgio Baita e per l'ex segretaria di Galan nonché ad di Adria Infrastrutture Claudia Minutillo, si va verso il processo. Inevitabile invece lo stralcio per Giovanni Mazzacurati le cui rivelazioni sono state decisive per scoperchiare il verminaio tangentizio: l'ex presidente del Consorzio Venezia Nuova soffre di una grave forma di demenza. Una decina, complessivamente, gli indagati: tra gli altri l'ex dirigente Cvn Pio Savioli e l'ex responsabile amministrativo della Mantovani Nicola Buson. Con l'avviso di chiuse indagini, ora in fase di notifica agli avvocati, i pm Stefano Ancilotto e Stefano Buccini, fanno luce sull'ultimo capitolo del Mose.
Sentenza a settembre
Ma c'è un secondo risultato che porta a casa la magistratura veneziana nel terzo anniversario della maxi-retata: la chiusura entro settembre del processo contro gli otto indagati che hanno scelto di non patteggiare: dall'ex sindaco Giorgio Orsoni all'ex ministro Altero Matteoli, dall'ex europarlamentare Lia Sartori all'ex Magistrato alle Acque Maria Giovanna Piva. Nell'udienza della scorsa settimana sono stati esauriti i testimoni, in quella di giovedì prossima ci sarà la lettura integrale - così come chiesto dalle difese - dei verbali di interrogatorio di Mazzacurati: oltre 300 pagine che ricostruiscono il sistema di corruttela costruito attorno all'opera che dovrebbe salvare Venezia dall'acqua alta e che ha finito per prosciugare le casse pubbliche a favore di tasche private.
Com'è finita: tutti liberi
Nel frattempo che fine hanno fatto i 35 arrestati? Tutti liberi. Mazzacurati si è ritirato nella sua villa in California e soffre di demenza, ma ha avviato un'azione legale contro Cvn per chiedere i compensi mancanti; Baita scrive libri sulla corruzione e gira le librerie facendo il pienone; Minutillo vive tra Veneto e Toscana e si sta curando per alcuni problemi di salute. L'ex governatore Giancarlo Galan si dedica a tempo pieno alla figlia, o almeno così assicura, mentre il suo commercialista Paolo Venuti ha visto scadere lo scorso 20 maggio la sospensione dall'Ordine. L'ex vicedirettore Cvn Teresa Brotto ha ottenuto dal giudice una sentenza che dichiara illegittimo il suo licenziamento.

postilla

Eppure non è questo la scandalo più grave. Ancora più gravi due scandali neppure toccati da una indagine preliminare della magistratura. (1) Lo scandalo di aver avviato, progettato, confermato, convalidato e condotto un'operazione (Il MoSE) che fin dall'inizio si sapeva sarebbe stata inutile, dannosa, rischiosa, enormemente dispendiosa per il contribuente. (2) Aver contemporaneamente e parallelamente condotto un'operazione di coinvolgimento e corruzione della maggior parte delle istituzioni amministrative, culturali, professionali della società veneziana (e.s.)

Anche Italia Nostra reagisce allo scandaloso tentativo dell'Università Iuav e del Mit di far risparmiare alle imprese del Consorzio Venezia nuova i soldi dovuti per il ripristino dell'ambiente deturpato. La Nuova Venezia, 23 maggio 2017

Venezia. Un esposto alla Corte dei Conti perché gli 11 ettari di cemento armato dell’enorme piattaforma “temporanea” realizzata a Santa Maria del Mare, a Pellestrina, siano effettivamente smantellati - come previsto - dopo la realizzazione del Mose e non vengano spesi altri soldi pubblici per riconvertirli in mini porto off-shore, né tantomeno ospitino per tre anni gli studenti di Iuav e Mit di Boston per un progetto sul riuso dei luoghi, come invece prevede un recente accordo tra il commissario del Consorzio Venezia Nuova Ossola e lo Iuav.

A firmare l’ennesima denuncia “attorno” al Mose è Italia Nostra, nelle settimane in cui il presidente del Porto, Pino Musolino, ha annunciato la progettazione di un nuovo scalo per grandi navi porta-container nell’area della conca di navigazione in bocca di porto di Malamocco, e lo Iuav ha siglato con il Consorzio il progetto “Reinventing places, Venice Mose. Studio in un sito temporaneo tra mare e Laguna”, per trasformare la piattaforma in un villaggio dove gli studenti possano progettare in loco il recupero del “dopo cantiere”.
«Progetti che ci sorprendono», commenta Lidia Fersuoch, presidente di Italia Nostra Venezia, «ricordando che lo stesso presidente del Provveditorato alle opere pubbliche, Linetti, ha preso posizione per dire come “in quell’area già problematica per la navigazione, vista la presenza delle paratoie del Mose e della conca, aggiungere altre navi potrebbe aumentare i problemi”». «Questa enorme piattaforma di cemento è stata costruita in un ambiente oggetto di vincoli paesaggistici e ambientali, priva di tutte le autorizzazioni», prosegue Fersuoch, «La Commissione europea aprì una procedura d’infrazione contro lo Stato, risoltasi nel 2009 con un’archiviazione “per ragioni di opportunità” perché lo Stato si era impegnato a fare delle opere di compensazione ambientale. Nella lettera di messa in mora si ribadiva che si trattava di un’opera temporanea, e che sarebbe stata rimossa conclusisi i lavori. Dieci anni dopo il Mose è ancora in fieri e se andrà bene sarà consegnato nel 2022. Il cantiere però è già in dismissione e i luoghi devono essere ripristinati da ora».
«Quello era l’impegno solennemente preso con i cittadini dal presidente della Regione, dal presidente del Magistrato alle acque, dal concessionario unico dello Stato: poco importa che tutti tre siano stati poi arrestati, rappresentavano lo Stato», conclude Italia Nostra, «le garanzie che i luoghi sarebbero stati ripristinati costituiva un formale impegno con Venezia, il sindaco, gli abitanti di Pellestrina, defraudati della bellezza della loro isola. Erano opere non autorizzate in aree vincolate, imposte al territorio con la forza in virtù della loro temporaneità».

Riferimenti

Vedi su eddyburg: Summer school Iuav nel villaggio MoSE

«Mantovani, Fincosit e Condotte contrari al salvataggio per avere più spazio nei futuri (e costosissimi) lavori di mantenimento al sistema di dighe mobili. Stanno tornando i "soliti nomi". la Repubblica, 23 maggio 2017, con postilla

Con il nuovo Piano industriale di Thetis che dovrà essere predisposto per il rilancio della società in base a quanto deciso pochi giorni fa dall’Assemblea dei soci, si riaprono i giochi anche per i lavori e le manutenzioni del dopo-Mose all’Arsenale. Se infatti, sotto la spinta determinante del commissario del Consorzio Venezia Nuova Giuseppe Fiengo - con l’appoggio indiretto anche del provveditore alle opere pubbliche Roberto Linetti e del Comune, presente con l’assessore alle aziende Michele Zuin, visto che la partecipata Actv è in Thetis con circa il 6 per cento del capitale - si è fermato lo smantellamento della società di ingegneria e tecnologia ambientale e la deriva dai licenziamenti, l’opposizione arriva dall’interno.

A opporsi infatti all’approvazione del bilancio consuntivo 2016 e soprattutto alla predisposizione del nuovo Piano industriale in assemblee sono state le imprese private storiche del Consorzio, come Mantovani soprattutto, ma anche Condotte e Fincosit che detengono circa il 25 per cento delle quote. Tra i soci, con una quota di minoranza, c’è anche la stessa società dell’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova Giovanni Mazzacurati. Ma è soprattutto la Mantovani la più ostile al “salvataggio” di Thetis perché la vede - se rilanciata - come una possibile concorrente nella partita ancora tutta da giocare dei lavori di manutenzione e infrastrutturazione che seguiranno l’entrata in funzione effettiva del Mose.

Per essere in pista, infatti, la Mantovani ha creato da pochi mesi una nuova società: la Sereco (acronimo di Serenissima Costruzioni). Il percorso che ha portato alla nascita della Sereco attraverso il conferimento del ramo d’azienda da parte di Mantovani prevede il trasferimento di 172 lavoratori, più almeno altri 22 tra quelli oggi in Cigs e che hanno sottoscritto il verbale di conciliazione.

Come si ricorderà alla fine dell’anno scorso l’azienda aveva chiesto il licenziamento per 170 lavoratori che poi invece, con mediazione di sindacati e governo erano stati ammessi alla Cassa integrazione straordinaria. La Mantovani ha dunque tutto l’interesse a tirarsi fuori da Thetis avviandola alla messa in liquidazione, per poi candidarsi con la “sua” Sereco ad un nuovo ruolo da protagonista all’Arsenale.

Come la genovese D’Appolonia - che ha avuto tra l’altro l’incarico per la predisposizione del nuovo Piano regolatore del Porto di Venezia, con uno staff di circa 700 tra ingegneri e professionisti, distribuiti in 20 uffici operativi in tutto il mondo - che si era già fatta avanti informalmente per acquistare Thetis, quando la volontà era quella di mettere in vendita la società portata all’Arsenale dalla Tecnomare e poi passata sotto il controllo del Consorzio Venezia Nuova.

postilla


Non si sa quanto questa macchina infernale costerà per essere completata. Non si sa se funzionerà, non si sa quanto costerà per la sua manutenzione. Non si riesce a capire perché nonostante tutto continui a succhiare quattrini. Non sarebbe giunta l'ora di fare un lungo e argomentato elenco di quanti hanno promosso, sostenuto, propagandato questa ignobile truffa, nonostante le reiterate, argomentate, documentate denunce? possibile che nessuno sia mai punito, o almeno additato al pubblico ludibrio, per questa gigantesca truffa?

Lo scandalo infinito. Ma al di lò del fiume di soldi finiti nel troiaio della corruzione, amcor più grande lo scandalo dell'oceano di soldi dissipato per un'opera inutile e dannosa. L'Espresso, 17 aprile 2017

Dopo le dimissioni il commissario straordinario Magistro si confessa con l'Espresso. E svela il sistema delle dighe mobili: costi aggiuntivi, finanziamenti in ritardo e un processo penale che ha colpito solo la punta dell'iceberg. Risultato? L'inaugurazione slitta almeno a fine 2021

Luigi Magistro, commissario governativo uscente del Consorzio Venezia Nuova (Cvn), ha tre costole rotte per una brutta caduta. Non c’è molto da fare. Si aggiustano da sole. Nel frattempo, sono dolori. C’è un parallelismo parziale con quello che è stato il lavoro di Magistro negli ultimi due anni e quattro mesi. Anche il Mose presenta guasti e procura dolori. Ma non si aggiusta da solo. Ci vogliono interventi, saldature, sostituzioni. È chirurgia infrastrutturale di precisione e costa soldi. Chi li metterà?

Le imprese socie del Cvn, il Golem privato creato dai soldi pubblici che sta costruendo le dighe mobili a salvaguardia della laguna, non intendono provvedere di tasca propria. Lo Stato latita, paralizzato da due imperativi categorici opposti. Il primo dice: basta emorragie finanziarie in laguna. Il secondo, per dirla con Luciano Spalletti, è: famo ’sto Mose.

Mentre a Roma sfogliano la margherita, Magistro si è dimesso a fine marzo, come ha anticipato la Nuova Venezia. Nelle motivazioni ufficiali date dal commissario c’è scritto «motivi personali», una causale che copre parecchio terreno. Fatto sta che l’ex protagonista di Mani Pulite, colonnello della Finanza, direttore dei Monopoli di Stato e dell’Agenzia delle Entrate, 57 anni, ha quasi finito di lasciare le consegne agli altri due commissari straordinari del Consorzio: Francesco Ossola, docente al Politecnico di Torino, e Giuseppe Fiengo, avvocato dello Stato.

A quanto trapela da ambienti dell’Anticorruzione, guidata da Raffaele Cantone, Magistro non sarà sostituito. Accetta di parlare con L’Espresso a una condizione. «Non vorrei che ci fosse una lettura negativa della mia uscita», dice. «I miei due colleghi sono persone molto capaci e ho lavorato benissimo con loro».

Ma se Magistro ha lavorato bene, come ha fatto, è difficile dare una lettura positiva. Nella triade dei commissari era soprattutto lui quello che, per formazione e storia, doveva fermare la corsa dei costi provocata da anni di corruzione. Era il gatto che doveva impedire ai topi di ballare. La controprova è arrivata poche ore dopo le sue dimissioni quando le imprese del Cvn, composto dalla padovana Mantovani, dai romani del gruppo Mazzi e di Condotte e da piccole aziende locali, hanno chiesto allo Stato 366 milioni di costi aggiuntivi. Il motivo? Ritardi nei finanziamenti pubblici.

Non è l’unico contenzioso, tutt’altro. Le stesse imprese che, manager più manager meno, sono responsabili del disastro hanno avviato una decina di liti contro lo Stato e contro i rappresentanti del governo. E viceversa. Soltanto nell’ultimo bilancio, Magistro, Fiengo e Ossola hanno chiesto agli azionisti del Cvn oltre 100 milioni di danni per un lungo elenco di malversazioni, dalle fatture false utilizzate a scopi corruttivi ai 61 milioni di euro per i leggendari massi importati dall’Istria e pagati come pepite d’oro.

«Non so nemmeno io quante cause abbiamo in piedi», dice Magistro. « So che da quando sono commissario i soci del Cvn mi hanno impugnato tre bilanci su tre: 2014, 2015 e 2016. Con i tempi della giustizia italiana ci vorranno dieci anni per sapere se ho ragione io oppure loro. Bisogna chiedersi se questo tipo di intervento dello Stato, in un contesto in cui la funzione pubblica non ha una grande forza, sia efficiente. Una cosa è il commissariamento della Maltauro per l’Expo 2015, con un appalto da 42 milioni di euro che andava portato a termine in tempi rapidi per una manifestazione limitata nel tempo. Altra cosa è il Mose, un sistema enorme, con moltissime imprese e con una prospettiva di gestione a lungo termine».

Una squadra che si vendeva le partite

Cantone ha spiegato con efficacia la posizione del governo sulla vicenda delle dighe mobili a margine di un incontro tenuto a Vicenza che aveva come tema principale il lancio della Pedemontana veneta, un’autostrada da 3,1 miliardi di euro. Il numero uno dell’Anac, negando che ci siano stati contrasti dietro l’uscita di Magistro, ha sottolineato che la priorità è «fare ripartire il sistema» e «siglare un nuovo patto con le imprese». Non sarà semplice.

Magistro è entrato in carica a dicembre del 2014 dopo il commissariamento del Cvn voluto dal governo Renzi sull’onda dei 35 arresti di sei mesi prima e firmato dall’allora prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro.
Per avere un’idea di quello che è stato il suo lavoro e il suo ruolo bisogna immaginare un allenatore mandato a guidare una squadra di calcio che si vendeva le partite e che deve concludere a tutti i costi il campionato senza possibilità di cambiare formazione, mentre i giocatori fanno causa sia al mister sia a quello che ha messo i soldi: il contribuente, in questo caso.

Non pochi soldi, bisogna aggiungere. Il prezzo delle dighe mobili è arrivato a 5,493 miliardi di euro ma l’insieme delle opere deliberate per la salvaguardia della laguna veneta raggiunge quota 8 miliardi. Di questa somma, restano da investire ancora 500-600 milioni.

Il sistema delle dighe mobili è stato lanciato a fine anni Ottanta, durante la Prima Repubblica. Ma i soldi veri sono arrivati a partire dall’inizio del secolo, con la legge obiettivo del governo Berlusconi e una previsione di completamento nel 2011. Due anni dopo, nel 2013, quando il Mose aveva già sforato la consegna, la magistratura ha incominciato a colpire i protagonisti del sistema, a partire dal manager di Mantovani, Piergiorgio Baita. La seconda ondata di arresti nel 2014, con il coinvolgimento del presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati, dei politici locali e nazionali e dei controllori del Magistrato alle acque, non hanno certo accelerato i tempi.

Fino allo scorso mese di marzo, il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio aveva fissato al 30 giugno il termine delle opere alle quattro bocche di porto. Niente da fare anche stavolta.

Pochi giorni fa è stato pubblicato il nuovo cronoprogramma ufficiale, con un annuncio congiunto firmato dai commissari e dal Provveditorato per le opere pubbliche del Veneto (nuovo nome dato dalla coppia Renzi-Delrio allo storico Magistrato alle acque).

Il termine dei lavori alle bocche di porto è stato spostato in avanti di sei mesi (31 dicembre 2018). La realizzazione degli impianti definitivi passa al giugno 2020 e la consegna delle opere è fissata al 31 dicembre 2021. L’inizio della gestione, che costerà almeno 80 milioni di euro all’anno rispetto ai 20 previsti, parte quindi dal Capodanno 2022.

Sono date attendibili? No, perché al momento mancano 221 milioni sui 5.493 di prezzo chiuso fissato dopo anni di revisioni che hanno più che raddoppiato i preventivi di spesa dai 2,4 miliardi originali. La somma non è stata stanziata nemmeno nell’ultima Legge di bilancio e, se il finanziamento non esiste, le date sono virtuali. In questo modo, lo Stato presta il fianco alle rivendicazioni delle imprese private che possono accollare la colpa dei ritardi alla parte pubblica.

Inoltre, in assenza di una linea di finanziamento per la manutenzione, tutto il sistema rischia di pagare pesantemente in termini di costi aggiuntivi. Un esempio? Le dighe di Treporti sono già in acqua da tre anni e mezzo con una manutenzione prevista ogni cinque anni. È molto probabile che debbano essere revisionate prima che il sistema entri in funzione.
Se entrerà in funzione.

Catastrofe nucleare

Il nuovo rinvio nel completamento del Mose è stato rivelato all’opinione pubblica in poche righe di comunicato che solo i media locali hanno riportato. Ma perché il Mose è in ritardo? Di chi è la colpa e chi dovrà pagare il conto di questo ennesimo rinvio?

Il Mose ad alto rischio può affondare Venezia

Le dighe mobili per la difesa della città lagunare somigliano sempre di più a un rottame: l'Espresso anticipa la perizia commissionata dal Ministero delle Infrastrutture. Il documento rivela il pericolo di cedimenti strutturali per la corrosione e per l'uso di acciaio diverso da quelli dei test

L’attenzione del governo, dal Mit all’Anac, nei confronti del Mose è parsa in calo di recente e questo ha forse influito sulla scelta di Magistro, anche se lui non conferma. Delrio, oberato dalla crisi Alitalia, ha delegato il grosso dei controlli al nuovo Provveditore, Roberto Linetti, nominato alla fine di novembre del 2016. Cantone si è concentrato sullo scandalo degli appalti Consip.
Intanto Magistro e i suoi due colleghi hanno dovuto affrontare la maggiore crisi tecnica da quando si parla di Mose quando L’Espresso ha anticipato la perizia metallurgica firmata dall’ex docente padovano Gian Mario Paolucci per conto del Provveditorato. In nove pagine Paolucci ha esposto i rischi, molto elevati, che le cerniere, lo snodo dove si inseriscono le paratoie applicate ai cassoni, siano danneggiate dal lavoro micidiale dell’ambiente marino.

Magistro, Ossola e Fiengo hanno ordinato una serie di perizie e ispezioni che hanno ridimensionato il problema. In parallelo, è partita una campagna strisciante per dire che la perizia Paolucci è destituita di fondamento, che difetta di informazioni e che, qui si dice e qui si nega, Paolucci ci ha capito poco.

Mose, il gioco trentennale delle perizie

Dopo che l’Espresso ha pubblicato il documento choc che indicava le cerniere delle dighe lagunari a rischio corrosione, i responsabili della grande opera sono corsi ai ripari con una controperizia in tempi record. Una pratica ricorrente nella storia dell'infrastruttura

Il perito metallurgico ferito nell’onore ha incassato con signorilità. Il punto è che, se il perito ha ragione sulle cerniere, è «la catastrofe nucleare», come dice una persona molto vicina al progetto. Non oggi, non domani, forse fra qualche anno, ma il Mose è da buttare.
Politicamente in questo momento nessuno, a destra o a sinistra, si può permettere un disastro che porta la firma congiunta di tutti i partiti esistenti tranne i grillini, troppo giovani per avere partecipato al grande happening lagunare.

Come la stessa perizia Paolucci si augurava, «l’unica cosa da fare è sperare che i danni che certamente si saranno verificati sui connettori femmina di Lido, San Nicolò, Malamocco, Chioggia, siano contenuti». Senza mettere in discussione le controperizie, la cronaca non lascia ben sperare. Finora tutto quello che si poteva guastare nel sistema Mose si è guastato.

Il catalogo è questo. I tensionatori si sono già arrugginiti anche se dovevano durare 50 anni e anche se, secondo il professor Ossola, materiali che durano 50 anni non ci sono nemmeno su Marte. Cambiarli tutti costerà 20 milioni. Per sistemare i danni alla porta della conca di navigazione di Malamocco ci vorranno 10-12 milioni di euro. Altri 2 milioni se ne vanno per la lunata del Lido crollata alla prima mareggiata poco dopo il collaudo. Un cassone è esploso nel fondale di Chioggia. Problemi assortiti si sono avuti alle tubazioni e alle paratoie.
Infine, la nave jack-up realizzata dal gruppo Mantovani per trasportare le paratoie in manutenzione dalla loro sede alle bocche di porto al rimessaggio in Arsenale ha ceduto al primo tentativo di sollevare una delle barriere e soltanto nelle prossime settimane potrà tornare in azione dopo mesi in officina. Il costo del jack-up è di 52,5 milioni di euro. Il Cvn ne aveva ordinati due (105 milioni in tutto). Il secondo è stato tagliato da Magistro e sarà rimpiazzato da un muletto che costerà intorno ai 10 milioni.

Collaudi e concorsi di colpa

Tutto quello che non ha funzionato era stato regolarmente collaudato dagli esperti convocati dal Ministero delle infrastrutture e pagati decine di milioni.

Sotto il profilo giuridico-amministrativo è un problema gigantesco. Anche se alla conca di navigazione stanno emergendo responsabilità dei progettisti, così come per i tensionatori, il lavoro delle imprese private è passato al vaglio della committenza statale, con esito favorevole.È vero che esistono le coperture assicurative. Ma chiunque abbia avuto un piccolo incidente stradale sa che significa trattare con una compagnia di assicurazioni.

Il vero match è, ancora una volta, fra i commissari del Cvn e i soci del Cvn che, nella peggiore delle ipotesi, puntano a un concorso di colpa. La battaglia sarà durissima e l’ipotesi di Magistro - scontare i costi aggiuntivi dei danni da altre commesse - non sarà di facile realizzazione.

Ma di facile l’allenatore mandato da Renzi, Delrio e Cantone non ha avuto nulla. La squadra gli ha giocato contro fin dall’inizio, chi più chi meno. Fra gli ostili c’è la Grandi Lavori Fincosit del gruppo Mazzi. Con un capitale schermato da due fiduciarie (Istifid e Spafid), dopo l’arresto di Alessandro Mazzi la società si è affidata per qualche mese a un ex boiardo di Stato riconvertito al privato, l’ex Eni, Stet, Autostrade e F2i Vito Gamberale. A gennaio 2016 Gamberale è uscito per cedere il posto all’ex Poste Massimo Sarmi, revocato un mese dopo per incompatibilità con l’incarico alla Milano-Serravalle e sostituito dal manager interno, Salvatore Sarpero.

Più sfumata è la posizione di Mantovani. Il gruppo padovano guidato da Romeo Chiarotto, 87 anni, è stato l’ultimo a entrare nel Consorzio Venezia Nuova rilevando la quota di Impregilo per un prezzo che non è mai stato quantificato in modo esatto. Chiarotto parla di 70 milioni, Impregilo di 50 e nei bilanci della Mantovani se ne vedono 15. Da piccola società di engineering in declino qual era, grazie al Mose Mantovani è cresciuta da 25 miliardi di lire alla fine degli anni Novanta al record di 443 milioni di ricavi nel 2013, seguito dal crollo successivo al commissariamento (186 milioni nel 2015).

Baita, ex azionista di minoranza e manager operativo di Mantovani, è stato il primo a finire agli arresti (febbraio 2013) e il primo a parlare del sistema corruttivo del Mose. Formalmente, è fuori dai giochi intorno al Mose ma forse soltanto formalmente. Chiarotto gli aveva promesso una causa per danni di cui non si è più avuta notizia.

Gestire il mostro

La gestione delle dighe mobili rappresenta un’altra delle difficoltà che la struttura commissariale ha dovuto affrontare senza trovare, al momento, soluzione.

Con Berlusconi al governo, Altero Matteoli al Mit e Galan in regione, il tandem Mazzacurati-Baita aveva predisposto le cose in modo che il business del dopo Mose restasse in house ossia, in parole povere, non uscisse dal perimetro ben presidiato dalle imprese del Consorzio.
Venduta come un affaruccio da poco (20 milioni di euro all’anno che saranno mai?) gestione e manutenzione sono state sottostimate ad arte perché potessero essere affidate alla Comar, un altro consorzio con gli stessi azionisti del Cvn.

Mettere a gara, magari europea, la gestione? Figurarsi. Il principio era che solo i realizzatori delle opere potevano sapere dove mettere le mani alle quattro bocche di porto.

Uno dei primi provvedimenti di Magistro è stato commissariare anche la Comar che, in questo modo, è sostanzialmente uscita dal match. Ma l’idea di conservare la gestione in zona laguna è stata semplicemente trasferita a un’altra società della galassia Cvn. È la Thetis. Controllata dalla Saipem (gruppo Eni) nella fase iniziale del progetto antecedente le privatizzazioni, quando era l’Iri l’azionista di Condotte e nel consorzio c’era ancora Impregilo e non Mantovani, Thetis ha rischiato la chiusura anche quando era pubblica. Poi è stata rilevata dallo studio di ingegneria Mazzacurati e, in fiammante conflitto di interessi, ha prosperato con le commesse che Mazzacurati presidente del Cvn dava a se stesso come proprietario di Thetis.

Mentre Comar aveva pochissimo personale, la Thetis, con sede all’Arsenale, è cresciuta nell’organico fino a oltre 100 dipendenti. Fra questi, c’erano alcuni rampolli illustri come Flavia Cuccioletta, figlia del presidente del Mav Patrizio, che ha patteggiato la pena, o come Eleonora Mayerle, figlia di Giampietro, vice di Cuccioletta.

Magistro puntava a liquidare anche Thetis, dopo Comar. L’obiettivo non è stato raggiunto. Oltre ai figli di padre noto, Thetis ormai è una realtà occupazionale importante, con personale qualificato ed è l’unica società di ingegneria nel centro di Venezia cannibalizzato dal turismo di massa. A difenderla sono intervenuti i sindacati (Filcams-Cgil) e il democrat Nicola Pellicani.

Le mazzette

L’inchiesta penale ha faticato parecchio a districarsi nel sistema delle complicità politiche ad alto livello fra Venezia e Roma. I protagonisti in laguna non andranno neanche a processo. Baita ha patteggiato e, secondo molti, continua a esercitare un ruolo discreto dietro le quinte dell’appalto. Mazzacurati, partito per la California, ha 83 anni ed è stato dichiarato dal medico legale incapace di partecipare al processo a causa di «gravissimi deficit delle funzioni mnesiche a cui cerca di sopperire con la confabulazione ossia inventando la risposta».

Finora fuori dal processo che marcia verso la prescrizione è anche Claudia Minutillo, promossa manager di Adria Infrastrutture dopo essere stata segretaria del governatore forzista ed ex ministro Giancarlo Galan, uno dei pochi condannati eccellenti.

Le cifre sono ancora più eloquenti. A parte gli sprechi e i costi gonfiati che sono ancora da definirsi in termini di danno erariale, il nocciolo finanziario del processo parla di 33 milioni di euro di fatture false utilizzate per tangenti pari a circa metà del valore delle fatture.

Su un investimento pubblico da 8 miliardi di euro, ci sarebbero quindi state mazzette per 15-16 milioni di euro. Più che un processo penale ci sarebbe da distribuire qualche onorificenza al merito di una gestione così onesta, per gli standard nazionali e internazionali. «Credo che queste cifre siano soltanto la punta dell’iceberg», dice Magistro.

Durante la gestione Mazzacurati, il Consorzio produceva costi per circa 40 milioni di euro all’anno scesi a circa un quarto durante la gestione commissariale, con grandi critiche da parte dei soci che hanno accusato i commissari di spendere troppo.

Il solo Mazzacurati, nei suoi anni di regno sul Cvn, ha incassato una somma complessiva di 54 milioni di euro fra emolumenti e una buonuscita da 7 milioni di euro che è anche questa oggetto di contenzioso incrociato fra l’ex presidente, in attesa di ricevere ancora più di 1 milione, e l’amministrazione straordinaria, che vuole farsi restituire tutta la cifra.

Questo elenco di guai senza fine è il motivo per cui gli uomini del governo hanno preferito mantenere le distanze dal Mose, con il risultato forse non voluto di isolare la gestione commissariale. Certo, per l’esecutivo Venezia significa guai. Non a caso il porto offshore per le petroliere, un progetto da 2,2 miliardi di euro già passato per una prima approvazione del Cipe, è stato cancellato dai radar appena uscito di scena Paolo Costa, ex presidente dell’autorità portuale veneziana. «Per fortuna», commenta Magistro. «Il porto offshore non era nemmeno da pensare».

Il commissario uscente chiuderà l’esperienza nei prossimi giorni, subito dopo Pasqua, e si dedicherà a un periodo sabbatico. Il suo commento finale merita di essere riportato. «Quello che ho visto a Venezia non l’avevo mai visto in vita mia. Una spudoratezza totale».
Se lo dice lui.

Facce di bronzo. «Le imprese del Consorzio Venezia Nuova chiedono di tornare all’assegnazione diretta dei lavori, senza gare di appalto, ovvero a quel sistema che ha consentito il proliferare del malaffare».il Fatto Quotidiano online, 19 febbraio 2017 (p.s.)

Lo scontro avviene nello scenario di un commissariamento che le aziende non hanno digerito affatto, perché ha tagliato la catena di potere che orchestrava i grandi affari legati alle paratie mobili che dovrebbero salvare Venezia dalle acque alte.Intanto al processo veneziano hanno fatto irruzione le agende di Giovanni Mazzacurati. Erano in un magazzino del Consorzio, dentro uno scatolone.

Come se non fosse successo nulla. Come non ci fosse stato l’allegro balletto del Consorzio Venezia Nuova attorno al Mose, opera da cinque miliardi e mezzo di euro. Come non ci fossero state le accuse di corruzione ai manager delle società che fanno parte della compagine che negli ultimi quindici anni si è spartita i finanziamenti pubblici. Come non ci fosse il commissariamento deciso per bonificare la situazione all’indomani dello scandalo che nel 2014 ha portato in carcere politici, uomini degli apparati dello Stato, tecnici e portaborse.

Le imprese del Consorzio Venezia Nuova chiedono di tornare all’assegnazione diretta dei lavori. Senza gare di appalto. Senza bandi. Senza offerte e ribassi. Ovvero a quel sistema che ha consentito il proliferare del malaffare, per il semplice fatto che non esistevano controlli sulle opere e sui costi, anche perché i vertici del Magistrato alla Acque dell’epoca erano, secondo i corposi capi d’accusa formulati dalla Procura di Venezia, a libro-paga del Consorzio.

In questo tentativo di far tornare indietro la macchina del tempo, le imprese interessate hanno scritto un «Atto di contestazione di inadempimento e intimidazione». Il mittente è il Covela del gruppo Mantovani, di cui è presidente Romeo Chiarotto, titolare del gruppo stesso. Lo ha fatto per conto anche dei consorzi Italvenezia e San Marco, nonché di Astaldi e Itinera.

I destinatari sono i tre commissari Luigi Magistro, Francesco Ossola e Giuseppe Fiengo, nonché il provveditore interregionale Roberto Linetti (che ha assunto le funzioni dell’ex Magistrato alle Acque), il presidente dell’Anac, l’Autorità Nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone e il prefetto di Roma Paola Basilone, a cui fa riferimento l’amministrazione straodinaria del Consorzio.

La lettera-diffida ricorda che nel 2015 il piano di riparto affidava alle imprese del Cvn lavori per 192 milioni di euro, ma finora ne sarebbero stati assegnati molto meno, circa una novantina. E così le imprese chiedono il rispetto degli impegni presi due anni fa. «E’ una situazione inaccettabile, illegittima, illecita e gravemente lesiva dei nostri diritti».

A sostegno della sua tesi, Chiarotto cita lo statuto del Consorzio che affidava i lavori pro quota-parte alle imprese consorziate.

E cita anche le conclusioni dell’istruttoria europea che una decina di anni fa mise in mora l’Italia per la mancanza di gare pubbliche, salvo poi stabilire che per una serie di interventi andava garantita la continuità ai consorziati, anche perché la responsabilità sul funzionamento dell’opera dev’essere a carico loro. «L’Unione europea – scrive Chiarotto – ha definitivamente escluso che si potesse ricorrere a imprese terze, se non per il subappalto di opere altamente specialistiche per le quali non esistsessero i requisiti tra le imprese consorziate».

Allora la Ue cercò di contemperare una parziale assegnazione diretta con l’obbligo a mettere in gara opere per almeno 720 milioni di euro (obiettivo non ancora raggiunto). Ma se gli appalti tornano ad essere assegnati con il vecchio modus operandi a cui fa riferimento Chiarotto, si riprodurrebbe il meccanismo che tanti guasti ha causato, fino alle aule del Tribunale penale.

E proprio l’Anac, con il commissariamento del Consorzio, voleva porre fine a quel sistema. Anzi, nel 2015 aveva commissariato anche la società Comar, sostenendo che dal 2002 era il braccio operativo del Consorzio per consentire il controllo nell’assegnazione degli appalti. Dopo l’arrivo in autunno a Venezia del nuovo provveditore Linetti, l’ex Magistrato e i commissari avevano progettato di aumentare ancora le quote di lavori da assegnare con gara. Anche per questo Mantovani, Astaldi e Itinera sono uscite alla scoperto.

E’ uno scontro che avviene nello scenario di un commissariamento che le aziende non hanno digerito affatto, perché ha tagliato la catena di potere che orchestrava i grandi affari legati alle paratie mobili che dovrebbero salvare Venezia dalle acque alte. Ma gli arresti hanno costretto le imprese del Cvn a mandare giù il rospo. Adesso, tre anni dopo, cercano di riprendersi parte di quello che hanno perso. Nel Mose del dopo-scandalo ci sono ancora tanti soldi presenti e futuri (ad esempio al gestione del sistema) ed è proprio sulla questione economica che si annunciano gli scontri più aspri.

I commissari hanno deciso da tempo di far causa alle imprese coinvolte nelle inchieste per ottenere un risarcimento di almeno 27 milioni di euro, per inadempienze e pagamenti “in nero”. Si tratta di 18 soggetti diversi, tra cui Mantovani e Condotte. La Procura veneziana ha chiuso da poco il filone di indagine relativo alla vicenda Mose che vede coinvolte direttamente otto imprese (e non le persone fisiche) che hanno lavorato alle barriere mobili o alle opere accessorie per non aver controllato i loro manager che pagavano tangenti per sostenere l’opera a livello politico.

Intanto il processo che si sta svolgendo a Venezia entra in una settimana cruciale. Giovedì l’interrogatorio di due imputati eccellenti, l’ex ministro Altero Matteoli e l’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni. E nel dibattimento fanno irruzione le agende di Giovanni Mazzacurati. Erano in un magazzino del Consorzio, dentro uno scatolone. Contengono le annotazioni di tutti gli appuntamenti dell’ingegnere, già presidente del Cvn e grande regista della corruzione. I pubblici ministeri Stefano Ancilotto e Stefano Buccini, ma anche gli avvocati difensori vi cercano conferme o smentite di incontri e frequentazioni in odore di tangenti.

Riferimenti

Vedi su eddyburg l'articolo di Armando Danella Venezia, il rischio MoSE, che racconta fatti clamorosi che tutti fanno finta di non conoscere. Inoltre i numerosi articoli nelle cartelle dedicate al MoSE nel vecchio e nel nuovo archivio.

La stampa più attenta denuncia i mille pasticci del MOdulo Elettromeccanico Sperimentale, che dovrebbe "salvare" Venezia e la sua laguna. Tutto vero: ma tutti trascurano il rischio più devastante: la risonanza fisica. Ce lo racconta un esperto

Gli ormai frequenti episodi di inconvenienti che si stanno constatando nella fase di realizzazione del Mose rappresentano incidenti di percorso che possono impressionare una opinione pubblica o istituzionale volutamente poco informata ed affascinata da inediti o presunti scoop giornalistici. Una sequenza di notizie che giustamente vengono messe in evidenza da una buona stampa che segnala scenari critici di una attività di cantiere in essere la cui tipologia di incidente può essere ricondotta a correzioni più o meno prevedibili e costose, ma che comunque non scalfiscono l’iter che continuerà a svolgersi con la prosecuzione e conclusione dell’opera.

Sta succedendo, e succederà in seguito, con o senza notizie giornalistiche, azioni della magistratura o controlli amministrativi, quanto era desumibile da tutte quelle critiche scientificamente fondate ed inascoltate esposte fin dal momento del concepimento del Mose (critiche di tipo progettuale, ambientale, procedurale, di cantierizzazione e di gestione) contenute ricordiamo soprattutto nei voti del Consiglio Superiore dei LL.PP (1982 e 1990), nella valutazione negativa di impatto ambientale (1998) e nella forte presa di posizione del Comune di Venezia nel 2006 che questa opera non solo avversava, ma dimostrando tecnicamente i suoi difetti proponeva soluzioni alternative meno impattanti, più funzionali, meno costose, più consapevoli dell’eustatismo in corso e più rispondenti al rispetto di quell’equilibrio idrogeologico ed eco sistemico che gli indirizzi della legislazione speciale indicano.

E va tenuto presente che contemporaneamente a queste connotazioni tecnico-scientifiche cresceva quella vasta area di opinione e di mobilitazione popolare contraria a tale opera che ha conosciuto alti momenti di tensione con occupazioni delle aree di cantiere del Mose, della sede del MAV (Magistrato alle Acque di Venezia), della sala del Consiglio Comunale, delle sede del CVN (Consorzio Venezia Nuova) provocando processi contro i manifestanti con pesanti capi di imputazione. E lo slogan che doveva rivelarsi profetico attribuito al Mose era “ Opera inutile e dannosa utile solo per chi la fa “.

Non c’è da meravigliarsi quindi di cosa ci si può aspettare da una opera di questo tipo, di dimensioni inusitatamente maggiori di quanto avrebbero potuto essere, basata su tecnologie obsolete, concepita con una inutile e pericolosa complessità che ne comprometterà l’efficacia, e con grossi difetti di comportamento dinamico, che ne potranno determinare la perdita di funzionalità operativa. La sua architettura di sistema comporta l’esistenza di una enorme quantità di elementi “ semplici “ interconnessi funzionalmente e soggetti a critiche condizioni ambientali che, nel loro insieme, costituiscono un sistema estremamente complesso, che dovrà operare in situazioni ambientali difficili od estreme, la cui affidabilità necessariamente costituirà un problema nella sua lunga vita operativa e che richiederà una manutenzione continua e costosa. Basti sapere che per garantire la corretta operatività ci sono circa 3000 (tremila) componenti e sottosistemi di comando, controllo, sicurezza e monitoraggio collegati funzionalmente tra loro.

Rimanendo nella logica progettuale del Mose, prescindendo ma confermando che il riconoscimento di quella aprioristica errata impostazione progettuale di carattere idraulico di non voler ridurre permanentemente gli attuali scambi mare-laguna avrebbe impedito la nascita di una simile opera ,si sta assistendo a numerose criticità (paratoie che non si alzano, materiale delle cerniere, detritti nelle sedi di alloggiamento, subsidenza, altezze d’onda che allagano i tunnel, basi di fondazione collassate durante lo zavorramento, ossidazioni delle cerniere/connettori ecc.) che sarebbero tutte meritevoli di approfondimento tecnico che però non è possibile verificare stante la pratica sempre seguita dal CVN e dal MAV di non rendere noti i dati utilizzati durante i lavori di tutti gli elaborati di progetto, con le procedure di analisi, di calcolo, di sicurezza, di collaudo, di certificazione dei materiali ecc, . Sul tema della informazione/trasparenza poi va segnalato che da ormai parecchi anni il Comune di Venezia per precisa volontà politica non si è più dotato di quella struttura della legge speciale deputata a poter fornire alla cittadinanza ogni informazione legata alla salvaguardia ed in particolare a tutto quanto può ruotare attorno al sistema Mose.

Praticamente ancora oggi non è dato conoscere se il progetto esecutivo ha confermato i dimensionamenti del progetto definitivo oppure ci sono state modifiche e di quale entità si tratta; non c’è evidenza delle prove sul modello utilizzate per la progettazione delle paratoie delle tre bocche di porto e di come è stato valutato l’effetto scala ; non sono disponibili i dati del nuovo rapporto meteo che tenga conto della presenza delle lunate aggiunte successivamente al periodo in cui fu redatto il rapporto meteo per il progetto definitivo; non sono noti i criteri di manovra che dovrebbero portare alla decisione di chiusura delle bocche; non si conoscono i costi e le disponibilità finanziarie per la manutenzione e la gestione dell’opera e tanto altro ancora.

Però tutte queste “attenzioni“, questo dilagare di notizie, allarmismi, considerazioni ,smentite,reportage, dichiarazioni, improvvisi interessi sull’andamento dei cantieri del Mose non mettono mai in discussione l’opera, perché alla fine tutto ciò sarà inghiottito e metabolizzato nel proseguimento del Mose.

Si sfugge volutamente da un nodo strutturale che contraddistingue questa opera: affrontare nella sua giusta dimensione quel fenomeno della instabilità dinamica, estrema conseguenza della risonanza, delle paratoie del Mose. Perché esiste uno studio della società francese Principia commissionato a suo tempo dal Comune di Venezia che ha evidenziato un comportamento di instabilità dinamica della paratoia del Mose che ne impedisce una modellazione numerica ed un dimensionamento affidabile.

Con lo studio di Principia le Autorità competenti sono di fronte alla responsabilità di far continuare l’esecuzione di un’opera la cui funzionalità viene messa in discussione da autorevoli considerazioni tecnico-scientifiche mai smentite.

A fronte di tale studio che viene intenzionalmente omesso dal dibattito nazionale ed internazionale o male interpretato per incompetenza o convenienza si chiede ormai da troppo tempo un approfondimento della materia, quale quella della instabilità dinamica, estrema conseguenza della risonanza sub armonica, il cui riscontro, se esiste come evidenziato dallo studio di Principia nel caso della paratoia del Mose, inficerebbe un’opera interamente finanziata con risorse pubbliche il cui costo di realizzazione sfiora i 6.000 milioni di euro unitamente agli esorbitanti costi di manutenzione e gestione. Praticamente potrà accadere che le paratoie oscillano con ampi angoli facendo entrare acqua in laguna vanificando così l’effetto diga al contenimento della marea.

Se a tutt’oggi questo approfondimento non lo si vuole fare, confronto /verifica che si è insistito doversi fare con tecnici specializzati nella “modulazione numerica di sistemi marini complessi che interagiscono tra loro in moto ondoso “, viene da chiedersi, pensando positivo, se i nuovi gestori del Mose (in primis commissari del CVN e Presidente ex MAV) sono in grado di garantire la discontinuità del tanto vituperato sistema Mose.

Armando Danella 11 febbraio 2017

La forte probabilità di una conclusione catastrofica dell'affare MoSE era stata denunciata da tempo, ma nessuno ha voluto procedere a un confronto serio, delle numerose analisi compiute in più momenti e più sedi. Ed è stato costantemente ignorato il rischio più grave: la "risonanza", un fenomeno che fece crollare ponti. Torneremo sull'argomento. L'Espresso, 5 febbraio 2017

«Le dighe mobili per la difesa della città lagunare somigliano sempre di più a un rottame: l'Espresso anticipa la perizia commissionata dal Ministero delle Infrastrutture. Il documento rivela il pericolo di cedimenti strutturali per la corrosione e per l'uso di acciaio diverso da quelli dei test»

Non serve essere ingegneri. Non serve nemmeno avere giocato al Meccano da bambini per capire l’effetto devastante di un documento intitolato “possibili criticità metallurgiche per le cerniere del Mose”. Sono nove pagine firmate da Gian Mario Paolucci, già docente di Metallurgia all’università di Padova. Il rapporto è stato commissionato dal provveditorato alle opere pubbliche di Venezia, braccio operativo del Ministero delle infrastrutture. L’Espresso è in grado di anticipare i contenuti di un testo che rivela nero su bianco per la prima volta i vizi strutturali delle dighe mobili contro l’acqua alta a Venezia.

I problemi visti finora nelle sperimentazioni, dalla paratoia che non si alza alla proliferazione dei “peoci” (cozze, in veneziano) e parassiti vari sul Mose, sono folklore. Un folklore molto caro, perché richiede extracosti nella manutenzione di un’opera che già in fase di realizzazione ha fatto spendere allo Stato 5,5 miliardi di euro rispetto agli 1,6 miliardi previsti. Ma le criticità denunciate da Paolucci vanno molto oltre l’aspetto finanziario.
La corrosione elettrochimica dell’ambiente marino, come altri tecnici avevano annotato durante i tre decenni dalla prima inaugurazione del prototipo in pompa magna a Riva degli Schiavoni (1988), sta già imponendo un dazio pesantissimo e forse irreparabile sulle parti metalliche saldate ai cassoni in cemento alle quattro bocche di porto della laguna. Le cerniere del Mose, il meccanismo che collega la barriera mobile alla base in cemento, sono ad altissimo rischio (probabilità dal 66 al 99 per cento) di essere già inutilizzabili. Ripescarle per sostituirle o ripararle è di fatto impossibile. In ogni caso, sarebbe costosissimo.

Qualche passo scelto del documento?

«C’è la seria probabilità che la corrosione provochi danni strutturali e dunque il cedimento della paratoia». «Abbiamo l’assoluta convinzione che la protezione offerta dalla vernice non sia totale». La mazzata finale sull’opera da 5,5 miliardi di euro, che il ministro Graziano Delrio vuole inaugurare a giugno del 2018, arriva a pagina cinque.

«Il connettore femmina, dal quale dipende il funzionamento delle barriere mobili, costituisce l’anello debole dell’apparato a causa di un mancato controllo ispettivo per la sua intera vita di 100 anni, a meno di una laboriosa e costosa manutenzione straordinaria. Inoltre, la necessità di effettuare tale manutenzione verrebbe segnalata da malfunzionamenti causati da danni ormai avvenuti e talvolta irreparabili. Cioè, quando è troppo tardi. In questo caso, l’unica cosa da fare è sperare che i danni che certamente si saranno verificati sui connettori femmina di Lido, San Nicolò, Malamocco, Chioggia, siano contenuti».

La parola speranza ricorre un’altra volta nel documento. È una parola meravigliosa in molti contesti, ma poco rassicurante se applicata a un’opera di ingegneria idraulica concepita per proteggere una città patrimonio dell’umanità, non per minacciarla e neppure per distribuire mazzette gonfiando costi, com’è accaduto. E a proposito di preventivi gonfiati, il rapporto del professor Paolucci fa scattare più di un allarme. Durante la fase di sperimentazione, i componenti delle cerniere erano fabbricati con materiali di qualità migliore rispetto a quelli impiegati nella produzione di serie.

Il perno di rotazione sottoposto ai test di laboratorio, per esempio, era fatto di ottimo acciaio prodotto dalla Valbruna di Vicenza e lavorato dalla Focs Ciscato di Velo d’Astico. Invece i perni di serie da installare nelle quattro bocche di porto provengono da impianti dell’Europa dell’Est e presentano una lega diversa da quella del prototipo.

Acciaio depotenziato? La risposta spetta ai tre commissari governativi (Luigi Magistro, Francesco Ossola, Giuseppe Fiengo) in carica da due anni alla guida del Consorzio Venezia Nuova (Cvn), dopo la tabula rasa decisa dal governo sul tavolino di imprese private che si sono spartite i fondi della legge speciale con un uso sistematico di corruzione.

Il processo penale ha stroncato la carriera politica del forzista Giancarlo Galan, governatore regionale per 15 anni e poi ministro, del potente ex assessore Renato Chisso, in un primo tempo confermato da Luca Zaia, e ha coinvolto personaggi del calibro di Altero Matteoli, senatore che ha guidato i ministeri dell’ambiente e delle Infrastrutture, e dell’ex sindaco Paolo Orsoni, accusato di finanziamento illecito e non di corruzione come gli altri.

Guadagnare sott’acqua

La perizia del professor Paolucci è stata ordinata da quello che una volta si chiamava Magistrato alle Acque (Mav), in onore della tradizione antica della Serenissima. Il governo di Matteo Renzi lo ha derubricato a provveditorato alle opere pubbliche dopo lo scandalo delle tangenti del Mose, in onore della tradizione moderna per cui se si cambia nome a un problema il problema è risolto.

I lavori sulle cerniere del Mose sono stati affidati dal Cvn alla Fip di Selvazzano (Padova). L’impresa appartiene al gruppo Mantovani della famiglia Chiarotto, principale azionista del gruppo di aziende riunite nel Consorzio, presieduto da Giovanni Mazzacurati. La realizzazione delle cerniere è stata affidata alla Fip senza gara superando dubbi e critiche di alcuni tecnici che propendevano per le cerniere fuse, più resistenti e durature, invece delle cerniere saldate prodotte dalla Fip. Alcuni tecnici che avevano espresso critiche sono stati allontanati sotto la gestione Mav di Patrizio Cuccioletta, poi accusato di corruzione.

Fino al blitz della Procura, il braccio operativo della Mantovani su incarico del patriarca Romeo Chiarotto è stato Pier Luigi Baita. L’ingegnere veneziano, collaborando con i magistrati dopo l’arresto, ha consentito di scuotere un sistema di potere messo in piedi durante la Prima Repubblica, circa un quarto di secolo prima, e rimasto intatto sotto i governi di qualsiasi orientamento.

Oggi Baita è stato messo da parte e i Chiarotto lo hanno sostituito con l’ex questore Carmine Damiano nel tentativo di scaricare la presunta mela marcia e continuare a fatturare con il Mose. L’affare delle dighe mobili ha trasformato la Mantovani in un gruppo di prima grandezza a livello nazionale, anche se non sempre è andata bene fuori dal Veneto, come si è visto nell’inchiesta sulla piastra per l’Expo 2015 che ha coinvolto l’impresa padovana.

Ma il Mose vale molto di più dell’Expo. Rende in termini di forniture per la costruzione e continua a rendere una volta inaugurato, perché promette altri guadagni con la gestione e la manutenzione, in una banda di oscillazione ancora indefinita tra i 50 e gli 80 milioni di euro all’anno. Nelle previsioni iniziali dovevano essere 20 milioni di euro.

I tre commissari del Consorzio hanno sempre detto che la gestione non andrà in automatico ai costruttori. Di fatto, nel breve termine e con i pasticci tecnici già in corso, non ci sono alternative. E bisogna ricordare che un’altra importante mossa strategica dei commissari governativi, cioè il congelamento dei profitti alle imprese del Cvn in attesa delle decisioni della giustizia, è stata vanificata da una sentenza dell’immancabile Tar del Lazio.

Insomma, se il Mose funziona, bene. Se non funziona, meglio perché ci sarà più manutenzione da fare. Resta sempre più attuale la frase-simbolo coniata dallo spirito brillante di Baita. «Il bello del Mose è che i lavori si fanno sott’acqua». Certo, se non funziona affatto o produce danni al delicatissimo sistema lagunare invece di tutelarlo, la questione diventa imbarazzante. La bella opacità dei lavori rischia di trasformarsi in incubo.

Connettore malafemmina

La perizia Paolucci è scritta in modo da essere comprensibile a chiunque e forse proprio la semplicità delle osservazioni è l’accusa più pesante: se un profano può capire il problema, come mai i superesperti non lo hanno capito prima? Ma vediamo di che si tratta.

Il Mose è formato da tre parti principali: i cassoni di ancoraggio in cemento, sprofondati già da mesi alle bocche di porto, le cerniere e le barriere mobili, pronte a sollevarsi per sbarrare la strada all’acqua alta. Per proteggere la struttura dalla micidiale corrosione sottomarina ci sono due sistemi: la verniciatura e la protezione catodica. La verniciatura è soggetta a degrado, scheggiature e danni causati da sabbia e detriti che già si sono verificati. La protezione catodica si realizza attraverso un contatto elettrico con anodi di zinco che si corrodono al posto del ferro e periodicamente vanno sostituiti.

Le cerniere, la parte più delicata, sono dotate di un connettore maschio e di un connettore femmina, due giocattolini da 10 e 26 tonnellate rispettivamente. Il primo è applicato alla barriera e il secondo al cassone. «Paratoia e connettore maschio possono essere riparati e riverniciati con conseguenze solo finanziarie. Il vero problema è il connettore femmina che dovrebbe durare 100 anni senza subire alcuna manutenzione», dice la perizia. Purtroppo, i connettori femmine sono stati tutti inseriti nei cassoni ma «a eccezione di quelli di Treporti, non sono protetti catodicamente perché mancano le relative paratoie dove alloggiano gli anodi di zinco». Il monitoraggio, peraltro, non è stato realizzato neanche a Treporti, dove sono state applicate le paratoie. Nessuno sa se la protezione sia attiva almeno lì.
L’esposizione del connettore femmina («anello debole dell’apparato») alla corrosione a Lido, Malamocco e Chioggia è dovuta ai gravi ritardi nella posa delle barriere che dovevano essere inserite con la nave jack-up, costruita da Comar (Mantovani, Condotte, Fincosit) su progetto Tecnital-Fincosit. Monumento allo spreco da 50 milioni di euro, il jack-up non è mai stato collaudato e giace alla fonda all’Arsenale mentre le dighe vengono applicate con metodi più vecchi, e più lenti.

Processo verso la prescrizione

Oltre a Galan, Baita, Mazzacurati, Orsoni, l’inchiesta penale ha colpito anche il reparto tecnico del ministero delle Infrastrutture, chiamato a vigilare e non soltanto a distribuire incarichi di collaudo per milioni di euro a professionisti e dirigenti statali. I predecessori dell’attuale magistrato alle acque, Roberto Linetti, entrato in carica lo scorso novembre, sono finiti tutti sotto processo. Patrizio Cuccioletta ha patteggiato una condanna a due anni e la Corte dei conti gli ha appena chiesto 2,7 milioni di danno erariale oltre ai 750 mila euro già versati al tribunale penale. Un altro Magistrato alle acque, Maria Giovanna Piva, è ancora a giudizio.

A parte i circa quaranta patteggiamenti, il giudizio contabile potrebbe essere presto tutto quanto rimane della maxi-inchiesta sul Mose e sui manager del Consorzio che sono costati 32 milioni di euro negli anni dal 2005 al 2013. Il record è di 3,2 milioni di emolumenti e lo ha stabilito Mazzacurati nel 2009 cumulando le cariche di presidente e di direttore generale. I tre commissari in carica oggi guadagnano 700 mila euro all’anno in totale.

Il processo penale di primo grado per chi non ha patteggiato potrebbe concludersi in tempi brevi, forse nelle prossime settimane. Ma in appello, a partire dal settembre 2017, scatterà la prescrizione. Fra i salvati, ci saranno Baita, Claudia Minutillo, prima segretaria di Galan e poi manager di Adria infrastrutture (gruppo Chiarotto), e lo stesso Mazzacurati, che non è mai stato nemmeno rinviato a giudizio. L’ex presidente del Consorzio, trasferitosi in California, a quasi 85 anni non sarà in grado di partecipare al dibattimento nemmeno come testimone, essendo colpito da una grave forma di demenza secondo il medico legale Carlo Schenardi. È la conclusione tragica di un’epopea che è nata e rimane sotto una cattiva stella.

«Studio Cnr: mezzo milione di tonnellate di cemento pesano sui fondali. «Nel resto della laguna trend in linea con gli ultimi decenni». Il progetto Mose prevedeva l’abbassamento di 8 centimetri in un secolo». La Nuova Venezia, 15 giugno 2016 (m.p.r.)

Venezia. Mezzo milione di tonnellate di cemento sott’acqua per i cassoni del Mose. E la laguna sprofonda. Lo hanno scoperto i ricercatori del Cnr Luigi Tosi e Cristina Da Lio, che hanno consegnato l’ultimo studio sulla subsidenza dell’Alto Adriatico realizzato con i professori Tazio Strozzi e Pietro Teatini. Secondo gli ultimi rilevamenti affidati a sofisticati sistemi di Gps da satellite, la velocità di sprofondamento è aumentata. «Mentre in quasi tutta la laguna e nelle isole di Burano e Sant’Erasmo il terreno si è abbassato di pochi millimetri, confermando il trend degli ultimi due decenni», scrivono, «nelle tre bocche di porto interessate dai lavori del Mose l’abbassamento registrato è nell’ordine di molti centimetri». Addirittura 7-8 secondo altri rilievi geologici in possesso del Consorzio Venezia Nuova.
Un dato che preoccupa, perché nel progetto originario del Mose, il sistema di dighe mobili contro le acque alte, l’eventualità di uno sprofondamento era prevista, ma limitata a 8 centimetri nel prossimo secolo. Studiosi e ricercatori non amano le polemiche. «Siamo certi che i progettisti hanno previsto la modifica dei fondali», si limitano a dire gli studiosi che hanno firmato l’ultimo rapporto. Ma i numeri parlano chiaro. E indicano la certezza che l’enorme peso delle strutture in calcestruzzo destinate a sostenere le 78 paratoie ha già prodotto degli effetti sull’equilibrio dei fondali lagunari. Fenomeno previsto, assicurano gli ingegneri. Che proprio per sostenere il peso del cemento avevano conficcato centinaia di pali lunghi 35 metri sui fondali sabbiosi delle bocche di Lido, Malamocco e Chioggia.
Un assestamento è senz’altro previsto, ma per adesso gli 8 centimetri che si dovevano perdere in un secolo sono già stati persi in poco più di due anni. Aggiunti alla subsidenza naturale (circa 2 millimetri nell’area regionale) e all’eustatismo, cioè l’aumento del livello dei mari già evidente, potrebbe rappresentare un problema. Ma soprattutto, fanno notare i critici del progetto Mose, impone un controllo serrato sull’efficacia del progetto.
Due anni fa la storia del Mose aveva subito una brusca virata. 35 arresti per l’inchiesta della Procura di Venezia, partita da un accertamento fiscale delle Finanza. Una rete di corruzione e di malaffare venuta alla luce, che aveva rivelato connessioni tra singoli e apparati dello Stato. Pochi mesi dopo il presidente dell’Autorità nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone aveva chiesto e ottenuto dal prefetto di Roma il commissariamento del Consorzio Venezia Nuova, pool di imprese istituito con la seconda Legge Speciale del 1984 che ha in regime di monopolio la salvaguardia della laguna e la realizzazione del Mose.
Il commissario Luigi Magistro ha avviato una grande inchiesta interna, scoprendo molte irregolarità e ottenendo, un anno dopo, anche il commissariamento della Comar srl, società per la gestione degli appalti di proprietà degli stessi azionisti del Consorzio, la padovana Mantovani e le romane Condotte e Grandi Lavori Fincosit. Verifiche sono state avviate anche dal punto di vista tecnico dal commissario Francesco Ossola, dopo la serie di incidenti che aveva funestato l’avvio della fase operativa del Mose: lo scoppio di un cassone sul fondale a Chioggia, il crollo della diga foranea al Lido e l’allagamento di un altro cassone a San Nicolò, il danneggiamento della conca di navigazione a Malamocco. Adesso altre verifiche dovranno essere fatte - e in parte sono già in corso - sulla struttura del sistema Mose e sulla sua tenuta, la manutenzione, la gestione e il rischio della subsidenza. Adesso diventato una certezza.

I maggiori esperti di subsidenza marina gettano l'allarme sulla sempre più ridotta differenza tra il livello delle terre emerse rispetto a quello del mare. Pesante incidenza negativa hanno avuto il MoSE per il bacino lagunare veneziano e la centrale di Porto Tolle per il delta del Po. La Nuova Venezia, 2 giugno 2016 (m.p.r.)

L’Istituto di scienze marine del Cnr, in uno studio presentato a Venezia con i maggiori esperti al mondo di subsidenza costiera, evidenzia una significativa eterogeneità nella perdita di altimetria del suolo rispetto al livello del mare nei vulnerabili ecosistemi della laguna e del delta del Po. Se la laguna e la città sono stabili, il fenomeno aumenta nel sistema deltizio fino a 20 millimetri l’anno. Le bocche di porto della laguna, relative al progetto Mose sperimentano cedimenti di oltre 30 millimetri l’anno, la centrale elettrica di Porto Tolle di oltre 15.

Venezia è la città più nota nel mondo riguardo alla problematica della subsidenza relativa, cioè la perdita di altimetria del suolo rispetto al livello del mare dovuta alla combinazione di abbassamento del terreno e innalzamento del mare. Laguna e delta rappresentano quindi ecosistemi molto vulnerabili: la pianura costiera che li circonda è generalmente soggiacente il livello marino, anche di oltre 4 metri e il rischio idrogeologico e ambientale associato è particolarmente elevato, con rischi di inondazione e desertificazione.
La ricerca è finanziata dal Progetto Bandiera “Ritmare - La ricerca italiana per il mare” e i risultati del monitoraggio sono stati ottenuti processando le immagini acquisite dal satellite Cosmo-SkyMed (banda X) dell’Agenzia spaziale italiana (Asi) e dal satellite Alos-Palsar (banda L) dell’Agenzia spaziale giapponese Jaxa. L’Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche (Ismar-Cnr) di Venezia e l’Università di Padova sono impegnati nello studio e nel monitoraggio della subsidenza di quest’area da oltre 40 anni.
«Lo studio evidenzia, ancora più che negli anni passati, la significativa eterogeneità delle velocità di subsidenza a scala regionale e locale», spiega Luigi Tosi dell’Ismar-Cnr. «Dal settore centrale della laguna, stabile, il fenomeno aumenta in direzione nord e sud, con valori massimi nel delta del Po. I valori possono raggiungere 8 millimetri l’anno nel bacino lagunare e 20 nel delta; le aree agricole prossime alla costa sono soggette a valori tra 2 e 10 millimetri». La città ha una relativa stabilità. «La subsidenza media è di 1,2 millimetri, con valori fino a 2-4. L’altimetria del suolo rispetto al livello del mare, ormai molto ridotta, la rende estremamente vulnerabile ad ulteriori abbassamenti, anche minimi», avverte il ricercatore.

«Oggi si apre una fase processuale importante. Ma c’è ancora molto da scoprire. Su come la politica abbia tenuto in piedi un sistema che alla fine le è sfuggito di mano». La Nuova Venezia, 22 ottobre 2015 , con postilla

«Un sistema al capolinea». Così scrivevano i giornali all’indomani degli arresti per lo scandalo Mose, il 5 giugno 2014. Una «bomba» esplosa a inizio estate, che per la prima volta metteva in discussione quello che per quasi trent’anni è stato il «pensiero unico». L’inchiesta che ha cominciato a far luce su un mondo fino ad allora poco esplorato.

Nei periodi d’oro il monopolista della salvaguardia, il Consorzio Venezia Nuova, aveva voce in capitolo su tutte o quasi le cose importanti che succedevano in laguna. Finanziamenti, lavori sempre alle stesse imprese, nomine di consulenti e addirittura di ministri e sottosegretari. Funzionari dello Stato da promuovere, o da bocciare perché «non graditi», dirigenti della Regione ben disposti, anche se non necessariamente corrotti. Una grande rete di consenso per la megaopera finanziata con i soldi pubblici che ha sempre annullato ogni critica.
Lo scandalo Mose dunque non sta soltanto negli episodi di corruzione o di finanziamento illecito, in parte già accertati e oggi in attesa delle decisioni di un giudice. Ma nella ideazione di un sistema di potere che sembrava eterno ed invincibile. Che aveva come obiettivo la realizzazione delle dighe mobili, ma forse ancora di più la circolazione del denaro e i «benefici» sotto varie forme per i fedelissimi. Santi in Paradiso in Regione, dove Giancarlo Galan ha governato indisturbato per 15 anni; a Roma, in Parlamento, negli uffici tecnici. Continuità assoluta tra i governi Prodi-D’Alema e Berlusconi. Ma soprattutto pareri blindati. Positivi, quasi sempre, al più con qualche «prescrizione» facilmente superabile. L’elenco è lungo, e basta scorrere i giornali dell’epoca per accorgersi che le voci critiche non erano poi molte.
Chi si opponeva (Italia Nostra e i comitati, qualche ingegnere e un paio di geometri, pochi giornalisti) veniva citato per danni. Era passata la parola d’ordine «Salvare Venezia». Le dighe unico sistema, opera «salvifica» che aveva succhiato tutti i finanziamenti della legge Speciale, lasciando la città... all’asciutto. Ignorando secoli di cultura e di storia della laguna, principi di precauzione e la stessa Legge Speciale che voleva la grande opera «sperimentale, graduale e reversibile». Riducendo il Magistrato alle Acque a un ruolo di passacarte, poco controllore e spesso «collaboratore del controllato».
Ai presidenti dell’Ufficio dei Lavori pubblici - in testa gli indagati Cuccioletta e Piva - ma anche a molti dirigenti della prestigiosa istituzione erano garantiti collaudi milionari. Nella lista dei collaudi era finito anche Angelo Balducci, ex presidente del Consiglio Superiore dei Lavori pubblici poi arrestato per lo scandalo del G8. Il Consorzio organizzava anche «sopralluoghi» in laguna, con barche ed elicotteri, per giornalisti stranieri, tv e dirigenti dello Stato. Molti consulenti del Consorzio erano chiamati a far parte del «Comitato Tecnico di Magistratura». Organismo dipendente dal Magistrato alle Acque che dava i pareri a tutti i progetti.
Il Comune era escluso dalla partecipazione. Così la commissione di Salvaguardia, le commissioni tecniche. I cinque «esperti internazionali» nominati dal governo Prodi (ministro Baratta) nel 1995. Anche loro avevano promosso il Mose pur con qualche prescrizione. A fermare la grande opera, definita «inutile e dannosa» da comitati ed esperti, non era bastata la Valutazione di Impatto ambientale negativa (1997), poi impugnata al Tar e superata dal Consiglio dei ministri in sede politica. E nemmeno i rilievi della Corte dei Conti. Un dossier-sentenza del giudice Antonio Mezzera che denunciava le tante stranezze del sistema di Salvaguardia negli ultimi vent’anni – costi aumentati e mancanza di confronto fra le alternative, commistione controllori-controllati – era stato tenuto in un cassetto per mesi. Poi pubblicato, ma senza alcun effetto. Così le procedure di infrazione europee.
Il Consorzio monopolista continuava a dettar legge. Forte delle normative che gli garantivano i lavori senza gare d'appalto (concessione unica), dei finanziamenti, del 12 per cento di oneri (su sei miliardi fanno circa 700 milioni), dei fondi neri utili per creare il consenso. E, spesso, i controlli fatti in casa. Zone oscure dove adesso si accendono i riflettori dei tre commissari mandati dal presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. Che hanno ridotto le spese e scoperto molte «stranezze» nel sistema Mose. Ma la strada è in salita. Oggi si apre una fase processuale importante, pur in assenza dei protagonisti principali della corruzione, a cominciare dal «grande accusatore» Giovanni Mazzacurati. Ma c’è ancora molto da scoprire. Su come la politica abbia tenuto in piedi un sistema che alla fine le è sfuggito di mano.

postilla
La corruzione é certamente un aspetto rilevante dell'affaire MoSE: dimostra l'infimo livello di moralità dei corrotti (scelti dagli elettori per rappresentare gli interessi dei più), e il trasferimento del potere reale dalla politica a un'economia, quella capitalistica, basata sullo sfruttamento. Ma colpisce molto che venga trascurato l'errore più grave della politica e della cultura: non aver compreso quando si decise e via via si confermò il MoSE, e ancor oggi non si comprende, che cosa la Laguna di Venezia sia e come il MoSE (e non solo lui) la stia distruggendo. Su eddyburg trovate numerosi documenti che vi spiegano perchè a come: basta che digitiate MOSE sulla finestrella sensibile che trovate in cima a ogni pagina.

Piano piano, tutti i nodi vengono al pettine. Per fortuna c'è la magistratura, ma peccato che i danni provocati dai decisori vengano rivelati post factum, e che i danni li paghiamo noi e i nostri posteri. Il Fatto quotidiano, 1° ottobre 2015

Giuseppe Fiengo è uno dei tre amministratori scelti in accordo con Cantone dopo gli arresti: “In tutti gli incidenti che stanno capitando al Mose ci accorgiamo che chi doveva fare il lavoro non l’ha fatto”, dice a ilfattoquotidiano.it. Dalla rottura di un cassone all’avaria di una nave di supporto sui cui ora indaga la Procura di Venezia. Intanto, dopo la cura, i costi di gestione del consorzio tracollano. “Stiamo continuando i controlli sugli appalti”. E restano i dubbi sulla diga: le bocche di navigazione non sarebbero adatte all’accesso dei portacontainer. Corsa per rispettare la scadenza del 2018

Il mandato dei tre commissari – Giuseppe Fiengo, Luigi Magistroe Francesco Ossola – messi a capo del Consorzio Venezia Nuova, guidato fino all’arresto l’anno scorso da Giovanni Mazzacurati, è di quelli da far tremare le vene ai polsi: ultimare i lavori del Mose e fare pulizia del sistema che ha drenato in tangenti, secondo l’inchiesta della magistratura, una cifra intorno al miliardo di euro, uno dei più imponenti sistemi corruttivi della storia repubblicana. D’altronde il decreto di commissariamento del Consorzio dice espressamente come la “disciplina dei tempi, dei costi, delle modalità esecutive, della qualità delle opere del Mose è risultato costantemente condizionato dagli accordi corruttivi”.

Il “lavoro di pulizia” dei commissari sta già dando i suoi frutti: nel bilancio 2014 del Consorzio, gestito dai commissari di Cantone, risaltano vigorosi tagli come al funzionamento della macchina interna al Consorzio stesso dove da 45-50 milioni le spese sono state ridotte a 15. Nuove imprese, fuori dal giro dei “soliti noti”, come la croata Brodosplit, si sono aggiudicati lavori importanti. Gli appalti da gestire con nuove regole sono oltre duecento. Fiengo fa capire chiaramente che il lavoro è solo agli inizi: “La magistratura ha colto perfettamente i passaggi di soldi che costituiscono la corruzione”, racconta. “La domanda è: da dove arrivano i soldi? Con quale meccanismo gli appalti creano questi fondi con cui si basa la corruzione? Oggi stiamo cercando pian piano di metterlo in luce il meccanismo e correggerlo”.

Fiengo non vuole entrare nei dettagli: “Abbiamo avvertito l’Autorità anticorruzione, dobbiamo fare degli ulteriori controlli, stiamo lavorando a un rapporto”. Ma racconta di come funzioni il sistema funzioni anche dopo che l’Unione europea ha imposto al Consorzio di appaltare alcune gare: “Con gli appalti è ancora peggio”. E come questi meccanismi abbiano garantito le plusvalenze per la corruzione, “soprattutto al Consorzio Venezia Nuova più che alle imprese. E da qui si comprende la potenza di Mazzacurati”.

La legge speciale per la salvaguardia di Venezia del 1994, infatti, stabiliva che gran parte delle risorse, dovessero essere affidate a ununico concessionario, successivamente identificato nel Consorzio Venezia Nuova. Nei fatti veniva consegnato a un pool di imprese costituito ad hoc il monopolio di studi, progettazione e realizzazione delle opere. Solo nel 2002 la Commissione europea ottiene dall’Italia l’impegno a mettere a gara una parte delle forniture per le opere. Il Consorzio si troverà così a gestire, prima dell’arrivo dell’inchiesta della magistratura e dell’arrivo dei commissari, qualcosa come 9 miliardi di euro di cui solo 6 impiegati nella costruzione del Mose. Il Consorzio Venezia Nuova è oggi partecipato dalle maggiori ditte italiane di costruzione: laFincosit, Condotte, Mazzi, Impregilo, Mantovani e da una serie di consorzi e di cooperative. Tutti soggetti che nella vecchia gestione non avevano certo un ruolo di secondo piano e che sono stati coinvolti nell’inchiesta della magistratura. I lavori del Mose sono ad oggi completati al 90 per cento.

Oggi i commissari si trovano nella difficile situazione di dover far lavorare le imprese per concludere l’opera e nello stesso tempo cambiare le regole del gioco a cui le imprese stesse erano abituate. Di fronte al loro arrivo e all’avvio dell’operazione trasparenza, le aziende “hanno fatto resistenza passiva. Sono sconvolte da questa nuova impostazione”. Spiega ancora Fiengo: “Ci abbiamo messo mesi a studiare il sistema, un meccanismo borderline, asseverato dagli organi di controllo, dalla Corte dei conti, un meccanismo che fa perno sull’intermediazione. Noi speravamo fosse solo questo, ma cominciamo ora a vedere che questo meccanismo ha portato a delle falle, a delle criticità nella realizzazione delle opere”.

Una delle “criticità” citate dal commissario potrebbe avere delle conseguenze clamorose: ancora non è chiaro infatti quali tipi di navi possano effettivamente approdare al porto di Venezia con il Mose in funzione. Le conche di navigazione costruite appositamente non accoglierebbero i portacontainer che oggi abitualmente arrivano. “C’è stata incertezza nella fase di progettazione nel definire quale era la nave tipo che dovesse approdare. Incertezza significa esecuzione distorta dei lavori, poi si è pure rotta la porta di accesso” sottolinea Fiengo.

I commissari devono usare anche molta diplomazia: “Difficile dire se i problemi sono nati in fase di studio, di progettazione o di esecuzione e stabilire di chi è la responsabilità. Interloquiamo con soggetti molto attrezzati, con buoni avvocati” sottolinea ironico l’ex avvocato dello Stato. “Comunque siamo ben sostenuti dal prefetto di Roma, da Cantone e anche dal ministro – racconta Fiengo – le volte che le imprese hanno provato ad alzare la testa siamo stati supportati”.

Il commissario comunque conferma, con comprensibile prudenza, che “l’obiettivo è chiudere i lavori il 2018 e, per ora, non ci sono fatti che pregiudichino questo impegno. Ci sono tante criticità, ma tutte compatibili con quella data”. Anche sull’ipotesi di un non funzionamento dell’opera Fiengo si dimostra prudente: «Penso di no, il problema reale è un altro, l’opera è molto frammentata e metterla insieme non è facile. E’ stata frammentata sia per motivi tecnici che di ‘distribuzione di risorse‘, si poteva suddividere il lavoro per bocche di porto invece si è suddiviso per segmenti che adesso è complicato assemblare». Ora insomma viene la parte più difficile anche perché, nel cronoprogramma dell’opera, gestito dalla “cricca”, sono stati programmati all’inizio i lavori più lucrosi e, comunque, quelli che riguardavano l’utilizzo del cemento si cui avevano più professionalità interne, «lasciando alla fine gli impianti, gli appalti più ‘magri’, più difficili».

C’è poi chi pensa che si debba riflettere se completarla o meno: “Il problema è che l’input che hanno ricevuto i commissari è quello di portarla a termine – ragiona il senatore Felice Casson, ex sindaco della città – mentre non è mai stata fatta un’analisi tecnico-scientifica indipendente che valutasse la fattibilità dell’opera. Anzi, quando questa analisi è stata fatta dalla Commissione di Valutazione d’impatto ambientale ha dato esito negativo. Ora di fronte agli incidenti che stanno emergendo – prosegue Casson – sarebbe bene fare una seria valutazione se davvero l’opera dev’essere completata anche alla luce dei costi per la gestione e la manutenzione”.

“Il Mose era e rimane un’opera complessa e mai collaudata in nessuna delle sue parti e tanto meno mai sperimentata in funzione – racconta Andreina Zitelli che di quella commissione Via è stata membro – i malfunzionamenti e le deficienze costruttive saranno poi resi più evidenti dalla cattiva esecuzione delle singole parti che a quanto sta emergendo dall’inchiesta e dagli incidenti sono state oggetto anche di frode esecutiva a scopo di lucro”.

E poi, ammesso che l’opera funzioni, a chi andrà la gestione e la manutenzione dopo il 2018? “Tipico caso italiano: sono stati previsti i soldi per l’opera e non per la gestione”, conclude Fiengo. “Gestione che dovrà comprendere anche la laguna. Si tratta di un unico sistema complesso che non si può suddividere. Per adesso ci hanno chiesto di formulare delle ipotesi”.

Riferimenti

Al MoSE eddyburg ha dedicato molta attenzione e ha raccolto moltissimi documenti, soprattutto nella vecchia edizione del sito. Li potete trovare qui. Altri li trovate tra gli scritti di Luigi Scano, in questa cartella.

«Dello scandalo non si discute più, ma è costato 280 mila euro al giorno per dieci anni. A voler fare un confronto, per i migranti stiamo pagando molto meno: 100 mila euro. La Nuova Venezia, 26 agosto 2015 (m.p.r.)

VENEZIA. La parola Mose è sparita da molto tempo dai giornali e dalle tv e di conseguenza dai discorsi delle persone, sostituita dalla parola profughi. Era già successo in campagna elettorale, quando lo scandalo più grosso degli ultimi vent’anni è stato surclassato, oltre che dal problema profughi, anche dai referendum per l’autonomia e l’indipendenza del Veneto. Con il bel risultato che si è visto: un nobile argomento di cui nessuno parla più, esclusi l’avvocato Mario Bertolissi che se ne occupa per lavoro e il suo collega Alessio Morosin per vocazione. Una meteora.

Peggio: una foglia di fico, che la classe politica veneta tira fuori ogni volta che deve coprire realtà scomode. Aiuta a scantonare. Perfino di Mafia Capitale si parla molto più che dello scandalo Mose. Non a Roma, dove si spiegherebbe, ma in tutta Italia, dove si spiega meno. Il «fatturato criminale» di Mafia Capitale con annessi e connessi va poco oltre 100 milioni di euro, se non abbiamo capito male: il Consorzio Venezia Nuova ne distribuiva 100 all’anno in tangenti, sovrafatturazioni, finanziamenti ingiustificati, sprechi. Ed è andato avanti per dieci anni. Un miliardo in totale.

Curioso che Confindustria nazionale si sia costituita parte civile nei confronti di Mafia Capitale mentre Confindustria Veneto non ha fatto altrettanto per lo scandalo Mose. Un’altra foglia di fico? La cosa andrebbe approfondita. Tutto invece resta nascosto dalla parola profughi, l’unica che tiene banco. Non solo per la paura ancestrale del diverso, per l’ingenua assurda pretesa di fermare un fenomeno epocale vietandolo. O anche sparando. I profughi arrivano perché altri sparano loro addosso, non hanno niente da perdere e continueranno a venire. Ma più di tanti, in condizioni decenti, non ce ne potranno stare. C’è l’impenetrabilità dei corpi, c’è l’insopportabilità ambientale. E ci sono i costi che il sistema Paese deve sopportare per ospitare, anche solo provvisoriamente, questa umanità allo sbando.

Questioni concrete, la demonizzazione non c’entra. L’Italia paga fino a 35 euro al giorno per profugo ospitato. Ne è nata una canea, come se i 35 euro finissero nelle tasche dei profughi, mentre in realtà vanno agli italiani che siglano la convenzione per ospitarli, dunque tornano in circolo nell’economia spicciola del Paese. Al profugo restano due euro e mezzo al giorno. Non sono neanche tutti soldi italiani. In gran parte provengono da un fondo europeo. Resta il fatto che nel maggio 2011, in un momento di massima pressione migratoria, la Fondazione Moressa di Mestre aveva stimato un costo-profughi nel Veneto pari a 100.000 euro al giorno (base 40 euro a persona).

Siete impressionati? Facciamo un confronto con lo scandalo Mose: in 10 anni il Consorzio Venezia Nuova ha fatto sparire un miliardo di euro, destinandolo al «fabbisogno sistemico», come lo chiamava l’ingegner Piergiorgio Baita. Significa 280.000 euro al giorno, sottratti incessantemente, per dieci anni, non all’Unione europea ma alle tasche dei veneti. E non solo da Piergiorgio Baita ma da una compagnia di giro imperniata sull’ingegner Giovanni Mazzacurati che arrivava ai ministeri romani, coinvolgeva magistrati, avvocati, commercialisti, grandi manager, ex ministri, personaggi dell’alta finanza, militari. La crema delle professioni liberali. L’ossatura dell’organizzazione sociale del nostro Paese. Quelli che ci dicono che dobbiamo rispettare le leggi, i primi corrotti.

Quel denaro non è tornato in circolo nell’economia spicciola del Paese. Per la maggior parte è finito su conti privati. Ecco perché 280.000 euro al giorno, rubati per 10 anni tutte le mattine, all’insaputa dei contribuenti, fanno meno rumore di 35 euro stanziati alla luce del sole per ogni profugo. Una gigantesca operazione amnesia avvolge la vicenda Mose. Conviene a troppi.

A rompere il silenzio arrivano solo le interviste negazioniste di Giancarlo Galan, che rinchiuso a Villa Rodella non ce la fa a stare zitto. Bisognerebbe ringraziarlo per i rischi che corre ogni volta che parla. Già si è dato la zappa sui piedi con la Cassazione, che gli ha anticipato l’udienza sul ricorso contro il patteggiamento vanificando i termini della carcerazione preventiva. Così è rimasto agli arresti. Non contento, ha fatto sapere che con i 5.000 euro che la Repubblica continua a passargli, al posto dello stipendio intero di 12.000 da parlamentare, non riesce a pagare la bolletta dell’Enel e deve tener spento il condizionatore. Per fortuna che s’è messo a piovere. Il tempo, almeno quello, si è rotto.

«Perché nella lista dei collaudatori di una diga ci sono almeno sette persone che sono state ai vertici all’Anas, e almeno 36 (trentasei) dirigenti dello stesso ministero? Cosa c’entrano un magistrato e un esperto di conti nel collaudo di una diga?». Corriere della Sera, 1 luglio 2015 (m.p.r.)

Cinque miliardi e 493 milioni di euro: fa impressione soltanto a scriverla, la cifra. Ma nel conto astronomico del Mose di Venezia, il sistema delle dighe mobili concepito per difendere la laguna dall’acqua alta investito anch’esso dallo scandalo della corruzione, si trovano numeri ancora più strabilianti. Sapete quanti sono i collaudatori che sono stati impegnati nella difficile missione di verificare la bontà e la correttezza dei lavori? La lista completa messa a punto dai commissari che gestiscono ora il Consorzio Venezia nuova contiene 130 nomi. Avete letto bene: centotrenta. Se però a questi si sommano quanti per il medesimo Consorzio hanno collaudato lavori lagunari minori collegati al Mose, arriviamo a 316. Trecentosedici, per compensi totali di 19 milioni 818.524 euro e 76 centesimi, dei quali 14,2 per il Mose e il resto per le opere in laguna. È bene precisare che si tratta di incarichi antecedenti scandalo e commissariamento. Alcuni dei nomi più vistosi, per giunta, erano già noti. Lo sguardo d’insieme, tuttavia, apre ora uno squarcio su una delle pratiche più raccapriccianti in voga nel mondo dei lavori pubblici. Tutto legale, s’intende. Ma non per questo meno sconcertante. E scorrendo l’elenco sterminato del Mose vengono in mente tante domande.

La prima: perché nella lista dei collaudatori di una diga ci sono almeno sette persone che sono state ai vertici all’Anas, l’azienda pubblica che si occupa di strade? C’è l’ex amministratore Pietro Ciucci, accreditato di un compenso di 762 mila euro. C’è anche uno dei suoi predecessori: Vincenzo Pozzi, con un milione 127 mila euro. Ci sono poi Piero Buoncristiano (562 mila), Francesco Sabato (394 mila), Alfredo Bajo (244 mila), Massimo Averardi (242 mila) ed Eutimio Mucilli, nominato un paio d’anni fa amministratore delegato della società Quadrilatero Marche Umbria (223 mila). Senza contare l’architetto Mauro Coletta (321 mila), che all’Anas si occupava delle concessionarie autostradali e dal 2012 è passato in forza al ministero delle Infrastrutture. Circostanza che introduce la seconda domanda. Perché fra i collaudatori di un’opera pubblica sulla quale vigila quel ministero ci sono almeno 36 (trentasei) dirigenti dello stesso ministero? Tutto legale, anche qui. Ma come non vedere un conflitto d’interessi grande come una casa, anche alla luce dei 4 milioni 850.282 euro attribuiti a quell’esercito di burocrati? Conflitto non dissimile, peraltro, per gli ex dirigenti dell’Anas retribuiti da un Consorzio a cui partecipano imprese che hanno fatto anche lavori per l’azienda pubblica delle strade.
Qualche nome dei collaudatori ministeriali? Marcello Arredi, ex capo del personale del ministero (259.697 euro il compenso previsto). Luigi Minenza (268.405 euro). Walter Lupi (195.209). Francesco Errichiello, nominato nel 2012 superconsulente per l’Expo 2015 di Milano (294.376). Francesco Musci, fresco di nomina a presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici (404.197). Bernadette Veca (405.654). Maria Pia Pallavicini (562.154). Nell’elenco figura pure l’attuale presidente del magistrato delle acque di Venezia, l’autorità che sovrintende al Mose, Roberto Daniele: 400.671 euro. Va detto che di quelle somme i dirigenti ministeriali ne percepiscono una parte. Il resto va in un fondo comune. Ma si tratta comunque di cifre considerevoli. Qualcuno di loro, inoltre, arrotonda con i collaudi delle opere minori in laguna. Per esempio Arredi, a cui spettano altri 48.703 euro. O Donato Carlea, che può sommare ai compensi per il Mose (179.853 euro) altri 50.219 euro. Oppure Saverio Ginetto Savio Petracca, con 61.068 euro dal Mose e 6.481 dai lavori lagunari. Nome, quest’ultimo, che evoca un interrogativo: sarà lo stesso Saverio Ginetto Savio Petracca dell’Udc che si è candidato con il centrodestra alla Provincia di Campobasso nel 2011 e con il centrosinistra al Comune di Campobasso tre anni dopo?
Non che nella lista, sia chiaro, manchino i tecnici. Ci sono almeno un paio di espertissimi in materia ferroviaria, quali Carlo Villatico Campbell (565.549 euro) ed Emilio Maraini (94.117 euro): già altissimo dirigente delle Fs ai tempi di Lorenzo Necci, impegnato nella partita dell’alta velocità al fianco di Ercole Incalza, fino a qualche mese fa dominus del ministero delle Infrastrutture. E si trova perfino un geometra, Gualtiero Cesarali (301.004 euro). Fatto che aveva indotto la Corte dei conti a chiedere chiarimenti al predecessore di Daniele, quel Patrizio Cuccioletta travolto dall’inchiesta sul Mose e la corruzione. Sentendosi rispondere: «Vista la presenza degli altri due membri laureati non si ha motivo di dubitare sulla qualificata preparazione della Commissione». I dirigenti delle Infrastrutture non sono gli unici burocrati pubblici ad aver goduto di questo singolare beneficio. Ci sono per esempio due esponenti del Tesoro, come l’ex capo di gabinetto dei ministero dell’Economia Vincenzo Fortunato (552.619 euro) e Mario Basili, revisore dell’Agenzia italiana del Farmaco (99.027).
Si arriva così alla terza domanda: che cosa c’entrano un magistrato e un esperto di conti nel collaudo di una diga? Non è roba da ingegneri? Certo. Se non ci fosse però un trucco che consente di moltiplicare all’infinito il numero degli incarichi e i compensi. Legale, ovvio. Ma sempre un trucco è. Si chiama collaudo tecnico amministrativo: una invenzione della burocrazia per cui non si verificano soltanto la solidità e l’efficienza di un’opera, ma anche le procedure e i prezzi. Insomma, si collaudano le carte. Il più delle volte tutto si risolve in una firma sotto una relazione magari già scritta o assemblata con il copia-incolla. E qui ci fermiamo.
Non prima però di aver raccontato l’ultima chicca. Arrivati al Consorzio Venezia nuova, i commissari hanno scoperto che era stata già costituita la commissione per il collaudo finale di tutta l’opera. E da chi era composta? Da tre persone: Fortunato, Ciucci e Pozzi. Un magistrato (Fortunato), un esperto di finanza (Ciucci) e un solo ingegnere (Pozzi). Le nomine sono state immediatamente revocate. Ma Fortunato non ha abbozzato. Per 15 anni magistrato del Tar, ha impugnato la revoca davanti al Tar, che l’ha rigettata indicando la competenza del giudice ordinario.

Si cominciano a misurare gli effetti del MoSE, i cui lavori hanno già sconvolto equilibri antichi, provocato modifiche disastrose dell’ecosistema, della fauna e della flora, determinato uno squilibrio idraulico pericoloso per la stessa sopravvivenza della Laguna. Una ragionevole Grande Opera sarebbe la demolizione del MoSE e il ripristino della situazione preesistente. La Nuova Venezia, 1° maggio 2015

La laguna è un colabrodo. E nella bocca di porto di Malamocco la corrente e le modifiche dovute ai lavori del Mose hanno scavato buche profonde fino a 50 metri. Una “Fossa delle Marianne” in piena laguna. Che sconvolge equilibri antichi, provoca modifiche dell’ecosistema, della fauna e della flora. E uno squilibrio idraulico pericoloso per la stessa sopravvivenza della laguna. Un timore da tempo avanzato dai pescatori e dagli esperti di morfologìa lagunare. Adesso documentabile, con le fotografie scattate da un appassionato chioggiotto dall’ecoscandaglio a bordo della sua barca.

Nei pressi del Faro Rocchetta, agli Alberoni, il fondale un tempo abbastanza piatto e omogeneo presenta adesso voragini impressionanti. Entrando dal mare in bocca di porto lo strumento segnala dapprima una profondità media di 12-14 metri, con punte di 15. Poi, improvvisamente, all’altezza della conca di navigazione, ecco le prime buche di oltre 30 metri. Si risale a 27,9, poi di nuovo una “fossa” e si precipita a 43,8. Entrando verso il canale dei Petroli, proprio davanti al Faro Rocchetta, nuove buche oltre i 40 metri.
È l’area dove per costruire il Mose e la vicina conca di navigazione il Consorzio Venezia Nuova aveva costruito un terrapieno in sassi. La modifica delle profondità per la posa dei cassoni sul fondale e geotessuti per mantenere nel punto dove saranno posate le paratoie una profondità omogenea, hanno prodotto più avanti le nuove profondità. La forte corrente in entrata, che “sbatte” contro la nuova penisola, e più in generale lo scavo e la modifica dei fondali produce ogni giorno trasformazioni. Da tempo ambientalisti e studiosi lanciano l’allarme. La laguna perde ogni anno circa un milione di metri cubi di sedimenti. Significa che con la marea se ne vanno in mare pezzi importanti della morfologia lagunare e delle barene. Trasformazioni che hanno prodotto un’accelerazione della corrente in entrata al Lido e una velocità maggiore di propagazione. Mentre la corrente calante (dozana) ha una velocità minore.

Secondo alcuni tecnici è anche colpa delle nuove lunate costruite al largo del Lido e di Malamocco. Che hanno anch’esse modificato la circolazione delle acque e delle correnti. Ecosistema in pericolo, dunque. Già nel 2002 l’Atlante della laguna, edito dall’assessorato Ambiente del Comune, segnalava le zone “rosse”, giudicate in pericolo di erosione. Barene che scompaiono, canali sempre più profondi. Da allora nulla si è fatto. E i lavori del Mose hanno nel frattempo aggravato la situazione.

Ieri a Torino è stato consegnato il dossier dall’associazione Ambiente Venezia: «Lesi i diritti dei cittadini, ignorate le critiche». Comitati sul piede di guerra anche per quanto riguarda il canale Contorta, altra «grande opera». La Nuova Venezia, 15 marzo 2015

Un esposto sul Mose al Tribunale permanente dei popoli. Si riaccendono i riflettori sulla grande opera. Ieri a Torino una delegazione dell’associazione «Ambiente Venezia» ha consegnato al presidente del Tribunale Franco Ippolito un esposto che chiede l’apertura di un procedimento. «Per accertare», si legge nel documento firmato da Armando Danella, Luciano Mazzolin, Stefano Micheletti e Stefano Fiorin, «se nell’iter del progetto Mose siano stati rispettati i diritti dei cittadini».

Il Tribunale dei popoli – di cui fanno parte i giudici Mireille Fanon Mendes France (Francia), Antoni Pigrau (Spagna), Roberto Schiattarella e Vladimiro Zagrebelsky (Italia) – ha aperto ieri i lavori della sessione dedicata a «Diritti fondamentali, partecipazione delle comunità e grandi opere». Conferenza deedicata alla Tav e alle grandi opere, tra cui il Mose. «Riteniamo che il progetto Mose, in corso di realizzazione», dice Danella, «contenga in sè profili di violazione dei diritti fondamentali che oggi permangono». Tra queste azioni, il comitato include «il contrasto dei movimenti di opposizione e e della comunità scientifica non asservita agli interessi di parte». E le «mancate risposte alle critiche anche circostanziate della pubblica opinione. Soprattutto dopo che la magistratura ha rivelato quel clima malavitoso di corruzione, concussione e finanziamento illecito del Consorzio Venezia Nuova». Infine una «manipolazione e omissione di dati e informazioni per alimentare la continuità dell’errore». I comitati, già autori di altri esposti alla Procura, alla Corte dei Conti e all’Unione europea, chiedono ora che sia il Tribunale internazionale a pronunciarsi. Battaglia che continua, quella sul Mose e sulle garanzie che la collettività chiede per la sua realizzazione e la gestione e manutenzione, che costerà almeno 50 milioni di euro l’anno.
Comitati sul piede di guerra anche per quanto riguarda il canale Contorta, altra «grande opera» proposta dall’Autorità portuale per far entrare le grandi navi in laguna e farle arrivare alla Stazione Marittima dalla bocca di porto di Malamocco. In questi giorni l’Autorità portuale ha inviato al ministero per l’Ambiente le risposte alle 27 pagine di osservazioni della commissione Via. «Risposte esaurienti», secondo il presidente Costa, «per un’opera che si dovrà fare comunque, essendo di pubblico interesse». «L’unica cosa di pubblico interesse è che il governo rimuova il predente Costa», attacca Marco Zanetti di VeneziaCambia2015. Andreina Zitelli ribadisce la richiesta che «vengano pubblicati i 300 file di integrazioni prodotti dal Porto». «È dovere del ministro Galletti, che deve tutelare la laguna e non la crocieristica».

Qui il PDF dell'esposto dell'Associazione Ambiente Venezia

«La galleria inondata è proprio quella che consente la manutenzione di tutto l'impianto delle cerniere delle paratoie». Il Gazzettino, 13 febbraio 2015 (m.p.r.)

L' acqua alta allaga il Mose. Venerdì scorso, durante il picco della marea, ondate di imprevedibile altezza hanno allagato una galleria subacquea del Mose. L'acqua è penetrata attraverso la tromba delle scale e si è stabilizzata ad un'altezza di due metri sui tre che misura la galleria. Il vento piuttosto violento proveniva da bora e di solito da quella direzione le dighe foranee proteggono la laguna e quindi anche il Mose dalle onde del mare in burrasca. Se ci fosse stato vento di scirocco il moto ondoso sarebbe stato certamente più violento.
Sui 6 miliardi spesi per la progettazione e la parziale realizzazione dell'imponente apparato, tutti abbiamo potuto constatare che forse un miliardo manca all'appello, però cinque sono lì a dimostrare l'altissima tecnologia del manufatto. Da quello che si è capito la galleria inondata è proprio quella che consente la manutenzione di tutto l'impianto delle cerniere delle paratoie. Questa inondazione della galleria comunque sta a dimostrare quanto sia difficile in questi casi pensarle tutte.
La nostra viva immaginazione ipotizza anche l'ordine del comando strategico del Mose in previsione dell'acqua alta di venerdì scorso. «Chiudere le paratie!» «Abbiamo un problema» «Cosa?» «L'acqua alta» «L'acqua alta?» «Sì, il tunnel si è allagato e si sono bagnati tutti i relais» Alla piccola gag sarebbe mancato solo l'ex presidente del Magistrato alle Acque, il collaudatore, Cuccioletta che avrebbe detto: «Bene, meglio, così arriveranno i turisti a vedere l'alta marea».

«Hanno fatto "sparire" i 50 milioni destinati alla difesa della città e della sua laguna, sono gli stessi che amministrano la Fondazione beneficiaria dei finanziamenti. Siamo di fronte ad un vero e proprio sistema di potere, lo stesso che è emerso con la vicenda del Mose». La Nuova Venezia, 26 gennaio 2015 (m.p.r.)

Negli ultimi decenni uno dei problemi principali, per Venezia e la sua i laguna, è stato quello delle esigue risorse messe in campo, dai governi nazionali e dalla Regione, per la sua salvaguardia e per il suo disinquinamento. Lo stesso rilancio di Porto Marghera è stato fortemente condizionato da questo problema. Una delle cause principali di tale esiguità di risorse è stato il Mose che ha funzionato come una idrovora, risucchiando tutti gli stanziamenti della Legge Speciale per Venezia che, come si sa, sono serviti non solo a realizzare un'opera faraonica, costosa, dannosa ed inutile, come appunto quella del Mose, ma anche ad ingrassare politici e imprenditori esperti del malaffare.
Mentre si tagliavano le risorse per la salvaguardia di Venezia e il disinquinamento della laguna, la Regione Veneto nel 2003, guidata dal reo confesso Giancarlo Galan, si è permessa di stornare 50 milioni di euro, dai finanziamenti della Legge Speciale per dirottarli verso la Curia di Venezia, allo scopo di finanziare il mega progetto alla Punta della Salute, voluto dall'allora patriarca Angelo Scola, del polo tecnologico-culturale denominato poi Fondazione Studium Marcianum. Tale progetto prevedeva una scuola media, il liceo classico e la facoltà di teologia di livello nazionale. La struttura comprende inoltre 70 stanze per ospitare "studiosi" e "relatori". La Fondazione ha potuto anche godere dei "finanziamenti" del Consorzio Venezia Nuova (CVN), guidato da Giovanni Mazzacurati, per la modica cifra di 1 milione di euro all'anno.
Dunque, mentre gli amministratori locali (Regione Veneto, Comune e Provincia di Venezia) dichiarano di essere con l'acqua alla gola per il taglio dei trasferimenti dal governo centrale, ci siamo permessi di regalare alla Curia di Venezia, che fino a prova contraria e una struttura privata, 50 milioni di euro dei contribuenti. Paghiamo con i nostri soldi scuole e università private mentre le scuole pubbliche vanno letteralmente a pezzi e molti studenti delle famiglie proletarie e della piccola borghesia non riescono a pagare le altissime rette universitarie. Ma vediamo chi sono i protagonisti di questa sporca vicenda. Per farlo basta leggere i nomi dei componenti del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Studium Marcianum.
Ci sono proprio tutti i personaggi che contano, dell'economia e della politica: Gabriele Galateri di Genola, manager di grido, membro dei CdA di diverse grandi società nonché Presidente di Assicurazioni Generali (all'epoca dei fatti non era Presidente della Fondazione ma membro del CdA); i Presidenti della Regione Veneto, prima Giancarlo Galan che fece approvare al Consiglio regionale la delibera del finanziamento di 50 milioni, ora Luca Zaia che sulla vicenda tace; Marco Agostini, Direttore Generale del Comune di Venezia; Giorgio Orsoni, ex sindaco di Venezia; Angelo Pagan e Dino Pistola-to, rispettivamente Vicario Generale e Vicario Episcopale del Patriarcato di Venezia; il Presidente del CVN, prima Giovanni Mazzacurati ora Marco Fabris; Roberto Zuccato, presidente di Confindustria del Veneto; Romeo Chiarotto, proprietario dell'impresa FIP, associata alla Mantovani coinvolta nell'inchiesta Mose; Carlo Fratta Pasini, presidente del Gruppo Banco Popolare; e altri.
Come si vede, coloro che hanno fatto "sparire" i 50 milioni destinati alla difesa della città e della sua laguna, sono gli stessi che amministrano la Fondazione beneficiaria dei finanziamenti. Non voglio qui entrare nel merito dell'inchiesta giudiziaria in corso su questa vicenda, lasciamo fare ai procuratori Carmine Scazano e Giancarlo Di Maio il loro mestiere. Quello che mi preme evidenziare è il fatto che l'insieme dei soggetti coinvolti dimostra, che non ci troviamo di fronte a qualche farabutto, ma ad un vero e proprio sistema di potere, lo stesso che è emerso con la vicenda del Mose.
La vera battaglia non può limitarsi, dunque, alla semplice ricerca delle irregolarità e degli abusi commessi che dovranno essere perseguiti penalmente. Serve una lotta politica di lunga durata per sradicare alla radice le cause di fondo di questo marciume che è generato da questo sistema capitalistico, con la sua sete di profitto e di facile arricchimento. Sono le stesse cause che hanno prodotto la crisi, che scatenano le guerre, che impoveriscono miliardi di persone nel pianeta mentre pochi si arricchiscono in modo vergognoso, che alimentano l'odio razziale e religioso, che finanziano e usano il terrorismo.

Nella città che hanno lasciato volontariamente priva di ogni rappresentanza democratica il potere adesso è gestito direttamente da quelli che fino a ieri comandavano dietro le quinte. A ogni scandalo svelato ne succede un altro. l'Espresso, 9 gennaio 2015

Sei mesi dopo il maremoto giudiziario, i gattopardi del Mose si riprendono Venezia. La mano di vernice del commissariamento deciso da Raffaele Cantone, presidente dell'autorità anticorruzione, non ha cambiato di una virgola gli equilibri interni al Consorzio Venezia Nuova (Cvn), concessionario unico incaricato di realizzare il sistema di dighe mobili a protezione della laguna. Non è bastata l'espulsione dal sistema di Giovanni Mazzacurati, dominus del Cvn, e di Pierluigi Baita, ex manager-azionista della Mantovani cioè dell'azienda che guida il Consorzio. Né è stata sufficiente l'ondata di patteggiamenti concessi ai politici, dall'ex governatore Giancarlo Galan all'assessore di Galan e di Luca Zaia, Renato Chisso.

In una situazione di vuoto politico, con la città senza sindaco almeno fino a maggio dopo le dimissioni dell'indagato, Giorgio Orsoni, il nuovo e sorprendente protagonista degli affari in laguna è l'incontenibile prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, amico del piduista e piquattrista Luigi Bisignani, nonché cinghia di trasmissione di chi ha spadroneggiato sui sei miliardi di appalti del Mose e non intende lasciare la presa: Gianni Letta, in primis, e subito a ruota, Altero Matteoli, indagato per il Mose e per la bonifica di Porto Marghera, nonché difensore d'ufficio del prefetto di Roma nelle vicende legate all'inchiesta su Mafia Capitale. «Al prefetto Pecoraro va la nostra solidarietà ed il nostro appoggio incondizionato», ha dichiarato all'Adn Kronos l'ex ministro delle Infrastrutture concedendosi il plurale maiestatis.

Chi si chiedesse che c'entra Pecoraro nelle vicende veneziane deve accontentarsi di una risposta formale. La prefettura romana è competente perché si è stabilito che il Mose, pur vivendo nell'extraterritorialità giuridica delle tre leggi speciali su Venezia, è da ritenersi una creatura di due ministeri romani: le Infrastrutture, appunto, e l'Economia che, attraverso il Cipe, un mese fa ha deliberato un altro megafinanziamento da 1,37 miliardi per le dighe mobili. E così Pecoraro si è trovato a redigere l'ordinanza che nomina i due commissari. Si tratta dell'ex finanziere Luigi Magistra, braccio destro del magistrato Gherardo Colombo ai tempi del pool Mani Pulite appena dimessosi dalla vicedirezionc dell'Agenzia delle Dogane, e di Francesco Ossola, progettista dello Juventus stadium e ordinario di ingegneria strutturale al Politecnico di Torino che ha già lavorato per il Consorzio Venezia Nuova nel 1998 nei lavori di rialzo della fondamenta dei Tolentini. Un terzo amministratore sarà nominato prossimamente.

Il prefetto Pecoraro, protagonista di una lunga serie di casi controversi, dall'espulsione di Alma Shalahayeva, moglie del dissidente kazako Mikhtar Ablyazov, alla trattativa dello stadio Olimpico con l'ultras napoletano Genny 'a carogna, dalle cariche contro gli operai dell'Ast di Terni ai permessi alle cooperative guidate da Salvatore Buzzi, non si è limitato a firmare l'ordinanza di commissariamento. Prima delle festività natalizie è sbarcato nella nuova sede del Consorzio all'Arsenale di Venezia e ha incontrato i rappresentanti delle tre principali imprese del Mose, che insieme alla Ccc (Lega coop) hanno quasi il 90 per cento delle quote Cvn: Alberto Lang, vicepresidente in rappresentanza di Condotte, Salvatore Sarpero, direttore generale della Fincosit, e soprattutto Romeo Chiarotto, classe 1929, proprietario della Mantovani.

Dopo l'estromissione di Baita, Chiarotto ha affidato la Mantovani a un altro ex poliziotto come Pecoraro, l'ex questore di Treviso Carmine Damiano - poi finito sotto inchiesta per corruzione - su suggerimento di un altro prefetto, Gianvalerio Lombardi. Nonostante l'età, il costruttore padovano resta il punto di riferimento dell'opera tanto che i rumors lagunari lo dicono responsabile dell'estromissione di Alberto Scotti (TechnitalMazzi), progettista del Mose piuttosto critico sulla riuscita delle cerniere delle dighe prodotte dalla Fip del gruppo Mantovani.

In questo contesto l'ordinanza di commissariamento rischia di ridursi a una lettera di licenziamento per il vicentino Mauro Fabris, lobbista del Mose diventato parlamentare multitasking (Ccd-Cdu, Udr, Udeur, Pdl) e piazzato all'Arsenale su ordine del ministro Maurizio Lupi dopo gli arresti del giugno scorso. Il documento firmato da Pecoraro e datato 1 dicembre 2014 non è proprio un lavoro di cesello. Giovanni Mazzacurati è ribattezzato Giuseppe Mazzacurati. La legge sui compensi agli amministratori è postdatata al 2013, benché sia del 2010, e Alessandro Mazzi di Fincosit-Technital è indicato come vicepresidente del Cvn anche se si è dimesso il 6 giugno 2014, due giorni dopo l'arresto. De minimis non curar praefectus ma la sostanza del provvedimento sta nella messa in sicurezza del Consorzio, nella scelta di completare i lavori con le stesse imprese che hanno iniziato i lavori (loro erano innocenti, gli amministratori erano colpevoli) e di mantenere in carica i commissari "fino a collaudo avvenuto". In termini di tempo, questo significa almeno il 2018 se i lavori, dopo l'ultimo slittamento, saranno completati nel 2017.

Da lì in avanti si apriranno due partite. La prima è il pagamento dei commissari. L'ordinanza ha rinviato la quantificazione del compenso ma ci sono in sostanza due soli modi. L'opzione forfettaria con un salario annuo sotto il tetto massimo dei 240 mila euro fissato per gli stipendi dei manager pubblici. Oppure c'è l'opzione privatistica che retribuisce i commissari in percentuali sui lavori fissate dagli ordini professionali di appartenenza. Non c'è dubbio che il Cvn sia un raggruppamento di imprese private, anche se opera con fondi pubblici. Quindi, a termine di legge, le parcelle dei commissari potrebbero essere nell'ordine di qualche milione di euro, dato che il costo finale del Mose si aggira sui 6 miliardi.

La seconda riguarda il grande business della manutenzione delle dighe mobili. I.a messa in opera delle paratoie alle bocche di porto ha già evidenziato problemi di tenuta delle vernici, già denunciati da studiosi come Fernando De Simone, e di proliferazione di microrganismi marini. Ancora non c'è una cifra certa sull'impatto economico annuale della manutenzione delle dighe ma la stima fatta da Baita a l'Espresso (da 20 a oltre 60 milioni di euro) offre una banda di oscillazione troppo ampia per non indurre in tentazione. Per citare una frase famosa attribuita a Baita: «Il bello del Mose è che i lavori si fanno sott'acqua».

Paradossalmente, il commissariamento sembra avere dato forza a chi critica le dighe mobili, un fronte molto eterogeneo. I commercianti hanno ribadito che piazza San Marco non sarà protetta dalle paratoie alle bocche di porto, sollevate con la marea a 110 centimetri mentre San Marco va sotto con 80 centimetri. Hermes Redi, progettista nominato direttore generale del Cvn poco prima del commissariamento, ha confermato che, senza le opere complementari necessarie a proteggere il cuore e il simbolo di Venezia, piazza San Marco continuerà a sparire sotto l'acqua come è accaduto duecento volte nel 2014. Questi interventi complementari, peraltro, costerebbero 100 milioni di euro, una frazione pari a circa un sessantesimo del costo delle dighe mobili.

I comitati ambientalisti (No Mose e Ambiente Venezia) si sono rivolti ai due neocommissari per riportare all'attenzione il possibile malfunzionamento del sistema in condizioni di mare agitato. È una questione emersa già nel 2008 dallo studio della società francese Principia commissionato dall'allora sindaco Massimo Cacciari. I.e critiche e i dubbi di Principia erano stati accantonati dal presidente del Magistrato alle Acque PatrizioCuccioletta,altro uomo di Gianni Letta che íà finito nell'inchiesta e ha patteggiato la condanna, a differenza della collega Maria Giovanna Piva che attende la richiesta di rinvio a giudizio come Orsoni, Matteoli e l'ex europarlamentare Pdl Lia Sartori. 11 Magistrato alle Acque era il principale controllore del Mose ma, in realtà, i funzionari del ministero erano totalmente a disposizione delle maggiori imprese del Consorzio che scrivevano anche i testi per conto dei dipendenti statali.

Anche la struttura del Magistrato alle Acque ha ricevuto la sua parte di vernice antiruggine. In primo luogo, Matteo Renzi lo ha soppresso e ha trasferito ic sue competenze al Provveditorato alle opere pubbliche del Veneto. Ma con la nuova veste i rapporti di forza non sembrano cambiati. Chi comandava nel Consorzio prima comanda anche adesso. L'incontro di Pecoraro a dicembre con i grandi azionisti del Consorzio, rivelato dalla Nuova Venezia, ha molto scontentato le piccole cooperative locali socie del Cvn che, con l'eccezione del Coveco di Pio Savioli, non sono state sfiorate dall'inchiesta e che continuano a trovarsi ai margini dei processi decisionali. Circostanza ancora più incresciosa, dovranno partecipare pro quota al rimborso di 27 milioni di euro dovuti all'Agenzia delle Entrate per l'evasione fiscale accertata dalla Guardia di finanza e finalizzata a creare i fondi neri necessari per pagare le mazzette ai politici.

Questo disagio dovrebbe essere superato grazie a una nuova struttura prevista dall'ordinanza commissariale della prefettura di Roma. Il documento firmato Pecoraro prevede che i commissari costituiscano un comitato consultivo «in modo da garantire un'adeguata rappresentanza alle imprese consorziate». Questo comitato adotterà «specifiche linee guida per definire modalità e termini per la straordinaria e temporanea gestione delle attività oggetto di concessione». In altre parole, con questo modello di governance si fa un passo avanti, sia pure in modo straordinario e temporaneo, verso uno dei grandi obiettivi strategici di Mantovani e soci: la gestione del Mose dopo il completamento dell'opera.

«Poche righe per tracciare l'immobilismo della società italiana, a partire dalla sua élite culturale. Certo che un convegno ha tempi lunghi di organizzazione. Ma dopo lo scandalo, gli arresti, l'evidenza del malaffare, non era il caso di dare un taglio diverso all'evento?» La Nuova Venezia, 5 novembre 2014 (m.p.r.)
Roma. «Resilienza delle città d'arte alle catastrofi idrogeologiche: successi e insuccessi nell'esperienza italiana». Chissà se il Mose fa parte del primo o del secondo gruppo. Perché massiccia è la presenza al convegno, organizzato in questi giorni a Roma dall'Accademia nazionale dei Lincei per discutere di tutela del territorio, di consulenti e ingegneri del Consorzio Venezia Nuova.
A cinque mesi esatti dagli arresti per lo scandalo del Mose, i Lincei hanno organizzato un grande convegno sul 4 novembre. E tra i relatori sono molti i nomi conosciuti nella lunga storia del progetto. Come il professor Giovanni Seminara, dell'Università di Genova, che ha parlato ieri di «Acqua e città d'arte» nella prolusione subito prima del ministro Dario Franceschini. Fu lui nel 2006 a svolgere davanti al governo Prodi la relazione che promosse le dighe mobili. Contrapposta a quella del suo collega Luigi D'Alpaos che sosteneva l'esatto contrario: stringendo le bocche di porto e rinunciando al Mose la situazione ambientale avrebbe potuto migliorare.

Tra i relatori anche Hermes Redi, neodirettore del Consorzio Venezia Nuova, il responsabile del servizio informativo Giovanni Cecconi. E poi l'economista Ignazio Musu, nominato tra i cinque esperti che promossero il Mose al posto di Paolo Costa, diventato ministro dei Lavori pubblici. Ha parlato ieri, 15 anni dopo la sua relazione, dello stesso tema «Aspetti economici della salvaguardia di Venezia». C'era anche Andrea Rinaldo, ingegnere padovano che nel 1999 fece parte del «panel» di consulenti del Consorzio per promuovere il Mose. Conclusioni del professor Carlo Doglioni (subsidenza) e della soprintendente Renata Codello.

«Secondo i costruttori bastava Una pulita OGNI 5 anni." Ma non si Tratta di un errore di VALUTAZIONE:. Il Consorzio ha sempre puntato also alle gare milionarie per la Manutenzione delle Dighe L'avevano perfino promesso Ai Dipendenti Che l'Hanno Ammesso " ». Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2014 (MPR)

Ruggine Sulle paratoie, Tonnellate di zinco riversate in mare e Costi di Manutenzione Destinati a esplodere RISPETTO alle STIME Iniziali. A soli 12 mesi dall'installazione delle prime paratoie mobili, ea Pochi giorni Dalla richiesta di commissariamento di Raffaele Cantone per il Consorzio Venezia Nuova, i Dubbi sull'efficienza Sulla grande opera Che dovrebbe difendere Venezia Dall'Acqua alta continuano a Crescere. A Lanciare l'ultima Denuncia su la Nuova Venezia e Fernando De Simone, da 25 anni architetto progettista di opere sottomarine, Che commenta Quello che i veneziani osservano Tutti i giorni: le paratoie Già Calate in acqua Hanno perso l'originale colore giallo fosforescente e Sono diventate rosso-brunastro, l'inconfondibile colore della ruggine.

«Per risparmiare Hanno usato paratoie in normale lamiera rivestita di vernice, invece Che Il più resistente Acciaio inossidabile. Ma sa Che cosa Succede alla lamiera when Rimane sott'acqua? Si guardi le foto della Costa Concordia », attacca De Simone Facendo Riferimento al relitto della nave corroso dal vendita. E, difatti, also Le Navi Più moderne, costruite con Materiali Simili una Quelli del Mose, vengono riportate in cantiere OGNI anno per la pulizia dello scafo. «Il Direttore del Consorzio, Hermes Redi, Sostiene Che la pulizia, il Che del consiste Nella RIMOZIONE delle paratoie e Nella Manutenzione in Arsenale, si fara una volta OGNI cinque anni e costera 40 Milioni di euro, ma e impossibile lasciarle in mare Così un Lungo. Andranno pulite OGNI anno ».
E il conto non lo Paghera il Consorzio, ma le casse Pubbliche, Perché Il contratto Prevede Che il costruttore garantisca la Manutenzione Solo per I Primi Due anni. «Pulire DELLE STRUTTURE grandi venire palazzo, this E La Dimensione Di Una paratoia, OGNI 5 anni è follia pura», fa eco Gli Stefano Boato, docente allo Iuav e Utenti per la Commissione salvaguardia di Venezia. «Ma non si Tratta di un errore di VALUTAZIONE: il Consorzio ha sempre puntato ad aggiudicarsi le gare also milionarie per la Manutenzione delle Dighe. L'avevano perfino promesso ai Dipendenti Che l'Hanno Ammesso. E l'ha said pura Redi La Settimana scorsa. Si e riusciti a commissariarli, ma Hanno Creato un Sistema in cui il Consorzio diventa insostituibile, per sempre. E la Manutenzione costera Almeno tre Volte e mezzo Quanto preventivato inizialmente ». Assolo Non Sono le paratoie a corrodersi, ma Anche i pani di zinco, cioè Gli Elementi INSTALLAZIONE proprio per ridurre il deterioramento delle paratoie. Stando alle STIME Cnr, Oltre Che insufficienti QUESTE protezioni causeranno il deposito di 12 Tonnellate di metallo sul fondo della Laguna, La colomba Crescono cozze e vongole alla pesca destinate.

La cronaca della visita a Venezia del Commissario anticorruzione Raffaele Cantone in due articoli di Monica Zicchiero e Alberto Zorzi, e di Giuseppe Pietrobelli, Corriere del Veneto e Il Gazzettino, 18 luglio 2014

Corriere del Veneto IL CAPO DELL'ANTICORRUZIONE
INCONTRA MAGISTRATI e CONSORZIO:
«UN COMMISSARIO? VALUTEREMO»
di Monica Zicchiero e Alberto Zorzi,

VENEZIA – «Il commissariamento delle imprese corruttrici negli appalti pubblici è una norma storica. Il senso è: non solo ti mettiamo in carcere, ma non ti permettiamo di prenderti i soldi del reato che hai commesso. Ci proveremo ad applicarla anche a Venezia per il Mose». Strappa l’applauso della folla il presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone, invitato a parlare di legalità e appalti con il senatore Felice Casson dall’associazione Umberto Conte in un teatro Aurora strapieno nonostante il caldo.

Dopo l’incontro con il Consorzio Venezia Nuova – «ho preso delle carte per approfondimenti » – e con la Procura di Venezia, a Marghera il magistrato si toglie giacca e cravatta e comincia a parlar chiaro. «Il commissariamento applicato alla Maltauro nel caso di Venezia ha un problema: qui non ci sono imprese aggiudicatarie perché non c’è mai stato un appalto». Tutto nasce dalla famosa legge speciale del 1984. «Una legge che ha attribuito denaro pubblico a privati che lo hanno gestito senza controllo», sottolinea. «Così la più grande opera pubblica in Italia viene sporcata perché la legge è stata fatta male e con deroghe di ogni tipo che hanno permesso una gestione privatistica di soldi pubblici - alza il sopracciglio Cantone - Adesso mi chiedo chi farà la manutenzione.

Sarà l’affare successivo e bisogna avere occhi aperti. Solo chi ha costruito l’opera, sa come funziona. Il famoso disegno dell’appalto che dura tutta la vita e anche oltre». Anche se proprio nel corso della visita al Consorzio il presidente Mauro Fabris gli aveva chiarito la sua posizione. «Noi vogliamo concludere i lavori e accelerare il più possibile la fase di avviamento - spiega - ma poi la modalità di gestione la sceglierà il governo. Noi come Consorzio non ci candideremo ». La questione della conclusione dei cantieri è l’altro punto caldo. «Mi pare poco praticabile l’idea di accantonare un’opera completata all’ 85 per cento», dice Cantone, ma dal pubblico si alzano contestazioni: «Hanno speso l’85 per cento dei soldi, non fatto l’85 per cento delle opere ». Lui alza le mani: «La politica si deve assumere la responsabilità di dire cosa va fatto». E al massimo può dire alla politica cosa non va fatto. Perché, come dice il senatore Casson, «il fatto che ci siano le stesse persone in campo e in galera nella prima e nella seconda Tangentopoli milanese e veneta è un modo di intendere gli affari».

Primo, non sottovalutare i corruttori. «In Italia corruttori ed evasori fiscali sono simpatici, è gente che se la sa cavare e nessuno si scandalizza se tornano in Parlamento. Invece devono essere considerati come i mafiosi ». Tra prescrizioni dimezzate per i reati di corruzione e falso in bilancio depenalizzato, Cantone critica il codice degli appalti, «che si applica sono agli sfigati è che per l’Expo è stato derogato 86 volte». Parole dure anche per la legge obiettivo, che ha fatto fare il salto di qualità al Mose, ma anche al sistema corruttivo. «I general contractor sono gli stessi dieci grandi costruttori che decidono il bello e il cattivo tempo delle opere pubbliche», avverte il magi- strato, secondo il quale servono sanzioni semplici ed esemplari: «I corruttori vanno allontanati dai posti di comandi e per i politici non deve esistere la presunzione di innocenza: deve esserci la certezza della specchiatezza». Resta solo la consolazione che nell’«affaire» Mose non ci sono infiltrazioni mafiose e che l’indagine è stata «da manuale », perché che ha dimostrato come la corruzione abbia permeato anche il sistema dei controlli. «Peggio Milano o Venezia? Peggio Venezia, secondo me», dice Cantone. Il magistrato alle tre era arrivato all’Arsenale per incontrare il presidente Fabris e il direttore Hermes Redi. «Ci eravamo già visti un paio di settimane fa, sono stati due incontri costruttivi e molto concreti - è stato il commento di Fabris - Lui vuole capire, noi con la massima trasparenza gli stiamo dando le informazioni che chiede».

Il presidente del Consorzio preferisce non entrare nel merito degli argomenti trattati, ma la posizione è piuttosto chiara: il sistema della concessione unica è stato creato con delle norme statali, e non c’è stata nessuna «privatizzazione», visto che il soggetto pubblico nel Mose c’è ed è il Magistrato alle Acque. Alle quattro e un quarto, sbarcando da un motoscafo della Guardia di Finanza, Cantone è invece arrivato in Procura a Venezia, dove ha incontrato il procuratore capo Luigi Delpino, il nuovo procuratore aggiunto Adelchi D’Ippolito (che ieri era in visita di cortesia, ma che si insedierà a settembre) e i tre pm che coordinano l’inchiesta sul Consorzio e sulla Mantovani: Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini. Il presidente dell’Anticorruzione ha spiegato che aveva la «necessità di parlare con i colleghi», ma ha spiegato di «non poter rivelare i contenuti del colloquio». In mezz’ora si è parlato dell’inchiesta (su cui peraltro era molto aggiornato) e appunto dell’applicabilità della norma sulle mazzette negli appalti al caso del Consorzio, oltre agli sviluppi futuri, anche dal punto di vista della tempistica.

Il GazzettinoMOSE, C'E' L'IPOTESI COMMISSARIO
di Giuseppe Pietrobelli,
Dilemma amletico in laguna dopo trent'anni di incontrastata solitudine decisionale del Consorzio Venezia Nuova che ha fatto e disfatto tutto ciò che ha voluto su salvaguardia e Mose, l'opera idraulica più grande e costosa mai pensata in Italia. Saranno commissariati imprese e lavori in corso di ultimazione alle bocche di porto, in base alla stretta voluta dal governo dopo lo scandalo dell'Expo 2015, pallido preludio del malaffare che sta venendo a galla a Nord Est?
Per dipanare la matassa di un problema giuridico, prima che politico, il commissario anticorruzione Raffaele Cantone ha compiuto ieri una visita in tre tappe a Venezia. La prima nella sede del Consorzio, per esaminare presupposti e conseguenze della possibile replica del modello-Maltauro, già operativa a Milano e Vicenza. La seconda in Procura della Repubblica, per verificare l'esistenza delle condizioni di applicabilità, ovvero il patto illecito che avrebbe condizionato l'esito degli appalti. La terza nel teatro Aurora di Mestre, per discutere con Felice Casson, senatore del Pd, della necessità di una crociata contro la tangentocrazia, da equiparare alla Mafia per effetti nefasti su società ed economia italiana.
In quella parte di Arsenale che il Consorzio ha trasformato negli anni in un'oasi verde di pace, dentro una cornice architettonica straordinaria, Cantone ha incontrato il presidente Mauro Fabris, il direttore Hermes Re-di e l'avvocato Alfredo Biagini. Ha guardato i computer che controllano la Laguna, i monitoraggi delle maree, i modellini del Mose. Poi, senza rompere -per il momento- il bel giocattolino (il governo ha assicurato che verrà portato a termine) ha ammesso: «La legge prevede la possibilità in presenza di fatti corruttivi dell'applicazione di alcuni strumenti, come il commissariamento delle imprese aggiudicatarie».
Ma per arrivare a tale conclusione deve fare i conti con «una legge speciale che risale al 1984, una scelta legislativa di altri tempi. È una situazione complicata, con un unico concessionario. Mi pare comunque strana l'idea che vengano chiamati i privati a gestire soldi pubblici e a realizzare le opere». Puntura di spillo rivelatrice di un orientamento, anche se il Commissario aggiunge: «Sono abituato a capire, prima di decidere». Per farlo deve risolvere il paradosso di poter commissariare le «imprese aggiudicatarie» che si identificano con la «stazione appaltante», il Consorzio da esse composto.
I1 presidente Mauro Fabris, quando Cantone se ne è andato, cogliendo il rischio di veder strappare il potere alla nuova gestione, assicura: «Il Commissario sta valutando l'applicabilita del decreto anticorruzione. Ma per farlo deve tenere conto se vi siano stati o meno elementi di discontinuità con la vecchia governane del Consorzio». A seguire, snocciola una litania di elementi di rottura: la nuova presidenza, il nuovo direttore, un nuovo organismo di vigilanza, la revoca delle deleghe ai vecchi dirigenti, il taglio delle spese estranee alla finalità originaria del Consorzio, la concentrazione sull'asset principale, che è il completamento del Mose entro il 2016.
«Si può aggiungere che in questa triste e schifosa vicenda i reati non sono stati commessi per ottenere gli appalti». Infatti, erano già stati assegnati, eppure il denaro scorreva a fiumi. Uscendo dal palazzo di giustizia, un'ora e mezzo dopo, Cantone ha ammesso di aver aggiunto un altro tassello alla sua indagine.
«Avevo la necessità di parlare con i procuratori, che mi hanno spiegato la situazione». Forse perché cercava le prove, agli atti, della corruzione? «Certamente quello è il presupposto per l'applicazione del decreto». E quindi per il commissariamento. Ma se n'è andato senza portare via documenti dell'inchiesta. A Marghera, davanti a una platea pidiessina foltissima, interessata al tema della legalità, Cantore si è poi lasciato andare ad altre ammissioni. «Nell'Expo di Milano i lavori non li farà più la società che ha pagato le tangenti, ma le sue maestranze, con una diversa amministrazione». Ecco la strada che potrebbe ripercorrere a Venezia. Anche perché Casson lo ha sollecitato ricordando che lo scandalo-Mose nasce «dalla creazione, voluta da centrodestra e centrosinistra, di fondi leciti da gestire senza rendicontazione: 11 è il marcio, il bubbone del Mose».

E Cantone, di rimando: «Un Comune qualsiasi deve seguire il Codice degli appalti, mentre qui sono stati spesi 6 miliardi senza averne fatto alcuno, perché non erano previsti dalla legge che ha assegnato ai privati la gestione, senza controllo, dei soldi pubblici». Affondo finale: «E questo, con il silenzio di tutti».

Afferma Francesco Indovina: «Dovevamo controllare i fondi e verificare la Legge speciale. Abbiamo lavorato per anni, ma alla fine ci siamo accorti che nessuno seguiva le nostre indicazioni. Tra noi spesso ci si chiedeva: ma per chi stiamo lavorando?». Di certo non per la collettività. Il Gazzettino, 17 luglio 2014, con postilla

«Abbiamo lavorato per anni, ma alla fine ci siamo accorti che nessuno seguiva le nostre indicazioni. Né un cenno di assenso, né di condivisione, né di critica». Parla Francesco Indovina, docente IUAV, uno degli esperti dell'Ufficio di Piano del Magistrato alle Acque, l'ente che ha stilato il dossier con gli 11 miliardi arrivati in 30 anni a Venezia.

«Abbiamo lavorato per anni. Ci siamo misurati con la realtà veneziana con incontri, audizioni, studi e progetti, ma alla fine l'impressione che noi tutti avevamo era che, tutto ciò che avevamo analizzato, non servisse proprio a nulla. E ci veniva un senso di inquietudine e di forte disagio». Francesco Indovina, noto docente dell'Istituto di Architettura, in attesa di conoscere il futuro del Magistrato alle Acque visti gli annunci di soppressione annunciati dal Governo Renzi, è uno degli esperti che sedeva nel cosiddetto "Ufficio di Piano". l'ente voluto fortemente dal Comune di Venezia in collaborazione con Palazzo X Savi e il ministero delle Infrastrutture per la gestione del "caso Venezia".
«Quello che posso dire - sottolinea Indovina - è che abbiamo avuto due "velocità". In un primo momento, fin dalla costituzione dell'Ufficio nel 2004, si trattava di puntare alla progettazione e alla valutazione delle proposte; in seconda istanza monitorare le opere in fase di realizzazione. Un lavoro improbo, ma che con il tempo ci ha consentito di redigere una serie di "relazioni" nelle quali si faceva il punto della situazione sulle opere e i finanziamenti utilizzati. Ma ben presto ci siamo resi conto che quanto andavamo a produrre non veniva minimamente preso in considerazione dalla città e dalle sue istituzioni».
Indovina è molto diretto e chiaro: «Sia ben chiaro: tutti fornivano la loro collaborazione con più o meno solerzia; c'era l'impegno di tutti che, senza alcun problema, offrivano il loro contributo». Indovina rivendica, comunque, il lavoro svolto in questi anni. «Nelle relazioni - sottolinea il docente - vi è un resoconto chiaro e preciso delle opere che sono state fatte non solo dal punto di vista infrastrutturale, ma anche ambientale. Non è un caso che proprio nel maggio scorso sia stato licenziato dal nostro Ufficio anche il cosiddetto Piano Morfologico. Tutti impegni che però hanno avuto scarsa rispondenza negli enti locali e in particolar modo nell'amministrazione comunale di Venezia». Ma al di là di tutto vi è il rammarico. «In questi anni - conclude Indovina - generalmente non abbiamo avuto alcun cenno di assenso, nè di considerazione nè tantomeno di critica. Eravamo e stavamo lì, senza alcun interlocutore, neanche quello istituzionale chiamato "Comitatone". Una situazione bizzarra anche perchè in un certo modo tra noi spesso ci si chiedeva: ma per chi stiamo lavorando?».

postilla
Le simpatie di Francesco Indovina per il MoSE, come grande occasione per lo sviluppo della città sono note ai veneziani, ma non solo ad essi. Rinviamo in proposito a un suo articolo sul manifesto del novembre 2006,ripreso da eddyburg: Io sto con il Mose, vi spiego perché . E' contenuta nell'ampia cartella da questo sito dedicata a quella Grande opera soggetta a critiche, solo oggi largamente condivise.
Meno note sonole critiche che gli esperti che, come Indovina, lavoravano per il MoSE. Peccato che queste ultime siano rimaste racchiuse nel silenzio degli organismi che lavoravano per il MoSE. Per il
MoSE, e soprattutto per quello che del mostro sembra essere stato il maggior promotore, autore, difensore e beneficiario: il Consorzio Venezia Nuova. Sembra oggi che l'unico colpevole del danno provocato dalla vicenda, per molti aspetti ancora oscura, sia del povero ing. Mazzacurati.

Sarà difficile trovare ancora avvocati difensori capaci di far prevalere la tesi che debba essere punito chi ha criticato gli errori del MoSE e le malefatte dei suoi numerosi promotori, autori e coadiutori. La Nuova Venezia, 5 luglio 2014

VENEZIA I danneggiati del Mose. Non c’è soltanto chi ha preso soldi (tangenti, contributi, studi) dal Consorzio Venezia Nuova. Ma anche chi avendo criticato la grande opera si è ritrovato in tribunale con richieste danni. L’ultimo caso è quello di Vincenzo Di Tella, ingegnere esperto in tecnologie sottomarine. Suo, insieme agli ingegneri Paolo Vielmo e Gaetano Sebastiani, il progetto delle «Paratoie a gravità», alternativa al Mose – «meno costosa e più affidabile», garantivano gli ingegneri – presentata in Comune nel 2006 dal sindaco Massimo Cacciari.
Il governo non l’aveva nemmeno considerata. E il Consorzio aveva citato in tribunale Di Tella, chiedendogli mezzo milione di euro di danni. Alla fine l’ingegnere era stato assolto. «Diritto di critica», aveva sentenziato il giudice. «Non avevo offeso nessuno», ricorda, «solo messo in dubbio il funzionamento della struttura, perché il sistema con cui avevano fatto le prove era quello dei modelli matematici, senza prove in vasca. Li ho sfidati pubblicamente, ma non hanno mai accettato il confronto. Nemmeno quando la società di ingegneria Principia aveva messo nero su bianco le «criticità» del sistema Mose e la tenuta delle paratoie in caso di mare agitato.
Altra querela milionaria quella presentata nel 2005 dal Consorzio ai danni di Carlo Ripa di Meana, ex commissario europeo all’Ambiente ed ex presidente della Biennale che da candidato sindaco aveva condotto allora una campagna molto forte contro i danni ambientali della grande opera. «Mi avevano chiesto tre milioni di euro», ricorda, «poi la querela era stata ritirata davanti al Tribunale di Perugia. Adesso la storia ci dà ragione».
Un plotone di avvocati di peso – a Venezia Alfredo Bianchini e Alfredo Biagini, a Milano lo studio Vanzetti. Cause e risarcimenti che in qualche caso hanno prodotto l’uscita degli interessati dalla battaglia contro il Mose. Come nel caso di Riccardo Rabagliati, ex direttore dell’Accademia di Belle Arti e presidente della sezione veneziana di Italia Nostra. Alla fine degli anni Ottanta aveva affisso in città decine di locandine del settimanale «Il Mondo» con la foto del Mose davanti a San Marco e lo slogan «Le idiozie che costano miliardi». Querela ritirata dopo molti anni. Ma Italia Nostra nel frattempo era stata «azzoppata» dalle richieste di danni.
Denunce qualche anno più tardi anche per i dimostranti del Morion che avevano occupato i cantieri e la sede del Consorzio in campo Santo Stefano. Una delle cause più note era stata quella intentata ai due fratelli Spagnuolo, geometri padovani che avevano lavorato per la diga del Vajont. Per anni avevano esposto manifesti e distribuito volantini e dossier in campo San Salvador, denunciando la «pericolosità» del Mose. La vicenda penale si era conclusa per la morte di entrambi.
«Non solo richieste danni, molti di noi hanno pagato per la loro opera di tecnici indipendenti», ricorda Andreina Zitelli, docente Iuav e componente della commissione Via (Valutazione di Impatto ambientale) che nel 1998 aveva bocciato il Mose. «Io, Zitelli e Vittadini fummo oggetto di una campagna denigratoria», ricorda Carlo Giacomini, anche lui docente Iuav, «solo perché avevamo fatto il nostro dovere. All’epoca c’erano i tecnici inossidabili e quelli ossidabili. Noi facevamo parte della prima categoria». Difficoltà al Cnr anche per Georg Umgiesser, che aveva dimostrato l’efficacia delle opere alternative al Mose per ridurre le acque alte, per l’ingegnere idraulico Luigi D’Alpaos («Il Mose aggrava lo squilibrio della laguna») e per Paolo Pirazzoli, del Cnr francese.
Polemiche e vicende che dopo l’inchiesta vanno rilette sotto un’altra luce.
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