«Processo veloce. Le divergenze con le difese sono nell'ultimo anello: in sostanza i fondi neri c'erano, ma nessuno degli imputati ammette di averli presi». la Nuova Venezia, 30 giugno 2017 (m.p.r.)
Venezia. La pena più pesante è per l'ex ministro An alle Infrastrutture Altero Matteoli: 6 anni. E poi: 5 per l'imprenditore romano Erasmo Cinque, 4 per l'ex presidente del Magistrato alle Acque Maria Giovanna Piva, 3 per l'imprenditore Nicola Falconi, 2 anni e 6 mesi per l'architetto Danilo Turato, 2 anni e 4 mesi per l'ex presidente di Adria Infrastrutture Corrado Crialese, 2 anni e 3 mesi e 1 milione di multa per l'ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, 2 anni e 500 mila euro di multa per l'ex europarlamentare di Forza Italia Lia Sartori. Inoltre: la confisca dello stipendio e delle somme dei collaudi per Piva; del profitto di 33 milioni 960 mila euro oltre alle somme ricevute per Matteoli e Cinque. Queste le richieste di condanna della Procura di Venezia - 27 anni e 1 mese complessivamente per 8 imputati accusati a vario titolo di corruzione e finanziamento illecito - dopo cinque ore di requisitoria nell'ambito del processo per le tangenti del Mose. «Si tratta di fatti gravi perché hanno riguardato una delle opere pubbliche più importanti del nostro Paese e gli episodi sono durati anni», ha spiegato il pm Stefano Ancilotto, «Nel conteggio si è tenuto conto dei fatti e delle pene di chi ha patteggiato».
Passata la bufera per i 35 arrestati dello scandalo MoSe. «Tutti liberi». Ma c'è di peggio. la Nuova Venezia, 4 giugno 2017 , con postilla
Lo tsunami porta la data del 4 giugno 2014 e spazza via il mondo della politica veneta. È la terza ondata di arresti, 35, da quando è scoppiato uno dei più gravi casi di corruzione in Italia, quello sulle tangenti del Mose. Un lavoro di indagine difficilissimo - vista la dimensione dello scandalo, la durata e gli intrecci - e per il quale la Procura veneziana ha schierato i suoi pm di punta.
postilla
Eppure non è questo la scandalo più grave. Ancora più gravi due scandali neppure toccati da una indagine preliminare della magistratura. (1) Lo scandalo di aver avviato, progettato, confermato, convalidato e condotto un'operazione (Il MoSE) che fin dall'inizio si sapeva sarebbe stata inutile, dannosa, rischiosa, enormemente dispendiosa per il contribuente. (2) Aver contemporaneamente e parallelamente condotto un'operazione di coinvolgimento e corruzione della maggior parte delle istituzioni amministrative, culturali, professionali della società veneziana (e.s.)
Anche Italia Nostra reagisce allo scandaloso tentativo dell'Università Iuav e del Mit di far risparmiare alle imprese del Consorzio Venezia nuova i soldi dovuti per il ripristino dell'ambiente deturpato. La Nuova Venezia, 23 maggio 2017
Venezia. Un esposto alla Corte dei Conti perché gli 11 ettari di cemento armato dell’enorme piattaforma “temporanea” realizzata a Santa Maria del Mare, a Pellestrina, siano effettivamente smantellati - come previsto - dopo la realizzazione del Mose e non vengano spesi altri soldi pubblici per riconvertirli in mini porto off-shore, né tantomeno ospitino per tre anni gli studenti di Iuav e Mit di Boston per un progetto sul riuso dei luoghi, come invece prevede un recente accordo tra il commissario del Consorzio Venezia Nuova Ossola e lo Iuav.
Riferimenti
Vedi su eddyburg: Summer school Iuav nel villaggio MoSE
«Mantovani, Fincosit e Condotte contrari al salvataggio per avere più spazio nei futuri (e costosissimi) lavori di mantenimento al sistema di dighe mobili. Stanno tornando i "soliti nomi". la Repubblica, 23 maggio 2017, con postilla
Con il nuovo Piano industriale di Thetis che dovrà essere predisposto per il rilancio della società in base a quanto deciso pochi giorni fa dall’Assemblea dei soci, si riaprono i giochi anche per i lavori e le manutenzioni del dopo-Mose all’Arsenale. Se infatti, sotto la spinta determinante del commissario del Consorzio Venezia Nuova Giuseppe Fiengo - con l’appoggio indiretto anche del provveditore alle opere pubbliche Roberto Linetti e del Comune, presente con l’assessore alle aziende Michele Zuin, visto che la partecipata Actv è in Thetis con circa il 6 per cento del capitale - si è fermato lo smantellamento della società di ingegneria e tecnologia ambientale e la deriva dai licenziamenti, l’opposizione arriva dall’interno.
A opporsi infatti all’approvazione del bilancio consuntivo 2016 e soprattutto alla predisposizione del nuovo Piano industriale in assemblee sono state le imprese private storiche del Consorzio, come Mantovani soprattutto, ma anche Condotte e Fincosit che detengono circa il 25 per cento delle quote. Tra i soci, con una quota di minoranza, c’è anche la stessa società dell’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova Giovanni Mazzacurati. Ma è soprattutto la Mantovani la più ostile al “salvataggio” di Thetis perché la vede - se rilanciata - come una possibile concorrente nella partita ancora tutta da giocare dei lavori di manutenzione e infrastrutturazione che seguiranno l’entrata in funzione effettiva del Mose.
Per essere in pista, infatti, la Mantovani ha creato da pochi mesi una nuova società: la Sereco (acronimo di Serenissima Costruzioni). Il percorso che ha portato alla nascita della Sereco attraverso il conferimento del ramo d’azienda da parte di Mantovani prevede il trasferimento di 172 lavoratori, più almeno altri 22 tra quelli oggi in Cigs e che hanno sottoscritto il verbale di conciliazione.
Come si ricorderà alla fine dell’anno scorso l’azienda aveva chiesto il licenziamento per 170 lavoratori che poi invece, con mediazione di sindacati e governo erano stati ammessi alla Cassa integrazione straordinaria. La Mantovani ha dunque tutto l’interesse a tirarsi fuori da Thetis avviandola alla messa in liquidazione, per poi candidarsi con la “sua” Sereco ad un nuovo ruolo da protagonista all’Arsenale.
Come la genovese D’Appolonia - che ha avuto tra l’altro l’incarico per la predisposizione del nuovo Piano regolatore del Porto di Venezia, con uno staff di circa 700 tra ingegneri e professionisti, distribuiti in 20 uffici operativi in tutto il mondo - che si era già fatta avanti informalmente per acquistare Thetis, quando la volontà era quella di mettere in vendita la società portata all’Arsenale dalla Tecnomare e poi passata sotto il controllo del Consorzio Venezia Nuova.
Non si sa quanto questa macchina infernale costerà per essere completata. Non si sa se funzionerà, non si sa quanto costerà per la sua manutenzione. Non si riesce a capire perché nonostante tutto continui a succhiare quattrini. Non sarebbe giunta l'ora di fare un lungo e argomentato elenco di quanti hanno promosso, sostenuto, propagandato questa ignobile truffa, nonostante le reiterate, argomentate, documentate denunce? possibile che nessuno sia mai punito, o almeno additato al pubblico ludibrio, per questa gigantesca truffa?
Lo scandalo infinito. Ma al di lò del fiume di soldi finiti nel troiaio della corruzione, amcor più grande lo scandalo dell'oceano di soldi dissipato per un'opera inutile e dannosa. L'Espresso, 17 aprile 2017
Dopo le dimissioni il commissario straordinario Magistro si confessa con l'Espresso. E svela il sistema delle dighe mobili: costi aggiuntivi, finanziamenti in ritardo e un processo penale che ha colpito solo la punta dell'iceberg. Risultato? L'inaugurazione slitta almeno a fine 2021
Le imprese socie del Cvn, il Golem privato creato dai soldi pubblici che sta costruendo le dighe mobili a salvaguardia della laguna, non intendono provvedere di tasca propria. Lo Stato latita, paralizzato da due imperativi categorici opposti. Il primo dice: basta emorragie finanziarie in laguna. Il secondo, per dirla con Luciano Spalletti, è: famo ’sto Mose.
Mentre a Roma sfogliano la margherita, Magistro si è dimesso a fine marzo, come ha anticipato la Nuova Venezia. Nelle motivazioni ufficiali date dal commissario c’è scritto «motivi personali», una causale che copre parecchio terreno. Fatto sta che l’ex protagonista di Mani Pulite, colonnello della Finanza, direttore dei Monopoli di Stato e dell’Agenzia delle Entrate, 57 anni, ha quasi finito di lasciare le consegne agli altri due commissari straordinari del Consorzio: Francesco Ossola, docente al Politecnico di Torino, e Giuseppe Fiengo, avvocato dello Stato.
A quanto trapela da ambienti dell’Anticorruzione, guidata da Raffaele Cantone, Magistro non sarà sostituito. Accetta di parlare con L’Espresso a una condizione. «Non vorrei che ci fosse una lettura negativa della mia uscita», dice. «I miei due colleghi sono persone molto capaci e ho lavorato benissimo con loro».
Non è l’unico contenzioso, tutt’altro. Le stesse imprese che, manager più manager meno, sono responsabili del disastro hanno avviato una decina di liti contro lo Stato e contro i rappresentanti del governo. E viceversa. Soltanto nell’ultimo bilancio, Magistro, Fiengo e Ossola hanno chiesto agli azionisti del Cvn oltre 100 milioni di danni per un lungo elenco di malversazioni, dalle fatture false utilizzate a scopi corruttivi ai 61 milioni di euro per i leggendari massi importati dall’Istria e pagati come pepite d’oro.
«Non so nemmeno io quante cause abbiamo in piedi», dice Magistro. « So che da quando sono commissario i soci del Cvn mi hanno impugnato tre bilanci su tre: 2014, 2015 e 2016. Con i tempi della giustizia italiana ci vorranno dieci anni per sapere se ho ragione io oppure loro. Bisogna chiedersi se questo tipo di intervento dello Stato, in un contesto in cui la funzione pubblica non ha una grande forza, sia efficiente. Una cosa è il commissariamento della Maltauro per l’Expo 2015, con un appalto da 42 milioni di euro che andava portato a termine in tempi rapidi per una manifestazione limitata nel tempo. Altra cosa è il Mose, un sistema enorme, con moltissime imprese e con una prospettiva di gestione a lungo termine».
Una squadra che si vendeva le partite
Cantone ha spiegato con efficacia la posizione del governo sulla vicenda delle dighe mobili a margine di un incontro tenuto a Vicenza che aveva come tema principale il lancio della Pedemontana veneta, un’autostrada da 3,1 miliardi di euro. Il numero uno dell’Anac, negando che ci siano stati contrasti dietro l’uscita di Magistro, ha sottolineato che la priorità è «fare ripartire il sistema» e «siglare un nuovo patto con le imprese». Non sarà semplice.
Magistro è entrato in carica a dicembre del 2014 dopo il commissariamento del Cvn voluto dal governo Renzi sull’onda dei 35 arresti di sei mesi prima e firmato dall’allora prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro.
Per avere un’idea di quello che è stato il suo lavoro e il suo ruolo bisogna immaginare un allenatore mandato a guidare una squadra di calcio che si vendeva le partite e che deve concludere a tutti i costi il campionato senza possibilità di cambiare formazione, mentre i giocatori fanno causa sia al mister sia a quello che ha messo i soldi: il contribuente, in questo caso.
Non pochi soldi, bisogna aggiungere. Il prezzo delle dighe mobili è arrivato a 5,493 miliardi di euro ma l’insieme delle opere deliberate per la salvaguardia della laguna veneta raggiunge quota 8 miliardi. Di questa somma, restano da investire ancora 500-600 milioni.
Il sistema delle dighe mobili è stato lanciato a fine anni Ottanta, durante la Prima Repubblica. Ma i soldi veri sono arrivati a partire dall’inizio del secolo, con la legge obiettivo del governo Berlusconi e una previsione di completamento nel 2011. Due anni dopo, nel 2013, quando il Mose aveva già sforato la consegna, la magistratura ha incominciato a colpire i protagonisti del sistema, a partire dal manager di Mantovani, Piergiorgio Baita. La seconda ondata di arresti nel 2014, con il coinvolgimento del presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati, dei politici locali e nazionali e dei controllori del Magistrato alle acque, non hanno certo accelerato i tempi.
Fino allo scorso mese di marzo, il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio aveva fissato al 30 giugno il termine delle opere alle quattro bocche di porto. Niente da fare anche stavolta.
Pochi giorni fa è stato pubblicato il nuovo cronoprogramma ufficiale, con un annuncio congiunto firmato dai commissari e dal Provveditorato per le opere pubbliche del Veneto (nuovo nome dato dalla coppia Renzi-Delrio allo storico Magistrato alle acque).
Il termine dei lavori alle bocche di porto è stato spostato in avanti di sei mesi (31 dicembre 2018). La realizzazione degli impianti definitivi passa al giugno 2020 e la consegna delle opere è fissata al 31 dicembre 2021. L’inizio della gestione, che costerà almeno 80 milioni di euro all’anno rispetto ai 20 previsti, parte quindi dal Capodanno 2022.
Inoltre, in assenza di una linea di finanziamento per la manutenzione, tutto il sistema rischia di pagare pesantemente in termini di costi aggiuntivi. Un esempio? Le dighe di Treporti sono già in acqua da tre anni e mezzo con una manutenzione prevista ogni cinque anni. È molto probabile che debbano essere revisionate prima che il sistema entri in funzione.
Se entrerà in funzione.
Catastrofe nucleare
Il nuovo rinvio nel completamento del Mose è stato rivelato all’opinione pubblica in poche righe di comunicato che solo i media locali hanno riportato. Ma perché il Mose è in ritardo? Di chi è la colpa e chi dovrà pagare il conto di questo ennesimo rinvio?
Il Mose ad alto rischio può affondare Venezia
Le dighe mobili per la difesa della città lagunare somigliano sempre di più a un rottame: l'Espresso anticipa la perizia commissionata dal Ministero delle Infrastrutture. Il documento rivela il pericolo di cedimenti strutturali per la corrosione e per l'uso di acciaio diverso da quelli dei test
L’attenzione del governo, dal Mit all’Anac, nei confronti del Mose è parsa in calo di recente e questo ha forse influito sulla scelta di Magistro, anche se lui non conferma. Delrio, oberato dalla crisi Alitalia, ha delegato il grosso dei controlli al nuovo Provveditore, Roberto Linetti, nominato alla fine di novembre del 2016. Cantone si è concentrato sullo scandalo degli appalti Consip.
Intanto Magistro e i suoi due colleghi hanno dovuto affrontare la maggiore crisi tecnica da quando si parla di Mose quando L’Espresso ha anticipato la perizia metallurgica firmata dall’ex docente padovano Gian Mario Paolucci per conto del Provveditorato. In nove pagine Paolucci ha esposto i rischi, molto elevati, che le cerniere, lo snodo dove si inseriscono le paratoie applicate ai cassoni, siano danneggiate dal lavoro micidiale dell’ambiente marino.
Magistro, Ossola e Fiengo hanno ordinato una serie di perizie e ispezioni che hanno ridimensionato il problema. In parallelo, è partita una campagna strisciante per dire che la perizia Paolucci è destituita di fondamento, che difetta di informazioni e che, qui si dice e qui si nega, Paolucci ci ha capito poco.
Mose, il gioco trentennale delle perizie
Dopo che l’Espresso ha pubblicato il documento choc che indicava le cerniere delle dighe lagunari a rischio corrosione, i responsabili della grande opera sono corsi ai ripari con una controperizia in tempi record. Una pratica ricorrente nella storia dell'infrastruttura
Il perito metallurgico ferito nell’onore ha incassato con signorilità. Il punto è che, se il perito ha ragione sulle cerniere, è «la catastrofe nucleare», come dice una persona molto vicina al progetto. Non oggi, non domani, forse fra qualche anno, ma il Mose è da buttare.
Politicamente in questo momento nessuno, a destra o a sinistra, si può permettere un disastro che porta la firma congiunta di tutti i partiti esistenti tranne i grillini, troppo giovani per avere partecipato al grande happening lagunare.
Come la stessa perizia Paolucci si augurava, «l’unica cosa da fare è sperare che i danni che certamente si saranno verificati sui connettori femmina di Lido, San Nicolò, Malamocco, Chioggia, siano contenuti». Senza mettere in discussione le controperizie, la cronaca non lascia ben sperare. Finora tutto quello che si poteva guastare nel sistema Mose si è guastato.
Il catalogo è questo. I tensionatori si sono già arrugginiti anche se dovevano durare 50 anni e anche se, secondo il professor Ossola, materiali che durano 50 anni non ci sono nemmeno su Marte. Cambiarli tutti costerà 20 milioni. Per sistemare i danni alla porta della conca di navigazione di Malamocco ci vorranno 10-12 milioni di euro. Altri 2 milioni se ne vanno per la lunata del Lido crollata alla prima mareggiata poco dopo il collaudo. Un cassone è esploso nel fondale di Chioggia. Problemi assortiti si sono avuti alle tubazioni e alle paratoie.
Infine, la nave jack-up realizzata dal gruppo Mantovani per trasportare le paratoie in manutenzione dalla loro sede alle bocche di porto al rimessaggio in Arsenale ha ceduto al primo tentativo di sollevare una delle barriere e soltanto nelle prossime settimane potrà tornare in azione dopo mesi in officina. Il costo del jack-up è di 52,5 milioni di euro. Il Cvn ne aveva ordinati due (105 milioni in tutto). Il secondo è stato tagliato da Magistro e sarà rimpiazzato da un muletto che costerà intorno ai 10 milioni.
Collaudi e concorsi di colpa
Tutto quello che non ha funzionato era stato regolarmente collaudato dagli esperti convocati dal Ministero delle infrastrutture e pagati decine di milioni.
Sotto il profilo giuridico-amministrativo è un problema gigantesco. Anche se alla conca di navigazione stanno emergendo responsabilità dei progettisti, così come per i tensionatori, il lavoro delle imprese private è passato al vaglio della committenza statale, con esito favorevole.È vero che esistono le coperture assicurative. Ma chiunque abbia avuto un piccolo incidente stradale sa che significa trattare con una compagnia di assicurazioni.
Ma di facile l’allenatore mandato da Renzi, Delrio e Cantone non ha avuto nulla. La squadra gli ha giocato contro fin dall’inizio, chi più chi meno. Fra gli ostili c’è la Grandi Lavori Fincosit del gruppo Mazzi. Con un capitale schermato da due fiduciarie (Istifid e Spafid), dopo l’arresto di Alessandro Mazzi la società si è affidata per qualche mese a un ex boiardo di Stato riconvertito al privato, l’ex Eni, Stet, Autostrade e F2i Vito Gamberale. A gennaio 2016 Gamberale è uscito per cedere il posto all’ex Poste Massimo Sarmi, revocato un mese dopo per incompatibilità con l’incarico alla Milano-Serravalle e sostituito dal manager interno, Salvatore Sarpero.
Baita, ex azionista di minoranza e manager operativo di Mantovani, è stato il primo a finire agli arresti (febbraio 2013) e il primo a parlare del sistema corruttivo del Mose. Formalmente, è fuori dai giochi intorno al Mose ma forse soltanto formalmente. Chiarotto gli aveva promesso una causa per danni di cui non si è più avuta notizia.
La gestione delle dighe mobili rappresenta un’altra delle difficoltà che la struttura commissariale ha dovuto affrontare senza trovare, al momento, soluzione.
Con Berlusconi al governo, Altero Matteoli al Mit e Galan in regione, il tandem Mazzacurati-Baita aveva predisposto le cose in modo che il business del dopo Mose restasse in house ossia, in parole povere, non uscisse dal perimetro ben presidiato dalle imprese del Consorzio.
Venduta come un affaruccio da poco (20 milioni di euro all’anno che saranno mai?) gestione e manutenzione sono state sottostimate ad arte perché potessero essere affidate alla Comar, un altro consorzio con gli stessi azionisti del Cvn.
Mettere a gara, magari europea, la gestione? Figurarsi. Il principio era che solo i realizzatori delle opere potevano sapere dove mettere le mani alle quattro bocche di porto.
Uno dei primi provvedimenti di Magistro è stato commissariare anche la Comar che, in questo modo, è sostanzialmente uscita dal match. Ma l’idea di conservare la gestione in zona laguna è stata semplicemente trasferita a un’altra società della galassia Cvn. È la Thetis. Controllata dalla Saipem (gruppo Eni) nella fase iniziale del progetto antecedente le privatizzazioni, quando era l’Iri l’azionista di Condotte e nel consorzio c’era ancora Impregilo e non Mantovani, Thetis ha rischiato la chiusura anche quando era pubblica. Poi è stata rilevata dallo studio di ingegneria Mazzacurati e, in fiammante conflitto di interessi, ha prosperato con le commesse che Mazzacurati presidente del Cvn dava a se stesso come proprietario di Thetis.
Mentre Comar aveva pochissimo personale, la Thetis, con sede all’Arsenale, è cresciuta nell’organico fino a oltre 100 dipendenti. Fra questi, c’erano alcuni rampolli illustri come Flavia Cuccioletta, figlia del presidente del Mav Patrizio, che ha patteggiato la pena, o come Eleonora Mayerle, figlia di Giampietro, vice di Cuccioletta.
Magistro puntava a liquidare anche Thetis, dopo Comar. L’obiettivo non è stato raggiunto. Oltre ai figli di padre noto, Thetis ormai è una realtà occupazionale importante, con personale qualificato ed è l’unica società di ingegneria nel centro di Venezia cannibalizzato dal turismo di massa. A difenderla sono intervenuti i sindacati (Filcams-Cgil) e il democrat Nicola Pellicani.
Le mazzette
L’inchiesta penale ha faticato parecchio a districarsi nel sistema delle complicità politiche ad alto livello fra Venezia e Roma. I protagonisti in laguna non andranno neanche a processo. Baita ha patteggiato e, secondo molti, continua a esercitare un ruolo discreto dietro le quinte dell’appalto. Mazzacurati, partito per la California, ha 83 anni ed è stato dichiarato dal medico legale incapace di partecipare al processo a causa di «gravissimi deficit delle funzioni mnesiche a cui cerca di sopperire con la confabulazione ossia inventando la risposta».
Finora fuori dal processo che marcia verso la prescrizione è anche Claudia Minutillo, promossa manager di Adria Infrastrutture dopo essere stata segretaria del governatore forzista ed ex ministro Giancarlo Galan, uno dei pochi condannati eccellenti.
Le cifre sono ancora più eloquenti. A parte gli sprechi e i costi gonfiati che sono ancora da definirsi in termini di danno erariale, il nocciolo finanziario del processo parla di 33 milioni di euro di fatture false utilizzate per tangenti pari a circa metà del valore delle fatture.
Su un investimento pubblico da 8 miliardi di euro, ci sarebbero quindi state mazzette per 15-16 milioni di euro. Più che un processo penale ci sarebbe da distribuire qualche onorificenza al merito di una gestione così onesta, per gli standard nazionali e internazionali. «Credo che queste cifre siano soltanto la punta dell’iceberg», dice Magistro.
Durante la gestione Mazzacurati, il Consorzio produceva costi per circa 40 milioni di euro all’anno scesi a circa un quarto durante la gestione commissariale, con grandi critiche da parte dei soci che hanno accusato i commissari di spendere troppo.
Il solo Mazzacurati, nei suoi anni di regno sul Cvn, ha incassato una somma complessiva di 54 milioni di euro fra emolumenti e una buonuscita da 7 milioni di euro che è anche questa oggetto di contenzioso incrociato fra l’ex presidente, in attesa di ricevere ancora più di 1 milione, e l’amministrazione straordinaria, che vuole farsi restituire tutta la cifra.
Questo elenco di guai senza fine è il motivo per cui gli uomini del governo hanno preferito mantenere le distanze dal Mose, con il risultato forse non voluto di isolare la gestione commissariale. Certo, per l’esecutivo Venezia significa guai. Non a caso il porto offshore per le petroliere, un progetto da 2,2 miliardi di euro già passato per una prima approvazione del Cipe, è stato cancellato dai radar appena uscito di scena Paolo Costa, ex presidente dell’autorità portuale veneziana. «Per fortuna», commenta Magistro. «Il porto offshore non era nemmeno da pensare».
Il commissario uscente chiuderà l’esperienza nei prossimi giorni, subito dopo Pasqua, e si dedicherà a un periodo sabbatico. Il suo commento finale merita di essere riportato. «Quello che ho visto a Venezia non l’avevo mai visto in vita mia. Una spudoratezza totale».
Se lo dice lui.
Facce di bronzo. «Le imprese del Consorzio Venezia Nuova chiedono di tornare all’assegnazione diretta dei lavori, senza gare di appalto, ovvero a quel sistema che ha consentito il proliferare del malaffare».il Fatto Quotidiano online, 19 febbraio 2017 (p.s.)
Lo scontro avviene nello scenario di un commissariamento che le aziende non hanno digerito affatto, perché ha tagliato la catena di potere che orchestrava i grandi affari legati alle paratie mobili che dovrebbero salvare Venezia dalle acque alte.Intanto al processo veneziano hanno fatto irruzione le agende di Giovanni Mazzacurati. Erano in un magazzino del Consorzio, dentro uno scatolone.
Come se non fosse successo nulla. Come non ci fosse stato l’allegro balletto del Consorzio Venezia Nuova attorno al Mose, opera da cinque miliardi e mezzo di euro. Come non ci fossero state le accuse di corruzione ai manager delle società che fanno parte della compagine che negli ultimi quindici anni si è spartita i finanziamenti pubblici. Come non ci fosse il commissariamento deciso per bonificare la situazione all’indomani dello scandalo che nel 2014 ha portato in carcere politici, uomini degli apparati dello Stato, tecnici e portaborse.
Le imprese del Consorzio Venezia Nuova chiedono di tornare all’assegnazione diretta dei lavori. Senza gare di appalto. Senza bandi. Senza offerte e ribassi. Ovvero a quel sistema che ha consentito il proliferare del malaffare, per il semplice fatto che non esistevano controlli sulle opere e sui costi, anche perché i vertici del Magistrato alla Acque dell’epoca erano, secondo i corposi capi d’accusa formulati dalla Procura di Venezia, a libro-paga del Consorzio.
In questo tentativo di far tornare indietro la macchina del tempo, le imprese interessate hanno scritto un «Atto di contestazione di inadempimento e intimidazione». Il mittente è il Covela del gruppo Mantovani, di cui è presidente Romeo Chiarotto, titolare del gruppo stesso. Lo ha fatto per conto anche dei consorzi Italvenezia e San Marco, nonché di Astaldi e Itinera.
I destinatari sono i tre commissari Luigi Magistro, Francesco Ossola e Giuseppe Fiengo, nonché il provveditore interregionale Roberto Linetti (che ha assunto le funzioni dell’ex Magistrato alle Acque), il presidente dell’Anac, l’Autorità Nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone e il prefetto di Roma Paola Basilone, a cui fa riferimento l’amministrazione straodinaria del Consorzio.
La lettera-diffida ricorda che nel 2015 il piano di riparto affidava alle imprese del Cvn lavori per 192 milioni di euro, ma finora ne sarebbero stati assegnati molto meno, circa una novantina. E così le imprese chiedono il rispetto degli impegni presi due anni fa. «E’ una situazione inaccettabile, illegittima, illecita e gravemente lesiva dei nostri diritti».
A sostegno della sua tesi, Chiarotto cita lo statuto del Consorzio che affidava i lavori pro quota-parte alle imprese consorziate.
E cita anche le conclusioni dell’istruttoria europea che una decina di anni fa mise in mora l’Italia per la mancanza di gare pubbliche, salvo poi stabilire che per una serie di interventi andava garantita la continuità ai consorziati, anche perché la responsabilità sul funzionamento dell’opera dev’essere a carico loro. «L’Unione europea – scrive Chiarotto – ha definitivamente escluso che si potesse ricorrere a imprese terze, se non per il subappalto di opere altamente specialistiche per le quali non esistsessero i requisiti tra le imprese consorziate».
Allora la Ue cercò di contemperare una parziale assegnazione diretta con l’obbligo a mettere in gara opere per almeno 720 milioni di euro (obiettivo non ancora raggiunto). Ma se gli appalti tornano ad essere assegnati con il vecchio modus operandi a cui fa riferimento Chiarotto, si riprodurrebbe il meccanismo che tanti guasti ha causato, fino alle aule del Tribunale penale.
E proprio l’Anac, con il commissariamento del Consorzio, voleva porre fine a quel sistema. Anzi, nel 2015 aveva commissariato anche la società Comar, sostenendo che dal 2002 era il braccio operativo del Consorzio per consentire il controllo nell’assegnazione degli appalti. Dopo l’arrivo in autunno a Venezia del nuovo provveditore Linetti, l’ex Magistrato e i commissari avevano progettato di aumentare ancora le quote di lavori da assegnare con gara. Anche per questo Mantovani, Astaldi e Itinera sono uscite alla scoperto.
E’ uno scontro che avviene nello scenario di un commissariamento che le aziende non hanno digerito affatto, perché ha tagliato la catena di potere che orchestrava i grandi affari legati alle paratie mobili che dovrebbero salvare Venezia dalle acque alte. Ma gli arresti hanno costretto le imprese del Cvn a mandare giù il rospo. Adesso, tre anni dopo, cercano di riprendersi parte di quello che hanno perso. Nel Mose del dopo-scandalo ci sono ancora tanti soldi presenti e futuri (ad esempio al gestione del sistema) ed è proprio sulla questione economica che si annunciano gli scontri più aspri.
I commissari hanno deciso da tempo di far causa alle imprese coinvolte nelle inchieste per ottenere un risarcimento di almeno 27 milioni di euro, per inadempienze e pagamenti “in nero”. Si tratta di 18 soggetti diversi, tra cui Mantovani e Condotte. La Procura veneziana ha chiuso da poco il filone di indagine relativo alla vicenda Mose che vede coinvolte direttamente otto imprese (e non le persone fisiche) che hanno lavorato alle barriere mobili o alle opere accessorie per non aver controllato i loro manager che pagavano tangenti per sostenere l’opera a livello politico.
Intanto il processo che si sta svolgendo a Venezia entra in una settimana cruciale. Giovedì l’interrogatorio di due imputati eccellenti, l’ex ministro Altero Matteoli e l’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni. E nel dibattimento fanno irruzione le agende di Giovanni Mazzacurati. Erano in un magazzino del Consorzio, dentro uno scatolone. Contengono le annotazioni di tutti gli appuntamenti dell’ingegnere, già presidente del Cvn e grande regista della corruzione. I pubblici ministeri Stefano Ancilotto e Stefano Buccini, ma anche gli avvocati difensori vi cercano conferme o smentite di incontri e frequentazioni in odore di tangenti.
Riferimenti
Vedi su eddyburg l'articolo di Armando Danella Venezia, il rischio MoSE, che racconta fatti clamorosi che tutti fanno finta di non conoscere. Inoltre i numerosi articoli nelle cartelle dedicate al MoSE nel vecchio e nel nuovo archivio.
La stampa più attenta denuncia i mille pasticci del MOdulo Elettromeccanico Sperimentale, che dovrebbe "salvare" Venezia e la sua laguna. Tutto vero: ma tutti trascurano il rischio più devastante: la risonanza fisica. Ce lo racconta un esperto
Gli ormai frequenti episodi di inconvenienti che si stanno constatando nella fase di realizzazione del Mose rappresentano incidenti di percorso che possono impressionare una opinione pubblica o istituzionale volutamente poco informata ed affascinata da inediti o presunti scoop giornalistici. Una sequenza di notizie che giustamente vengono messe in evidenza da una buona stampa che segnala scenari critici di una attività di cantiere in essere la cui tipologia di incidente può essere ricondotta a correzioni più o meno prevedibili e costose, ma che comunque non scalfiscono l’iter che continuerà a svolgersi con la prosecuzione e conclusione dell’opera.
Sta succedendo, e succederà in seguito, con o senza notizie giornalistiche, azioni della magistratura o controlli amministrativi, quanto era desumibile da tutte quelle critiche scientificamente fondate ed inascoltate esposte fin dal momento del concepimento del Mose (critiche di tipo progettuale, ambientale, procedurale, di cantierizzazione e di gestione) contenute ricordiamo soprattutto nei voti del Consiglio Superiore dei LL.PP (1982 e 1990), nella valutazione negativa di impatto ambientale (1998) e nella forte presa di posizione del Comune di Venezia nel 2006 che questa opera non solo avversava, ma dimostrando tecnicamente i suoi difetti proponeva soluzioni alternative meno impattanti, più funzionali, meno costose, più consapevoli dell’eustatismo in corso e più rispondenti al rispetto di quell’equilibrio idrogeologico ed eco sistemico che gli indirizzi della legislazione speciale indicano.
E va tenuto presente che contemporaneamente a queste connotazioni tecnico-scientifiche cresceva quella vasta area di opinione e di mobilitazione popolare contraria a tale opera che ha conosciuto alti momenti di tensione con occupazioni delle aree di cantiere del Mose, della sede del MAV (Magistrato alle Acque di Venezia), della sala del Consiglio Comunale, delle sede del CVN (Consorzio Venezia Nuova) provocando processi contro i manifestanti con pesanti capi di imputazione. E lo slogan che doveva rivelarsi profetico attribuito al Mose era “ Opera inutile e dannosa utile solo per chi la fa “.
Non c’è da meravigliarsi quindi di cosa ci si può aspettare da una opera di questo tipo, di dimensioni inusitatamente maggiori di quanto avrebbero potuto essere, basata su tecnologie obsolete, concepita con una inutile e pericolosa complessità che ne comprometterà l’efficacia, e con grossi difetti di comportamento dinamico, che ne potranno determinare la perdita di funzionalità operativa. La sua architettura di sistema comporta l’esistenza di una enorme quantità di elementi “ semplici “ interconnessi funzionalmente e soggetti a critiche condizioni ambientali che, nel loro insieme, costituiscono un sistema estremamente complesso, che dovrà operare in situazioni ambientali difficili od estreme, la cui affidabilità necessariamente costituirà un problema nella sua lunga vita operativa e che richiederà una manutenzione continua e costosa. Basti sapere che per garantire la corretta operatività ci sono circa 3000 (tremila) componenti e sottosistemi di comando, controllo, sicurezza e monitoraggio collegati funzionalmente tra loro.
Rimanendo nella logica progettuale del Mose, prescindendo ma confermando che il riconoscimento di quella aprioristica errata impostazione progettuale di carattere idraulico di non voler ridurre permanentemente gli attuali scambi mare-laguna avrebbe impedito la nascita di una simile opera ,si sta assistendo a numerose criticità (paratoie che non si alzano, materiale delle cerniere, detritti nelle sedi di alloggiamento, subsidenza, altezze d’onda che allagano i tunnel, basi di fondazione collassate durante lo zavorramento, ossidazioni delle cerniere/connettori ecc.) che sarebbero tutte meritevoli di approfondimento tecnico che però non è possibile verificare stante la pratica sempre seguita dal CVN e dal MAV di non rendere noti i dati utilizzati durante i lavori di tutti gli elaborati di progetto, con le procedure di analisi, di calcolo, di sicurezza, di collaudo, di certificazione dei materiali ecc, . Sul tema della informazione/trasparenza poi va segnalato che da ormai parecchi anni il Comune di Venezia per precisa volontà politica non si è più dotato di quella struttura della legge speciale deputata a poter fornire alla cittadinanza ogni informazione legata alla salvaguardia ed in particolare a tutto quanto può ruotare attorno al sistema Mose.
Praticamente ancora oggi non è dato conoscere se il progetto esecutivo ha confermato i dimensionamenti del progetto definitivo oppure ci sono state modifiche e di quale entità si tratta; non c’è evidenza delle prove sul modello utilizzate per la progettazione delle paratoie delle tre bocche di porto e di come è stato valutato l’effetto scala ; non sono disponibili i dati del nuovo rapporto meteo che tenga conto della presenza delle lunate aggiunte successivamente al periodo in cui fu redatto il rapporto meteo per il progetto definitivo; non sono noti i criteri di manovra che dovrebbero portare alla decisione di chiusura delle bocche; non si conoscono i costi e le disponibilità finanziarie per la manutenzione e la gestione dell’opera e tanto altro ancora.
Però tutte queste “attenzioni“, questo dilagare di notizie, allarmismi, considerazioni ,smentite,reportage, dichiarazioni, improvvisi interessi sull’andamento dei cantieri del Mose non mettono mai in discussione l’opera, perché alla fine tutto ciò sarà inghiottito e metabolizzato nel proseguimento del Mose.
Si sfugge volutamente da un nodo strutturale che contraddistingue questa opera: affrontare nella sua giusta dimensione quel fenomeno della instabilità dinamica, estrema conseguenza della risonanza, delle paratoie del Mose. Perché esiste uno studio della società francese Principia commissionato a suo tempo dal Comune di Venezia che ha evidenziato un comportamento di instabilità dinamica della paratoia del Mose che ne impedisce una modellazione numerica ed un dimensionamento affidabile.
Con lo studio di Principia le Autorità competenti sono di fronte alla responsabilità di far continuare l’esecuzione di un’opera la cui funzionalità viene messa in discussione da autorevoli considerazioni tecnico-scientifiche mai smentite.
A fronte di tale studio che viene intenzionalmente omesso dal dibattito nazionale ed internazionale o male interpretato per incompetenza o convenienza si chiede ormai da troppo tempo un approfondimento della materia, quale quella della instabilità dinamica, estrema conseguenza della risonanza sub armonica, il cui riscontro, se esiste come evidenziato dallo studio di Principia nel caso della paratoia del Mose, inficerebbe un’opera interamente finanziata con risorse pubbliche il cui costo di realizzazione sfiora i 6.000 milioni di euro unitamente agli esorbitanti costi di manutenzione e gestione. Praticamente potrà accadere che le paratoie oscillano con ampi angoli facendo entrare acqua in laguna vanificando così l’effetto diga al contenimento della marea.
Se a tutt’oggi questo approfondimento non lo si vuole fare, confronto /verifica che si è insistito doversi fare con tecnici specializzati nella “modulazione numerica di sistemi marini complessi che interagiscono tra loro in moto ondoso “, viene da chiedersi, pensando positivo, se i nuovi gestori del Mose (in primis commissari del CVN e Presidente ex MAV) sono in grado di garantire la discontinuità del tanto vituperato sistema Mose.
Armando Danella 11 febbraio 2017
La forte probabilità di una conclusione catastrofica dell'affare MoSE era stata denunciata da tempo, ma nessuno ha voluto procedere a un confronto serio, delle numerose analisi compiute in più momenti e più sedi. Ed è stato costantemente ignorato il rischio più grave: la "risonanza", un fenomeno che fece crollare ponti. Torneremo sull'argomento. L'Espresso, 5 febbraio 2017
Non serve essere ingegneri. Non serve nemmeno avere giocato al Meccano da bambini per capire l’effetto devastante di un documento intitolato “possibili criticità metallurgiche per le cerniere del Mose”. Sono nove pagine firmate da Gian Mario Paolucci, già docente di Metallurgia all’università di Padova. Il rapporto è stato commissionato dal provveditorato alle opere pubbliche di Venezia, braccio operativo del Ministero delle infrastrutture. L’Espresso è in grado di anticipare i contenuti di un testo che rivela nero su bianco per la prima volta i vizi strutturali delle dighe mobili contro l’acqua alta a Venezia.
«C’è la seria probabilità che la corrosione provochi danni strutturali e dunque il cedimento della paratoia». «Abbiamo l’assoluta convinzione che la protezione offerta dalla vernice non sia totale». La mazzata finale sull’opera da 5,5 miliardi di euro, che il ministro Graziano Delrio vuole inaugurare a giugno del 2018, arriva a pagina cinque.
Il perno di rotazione sottoposto ai test di laboratorio, per esempio, era fatto di ottimo acciaio prodotto dalla Valbruna di Vicenza e lavorato dalla Focs Ciscato di Velo d’Astico. Invece i perni di serie da installare nelle quattro bocche di porto provengono da impianti dell’Europa dell’Est e presentano una lega diversa da quella del prototipo.
Acciaio depotenziato? La risposta spetta ai tre commissari governativi (Luigi Magistro, Francesco Ossola, Giuseppe Fiengo) in carica da due anni alla guida del Consorzio Venezia Nuova (Cvn), dopo la tabula rasa decisa dal governo sul tavolino di imprese private che si sono spartite i fondi della legge speciale con un uso sistematico di corruzione.
Il processo penale ha stroncato la carriera politica del forzista Giancarlo Galan, governatore regionale per 15 anni e poi ministro, del potente ex assessore Renato Chisso, in un primo tempo confermato da Luca Zaia, e ha coinvolto personaggi del calibro di Altero Matteoli, senatore che ha guidato i ministeri dell’ambiente e delle Infrastrutture, e dell’ex sindaco Paolo Orsoni, accusato di finanziamento illecito e non di corruzione come gli altri.
Guadagnare sott’acqua
La perizia del professor Paolucci è stata ordinata da quello che una volta si chiamava Magistrato alle Acque (Mav), in onore della tradizione antica della Serenissima. Il governo di Matteo Renzi lo ha derubricato a provveditorato alle opere pubbliche dopo lo scandalo delle tangenti del Mose, in onore della tradizione moderna per cui se si cambia nome a un problema il problema è risolto.
Oggi Baita è stato messo da parte e i Chiarotto lo hanno sostituito con l’ex questore Carmine Damiano nel tentativo di scaricare la presunta mela marcia e continuare a fatturare con il Mose. L’affare delle dighe mobili ha trasformato la Mantovani in un gruppo di prima grandezza a livello nazionale, anche se non sempre è andata bene fuori dal Veneto, come si è visto nell’inchiesta sulla piastra per l’Expo 2015 che ha coinvolto l’impresa padovana.
Ma il Mose vale molto di più dell’Expo. Rende in termini di forniture per la costruzione e continua a rendere una volta inaugurato, perché promette altri guadagni con la gestione e la manutenzione, in una banda di oscillazione ancora indefinita tra i 50 e gli 80 milioni di euro all’anno. Nelle previsioni iniziali dovevano essere 20 milioni di euro.
I tre commissari del Consorzio hanno sempre detto che la gestione non andrà in automatico ai costruttori. Di fatto, nel breve termine e con i pasticci tecnici già in corso, non ci sono alternative. E bisogna ricordare che un’altra importante mossa strategica dei commissari governativi, cioè il congelamento dei profitti alle imprese del Cvn in attesa delle decisioni della giustizia, è stata vanificata da una sentenza dell’immancabile Tar del Lazio.
Insomma, se il Mose funziona, bene. Se non funziona, meglio perché ci sarà più manutenzione da fare. Resta sempre più attuale la frase-simbolo coniata dallo spirito brillante di Baita. «Il bello del Mose è che i lavori si fanno sott’acqua». Certo, se non funziona affatto o produce danni al delicatissimo sistema lagunare invece di tutelarlo, la questione diventa imbarazzante. La bella opacità dei lavori rischia di trasformarsi in incubo.
Connettore malafemmina
Il Mose è formato da tre parti principali: i cassoni di ancoraggio in cemento, sprofondati già da mesi alle bocche di porto, le cerniere e le barriere mobili, pronte a sollevarsi per sbarrare la strada all’acqua alta. Per proteggere la struttura dalla micidiale corrosione sottomarina ci sono due sistemi: la verniciatura e la protezione catodica. La verniciatura è soggetta a degrado, scheggiature e danni causati da sabbia e detriti che già si sono verificati. La protezione catodica si realizza attraverso un contatto elettrico con anodi di zinco che si corrodono al posto del ferro e periodicamente vanno sostituiti.
Processo verso la prescrizione
A parte i circa quaranta patteggiamenti, il giudizio contabile potrebbe essere presto tutto quanto rimane della maxi-inchiesta sul Mose e sui manager del Consorzio che sono costati 32 milioni di euro negli anni dal 2005 al 2013. Il record è di 3,2 milioni di emolumenti e lo ha stabilito Mazzacurati nel 2009 cumulando le cariche di presidente e di direttore generale. I tre commissari in carica oggi guadagnano 700 mila euro all’anno in totale.
«Studio Cnr: mezzo milione di tonnellate di cemento pesano sui fondali. «Nel resto della laguna trend in linea con gli ultimi decenni». Il progetto Mose prevedeva l’abbassamento di 8 centimetri in un secolo». La Nuova Venezia, 15 giugno 2016 (m.p.r.)
I maggiori esperti di subsidenza marina gettano l'allarme sulla sempre più ridotta differenza tra il livello delle terre emerse rispetto a quello del mare. Pesante incidenza negativa hanno avuto il MoSE per il bacino lagunare veneziano e la centrale di Porto Tolle per il delta del Po. La Nuova Venezia, 2 giugno 2016 (m.p.r.)
L’Istituto di scienze marine del Cnr, in uno studio presentato a Venezia con i maggiori esperti al mondo di subsidenza costiera, evidenzia una significativa eterogeneità nella perdita di altimetria del suolo rispetto al livello del mare nei vulnerabili ecosistemi della laguna e del delta del Po. Se la laguna e la città sono stabili, il fenomeno aumenta nel sistema deltizio fino a 20 millimetri l’anno. Le bocche di porto della laguna, relative al progetto Mose sperimentano cedimenti di oltre 30 millimetri l’anno, la centrale elettrica di Porto Tolle di oltre 15.
«Oggi si apre una fase processuale importante. Ma c’è ancora molto da scoprire. Su come la politica abbia tenuto in piedi un sistema che alla fine le è sfuggito di mano». La Nuova Venezia, 22 ottobre 2015 , con postilla
«Un sistema al capolinea». Così scrivevano i giornali all’indomani degli arresti per lo scandalo Mose, il 5 giugno 2014. Una «bomba» esplosa a inizio estate, che per la prima volta metteva in discussione quello che per quasi trent’anni è stato il «pensiero unico». L’inchiesta che ha cominciato a far luce su un mondo fino ad allora poco esplorato.
postilla
La corruzione é certamente un aspetto rilevante dell'affaire MoSE: dimostra l'infimo livello di moralità dei corrotti (scelti dagli elettori per rappresentare gli interessi dei più), e il trasferimento del potere reale dalla politica a un'economia, quella capitalistica, basata sullo sfruttamento. Ma colpisce molto che venga trascurato l'errore più grave della politica e della cultura: non aver compreso quando si decise e via via si confermò il MoSE, e ancor oggi non si comprende, che cosa la Laguna di Venezia sia e come il MoSE (e non solo lui) la stia distruggendo. Su eddyburg trovate numerosi documenti che vi spiegano perchè a come: basta che digitiate MOSE sulla finestrella sensibile che trovate in cima a ogni pagina.
Piano piano, tutti i nodi vengono al pettine. Per fortuna c'è la magistratura, ma peccato che i danni provocati dai decisori vengano rivelati post factum, e che i danni li paghiamo noi e i nostri posteri. Il Fatto quotidiano, 1° ottobre 2015
Il mandato dei tre commissari – Giuseppe Fiengo, Luigi Magistroe Francesco Ossola – messi a capo del Consorzio Venezia Nuova, guidato fino all’arresto l’anno scorso da Giovanni Mazzacurati, è di quelli da far tremare le vene ai polsi: ultimare i lavori del Mose e fare pulizia del sistema che ha drenato in tangenti, secondo l’inchiesta della magistratura, una cifra intorno al miliardo di euro, uno dei più imponenti sistemi corruttivi della storia repubblicana. D’altronde il decreto di commissariamento del Consorzio dice espressamente come la “disciplina dei tempi, dei costi, delle modalità esecutive, della qualità delle opere del Mose è risultato costantemente condizionato dagli accordi corruttivi”.
Il “lavoro di pulizia” dei commissari sta già dando i suoi frutti: nel bilancio 2014 del Consorzio, gestito dai commissari di Cantone, risaltano vigorosi tagli come al funzionamento della macchina interna al Consorzio stesso dove da 45-50 milioni le spese sono state ridotte a 15. Nuove imprese, fuori dal giro dei “soliti noti”, come la croata Brodosplit, si sono aggiudicati lavori importanti. Gli appalti da gestire con nuove regole sono oltre duecento. Fiengo fa capire chiaramente che il lavoro è solo agli inizi: “La magistratura ha colto perfettamente i passaggi di soldi che costituiscono la corruzione”, racconta. “La domanda è: da dove arrivano i soldi? Con quale meccanismo gli appalti creano questi fondi con cui si basa la corruzione? Oggi stiamo cercando pian piano di metterlo in luce il meccanismo e correggerlo”.
Fiengo non vuole entrare nei dettagli: “Abbiamo avvertito l’Autorità anticorruzione, dobbiamo fare degli ulteriori controlli, stiamo lavorando a un rapporto”. Ma racconta di come funzioni il sistema funzioni anche dopo che l’Unione europea ha imposto al Consorzio di appaltare alcune gare: “Con gli appalti è ancora peggio”. E come questi meccanismi abbiano garantito le plusvalenze per la corruzione, “soprattutto al Consorzio Venezia Nuova più che alle imprese. E da qui si comprende la potenza di Mazzacurati”.
La legge speciale per la salvaguardia di Venezia del 1994, infatti, stabiliva che gran parte delle risorse, dovessero essere affidate a ununico concessionario, successivamente identificato nel Consorzio Venezia Nuova. Nei fatti veniva consegnato a un pool di imprese costituito ad hoc il monopolio di studi, progettazione e realizzazione delle opere. Solo nel 2002 la Commissione europea ottiene dall’Italia l’impegno a mettere a gara una parte delle forniture per le opere. Il Consorzio si troverà così a gestire, prima dell’arrivo dell’inchiesta della magistratura e dell’arrivo dei commissari, qualcosa come 9 miliardi di euro di cui solo 6 impiegati nella costruzione del Mose. Il Consorzio Venezia Nuova è oggi partecipato dalle maggiori ditte italiane di costruzione: laFincosit, Condotte, Mazzi, Impregilo, Mantovani e da una serie di consorzi e di cooperative. Tutti soggetti che nella vecchia gestione non avevano certo un ruolo di secondo piano e che sono stati coinvolti nell’inchiesta della magistratura. I lavori del Mose sono ad oggi completati al 90 per cento.
Oggi i commissari si trovano nella difficile situazione di dover far lavorare le imprese per concludere l’opera e nello stesso tempo cambiare le regole del gioco a cui le imprese stesse erano abituate. Di fronte al loro arrivo e all’avvio dell’operazione trasparenza, le aziende “hanno fatto resistenza passiva. Sono sconvolte da questa nuova impostazione”. Spiega ancora Fiengo: “Ci abbiamo messo mesi a studiare il sistema, un meccanismo borderline, asseverato dagli organi di controllo, dalla Corte dei conti, un meccanismo che fa perno sull’intermediazione. Noi speravamo fosse solo questo, ma cominciamo ora a vedere che questo meccanismo ha portato a delle falle, a delle criticità nella realizzazione delle opere”.
Una delle “criticità” citate dal commissario potrebbe avere delle conseguenze clamorose: ancora non è chiaro infatti quali tipi di navi possano effettivamente approdare al porto di Venezia con il Mose in funzione. Le conche di navigazione costruite appositamente non accoglierebbero i portacontainer che oggi abitualmente arrivano. “C’è stata incertezza nella fase di progettazione nel definire quale era la nave tipo che dovesse approdare. Incertezza significa esecuzione distorta dei lavori, poi si è pure rotta la porta di accesso” sottolinea Fiengo.
I commissari devono usare anche molta diplomazia: “Difficile dire se i problemi sono nati in fase di studio, di progettazione o di esecuzione e stabilire di chi è la responsabilità. Interloquiamo con soggetti molto attrezzati, con buoni avvocati” sottolinea ironico l’ex avvocato dello Stato. “Comunque siamo ben sostenuti dal prefetto di Roma, da Cantone e anche dal ministro – racconta Fiengo – le volte che le imprese hanno provato ad alzare la testa siamo stati supportati”.
Il commissario comunque conferma, con comprensibile prudenza, che “l’obiettivo è chiudere i lavori il 2018 e, per ora, non ci sono fatti che pregiudichino questo impegno. Ci sono tante criticità, ma tutte compatibili con quella data”. Anche sull’ipotesi di un non funzionamento dell’opera Fiengo si dimostra prudente: «Penso di no, il problema reale è un altro, l’opera è molto frammentata e metterla insieme non è facile. E’ stata frammentata sia per motivi tecnici che di ‘distribuzione di risorse‘, si poteva suddividere il lavoro per bocche di porto invece si è suddiviso per segmenti che adesso è complicato assemblare». Ora insomma viene la parte più difficile anche perché, nel cronoprogramma dell’opera, gestito dalla “cricca”, sono stati programmati all’inizio i lavori più lucrosi e, comunque, quelli che riguardavano l’utilizzo del cemento si cui avevano più professionalità interne, «lasciando alla fine gli impianti, gli appalti più ‘magri’, più difficili».
C’è poi chi pensa che si debba riflettere se completarla o meno: “Il problema è che l’input che hanno ricevuto i commissari è quello di portarla a termine – ragiona il senatore Felice Casson, ex sindaco della città – mentre non è mai stata fatta un’analisi tecnico-scientifica indipendente che valutasse la fattibilità dell’opera. Anzi, quando questa analisi è stata fatta dalla Commissione di Valutazione d’impatto ambientale ha dato esito negativo. Ora di fronte agli incidenti che stanno emergendo – prosegue Casson – sarebbe bene fare una seria valutazione se davvero l’opera dev’essere completata anche alla luce dei costi per la gestione e la manutenzione”.
“Il Mose era e rimane un’opera complessa e mai collaudata in nessuna delle sue parti e tanto meno mai sperimentata in funzione – racconta Andreina Zitelli che di quella commissione Via è stata membro – i malfunzionamenti e le deficienze costruttive saranno poi resi più evidenti dalla cattiva esecuzione delle singole parti che a quanto sta emergendo dall’inchiesta e dagli incidenti sono state oggetto anche di frode esecutiva a scopo di lucro”.
E poi, ammesso che l’opera funzioni, a chi andrà la gestione e la manutenzione dopo il 2018? “Tipico caso italiano: sono stati previsti i soldi per l’opera e non per la gestione”, conclude Fiengo. “Gestione che dovrà comprendere anche la laguna. Si tratta di un unico sistema complesso che non si può suddividere. Per adesso ci hanno chiesto di formulare delle ipotesi”.
«Dello scandalo non si discute più, ma è costato 280 mila euro al giorno per dieci anni. A voler fare un confronto, per i migranti stiamo pagando molto meno: 100 mila euro. La Nuova Venezia, 26 agosto 2015 (m.p.r.)
VENEZIA. La parola Mose è sparita da molto tempo dai giornali e dalle tv e di conseguenza dai discorsi delle persone, sostituita dalla parola profughi. Era già successo in campagna elettorale, quando lo scandalo più grosso degli ultimi vent’anni è stato surclassato, oltre che dal problema profughi, anche dai referendum per l’autonomia e l’indipendenza del Veneto. Con il bel risultato che si è visto: un nobile argomento di cui nessuno parla più, esclusi l’avvocato Mario Bertolissi che se ne occupa per lavoro e il suo collega Alessio Morosin per vocazione. Una meteora.
Peggio: una foglia di fico, che la classe politica veneta tira fuori ogni volta che deve coprire realtà scomode. Aiuta a scantonare. Perfino di Mafia Capitale si parla molto più che dello scandalo Mose. Non a Roma, dove si spiegherebbe, ma in tutta Italia, dove si spiega meno. Il «fatturato criminale» di Mafia Capitale con annessi e connessi va poco oltre 100 milioni di euro, se non abbiamo capito male: il Consorzio Venezia Nuova ne distribuiva 100 all’anno in tangenti, sovrafatturazioni, finanziamenti ingiustificati, sprechi. Ed è andato avanti per dieci anni. Un miliardo in totale.
Curioso che Confindustria nazionale si sia costituita parte civile nei confronti di Mafia Capitale mentre Confindustria Veneto non ha fatto altrettanto per lo scandalo Mose. Un’altra foglia di fico? La cosa andrebbe approfondita. Tutto invece resta nascosto dalla parola profughi, l’unica che tiene banco. Non solo per la paura ancestrale del diverso, per l’ingenua assurda pretesa di fermare un fenomeno epocale vietandolo. O anche sparando. I profughi arrivano perché altri sparano loro addosso, non hanno niente da perdere e continueranno a venire. Ma più di tanti, in condizioni decenti, non ce ne potranno stare. C’è l’impenetrabilità dei corpi, c’è l’insopportabilità ambientale. E ci sono i costi che il sistema Paese deve sopportare per ospitare, anche solo provvisoriamente, questa umanità allo sbando.
Questioni concrete, la demonizzazione non c’entra. L’Italia paga fino a 35 euro al giorno per profugo ospitato. Ne è nata una canea, come se i 35 euro finissero nelle tasche dei profughi, mentre in realtà vanno agli italiani che siglano la convenzione per ospitarli, dunque tornano in circolo nell’economia spicciola del Paese. Al profugo restano due euro e mezzo al giorno. Non sono neanche tutti soldi italiani. In gran parte provengono da un fondo europeo. Resta il fatto che nel maggio 2011, in un momento di massima pressione migratoria, la Fondazione Moressa di Mestre aveva stimato un costo-profughi nel Veneto pari a 100.000 euro al giorno (base 40 euro a persona).
Siete impressionati? Facciamo un confronto con lo scandalo Mose: in 10 anni il Consorzio Venezia Nuova ha fatto sparire un miliardo di euro, destinandolo al «fabbisogno sistemico», come lo chiamava l’ingegner Piergiorgio Baita. Significa 280.000 euro al giorno, sottratti incessantemente, per dieci anni, non all’Unione europea ma alle tasche dei veneti. E non solo da Piergiorgio Baita ma da una compagnia di giro imperniata sull’ingegner Giovanni Mazzacurati che arrivava ai ministeri romani, coinvolgeva magistrati, avvocati, commercialisti, grandi manager, ex ministri, personaggi dell’alta finanza, militari. La crema delle professioni liberali. L’ossatura dell’organizzazione sociale del nostro Paese. Quelli che ci dicono che dobbiamo rispettare le leggi, i primi corrotti.
Quel denaro non è tornato in circolo nell’economia spicciola del Paese. Per la maggior parte è finito su conti privati. Ecco perché 280.000 euro al giorno, rubati per 10 anni tutte le mattine, all’insaputa dei contribuenti, fanno meno rumore di 35 euro stanziati alla luce del sole per ogni profugo. Una gigantesca operazione amnesia avvolge la vicenda Mose. Conviene a troppi.
A rompere il silenzio arrivano solo le interviste negazioniste di Giancarlo Galan, che rinchiuso a Villa Rodella non ce la fa a stare zitto. Bisognerebbe ringraziarlo per i rischi che corre ogni volta che parla. Già si è dato la zappa sui piedi con la Cassazione, che gli ha anticipato l’udienza sul ricorso contro il patteggiamento vanificando i termini della carcerazione preventiva. Così è rimasto agli arresti. Non contento, ha fatto sapere che con i 5.000 euro che la Repubblica continua a passargli, al posto dello stipendio intero di 12.000 da parlamentare, non riesce a pagare la bolletta dell’Enel e deve tener spento il condizionatore. Per fortuna che s’è messo a piovere. Il tempo, almeno quello, si è rotto.
«Perché nella lista dei collaudatori di una diga ci sono almeno sette persone che sono state ai vertici all’Anas, e almeno 36 (trentasei) dirigenti dello stesso ministero? Cosa c’entrano un magistrato e un esperto di conti nel collaudo di una diga?». Corriere della Sera, 1 luglio 2015 (m.p.r.)
Cinque miliardi e 493 milioni di euro: fa impressione soltanto a scriverla, la cifra. Ma nel conto astronomico del Mose di Venezia, il sistema delle dighe mobili concepito per difendere la laguna dall’acqua alta investito anch’esso dallo scandalo della corruzione, si trovano numeri ancora più strabilianti. Sapete quanti sono i collaudatori che sono stati impegnati nella difficile missione di verificare la bontà e la correttezza dei lavori? La lista completa messa a punto dai commissari che gestiscono ora il Consorzio Venezia nuova contiene 130 nomi. Avete letto bene: centotrenta. Se però a questi si sommano quanti per il medesimo Consorzio hanno collaudato lavori lagunari minori collegati al Mose, arriviamo a 316. Trecentosedici, per compensi totali di 19 milioni 818.524 euro e 76 centesimi, dei quali 14,2 per il Mose e il resto per le opere in laguna. È bene precisare che si tratta di incarichi antecedenti scandalo e commissariamento. Alcuni dei nomi più vistosi, per giunta, erano già noti. Lo sguardo d’insieme, tuttavia, apre ora uno squarcio su una delle pratiche più raccapriccianti in voga nel mondo dei lavori pubblici. Tutto legale, s’intende. Ma non per questo meno sconcertante. E scorrendo l’elenco sterminato del Mose vengono in mente tante domande.
Si cominciano a misurare gli effetti del MoSE, i cui lavori hanno già sconvolto equilibri antichi, provocato modifiche disastrose dell’ecosistema, della fauna e della flora, determinato uno squilibrio idraulico pericoloso per la stessa sopravvivenza della Laguna. Una ragionevole Grande Opera sarebbe la demolizione del MoSE e il ripristino della situazione preesistente. La Nuova Venezia, 1° maggio 2015
La laguna è un colabrodo. E nella bocca di porto di Malamocco la corrente e le modifiche dovute ai lavori del Mose hanno scavato buche profonde fino a 50 metri. Una “Fossa delle Marianne” in piena laguna. Che sconvolge equilibri antichi, provoca modifiche dell’ecosistema, della fauna e della flora. E uno squilibrio idraulico pericoloso per la stessa sopravvivenza della laguna. Un timore da tempo avanzato dai pescatori e dagli esperti di morfologìa lagunare. Adesso documentabile, con le fotografie scattate da un appassionato chioggiotto dall’ecoscandaglio a bordo della sua barca.
Ieri a Torino è stato consegnato il dossier dall’associazione Ambiente Venezia: «Lesi i diritti dei cittadini, ignorate le critiche». Comitati sul piede di guerra anche per quanto riguarda il canale Contorta, altra «grande opera». La Nuova Venezia, 15 marzo 2015
Un esposto sul Mose al Tribunale permanente dei popoli. Si riaccendono i riflettori sulla grande opera. Ieri a Torino una delegazione dell’associazione «Ambiente Venezia» ha consegnato al presidente del Tribunale Franco Ippolito un esposto che chiede l’apertura di un procedimento. «Per accertare», si legge nel documento firmato da Armando Danella, Luciano Mazzolin, Stefano Micheletti e Stefano Fiorin, «se nell’iter del progetto Mose siano stati rispettati i diritti dei cittadini».
Qui il PDF dell'esposto dell'Associazione Ambiente Venezia
«Hanno fatto "sparire" i 50 milioni destinati alla difesa della città e della sua laguna, sono gli stessi che amministrano la Fondazione beneficiaria dei finanziamenti. Siamo di fronte ad un vero e proprio sistema di potere, lo stesso che è emerso con la vicenda del Mose». La Nuova Venezia, 26 gennaio 2015 (m.p.r.)
Nella città che hanno lasciato volontariamente priva di ogni rappresentanza democratica il potere adesso è gestito direttamente da quelli che fino a ieri comandavano dietro le quinte. A ogni scandalo svelato ne succede un altro. l'Espresso, 9 gennaio 2015
Sei mesi dopo il maremoto giudiziario, i gattopardi del Mose si riprendono Venezia. La mano di vernice del commissariamento deciso da Raffaele Cantone, presidente dell'autorità anticorruzione, non ha cambiato di una virgola gli equilibri interni al Consorzio Venezia Nuova (Cvn), concessionario unico incaricato di realizzare il sistema di dighe mobili a protezione della laguna. Non è bastata l'espulsione dal sistema di Giovanni Mazzacurati, dominus del Cvn, e di Pierluigi Baita, ex manager-azionista della Mantovani cioè dell'azienda che guida il Consorzio. Né è stata sufficiente l'ondata di patteggiamenti concessi ai politici, dall'ex governatore Giancarlo Galan all'assessore di Galan e di Luca Zaia, Renato Chisso.
In una situazione di vuoto politico, con la città senza sindaco almeno fino a maggio dopo le dimissioni dell'indagato, Giorgio Orsoni, il nuovo e sorprendente protagonista degli affari in laguna è l'incontenibile prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, amico del piduista e piquattrista Luigi Bisignani, nonché cinghia di trasmissione di chi ha spadroneggiato sui sei miliardi di appalti del Mose e non intende lasciare la presa: Gianni Letta, in primis, e subito a ruota, Altero Matteoli, indagato per il Mose e per la bonifica di Porto Marghera, nonché difensore d'ufficio del prefetto di Roma nelle vicende legate all'inchiesta su Mafia Capitale. «Al prefetto Pecoraro va la nostra solidarietà ed il nostro appoggio incondizionato», ha dichiarato all'Adn Kronos l'ex ministro delle Infrastrutture concedendosi il plurale maiestatis.
Chi si chiedesse che c'entra Pecoraro nelle vicende veneziane deve accontentarsi di una risposta formale. La prefettura romana è competente perché si è stabilito che il Mose, pur vivendo nell'extraterritorialità giuridica delle tre leggi speciali su Venezia, è da ritenersi una creatura di due ministeri romani: le Infrastrutture, appunto, e l'Economia che, attraverso il Cipe, un mese fa ha deliberato un altro megafinanziamento da 1,37 miliardi per le dighe mobili. E così Pecoraro si è trovato a redigere l'ordinanza che nomina i due commissari. Si tratta dell'ex finanziere Luigi Magistra, braccio destro del magistrato Gherardo Colombo ai tempi del pool Mani Pulite appena dimessosi dalla vicedirezionc dell'Agenzia delle Dogane, e di Francesco Ossola, progettista dello Juventus stadium e ordinario di ingegneria strutturale al Politecnico di Torino che ha già lavorato per il Consorzio Venezia Nuova nel 1998 nei lavori di rialzo della fondamenta dei Tolentini. Un terzo amministratore sarà nominato prossimamente.
Il prefetto Pecoraro, protagonista di una lunga serie di casi controversi, dall'espulsione di Alma Shalahayeva, moglie del dissidente kazako Mikhtar Ablyazov, alla trattativa dello stadio Olimpico con l'ultras napoletano Genny 'a carogna, dalle cariche contro gli operai dell'Ast di Terni ai permessi alle cooperative guidate da Salvatore Buzzi, non si è limitato a firmare l'ordinanza di commissariamento. Prima delle festività natalizie è sbarcato nella nuova sede del Consorzio all'Arsenale di Venezia e ha incontrato i rappresentanti delle tre principali imprese del Mose, che insieme alla Ccc (Lega coop) hanno quasi il 90 per cento delle quote Cvn: Alberto Lang, vicepresidente in rappresentanza di Condotte, Salvatore Sarpero, direttore generale della Fincosit, e soprattutto Romeo Chiarotto, classe 1929, proprietario della Mantovani.
Dopo l'estromissione di Baita, Chiarotto ha affidato la Mantovani a un altro ex poliziotto come Pecoraro, l'ex questore di Treviso Carmine Damiano - poi finito sotto inchiesta per corruzione - su suggerimento di un altro prefetto, Gianvalerio Lombardi. Nonostante l'età, il costruttore padovano resta il punto di riferimento dell'opera tanto che i rumors lagunari lo dicono responsabile dell'estromissione di Alberto Scotti (TechnitalMazzi), progettista del Mose piuttosto critico sulla riuscita delle cerniere delle dighe prodotte dalla Fip del gruppo Mantovani.
In questo contesto l'ordinanza di commissariamento rischia di ridursi a una lettera di licenziamento per il vicentino Mauro Fabris, lobbista del Mose diventato parlamentare multitasking (Ccd-Cdu, Udr, Udeur, Pdl) e piazzato all'Arsenale su ordine del ministro Maurizio Lupi dopo gli arresti del giugno scorso. Il documento firmato da Pecoraro e datato 1 dicembre 2014 non è proprio un lavoro di cesello. Giovanni Mazzacurati è ribattezzato Giuseppe Mazzacurati. La legge sui compensi agli amministratori è postdatata al 2013, benché sia del 2010, e Alessandro Mazzi di Fincosit-Technital è indicato come vicepresidente del Cvn anche se si è dimesso il 6 giugno 2014, due giorni dopo l'arresto. De minimis non curar praefectus ma la sostanza del provvedimento sta nella messa in sicurezza del Consorzio, nella scelta di completare i lavori con le stesse imprese che hanno iniziato i lavori (loro erano innocenti, gli amministratori erano colpevoli) e di mantenere in carica i commissari "fino a collaudo avvenuto". In termini di tempo, questo significa almeno il 2018 se i lavori, dopo l'ultimo slittamento, saranno completati nel 2017.
Da lì in avanti si apriranno due partite. La prima è il pagamento dei commissari. L'ordinanza ha rinviato la quantificazione del compenso ma ci sono in sostanza due soli modi. L'opzione forfettaria con un salario annuo sotto il tetto massimo dei 240 mila euro fissato per gli stipendi dei manager pubblici. Oppure c'è l'opzione privatistica che retribuisce i commissari in percentuali sui lavori fissate dagli ordini professionali di appartenenza. Non c'è dubbio che il Cvn sia un raggruppamento di imprese private, anche se opera con fondi pubblici. Quindi, a termine di legge, le parcelle dei commissari potrebbero essere nell'ordine di qualche milione di euro, dato che il costo finale del Mose si aggira sui 6 miliardi.
La seconda riguarda il grande business della manutenzione delle dighe mobili. I.a messa in opera delle paratoie alle bocche di porto ha già evidenziato problemi di tenuta delle vernici, già denunciati da studiosi come Fernando De Simone, e di proliferazione di microrganismi marini. Ancora non c'è una cifra certa sull'impatto economico annuale della manutenzione delle dighe ma la stima fatta da Baita a l'Espresso (da 20 a oltre 60 milioni di euro) offre una banda di oscillazione troppo ampia per non indurre in tentazione. Per citare una frase famosa attribuita a Baita: «Il bello del Mose è che i lavori si fanno sott'acqua».
Paradossalmente, il commissariamento sembra avere dato forza a chi critica le dighe mobili, un fronte molto eterogeneo. I commercianti hanno ribadito che piazza San Marco non sarà protetta dalle paratoie alle bocche di porto, sollevate con la marea a 110 centimetri mentre San Marco va sotto con 80 centimetri. Hermes Redi, progettista nominato direttore generale del Cvn poco prima del commissariamento, ha confermato che, senza le opere complementari necessarie a proteggere il cuore e il simbolo di Venezia, piazza San Marco continuerà a sparire sotto l'acqua come è accaduto duecento volte nel 2014. Questi interventi complementari, peraltro, costerebbero 100 milioni di euro, una frazione pari a circa un sessantesimo del costo delle dighe mobili.
I comitati ambientalisti (No Mose e Ambiente Venezia) si sono rivolti ai due neocommissari per riportare all'attenzione il possibile malfunzionamento del sistema in condizioni di mare agitato. È una questione emersa già nel 2008 dallo studio della società francese Principia commissionato dall'allora sindaco Massimo Cacciari. I.e critiche e i dubbi di Principia erano stati accantonati dal presidente del Magistrato alle Acque PatrizioCuccioletta,altro uomo di Gianni Letta che íà finito nell'inchiesta e ha patteggiato la condanna, a differenza della collega Maria Giovanna Piva che attende la richiesta di rinvio a giudizio come Orsoni, Matteoli e l'ex europarlamentare Pdl Lia Sartori. 11 Magistrato alle Acque era il principale controllore del Mose ma, in realtà, i funzionari del ministero erano totalmente a disposizione delle maggiori imprese del Consorzio che scrivevano anche i testi per conto dei dipendenti statali.
Anche la struttura del Magistrato alle Acque ha ricevuto la sua parte di vernice antiruggine. In primo luogo, Matteo Renzi lo ha soppresso e ha trasferito ic sue competenze al Provveditorato alle opere pubbliche del Veneto. Ma con la nuova veste i rapporti di forza non sembrano cambiati. Chi comandava nel Consorzio prima comanda anche adesso. L'incontro di Pecoraro a dicembre con i grandi azionisti del Consorzio, rivelato dalla Nuova Venezia, ha molto scontentato le piccole cooperative locali socie del Cvn che, con l'eccezione del Coveco di Pio Savioli, non sono state sfiorate dall'inchiesta e che continuano a trovarsi ai margini dei processi decisionali. Circostanza ancora più incresciosa, dovranno partecipare pro quota al rimborso di 27 milioni di euro dovuti all'Agenzia delle Entrate per l'evasione fiscale accertata dalla Guardia di finanza e finalizzata a creare i fondi neri necessari per pagare le mazzette ai politici.
Tra i relatori anche Hermes Redi, neodirettore del Consorzio Venezia Nuova, il responsabile del servizio informativo Giovanni Cecconi. E poi l'economista Ignazio Musu, nominato tra i cinque esperti che promossero il Mose al posto di Paolo Costa, diventato ministro dei Lavori pubblici. Ha parlato ieri, 15 anni dopo la sua relazione, dello stesso tema «Aspetti economici della salvaguardia di Venezia». C'era anche Andrea Rinaldo, ingegnere padovano che nel 1999 fece parte del «panel» di consulenti del Consorzio per promuovere il Mose. Conclusioni del professor Carlo Doglioni (subsidenza) e della soprintendente Renata Codello.
«Secondo i costruttori bastava Una pulita OGNI 5 anni." Ma non si Tratta di un errore di VALUTAZIONE:. Il Consorzio ha sempre puntato also alle gare milionarie per la Manutenzione delle Dighe L'avevano perfino promesso Ai Dipendenti Che l'Hanno Ammesso " ». Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2014 (MPR)
Corriere del Veneto IL CAPO DELL'ANTICORRUZIONE
INCONTRA MAGISTRATI e CONSORZIO:
«UN COMMISSARIO? VALUTEREMO» di Monica Zicchiero e Alberto Zorzi,
VENEZIA – «Il commissariamento delle imprese corruttrici negli appalti pubblici è una norma storica. Il senso è: non solo ti mettiamo in carcere, ma non ti permettiamo di prenderti i soldi del reato che hai commesso. Ci proveremo ad applicarla anche a Venezia per il Mose». Strappa l’applauso della folla il presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone, invitato a parlare di legalità e appalti con il senatore Felice Casson dall’associazione Umberto Conte in un teatro Aurora strapieno nonostante il caldo.
Sarà l’affare successivo e bisogna avere occhi aperti. Solo chi ha costruito l’opera, sa come funziona. Il famoso disegno dell’appalto che dura tutta la vita e anche oltre». Anche se proprio nel corso della visita al Consorzio il presidente Mauro Fabris gli aveva chiarito la sua posizione. «Noi vogliamo concludere i lavori e accelerare il più possibile la fase di avviamento - spiega - ma poi la modalità di gestione la sceglierà il governo. Noi come Consorzio non ci candideremo ». La questione della conclusione dei cantieri è l’altro punto caldo. «Mi pare poco praticabile l’idea di accantonare un’opera completata all’ 85 per cento», dice Cantone, ma dal pubblico si alzano contestazioni: «Hanno speso l’85 per cento dei soldi, non fatto l’85 per cento delle opere ». Lui alza le mani: «La politica si deve assumere la responsabilità di dire cosa va fatto». E al massimo può dire alla politica cosa non va fatto. Perché, come dice il senatore Casson, «il fatto che ci siano le stesse persone in campo e in galera nella prima e nella seconda Tangentopoli milanese e veneta è un modo di intendere gli affari».
Primo, non sottovalutare i corruttori. «In Italia corruttori ed evasori fiscali sono simpatici, è gente che se la sa cavare e nessuno si scandalizza se tornano in Parlamento. Invece devono essere considerati come i mafiosi ». Tra prescrizioni dimezzate per i reati di corruzione e falso in bilancio depenalizzato, Cantone critica il codice degli appalti, «che si applica sono agli sfigati è che per l’Expo è stato derogato 86 volte». Parole dure anche per la legge obiettivo, che ha fatto fare il salto di qualità al Mose, ma anche al sistema corruttivo. «I general contractor sono gli stessi dieci grandi costruttori che decidono il bello e il cattivo tempo delle opere pubbliche», avverte il magi- strato, secondo il quale servono sanzioni semplici ed esemplari: «I corruttori vanno allontanati dai posti di comandi e per i politici non deve esistere la presunzione di innocenza: deve esserci la certezza della specchiatezza». Resta solo la consolazione che nell’«affaire» Mose non ci sono infiltrazioni mafiose e che l’indagine è stata «da manuale », perché che ha dimostrato come la corruzione abbia permeato anche il sistema dei controlli. «Peggio Milano o Venezia? Peggio Venezia, secondo me», dice Cantone. Il magistrato alle tre era arrivato all’Arsenale per incontrare il presidente Fabris e il direttore Hermes Redi. «Ci eravamo già visti un paio di settimane fa, sono stati due incontri costruttivi e molto concreti - è stato il commento di Fabris - Lui vuole capire, noi con la massima trasparenza gli stiamo dando le informazioni che chiede».
Il presidente del Consorzio preferisce non entrare nel merito degli argomenti trattati, ma la posizione è piuttosto chiara: il sistema della concessione unica è stato creato con delle norme statali, e non c’è stata nessuna «privatizzazione», visto che il soggetto pubblico nel Mose c’è ed è il Magistrato alle Acque. Alle quattro e un quarto, sbarcando da un motoscafo della Guardia di Finanza, Cantone è invece arrivato in Procura a Venezia, dove ha incontrato il procuratore capo Luigi Delpino, il nuovo procuratore aggiunto Adelchi D’Ippolito (che ieri era in visita di cortesia, ma che si insedierà a settembre) e i tre pm che coordinano l’inchiesta sul Consorzio e sulla Mantovani: Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini. Il presidente dell’Anticorruzione ha spiegato che aveva la «necessità di parlare con i colleghi», ma ha spiegato di «non poter rivelare i contenuti del colloquio». In mezz’ora si è parlato dell’inchiesta (su cui peraltro era molto aggiornato) e appunto dell’applicabilità della norma sulle mazzette negli appalti al caso del Consorzio, oltre agli sviluppi futuri, anche dal punto di vista della tempistica.
E Cantone, di rimando: «Un Comune qualsiasi deve seguire il Codice degli appalti, mentre qui sono stati spesi 6 miliardi senza averne fatto alcuno, perché non erano previsti dalla legge che ha assegnato ai privati la gestione, senza controllo, dei soldi pubblici». Affondo finale: «E questo, con il silenzio di tutti».
Afferma Francesco Indovina: «Dovevamo controllare i fondi e verificare la Legge speciale. Abbiamo lavorato per anni, ma alla fine ci siamo accorti che nessuno seguiva le nostre indicazioni. Tra noi spesso ci si chiedeva: ma per chi stiamo lavorando?». Di certo non per la collettività. Il Gazzettino, 17 luglio 2014, con postilla
postilla
Le simpatie di Francesco Indovina per il MoSE, come grande occasione per lo sviluppo della città sono note ai veneziani, ma non solo ad essi. Rinviamo in proposito a un suo articolo sul manifesto del novembre 2006,ripreso da eddyburg: Io sto con il Mose, vi spiego perché . E' contenuta nell'ampia cartella da questo sito dedicata a quella Grande opera soggetta a critiche, solo oggi largamente condivise.
Meno note sonole critiche che gli esperti che, come Indovina, lavoravano per il MoSE. Peccato che queste ultime siano rimaste racchiuse nel silenzio degli organismi che lavoravano per il MoSE. Per il MoSE, e soprattutto per quello che del mostro sembra essere stato il maggior promotore, autore, difensore e beneficiario: il Consorzio Venezia Nuova. Sembra oggi che l'unico colpevole del danno provocato dalla vicenda, per molti aspetti ancora oscura, sia del povero ing. Mazzacurati.
Sarà difficile trovare ancora avvocati difensori capaci di far prevalere la tesi che debba essere punito chi ha criticato gli errori del MoSE e le malefatte dei suoi numerosi promotori, autori e coadiutori. La Nuova Venezia, 5 luglio 2014