L’assessore regionale al Territorio, il leghista Davide Boni, aveva promesso che avrebbe fatto le barricate contro una nuova colata di cemento in particolare a Milano. Ma dopo l’approvazione alla riforma della sua legge urbanistica ieri in consiglio regionale, al contrario, con la scusa dell’Expo, il sindaco Letizia Moratti avrà praticamente carta bianca sul via libera a nuove costruzioni su ogni spazio rimasto libero, anche se destinato a verde pubblico non realizzato, sul suolo milanese. Grazie a una norma ad hoc, presentata ieri proprio dallo stesso assessore Boni, che prevede che «nei Comuni interessati dalle opere essenziali previste dal dossier di candidatura Expo 2015, da ora in poi, l’approvazione dei nuovi piani attuativi spetterà solo alla giunta». Esautorando di fatto i consigli comunali. Il contrario di quanto accadrà in tutti gli altri casi e di ciò che prevedeva il testo del precedente emendamento presentato dall’assessore al Territorio del Carroccio.
Non solo. Contrariamente a quanto annunciato, i Comuni che non approveranno entro i prossimi sei mesi i Piani di governo del territorio (i nuovi Piani regolatori) non rischieranno affatto la nomina di un commissario ad acta. Basterà, infatti, «che deliberino l’avvio del procedimento di approvazione del Pgt entro il 15 settembre» e tutto si fermerà. Come prevede un secondo subemendamento presentato ieri sempre da Boni. Nel caso dei piani integrati di intervento già approvati, invece, tutto resterà come prima.
Miracoli di un accordo politico raggiunto in mattinata tra il coordinatore regionale della Lega Giancarlo Giorgetti e il segretario regionale di Forza Italia Guido Podestà, con la benedizione del governatore Roberto Formigoni. Ignota la contropartita, ma i rumor parlano di concessioni sulle candidature alla Provinciali e di promesse di posti di peso nelle future nomine. Dalla Fiera alle Ferrovie Nord. Solo per fare un esempio. «L’inusuale presenza dell’assessore comunale all’Urbanistica ciellino Carlo Masseroli durante la votazione - commenta polemico il Verde Carlo Monguzzi - è la prova lampante del forte interesse di Milano alle modifiche approvate». Lui replica ironico: «Ero in Regione per altri motivi. Certo che sono interessato. Sono l’assessore all’Urbanistica e non alla Cultura».
Un boccone imposto alla Lega pare dai piani alti del Pirellone molto pesante da mandare giù, nonostante le contropartite offerte. E infatti parte subito la vendetta. Quando proprio i banchi del Carroccio impallinano palesemente un emendamento pro-Malpensa presentato da un altro ciellino: l’assessore lombardo ai Trasporti Raffaele Cattaneo, pupillo di Formigoni. «La Lega nord tradisce Malpensa - reagisce il capogruppo di Forza Italia in Regione Paolo Valentini - gli elettori lo sappiano». Al quale, però, il suo omologo della Lega Stefano Galli risponde per le rime: «Non accetto lezioni di moralità, soprattutto quando il mio gruppo più volte si è turato il naso su questioni che non facevano parte del programma. Martedì prossimo la posizione della Lega su Cattaneo potrebbe sorprendere». Il centrosinistra, infatti, ha presentato una mozione di sfiducia contro l’operato dell’assessore. Un segnale anche questo? Si vedrà.
«La riforma mette solo ordine alla pianificazione edilizia. I programmi integrati di intervento sono bloccati a 360 gradi», si difende ora l’assessore Boni. Ma il centrosinistra attacca su tutta la linea. «Formigoni ha dato il via libera a un nuovo consumo del suolo», protesta Marco Cipriano di Sinistra Democratica, per il quale adesso c’è «il liberi tutti». «Porte aperte alla cementificazione anche di Linate», aggiunge Stefano Zamponi di Italia dei Valori. «Più che una legge - sintetizza il Pd Giuseppe Adamoli - è frutto di una trattativa sindacale tra le forze della maggioranza, una mediazione che non ha ammesso modifiche».
"Un accordo sulla pelle della gente"
Intervista al Consigliere Pd Mirabelli
Franco Mirabelli, consigliere regionale del Pd, come giudica la nuova legge urbanistica dell’assessore leghista Boni?
«Un pasticcio. E non ci vorrà molto per rendersene conto. Avevamo condiviso la decisione di prorogare i tempi per la presentazione dei nuovi Pgt. Vale lo stesso per la scelta di spingere i comuni di dotarsi al più presto di questi piani, riducendo drasticamente la possibilità di ricorrere alle varianti urbanistiche».
E allora cosa c’è che non va?
«Ci sono due elementi inaccettabili. Si sceglie di utilizzare anche le aree standard a verde per costruire edilizia residenziale pubblica, invece di preferire come avevamo suggerito noi le aree standard destinate ai servizi. Lo stesso Boni ha affermato che in Lombardia c’è un eccessivo consumo del territorio. Da ora in poi ci sarà la possibilità di consumarne altro. Siamo favorevoli ad affrontare il problema della casa, ma ad esempio inventando un uso diverso degli spazi destinati al terziario. Solo a Milano ci sarebbe lo spazio equivalente a trenta grattacieli Pirelli».
Invece?
«Si usa la scusa dell’Expo per dire che i comuni che saranno interessati ad opere collegate all’esposizione potranno decidere le varianti solo con il benestare della giunta e senza passare dal consiglio comunale. Una soluzione non solo sbagliata, ma che produrrà una valanga di contenziosi. Un accordo politico sulla pelle di Milano e dell’interesse dei cittadini».
Dopo uno stallo durato mesi, riparte il progetto per la costruzione del Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata del professor Umberto Veronesi, che dovrebbe sorgere in un'area del Parco Sud. Ieri, nel corso di una riunione, i tecnici di Regione, Provincia, Comune, Parco Sud e Fondazione Cerba hanno finalmente approvato il testo finale dell´accordo di programma. La novità principale è un aumento di dieci milioni di euro degli investimenti per le opere di compensazione. Che passano così da 25 a 35 milioni di euro. In particolare, sono previsti l'ampliamento dell´area di parco attrezzato, l'allargamento di alcune strade e il prolungamento della metrotranvia. Una decisione attesa dal maggio scorso e la cui mancanza aveva convinto alcuni soci privati, in particolare Mediobanca e Telecom, a bloccare i finanziamenti, vista anche la crisi economica. Ora, dopo il superamento dello scoglio burocratico, cresce la speranza che ci ripensino. E che i lavori possano finalmente iniziare alla fine di quest´anno, o al più tardi all´inizio del 2010.
Dopo la riunione di ieri, tra i tecnici sembra tornata la fiducia. Anche perché il consenso "politico" di Regione, Provincia e Comune era già stato raggiunto. L'accordo di programma tra le istituzioni e la Fondazione Cerba, infatti, era un passaggio necessario per iniziare i lavori. Ora l´accordo raggiunto ieri dovrà essere nuovamente approvato dalle giunte del Pirellone, di Palazzo Isimbardi e di Palazzo Marino e infine dal consiglio comunale. Gran parte della discussione in questi ultimi mesi ha riguardato gli oneri di urbanizzazione: un progetto come questo, non a scopo di lucro, deve essere esente dal loro pagamento o no? Alla fine ha prevalso la tesi delle opere di compensazione.
I cantieri della nuova cittadella della scienza, in realtà, sarebbero dovuti partire all'inizio dell'anno per concludersi nel 2012. La speranza è che i soci privati, che nonostante le perplessità emerse sono rimasti dentro la Fondazione, a questo punto sblocchino i loro investimenti. Rappresentano il gotha della finanza e dell'economia: da Mediobanca alle Generali, da Banca Intesa a Capitalia, da Unicredit a Pirelli. Finora hanno investito 10 milioni di euro. Ma alla fine del 2008 hanno staccato l´ultimo assegno di 150mila euro.
L'accordo raggiunto si sarebbe dovuto siglare in realtà già a maggio, dopo la decisione della Provincia di stralciare il progetto da uno dei piani di cintura del Parco Sud e il parere positivo della Regione sulla valutazione di impatto ambientale. Ora potrebbe ripartire il conto alla rovescia: la prima pietra al più tardi all'inizio del prossimo anno nel cantiere di via Ripamonti e la conclusione dei lavoro tre anni dopo. Il nuovo centro sorgerà su un'area di oltre 610mila metri quadrati accanto allo Ieo, l'istituto europeo di oncologia diretto da Veronesi. Ospiterà laboratori per l'attività di ricerca, formazione e cura dei pazienti. Oltre a una unità interdisciplinare per l'oncologia, la cardiologia e le nanotecnologie applicate alla medicina e alle neuroscienze.
Nota: ad “aggravante” del progetto Cerba, non va dimenticato il suo uso strumentale come testa d’ariete per scardinare nel metodo e nel merito la tutela della greenbelt metropolitana milanese, e in generale quella degli spazi aperti, agricoli e naturali, come ha dimostrato il dibattito sul cosiddetto emendamento ammazzaparchi (f.b.)
A un anno dalla introduzione del ticket d’accesso al centro storico milanese attraverso i valichi istituiti sulla circonvallazione “spagnola” i risultati sono deludenti. La leggera diminuzione degli ingressi verificata all’inizio non regge, gli automobilisti si sono abituati, il prezzo è troppo basso, le auto moderne a bassa emissione di inquinanti e quindi ammesse sono aumentate. Cosa propongono i nostri amministratori? Ci saremmo aspettati una stretta: l’estensione della tassa ai mezzi a benzina ora esenti e ai diesel recenti privi di filtro del particolato, l’aumento sensibile dell’importo, l’estensione delle barriere alla cerchia esterna. L’unico provvedimento preso è all’incontrario: infatti hanno prolungato di un anno la libertà di accesso proprio alle auto diesel euro 4 prive del filtro mentre si erano impegnati a cancellarla il primo gennaio. Intanto continua e si intensifica la politica comunale contraddittoria dei parcheggi sotterranei centrali anche a rotazione che richiamano migliaia di automobili. Politici, amministratori e capi-corporazione, attenti esclusivamente a interessi particolari, quando si occupano di inquinamento e di traffico discutono un problema per fingere di risolverlo senza toccarne un altro anzi favorendone l’aggravamento. Parlano esclusivamente di smog, peraltro accettandone il continuo superamento dei limiti di legge, ma non dicono una parola sul traffico privato come male in sé da cui consegue non solo l’inquinamento ma il complessivo mal funzionamento della città e la penosità del vivere dei cittadini e dei frequentatori. La presenza in città di mezzi fermi o in stentato movimento, automobili, camioncini, motociclette, motorini è impressionante. Le sole auto che varcano ogni mattina i confini comunali sono, secondo diverse fonti, fra 600 e 800.000.
I ciclisti (pochi rispetto ai molti che ci sarebbero in base a una politica per così dire al 10% di quella olandese) si arrabattano senza ciclopiste, ufficiosamente tollerati a percorrere i marciapiedi a loro volta invasi dalle motociclette. Il Bike sharing, tarda e misera copia milanese dell’iniziativa parigina, mancando le ciclopiste non servirà a niente. Sulla presenza delle moto debbo soffermarmi. Le motociclette di ogni genere e cilindrata sono diventate la nuova persecuzione urbana, per come si muovono a sciami, per come invadono tutti gli spazi, persino i portici e i sagrati delle chiese. Si dirà che più moto uguale meno auto. Non ne sono sicuro, potrebbe darsi meno moto uguale più viaggi sui mezzi pubblici o più biciclette. Lo sono invece circa la loro proterva invasività e violazione di ogni regola, sia nello spostarsi che nel parcheggiare. E i camioncini che caricano e scaricano le merci quasi senza limitazioni di orario? Il Consiglio comunale ha votato unanimemente da mesi un ordine del giorno che ammette le operazioni solo nelle ore serali e notturne, ma l’attuazione è impossibile. La potente corporazione dei commercianti si oppone, è essa che comanda, protetta dal suo sindaco-mentore Letizia Moratti.
E il pedone? È il corpo estraneo della città, non gli spettano spazi, se non l’unico asse San Babila – Duomo – Castello dove si raccoglie tutto l’andirivieni stranito dello shopping che non riguarda i cittadini residenti. Altrove il milanese appiedato non trova sgombre nemmeno le piazze storiche, deve aggirarsi a zig zag fra i mezzi posteggiati, abusivi o no.
Ancora sul ticket. Se tutte le automobili appartenessero, come sarà fra non molto tempo, alla tipologia europea più aggiornata nessuna verrebbe ostacolata e il caos urbano aumenterebbe. Con aria migliore, direbbero. Ma se la città continuerà a non funzionare, se i suoi spazi pubblici continueranno a degradare, se insomma il cittadino non potrà godere la sua città? Se è il traffico privato in quanto tale a negare la vita urbana, è questo che si deve abbattere. Bisogna diminuire drasticamente il numero di veicoli in circolazione. Contrariamente al vecchio principio di “far scorrere, facilitare”, caro ai vigili urbani milanesi, i mezzi privati devono essere ostacolati, gli si deve rendere la vita difficile, se così posso dire. “Sperimentando”, scriveva Guido Viale, diversi e coerenti provvedimenti.
Comunque nessuna ipotesi ha senso se non si basa su un immediato deciso aumento del trasporto pubblico cominciando dal ribaltamento delle scelte effettuate in quindici anni di amministrazione liberista.
Ma quale amministrazione potremmo mai avere nella morattiana e berlusconiana Milano, con l’ex sinistra che in tema di urbanistica e cose pubbliche si esprime a balbettamenti se non a sottomessi consensi?
Milano, 16 gennaio 2009
Le esposizioni universali (Expo nel gergo attuale che ne segnala il rientro nella quotidianità), dopo quelle nazionali tra la fine del XVIII secolo ed il 1849 si inaugurano sotto la spinta del commercio con l'Esposizione Universale di Londra del 1851. Di essa restano, nella storia dell'architettura, il Palazzo di Cristallo di Paxton, la discussione per la costituzione di un progetto di forme degli oggetti d'uso coerente con la produzione industriale, la discussione sui dazi delle merci e le prime collaborazioni di Marx al «New York Daily Tribune».
Nel 1855 anche Parigi apre una propria «grande esposizione universale», di cui conosciamo il commento di Charles Baudelaire. Del 1876 è l'esposizione di Philadelphia ed una seconda parigina (con la celebre Galerie des Machines) e la Tour Eiffel del 1889; tre anni prima quella di Vienna con la sistemazione del Prater. Poi nel 1893 quella di Chicago, fiera colombiana commemorativa del quattrocentenario della scoperta dell'America. Alla fine del secolo vi è una diffusione larga di esposizioni internazionali o universali. Anche in Italia nel 1902 a Torino e nel 1906 a Milano si celebrano esposizioni internazionali. Poi Parigi nel 1925, Stoccolma nel 1930, Chicago nel 1933, Bruxelles nel 1935, ancora Parigi nel 1937, New York nel 1939, ed infine quella fallita di Roma del 1942. Per ricordare le più importanti recenti si deve ancora citare la «South Bank Exhibition » a Londra nel 1951, poi Bruxelles, Torino, Losanna, New York e così via.
Dalla fine degli anni '60 la loro importanza comincia a declinare in funzione del loro infittirsi, sino a confondersi con le fiere e con le manifestazioni sportive internazionali, sino a diventare uno strumento premoderno con la diffusione degli strumenti di comunicazione immateriale in grado non solo di regolare meglio e più rapidamente scambi commerciali e finanziari ma anche di suscitare intorno ad uno specifico tema l'interesse civile: ed anche quello speculativo, così anche l'esposizione universale si è trasformata in «evento» che, come ogni cosa nel mondo contemporaneo, vive come evento temporaneo. Anziché di modificazioni strutturali, solo di processi strumentali. Io credo perciò che da un «evento come un Expo» non si possano più attendere trasformazioni culturali e civili durevoli, né capacità di attrazioni grandiose.
Le «Expo» dei nostri anni vivono soprattutto sulla concentrazione su di esse degli interessi del «marketing pubblico », in qualche caso di quello turistico e immobiliare, e soprattutto, nei casi migliori e di accordo politico tra amministrazione locale e nazionale, della possibilità di acquisire finanziamenti eccezionali, capaci, nei casi migliori, di risolvere problemi infrastrutturali e di servizi durevoli ben al di là dell'occasione specifica. Un lodevole interesse tattico coperto da qualche slogan strategico.
Un tunnel lungo quasi quindici chilometri che dall´area Expo porta all´aeroporto di Linate passando sotto il centro città. Un´opera mastodontica, il cui costo è stato stimato intorno a due miliardi di euro, che il Comune ora cerca di far rientrare fra le infrastrutture previste per la grande esposizione del 2015.
In realtà nel dossier di candidatura con cui il sindaco Moratti conquistò la fiducia del Bie non se ne parla. Ma prima di Natale la rivisitazione del vecchio progetto di tunnel Certosa-Garibaldi, licenziato nel 2006 dall´allora sindaco Gabriele Albertini, è entrato nell´elenco delle opere complementari all´Expo, che annovera una serie di lavori secondari che dovrebbero aggiungersi ai già precari interventi principali, quelli legati al sito vero e proprio e tutte le infrastrutture in carico alla Regione come Brebemi, Pedemontana e nuovi collegamenti ferroviari.
In pieno caos Expo, con la società impantanata nel braccio di ferro tra sindaco e governo e nessuna certezza sui finanziamenti promessi, al lungo elenco dei lavori che la città dovrà sostenere da qui al 2015 se ne aggiunge un altro. I tecnici ci stanno lavorando da settimane, con simulazioni, studi di fattibilità e analisi economiche. La prossima settimana si riuniranno intorno a un tavolo gli uomini dell´assessore all´Urbanistica Carlo Masseroli e quelli del collega ai Lavori Pubblici Bruno Simini - entrambi sostenitori del progetto - per iniziare a mettere a punto una proposta definitiva. Ma già un´idea di massima c´è, come si legge in una valutazione fatta da Infrastrutture Lombarde (società della Regione) a cui è stata passata la pratica dopo un parere non del tutto favorevole dell´Ama (società del Comune).
Il tracciato del tunnel, si legge nel rapporto, dovrebbe collegare l´area Expo con la tangenziale Est all´altezza dello svincolo di viale Forlanini, per un totale di 14,5 chilometri. Rispetto al primo progetto, quello che Albertini in un´ordinanza aveva definito «di interesse pubblico», si sono aggiunti cinque chilometri e nove uscite: Console Marcello, Nuova Strada interquartiere, l´autostrada A4, la Fiera, Cascina Merlata, Bovisa, Monteceneri, Zara, piazza della Repubblica, Garibaldi, piazzale Susa e viale Juvara. Non solo. Il tunnel che collegava l´autostrada dei Laghi a Garibaldi doveva essere tutto in project financing, ripagato con il pedaggio in 60 anni (concessione già di per sé più lunga del previsto). Ora sempre lo stesso gruppo di imprenditori - capeggiati dalla Torno - propone un´opera che la stessa Infrastrutture Lombarde sostiene necessitare «di un contributo pubblico in conto investimenti, a fondo perduto, di circa 750-800 milioni di euro». Una cifra enorme, in un periodo di magra come questo, per un intervento su cui oggi, alla luce del futuro poco roseo che si prospetta per l´aeroporto di Linate, potrebbero essere sollevata più di una perplessità. La prima: dove trovare i soldi? Il Comune non nasconde la speranza che nella partita rientri anche la Regione. «È un´opera che ha una portata molto più che cittadina - spiega l´assessore Bruno Simini - , di importanza strategica per Milano. Fosse per me sarebbe una priorità assoluta al di là dell´Expo. Permetterebbe finalmente di alleggerire le tangenziali, oggi completamente intasate, e di far scomparire sotto terra milioni di auto l´anno. Questo gioverebbe non solo dal punto di vista della mobilità, ma diminuirebbe anche l´inquinamento».
Il progetto, che con Albertini si era arenato perché gli imprenditori non avevano trovato un garante finanziario come previsto dagli accordi, è tornato alla ribalta con la nuova giunta Moratti. Il Comune ha chiesto delle modifiche, come l´allungamento del percorso, e nuove simulazioni. L´idea originale aveva sollevato qualche perplessità soprattutto dal punto di vista finanziario. Così i privati, tornati alla carica e appoggiati dai due assessori di Forza Italia Simini e Masseroli, hanno presentato un nuovo progetto che ora si prepara a essere varato. Sempre che il Comune trovi i soldi per realizzarlo. Ma pare che una delle intenzioni di Palazzo Marino sia iniziare comunque con una prima tranche (Certosa-Garibaldi) che costerebbe 700mila euro. «Realizzare quest´opera significa creare un indebitamento di fronte al quale quello dei derivati è niente - commenta critico il consigliere dei Verdi Enrico Fedrighini - . Invece di procedere con una politica di potenziamento del trasporto pubblico per liberare la città dalle auto, col tunnel si va nel senso opposto. In periodo di crisi bisognerebbe dare assoluta priorità alle metropolitane». E ancora: «Ho presentato un´interrogazione per sapere se l´ordinanza di Albertini è ancora valida, visto che chiedeva la nomina di un garante finanziario entro 90 giorni e i privati non sono mai stati in grado di trovarlo».
postilla
Niente da dire: non sorprende il coerente approccio, a metà fra l’ingegneristico anni ’60 e il puro folklorismo, con cui si propone questa opera di “interesse pubblico”, ovvero da realizzare con soldi pubblici, ma per scopi che con la pubblica utilità non hanno nulla da spartire. Siamo, guardando solo con un briciolo di attenzione in più, dalle parti delle operazioni di urban renewal novecentesche, già di per sé abbastanza brutali, e a cui quasi tutti i processi di riqualificazione aperti nel mondo cercano ora di rimediare: quartieri devastati dagli svincoli, nuova congestione indotta, inquinamento, degrado ecc. ecc.
Ma, come sempre accade, chi decide a Milano sembra non guardare in faccia a nessuno, salvo naturalmente ai soliti interessi amici, vale a dire i grandi progetti di trasformazione urbana innestati sul braccio Linate-Expo (Lisbona-Kiev? e l'aeroporto di Linate magari trasformato in un nuovo quartiere di lusso dopo la dismissione?) della famosa “T Rovesciata” . Quella per intenderci descritta nel Documento di Inquadramento delle Politiche Urbanistiche Comunali, ovvero il contenitore elastico di tutto quanto proposto dagli interessi via via prevalenti.
Pare di intuire, insomma, che la città ideale graniticamente perseguita da questi signori sia davvero fatta da due milioni di cafoni strombazzanti sul SUV, che scorazzano avanti e indietro da un parcheggio in seconda fila all’altro, all’ombra dei cartelloni pubblicitari del nuovo quartiere “a misura d’uomo”. Stomachevole.
Milano è sommersa da una cementificazione indiscriminata ed insostenibile. La densità edificatoria è ormai al limite della totale saturazione. Si cementifica dappertutto: sopra e sotto, fuori e dentro. Torri e grattacieli. Box e parcheggi. Si pugnala il cuore antico della città: Sant’Ambrogio, Darsena e Piazza Meda ecc. Si sconvolgono e/o si distruggono interi quartieri: Isola, Fiera, Porta Vittoria, Crescenzago/Adriano, Rogoredo ecc. Bandita ogni idea di programmazione/pianificazione che consideri il territorio un prezioso bene comune, bandita ogni idea di città bella e sana e vivibile, si svende il patrimonio pubblico e si privatizza tutto, con furia ed ingordigia. Si riducono anche gli insufficienti spazi verdi disponibili. E’ come togliere l’ossigeno ai polmoni dell’organismo urbano. Sotto micidiale stress, il territorio entra in una specie di reazione a catena che aggrava le condizioni di inquinamento ed accelera i mutamenti negativi del microclima.
Inascoltati, i comitati dei cittadini - che si battono per la tutela dei loro quartieri e per la qualità della vita urbana con proposte serie e sensate - sono costretti a rivolgersi alla Magistratura.
Alla ribalta della cronaca sono saliti negli ultimi giorni i progetti Garibaldi-Republica/ex Varesine e Isola-De Castillia. Sono sotto inchiesta, per gravi reati, le imprese che lavorano alla costruzione del nuovo grattacielo della Regione: Infrastrutture Lombarde - società a capitale pubblico -, Consorzio Torre/Impregilo, un’impresa di subappalto con sede in Basilicata.
Dal 29 gennaio è sotto sequestro preventivo il palazzo della società IM.CO. s.p.a. di Ligresti in fase di costruzione (14 piani più 3 interrati) all’Isola, tra via Confalonieri e via De Castillia: per “illegittimità” del permesso a costruire e per la “non pertinenza” degli ultimi due piani. Il comunicato della Guardia di Finanza, che fa riferimento ai ricorsi al TAR di “cittadini e commercianti della zona”, si chiude in modo lapidario: “La Procura della Repubblica ha chiesto ed ottenuto il sequestro preventivo dell’opera, essendo stato rilevato un ‘periculum in mora’, in relazione all’offesa al territorio e all’equilibrio urbanistico insito nella ultimazione della costruzione in mancanza di un idoneo provvedimento amministrativo”.
Il Forum Isola (coordinamento tra Comitato I Mille e Associazioni Genitori e Isola dell’Arte), dopo aver raccolto migliaia di firme e presentato ricorsi al Tar per preservare i giardini e la storica Stecca degli Artigiani, elabora il progetto “Parco possibile” che viene condiviso ed approvato dal Consiglio di Zona 9 ma rifiutato dall’assessore Masseroli e dalla giunta Moratti. Questi ultimi, per tutta risposta, non sanno far altro che avviare nella primavera del 2007 una brutale operazione di sgombero e di distruzione della Stecca e dei giardini di via Gonfalonieri unico polmone verde del quartiere.
Torniamo all’oggi. Di fronte alla contestazione di gravi reati come reagirebbero i responsabili di una normale amministrazione comunale? Si metterebbero a disposizione dei giudici ed avvierebbero un’indagine amministrativa per verificare legittimità e correttezza degli atti. Nulla di tutto questo a Milano e alla regione Lombardia. Anzi. L’assessore all’Urbanistica della Giunta Moratti, Carlo Masseroli, straparla di “dittatura dei comitati”, fa la parte della vittima e sconvolge le regole dello Stato di diritto, nasconde i fatti usando l’inglese in maniera azzardata, minaccia i cittadini stigmatizzati come irresponsabili, e manda segnali alla Magistratura che niente hanno a che fare con i rapporti di correttezza istituzionale.
Afferma l’assessore: “Mi auguro che in questo momento di grande sviluppo per la città non ci sia un continuo stop & go, alimentato non certo dalla magistratura ma da qualche comitato che preferisce una Milano ferma rispetto a una città in movimento. Se un drappello di cittadini contrario a certi interventi decide di fermare un progetto con tutti i mezzi che ha a disposizione, commette un atto irresponsabile. Questa io la chiamo dittatura dei comitati, che va a discapito della democrazia”.
La Magistratura e l’Amministrazione sotto la “dittatura dei comitati”?!...Verrebbe voglia di annegare il Masseroli assessore in un mare di risate, se la situazione non avesse raggiunto un livello di degrado grave ed allarmante.
Milano, 11 febbraio 2009
Alla cortese attenzione di: Carlo Maria Giorgio Masseroli
Assessore allo Sviluppo del Territorio del Comune di Milano
E pc: Sindaco di Milano
Giunta Comunale
Comitati ed Associazioni Milanesi
Partiti e Consiglieri Zonali, Comunali, Provinciali, Regionali di centrosinistra.
Universitari
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Egr. Ing. Masseroli
Leggiamo dai quotidiani milanesi una sua stupefacentedichiarazione in relazione al sequestro della torre di Ligresti in costruzione in via De Castilla 23, effettuato dalla Guardia di Finanza.
Il titolo dell’articolo è eclatante:
“Isola, sotto sequestro la torre di Ligresti – Masseroli: E’ la dittatura dei Comitati”
“Se un drappello di cittadini contrario a certi interventi decide di fermare un progetto con tutti i mezzi che ha a disposizione, commette un atto irresponsabile.
Mi auguro che in questo momento di grande sviluppo per la città non ci sia un continuo “stop and go” alimentato non certo dalla magistratura ma da qualche comitato che preferisce una Milano ferma rispetto ad una metropoli in movimento.
Questo io la chiamo dittatura dei comitati, che va a discapito della democrazia.”
Per quanto riguarda la dittatura è necessaria una premessa: poiché ai cittadini viene impedita sia la partecipazione democratica diretta sia la possibilità di controllo democratico attraverso i loro eletti in Consiglio Comunale, e le scelte urbanistiche della città tengono solo conto degli interessi economici di alcuni grandi gruppi immobiliari, la difesa della democrazia e della legalità sta solo nelle mani dei cittadini e dei loro comitati: se c'è una dittatura, o quanto meno un regime oligarchico, è in Comune che bisogna cercare i colpevoli.
Più semplicemente, in generale i cittadini si riuniscono in comitati per avere una maggior capacità operativa contro quei lavori ritenuti non pertinenti e iniziano a contestare l’amministrazione che li ha deliberati promuovendo dibattiti,manifestazioni, ricorsi amministrativi, ricorsi alla magistratura, ecc. Tutto ovviamente nel segno della legalità.
Lei in poche parole accusa i cittadini di un potere talmente elevato e persuasivo da imporre alla magistratura la rilevazione di atti illeciti nei confronti di quei magnanimi operatori sociali che costruiscono edifici per la collettività.
Stiamo invece parlando di interventi giudiziari di cui alcuni magistrati hanno rilevato consistenti prove di irregolarità sia amministrative che progettuali.
Per sua memoria riporto uno stralcio del comunicato della Guardia di Finanza:
“Nell’ambito di un’attività d’indagine delegata dai Sostituti Procuratori della Repubblica dott.ssa Paola PIROTTA e Frank DI MAIO (procedimento penale nr. 485/09 RGNR), nella mattinata odierna è stata data esecuzione ad un decreto di sequestro preventivo dell’immobile in costruzione sito in Milano, via De Castilla, 23 di proprietà della società IM.CO s.p.a. emesso dal G.I.P. dott.ssa Anna Maria ZAMAGNI, e contestuale informazione di garanzia a carico di cinque soggetti, tutti indagati per il reatourbanistico previsto dall’art. 44,del testo unico in materia ediliziaper avere realizzato l’immobile sopra menzionato in assenza di valido titolo, attesa l’illegittimità sia del permesso a costruire del 2006, sia della successiva variante del 2007.”
Sulla base di tali profili di illiceità, la Procura della Repubblica ha chiesto ed ottenuto il sequestro preventivo dell’opera, essendo stato rilevato un “periculum in mora”, in relazione all’offesa al territorio e all’equilibrio urbanistico insito nella ultimazione della costruzione in mancanza di un idoneo provvedimento amministrativo”
Lei in realtà accusa i cittadini riuniti in comitati di aver impedito lo svolgersi di un crimine che l’amministrazione pubblica non aveva impedito o forse al contrario aveva favorito.
Lei accusa i cittadini di aver operato per difendersi dall’invadenza di progetti edilizi invasivi imposti da una pubblica amministrazione sorda alle vere esigenze della città e subordinata alla speculazione edilizia di pochi costruttori operanti in un sistema monopolistico.
Poco per volta stanno venendo alla luce numerosi esempi di corruttela nel campo edificatorio su tutto il territorio lombardo:
- Per la costruzione del Nuovo Palazzo della Regione, sulla stampa cittadina in questi ultimi giorni sono stati riportati rapporti poco chiari tra Infrastrutture Lombarde e Consorzio Torre (Impregilo), costi dei lavori gonfiati artificialmente, casi di corruzione e concussione, traffico illecito dei rifiuti e turbativa d’asta sugli appalti
- Per appalti pubblici nell’hinterland che riguardano ospedali, alta velocità ferroviaria e ammodernamento dell’autostrada Milano-Torino, viene confermato l’interesse di associazioni criminali.(Procuratore della Repubblica Manlio Minale)
Come può constatare gli interventi della magistratura sono indipendenti dei vari ricorsi al TAR al quale i cittadini devono ricorrere per tutelare i propri interessi contro l’amministrazione o costruttori edili che vogliono realizzare interi quartieri o enormi palazzi inutili.
Nel momento in cui vengono alla luce questi atti di malaffare che ci fanno ritornare ai tempi di tangentopoli, invece di essere soddisfatto per le denunce dei magistrati, lei attribuisce la responsabilità dell’intervento della magistratura ai cittadini, quasi che sia una vergogna difendere la legalità, un atto contrario alla democrazia.
Questo modo di pensare per un uomo delle istituzioni denota a quale livello di parzialità lei si sta esprimendo; lei non sta lavorando per la tutela dei cittadini ma al contrario sta facendo semplicemente gli interessi di costruttori edili di qualsiasi tipo essi siano, perché è impensabile che non abbia istituito controlli validi per verificare la regolarità degli appalti e dei lavori in corso e impedire il verificarsi di atti delittuosi.
Di fronte a palesi illegalità, da che parte sta il Comune? Sembra che anche questa volta si schieri dalla parte dei costruttori, invece che in difesa della legalità. Il Sindaco è d'accordo?
Solo il Sindaco, che l’ha “assunta” per quel ruolo, è direttamente responsabile delle azioni dei suoi assessori nei confronti della città e quindi noi chiediamo conto al Sindaco di quella dichiarazione offensiva nei nostri confronti ed elusiva sulle responsabilità delle irregolarità che hanno portato al sequestro dell’immobile.
In allegato il comunicato della Guardia di Finanza.
Distinti saluti
Roberto Prina
Rete Comitati Milanesi
La prima a defilarsi è stata Esselunga, l’unica tra gli interessati che a suo tempo aveva addirittura già comprato l’area su cui aprire un punto vendita. Il supermercato a Montecity-Rogoredo, dopo che il consiglio di amministrazione del gruppo ha deliberato la vendita dell’area, invece non si farà. Un segnale preoccupante per quell’ambiziosa "città nella città" con case e negozi di lusso promessa dal progetto Milano-Santa Giulia della Risanamento di Luigi Zunino, che allo stato attuale è ancora un’incognita. E di cui peraltro a settembre il gruppo Zunino ha annunciato la vendita.
I ritardi accumulati dal progetto, che doveva essere concluso non oltre il 2011, hanno modificato i programmi anche di altri operatori che in questa nuova sfida aveva mostrato più che un interesse. A scoraggiare le grandi aziende, in parte, c’è anche la decisione del Comune di costruire al Portello il grande Centro congressi per 8mila persone previsto anche nel progetto di Norman Foster per Santa Giulia. Una mossa che se non esclude quantomeno fa sorgere qualche dubbio sulle chance di costruzione di un gemello più grande, ora che anche i contratti con i progettisti, tra cui anche Jean Nouvel, sarebbero scaduti.
Un rovesciamento di piani che è alla base della decisione di Esselunga di non investire più in questa sfida. Ma il gruppo guidato da Bernardo Caprotti non è l’unico ad aver cambiato idea. La Feltrinelli, che puntava a dotare il nuovo quartiere di uno store di libri e musica, ha dato forfait e non sembra lasciare margini di trattativa. «Non siamo più interessati a quel progetto», fa sapere senza mezzi termini la casa editrice. Il progetto che doveva contribuire a cambiare il volto di Milano, e che aveva dato un motivo in più per acquistare casa alle migliaia di persone che si trasferiranno a breve nei palazzi di edilizia convenzionata a firma Paolo Caputo, senza essere partito ha già due defezioni nette.
Altri operatori non nascondono invece di essere ancora interessati alla faccenda, ma con dei limiti. Come Rinascente, che ha un contratto con precise scadenze per consegna e apertura ma dall’ampio margine temporale: «Per il momento è nostra intenzione partecipare al progetto - commenta Vittorio Radice, amministratore delegato di Rinascente - . Essenziale è che venga realizzato con la misura e qualità in cui è stato concepito». Come dire, se le carte in tavola e gli attori cambiano non assicuriamo di esserci. L’azienda di moda Hermès fa sapere di essere ancora molto interessata all’apertura di boutique nell’area, ma nella categoria dei dubbiosi è entrata anche Uci cinema Italia, che a Santa Giulia vorrebbe aprire 12 sale: «Siamo ancora dell’idea - spiega l’ad Andrea Stratta - ma ci riserviamo di decidere definitivamente solo dopo aver visto il restyling del progetto».
Asfalto e cemento nei parchi: la rivolta degli agricoltori
di Ilaria Carra
Non solo il Fai, i sindaci e gli ambientalisti. Adesso a difesa del Parco Sud scendono in campo gli agricoltori. Cia e Coldiretti contestano non solo la superstrada che collegherà Malpensa alla tangenziale Est ma soprattutto il via libera alle nuove costruzioni all´interno del territorio. «Il Parco Sud non è il serbatoio dell’edificazione ma un patrimonio da valorizzare. Ci vogliono vincoli più chiari e un’attenzione maggiore». E il Fai fa un appello ai politici. «Il verde e il Parco Sud sono una fonte importantissima per la città, non scherzate perché se date il via libera al cemento poi indietro non si torna più».
Un fronte compatto come mai prima, che rivendica il ruolo fondamentale che gioca l’economia della terra e che al consumo di suolo si oppone con fermezza. Alle barricate alzate dagli ambientalisti guidati dal Fai, con consumatori e qualche sindaco, come quello di Cassinetta di Lugagnano, a difesa del verde e in particolare del Parco agricolo Sud scendono in campo anche gli agricoltori. Duri oppositori non solo della bretella (approvata dal Cipe ma orfana di 140 milioni di finanziamenti) che per collegare a Malpensa la tangenziale Est taglierà a metà oltre che il Sud anche il Parco del Ticino. Ma anche della variante normativa al piano territoriale del Parco Sud, che già con il via libera del Parco e dei 62 Comuni permette ai sindaci di costruire sull’1,5% del territorio comunale che rientra nel parco, per un massimo di 15 ettari. Aprendo così all’edificabilità altri 470 ettari, oltre ai 400 già previsti dai Piani di cintura urbana da poco definiti. Certo, devono essere interventi di interesse pubblico. Però la sostanza è una: se la deliberà verrà approvata anche da Provincia e Regione a una parte di verde si sostituirà del cemento. E i contadini non ci stanno.
«Il Parco Sud non è il serbatoio dell’edificazione - precisa Paola Santeramo, presidente milanese della Cia che rappresenta gli agricoltori - è un’area di produzione di eccellenze, un patrimonio da valorizzare anche in chiave Expo». Se per la Coldiretti «servono vincoli più chiari e un occhio di riguardo maggiore», spiega il presidente Carlo Franciosi, i contadini del parco criticano l’estensione, a tutti i Comuni, della possibilità di costruire, indistintamente: «Così si incentiva a costruire anche chi non ne ha bisogno», afferma Dario Olivero che rappresenta gli agricoltori al consiglio del Parco. Che poi, sulla bretella precisa: «Ci sono già due collegamenti per Malpensa, solo le ferrovie possono dare una svolta agli accessi». Dal Fai un monito al mondo politico: «Attenzione a intervenire su aree di valore inestimabile per la città - è l’invito del direttore generale Marco Magnifico - perché poi, indietro, non si torna più».
Tribunale, il maxitrasloco finisce nel verde e il nuovo San Vittore costerà un miliardo
di Davide Carlucci
Rispetto a quelli che serviranno sono poca cosa. Ma sono i primi soldi stanziati per la Cittadella della giustizia: 1 milione e 150mila euro. Serviranno per lo studio di fattibilità del mastodontico progetto di trasferimento degli uffici giudiziari e di San Vittore a Porto di mare
In quell’area a sud della città, la Cittadella occuperà un milione e duecentomila metri quadrati. Una parte saranno all’interno del Parco agricolo Sud: perché siano utilizzabili, però, bisogna che sia rimosso il vincolo ambientale, e questa è una partita ancora tutta aperta.
A stanziare i fondi per i nuovi uffici giudiziari sono stati i ministeri delle Infrastrutture e della Giustizia (500mila euro in tutto), la Regione e il Comune (300mila a testa), la Provincia (50mila). Per cominciare a capire come (e se) sarà possibile realizzare l’opera e soprattutto quanto costerà. Tantissimo, ipotizzano sin da ora i tecnici che se ne stanno occupando: almeno un miliardo di euro (ma forse qualcosa di più). E allora c’è un’altra domanda alla quale l’analisi dei costi dovrà dare risposta, nel giro di sei mesi: come recuperare tutta questa montagna di denaro di cui le casse pubbliche non dispongono?
La soluzione al quesito arriverà da Infrastrutture Lombarde spa, la società individuata dalla Regione (che sta coordinando i vari enti interessati) come destinataria dei fondi per questa fase preliminare di analisi. Una società che, per ironia della sorte, in questo momento è al centro dell’attenzione dei magistrati che dall’attuale Palazzo di giustizia si dovranno trasferire nel nuovo: il sostituto procuratore di Potenza John Woodcock, infatti, ha trasmesso a Milano un fascicolo nel quale si ipotizzano una serie di reati, tra i quali la corruzione, a carico dei dirigenti della società per la realizzazione del nuovo Pirellone. Gli avvocati dei manager in questi giorni si sono precipitati dal pm Frank Di Maio per chiarire la loro posizione (e non è escluso che presto la loro posizione possa essere valutata come penalmente irrilevante).
Nel frattempo, però, sono loro a doversi occupare di aspetti decisivi come la «valorizzazione» del patrimonio giudiziario milanese. Ovvero, della vendita di alcuni immobili per far cassa. Se si tolgono però il Palazzo di giustizia, il tribunale dei minorenni e l’ex Beccaria, vincolati dalla Soprintendenza, non rimane molto. Anche San Vittore, per il quale s’ipotizza una destinazione commerciale, non è totalmente disponibile: la parte più antica del carcere va preservata. Per il tribunale - che sarà riportato alla sua struttura originaria degli anni Trenta, eliminando i piani costruiti in anni recenti - s’ipotizza la destinazione «museale». Ma anche immaginarlo come sede della Beic, la Biblioteca europea d’informazione e cultura - o come una specie di Centre Pompidou in stile Ventennio che ospiti anche gallerie d’arte e librerie - rischia di rivelarsi un esercizio di fantasia debole sul piano economico.
Il percorso verso la realizzazione della nuova Cittadella della giustizia, insomma, è pieno di ostacoli. Durante una delle prime riunioni organizzate nella commissione manutenzione della corte d’Appello, per esempio, si è sollevato il problema della presenza sul posto di una vecchia discarica abbandonata e di fontanili nel sottosuolo. «La discarica non dovrebbe essere un problema - replica Mario Benaglia, il vicedirettore generale della Regione che sta curando per conto del governatore Roberto Formigoni i dettagli tecnici dell’operazione - perché lì sopra non dovrebbero sorgere palazzi ma un prato. E comunque si tratta di un’area molto limitata». Altre incognite riguardano la reale entità degli spazi. L’ipotesi di dimensionamento preparata un anno fa dal ministero non è considerata abbastanza attendibile dai magistrati - non terrebbe conto delle nuove esigenze di organico - ed è contestata dai sindacati dei dipendenti: «Solo 400mila metri quadrati su 1,2 milioni sono destinati alla nuova struttura giudiziaria, il resto è indotto commerciale - dice per esempio Umberto Valloreja, della Cisl - se si considera che solo il Palazzo di giustizia occupa 105mila metri quadrati e che bisognerà ospitare anche altri uffici come il giudice di pace e il tribunale dei minorenni e il nuovo carcere, la Cittadella nascerebbe già pericolosamente insufficiente».
L’ipotesi dell’assessore milanese (Carlo Masseroli) allo “sviluppo del territorio” (titolo significativo al posto di “urbanistica”) è: 700.000 abitanti in più nella città. Intanto lui decide subito l’aumento dell’indice di fabbricazione da 0,65 a 1 mq/mq.
Tale massa di popolazione dovrebbe trovar posto all’interno del territorio comunale di 181 kmq. Richiederebbe 70 milioni di metri cubi di edifici, 20 kmq di area coperta ma 60 kmq di superficie fondiaria totale, a cui se ne dovrebbero aggiungere altri 20 di verde pubblico, servizi sociali, attrezzature tecniche; poi le infrastrutture di trasporto: si arriverebbe a circa 80 kmq. Partendo dal dato della densità demografica attuale, meno di 7.200 ab/Kmq e applicandolo alla nuova popolazione si ha la conferma: oltre 97 kmq tutto compreso, come in un saldo. Non potendoli reperire si potrebbe sopraelevare tutta la città del 52 per cento, stante che la popolazione aggiuntiva sarebbe il 52 per cento dell’attuale. L’aumento dell’indice di fabbricazione guarda caso è del 54 per cento. La doppia proposta non sembra mettere in rapporto i due termini ma l’assessore, che non è un pazzo, ha un disegno chiaro. Non gl’importa la dimensione demografica della città, gl’importa garantire al mercato immobiliare una colossale crescita delle possibilità edificatorie e gettare le aree ancora libere in mano agli immobiliaristi. Infatti è andato avanti sul piano pratico dell’edificazione pressoché immediata sfruttando la pressione dell’Expo: disponibili 9 kmq di aree a standard e altri 6 di vario tipo, basta sopprimere i vincoli: suoli privati di riqualificazione, aree industriali dismesse, scali ferroviari, aree per servizi tecnologici, eccetera: 15 kmq in totale, pronti per (dicono) 160.000 residenti (noto, 10.700 ab/kmq). Infine il nostro sta promuovendo l’operazione immobiliare sulla zona degli ippodromi in base a un accordo di programma. Non una parola sulla possibile riconquista delle case sottratte alla residenza dalla quarantennale deregulation urbana in favore di una terziarizzazione insensata. E gli edifici nuovi o seminuovi per uffici rimasti vuoti in parte o totalmente? Osservazioni di passaggio perché il tema porta lontano, indietro nel tempo dapprima.
Il discorso dell’assessore e di quelli che lo attorniano è falso, ma insidioso poiché sembra sfruttare certe discussioni del passato che lo stato attuale della metropoli (quantomeno comune di Milano e circondario “dei cento comuni”) fa ritenere morte benché, allora, fondate su analisi e valutazioni ragionevoli. La città, dopo aver toccato il vertice di popolamento, 1.745.000 residenti nel 1973 (1.732.000 al censimento 1971), cominciò a perderne con eccezionale rapidità; nel 1981 ne contava già 140.000 di meno: quello fu il momento in cui avrebbero dovuto essere ascoltate le voci di chi non si rallegrava davanti al fenomeno. Meno gente abita a Milano uguale a meno problemi, sosteneva certa sociologia; al contrario, uguale a più problemi rispose certa urbanistica insieme alla demografia sociale. Lo spopolamento, o meglio la cacciata dei residenti verso l’hinterland e altrove a causa dei noti processi economico sociali produttivi e riproduttivi è stato travolgente, non ha trovato ostacoli e gli abitanti contati dal censimento 2001 erano solo 1.182.000 unità. L’aumento recente (1.302.000 abitanti al 2008) è dovuto esclusivamente all’arrivo di stranieri, non al rientro di vecchi residenti o giovani provenienti dal circondario. L’aver trascurato completamente la questione delle abitazioni, in specie delle case popolari o comunque a regime locativo o proprietario controllato, è la colpa gravissima delle amministrazioni d’ogni colore che si sono succedute. Una questione milanese delle abitazioni doveva essere affrontata come problema residenziale in senso lato inserendo nella prospettiva di nuova città la città storica in primo luogo, poi la città nuova conforme a un piano moderno delle destinazioni sociali.
Il punto di incontro o scontro doveva essere non solo la quantità di popolazione ma anche la struttura demografica e sociale giacché la città stava perdendo quei caratteri che ne facevano una entità equilibrata. L’enorme pendolarismo sconvolge l’equilibrio storico e moderno. Si aggrava in maniera non sopportabile dalle strutture e infrastrutture urbane la contraddizione, per così dire, fra città del giorno e città della notte, fra la città del lavorare studiare vendere comprare e quella del risiedere. Attualmente entrano ogni giorno dai confini comunali dalle 500 alle 800.000 automobili. Alcune centinaia di migliaia di lavoratori arrivano con la Nord e altre linee di trasporto pubblico. Quanti abitanti dunque avrà la città del giorno? Non meno di un milione in più dell’altra. Qual è la città vera? Quale la città giusta? Né l’una né l’altra.
La città notturna è vuota di senso sociale, è priva dei ceti (perché non diciamo classi?) che ne designavano positivamente il carattere e il destino: la famosa borghesia industriale illuminata, la classe operaia antagonista con cui doveva fare i conti. La città notturna presenta una struttura (piramide) per età tutta gonfia verso l’alto, ricca di anziani e vecchi e scarsa di giovani. La popolazione non si riproduce e i rapporti di produzione sono poveri, non presentano articolazioni efficaci. L’industria urbana è sparita, domina il terziario di ogni tipo. Questo è il fenomeno distruttivo della città non resistibile: che le ondate di terziario succedutesi hanno allagato gli spazi residenziali e non si trattava affatto di quel settore “avanzato” con cui i fautori sarebbero disposti a giustificare la demolizione di Sant’Ambrogio. È proceduto senza soste alla conquista della città residenziale un settore economico tutt’altro che innovatore: tradizionale, capillare, nascosto, persino nero, meri uffici e negozi multipiano che scalzavano abitazioni. Forme operanti nel campo delle rendite finanziarie e fondiarie, dei commerci a-qualitativi sia di massa che di élite, di servizi privati mediocri sostitutivi di servizi pubblici. Intere case o parti rilevanti sono state destituite della loro funzione. Il permissivismo circa il mutamento di destinazione faceva parte del gioco, favorito dallo stesso regolamento edilizio. Che dire poi della pratica diffusa e tollerata di affittare le abitazioni come uffici?
La città diurna è un pasticcio, un pudding mal riuscito. Non funziona, vive da malata. Una Milano in cui domina il commercio (in primis quello del denaro) e che perciò dovrebbe, dicono, assicurare la massima dinamica degli spostamenti, trascorre le giornate sconvolta da un traffico privato al limite del blocco perenne. I cittadini residenti ne hanno solo svantaggi. I padroni della città commerciale, i modisti, non sembrano toccati, dispiegano i prodotti nelle loro fortezze (i magnifici palazzi destrutturati). L’autorità pubblica pare sottoposta in pieno agli interessi che provocano l’effetto traffico senza subirne troppo danno.
È passato oltre un quarto di secolo e ciò che sarebbe stato giusto discutere allora, cioè una politica di ripopolamento della parte centrale dell’area metropolitana, è diventata un’idea apparentemente balzana poiché irrealizzabile per mille motivi denunciati da tante associazioni e singole persone. Idea invece perfettamente coerente al disegno neoliberale e neo conservatore di liberare, appunto, la città dagli strati sociali residuali a minor reddito e di trasformarla definitivamente nella città del consumismo smodato. Gli edifici che si costruiranno nelle ultime aree libere prima vincolate a funzioni sociali o comunque utili a cittadini e a commuter resteranno in parte vuoti (cosa irrilevante per gli speculatori), in parte saranno uffici inutili o gestiti dalle mafie di ogni genere, in ultima parte saranno destinati a qualche migliaio di nuovi abitanti chissà da dove provenienti ma in grado di pagare prezzi d’acquisto da 10.000 euro in su al metro quadro o affitti annuali in proporzione. Milano non presenterà nemmeno un metro quadro di superficie pubblica volta al bene sociale, diventerà sempre più invivibile per i milanesi resistiti e per i pendolari costretti a usufruire ogni giorno di una non- città, un mostro disurbano e disumano. Persa per sempre la città funzionante, affabile, bella; durata, pur in mezzo a vicende difficili, fino all’inizio degli anni Settanta.
Milano, 5 dicembre 2008
I recenti provvedimenti in materia di urbanistica potrebbero essere rubricati o come reati per pubblicità ingannevole o come reati di falso ideologico.
In ogni caso è reato contro la fede pubblica dire che la densificazione in quanto tale - il costruire di più sulla stessa superficie di territorio comunale - migliori sempre la qualità della vita. Pubblicità ingannevole perché si attribuiscono alle proprie delibere in materia di urbanistica qualità che esse non hanno; falso ideologico perché si afferma cosa non vera inducendo nei terzi giudizi errati. Dimostrare reati in materia di qualità della vita è cosa ardua mancando una definizione universalmente condivisa: per una mamma qualità della vita è la scuola materna dei figli, per Salvatore Ligresti è far soldi. Ma su di una cosa si è tutti d’accordo: nella qualità della vita il verde pubblico gioca una parte predominante.
Qui ci muoviamo meglio perché il verde pubblico si misura in metri quadrati per abitante e l’ha insegnato a noi per tanto tempo il vicesindaco De Corato ricordandoci sempre che il verde pubblico era in continuo aumento: l’ultimo suo dato parlava di 17 metri quadri per abitante. Dimenticava, però, di dirci che la diminuzione della popolazione giocava a suo favore: stesso verde ma meno abitanti. Calcoli più realistici come quelli fatti dal professor Antonello Boatti, escludendo cimiteri, aiuole spartitraffico e altre frattaglie, ci portano a dire che i metri sono solo 10 contro i 65 di Berlino o i 24 di Londra, città spesso citata dai nostri amministratori negli ultimi tempi. Ma voglio essere generoso: quei 17 metri quadri mi stanno bene.
Diciassette metri quadri per abitante per 700mila nuovi residenti vuol dire che Milano, prima che arrivi l’auspicata valanga demografica, deve dotarsi per tempo di 12 milioni di metri quadri di nuovo verde. Il doppio di quello oggi realmente esistente. Di verde urbano che serva ad anziani, mamme e bambini, cittadini che vogliono godersi l’aria aperta senza fare chilometri. Dunque 12 milioni di metri quadrati rispetto ai soli 9 milioni di aree disponibili il cui vincolo è decaduto (dato Assimpredil Ance), aree già destinate a standard - servizi collettivi, servizi d’interesse generale, parchi intercomunali e verde pubblico - aree che l’amministrazione comunale vorrebbe rendere invece edificabili per edilizia residenziale, come dice, con il fine di migliorare la qualità della nostra vita. Rendere edificabili queste aree è follia e dire che è un’operazione per migliorare la qualità della vita è sbagliato; oggi è solo il caso di rinnovare in qualche modo i vincoli per avere spazio di manovra. Già è del tutto insensato dismettere per edilizia privata scali ferroviari e caserme sottraendoli all’uso pubblico: quel che se ne ricava in denaro - destinato a enti notoriamente scialacquatori - è nulla rispetto a quel che perde la collettività urbana per i suoi bisogni. A Milano, la città che dovrebbe attrarre giovani coppie, oggi le mamme si domandano: «È meglio avere le auto in sosta vietata ma finanziare con le multe il Comune o rinunciare alle materne perché non ci sono i soldi?» Questa è oggi la sola qualità della vita milanese: poter scegliere il meno peggio.
Il tema non sembra più ai primi posti. Forse perché la costruzione illegale e sconosciuta, dapprima, all’autorità pubblica non ha più bisogno di nascondersi ed è diventata piena normalità a cui si fa l’abitudine? O l’autorità è così occhiuta e ben armata di strumenti repressivi da non farsi più fregare? O non è l’autorità, generalmente l’amministrazione comunale a praticare essa stessa l’abuso legalizzato dal potere decisionista che fa e disfa a suo piacimento fuor d’ogni controllo pubblico e democratico? Sappiamo quale enorme potere detengano i sindaci (e i presidenti di Regione), conosciamo l’estraniamento dei Consigli. I piani regolatori vigenti e i regolamenti edilizi, cioè leggi, non contano niente. “Le amministrazioni tendono più a mutare i piani che a realizzarli”, dice l’urbanista architetto Sergio Rizzi (“Tribuna Novarese”). Non è soltanto abuso di autorità. C’è una specie di abusivismo a metà. Dovuto da una parte ai privati (proprietari, costruttori, progettisti) che, ottenuta una concessione o un’autorizzazione, soprattutto quelle relative a nuove norme insensate, la “interpretano” e la stravolgono per conseguire superfici e cubature maggiori; da un’altra dovuto all’ente pubblico che, lui per primo, ammette interpretazioni insidiose, erode man mano la norma già assurda e la trasforma nell’accettazione di una realtà avulsa dagli scopi della normativa, peraltro spesso pretestuosi.
Esemplare, a questo proposito, la legge regionale cosiddetta dei sottotetti (lombarda, poi adottata similmente in molte regioni). Ancor più liberalizzata nel comune di Milano rappresenta fino a che punto d’irregolarità può arrivare l’eccesso edilizio e urbanistico attraverso l’intesa fra privati e municipio non sottoscritta ma esplicita, a danno della città, le sue strade e le sue piazze, nonché dei cittadini, per primi gli abitanti delle case dirimpetto a quelle manipolate. Ho discusso altre volte del disastro che si compie da anni e nessuno sembra volerlo contrastare. Oggi è come la metastesi inarrestabile di un cancro. Occorre ripartire dai fatti e perfezionare la denuncia. Le costruzioni denominate «adeguamento dei sottotetti» nulla c'entrano con la realtà degli accadimenti. Il compiacente avallo municipale di modelli progettuali fallaci deriva dalle motivazioni dichiarate dai fautori della legge originaria. Dicevano di voler favorire l'edificazione nelle zone già urbanizzate invece dell'espansione nelle aree libere per risparmiare territorio: e mai come oggi è in ballo un'enorme quantità di interventi edilizi giganteschi in spazi aperti. Dicevano - e questa è davvero grossa - di voler permettere l'ampliamento dell'abitazione di famiglie residenti in spazi troppo angusti (presumo all’ultimo piano) specie se comprendenti persone disabili.
Gl'interventi, in principio più o meno coerenti al (falso) obiettivo originario di rendere abitabili spazi esistenti inabitabili per regolamento igienico edilizio, sono diventati sempre più numerosi e pesanti: tutti riguardanti il cuore ambito della città e bei palazzi dell'Otto-Novecento, tutti rivolti non a modificare il tetto con mezzi contenuti per ottenere determinate altezze medie interne, bensì decisi a rubare al cielo fior di metri cubi d'aria per mutarli in volumi edilizi, alias in superfici da diecimila euro al metro quadro. I risultati architettonici e urbanistici di un'attività che è il vero affare d'oro per l'immobiliarismo in attesa della rendite dai nuovi grandi insediamenti voluti dal Comune e progettati dagli insipienti “archistar” fanno schifo, diciamolo chiaro.
Non è più questione di sottotetti belli o brutti. Viene sconvolta la regola o la logica della cortina stradale di altezza conforme alla larghezza e le gronde allineate; viene distrutta la funzione urbanistica e la bellezza architettonica di piazze, strade e persino delle stradine nella parte di origine medievale dove certi aumenti dell’altezza non sono di meno che reati gravi. Altro che sottotetti: i palazzi presentano obbrobriosi rialzi verticali al di sopra del cornicione per ottenere, disinteressati dell'architettura sottostante, un nuovo piano. Semmai il falso sottotetto è il nuovo attico al di sopra, prezioso e non costoso raddoppio volumetrico. Come pagar uno e prender due. Altro che sottotetti: l’affare attuale, indipendente da riferimenti alla normativa se non nominalmente consiste nel sopralzo della città. Come e assai più numerosamente che nel primo dopoguerra . E qui il cerchio si chiude perché, a osservare col naso all’aria, non sembra nemmeno più necessario alcun riferimento all’esistenza di un tetto a falde dotato di sottotetto per prospettare l’”adeguamento”. Infatti vigono due altre possibilità: applicare la norma dei sottotetti, secondo le dette falsificazioni e aggiunte, anche agli edifici a copertura piana; presentare (questa è l’ultima innovazione) il progetto, senza imposture, di sopralzo di uno o due (eccetera) piani netti dell’edificio qualsiasi altezza abbia. Il Comune approverà. Il risultato si vede, l’ipotesi in prospettiva è una città, già vilipesa con le migliaia di finti sottotetti e abusivismo “d’epoca”, rialzata senza alcun progetto d’insieme che lo giustifichi, che ne mostri la necessità.
Allora l’espansione esterna coi grandi nuovi insediamenti (fortunatamente non esenti da pericoli di fallimento con buona pace dei progettisti al servizio degli speculatori) e il rialzo della città interna si tengono per aggiungere diversi milioni di metri cubi a prezzo altissimo mentre l’ipocrisia degli amministratori pubblici non si esime dal lamentare la mancanza di case ad equo prezzo per le famiglie “che non ce la fanno ad arrivare alla quarta settimana”. Si leggono sui quotidiani milanesi dichiarazioni di amministratori relative alla necessità urgente di 60.000, persino 90.000 alloggi popolari. Roba da matti, non sanno quel che dicono mentre sanno quel che stanno facendo, ossia gettare la città in mano agli immobiliaristi più esosi (comunque possa essere trionfo o fallimento ciò che li aspetta).
Intanto l’abusivismo di vecchio stampo espone in città nuovi primati. Basti un solo caso, col quale Milano conquista il vertice nella classifica della costruzione fuorilegge nel centro delle grandi città italiane. In via San Paolo n.13, quasi all’angolo di Corso Vittorio Emanuele, quindi vicino al Duomo, si vede un edificio che ricordiamo di sei piani e che ora ne esibisce otto, due piani in più, lì belli rifiniti e puliti, ma realizzati senza alcuna concessione. Lo scandalo venne alla luce a opere terminate, il Comune non si era accorto di nulla. Denuncia ovvia, poi rinvio a giudizio dei progettisti e del proprietario. Questo due anni e mezzo fa. “528 metri quadri di abuso, valori immobiliari sopra i diecimila euro al metro, fanno qualcosa di più di cinque milioni. Un record, probabilmente” (Repubblica/Milano, 18 marzo 2006). Pensate che i due piani verranno demoliti? Certamente no, vista la coerenza al programma comunale in attuazione di ammettere, direi promuovere, l’aggiunta di nuovi piani agli edifici esistenti.
Questo mostro di abusivismo classico mi ha indotto a verificare la situazione in Italia. Che è impressionante. Forse non ho posto sufficiente attenzione al nuovo accertamento (a scopi fiscali) messo in campo dall’Agenzia del Territorio (Catasto), proceduto ormai oltre la metà dei comuni. Il metodo è quello di confrontare fotografie aeree zenitali odierne con le mappe ufficiali, sicché riguarda la presenza o meno di intere costruzioni (non, dunque, casi come quello descritto). Notizie precise sono apparse a gennaio sul Sole 24 Ore (dati reperibili anche sul web). Ebbene: non risultano al Catasto 1.248.000 particelle, assimilabili a edifici. Siccome il rilevamento si riferisce a poco più della metà dei comuni, 4.238 (e nei grandi comuni, in particolare proprio Milano, il rilevo stenta molto ad avanzare), non è azzardata una stima di 2.000.000 relativi all’intero territorio nazionale, 8.103. Risulterebbe “nascosto” circa un sesto dei fabbricati legittimi. Una enormità. È evidente che per moltissimi non suonerà mai la sanatoria. “Esisteranno, semplicemente, senza che nessuno faccia nulla. Proprio come nella Valle dei Templi di Agrigento” (Il Sole-24 Ore, 21 Gennaio 2008). Eppure si sono attuati nel passato tre grandi condoni. In Italia, si sa, si costruiscono ogni anno abitazioni e altri fabbricati di ogni genere più che in ogni altro paese europeo. Sembrano non bastare, si stratificano lungo il tempo quantità incredibili di costruzioni aggiuntive fuorilegge. Intanto sopravvivono anche gli edifici abbandonati, compresi quelli industriali dismessi il cui ricupero è in gran parte fallito. “Così si consuma inesorabilmente il suolo, senza mai guadagnarne” (idem).
L’"aringa rossa", antica astuzia venatoria, sta per fare della Milano da bere dell’epoca craxian-ligrestiana la Milano da mangiare della nuova era ligrestian-morattiana, trasformando l’Expo del 2015, dedicato all’alimentazione, in una colossale operazione immobiliare. I distinti cacciatori britannici usavano le "red harrings" per distrarre i cani da caccia degli avversari, gettando in luoghi strategici della riserva aringhe affumicate. I cacciatori milanesi di cubature immobiliari, che si definiscono "developers", stanno spargendo su 8 milioni di metri quadri di aree dismesse dall’industria manifatturiera che non c’è più, una selva di grattacieli firmati da architetti di fama mondiale, i cosiddetti "archistar". Quei grattacieli, secondo l’immagine di Renzo Piano, sono per l’appunto le "aringhe rosse" che servono a distrarre l’attenzione da quel che germoglia intorno: quartieri selvaggi, simili a quelli che hanno assediato la Roma dei palazzinari. O «caricature di città» nella città, come dice l’architetto Mario Botta.
Dalla Bovisa all’ex Ansaldo, da Porta Vittoria a Porta Nuova - Garibaldi-Repubblica, dal Portello a Montecity-Santa Giulia, sono venticinque i grandi progetti, lottizzati tra i gruppi immobiliari con le immutabili regole del manuale Cencelli - tot a me, tot a te - che stanno cambiando lo skyline meneghino insieme a quelli del potere e delle ricchezze immobiliari d’Italia. Quanti sono i grattacieli che svetteranno a far ombra alla Madonnina? C’è quello nuovo della Regione a Garibaldi, monumento alla grandezza del governatore Roberto Formigoni, poi un’infinità di grattacielini "alla lombarda", una trentina di piani o poco più, tipo l’attuale Pirellone, definiti non proprio grattacieli, secondo la contabilità americana o asiatica, ma "case-torre". È nell’area della vecchia Fiera la nuova fiera dell’"aringa rossa". Si chiama CityLife, un affare da due miliardi, che prima ancora di partire è costato 523 milioni di euro, il prezzo pagato alla Fondazione Fiera per i 23 ettari (che diventano 36 con le aree limitrofe) acquistati dalla cordata immobiliar-assicurativa vincente.
I grattacieli che ridisegnano lo skyline, milioni di metri cubi edificabili, aree verdi spezzettate. Il tutto gestito dai soliti imprenditori e dagli istituti di credito. Un affare da miliardi di euro che ruota intorno all’Expo 2015 ed è destinato a fare della metropoli una nuova Londra. Senz’anima
Domenica 11 maggio 2008. È quel giorno che una nuvola di polvere oscura i palazzi novecenteschi che si affacciano nella zona dell’ex Fiera, tra viale Boezio, Piazza VI Febbraio, via Gattamelata, Largo Domodossola, piazza Giulio Cesare, via Eginardo. Un’imprecisata carica di esplosivo ha sbriciolato in pochi secondi il Padigione 20, 230 mila metri cubi di calcestruzzo, per far luogo al mitico Central Park meneghino, che certificherà il Nuovo Rinascimento di Milano. È lì che sorgeranno non uno, ma tre grattacieli. Il più alto, di 209 metri firmato dal giapponese Arata Isozaki, il secondo di 170 metri dall’irachena Zaha Hadid e il terzo di 140 metri, quello a forma di banana che ha ferito il buongusto persino del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, progettato dall’americano Daniel Libenskind. «Milano è piena di gente che ha il membro storto - ridacchia Umberto Eco - ce ne sarà uno in più e prenderà il Viagra». Intorno 140 mila metri quadri di edilizia residenziale e 100 mila di uffici, il tutto in cinque mega-blocchi di altezza variabile tra i cinque e i venti piani, protetti da un sistema di "torri di guardia del quartiere". E il Central Park? Spezzettato lì in mezzo, tra i blocchi svettanti verso il cielo.
Per non inorridire, non dovete affacciarvi oggi a una delle porte della ex Fiera, da cui non vedreste che un deprimente paesaggio lunare, o soffermarvi nel cratere vuoto di Porta Nuova, dove scaricano travi da 30 metri che dovranno sorreggere un tunnel stradale. Dovreste invece passeggiare intorno ai plastici esposti in uno show-room che i padroni di CityLife, cioè Ligresti, i Fratelli Toti della Lamaro, gli stessi immobiliaristi che spadroneggiano a Roma, insieme a Generali e Allianz hanno voluto a piazza Cordusio, cuore della Milano bancaria. O, ancora meglio, farvi mostrare il rendering, cioè le simulazioni al computer, come consigliano Luigi Offeddu e Ferruccio Sansa nel loro libro Milano da morire, dove con ironia raccontano visioni paradisiache di grattacieli scintillanti in un cielo di purissimo azzurro. Come a Milano si vede non più di dieci giorni l’anno.
Ligresti chi? Sì, proprio quel Salvatore Ligresti della Milano da bere craxiana. Si dice che a volte ritornano, ma nonostante le condanne di Tangentopoli, la prigione, l’affidamento ai servizi sociali, don Salvatore, come lo chiamano, non se ne è mai andato. Oggi controlla buona parte dei sei principali progetti immobiliari milanesi, che valgono 7 miliardi di euro: non solo CityLife, ma anche Porta Nuova-Garibaldi. E non c’è a Milano chi non corra a baciare la pantofola del finanziere pregiudicato, originario di Paternò, provincia di Catania. È cambiato soltanto l’azionista di riferimento politico (ma chi è azionista di chi?) in quell’intreccio di mediazioni opache tra mattoni e finanza, tra affari e politica, che l’ex capitale morale non ha mai dismesso e che ha rilanciato entusiasticamente con il miraggio dell’Expo.
Prima era Craxi, che si narra sia stato accompagnato proprio dall’uomo di Paternò in visita al conterraneo Enrico Cuccia, allora dominus del capitalismo italiano. Oggi è quella Milano della politica senza qualità, sospesa tra postfascismo, berlusconismo, leghismo e integralismo affaristico ciellino. Di Craxi resta Massimo Pini che, passato ad An, ricopre ruoli importanti nella galassia assicurativo-cementizia di Ligresti. Ma la costante è la famiglia La Russa di Paternò, il cui capostipite Antonino, antica autorità missina di Milano, seguì amorevolmente quasi cinquant’anni fa i primi passi del compaesano che fu scelto per sostituire a Milano gli ormai inaffidabili fiduciari Michelangelo Virgillito e Raffaele Ursini. Ignazio La Russa presidia il ligrestismo al governo, il fratello Vincenzo e il figlio Geronimo siedono nel Consiglio della ligrestiana Premafin.
Berlusconi, che quando faceva il palazzinaro non amava il concorrente nel cemento e nel cuore di Craxi, ora rischia d’imparentarsi con lui, dal momento che uno dei figli giovani è fidanzato con una nipotina Ligresti.
Le solite facce, i soliti nomi. A Milanofiori e ad Assago c’è Matteo Cabassi, quinto figlio di Giuseppe, «el sabiunatt» degli anni Settanta. È titolare di una parte dei terreni a destinazione agricola su cui sorgeranno le opere dell’Expo. Cedendoli al Comune si troverà 150 mila metri quadrati edificabili. A Porta Vittoria si sono fermati i lavori dopo l’arresto di Danilo Coppola. A Santa Giulia, sud-est di Milano, area Montedison, e a Sesto San Giovanni nell’area Falck, sta affondando un altro furbetto. È Luigi Zunino, esposto con le banche, soprattutto Intesa-San Paolo, per 2 miliardi.
Con questi chiari di luna, riuscirà l’immobiliarista piemontese a fronteggiare il debito vendendo i palazzoni residenziali di Rogoredo che fanno da sfondo alla nuova sede argentea di Sky-Tv? Forse quelli di edilizia convenzionata a 2-3 mila euro al metro quadrato. Ma quelli di lusso progettati da Norman Foster, a 7-10 mila? Chissà se arriveranno fondi del Dubai a riprenderlo per i capelli.
Ligresti, Cabassi, i furbetti, Pirelli RE, i texani di Hines, Luigi Colombo, Manfredi Catella. Vecchio e nuovo - dice l’urbanista Matteo Bolocan Goldstein - «convivono nella modernizzazione equivoca di Milano, in una dimensione opaca, con una poliarchia solipsistica che non fa sistema». Chi più chi meno, tutti lavorano con la cosidetta "leva finanziaria", che in pratica vuol dire i soldi delle banche. Sui 7 miliardi finora investiti sulla carta, sei, circa l’85 per cento sono di Intesa-San Paolo, Unicredit, Popolare di Milano, Monte dei Paschi, Antonveneta e Mediobanca, mentre la Banca d’Italia giudica corretta una quota del debito non superiore al 70 per cento rispetto al totale e un’equity del 30 per cento, cioè di investimento di tasca propria.
Sarà rispettato adesso, in piena crisi finanziaria globale, il "lodo Draghi" e, se sì, cosa capiterà dei mille e mille progetti cementizi già avviati o che stanno per partire? Chissà se la salvezza, o il disastro, verrà dal progetto dell’assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli, definito dal suo ex collega Vittorio Sgarbi «coerente e leale vandalo integralista», che vuole una Milano con 700 mila abitanti in più, portandola da un milione e 300 mila a 2 milioni tondi. Come? Con più volumetrie ai palazzinari privati, aumentando gli indici di edificabilità di un terzo, da 0,65 a 1, o - precisa - «anche di più», con vincoli e regole ridotti al minimo. Una Milano da 2 milioni? «Una favola campata in aria», per Gae Aulenti. Vi immaginate le centinaia di migliaia di persone che dal 1974 hanno lasciato le cerchie cittadine per rifugiarsi nell’hinterland, che tornano come in un controesodo biblico perché Masseroli fa l’housing sociale a 2 o 3 mila euro al metro? In Consiglio comunale si battaglia sul progetto Masseroli tra carrettate di emendamenti. Se mai, bisognerebbe occuparsi del destino delle decine di migliaia di metri cubi di uffici sfitti e dei nuovi che stanno per arrivare sul mercato invece che del cemento fresco, avverte l’architetto Stefano Boeri. E non dimenticare che Milano è una «città costretta», come la definisce Bolocan, che, con Renzo Piano, retrodata agli anni Sessanta e Settanta l’era milanese più fervida di sviluppo. «Due milioni di abitanti?» si chiede perplesso anche Carlo Tognoli, che dal 1976 fu sindaco per un decennio: «Nel dopoguerra ci fu il piacere della crescita, poi ci si accorse che la crescita non poteva essere esagerata».
La Milano metropoli da due milioni, piccola Londra o New York ma senz’anima, sembra replicare l’apologo della ricottina, quello della pastorella che camminando verso il mercato aumenta via via il valore teorico della forma da vendere che trasporta in bilico sulla testa. Finché la ricottina cade e si spiaccica per terra.
Ciò che rischia di accadere per l’Expo. «Sarà sicuramente un fallimento», sentenzia Sgarbi, accusando «Suor Letizia», che lo ha licenziato da assessore mettendo al suo posto a gestire la cultura un culturista, nel senso di body builder, di essere un sindaco inadeguato, che annaspa tra le contraddizioni.
Per di più assistita da Paolo Glisenti, che egli giudica «l’elaborazione intellettuale del nulla» e che il titolare del salvadanaio Giulio Tremonti, che lo ha in uggia, farà di tutto per non favorire: «Dimenticatevi che lascerò tutto in mano alla Moratti», ha avvertito il ministro. Durante la campagna-acquisti di voti per l’Expo dei paesi minori, costata dieci milioni, sono stati regalati scuolabus nei Caraibi, borse di studio nello Yemen, in Belize e altrove, il progetto di una metrotranvia in Costa d’Avorio, una centrale del latte in Nigeria, bus dismessi a Cuba e quant’altro. Ma adesso viene il difficile. Tolti i 4,1 miliardi necessari per realizzare il sito fieristico, mancano quasi tre miliardi per le opere infrastrutturali essenziali (metropolitane, ferrovie, stazioni, raccordi, strade) e 6 miliardi per le infrastrutture "minori". Il sogno della Milano da mangiare, che rischia di infrangersi come la ricottina della pastorella, oltre a 65 mila nuovi posti di lavoro dal 2010 al 2015, vagheggia 29 milioni di visitatori, 160 mila al giorno per sei mesi, che porteranno un indotto di 44 miliardi di euro. Ma perché quasi trenta milioni di persone dovrebbero venire a Milano nell’estate 2015? Per vedere il grattacielo-banana? Per una mostra sull’alimentazione? Saragozza è stata un flop.
Pazienza. A Milano, comunque vada, nel terzo lustro del nuovo secolo potremo lasciare l’auto nel parcheggio di cinque piani scavato sotto la Basilica di Sant’Ambrogio, nel parco medievale più importante della civiltà lombarda. Un insulto cui la borghesia intellettuale di Milano non vuole rassegnarsi. E tra le aringhe rosse avremo la città dei developers, «una città che si prostituisce al miglior offerente». Parola dell’architetto inglese David Chipperfield.
L’assessore Masseroli annuncia il Piano del governo del territorio e, trionfante, dice di avere la “ricetta” per rilanciare Milano. Tra le soluzioni proposte vi è quella di portare a 2.000.000 gli abitanti di Milano. Vorrei dare anche io il mio contributo su questa proposta, ma vorrei farlo lasciando da parte la questione degli indici urbanistici e delle speculazioni, e partendo invece da un’altra parte. Vorrei tentare di lavorare sulle cifre, aride e fredde cifre, per introdurre alcune questioni ambientali, legarle poi ai 700.000 nuovi abitanti e chiedere all’assessore di rispondere a domande che pongo come cittadino e studioso. In Internet, tra alcuni documenti pubblicati dal Comune, se ne scoprono due interessanti: la Relazione sullo stato dell’ambiente (2003) e il rapporto di Scoping della Valutazione ambientale strategica (2008). Per brevità chiamerò la prima Rsa e il secondo Vas. A Milano ci sono attualmente 1.308.981 abitanti (dato del 2005, riportato sulla Vas del 2008) che producono delle pressioni sull’ambiente. Potremmo immaginare, semplificando che 2 milioni ne producano un tot in più, con una logica lineare. Vediamo cosa accadrebbe. Stando alla Vas, a Milano 119 km2 sono occupati all’urbanizzazione, pari a 91 m2 per abitante. Se si volesse garantire questo spazio procapite anche ai futuri 700.000 abitanti occorrerebbero altri 6.369 ettari. A Milano ci sono 3988 ettari non urbanizzati (VAS, pag. 6). Fate i vostri conti.
E ancora. Utilizzando i parametri del 2004 di produzione di rifiuti (562 kg/abitante/anno, vedi Vas), 700.000 nuovi abitanti significherebbero 393.000 tonnellate/anno in più. Domanda: si sa dove smaltirli e quanto costerà?
Per quanto riguarda l’emissione di CO2, di cui tanto si parla, l’aumento previsto di abitanti potrebbe innalzare la produzione di CO2eq di 2,4 tonnellate l’anno (+53%, Rsa). Domanda: si sa come assorbirle o come non generarle?
Veniamo al consumo di energia elettrica per abitazioni. Secondo la Rsa ogni cittadino milanese consuma 1,5 Mwh/anno, quindi 700.000 nuovi abitanti innalzerebbero i consumi di oltre 1 milione di Mwh/anno. Domanda: abbiamo questa energia e le sue fonti di produzione? A quale costo?
Vediamo ora le auto. Le auto dei residenti a Milano, secondo la Rsa, sono 966.530, pari a 0,7 auto per abitante, neonati e ultraottantenni compresi. 700.000 nuovi abitanti significano 516.868 nuove auto. Poiché ognuna di loro occupa circa una decina di metri quadrati, ciò significa che se, ipotesi, si muovessero tutte insieme per Milano, avrebbero bisogno di oltre 5 milioni di metri quadrati, una cosa come oltre 450 stadi di S. Siro. Ce la si fa?
E ancora, il verde. I servizi. Ad esempio se tra questi futuri 700.000 nuovi abitanti ci fossero 200.000 ragazzi in età scolare. Poiché una classe è più o meno formata da 25 allievi in ogni grado scolastico, significa che occorrerebbero 8000 nuove classi ovvero 10000 nuovi insegnanti. Ci sono gli spazi e le risorse?
A questo punto sta al Comune dare la risposta. Ma non vorrei solo che mi si controbattesse punto per punto rassicurando che ci saranno le aule e gli insegnanti, che ci sarà il verde, che ci saranno capacità per smaltire i rifiuti, che non si produrrà un kg di CO2 in più. Insomma non mi date delle risposte di impegno per il futuro.
Le risposte che vorrei sentire sono: 1) che si abbia consapevolezza di tutto ciò e lo si comunichi ai cittadini chiaramente; 2) che chi governa e sta mettendo mano alla città così pesantemente, non si limiti a rassicurazioni e promesse, ma pianifichi prima i servizi e le soluzioni ambientali e poi dia il via libera ai cantieri per i 700.000 nuovi abitanti. Non vorrei trovarmi con nuovi palazzi, nuove strade, nuovi rifiuti, nuova CO2, nuovo Pm10 e aspettare che una futura amministrazione se ne prenderà cura.
Allora chiedo tre cose: il Comune si faccia carico della responsabilità ambientale nel sovraccaricare la città con ulteriori 700.000 abitanti e, visto che sta facendo il Piano di governo del territorio, ci dia una risposta sulla sostenibilità ambientale; infine, si impegni a garantire alla città e ai suoi abitanti prima la realizzazione dei servizi, visto che non credo bastino quelli che ci sono, e poi apra i cantieri. Questo sarebbe da fare, assessore Masseroli, visto che parlate di un piano per il futuro.
(Politecnico, Osservatorio nazionale sui consumi di suolo)
Nota: su altri aspetti della provocatoria sparata dell'assessore Masseroli (almeno si spera che non sia una vera "strategia") si veda il recente articolo di Marco Vitale sul Sacco di Milano (f.b.)
Perché l'amministrazione Moratti sta facendo approvare in fretta e furia un documento che prevede alloggi per la bellezza di 700mila nuovi cittadini? Il Consiglio comunale di Milano sta discutendo un documento che
in una città civile, non dovrebbe neppure discutere nella forma attuale, per mancanza di credibilità e di serietà. Il documento si intitola «Approvazione della revisione del capitolo "X Regole" del documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali» ed è una specie di succedaneo al Piano di Governo del Territorio, un documento, questo, di grande importanza intorno al quale dovrebbe aprirsi un grande dibattito perché qui si intrecciano i principali temi strategici, urbanistici, ambientali, di qualità della vita della città. Nel timore di non riuscire ad approvare, entro i termini di legge, il complesso Piano di Governo del Territorio, l'assessore all'Urbanistica ha presentato urgentemente questo documento che dovrebbe fare da ponte con il Piano. Nel frattempo questo documento cerca di portare a casa alcune cose che interessano l'assessore e chi lo ispira. Il punto centrale è semplice. L'idea portante del documento è che il ristretto territorio del Comune di Milano dovrebbe ospitare 2 milioni di persone passando così da 1.3 milioni a 2 milioni con una crescita, dunque, di 700mila persone, in un tempo relativamente breve. Per intenderci: più degli abitanti dell'area metropolitana di Brescia, un numero pari al 60% dell'intera provincia di Brescia e pari al numero di profughi del Kosovo che si riversarono sull'Albania ai tempi della fuga dal genocidio del dittatore serbo. Queste 700mila persone sono quelle che si sono insediate nel tempo nel territorio metropolitano e che dovrebbero rientrare a Milano, i pendolari. Per ospitare tutti questi profughi l'indice di edificazione aumenta per intanto del 53% passando dallo 0,65% all'l%.
La mancanza di credibilità e di serietà è tutta radicata qui. Nessuna persona assennata può mai pensare ragionevole e credibile che 700mila cittadini che hanno radicato, attraverso un processo lungo e graduale, la loro vita e le loro famiglie nell'ambito della grande area metropolitana milanese, decidano di cambiare indirizzo, di vendere (a chi?) la casa che hanno costruito nella cittadina della cinta milanese che le
ospita per comprare un appartamentino a Milano; trasferire i figli dalla serena scuola vicino al Parco Nord Milano in qualche isterica scuola cittadina; rompere il delicato equilibrio del budget familiare pazientemente costruito anno dopo anno per farlo riesplodere con i maggiori costi cittadini; abbandonare il giardinetto nel quale i bambini hanno giocato guardando il Resegone, come una volta si poteva anche a Milano, per chiudersi in un appartamentino costruito da qualche cooperativa e di dimensioni tali da non poter più ospitare la nonna che era non solo tanto cara ma anche tanto utile.
Solo Ceaucescu potrebbe realizzare un mutamento epocale di questa portata. Ma poiché, per fortuna non c'è Ceaucescu, fermiamo, per tempo, questa idea folle e dannosa. Gli argomenti che si spacciano per sostenerla non sono credibili. L'edilizia sociale e per i giovani è necessaria a Milano ma con progetti specifici, su direttive adatte, con una visione strategica e non portando un indice generale di edificazione a livello folle per una città già supercementificata. Milano deve crescere ma deve crescere attraverso le sue attività qualificate e qualificanti e non piantando a piene mani, sul suo piccolo territorio, nuovo cemento. Dire poi che questo incredibile pasticcio sia ispirato dal desiderio di migliorare la qualità della vita milanese, è una presa per i fondelli. Dire infine che il Comune di Milano trarrebbe vantaggi economici da questa improbabile trasmigrazione è erroneo. Il Comune di Milano è avvantaggiato dalla situazione odierna che vede tanta gente attiva e solerte portare a Milano il dono del suo lavoro lasciando i costi della struttura urbana a carico del Comune di residenza. Dovendo provvedere alle scuole, ai trasporti, alla sanità per altri 700mila cittadini il bilancio del Comune di Milano ne risulterebbe scardinato.
La situazione è talmente chiara e ovvia che la maggior parte delle persone responsabili scrolla le spalle e dice:tanto è una bufala, non è realizzabile. È un atteggiamento logico ma non accettabile. Infatti questa è una bufala, ma non è una bufala neutra; distoglie dai temi veri. Sarebbe bello discutere della strategia della grande Milano, con l'impostazione di "Città di Città" che è stata oggetto di tanti approfonditi studi da parte del dipartimento competente del Politecnico e che è in linea con un grande filone di studi urbanistici europei; e studiare come migliorare la mobilità e i trasporti (come a Monaco) e come far crescere il senso di una comunità allargata, anche se decentrata (come Berlino). Sarebbe bello domandarsi, con serietà e serenità, cosa fare dei grandi progetti urbanistici avviati negli anni recenti e che sono ora tutti o quasi praticamente bloccati. Sarebbe bello realizzare, per davvero, un quartiere per gli universitari e altri giovani con un progetto ad hoc specifico e concreto, con alto indice edificativo e che abbellisca la città. Sarebbe bello incrociare e discutere le linee strategiche di fondo dello sviluppo della città e delle sue attività (università, fiere, sanità, moda, cultura), con gli indirizzi urbanistici, e tenendo conto di quella Expo 2015 che, andando avanti così, rischia di diventare la catastrofe finale per Milano. Sarebbe bello dibattere come riciclare a residenziale, magari sociale, gli scheletri vuoti del terziario. Sarebbe bello tutto ciò, ma sino a che sul tavolo si buttano queste bufale, che sono bombe ad orologeria, non c'è speranza e non c'è spazio.
Poiché le cose che ho detto sono troppo evidenti, ci si deve domandare: ma perché sostengono queste cose irrealizzabili prima ancora che sbagliate? Non lo so. Posso solo raccontare ciò che, in ambienti qualificati, si dice. Intanto le 700mila persone non verranno mai; l'indice 1 però resterà e gli amici degli amici qualcosa costruiranno. E chi se ne frega se il costruito resterà vuoto. Sarà problema di chi verrà dopo. Si dice anche che l'aumento dell'indice di edificabilità permetta agli immobiliaristi in difficoltà di rivalutare i loro terreni e aggiustare così i loro bilanci. Una specie del tentativo che si fece con la rivalutazione dei calciatori e le squadre di calcio qualche anno fa. Se non è vero è verosimile. Ci si domanda anche perché l'opposizione è così soft. A prescindere dal fatto che Milano è, da anni, abituata a un'opposizione evanescente di aspiranti a semplici maggiordomi di chi comanda e a raccoglierne le briciole sotto il tavolo, quello che si dice è che le cooperative di sinistra collegate al Pd abbiano anche loro qualche interesse in materia.
Perché le istituzioni che dovrebbero, in questi casi, far sentire la loro autorevole voce (le grandi università, gli ordini professionali, gli enti culturali, le grandi associazioni ambientaliste) se ne stanno zitti? Se non ora, quando?
Dopo i tre articoli del servizio de la Repubblica, i commenti di Vittorio Gregotti e di Luca Beltrami Gadola, e le due interviste di Gae Aulenti e Renzo Piano , pubblicate nei giorni precedenti, cui si fa cenno nei testi.
Berlusconi benedice il piano-case
più vicino l’ok del Consiglio
di Stefano Rossi
Il premier riceve ad Arcore Masseroli: "Andate avanti" - Fi si adegua al documento della giunta per alzare di un terzo l’edificabilità
Silvio Berlusconi si riconcilia con l’urbanistica milanese, dopo le polemiche della primavera scorsa sui grattacieli di Citylife. Il premier ha ricevuto ad Arcore l’assessore azzurro Carlo Masseroli, dimostrandosi molto interessato ai progetti della giunta relativi all’housing sociale. Ma è stato tutto il Pgt, il Piano di governo del territorio destinato a sostituire il Piano regolatore, a ricevere l’imprimatur del premier. Promossa dunque la volontà di incrementare la popolazione residente di 700.000 unità, promosso il consistente aumento delle case da costruire. «Anche se con Berlusconi - aggiunge Masseroli - non mi sono certo messo a parlare di indici di edificabilità».
L’ok di Berlusconi riguarda dunque due aspetti importanti della Milano futura. L’housing sociale (con la Fondazione Cariplo) degli 11 complessi di nuovi appartamenti da 70 metri quadrati (in tutto 3.380) in affitto a 500 euro al mese o in vendita a 1.800 euro al metro quadrato. E lo sviluppo della città da 2 milioni di abitanti, pianificato su aree a standard con vincolo decaduto (dunque dove non si è realizzato ciò per cui era stato messo il vincolo) lungo i percorsi delle metropolitane e delle circonvallazioni, cioè in aree infrastrutturate. Per Giulio Gallera, capogruppo Fi, è il segno che «tutta la politica urbanistica milanese funziona. Incrementeremo le volumetrie per rendere accessibili case a basso prezzo al ceto medio minacciato dalla crisi. Un esperimento pilota per il Paese».
Masseroli si è presentato ad Arcore in compagnia del commissario cittadino di Forza Italia, Luigi Casero. Un colloquio cordiale: «Berlusconi ha voluto sapere tutto». In particolare sull’housing sociale, appartamenti in vendita a prezzo convenzionato o in affitto a canone moderato, in quartieri con servizi e un mix sociale di abitanti, per evitare la formazione di ghetti. Case per chi guadagna troppo per chiedere l’alloggio popolare e troppo poco per i prezzi di mercato.
Forse al premier sarà venuta in mente la casa di via San Gimignano, zona Bande Nere, dove a lungo ha abitato sua madre Rosa, testimonianza dell’espansione della borghesia milanese in periferie non popolari. Lo scorso aprile, al contrario, le sue parole sul progetto Citylife erano state abrasive: «Grattacieli storti e sbilenchi, elaborati da architetti stranieri in totale contrasto con il contesto milanese e la sua tradizione urbanistica. Spero non sia questa l’idea moderna di Milano, altrimenti la protesta dei milanesi nascerà spontanea e giusta e io mi metterò alla sua testa». Masseroli aveva replicato secco: «Il progetto è eccezionale, internazionalmente riconosciuto fra i migliori al mondo e imprescindibile per la città. Non ci saranno ripensamenti».
Ieri è stata firmata la pace, nello stesso giorno in cui in aula veniva discusso il documento di inquadramento che detta le linee guida del futuro Pgt. Gli emendamenti sono più di cento. Uno del centrodestra ritocca del 50% (e non del 30 come previsto da Masseroli) i metri cubi edificabili ma dovrebbe venire ritirato. Bocciati dallo stesso assessore, invece, gli emendamenti del Pd a sostegno dell’affitto, denuncia il capogruppo Pierfrancesco Majorino.
«L’housing sociale - ricorda Majorino - è nato anche grazie al lavoro del nostro partito, come stimolo a politiche in grado di dare la casa a chi ne ha bisogno. Mi auguro che l’esempio di Milano possa illuminare un governo debole su questo terreno, purché Masseroli abbia taciuto a Berlusconi che gli interventi di housing sociale sono molto precedenti al documento di inquadramento oggi in aula, che in materia non prevede nulla».
Cielle, i costruttori e l’ex prefetto il "chi è chi" del partito del cemento
di Rodolfo Sala
La Moratti ha delegato il business del mattone al suo assessore ciellino. Lo stesso che disse: "Ligresti è una risorsa della città" - E Ferrante, ex candidato sindaco del centrosinistra, oggi consulente dell’imprenditore siciliano: "Troppi vincoli, vanno ripensati" - Da una parte la spinta verso l’housing sociale, dall’altra gli interessi forti dei grandi proprietari delle aree edificabili: i gruppi Ligresti, Cabassi, Pirelli
Meno vincoli agli operatori, più business e oplà, il mercato immobiliare a Milano torna a tirare. Anche in presenza della fortissima crisi che coinvolge tutti i settori dell’economia reale. Non è uno slogan, ma un programma, già enunciato dagli esponenti del "partito del mattone" sempre più insofferente alle regole urbanistiche e che chiede di voltar pagina in vista dell’appuntamento del 2015. Settecentomila abitanti in più nella città dell’Expo, indice di edificabilità da portare dall’attuale 0,65 a 1, il progressivo abbandono di un’urbanistica considerata finora troppo vincolata, un addio in grande stile agli standard. Carlo Masseroli, assessore comunale alla partita, lo ha detto in modo chiaro: «Le regole e i vincoli non fanno una città migliore, Milano ha bisogno di maggiore flessibilità».
Di questo partito il forzista ciellino Masseroli è senz’altro un esponente di primo piano. Anzi, considerati i rapporti abbastanza tiepidi intrattenuti finora dal sindaco con il mondo dei costruttori (almeno fino a quando si era presentata all’assemblea di Assimpredil di quest’estate promettendo ai costruttori che l’Expo li avrebbe arricchiti), si potrebbe dire che Letizia Moratti abbia deciso di appaltare a lui e ai suoi amici tutta la partita dello sviluppo urbanistico. I grandi operatori del settore gradiscono parecchio il nuovo corso. A cominciare dal gruppo Ligresti, dominus pressoché incontrastato della Milano che verrà perché titolare di aree edificabili strategiche: Nuova Fiera, Citylife, Garibaldi-Repubblica, l’area Sud attorno al Cerba di via Ripamonti. Ma ci sono anche i Cabassi (Fiera) e il gruppo Pirelli, che dopo lo sbarco alla Bicocca si starebbe riposizionando sul mercato dell’housing sociale. E ha già una tessera onoraria del partito del mattone un imprenditore come Claudio De Albertis, leader lombardo di Assimpredil, l’associazione dei costruttori. Secondo voci insistenti che rimbalzano a Palazzo Marino, De Albertis avrebbe concordato con Masseroli le linee del documento urbanistico con cui si vogliono ritoccare all’insù le soglie di edificabilità.
Una novità che non fa scandalo neppure tra le fila dell’opposizione. Intenzionata però, con diverse gradazioni, a dare battaglia su un punto considerato irrinunciabile: va bene dare agli operatori la possibilità di costruire di più, in deroga alle vecchie norme, purché a trarne beneficio sia la parte più debole della popolazione. Basilio Rizzo lo dice così: «Occorre rilanciare l’edilizia convenzionata e il mercato degli affitti; e per raggiungere questo obiettivo occorrono più vincoli, alla faccia del rifiuto della logica dirigistica teorizzato da Masseroli». «Sarebbe utile un ripensamento dei vincoli eccessivi - aggiunge Bruno Ferrante, già prefetto e candidato sindaco del centrosinistra, oggi lavora per il gruppo Ligresti - che hanno permesso di ostacolare progetti come quello del Cerba; la città è piccola e per il suo sviluppo bisogna guardare anche al di fuori della cinta daziaria». E nel Pd c’è chi, come la consigliera Carmela Rozza, invoca «uno scambio chiaro tra il Comune e i costruttori, a cui va dato il premio delle nuove volumetrie solo se verrà utilizzato per costruire case a prezzi calmierati e in affitto; se così fosse, anche noi andremmo a far parte del partito del mattone».
Se così fosse. L’esperienza insegna che occorre andare con i piedi di piombo, che le speranze di uno sviluppo immobiliare a vantaggio di tutti non possono poggiare su basi solide. Non è stato così negli anni Ottanta, durante la stagione dell’edilizia contrattata che ha finito solo per favorire la speculazione e, spesso, il traffico delle mazzette. E neppure nel passato più recente la musica è stata questa. Lo ha ammesso, e senza tanti giri di parole, lo stesso Masseroli presentando nel giugno scorso in consiglio comunale la delibera "Ricostruire la grande Milano" (fu allora che l’assessore definì Ligresti «una grande risorsa per la città»). Il documento racconta, nero su bianco, anche la storia del fallimento registrato negli ultimi nove anni: 23.700 nuovi alloggi e 38mila residenti in più a Milano, ma di pari passo non c’è stata «una risposta adeguata al fabbisogno abitativo espresso dalla città per i redditi medio-bassi». Di più. Tra il 2000 e il 2008, con le regole vigenti, delle 147 proposte di programma integrato (ppi) presentate, per un totale di quasi sette milioni di metri quadrati, solo 84 sono diventate definitive. Altre 30 il Comune le ha ritenute inammissibili, e 21 sono state ritirate dagli operatori privati. Uno dei motivi individuati dall’assessore è la «decisione (di questi operatori) di verificare l’interesse per le nuove regole in corso di predisposizione», vale a dire l’aumento degli indici di edificabilità. E tra le proposte non realizzate ci sono i quasi due milioni di metri quadrati del piano Ticinello ? Vaiano Valle, in zona Sud. Dove domina Ligresti.
Insomma, le "nuove regole" potrebbero sbloccare progetti fermi, c’è solo da chiedersi a vantaggio di chi, dal momento che la stragrande maggioranza dei progetti approvati si riferisce alla fascia medio-alta del mercato immobiliare, e ignora quasi del tutto l’edilizia convenzionata e calmierata. Certo, c’è chi preme - lo stanno facendo insieme la Lega delle Cooperative e la Compagnia delle opere, che per questo hanno costituito la Fondazione Abitare - per il rilancio dell’housing sociale, considerandolo conveniente anche per gli operatori perché il segmento alto del mercato è saturo e per di più indebolito nei suoi valori immobiliari molto di più rispetto a quello basso. Sta di fatto che a metà dicembre, per il bando con cui il Comune mette a gara otto aree per l’housing sociale, le adesioni sono ancora ridotte al lumicino.
"È un’occasione d’oro non lasciamola ai privati"
Teresa Monestiroli
Davide Corritore, consigliere comunale del Partito Democratico, in questa battaglia sul cemento da che parte sta?
«La questione non è cemento sì o cemento no, il problema è che Milano deve riuscire a dare una casa a chi oggi non può permettersela. Su questo provvedimento urbanistico la nostra battaglia è prima di tutto quella di garantire ai cittadini la possibilità di housing sociale. Oggi a Milano il prezzo medio di un appartamento è di 4.400 euro a metro quadrato e tutti i nuovi progetti edilizi sono ben più cari. Con la crisi economica che stiamo vivendo anche la classe media inizia a far fatica a sopportare questi costi».
Quindi non dite no a priori all’aumento dell’indice di edificabilità proposto dalla giunta?
«Il problema, ripeto, è soddisfare i bisogni della città. Se per farlo ci vuole il cemento allora che cemento sia, ma con solide garanzie come quella dei servizi. Invece si parla poco di quello che c’è intorno al cemento. Non vogliamo un secondo caso Santa Giulia dove si costruisce senza pensare alle scuole, ai servizi sociali, agli ambulatori».
Per l’assessore Masseroli «i vincoli non fanno migliore una città, ci vuole più flessibilità».
«La flessibilità ha portato alla situazione attuale. Non siamo sostenitori dei piani quinquennali ma delle garanzie per la comunità. Un piano di governo del territorio deve dare anche una garanzia sulle scuole, gli spazi pubblici, i trasporti, il verde. Tutto questo non può essere affidato alla programmazione dei privati ma deve far parte di un piano pubblico di sviluppo del territorio. Invece veniamo da anni di gestione del territorio asservita alla volontà e agli interessi dei privati che hanno sempre deciso dove costruire e con quali priorità. È arrivato il momento di aprire una nuova fase».
Il nuovo documento urbanistico punta ad aumentare il numero dei cittadini di 700mila unità. La Lega è insorta, sostiene che Milano è già arrivata al collasso. Lei che cosa ne pensa?
«L’unico dato certo che abbiamo per ora è quello dell’ufficio statistico secondo il quale la popolazione nei prossimi decenni non crescerà. Mi chiedo come la giunta pensi di crescere addirittura di 700mila i residenti».
L’Expo potrebbe essere un’occasione.
«E lo è, ma il problema è che manca una strategia che indichi qual è la Milano che vogliamo in futuro. Abitata da chi? Prima di tutto bisognerebbe rispondere a questa domanda e poi costruire una strategia conseguente per invertire un ciclo che negli ultimi trent’anni ha fatto scendere la popolazione del 30 per cento. Personalmente ritengo si debba puntare sui giovani, i neolaureati, cercando di trattenerli in città, proprio in vista dell’Expo che porterà a Milano 7000 eventi nei prossimi anni».
UN AIUTO A BANCHE E IMMOBILIARISTI
di Luca Beltrami Gadola
Per attirare nuovi cittadini servirebbero 300mila posti di lavoro ben remunerati. Poco credibile, con la crisi
Per arrivare al milione e 700mila dei primi anni 70 ci vollero 34 anni, una guerra di mezzo, la ricostruzione, il boom economico, una massiccia e inarrestabile immigrazione dal Sud: tempi tanto diversi da oggi ma con una carica propulsiva formidabile. Di quel periodo però i guasti alla città li vediamo anche oggi. Pensare che nei prossimi sette anni si faccia altrettanto è inimmaginabile. Tanto ne avremmo a metterci l’animo in pace. Ma non possiamo permettercelo perché lo strumento proposto, quello in grado di produrre tanto cambiamento ? l’aumento del 53% della capacità edificatoria delle aree di Milano ? è la vera questione e ha poco a che fare con l’aumento della popolazione.
Quest’idea dei due milioni di residenti, riportando in città i pendolari, non è nuova e venne fuori sostenendo in primo luogo che l’obiettivo era migliorare la qualità della vita dei milanesi principalmente perché l’incremento di popolazione avrebbe arricchito le finanze del Comune permettendo investimenti più consistenti nei servizi alla città. Niente di meno vero, come suggeriscono gli studi del professor Gian Maria Bernareggi della Statale. Milano al contrario si arricchisce del lavoro di chi arriva da fuori città. Ma ammettiamo che questa sia una mera opinione: da dove dovrebbero venire i 700mila nuovi residenti? Radicare a Milano i pendolari? Chi è andato via o abita fuori Milano ha una casa e per tornare in città deve venderla, ma a chi? Se non gli riesce non si sposta. Oggi il mercato immobiliare dell’hinterland è drammatico. In provincia di Milano non c’è crescita di popolazione e non si generano nuovi posti di lavoro, anzi se ne perdono e la domanda di residenza è stagnante. Quindi niente pendolari come nuovi residenti, ma solo arrivi da lontano. Milano, demograficamente stabile, da sempre ha visto aumentare la sua popolazione solo per apporti esterni e se volessimo raggiungere i 700mila nuovi immigrati dovremmo affidarci all’immigrazione, un’immigrazione "ricca" come la vorrebbero i nostri amministratori. Non ci sarà, perché per attrarla servirebbero almeno 300mila nuovi posti di lavoro ben remunerati. Credibile con l’aria che tira? Da qui al 2015?
Rimangono i giovani e le giovani coppie, ma già risiedono a Milano. La domanda pregressa? Già tutti residenti. Si dice che quest’aumento dell’edificabilità darà la possibilità all’amministrazione di chiedere in cambio agli operatori appartamenti a costo contenuto in vendita o ad affitto calmierato. Ammettiamo, per ipotesi, che un terzo della nuova edificazione abbia questo destino: per aiutarne uno che non ce la fa, due dovrebbero permettersi una casa a prezzi di mercato ma di quei due non c’è traccia né oggi né a breve. Non funziona. Allora perché voler aumentare l’edificabilità? Perché si vuole dare una mano agli operatori immobiliari ed alle banche che li hanno foraggiati: l’aumento di edificabilità, anche se non realizzata, avrà per loro molti effetti benefici. Farà aumentare i valori di bilancio delle aree possedute ? rinviando mali di pancia ? o, in alternativa, consentirà loro di diluire i costi delle aree stesse e ridurne l’incidenza sul costruito e permettere minori prezzi di vendita per catturare meglio il poco mercato superstite: un bel regalo.
Quanto alle case a prezzi moderati e gli affitti abbordabili frutto di "convenzioni" con i privati lasciamo perdere, in passato troppe convenzioni furono solo carta straccia: gli esempi molti, pochi gli operatori ma sempre gli stessi.
GODONO GLI SPECULATORI
di Vittorio Gregotti
La cultura architettonica europea sostiene da sempre soluzioni agli antipodi della deregulation
A meno di ricorrere alla deportazione forzata o di mettere a disposizione dei cittadini alloggi a bassissimo costo mi sembra del tutto astratto pensare a un aumento così notevole e improvviso della popolazione del Comune. Dall’aumento della densità edilizia gli unici a godere sarebbero gli speculatori immobiliari mentre la città ne risulterebbe definitivamente disastrata. Di conseguenza, anche per quanto riguarda il 2015 trovo sarebbe consigliabile, data la crisi di denaro e di idee, limitare il proprio impegno alla risposta più stretta possibile degli impegni presi intorno al tema centrale provvedendo al miglioramento del trasporto e all’ospitalità necessaria che certo non riverserà su Milano folle incontenibili di visitatori; e provvedere magari alle necessità già oggi esistenti di alloggi a basso costo.
Sulla pagina di fronte Repubblica pubblicava un’intervista a Renzo Piano, che i successi americani hanno reso particolarmente autorevole in Italia. Le sue opinioni (sia pure espresse con prudenza) sembrano condurre a conclusioni opposte a quelle dell’assessore all’Urbanistica, abbracciando le tesi che la parte ragionevole della cultura architettonica europea sostiene da una trentina d’anni: opposizione all’ideologia della deregolazione, al consumo indiscriminato di territorio della città infinita, ricostruzione critica della città europea all’interno dei suoi limiti consolidati con una politica di utilizzazione delle aree dismesse, incentivazione del trasporto pubblico, resistenza allo svuotamento dei centri storici dalle abitazioni, mantenimento delle mescolanze sociali e della multifunzionalità compatibile, politiche ambientali non orientate a mettere solo gerani sui balconi. Si tratta di due posizioni opposte a proposito delle quali la cultura della città di Milano dovrebbe essere chiamata ad aprire (al di là dei colpi di mano delle maggioranze politiche) una discussione aperta nell’interesse collettivo. Senza mitologie e senza eccessivi compromessi, con passione, buonsenso e fiducia in un futuro meno radicalmente economicista nella costituzione dei valori da perseguire.
Molte cose assai giuste sono state aggiunte ieri da Gae Aulenti nella sua intervista: posso solo dire di essere d’accordo con lei.
10 novembre 2008
Due milioni di abitanti a Milano?
Gae Aulenti: "Ecco perché dico no"
di Maurizio Bono
"Senta, l’intervista posso cominciarla facendo io una domanda, agli amministratori di Milano? È una cosa che mi chiedo da quando ho letto che puntano a riportare la città a due milioni di abitanti: ma hanno dietro una serie studi, un’analisi di previsione, uno scenario che faccia pensare a una tendenza espansiva di Milano, con la crisi che c’è e con la disoccupazione che è facile prevedere almeno per il 2009? Perché se così non fosse, le cifre che si fanno circolare lasciano perplessi. Anzi, mi sembrano francamente campate in aria". Gae Aulenti, architetto di lungo corso che ha legato la propria carriera a celebri allestimenti di interni (dalla Gare d’O rsay a Parigi a Palazzo Grassi a Venezia) ma anche a interventi sul tessuto urbano come il piazzale della stazione Cadorna, è a dir poco critica sull’idea di riportare 700mila pendolari dall’h interland alla cerchia urbana: "Basta pensare alle ragioni per cui sono scappati, che sono i costi eccessivi delle case in città o la loro mancanza. Un prezzo che pagano dormendo troppo poco per venire tutti i giorni a lavorare a Milano. Ma sembra difficile immaginare che lasciando fare al mercato si possa indurli davvero a ritornare".
Però un buon motivo per farlo ci sarebbe, no? Meno pendolarismo, meno traffico, meno consumo del suolo...
"Certo, è tutto vero. Però con le intenzioni, da sole, non si governa. E allora bisognerebbe pianificare seriamente come riuscirci. Alzando gli indici di edificabilità, al contrario, si finirà solo per replicare la disastrosa esperienza della liberalizzazione dei sottotetti, che hanno prodotto più traffico senza risolvere nulla".
Un’idea che sembra ampiamente condivisa è evitare che l’e spansione urbanistica dilaghi ulteriormente all’esterno della metropoli.
"La condivido in pieno anch’io, sono perfettamente d’a ccordo con Renzo Piano che parla di tirare una linea verde intorno all’area urbana, e con progetti come il Metrobosco, a cui ha lavorato anche Stefano Boeri, per disegnare una cintura di campi e boschi invalicabile per i nuovi cantieri. Con le previsioni di crisi per lo meno per tutto il prossimo anno, comunque, sarebbe difficile pensare altrimenti. La realtà ben nota è che anche alcuni dei grandi progetti in corso rallentano, quando non si bloccano per mancanza di fondi come Santa Giulia". Resta il fatto che buona parte dei nuovi quartieri e grattacieli sono per uffici, mentre si calcola che servirebbero 40 o 50mila nuovi alloggi a costo sostenibile.
"Infatti sono anche favorevole all’ipotesi ventilata da Boeri l’altro giorno nell’intervista a Repubblica, di riconvertire in residenza parte degli spazi commerciali e per il terziario che di questo passo sono destinati a restare sfitti".
Anche il quel caso, non sarà comunque un problema di costo? Costruendoli, le imprese non pensavano certo a canoni sociali...
"Badi che già tenere vuoto un ufficio è un costo piuttosto alto, e se si trattasse di ridurre un danno già in atto, qualche intervento di intelligente politica sociale potrebbe rendere quella via praticabile".
Pensa al ritorno alla destinazione residenziale di tanti palazzi nobili del centro diventati uffici, o anche alle nuove costruzioni?
"Direi proprio ai tanti brutti grattacieli semivuoti che si vedono verso le periferie. Ma naturalmente bisogna anche proseguire a chiudere i tanti piccoli "buchi" nel tessuto urbano lasciati da una programmazione carente. L’importante è farlo stabilendo regole certe, durevoli e uguali per tutti. Per questo non mi convince affatto l’idea di un aumento generalizzato degli indici di edificabilità: ma perché, per donarli a chi, per farci che cosa? Prima bisognerebbe perlomeno fare un’idagine seria per stabilire quanti metri cubi servono davvero alla città. Viene davvero nostalgia dei piani Ina casa degli anni Cinquanta o, per restare a Milano, del progetto QT8".
A proposito, lei come giudica la qualità architettonica degli interventi più recenti in città?
"Ci sono molte brutture, ma Milano è anche la città della Torre Velasca, del Pirellone, della Triennale di Muzio, e poi alcuni begli edifici della Bicocca di Gregotti e di quello di Piano in via Monte Rosa".
E i nuovi grattacieli?
"Non tutti saranno belli. Ma se si parla di Citylife, lì il problema è un altro, è il quartiere che è sbagliato. Cala dall’a lto, è poco legato al tessuto circostante, rischia di essere come la vecchia Fiera: un recinto con degli edifici dentro, non un pezzo di città".
07 novembre 2008
Renzo Piano, l'appello alla città
"Smettetela di diffondere il brutto"
di Franco Manzitti
«Ah la mia vecchia e cara Milano, come è cambiata. La considero la mia città, io che sono nato a Genova, ma che professionalmente sono cresciuto qui quando avevo tra i venti e i trent´anni, prima al Politecnico e poi quando ho imparato il mestiere con un maestro come Franco Albini... ». Renzo Piano storce la bocca quando lo chiami archistar o quando cerchi di trascinarlo dentro una polemica magari su Milano, la sua vertiginosa espansione, i suoi progetti-marchio dell´Expo, di Citylife, il piano comunale di crescere fino a 2 milioni di abitanti, ma poi non si trattiene.
Non attacca direttamente gli amministratori cittadini e la politica espansionistica: «Non voglio criticare la Moratti, ma fare un discorso più in generale sulla fine della qualità diffusa che in Italia ha permesso di costruire belle città e che ora manca - dice dalla tolda del suo super-ufficio nella periferia estrema genovese di Vesima, sospeso sul mare a forza nove di questo autunno di tempeste perfette -Dove è finita a Milano quella spinta fervida degli anni Sessanta-Settanta, quella combinazione magica tra sindaci, mecenati, architetti, finanziatori, dove c´era la grande capacità di ascoltare, di inventare? Cosa è successo dopo e ora cosa sta succedendo?».
Il suo progetto per Citylife fermato, quello del parco a Ponte Lambro, ignorato a fine anni Novanta malgrado il timbro dell´Unesco, la diversa visione sull´Expo 2015 in difficile gestazione? Piano va avanti viaggiando tra un continente e l´altro, tra un progetto e l´altro, tra una polemica e l´altra, tra un sindaco Alemanno a Roma, che mette i diktat sull´Eur, e il sindaco Moratti, che innesca il boom milanese, preferendo il cemento di Ligresti. Ma la sua provocazione di archistar è ben più larga e universale e riguarda il come stanno sfigurandosi le città nel mondo, la cultura fasulla della loro espansione, gli sprofondamenti nel trash e nel brutto diffuso. «Noi europei abbiamo per fortuna la chiave culturale per salvare le città che crescono: è il recupero attraverso la stratificazione. Non si abbatte a picconate la periferia brutta per rifarla peggio e disincagliata da ogni contesto di vita, ma si integra, si costruisce sopra, salvando la storia».
Insomma, basta con il consumo scellerato di territorio?
«Anche in Australia e in America incominciano a chiedermi di compiere questa operazione, ora che hanno un paio di secoli di storia urbanistica alle spalle. Trent´anni fa intellettuali fini dell´ambientalismo come Mario Fazio ci suggerivano di recuperare i centri storici. Sfida raccolta e vinta. Oggi dobbiamo salvare le periferie. Dalle banlieue parigine, alle favelas del terzo mondo, ai nostri quartieri dormitorio sulle colline di Genova, come nei sobborghi romani».
E a Milano, con tutti questi progetti, quell´operazione culturale come si realizza, dove si stratifica?
«Bisogna smettere di costruire, di diffondere il brutto per poi chiamarlo trash. Finisce che poi il trash urbanistico passa quasi per bello, basta che ogni tanto ci si metta in mezzo quella che gli inglesi chiamano perfidamente l´aringa rossa, magari un bel grattacielo svettante sul quartiere spazzatura. Anche Milano non deve esplodere con nuovi quartieri selvaggi, ma implodere su quanto già c´è. Le periferie sono brutte, senza qualità diffusa, perché non ci hanno costruito le condizioni della vera vita vissuta, che non si crea solo con case e negozi. Ci vuole tutto il resto, a incominciare dal verde, dalle scuole, dagli impianti sportivi, dalle librerie, dai giardini».
Ciò significa che bisogna rinunciare al concetto di città diffusa e pianificare dei margini artificiali?
«Va tracciata quella linea verde oltre la quale non si deve costruire più, e si badi bene che all´interno la ricostruzione stratificata è più che possibile ovunque: fabbriche dismesse, parchi ferroviari abbandonati, zone residenziali perdute nel degrado, quartieri fatiscenti. A Sud di Milano ci sono grandi spazi appetibili, così come nella zona di Rho-Pero, penso anche a viale Forlanini ad Est, dove immaginavamo tanti anni fa il parco urbano di Ponte Lambro, proprio mentre stavamo ricostruendo Sarajevo, città martire, con lo stesso criterio promosso dall´Unesco».
Ma lei ha un´idea di dove può essere tracciata questa linea verde?
«Sono i sindaci e gli amministratori che devono stabilirlo e non vorrei gettare la croce addosso solo a loro. Si immagina che quella linea sia sovrapponibile alle tangenziali, dove ci sono. Ma quella linea non basta se non si risolve il problema del trasporto urbano. Come si fa a progettare solo posteggi dappertutto?».
Ma le macchine sono sempre di più. Dove le mettiamo?
«A Londra con l´ex sindaco Ken Livingstone abbiamo progettato quella grande torre nel centro e sa quanti posteggi sono stati previsti? 42. A New York con il sindaco Bloomberg stiamo trattando operazioni urbanistiche a Manhattan a posteggi zero. Altro che i 10mila posti macchina di Citylife. Il concetto è disincentivare l´uso dell´automobile. Se non fai altro che costruire posteggi ingigantisci il traffico e continui a proporlo nel centro delle città. Io a Parigi abito in centro e non ho la macchina, sono ultra servito dai mezzi pubblici».
Torniamo a Milano: perché lei sente questa grande delusione?
«Perché mi ricordo com´era quando, da giovane architetto, ci sono arrivato al seguito di Franco Albini, il maestro della Zero Gravity, l´architettura come leggerezza, insieme a Marco Zanuso alla scoperta di nuovi materiali, di nuove forme. Avevamo il terreno favorevole per esplorare, ascoltare, confrontare. C´era un circolo virtuoso che garantiva la qualità diffusa. Mi ricordo i dibattiti con Ermanno Olmi per progettare Ponte Lambro».
E ora che le occasioni di costruire sono addirittura imponenti: basta pensare alle possibilità di Expo 2015?
«Se lei mi chiede se sono Exposcettico o Expoentusiasta le rispondo che sono entusiasta. Sgombro il campo dall´equivoco nato qualche tempo fa, quando fui classificato sulla linea di Adriano Celentano, che era contrario. Sono prudente. Non vorrei che l´Expo diventasse una colossale operazione immobiliare e stop. Ho già un´esperienza in materia, quella delle Colombiadi, l´Expo genovese del 1992 per i 500 anni della scoperta dell´America. Lì abbiamo recuperato l´esistente e costruito un quartiere nel cuore della città, nel porto storico, che rimane un segno forte e lo abbiamo fatto con equilibrio ambientale e economico. Ricordo quello che mi raccomandava, in stretto dialetto genovese, il sindaco di allora, Fulvio Cerofolini: "Mia Piano, qui nun se straggia ninte ("Guarda Piano, che qui non si può sprecare niente"). Non abbiamo sprecato niente, abbiamo costruito su quel che c´era».
Ma alla fine non è molto più stimolante creare dal nulla, costruire a perdita d´occhio senza avere vincoli di spazi, di storia, di cultura?
«È vero il contrario. La sfida dell´architetto è proprio quella di andarsi a cercare i vincoli, i condizionamenti, gli obblighi dell´esistente. Noi italiani abbiamo più degli altri questa capacità che io considero la vera sfida da esercitare quando ci viene proposto un nuovo lavoro».
Tutto questo non può essere travolto da una cultura diversa più globale, che tiene conto dell´immigrazione, di una nuova società multietnica, già ospitata dalle città?
«Siamo sempre stati meticci e non solo a Genova e Venezia, città porto. Perché nei nostri quadri, nei nostri affreschi compaiono spesso i mori, i personaggi di colore ambientati nelle diverse epoche? Perché questa è la nostra storia».
Il documento d'indirizzo che sta per andare al vaglio del Consiglio comunale, dietro l'apparenza di obiettivi condivisibili come la disponibilità di alloggi per chi non può permettersi gli attuali prezzi folli, nasconde una visione vecchia e pericolosa.
Una ricetta, quella preparata dalla giunta comunale di Letizia Moratti, che, ben prima di dare una risposta al bisogno di case a buon mercato rischia di aggravare e rendere inguaribili i problemi più gravi della città: dal traffico, all'inquinamento, all'insufficienza del verde e delle infrastrutture.
Cominciamo dalla coda, ovvero dall'obiettivo di portare a 2 milioni la popolazione residente in città, con un aumento di 700mila nuovi abitanti in sei anni. Ha senso una simile prospettiva? No, non lo ha. Milano è un comune piccolo, con un consumo del suolo ben oltre la capacità di rigenerazione, parchi insufficienti e una struttura radiale che, già ora, è soffocata per la quantità di funzioni pregiate e direzionali addensate nei suoi confini. Funzioni che richiamano, ogni giorno, centinaia di migliaia di pendolari dall'hinterland, dalla regione e da un'area ancora più vasta che va da Varese a Piacenza, da Bergamo a Novara: la regione urbana milanese, la cosiddetta "città infinita", quella su cui si organizzano pregevoli convegni ma che rimane priva di una testa pensante, di sistemi di regolazione e di governo. La giunta Moratti vorrebbe trasformare un po' di quei pendolari in nuovi residenti milanesi e, a quel che si è capito, frenare la fuga delle giovani coppie verso la provincia. Ma è un proposito che si scontra, oltre che con gli angusti confini municipali, anche con la qualità, la vocazione e il profilo attuale della città.
Milano ha avuto molti più abitanti, una trentina di anni fa, quando era una città industriale e operaia. Il massimo venne raggiunto nel 1974, con quasi 1 milione 750mila residenti. Poi venne il rapido declino della residenza, coincidente con la deindustrializzazione, l'esplosione della città terziaria, l'espulsione dal centro e dal semicentro di famiglie a basso reddito e del ceto medio. Da oltre vent'anni, abbiamo intere porzioni di città dove alla residenza si sono sostituiti uffici, studi professionali, sedi direzionali. Forse si dovrebbe ripartire da lì, dal ritorno alla residenza delle parti forzosamente terziarizzate di Milano, per avviare un programma di ripopolamento.
Ma l'assessore Masseroli non ne fa cenno. Non gli interessa. Troppo complesso rimettere in discussione la destinazione d'uso di centinaia di stabili e di migliaia di appartamenti e soprattutto potenzialmente una fonte perenne di guai con la proprietà immobiliare grande e piccola. Meglio il cemento fresco, allora. La trovata è, dunque, è far salire l'indice di edificabilità da 0,65 a 1. Costruendo in verticale, con "vincoli e regole" ridotti al minimo, o eliminati del tutto, per la gioia di immobiliaristi e costruttori. E alla faccia di chi pensa che ai problemi del terzo millennio non si possa rispondere con ricette anni Sessanta, lanciando programmi edilizi da ricostruzione post bellica in una insensata gara con i Comuni della propria area urbana per "rubarsi" residenti. Così insensata da ingenerare il sospetto che tutto questo fervore per nuove case a buon mercato nasconda, in realtà, ben altro obiettivo: far cassa con gli oneri di urbanizzazione, per recuperare i soldi che il governo "amico" ha sfilato dal portafogli di Palazzo Marino.
Non vorrei sembrare irriverente nei confronti di alcuno, tantomeno di Giorgio Armani, titolando e poi così scrivendo. Ma le motivazioni che mi spingono a scrivere valgono bene il rischio, anche di apparire privo di certa supposta qualità (la qual cosa pure mi crea fastidio, io che non vesto mai a caso).
Da tempo siamo abituati a (dover) considerare il pensiero degli stilisti e invitati a coglierne i suggerimenti per migliorare la qualità dello spazio che viviamo. Non che questo corrisponda ai miei desiderata, è semplice constatazione derivata dalla lettura della stampa quotidiana, quando non anche dalla tele-visione.
Già qualche mese fa, il tra il 23 e il 25 giugno, sul tema in questione, le griffe più blasonate avevano avuto spazio nel Corriere della Sera, dalle cui pagine si era appreso dell’entusiastico Tom Ford all’inaugurazione del nuovissimo negozio in via Verri: “E’ fantastico essere di nuovo a Milano… quando sono qui mi sembra di viverci da sempre…” e della cauta Mariuccia Mandelli-Krizia, cui piace, di Milano, “la sua ricchezza di talento e la sua capacità di offrire molte possibilità: di lavoro, di svago, di cultura. Non piace il suo disordine, la sua sporcizia che è niente in confronto ad altre critiche situazioni”.
Complimenti. Non solo a loro ma anche alla redazione. Non avremmo mai osato pensare il contrario, ma leggerlo sul glorioso quotidiano è stato rassicurante.
In quella occasione, da Armani la denuncia raccolta dal Corriere: “E’ in Montenapo il vero suk”.
Il 17 settembre 2008, si è tornati nuovamente sulla questione, e nuovamente interpellato è stato Re Giorgio, per il quale, non strabuzzate occhi!, “Il centro storico muore e via Montenapoleone sembra un luna park”. Ma da quale pulpito! Verrebbe da dire, ricorrendo a un detto popolare, gallina che canta ha fatto l’uovo!
Devo sottolinearlo, se penso a Milano mi viene in mente la bruttezza. E già, a me che amo Milano, da subito questo viene in mente; non certe atmosfere, certi suoni, certe immagini, ma anche certi dati ed elementi oggettivi di spazio e di architettura, di funzioni e di relazioni, che tornano alla mente se ripenso a Copenhagen, a Praga o a Vienna. Per pensare alla bellezza di Milano devo congelare nella mente, come si fa con un layer di Autocad, la negazione della sua storia a partire dal rapporto con l’acqua, l’alterazione dell’equilibrio tra la città del risiedere e la città del lavorare, il traffico che soffoca, la perforazione del sottosuolo come fosse gruyère, il mercatone immobiliare che seleziona ed esclude, il centro storico da decenni solo commerciale e finanziario, l’immensa boutique che lo pervade e anche un po’ più in là invade. Per Milano, le sue risorse consumate come si fa spremendo un limone, non c’è spazio per un progetto che contrasti l’abbruttimento, per una idea diversa di città e di territorio.
Milano sull’acqua, se non come Copenhagen, almeno come Bruges? Illusione. Nient’affatto. Il piacere di veder riflesse cortine edilizie, giardini, ringhiere e ponticelli è tramontata da tempo e ciò che resta, al Ticinese, è diventato poco più che buono per una cartolina. Milano, caposaldo territoriale di un sistema idrografico, dall’acqua ha tratto la propria forma urbis, dal rapporto con la campagna la prima ricchezza, non solo materiale. Poi l’affermazione industriale, il ruolo di capitale morale, il primato economico e il terziario.
La folle specializzazione commerciale del centro storico a scapito dei negozi del non-lusso è andata di pari passo alla terziarizzazione delle funzioni a scapito della residenza. Espulsione degli abitanti-classi meno abbienti a favore delle attività terziarie, uffici, uffici, uffici.
Sottolineare i conseguenti movimenti pendolari significa mettere in evidenza il disastroso bilancio tra la città del giorno (due milioni e mezzo di persone) e la città della notte (a riportare il valore dei residenti, circa un milione e trecentomila persone).
Solo una classe di governo priva di lungimiranza e incapace di progetto ha potuto elevare a modello questo tipo di città, avverso ai più scontati parametri di vitalità e vivibilità. Milano, “livida e sprofondata per sua stessa mano” , tra i versi di un cantautore amato.
Ecco dunque, l’amaro calice. Milano sfigurata, Milano bevuta e digerita, vomitata mille volte da chi s’è affrettato al tavolo delle libagioni. Torta spartita, commensali satolli. Rimangono briciole, dappertutto.
E qualcuno s’indigna. Molti si indignano, e hanno ragione da vendere. Ma almeno qualcuno di questi non ha partecipato al banchetto.
Con che coraggio, cari stilisti, osate parlare di qualità dello spazio urbano, voi che avete invaso la città con ogni mezzo e con ogni mezzo invadete ogni spazio mediatico, ben supportati, peraltro, da pubblicisti che sanno (farvi) ben vendere e collocare il prodotto, dappertutto, senza esclusione alcuna, manco per la piazza, per il duomo, per il castello?
Perdonate la franchezza, ma sono ben lieto nel sapervi impegnati “con tante cose da fare” , sicché non vi resta tempo per disegnarci la città ideale.
Perbacco, quanti argomenti, scrive Paola Bulbarelli, con Armani. Milano, su tutto, ovviamente. E ovviamente, leggiamo che per Re Giorgio “l’Expo rappresenterà un momento particolare, molto positivo così come è giusto che una torta [sì, proprio così, non invento nulla, parla proprio di torta, pensa te] del genere venga controllata da un consiglio di amministrazione. Se non fossi tanto impegnato mi sarebbe piaciuto far parte della partita”. Ah, la grammatica, questa sconosciuta! Ma chi se ne frega, conta il concetto, il pensiero (unico). Del resto, non voglio mica mettere i puntini sulle i, mica punto il dito sulla pagliuzza quando di fronte c’è una trave enorme!
“Degrado e rumore di giorno, deserto di sera. Ma l’isola pedonale è un danno”. Così, nella Cronaca di Milano del Corriere della Sera, 17 settembre 2008, sotto il titolo “Armani: il centro storico muore. E Montenapo è un luna park”. E nel sommario, voce a “Maiolo, assessore al Commercio: organizziamo insieme nuovi eventi. Cadeo, Arredo urbano: pianificazione condivisa”.
Assessore, da oggi ex, ma di che eventi parla? Ma di che eventi ha bisogno Milano? Ma Milano ha bisogno di eventi? E più oltre, che dire della pianificazione condivisa (dell’arredo urbano, figurarsi).
Che miseria. E che presa per i fondelli, oltre al danno la beffa. Ci tocca anche di leggere che, foto dinamica dello stilista e catenaccio “Non si può pensare a un’isola pedonale nel quadrilatero. Figuriamoci se non ci fossero le auto: bisogna dar vita alle strade, un passeggio utile”.
Poi, “Il centro di Milano è morto, questa è la realtà”. Pensa un po’, si lamenta perché, fermandosi a seguire i lavori della nuova boutique sino alle undici di sera, constata l’assenza di persone, “Il nulla”, dice, dopo le otto, quando chiudono i negozi.
Bisogna ridere? No, tutt’altro. C’è di indignarsi pensando all’abusato cliché di fronte all’uso e consumo di tanta parte della città notturna, sin troppo viva da divenire assalto a luoghi ben identificati dai riti della movida, strampalata versione milanese del movimento sociale ed artistico nato nella Madrid che si lasciava alle spalle la dittatura franchista. Dall’aperitivo ai tour nottambuli la Milano che ama esserci si guarda bene dal frequentare certi luoghi mortificati e fagocitati dalla moda, madre ripudiata dai suoi stessi figli. Che ci dovrebbero andare a fare, nel vostro quadrilatero, i nottambuli? Parafrasando i madrileñi, Milán me mata.
Sono passati venticinque anni, il tema della vitalità degli spazi urbani era argomento di lezione in università: imparai a comprenderne il valore da Lodovico Meneghetti, con tanto di esempi, circostanziati. Tra i materiali, Lo spazio nella storia. 177 immagini in 14 capitoli; da questo, tra gli altri, i tema della piazza, della strada, dei rapporti spaziali, degli equilibri-disequilibri tra residenza e terziario, tra abitazioni e uffici, tra il pieno e il vuoto, l’affollato diurno e il deserto serale.
Anche se avessero assistito alle lezioni, certi imprenditori se ne sarebbero bellamente infischiati di fronte agli amministratori del capoluogo. Avanti, c’è posto, c’è da mangiare oltre che da bere.
Quanto poi all’isola pedonale, nel quadrilatero della moda, bene inteso, mi sembra un déjà vu. E non sbaglio. Che pena tornare ad argomenti come la presenza necessaria delle auto per dar vita alle strade. Che strazio tornare al corso Vittorio Emanuele di trent’anni fa, al tira e molla decisionale sulla pedonalizzazione. Potrei ricordare Vittorio Korach, assessore al traffico tra gli anni Settanta e Ottanta, o l’incompresa posizione del caro Aldo Rossi. Mi limito a citare ancora una volta Lodo Meneghetti, Milano uno spazio in sfacelo, lettera aperta ai colleghi e agli studenti di architettura, scritta su “polinewsia”, numero 13, aprile 1984. Lì, cari stilisti del “Figuriamoci se non ci fossero le auto” e cari giornalisti del “Non può essere smentito lo stilista”, un sacco di buoni argomenti.
Che dire, ancora, delle due pagine del “Corriere” di ieri, come di quello di oggi (come anche del resto, de “la Repubblica”). Che è scandalosa la reiterata tribuna offerta alle griffe per pontificare sullo spazio urbano. Da Armani, c’è di che trasecolare, apprendiamo che il Comune “doveva essere molto severo, troppe licenze di moda. bisognava diversificare” o che sulcorso Vittorio Emanuele, “lo struscio non sempre è di qualità”.
Ma per cortesia, si occupi se proprio vuole “dei tre-quattro russi vestiti male” visti nelle più famose vie del centro. Quanto all’autrice dell’articolo, eviti la precisazione che “non è la moda protagonista dell’Expo”, giacché a qualcuno potrebbe suggerire qualcosa, soprattutto se accompagnata dalla proposizione che “personaggi alla Armani avrebbero potuto portare notevoli contributi” (ancora, l’italiano, questo abbandonato, ma l’Expò sarà nel 2015 o si è già svolto?).
E già, si tranquillizzi pure, gentile Paola Bulbarelli, perché Re Giorgio non manca di iniziative per la sua città, a partire dal suo albergo di via Manzoni, “quello che verrà aperto fra circa un anno e mezzo, ci sarà un ristorante di altissimo livello ma solo di cucina italiana e direi milanese. Si potrà mangiare una cotoletta secondo tradizione”.
“Già l’hotel, ce n’era bisogno”? Ma che risposta avrebbe potuto avere simil domanda?
Siamo davvero soddisfatti, complimenti vivissimi e tutto va ben, madama la marchesa. Che bello esser rassicurati che non mancherà di stile, il nuovo hotel di Armani, “a cominciare dagli spazi. Riprendiamoci un senso di civiltà”.
Già, lo stile, mica è materia per soli addetti ai lavori, l’argomento attrae come api sui petali di fiore. Incauta, l’ormai ex-assessore Maiolo alle Attività Produttive esprime piena solidarietà e condivisione ad Armani e alla sua denuncia e, constatata la morte della città della moda, o del centro storico, morto pure lui, ci rimette le deleghe. Il sindaco Letizia Moratti ha un bel daffare. E non solo lei, l’Armani-pensiero sollecita le iniziative anche dell’assessore all’Arredo urbano Maurizio Cadeo che, per la nostra buona pace, assicura che “nella nuova pianificazione degli arredi del centro storico siamo impegnati nella ricerca di soluzioni condivise”.
Che ci rimane, di fronte alla pianificazione degli arredi del centro storico? Dagli architetti richiesti di un parere (Botta e Fuksas) solo conferme.
Di più, oggi si è potuto leggere qualcosa che definire rivoltante è un eufemismo. Da Achille Colombo Clerici (Assoedilizia) apprendiamo che “La città e il quartiere [della moda] vivono grazie a un mix di funzioni che non può prescindere dalla componente fondamentale dei residenti (sono un migliaio) o dai lavoratori che esercitano attività professionali e artigianali (ammontano a circa cinquemila)”. Ci spiegano, dall’associazione, che è meglio “la spontaneità della vita urbana”, con solidarietà insospettata, “per rilanciare la via e proteggere i più deboli”. Il Presidente proprietari di immobili chiosa: “Se si chiude la strada al traffico chi farà visita alla vecchia signora o al professore di italiano che abitano in quelle case”? Poi, più oltre, ciliegina sulla torta: “Certo, anziani e impiegati possono spostarsi al Lorenteggio”.
Non ci sono parole. Dall’ammutolimento non ci scuote neanche la bella e giusta lettera di Giulia Borgese sotto il titolo “Non chiamatelo quadrilatero della moda”.
A noi l’amara constatazione della ragionevolezza gettata alle ortiche, sminuzzata nel tritacarne come in un macello.
Se è vero che la nostra cultura affonda le radici in Grecia, dove la sacralità dell’ospite era ossequio agli dei, o se, come molti sostengono a gran voce, le radici cristiane sono le nostre ? «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato» (Marco 10,40) ? allora abbiamo fatto una svolta selvaggia verso il puro mercantilismo. Oggi la stazione Centrale dopo la ristrutturazione sarà l’icona dell’ospitalità negata e dell’accoglienza trasformata in affare commerciale.
Solo una parte di chi viaggia lo fa per puro diletto: la maggioranza lo fa per necessità di lavoro, spesso disagiata. Costringere tutti, e questi ultimi in primo luogo, ad allungare il percorso di accesso ai treni per costringerli a passare davanti alle vetrine dei negozi, allungando così il tempo del viaggio, ha qualcosa d’incivile. I passeggeri non hanno a disposizione due percorsi, uno rapido e l’altro commerciale, ma uno solo, come se fossero in una stazione di servizio sull’autostrada (i padroni sono gli stessi): uscire passando tortuosamente tra gadget e provole locali. Se vogliamo avvicinarci a tempi più vicini, ecco l’Accademia della Crusca: «Ospitalità ? Liberalità nel ricevere i forestieri». Di liberalità nella società Grandi Stazioni non c’è traccia, persino la toilette si paga a Milano: 80 centesimi, e il tornello a moneta non dà nemmeno il resto.
Ovviamente la strategia è la stessa anche per Centostazioni, la società che provvede alla ristrutturazione delle stazioni minori. Mesi fa a Brescia, lavori terminati nel 2006, ho chiesto a un ferroviere di indicarmi la sala di attesa: «Non c’è, è stata chiusa perché insicura». Risposta lapidaria ma meno realista di quella di un agente di pubblica sicurezza: «Non c’è più, adesso per far soldi ci sono solo esercizi commerciali». Aveva ragione. Lo conferma Centostazioni Spa: «... il progetto originale ha consentito di incrementare la superficie destinata ai servizi per gli utenti...» Tra questi: bar-ristorazione, tabaccaio, agenzia viaggi, barbiere, make-up accessori, due edicole, forno, cioccolateria/sweet corner, cartolibreria, bancomat (Bnl), agenzia di assicurazione (Hdi), negozio di telefonia Tim e ottico. Costosa, dunque, l’attesa. A Padova, dove è in corso la ristrutturazione, la nuova toilette costa 60 centesimi. Il risultato: il grande parcheggio di bici annesso alla stazione, quello dei pendolari, ha ora un puzzo di urina degno del peggior sottopasso urbano. Nel nostro Paese, prospero e felice, per qualcuno ? molti ? 60 o 80 centesimi sono qualcosa. Con questo spirito e con questa generosa mentalità ci avviamo ad accogliere gli "ospiti" per l’Expo 2015. A noi ospitanti, sempre e solo il ruolo di pecore da tosare.
Nota: a parere del sottoscritto va nella medesima direzione anche la valorizzazione degli spazi ferroviaridi Venezia Santa Lucia, nel cui ambito si inquadra il nuovo ponte di Calatrava sul Canal Grande (f.b.)
SCENARI «Nella cordata Alitalia ci sono troppi immobiliaristi per non insospettirsi, l’area di Linate rappresenterebbe un affare colossale se riconvertita ad uso residenziale e terziario». A pensare male si fa peccato ma spesso s’indovina, disse una volta
Andreotti, consegnando ai posteri un’utile chiave di lettura della politica italiana.
Torna buona anche oggi per leggere tra le righe del nuovo piano di salvataggio della compagnia di bandiera, quello che prevede il sostanziale addio allo scalo milanese con il trasferimento a Malpensa di tutti i voli Alitalia e AirOne. A pensar male è Nino Cortorillo, segretario generale della Filt Cgil Lombardia: «La chiusura di Linate è coerente con l’accordo siglato pochi mesi fa tra la Sea, che gestisce i due scali milanesi, e Lufthansa, che nel 2009 porterà a Malpensa sei aerei della sua controllata Air Dolomiti per farne entro il 2014 un hub centrale del suo sistema di alleanze. Ma anche con la composizione della cordata».
Spiega il sindacalista: «Gli investitori, tra i quali spicca il nome di Ligresti, partecipano all’operazione per avere un ritorno economico. Probabilmente non arriverà da Alitalia, ma dall’area dell’aeroporto cittadino e dalle opere dell’Expo». Così si scioglie anche il rebus della metropolitana che per il 2015 arriverà a Linate: perché costruirla se il destino dello scalo è segnato?
I piani di sviluppo urbano guardano ben oltre l’appuntamento fieristico. Nel frattempo si prepara il terreno per Lufthansa, che non vuole concorrenza per Malpensa: «Ma lo scalo varesino - conclude Cortorillo - non potrà farsi carico dei 10 milioni di passeggeri di Linate senza compromettersi ogni possibilità d’espansione».
L’ipotesi non piace nemmeno al presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati, che ieri ha inviato un telegramma al presidente del Consiglio Berlusconi per chiedere la convocazione urgente di un tavolo con le istituzioni locali sul sistema aeroportuale milanese: «È una presa in giro per gli elettori del Nord. Non si parla più di liberalizzazione dei diritti di volo e si preannuncia una nuova compagnia aerea di dimensioni modeste ma forte di due monopoli: quello della tratta più ricca d’Europa, la Roma-Milano, e quello dei voli internazionali dall’Italia non liberalizzati». Le somme tirate da Penati sono sconfortanti: «E Pantalone pagherà due volte, da contribuente nel risanare i debiti della bad company e da consumatore nell’acquistare biglietti aerei più cari della media europea».
Sugli stessi toni anche il segretario del Pd milanese, Ezio Casati: «Saranno i cittadini a pagare il monopolio preannunciato dalla fusione di Alitalia con AirOne. L’aeroporto di Linate è una risorsa importante che non può essere sacrificata».
Nel centrodestra, invece, è scattata la consegna del silenzio. Dopo il fuoco e fiamme minacciato per il ridimensionamento di Malpensa, il presidente della Lombardia Roberto Formigoni preferisce tacere sulle «illazioni» su Linate per salutare la nascita di Compagnia Aerea Italiana come «l’inizio di un nuovo cammino per Alitalia».
Si sbilancia solo la Lega Nord, compagna di barricate del governatore lombardo a difesa dello scalo varesino: «Linate non chiuderà mai, è troppo comodo per la città. Il vuoto di Alitalia, nel rispetto dei principi di libero mercato, sarà riempito da qualcun altro» sentenzia Marco Reguzzoni, capogruppo del Carroccio alla Camera. «Evidentemente avevamo ragione noi della Lega, quando dicevamo che chiudere Malpensa era insensato». Logica ineccepibile, con buona pace dell’aeroporto uscito perdente dalla sfida per la sopravvivenza.
«Vede quella cascina? È amministrata da una società di Ligresti. Siamo buoni vicini di casa. Noi facciamo gli agricoltori, loro fanno gli agricoltori». A parlare è Paolo Bossi, 50 anni, veterinario. Con il fratello Francesco (agronomo), la sorella Giuditta (medico) e la mamma farmacista è affittuario di 40 ettari in via Selvanesco. Non molto lontano dalla sua azienda sorgerà il Cerba: su un’area di Ligresti, come d’altra parte è di Ligresti l’area dello Ieo, l’Istituto europeo di oncologia. Alla Immobiliare Costruzioni dell’ingegnere di Paternò sono riconducibili proprietà nei fogli catastali 633, 635, 655, 685 a sinistra dell’asse di via Ripamonti. Ma altre sue società possiedono terreni a destra di Ripamonti. Questa non è più Milano, è Ligrestown. Il trapasso avviene in modo simbolico ancora sulla via Ripamonti. Uscendo dalla città si incontra prima il palazzo della Coldiretti, con la grossa insegna verde «Consorzio agrario».
Più a Sud, un po’ sopra via Selvanesco, là dove il 24 fa capolinea a rispettosa distanza dall’area di via Macconago del Cerba, svettano le torri di Ligresti. Un simbolo, appunto. Del suo potere e del suo stile. L’ingegnere ha tirato su due piani in più di quelli previsti dalla concessione edilizia. Lo hanno fermato e questi ultimi due piani sono rimasti uno scheletro non costruito, un cappello bucherellato, d’aria e cemento, in testa agli edifici. Dentro c’è l’Inps.
Le tappe del degrado di cui si parla a proposito del parco Sud, sono quattro. Si parte da una azienda agricola funzionante e stabile grazie a contratti di lungo periodo: almeno vent’anni. La proprietà perciò accorcia i contratti degli affittuari, rendendo più onerosi gli investimenti (il rientro deve avvenire in tempi brevi) e più incerte le prospettive: l’agricoltura d’impresa si trasforma in agricoltura di sopravvivenza. Il terzo passaggio è l’abbandono: il contadino va in pensione o getta la spugna, la proprietà non riaffitta. È il gran finale: sui terreni lasciati a se stessi si insinuano attività abusive. Arrivano gli sfasciacarrozze, proliferano le discariche.
Il consigliere comunale verde Enrico Fedrighini la chiama «costruzione del degrado». A cosa serve? «Alla valorizzazione immobiliare dei terreni - risponde Fedrighini - perché i proprietari non sono imprenditori del settore alimentare ma di mestiere costruiscono palazzi». Con la sola Immobiliare Costruzioni, Salvatore Ligresti possiede ettari ed ettari di aree agricole inedificabili fra Cerba e dintorni. Cosa se ne fa? Li coltiva, certo. Però i fratelli Bossi strabuzzano gli occhi nel sentire che il Pgt, il Piano comunale di governo del territorio, potrebbe assegnare un indice di edificabilità dello 0,20 ai terreni coltivati: «L’indice agricolo è dello 0,03. Con lo 0,20, sui nostri 40 ettari verrebbero 80.000 metri quadrati di case, hai voglia quante sono».
Il Pgt assegna alle aree agricole un indice virtuale. La scommessa è che la proprietà lo riversi su altre aree (edificabili) e in cambio ceda gratuitamente l’area al Comune. È la cosiddetta perequazione. Ma gli immobiliaristi sembrano voler puntare sul «degrado costruito», grazie al quale porteranno a casa l’8,15% di aree edificabili in più nelle aree del parco Sud comprese nei Piani di cintura urbana. Perfino la Provincia, che governa il parco, lo ritiene un sacrificio necessario per salvare il resto con gli oneri di urbanizzazione. Ma a questo punto, perché «perequare»? Conviene accettare l’indice di edificabilità e far fare al degrado il suo lavoro. Poi si risanerà costruendo.
La cascina Gaggioli dei fratelli Bossi fa agricoltura biologica. Vende riso, farina, la carne di una cinquantina di mucche (francesi, razza Limousine), ha cinque camere per agriturismo. Molti turisti stranieri preferiscono dormire in campagna e al mattino prendere la bicicletta. Il Duomo è a 6 chilometri. Il fondo della Gaggioli è coltivato in modo documentato dal 1300 ma esiste da prima, da quando i monaci cistercensi bonificarono le paludi, costruirono i canali per irrigare e diedero vita sulle due fondamenta della presenza del bestiame e di una abbondante riserva d’acqua alla produzione di latte, carne, riso, foraggio (mais, orzo, prati).
«Con le ovvie modifiche tecnologiche - spiega Dario Oliviero della Cia (Confederazione italiana agricoltori) - la trasformazione pensata allora è valida concettualmente ancora oggi». Siamo dunque alla fine di una storia plurisecolare? «Per noi - dice Oliviero, che rappresenta la categoria nel direttivo del parco Sud - l’espulsione dell’agricoltura è un fatto evidente». E i piani di cintura urbana con i quali parco Sud, Provincia e Comuni devono dettare le norme urbanistiche di 4.800 ettari prevalentemente in Comune di Milano? «Se ben calibrati - risponde Oliviero - sono un elemento regolatore fondamentale».
Questi sono i campi più fertili d’Europa. Il terreno a medio impasto, né argilloso né sabbioso, è il migliore per i seminativi. Il sindaco Moratti aveva promesso attenzione per il settore. Eppure i Bossi, semplicemente per rifare la stalla, hanno chiesto l’autorizzazione al parco Sud, poi atteso 11 mesi l’ok della commissione edilizia, dalla scorsa primavera aspettano il permesso di costruire. In Comune hanno chiesto lumi sull’allacciamento fognario: «Facciamo una stalla, quali fogne? il letame va nei campi». Questo nel secondo Comune agricolo italiano (800 ettari di terre), nella città che propone al mondo una Expo sull’alimentazione.
Fu nel luglio 2010 che i milanesi scoprirono il loro nuovo parco.
Il petrolio quotava 250 dollari a barile, l´amico Putin giocava ad aprire e chiudere i rubinetti del gas e il dibattito sul ritorno al nucleare ferveva. Intanto, fra le generali proteste anche della sua maggioranza, il neo ministro dell´energia, il leghista Giuseppe Bonomi, aveva appena pubblicato le nuove norme per il risparmio energetico: condizionatori vietati, ascensori in funzione solo in orario di lavoro, ventilatori autorizzati dalle prefetture e l´odiosa super-tassa sui ventagli che aveva già attivato un fiorente mercato clandestino.
Fu allora che CityLife divenne un nuovo paradiso urbano.
Malgrado gli insistenti interventi del premier Berlusconi e le prediche dell´ex ragazzo della via Gluck, nessuno aveva raddrizzato il grattacielo di Libeskind. Ma solo pochi milionari davvero snob si erano dimostrati disponibili ad affrontare le centinaia di gradini fino ai loro super attici senza aria condizionata e con specchi ustionanti al posto delle vetrate panoramiche. Il grattacielo era in uno stato di semi abbandono, ma con i suoi due fratelli "normali" continuava a proiettare una lunga persistente ombra sul verde splendidamente ingegnerizzato di CityLife. Quell´ombra che i comitati solo tre anni prima avevano ferocemente contestato, aveva creato una piccola isola di refrigerio nella città cementificata dall´Expo. E quello strano profilo del grattacielo più contestato era piaciuto a frequentatori professionali della notte che vi avevano fissato una solida dimora: su ogni sbalzo dell´architettura si indovinava la sagoma rovesciata di un pipistrello. Un lugubre annuncio?
Nient´affatto: per i frequentatori del parco la garanzia di zanzara zero.
Un´assicurazione importante dopo che le aree destinate ad ospitare l´Expo erano state massicciamente disertate perché infestate come la bassa Pavese: riaprire le vie d´acqua non era stata una buona idea e già ci si interrogava sul perché 80 anni fa ci si fosse così impegnati a interrarle. Zanzare a parte, i frequentatori delle nuove rive segnalavano topi, nutrie e si favoleggiava perfino di castori; e naturalmente, di un vorace pesce siluro già padrone dei canali e della presenza di tale Loredano, feroce caimano metropolitano. Là, in cima al grattacielo storto, volavano invece due veri falchi nemici di ogni roditore. E tra le architetture liberty di largo Domodossola si accendevano a tratti i lampi gialli degli occhi di una civetta.
Festa grande per gli etologi e nuovi impegni per i climatologi. Perché nella città in via di tropicalizzazione, quell´area garantiva suggestioni particolari. A parte le palme e i banani (che avrebbero dovuto mettere in sospetto il gran ciambellano-giardiniere), si segnalavano infatti tifoni in miniatura e venti accelerati dal canyon dei nuovi grattacieli, mai registrati prima nelle cronache cittadine.
Fu così che CityLife si popolò di non residenti in braghe corte e canottiera a temperare la cittadinanza dei nuovi ricchi. E fu così che Milano sperimentò nella sua stessa geografia urbana una inquietante "eterogenesi dei fini". Per una volta, a lieto fine.
Panacea, la dea che tutto guarisce, figlia del dio Esculapio, ha lasciato l´Olimpo: è scesa tra di noi milanesi sotto le spoglie di Expo 2015. Benvenuta! A lei oramai ci affidiamo perché ci guarisca da tutti i mali, dalle infrastrutture insufficienti e malandate ai sentieri di montagna mal segnalati, al dissesto idrogeologico, all´inquinamento atmosferico, alle buche nei marciapiedi. Tutto lei può. Da ultimo ci siamo rivolti a lei per il problema della casa, un´emergenza ormai nota per la sua drammaticità e che ha stravolto il significato della parola stessa: quando dura un quarto di secolo emergenza non c´è più, è solo drammatica incapacità a provvedervi.
Dunque di nuovo oggi si interrogano gli architetti per avere lumi. Gli amministratori pubblici interpellano gli architetti ai quali hanno appiccicato una nuova professione, quelli che definirei di "socio-architetti", quelli che loro ritengono capaci di risolvere problemi sociali usando dell´architettura. È un pericoloso arretramento della classe politica di fronte alle sue responsabilità: individuare i problemi sociali e scegliere gli strumenti adatti a risolverli, ovviamente solo in parte quelli dell´architettura. Detto tra noi conosco molti disastri sociali fatti dagli architetti e pochi esempi del contrario: dal problema dal Corviale a Roma fino allo Zen di Palermo. Ci risiamo? Il problema è analogo a quello del pane oggi, scarso e caro. Soltanto qualche brillante spirito penserebbe di consultare i panificatori chiedendo loro di risolvere il problema pensando alla forma del pane: rosette? biove? ciriole? francesini? ciabatte? carasau?
Il problema principe della casa, in particolare quella popolare (che oggi con impareggiabile delicatezza chiamiamo housing sociale) è la sua scarsità e il suo prezzo. Alla fine del 1993, governo Ciampi, sotto la spinta della diffusa morosità, delle occupazioni abusive e delle difficoltà di gestione, viene varata la legge 560 che autorizza gli enti proprietari di edilizia sociale a vendere il loro patrimonio.
La soluzione è devastante: le vendite impoveriscono il demanio pubblico e favoriscono chi ha qualche risparmio trasformandolo in un fortunato che godrà della rivalutazione forsennata degli immobili degli anni successivi: ombre in più sulle vendite, come sempre. Da un 30% di milanesi a fine anni 80 alloggiati in case popolari o di edilizia pubblica si passa ad oggi ad una percentuale di poco superiore all´otto per cento.
Dunque il dato essenziale è che mancano le case, non solo quelle popolari, mancano le aree per costruirle, mancano i denari. A fronte di 30.000 alloggi necessari se ne producono qualche migliaio all´anno, se va bene. Il numero delle famiglie con redditi insufficienti per il libero mercato aumenta. Agli immigrati regolari bisogna dare una casa. Sinceramente non vorrei più sentir parlare, anche per questo problema, della fantastica strategia "collaborazione pubblico-privato". Di questa invenzione abbiamo esempi clamorosi: la clinica Santa Rita, Ville Turro, le autostrade in concessione. Tanto per cominciare l´elenco. Preferisco i "rozzi" strumenti degli anni 70 e 80 dove il rapporto tra pubblico e privato era regolato dalla legge sugli appalti. Non indenne da difetti ma dove era più facile capire chi rubava o più semplicemente "profittava". E provvedere.
Assediato da 2,5 miliardi di euro di debiti, l’immobiliarista Luigi Zunino si arrende ai creditori (le banche): l’area ex Falck di Sesto San Giovanni e probabilmente anche Santa Giulia a Rogoredo sono in vendita al miglior offerente. Una trattativa è già ben avviata, con il fondo Dubai Limitless, per l’area di Sesto San Giovanni ridisegnata da Renzo Piano, mentre per la città di Norman Foster nella zona Sud Est di Milano le manifestazioni di interesse sono numerose. E Zunino non ha ancora perso le speranze di riuscire – con i proventi della cessione dell’area Falck – a condurre in porto il progetto Rogoredo. Il sindaco di Sesto Giorgio Oldrini mette le mani avanti: «I futuri proprietari non tocchino il progetto di Renzo Piano. E il Comune vuole continuare ad avere un ruolo da protagonista».
Anche gli imperi costruiti sui mattoni rischiano di sgretolarsi per il peso dei debiti. E così Luigi Zunino, professione immobiliarista, che lo scorso anno è entrato nel salotto più buono di Milano, vale a dire nel consiglio di sorveglianza di Mediobanca, si trova in balia dei creditori e potrebbe essere costretto a vendere alcuni dei gioielli della sua Risanamento per saldare il conto con le banche. Dopo un tourbillon di indiscrezioni, il suo gruppo Risanamento è stato costretto - dalla Consob - a confermare che il consiglio di amministrazione ha dato via libera alle trattative con il fondo Dubai Limitless Lcc che ha offerto circa 1,5 miliardi per le aree Falck di Sesto San Giovanni e Santa Giulia a Rogoredo. La Borsa, ovviamente, ha festeggiato con uno spettacolare rialzo del 46%.
A fine marzo Risanamento aveva accumulato 2,5 miliardi di debiti, tanti in valore assoluto e troppi rispetto ai canoni percepiti dagli affitti. Se il patrimonio del gruppo ha un valore stimato di ben 5 miliardi, sono infatti pochi i palazzi che sono stati messi a reddito. Su questa mole d’indebitamento Zunino paga interessi superiori rispetto ai canoni che riscuote dai palazzi di via Bigli e di corso Vittorio Emanuele a Milano, dal grattacielo di Madison Avenue a New York, per finire con gli edifici parigini sugli Champs-Elysées e in Avenue Matignon. Nel primo trimestre di quest’anno Zunino ha infatti pagato alle banche 41 milioni di interessi sui debiti, e ne ha riscossi 48 dagli affitti e dalle plusvalenze per la cessione di alcuni asset immobiliari.
Ma c’è di peggio. Perché la specialità di Zunino è quella di portare avanti importanti progetti di riqualificazione e in particolare quello dell’area un tempo occupata dalle industrie Falck di Sesto San Giovanni e quella a Sud Est di Milano di Santa Giulia. Per entrambi, Zunino si è avvalso di alcuni tra i più famosi architetti al mondo: per l’area Falck Renzo Piano, per Santa Giulia Norman Foster. Tuttavia, forse l’eccesso di ottimismo tipico degli imprenditori, ha portato Zunino a mettere troppa carne al fuoco, senza fare i conti con un mercato immobiliare che dopo anni di boom inizia a scricchiolare anche per colpa della crisi finanziaria legata ai mutui ipotecari americani. E così lui, che fino a qualche mese fa era in gara per ogni asta immobiliare e per tutti i principali appalti (ha partecipato anche all’asta per Citylife, stata vinta da Generali e Ligresti) ora è costretto a vendere anche i progetti che gli stanno più a cuore per far fronte alle pendenze con i creditori. Prima fra tutti l’area della Falck, sui cui la sua Risanamento ha intrapreso una trattativa in esclusiva con il fondo di Dubai, che a breve dovrebbe formalizzare un’offerta. Ancora prima di ricevere le autorizzazioni per costruire e posare la prima pietra a Sesto San Giovanni, Zunino si è infatti indebitato sull’area Falck per circa 260 milioni. Inoltre Risanamento ha bisogno di nuova liquidità per portare avanti il progetto di Santa Giulia, che pur essendo già stato approvato deve ancora essere sviluppato in toto, tranne per l’edificio che diventerà la sede di Sky che da solo ha un valore stimato in circa 300 milioni.
Ma adesso a determinate condizioni Zunino potrebbe vendere anche il progetto di Santa Giulia, proprio perché tra gli investimenti che devono essere ancora fatti e i debiti che la società ha già accumulato, sarà difficile per il gruppo immobiliare portare a termine i lavori in queste condizioni finanziarie. E per Santa Giulia sarebbero arrivate a Risanamento una serie di offerte. Oltre al fondo Limtless, anche il gruppo olandese Multi e la Colony Capital di Tom Barrack, uno degli uomini più ricchi al mondo e affittuario di Zunino nel palazzo sulla Madison a New York che è di proprietà di Risanamento.
Oldrini avvisa i futuri proprietari "Il progetto di Piano non si tocca" (intervista al sindaco di Sesto San Giovanni)
di Rodolofo Sala
Per il sindaco di Sesto non si tratta di un fulmine a ciel sereno. «Da tempo - dice Giorgio Oldrini - eravamo al corrente delle difficoltà economiche del gruppo Zunino».
Siete preoccupati?
«Non possiamo certo impedire che sull’area Falck sbarchi un nuovo proprietario. Ma in questa partita naturalmente vogliamo dire la nostra, per continuare a svolgere un ruolo da protagonisti. Anche perché su quest’area realizzeremo un progetto per la produzione di energia pulita con una società che abbiamo costituito assieme ad A2A».
Insomma, ponete delle condizioni?
«Voglio essere chiaro: per noi è irrinunciabile mantenere nella sua unitarietà il progetto elaborato da Renzo Piano».
Temete lo spezzatino?
«Quello di Piano è un progetto enorme e complesso, che interessa un’area di oltre un milione e 300mila metri quadri dove sorgerà una città nella città. Università, centri di ricerca, residenze di pregio e case popolari, la nuova stazione».
E se la nuova proprietà dovesse decidere di rinunciare al progetto di Piano?
«Per esaminarne uno nuovo avremmo bisogno di moltissimo tempo. Non certo perché siamo pigri, ma perché gli interventi sull’area sono immensi e complessi».
È un messaggio ai nuovi acquirenti?
«I tempi lunghi non convengono a nessuno. Il progetto Piano è pronto, a primavera potremmo già cominciare gli scavi. Noi abbiamo tutto l’interesse a fare tutto in fretta e bene».
La società di fondi di Dubai è avvertita...
«Noi sappiamo che quella è solo una delle ipotesi in campo. E che sotto il profilo economico e finanziario il pallino ce l’ha Banca Intesa, il maggior creditore di Zunino».
Questi altri potenziali acquirenti vi garantirebbero di più?
«Di certo non siamo indifferenti: per noi un compratore non vale l’altro».