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Il Corriere della Sera ed. MIlano

Dibattito sui cento borghi nel parco Sud

di Maurizio Giannattasio

Il sasso è stato lanciato. Le reazioni sono state immediate. Cento borghi intorno alle cascine del Parco Sud. La proposta dell’architetto Paolo Caputo. Dice no Legambiente. Senza se e senza ma. Dice no anche la Coldiretti, ma con una differenza. «Siamo pronti a sederci intorno a un tavolo. «Siccome il nostro approccio alle cose non è mai ideologico spiega in comunicato Coldiretti Lombardia - diciamo che vogliamo sederci attorno al tavolo per capire e discutere perché abbiamo più di una osservazione da fare e qualche preoccupazione da manifestare. Stiamo parlando di Milano e Parco Sud. Ogni nuovo insediamento residenziale consuma altro terreno agricolo. Tra l'altro abbiamo visto che fine hanno fatto borghi che erano agricoli, come Niguarda o Lambrate».

Una linea di pensiero ripresa in maniera più radicale dal presidente di Legambiente, Damiano Di Simine: «Così non si salvano le aziende agricole, così si ammazzano. Se si pensa di costruire intorno alle cascine insediamenti di 500-600 residenti, le aziende agricole verranno irrimediabilmente chiuse, perché nessuno vuole vivere vicino a un allevamento bovino o suino. Per queste cose c’è bisogno di suolo e di spazio». E c’è un altro motivo che spinge Legambiente a dire no. «Questo è l’esatto contrario di quanto prevede il nuovo piano del governo del territorio: perché va a creare insediamenti dove mancano servizi e infrastrutture. Le persone che andranno ad abitare nei borghi dovranno per forza muoversi in auto». Conclude Coldiretti: «Non portiamo via altra terra all’agricoltura, ma garantiamo quella che c'è e recuperiamone altra allo sviluppo agricolo ».

la Repubblica, ed Milano, 7 ottobre 2009

Cascina Romagnina, pericolo ruspe per l’ultima trincea dell’antica Isola

di Ilaria Carra



IL PROPRIETARIO che in quella cascina, con la sua famiglia, ci ha trascorso una vita intera non sarà solo quando, stamattina, scatterà l’ora X: quella del funerale all’ultima costruzione storica del quartiere Isola che sparirà per lasciare il passo a una strada. Oggi si procederà all’esproprio dell’ area su cui sorge la cascina Colombara, oggi Romagnina, in via De Castillia 30 dalla metà del ‘ 700 e dagli anni ‘ 70 adibita in parte, assieme ad altri tre capannoni, a discoteca. E ad accogliere forza pubblica, avvocati e ruspe ci sarà anche un muro umano, a difesa di quel pezzo di storia in un quartiere-cantiere che sta subendo una profonda trasformazione, urbanistica e sociale.

Residenti, ma anche l’associazione ChiamaMilano, il Prc e l’Arcigay, dato che da anni il locale, il Nuova idea,è anche un noto ritrovo gay: un presidio pacifico a difesa di quei tremila metri quadri da asfaltare per collegare meglio viale Zara a via Gioia, come impone la "pubblica utilità" dell’ accordo di programma per i grattacieli in costruzione del progetto Porta Nuova, di cui fa parte anche il Pirellone bis, che all’Isola porteranno nuovi abitanti. Ma che per poter sorgere hanno già sacrificato altri punti di riferimento del quartiere: la Stecca degli artigiani e i giardini di via Confalonieri, oggi terreno di gru e ruspe; le centinaia di alberi del Bosco di Gioia, buttati giù per farci il nuovo palazzo della Regione; la fabbrica di pettini Heimane poi le Scuderie Del Nero, diventate un campo di bocce, e la Fondazione Catella.

Oggi tocca, invece, all’ultima roccaforte, la cascina Romagnina, registrata nel catasto teresiano del 1757, sopravvissuta ai bombardamenti della guerra e simbolo di un quartiere rurale prima che industriale, con le successive Breda e Pirelli. E la sua stessa riconversione in Officine Cesare Villa per la lavorazione del ferro battuto dal 1878, poi trasformata in sala da ballo, il Kursaal, oggi Nuova Idea. Un edificio non vincolato dalla Belle arti, che ne riconoscono però il notevole pregio storico, passato di mano tra famiglie importanti tra cui anche i Visconti Borromeo. Già a fine settembre il Comune, che ha in carico l’ area che cederà poi alla Società di sviluppo Garibaldi-Repubblica (che fa capo ad Hines e Ligresti), si era presentato per espropriare. Il proprietario, però, si oppose e non volle firmare: «A differenza degli altri che hanno trovato un accordo- denuncia Augusto Villa che con quella cascina perderà anche un pezzo della sua vita - non mi hanno mai proposto un’area equivalente dove ricreare quello che mi portano via qui. E l’offerta che mi hanno fatto, di circa 5 milioni, è solo un quinto del suo vero valore».

Ma c’è dell’altro. Su questa vicenda pende un contenzioso giuridico: venerdì è attesa l’ordinanza cautelare del consiglio di Stato che potrebbe sospendere l’esproprio. La proprietà, l’immobiliare Romagnina, ha difatti impugnato non solo il ritardo nella comunicazione dell’esproprio, giunta a metà luglio, ma anche l’illegittimità del Pii del progetto di Garibaldi- Repubblica, Isola e Varesine, che se accolta dal Tar potrebbe obbligare a un ritocco degli standard qualitativi dell’intero progetto Porta Nuova.

La sospensione, invece, se concessa bloccherebbe le ruspe, in attesa almeno della sentenza nel merito del Tar del 18 novembre. E non sono in pochi a credere che eseguire l’esproprio prima di quella data non sia proprio un caso: «Si vuole forzare la mano - dice l’avvocato della proprietà, Matteo Salvi - nel timore di un esito positivo da parte del consiglio di Stato». Se la sospensione arriverà, la pubblica amministrazione potrebbe essere obbligata a risarcire. «Ma per salvare la cascina dalle ruspe - dice Augusto Villa - potrebbe essere troppo tardi».

la Repubblica ed. Milano, 8 ottobre 2009

Cascina, demolizione rinviata "Ora si attenda la sentenza"

di Ilaria Carra

Dal presidio si è lanciato un appello: prima di demolirla, Palazzo Marino aspetti almeno fino a domani, con il Consiglio di Stato che con un´ordinanza potrebbe sospendere l´abbattimento. In via De Castillia ieri mattina il Comune ha espropriato la cascina Romagnina, ultimo edificio storico dell´Isola, su cui sorgerà una strada per il progetto Porta Nuova. Ad attendere i vigili una cinquantina tra residenti, Arcigay, ChiamaMilano e vari consiglieri d´opposizione e di zona. Nessuna ruspa, però. E di qui la richiesta: «L´assessore Masseroli garantisca che la Cascina Romagnina non sarà demolita prima della pronuncia del Consiglio di Stato» chiede il Prc in Regione con Luciano Muhlbauer. «È paradossale - denuncia Massimo Gatti di un´Altra provincia-Prc-Pdci - che il sindaco dichiari di voler valorizzare il sistema delle cascine per l´Expo e poi ne permetta l´abbattimento». Per il passaggio di chiavi dei tremila metri quadri, in parti adibiti alla discoteca Nuova idea, primo locale gay in città, ci sono volute dieci ore: le misure degli immobili del Comune erano tutte sballate e, in più, sul tetto è stato trovato amianto. «il Comune ha assicurato che non interverrà - dice Matteo Salvi, legale della proprietà - fino a che non avrà l´autorizzazione».

Nota: i dettagli della proposta di Paolo Caputo per i "borghi", con qualche doveroso commento, nel primo articolo della serie del Corriere (f.b.)

Una Grande Milano dai cento borghi. Dove? Intorno alle cascine del Parco Sud. Con nuclei di 500-600 abitanti. Paolo Caputo, architetto, conosce bene la città. Ha vinto il concorso per la realizzazione del villaggio Expo a Cascina Merlata, si è aggiudicato la gara per il Pirellone bis assieme a Pei, Cobb, Freed e Partners, ha fatto la sua parte realizzando una serie di strutture a Santa Giulia prima dei problemi finanziari di Zunino. E sa bene che andare a toccare il Parco Sud è come andare a toccare i fili dell’alta tensione. «Ma questo sarebbe l’unico modo per tutelare veramente il parco».

Come?

«Partiamo dall’inizio. E cioè da Expo».



Expo?

«Sì, Expo e il suo tema legato all’agricoltura di prossimità».



Che può fare Expo per la trasformazione urbanistica di Milano?

«Rafforzare un modello insediativo metropolitano che da una parte si oppone alla città infinita di Milano Nord e dall’altra alla contrapposizione storica tra città e campagna di Milano Sud. La chiamerei la Metropoli Giardino».

Cos’è la Metropoli Giardino?

«Una città fatta più di vuoti che di pieni, di intervalli tra il costruito e il non costruito, i campi».



In pratica?

«In pratica, bisogna ridisegnare il bordo della città nei confronti della campagna come è previsto dal nuovo piano del governo del territorio».

Come?

«Con la valorizzazione delle cascine che caratterizzano il sud di Milano e sono al centro del progetto Expo. Si può pensare a realizzare dei veri e propri borghi intorno alle centinaia di cascine sparse sul territorio».

Quanto grandi?

«Cinquecento o seicento abitanti. In modo da raggiungere quella dimensione critica che giustifica la creazione di servizi per le persone a partire dagli asili nido».

E i terreni agricoli?

«Con la realizzazione dei bordi e dei borghi si definisce finalmente il parco vero e prop rio e non un rimasuglio di territorio agricolo».

Tutto bene se non si trattasse del Parco Sud. Un «non costruito» che secondo lo stesso Comune dovrebbe rimanere «non costruito».

«Nel momento in cui si consolida un sistema come quello dei borghi e della Metropoli Giardino e si arriva alla definizione di un parco a tutti gli effetti, abbiamo la garanzia che il verde verrà tutelato. Apparentemente si va ad erodere del territorio, in realtà si costruisce una quota parte contenuta e con questa quota parte si va a tutelare la parte più cospicua del territorio ».

Altra contestazione. Ricreare un borgo non è antistorico?

«Sarebbe antistorico se i borghi venissero considerati un’antitesi alla città come è stato nell’Ottocento e poi alla fine degli anni ’50 con la costruzione di quartieri autonomi rispetto alla città ».



Invece?

«Costruire borghi oggi vuol dire realizzare reti di collegamento che costituiscono il sistema metropolitano. Per cui a borghi solo residenziali si devono affiancare nuclei che si appoggino a eccellenze sanitarie, universitarie, di ricerca. Penso al Cerba».



Temi scottanti. Al centro del braccio di ferro tra Comune e Provincia...

«Se si individuano i contenuti, verranno a mancare i motivi dell’incomprensione. Il vero tema è lavorare tutti su un modello insediativo che se è chiaro è in grado di mettere tutti d’accordo».



postilla

A ben vedere è del tutto logico e coerente: l’architetto armato delle migliori intenzioni vuole “riqualificare” il territorio, e lo fa coi propri strumenti di lettura e proposta: il territorio è tale soprattutto nella sua versione antropizzata, e l’uomo moderno mica abita in un buco nel suolo, ma per esempio dentro a un bel “borgo”. Peccato che questi borghi siano, esattamente e storicamente, quanto poi ha cancellato e cancella il territorio agricolo della greenbelt metropolitana. Qui non siamo, che so, nella Capitanata foggiana degli anni ’20, dove l’ingegnere milanese Cesare Chiodi progettava piccoli borghi rurali, new towns agricole tascabili, a contenere l’esodo di manodopera dalle campagne, nel quadro della bonifica integrale fascista. Siamo invece nel regno dei Ligresti & Co. per i quali l’agricoltura si esprime al massimo in una bella bancarella in centro storico, dove una comparsa in abiti rustici porge caciotte a peso d’oro all’elegante moglie dell’evasore che può comprarsele. Tutto il resto, è retorica per gonzi: diciamocelo, il fango e il letame fanno un po’ schifo a tutti! Se sono queste le premesse dell’Expo, e pare siano proprio e quasi solo queste, stiamo proprio freschi, con buona pace delle migliori intenzioni progettuali, che sono proprio mal poste in assenza di strategie metropolitane. Almeno, di strategie diverse da quelle della neo installata Provincia di centrodestra che contesta la Milano da due milioni di Cielle, ma solo per proporre di “spalmare” cubature democraticamente sui comuni di cintura. Magari travestendole proprio da borghi, magari con qualche impavido amministratore/trebbiatore pronto a tagliare il nastro … pardon: il fieno (f.b.)

L´impero milanese di Salvatore Ligresti è un gigantesco Monòpoli fatto di grattacieli e stalle, ospedali avveniristici e cascine, con due spade di Damocle sul capo: un nuovo Piano di governo del territorio che rischia di far saltare le speculazioni dell´ingegnere e (soprattutto, dicono i maligni) una situazione finanziaria personale che si è un po´ deteriorata negli ultimi tempi. Costringendo l´uomo che ha costruito le sue fortune grazie ai buoni rapporti con la politica a rompere l´apparente pace sociale del mattone meneghino, chiedendo il commissariamento di Palazzo Marino pur di sbloccare i suoi progetti.

I numeri parlano da soli: Sinergia, la cassaforte dell’imprenditore siciliano, ha chiuso i conti del 2008 in rosso per 24 milioni. Di più: lo scorso 20 aprile non è riuscita a trovare i soldi per rimborsare un prestito da 31 milioni, avviando un negoziato con gli istituti di credito per rinegoziare un’esposizione debitoria preoccupante, visto che il prossimo novembre scadrà un altro finanziamento da 108 milioni. Dove trovare i soldi? In tempi di vacche grasse per un uomo come Ligresti, snodo chiave del salotto buono, azionista di Mediobanca, Generali, Rcs e Alitalia, sarebbe stata una passeggiata. Ma oggi, con la Borsa in crisi - sulla quota di Premafin in portafoglio a Sinergia grava una perdita teorica di 30 milioni - e il mattone in stallo, persino per lui la strada è in salita. E nemmeno i progetti fermi da anni come quelli oggetto della querelle con il Comune possono rimanere dimenticati nel cassetto.

La scommessa immobiliare su Milano, in effetti, è la partita decisiva per il futuro dell’imprenditore di Paternò che dopo i guai di Tangentopoli e le incursioni finanziarie a Piazzetta Cuccia e dintorni di inizio millennio è tornato negli ultimi anni a coltivare l’antica passione per il mondo delle costruzioni. Un’offensiva giocata su più tavoli. I grandi progetti, dove ha calato l’asso di Impregilo e i soldi di Fondiaria-Sai, ma anche le speculazioni sui terreni in periferia - in particolare a margine delle zone verdi di Trenno, Forlanini e Parco Sud - dove si è mosso attraverso Sinergia e la galassia di controllate della Imco (Immobiliare Costruzioni).

Oggi la ragnatela di Ligresti in città è fittissima. Ci sono la sua mano e i suoi soldi nelle opere che diventeranno il simbolo di Milano come Citylife, il quartiere Isola-Garibaldi, l’ampliamento dell’Istituto europeo di oncologia e la costruzione del Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica. Lavori da decine di milioni. Ma è solo la punta dell’iceberg. Il vero affare per il portafoglio di famiglia, mercato e Palazzo Marino permettendo, dovrebbe essere la valorizzazione delle decine di cascine, campi, fienili, stalle e fontanili comprati con un lavoro certosino e con grande discrezione negli ultimi anni. Parcelle rurali ed edifici a volte diroccati, acquistati in qualche caso per due lire ma destinati a trasformarsi, in caso di adeguate riconversioni edilizie, in miniere d’oro: proprietà come cascina Campazzo nel parco del Ticinello, difesa a spada tratta dalla Lega dopo che Ligresti ha cercato di sfrattarne gli inquilini, cascina Ambrosiana nel Parco Sud, i prati della Bellaria e del Belgioioso al margine del verde di Trenno, le stalle della Canavese e della cascina Casanova al Forlanini.

La passione per l’agricoltura c’entra poco. Basta pensare che il 25 febbraio 2009 è stato approvato a livello di segreteria tecnica l’accordo di programma per la costruzione del Cerba su 620mila metri quadri di terreni in zona Ripamonti di proprietà di Sinergia e Imco. Un progetto da 900 milioni su un’area costata poco meno di 10 milioni. Oppure che nell’ambito dell’Expo si starebbe valutando un piano di aiuti per la trasformazione di aziende agricole metropolitane in strutture alberghiere di accoglienza. Manna - se tutto andrà in porto - per i conti un po’ traballanti dell’impero Ligresti, il cui rientro nel mattone è stato fino ad oggi un po’ ad ostacoli sia per la crisi (Citylife fatica a far quadrare i finanziamenti malgrado gli aiutini di Palazzo Marino) che per qualche vicenda giudiziaria come i recenti sequestri in via De Castillia.

I tempi però stringono. Le scadenze delle rate sui debiti non conoscono i tempi lunghi della congiuntura e delle concessioni edilizie. La Imco, dopo un 2007 d’oro, ha chiuso il 2008 in rosso per 13 milioni con un’esposizione bancaria cresciuta da 212 a 305 milioni. E l’idea di Letizia Moratti e dell’assessore Carlo Masseroli di rivedere il Piano di governo del territorio in termini che rischiano di penalizzare le speculazioni di Ligresti ha fatto saltare i fragili equilibri che sovrintendono allo sviluppo immobiliare della città. E lui - che pure negli anni aveva accumulato in sordina oltre 40 contenziosi giudiziari con il Comune senza finire in prima pagina sui giornali - ha deciso di forzare la mano. Quasi come se ci fosse in gioco la sopravvivenza del suo impero di famiglia.

«Vuole farmi saltare il Piano di governo del territorio». Dopo il siluro targato Ligresti, l’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli è sceso in un granitico silenzio stampa. Ma ai politici che incrociano le sue confidenze ripete che sì, è il Pgt il vero obiettivo dell’offensiva dell’immobiliarista.

È lì che il quadro disegnato a Palazzo Marino, con le nuove regole destinate a dettare il futuro dell’urbanistica da qui al 2030, rischia di saltare per l’atto di guerra di un imprenditore che, si sa, ha un filo diretto con Silvio Berlusconi. Ed è lì, sul Piano di governo del territorio (Pgt), che passerà necessariamente l’opera di mediazione che i vertici del Pdl, a partire dal presidente della Provincia Guido Podestà, dovranno trovare tra Letizia Moratti e il re del mattone.

Il caso esemplare potrebbe essere proprio uno dei tre progetti per cui è partita la richiesta di commissariamento ad acta del Comune. Il più contestato dai cittadini e anche quello su cui il gruppo Ligresti ha ricevuto lo stop più forte dall’amministrazione. Il fronte è stato aperto tra via Natta e via Trenno, vicino al borgo storico di Lampugnano, dove sarebbero dovuti sorgere tre edifici alti fino a 50 metri. Un intervento che Masseroli avrebbero voluto rendere meno invasivo spalmando parte delle volumetrie sui terreni vicini. Lo stesso principio che, in futuro e in modo più strutturato, potrebbe essere applicato a tutta la città con il Pgt con quello che in termini tecnici si chiama "perequazione": è la novità più rilevante, una sorta di Borsa in cui non si scambiano azioni, ma diritti a costruire metri cubi a seconda delle direttive decise dalla regia pubblica. In alcune aree - soprattutto quelle lungo le linee della metropolitana - si potrà costruire di più. In altre si dovranno creare parchi e servizi e, se un imprenditore possiede uno di questi spazi, potrà cederlo al Comune spostando i propri diritti volumetrici altrove.

Perché è questa la vera posta in gioco: i diritti volumetrici. Da una parte c’è il gruppo di Salvatore Ligresti che a Milano di terreni e progetti da realizzare ne ha maturati un bel po’ e adesso teme che possano venire ridimensionati. Dall’altra ci sono Letizia Moratti e Carlo Masseroli che, dicono i più stretti collaboratori, rimangono decisi ad approvare le nuove regole. È tra queste due posizioni apparentemente inconciliabili che si tenta un accordo che possa far uscire tutti dalla vicenda salvando la faccia. Senza creare scontri istituzionali tra due enti - Comune e Provincia - dello stesso colore politico. Una mediazione da cercare all’interno del Piano, partendo magari da una rassicurazione sui diritti acquisiti da Ligresti. Fino a trovare quell’equilibrio tra interessi pubblici e privati che, da sempre, è la base dichiarata del nuovo documento.

Le preoccupazioni di don Salvatore continuano a rimanere concentrate in particolare sul Parco Sud, che il Comune vorrebbe tutelare. In questa zona il gruppo possiede enormi superfici dove non potranno sorgere nuovi edifici: in cambio i proprietari potranno costruire in altre zone, trasferendovi un indice dello 0,2. Poco o tanto? La quantità è più bassa dello 0,65 che oggi viene applicato in città e che dovrebbe essere mantenuto come media anche in futuro. Fatta salva, naturalmente, la possibilità di salire ulteriormente dove sarà consentito. Tutto "virtuale", però, come in un gigantesco Monopoli, senza la garanzia di costruire dove si desidera. Una rivoluzione per Ligresti che, come altri bei nomi della finanza, è stato costretto nei mesi scorsi a rinegoziare la propria esposizione con le banche: Sinergia, la cassaforte dell’imprenditore, non è riuscita a onorare alla scadenza del 20 aprile un prestito da 31 milioni rimborsando una prima tranche di 12 milioni e rinviando «il rifinanziamento o il rimborso del resto» a un secondo momento. Una strada non facile, però, visto che il 9 novembre la società dovrà trovare altri 108,5 milioni per chiudere un altro prestito.

Comune di Milano nel mirino Ligresti chiede il commissario

di Alessia Gallione

MILANO - È una dichiarazione di guerra quella lanciata da Salvatore Ligresti a Milano. E la partita, ancora una volta, è l´urbanistica. Tre società (due controllate, Imco spa e Altair spa; una terza riconducibile, Zero società di gestione del risparmio) legate al gruppo del costruttore hanno presentato alla Provincia una richiesta di commissariamento ad acta del Comune per sbloccare altrettanti progetti edilizi, che risalgono agli anni Ottanta. Tre piani che prevedono soprattutto nuove case, ma che rappresentano soltanto una parte del risiko del mattone pronto a essere giocato nei prossimi anni. Perché la battaglia sembra più grande di quelle aree. E perché quello che, ufficialmente, può essere letto come un atto amministrativo, ha il sapore di uno scontro di poteri. Presentato ora: alla vigilia dell´approvazione da parte della giunta di Letizia Moratti del Piano di governo del territorio, il nuovo libro-mastro della città che manderà in pensione il vecchio piano regolatore e che rivoluzionerà non solo 31 grandi aree di Milano che coprono più di 12 milioni di metri quadrati, ma anche il sistema di regole dell´urbanistica. Regole che, ha sempre sostenuto l´assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli, dovranno partire dall´interesse pubblico.

Il progetto più contestato dai comitati cittadini è quello di via Natta, una zona vicina al polmone verde dell´ippodromo e dello stadio di San Siro, al centro di una direttrice che conduce ai padiglioni di Expo. Qui dovrebbero nascere due palazzi troppo alti per il contesto. E qui, il Comune ha chiesto che le volumetrie non venissero concentrate in un solo luogo, ma distribuite anche nelle vicinanze. Diritti edificatori vengono reclamati anche a Bruzzano, a Nord del capoluogo, e in via Macconago, a due passi dal parco agricolo Sud e da un altro intervento strategico come il Cerba, il Centro europeo per la ricerca biomedica avanzata di Umberto Veronesi. Tre disegni su cui Palazzo Marino avrebbe continuato a trattare. Eppure qualcosa deve essere cambiato per spingere il gruppo Ligresti a pretendere adesso che un commissario sblocchi la situazione.

Ufficialmente il gruppo Ligresti non commenta, preferendo attendere che la procedura faccia il proprio corso. Tecnicamente nel documento spedito alla Provincia si fa riferimento all´articolo 14 della legge 12, approvata dalla Regione nel 2005 sul governo del territorio. Con questa norma ogni costruttore, di fronte all´inerzia del Comune su un piano attuativo o su una variante, sentendosi in qualche modo danneggiato può chiedere a un altro ente (Regione o Provincia) la nomina di un commissario ad acta per risolvere la pratica. Ma la risposta che arriverà (entro 30 giorni) non sarà solo tecnica. Sarà politica e racconterà molto della Milano del 2030.

Così il "partito del mattone" mette all´angolo la Moratti

di Rodolfo Sala

MILANO - Sono mesi che l´ingegner Ligresti bussa al portone di Arcore. Aveva provato prima con il sindaco Letizia Moratti, il direttore generale di Palazzo Marino, l´assessore al Territorio. La richiesta è sempre quella: sbloccare progetti urbanistici ai quali sono interessate tre società del suo gruppo, progetti fermi dagli anni Ottanta. La Moratti è stata irremovibile: non si può, non si deve, per costruire su quelle aree di proprietà di Ligresti bisogna prima fare un «progetto strutturale», perché le ragioni del vecchio blocco ai diritti edificatori rimangono tutte. «È una questione di principio», si è intestardito il sindaco, a conferma ulteriore delle voci sempre frequenti che danno in caduta libera i suoi rapporti con Ligresti, tessera numero uno del partito del mattone a Milano.

Si è messa di traverso lei, non tanto l´assessore al Territorio Carlo Masseroli, esponente della lobby ciellina che nel mattone vede soprattutto la possibilità di espandersi, e non solo a Milano, nel business dell´housing sociale: case in affitto per giovani coppie e studenti, da tirar su - è il caso della torre di legno che sorgerà nel 2011 alla Bicocca, da 280 a 450 euro la locazione mensile - in una città dove si pensa solo a costruire per poi vendere. E grazie, particolare non trascurabile, ai buoni uffici del Comune, che a quel progetto denominato «Social main street» ha contribuito cedendo gratis le aree alle cooperative edilizia della Cdo, ma anche a quelle della centrale rossa.

È un business che a Ligresti non interessa, nella richiesta avanzata dal suo gruppo alla Provincia (commissariare l´urbanistica milanese in nome del diritto negato a costruire) l´obiettivo vero, prima ancora dei concorrenti effettivi e anche solo potenziali, è Letizia Moratti. È lei l´ostacolo da rimuovere, è per questo che l´ingegnere si è rivolto direttamente a Berlusconi, forte dei vecchi legami politico-imprenditoriali consolidatisi tra i due nel corso degli ultimi vent´anni. Tra l´altro, il recente ridimensionamento dell´Expo (si costruisce molto meno rispetto al progetto originario) ha messo in allarme il partito milanese del mattone. È un ridimensionamento che il sindaco ha salutato con grande favore, e che Ligresti - uno dei dominus delle aree su cui sorgerà l´Esposizione del 2015 - non deve certo aver accolto bene.

Il Cavaliere - come fa sempre - ha ascoltato, preso nota, promesso di interessarsi alla vicenda: nella capitale del berlusconismo don Salvatore non è uno qualunque. Il passo successivo è stato un contatto diretto con la Moratti, da lui investita nel ruolo di sindaco quando lei faceva il ministro dell´Istruzione nel suo penultimo governo. Ma neppure il pressing del premier ha dato uno straccio di risultato. Un problema in più per l´uomo di Arcore, già parecchio insoddisfatto di come il suo ex ministro sta gestendo il Comune di Milano: dall´Ecopass (la tassa d´ingresso sugli automobilisti) alla pulizia della città, tanto per stare a due argomenti sui quali Berlusconi non ha mancato d´intervenire, più di una volta e in modo molto critico. Ci sono anche problemi grossi tra il sindaco e il suo ex collega Tremonti, culminati in liti furibonde sulla vicenda Alitalia e sui finanziamenti per l´Expo. E poi ci sono certi sondaggi che il Cavaliere negli ultimi mesi si è messo a compulsare in modo frenetico: Letizia cala in modo vistoso nel gradimento dei milanesi, e alla corte di re Silvio si moltiplicano i rumors che non danno più così certa la sua ricandidatura nel 2011, quando scadrà il primo mandato.

La guerra dichiarata da Ligresti alla Moratti, la pratica di commissariamento dell´urbanistica milanese già consegnata al nuovo presidente della Provincia Guido Podestà (lui sì in ottimi rapporti con l´ingegnere) e soprattutto il grande fastidio del premier ridanno fiato a quelle voci, e contribuiscono a indebolire ulteriormente l´immagine del sindaco. Tra i due vasi di ferro impersonati da Berlusconi e Ligresti, lei appare sempre più come un vaso di coccio. A forte rischio di sgretolamento. Di questa debolezza il costruttore vuole approfittare: non foss´altro, come insinua il consigliere di opposizione Basilio Rizzo, che per ottenere il via libera alle ruspe non già nelle tre aree bloccate, ma altrove e per il futuro. «Come quegli allenatori - dice Rizzo - che parlano male degli arbitri a prescindere, sperando di essere aiutati nella partita successiva».

la Repubblica, 9 settembre 2009

Expo 2015, il mondo in una mega-serra

di Alessia Gallione e Giuseppina Piano

MILANO - Un’Expo ridimensionata causa crisi e fondi in bilico. Un’Expo a cemento (quasi) zero. Dove l’area espositiva sarà un’isola circondata da canali e laghetti artificiali. Dove i classici padiglioni spariscono per diventare grandi serre di vetro. Dentro marchingegni per ricreare il clima del deserto o della tundra, delle piantagioni tropicali di caffè. Fuori, un gigantesco orto globale dove i Paesi espositori letteralmente coltiveranno il loro cibo. Il simbolo? Un boulevard di un chilometro e mezzo che attraverserà i campi e le serre, rappresentando una chilometrica tavola virtuale a cui sedersi. Così l’Esposizione universale dedicata all’alimentazione che Milano ospiterà nel 2015 alle porte della città, accanto alla nuova Fiera aperta a Rho-Pero nel 2005, cambia completamente volto.

Il cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi, proprio ieri, ha voluto lanciare il suo monito: «Mi pare che il tema dell’Expo, il rapporto di accoglienza che Milano è chiamata a realizzare con chi arriverà, sia finora rimasto sempre piuttosto secondario rispetto a tanti altri problemi». È passato un anno e mezzo da quando la città del sindaco Letizia Moratti vinse l’Expo del 2015. Un anno e mezzo di liti nel centrodestra sulla gestione di appalti e opere. Adesso la ripartenza con la presentazione, ieri, del masterplan generale per l’area espositiva, firmato da una cinquina internazionale di archistar: il milanese Stefano Boeri, l’inglese Richard Burdett, lo svizzero Jacques Herzog, lo spagnolo Joan Busquets, l’americano William McDonough. Con il guru di Slow food Carlo Petrini a "ispirare" la visione. Il risultato è un progetto ecosostenibile, dove non si costruirà quasi nulla se non padiglioni in vetro. E dove si esporrà negli orti. Il tema dell’alimentazione sarà declinato attraverso le colture reali trapiantate alle porte di Milano. Un’Expo senza monumenti. E dove alla fine dei sei mesi di esposizione tutto sarà smontato per far posto a un nuovo quartiere, solo l’orto globale è candidato a sopravvivere.

Il progetto con cui Milano si era candidata prevedeva una torre-simbolo di 200 metri d’altezza, padiglioni classici per quasi 400mila metri quadrati di superficie. Tutto sparito. Una scelta dettata anche dalla crisi economica e dall’incertezza assoluta che regna sui fondi previsti: i tre miliardi di investimenti in opere e collegamenti stradali potrebbero ridursi a metà. L’area espositiva costerà sicuramente meno rispetto al preventivo di 1,3 miliardi. Quanto esattamente? «Di costi non abbiamo ancora parlato», dice il sindaco Letizia Moratti. Preferendo insistere su «un sogno, il mio sogno, che diventa realtà» con un progetto urbanistico che guarda al contenuto e non al contenitore. Assicura, il sindaco che «il progetto è piaciuto molto al presidente del Consiglio Berlusconi. Ci ha dato anche dei consigli». Lucio Stanca, parlamentare del Pdl e qui a capo della società che gestirà l’Expo, dice che sì, questo è un progetto «moderno, leggero, più sobrio anche perché è concepito in un momento di crisi». Ma ripete: «Nessun ridimensionamento: mi spiace per i gufi ma i fondi previsti ci sono tutti». Nel centrosinistra, però, la storia la ricordano diversamente. «Un progetto al ribasso, fortemente ridimensionato», è il riassunto del segretario milanese del Pd Ezio Casati.

Il Corriere della Sera, 9 settembre 2009

Un’isola con gli orti del pianeta Ecco l’Expo (senza grattacieli)

diElisabetta Soglio

MILANO — Parigi ha avuto la Tour Eiffel, Milano avrà il suo bioparco. Un «orto botanico planetario» realizzato su un’isola artificiale, dove i visitatori di Expo 2015 potranno percorrere un giro virtuale fra i sapori del mondo, gli ambienti climatici, l’organizzazione agricola dei diversi Paesi. In una sala di Palazzo Reale, troppo calda e troppo piccola per tutti i presenti, è stato ieri svelato il «mistero » del masterplan di Expo 2015. Gli architetti Stefano Boeri, Jacques Herzog, Ricky Burdett, Joan Busquets, William McDonough hanno unito esperienza, sensibilità e visioni per definire una filosofia apprezzata anche dal premier Silvio Berlusconi, a cui il masterplan era stato mostrato in anteprima il giorno prima.

Si parte dal tema con cui Milano ha conquistato Expo: «Nutrire il pianeta, Energia per la vita ». Ed è il tema stesso a diventare la sede espositiva, il cosiddetto sito, nel senso che invece di realizzazioni monumentali si è scelto di proporre un’esposizione «radicalmente rivoluzionaria » che mette insieme tutte le forme di produzione del mondo, tutti i prodotti delle varie terre «e che consente di entrare anche nel tema degli squilibri nutrizionali», come sottolinea Boeri.

Bisogna così immaginare una grande area, quasi un milione di metri quadrati, circondata quasi totalmente da acqua e strutturata sul modello delle città romane, con cardo e decumano a dare il ritmo. In mezzo, un lunghissimo viale su cui si muoveranno i visitatori e che avrà al centro un grande tavolo per guardare e gustare i prodotti del mondo. Nessuno stand nel senso tradizionale del termine, ma tanti lotti di terreno coperti da strutture leggere, tende e simili, sotto le quali ogni paese sperimenterà il proprio orto e le proprie colture. Lungo il perimetro del sito si alterneranno invece grandi serre bioclimatiche che riprodurranno i cinque climi del pianeta. Alle due estremità, poi, avremo una Arena teatrale e una Collina realizzata con il terreno ricavato dagli scavi di cantiere. Infine, nei padiglioni tematici verranno affrontate le questioni aperte sul tema dell’alimentazione.

Sarà un’Expo ridimensionata nei costi (un miliardo di euro circa) e nelle volumetrie: ma non un evento in tono minore. «Il sito — assicura l’ad della società di gestione, Lucio Stanca — sarà molto attrattivo e invoglierà i visitatori a venire a vivere una grande emozione. Inoltre, lasceremo in eredità ai milanesi e a tutti quanti vorranno goderne un’area di grande valore ». Il sindaco-commissario Letizia Moratti parla di «un sogno diventato realtà condivisa» e di un’Expo «innovativa perché per la prima volta si privilegia il contenuto anziché il contenitore e si offre una elaborazione legata a ciò che non si può toccare e diventa esperienza». Il governatore Roberto Formigoni spiega che «vedere non è più abbastanza e vogliamo che le persone vengano per partecipare. E in questo crediamo di aver cominciato ad individuare la nuova forma per gli Expo del futuro, grazie ai temi come l’accoglienza e la sostenibilità». Così il presidente della Provincia, Guido Podestà che considera «straordinaria la suggestione trovata dagli architetti perché ci hanno regalato qualcosa di altamente immateriale». Carlo Sangalli, presidente della Camera di Commercio che insieme alle istituzioni è nella società, condivide la soddisfazione ma ricorda che non tutti i problemi sono risolti: «Oltre alle vie di acqua e di terra serve una via d’aria che consenta all’esposizione di volare alto. Servono collegamenti aeroportuali, e l’occasione Malpensa non va sprecata, e servono infrastrutture veloci». Ma questa è un’altra storia.

Passeggiando per le strade dell'Isola verso l'ora di pranzo, quando i negozi sono chiusi e la gente è impegnata in un pranzo fugace per affrontare l'ennesimo, caldo e snervante pomeriggio di estate milanese qualsiasi, le serrande colorate sono la prima cosa che salta agli occhi. E i colori sono disposti con cura, costruiscono visionari scenari metropolitani; ma questi colori sono soprattutto testimonianza di un'altra città. Sono i ricami di un tessuto urbano vivo e pulsante. Le saracinesche volute da Isola Art Center sono una risposta allo sgombero e alla demolizione della Stecca degli Artigiani. Mentre nei salotti del potere si disegnano le nuove piantine del quartiere, mentre i parchi spariscono e i cantieri si moltiplicano, mentre si sta di fatto rinunciando all'idea stessa del coinvolgimento dei cittadini nei processi politici che portano a decisioni così importanti, una parte dell'Isola non ci sta. Queste persone cercano oggi una soluzione alternativa al diktat edilizio del progetto Porta Nuova che all'Isola ha portato alla sostituzione di un parco pubblico con costruzioni residenziali, centri commerciali e grattacieli. Ci sono anche spazi verdi nel nuovo progetto, ma si tratta di strisce di terra; questo nuovo verde crescerà infatti sopra i parcheggi sotterranei, senza sufficiente profondità perché le piante possano mettere le radici, diventando poco più che una distesa di erbetta decorativa.

Sono tante le voci che lo definiscono un progetto discutibile. E così sono spuntate le saracinesche colorate. Ai margini dei cantieri dei colossi Hines e Ligresti, responsabili e proprietari di gran parte delle planimetrie del progetto comunale, è cresciuta l'alternativa. All'avanguardia.

Un sarcastico bosco orizzontale sale sul ferro arrugginito di un elettricista, un bozzetto di un parco possibile per il quartiere rende meno monotona la vetrina di un alimentari, un chiosco di giornali che denuncia l'abbellimento strategico voluto da Manfredi Catella e dalla Moratti se ne sta da solo in mezzo a una piazza. La realtà è che sono moltissimi gli artisti coinvolti in questo progetto di rilancio anche estetico dell'Isola che nasce direttamente dal basso, in questo tentativo popolare di riappropriarsi con i mezzi dell'arte di una certa idea di bellezza possibile e condivisibile da tutti, per cercare di far sì che una buona volta siano gli abitanti a prendere le decisioni, i cittadini a scegliere il loro futuro e il loro cemento. E così, mentre dall'alto tentano di convincere il pubblico con l'estetica americana anni ottanta del grattacielo altissimo e portatore dei valori di progresso e felicità irraggiungibili dalla maggioranza, il quartiere si riappropria di un futuro realmente possibile dove la condivisione delle esperienze costituisca la base per costruire un quartiere di tutti e un laboratorio di nuove proposte sociali.

Sono queste le persone che all'Isola criticano e mettono in discussione le verità del mainstream e che si lasciano quindi provocare dall'instancabile fruscio lussemburghese della voce di Bert Theis e dall'energia di tutti gli artisti e attivisti di Isola Art Center, convinti che, nonostante tutto, la parola fine sia ancora da scrivere. L'idea del Centro per l'Arte e il Quartiere, al quale lavorano anche il Comitato I Mille e i genitori delle scuole Confalonieri, è quella di chiedere alla maggior parte dei commercianti di partecipare attivamente donando i propri spazi privati all'attività di protesta, con lo scopo di impedire la cementificazione e la privatizzazione dei giardini fra via de Castilla e via Confalonieri, storico polmone verde dell'Isola, e che ora è parte del massiccio progetto privato Porta Nuova .

Mariette Schiltz, artista e compagna di Bert Theis si rammarica della poca attenzione che i giornali dedicano alla loro campagna contro la speculazione edilizia all'Isola: «Da quando hanno scelto Stefano Boeri come architetto del progetto ci siamo ritrovati quasi tutti contro, compresa la maggioranza del centrosinistra. Come mai?» E Bert interviene con un'ipotesi: «Personaggi milanesi del mondo della cultura di sinistra o ex di sinistra, come nel caso di Boeri, sono troppo importanti per essere criticati. Boeri ad esempio non è solo un architetto, ha tutta una sua rete di contatti, è direttore di una rivista di architettura, ha tanti amici, è quasi intoccabile.» Mentre Mariette parla arriva la notizia che il Tar ha bloccato le varianti che erano state fatte nel 2005 al progetto Garibaldi- Repubblica, anche nell'area dove c'erano i giardini dell'Isola e oggi ci sono i cantieri, e quindi adesso: «devono diminuire le costruzioni e aumentare il verde - dice Mariette - sono nei pasticci, devono fermare i lavori, che si basano sulle varianti bloccate, questo dimostra che le cose non si fanno così, speriamo...».

Esiste anche una parte del mondo culturale milanese, tra cui la Naba (Nuova accademia di belle arti di Milano), tante associazioni della rete Incontemporanea che sostengono i progetti artistici e collettivi di Isola Art Center. Il sostegno internazionale invece viene da istituzioni come Platform Garanti di Istanbul o i musei di Ginevra, di Lussemburgo e di Eindhoven. Isola Art Center quando parla dei suoi tentativi parla anche degli uomini, degli abitanti dell'Isola perché solo coinvolgendo le persone si può cercare di creare un'alternativa al potere in mano ai pochi che stanno di fatto decidendo il futuro di un intero quartiere. «Ogni progetto artistico deve essere legato ad un progetto sociale, altrimenti l'arte rimane solo quella del museo, è chic ma non incide; la gente deve sentirsi parte di una comunità, deve coltivare le relazioni umane e sentirsi in grado di incidere nelle decisioni.» E tra i cittadini c'è Xabier Iriondo che vive all'Isola da sempre, ha un negozio di strumenti musicali in piazzale Segrino e ospita le iniziative di Isola Art Center. Xabier è preoccupato di quello che sta succedendo: «L'idea di ridimensionare completamente il quartiere e di portarlo a diventare un luogo di passaggio e di fruizione di nuovi servizi, come li chiamano, è sbagliato. Questo non è un quartiere di grandi boulevards, è pieno di sensi unici e strade strette. Quello che vogliono fare è l'esatto opposto di quello che ha bisogno l'Isola. Un traffico su ruote imponente senza avere parcheggi è follia pura. Stanno ribaltando l'impianto urbanistico, in nome di interessi privati. Non si può accettare. «È quindi fondamentale fare politica, occuparsi della polis in un modo diverso dalle istituzioni» dice Bert Theis. Xabier è d'accordo e aggiunge che partecipa perché si sente minacciato dal progetto anche nelle sue vesti di commerciante. «Bisogna mettersi realmente in gioco e lottare contro i poteri forti. La soluzione può arrivare solo dal basso.».

L'Osterialnove è un bellissimo ristorante in via Thaon di Revel, il suo proprietario, Alfredo Galimberti si dice contrario al progetto: «Sono dei progetti assurdi, dice Alfredo, che io da ex architetto non avrei mai realizzato. Invece che fare solo palazzi residenziali, io farei grandissimi parchi. Così ci guadagnano solo i ricchi, le multinazionali e non la gente normale». Ci sono poi due signori cileni, Leonardo Luque e Mariana Huidobro, che hanno una libreria in via Pollaiuolo, Puerto de Libros. Leonardo è al fianco di Bert, tutte e due non sono nati qui ma entrambi si sentono a disagio per la situazione delicata del quartiere: «I problemi sono infiniti. Il primo problema è un problema morale, etico. C'è una forma di resistenza ma esiste anche una certa ignoranza che impedisce analisi giuste della situazione. I cambiamenti si presentano sempre con una veste fantastica ma poi Quello che si deve fare è informare, lottare e recuperare una dimensione collettiva». Mariana è ancora più arrabbiata :«Noi vorremmo fare cose che sono troppo difficili da fare. La gente è chiusa. Il problema non è solo dell'Isola e di Milano. È un problema più grande. Quello che noi dobbiamo fare è aprire le porte ai cambiamenti, ma bisogna trovarsi, discutere e lottare».

Tra via Borsieri, Porro Lambertenghi e piazzale Segrino ci si imbatte in altre opere d'arte e in altri commercianti stufi della situazione, che hanno donato le loro serrande agli artisti. La ditta di Giuliano Vecchiato in via Borsieri ha ospitato l'opera forse più rappresentativa, realizzata da OsservatorioinOpera, che ironizza sul progetto di Boeri, il bosco verticale, e si stupisce del successo che ha avuto sui suoi clienti: «La gente si ferma, mi chiede. Voglio che rimanga così perché può essere uno spunto di riflessione».

Anche Michele Carulli, macellaio al mercato comunale è in linea con la protesta. È un uomo sorridente Michele e, dietro il suo bancone di vetro che riflette la sua immagine mentre taglia una bistecca di manzo, si rammarica del cambiamento che subisce il quartiere. «Io faccio il macellaio, ma mi interesso di problemi sociali, non parlo solo di donne e di calcio, per me è normale. Ho paura del cemento ma soprattutto mi chiedo: Chi può accedere a quel tipo di immobile? Chi ? Pochissimi». Michele poi finisce di tagliare la carne, la intinge in un intingolo di rosmarino e olio, la incarta e ce la offre: «Alla griglia è buonissima.». Semplicemente buona, ci fidiamo.

Il progetto di riqualificazione delle cascine verrà presentato con il masterplan di Expo l´8 settembre. Un piano di massima preparato dal Comune e dal Politecnico che prevede il rilancio dell´agricoltura di prossimità all´interno del Parco Sud, ma anche l´ipotesi di trasformare le cascine abbandonate e degradate che non si possono salvare in strutture per il turismo e in spazi per il terzo settore. E per rilanciare l´agricoltura cittadina nasce anche un comitato di cui fanno parte, oltre al Politecnico, Coldiretti, Sloow Food, Esterni, Vita e il consorzio Sir.

Cascine Expo: potrebbe chiamarsi così il progetto di riqualificazione delle cascine di Milano e dell´hinterland che verrà presentato l´8 settembre insieme al masterplan dell´esposizione universale 2015. Un progetto di massima, messo a punto dal Comune insieme al Politecnico, che rivede completamente il sistema dei casolari, in parte funzionanti in parte abbandonate, che risiede soprattutto all´interno del Parco Sud. E sostenuto dal neonato comitato che riunisce, oltre all´università, anche la Coldiretti, Slow Food, Esterni, l´associazione Vita e il consorzio Sir, istituitosi prima dell´estate per promuovere il progetto e cercare l´adesione di chi attualmente opera nelle cascine.

«La riqualificazione delle cascine di Milano e dell´hinterland potrebbe essere una delle eredità che l´Expo lascia alla città dopo il 2015 - spiega l´assessore all´Urbanistica Carlo Masseroli - L´Esposizione può essere un´opportunità importante per ricucire una grossa ferita della nostra città mettendo insieme tradizione e innovazione». Da mesi Masseroli lavora insieme ai colleghi di giunta Giovanni Terzi, responsabile dell´Agricoltura, e Gianni Verga, del Demanio, a un piano di rilancio di uno dei beni più nascosti del territorio, procedendo prima con una mappatura dell´esistente poi con incontri con chi già opera sul territorio. Un´indagine che sta iniziando a delineare il futuro delle cascine. Il progetto punta soprattutto sul rilancio dell´agricoltura di prossimità, ma prevede, là dove non si possono salvare gli antichi edifici, anche la trasformazione delle strutture degradate e abbandonate in bed & breakfast e agriturismi, oltre a spazi per il terzo settore che potrebbero essere dati in concessione al volontariato.

Contrario alla realizzazione di strutture per il turismo Maurizio Baruffi, capogruppo dei Verdi a Palazzo Marino. «La sfida è il rilancio dell´agricoltura, rendendola economicamente appetibile, magari anche per un giovane - commenta il consigliere - Il Comune dovrebbe fare uno sforzo per sostenere chi vuole investire in questo settore, non certo puntare sull´aumento delle volumetrie. Quindi ben vengano progetti di ristrutturazione, ma non se l´idea è quella di utilizzare parte dei terreni verdi per nuove edificazioni o strutture ricettive e alberghiere».

I «miglioramenti»: meno fabbriche e nuovi parchi «puliti e ben gestiti», palazzi a basso impatto ambientale e l’Ecopass, «prima vera misura antitraffico ». I «peggioramenti»: quartieri popolari abbandonati e degradati e «la mancanza di un progetto urbanistico e politico per la città». Sono Legambiente, Italia Nostra e Fondo per l’ambiente italiano (Fai) a leggere i cambiamenti di Milano negli ultimi vent’anni.

Obiettivo dell’indagine: capire dove sta andando la città che in due decenni ha perso 400 mila abitanti e che qualcuno, nel 2015, immagina in piena espansione. Il futuro, allora. Legambiente fissa un obiettivo: «Bisogna immaginare una Milano che passi da 65 auto, come oggi, a 30 auto in media ogni cento abitanti»

Nella colonna dei «miglioramenti »: vent’anni fa c’erano le industrie, che avvelenavano l’aria e la terra, e oggi non ci sono più. Nella colonna dei «peggioramenti »: esisteva un tessuto agricolo, a Sud della città, che ormai è stato dimenticato. Tema: guardare Milano in prospettiva storica. Limite temporale: gli ultimi vent’anni. Cosa va peggio e cosa meglio. Trasformazioni positive e negative.

Può sembrare un gioco, perché i cambiamenti di una metropoli seguono strade complesse. Ma è anche un’occasione per un dibattito. Per rivendicare i progressi. E allo stesso tempo indicare il degrado. Urbanistica, ambiente, qualità della vita. Con un occhio al futuro.

Si può partire da un esempio: «Vent’anni fa andavamo in parco Sempione a strappare le erbacce », ricorda Luca Carra, presidente milanese di Italia Nostra. «Oggi invece i parchi sono di solito puliti e ben gestiti, sono stati creati il parco Nord e quello delle Groane. L’attenzione per il verde è di gran lunga aumentata». Lì, all’origine di questo cambiamento, si scopre però anche una strada senza uscita: «Quei parchi — continua Carra — sono frutto di una progettualità che non esiste più. Il passante è un altro esempio di come ci fosse un’idea di governare Milano come grande area metropolitana. Un obiettivo che si è perso». E che, pensando al futuro, secondo Italia Nostra andrebbe recuperato.

In mezzo, in questi vent’anni, qualcuno rimprovera il passaggio da un’idea di Grande Milano a quella di una città-condominio. Tendenza che (ovviamente) non riguarda soltanto un’amministrazione, «ma è una trasformazione molto più ampia e generalizzata ». E, comunque, mette sul banco degli imputati la politica.

Ecco il punto comune: la mancanza di un progetto. Andrea Poggio, vice direttore nazionale di Legambiente, indica un cambiamento epocale, e cioè il passaggio «dai riscaldamenti a olio combustibile al metano: un progresso — spiega — che ha migliorato in proporzioni enormi la qualità dell’aria. In generale, la qualità dell’abitare a Milano è uno dei grandi momenti di progresso nella storia recente». Allo stesso tempo, mentre l’edilizia faceva passi avanti, «Milano ha via via abbandonato e lasciato degradare il grande polmone agricolo a Sud del Comune. Era una delle grandi ricchezze lombarde ».

La storia recente si può leggere anche attraverso piccoli segni. Elementi che diventano però emblematici: «Il cantiere in Sant’Ambrogio — spiega Marco Magnifico, direttore generale e culturale del Fondo per l’ambiente italiano — è deleterio soprattutto per il messaggio che manda. Con l’Ecopass si è avviata una grande stagione in cui i cittadini hanno preso coscienza del problema inquinamento, con quel parcheggio ricevono invece un messaggio opposto. Manca coerenza, linearità e coraggio nelle scelte».

La città del futuro, almeno dal punto urbanistico, si intravede già. Da Garibaldi, a CityLife: è una città che va verso l’alto. «Ma Milano cosa ha a che fare con i grattacieli? — chiede il direttore del Fai — La nostra tradizione culturale e architettonica è di città bassa, rappresentativa di un’eleganza austera, aperta, riservata, accogliente. Non si possono scimmiottare Hong Kong o Dubai, architetture completamente avulse dalla nostra storia. È un assurdo segno di provincialismo».

In una parola, secondo il Fai, la città ha perso il suo «stile». È un punto critico, pensando al futuro. E chiedendo un impegno alla politica. Ecco le priorità, in prospettiva. Legambiente: «Immaginare una città che passi da 65 auto, come oggi, a 30 auto in media ogni cento abitanti». Italia Nostra: «Recuperare lo spirito di progettare Milano su larga scala, in un tutt’uno con l’area metropolitana». Il Fai: «Puntare a un progresso che sia in linea con le nostre radici».

Meno male che c’è Roberto Formigoni, testè nominato «governatore della Lombardia a vita» dall’amico Silvio. Senza di lui, nessuno avrebbe potuto sospettare che le mafie stessero tentando di mettere le mani sui 15 miliardi di euro che stanno per piovere su Milano per la baracconata di Expo 2015. Invece, vigile come una talpa in letargo, il pio governatore ha ricevuto «segnali da più parti di tentativi molto preoccupanti di infiltrazioni mafiose nei cantieri». Probabilmente, scartando il pesce, dev’essergli capitato un foglio di giornale con uno delle migliaia di articoli usciti negli ultimi due-tre anni sugli allarmi lanciati da magistrati, analisti, forze dell’ordine. Così, vivamente «preoccupato», ha varato in men che non si dica un «Comitato per la legalità» per la «prevenzione al crimine organizzato». Sfumate le candidature dell’eroico Vittorio Mangano, prematuramente mancato all’affetto dei suoi cari, e di Marcello Dell’Utri e Salvatore Cuffaro, molto devoti anche loro, si è optato alla fine per due ex giudici di chiara fama, Giuseppe Grechi e Salvatore Boemi.

Per non lasciarli soli, i due saranno affiancati da due carabinieri provenienti dal Ros e dal Sisde: il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno. In qualità, si presume, di esperti in materia: si tratta infatti degli stessi Mori e De Donno che nel 1992, subito dopo Capaci e poi anche dopo via d’Amelio, avviarono una trattativa con Vito Ciancimino e i capi di Cosa Nostra, Riina e Provenzano, che avevano appena assassinato Falcone, Borsellino e gli uomini delle scorte: la trattativa del «papello», consegnato da Riina a Ciancimino e da questo a Mori, almeno secondo le ultime rivelazioni del figlio del sindaco mafioso di Palermo. Mori, poi, è stato imputato per la mancata perquisizione del covo di Riina nel gennaio ’93 (assoluzione, ma con pesanti addebiti sul piano disciplinare) e lo è tuttora per favoreggiamento aggravato alla mafia con l’accusa di non aver arrestato Provenzano già nel 1995, quando l’ex mafioso Luigi Ilardo ne segnalò la presenza in un casolare di Mezzojuso al colonnello Michele Riccio.

Ora Mori aiuterà Formigoni a «monitorare, vigilare, studiare le procedure di controllo sugli appalti e dare consulenza alle imprese» perché stiano alla larga dalla mafia. Noi ovviamente non crediamo a una sola delle accuse che pendono sul suo capo, certamente frutto di «teoremi giudiziari» e «giustizia spettacolo», come direbbero Berlusconi e Vendola. Ma una domanda a Formigoni vorremmo porla lo stesso: non le pare che l’uomo che dimenticò di perquisire il covo di Riina, che si scordò di denunciare alla magistratura le richieste estorsive della mafia allo Stato nel famigerato papello, che pensò di combattere la mafia delle stragi trattando con chi le aveva appena realizzate e che è accusato di essersi lasciato sfuggire Provenzano, come sentinella antimafia sia un po’ sbadato?

Un Comune cresciuto di 300 mila abitanti, fino a 1,6 milioni, senza ulteriore consumo di suolo. Non più tre, non più cinque, ma ben dieci linee di metropolitana. Un sistema di otto Raggi verdi ciclopedonali per raggiungere l'anello dei parchi periurbani. Venticinque diverse aree in trasformazione, tra spazi residuali, ex fabbriche, ex caserme, ex stazioni ferroviarie. Concentrazione di tribù creative e giovanili tra Porta Genova e i Navigli. Il ritorno dell'attività agricola dentro ai confini comunali, visione adattata al XXI secolo di un romanticismo alla Carlo Porta, quando nei salotti si parlava dei bachi da seta oltre che degli austriaci da cacciare. Un libro dei sogni per Milano?

Detto così, non è difficile far dell'ironia: la città oggi è dinamica, benestante, colta ma inquinata, trafficata, insalubre, punitiva per giovani e poveri, sempre meno ospitale verso gli stranieri e gestita da una giunta Moratti politicamente poco compatta e claudicante tra i ritardi e i black out informativi sull'Expo 2015, la presunta panacea di tutti i mali. No, gli esempi anzidetti non riguardano la città di oggi. Riguardano la Milano del 2030. Sono alcune delle linee strategiche contenute nel nuovo Pgt, il Piano di governo del territorio. Uno strumento urbanistico lungamente atteso (era dal 1980, 29 anni fa, che la città non varava un Piano regolatore, e a dirla tutta quello era una "variante generale" al Piano del 1953) e non ancora noto all'opinione pubblica. Perché ne parliamo su "L'espresso"? Per tre motivi: perché Milano interessa tutti noi, essendo il principale collante tra l'Italia e l'Europa (nel dubbio attaccarsi alle Alpi, raccomandava Ugo La Malfa), con una massa critica economica, creativa e di ricerca tuttora senza pari nel Paese; perché la giunta Moratti, dopo il primo confronto, si appresta a lanciare (previo dibattito consiliare e un'auspicata discussione pubblica) un documento d'indirizzo che individua le linee di sviluppo di Milano nei prossimi vent'anni; perché, infine, abbiamo avuto modo di conoscere la parte progettuale del Pgt, il cosiddetto documento di piano, prima della presentazione ufficiale.

Anche se di questo si è iniziato a discutere in un paio d'occasioni: a giugno all'Urban Center, su Milano e Parigi a confronto, e ai primi di luglio in un incontro che ha visto insieme, in spirito dialogante, la Fondazione per la sussidiarietà e la Fondazione Italianieuropei, l'assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli, l'onorevole Maurizio Lupi per il governo e il democratico Carlo Cerami per l'opposizione. Il documento di piano è stato realizzato, su input dell'assessorato, da un gruppo di professionisti giovani e di esperienza internazionale, lo studio Metrogramma (architetti Andrea Boschetti e Alberto Francini) in coordinamento con l'Ufficio del Piano del Comune.

CRESCITA SOTTO CONTROLLO

Di quale Milano parliamo? Della città amministrativa: oggi 1,3 milioni di abitanti. Non ancora della città metropolitana, o Grande Milano, che a seconda degli studi comprende da 3,5 a 6 milioni di persone. La Milano di oggi è una città di pendolari e city users, in cui ogni mattina entrano 650 mila automobili. Ha una densità di oltre 7 mila abitanti al chilometro quadrato, tre volte e mezzo quella di Roma (ma la metà di Barcellona). Ospita 180 mila stranieri residenti (30 mila i soli filippini), ma nello scorso decennio ben 230 mila abitanti se ne sono andati nell'hinterland o altrove, la gran parte giovani e persone nel pieno dell'età produttiva.

Nel Pgt si conferma l'indirizzo della città attrattiva, che vuole riprendere a crescere dopo il calo demografico iniziato nel 1975, che è uno dei punti fermi della linea Moratti-Masseroli. Crescere, sì, ma come? Cementificare (come recita la vulgata d'opposizione) o densificare (come vuole il galateo dell'urbanistica internazionale)? Boschetti e Metrogramma ragionano su un'ipotesi di crescita consistente (seppure inferiore alla recente sparata dell'assessore Masseroli sui 700 mila abitanti in più grazie agli accresciuti indici di edificabilità): oggi i milanesi sono 1,3 milioni; l'obietivo è portarli a 1,6 in vent'anni. Alzando gli indici di edificabilità, ma senza ulteriore consumo di suolo: il consumo è oggi al 73 per cento del territorio; si vuole addidittura scendere, al 65. Può sembrare un paradosso: come si fa a ridurre il consumo di suolo se gli abitanti crescono? Vediamo.

SOTTO UN'ATTENTA REGIA

Il Pgt parla di riqualificazione. È come se la città fosse stata concettualmente divisa in una mappa di pieni e di vuoti, e si sia analizzato come dare nuovo senso ai vuoti (spazi residuali, aree in dismissione: industriali, ferroviarie, militari) senza costruire, allargandosi in orizzontale, come si è fatto finora. È chiaro che gli appetiti dei privati (a Milano i protagonisti sono noti e potenti: da Hines a Ligresti, da Cabassi alle Coop) spingono verso la deregulation.

Il Pgt è anche una camera di compensazione. Dà spazio ai privati, che hanno il capitale, ancorché risicato, ma mantiene una regia. Costruire non sarà solo, come vuole certa demagogia "di sinistra" o " di quartiere", l'arrembaggio del cemento, alias grattacieli e centri commerciali, argomento debole in tempi di perdurante recessione. L'intento è di riprogrammare Milano, come si esprime Boschetti, secondo una "dorsale continua e permeabile di città pubblica". In parole semplici, a Milano urge promuovere e riqualificare spazi civici, piazze, zone pedonali, parchi, boulevard alberati, piste ciclabili.

25 AREE STRATEGICHE

La Milano verso il 2030 si dovrebbe organizzare per aree di trasformazione urbana (la piantina è a pag. 57). Sono circa 25 aree, collegate da sei o sette cosiddetti epicentri che ne diffondano gli effetti in forma di servizi ai cittadini. La rinascita dello spazio pubblico in senso reticolare è un modello tipicamente europeo di questi anni: si pensi a Londra, Berlino, Barcellona, Lione, Rotterdam. L'esatto contrario, si può dire, del modello Dubai (che forse ispira alcuni dei grandi operatori immobiliari), basato su landmark architettonici, edifici simbolo di valenza promozionale. Di queste aree strategiche alcune sono già in trasformazione oggi ( Bovisa, Farini, Lambrate, Rogoredo) altre sono zone di sviluppo futuro, come l'Expo al confine con Rho, o San Siro, o le stazioni di Cadorna e Porta Genova.

Aree di trasformazione saranno le vecchie caserme (un solo esempio: nella caserma di via Mascheroni si trasferirà l'Accademia di Brera), ma anche il carcere di San Vittore. E chissà se traslocherà il Palazzo di Giustizia. Questo modello organizzato per reti di servizi potrebbe seguire anche vocazioni specifiche. Ricerca e università alla Bovisa; sport e spettacolo a San Siro; università a Città Studi-Lambrate; creatività giovanile a Porta Genova-Navigli.

Contemporaneamente il Piano ragiona in piccolo, sulla scala locale. Con i cosiddetti Nil, Nuclei di identità locale. C'è una mappa che mostra Milano come un tessuto maculato: 88 macchie, 88 quartieri da promuovere, arricchire di funzioni in una logica di prossimità. Perché si sa: c'è la città veloce, degli assi di attraversamento, e la città lenta, di piazze, quartieri storici, zone pedonali, dove ancora - è l'umanesimo italiano - ci si parla, ci si conosce, ci si aiuta.

COME MUOVERSI

Tema drammatico, per i milanesi. Oggi, oltre all'Ecopass (da migliorare), il Comune ha implementato gli ecobus e le tre linee di metrò, 75 chilometri attualmente, con indici di utilizzo crescenti (buona prova della gestione Moratti). Ma la nuova metropolitana M5 è a inizio cantiere, la M4 ai nastri di partenza ma solo in parte finanziata, la M6 persa nelle nebbie dell'Expo (cattiva prova). Lo scoop del Pgt è di quelli davvero onirici, in un Paese dal debito pubblico stellare: prevede sino a dieci linee di metrò in totale, le nuove in prevalenza radiali o tangenziali rispetto al centro. La seconda novità è la previsione di una rete ferroviaria circolare, una sorta di Circle line il cui tratto a ovest andrebbe chiuso con una metrotramvia, e una decina di nuove stazioni urbane. La terza, due nuovi assi attrezzati a sviluppo est-ovest: uno settentrionale, l'Interquartiere, dall'Expo all'ospedale San Raffaele; e uno meridionale, la Ronda del parco, da San Cristoforo a Santa Giulia-Rogoredo, tangente al Parco Sud.

FRA RAGGI E ANELLI VERDI

Se c'è una questione, diversamente da certi interventi di real estate pesante (vedi City Life), dove c'è maggior consenso tra maggioranza e opposizione, è il tema del verde. Sinistra e ambientalisti da tempo lanciano l'allarme sulle mire cementizie intorno al Parco Sud. Ma sull'idea di un Anello verde (i parchi periurbani) o sugli otto Raggi verdi, proposti da diversi soggetti, tra cui gli urbanisti del Politecnico e professionisti come Andreas Kipar o Stefano Boeri, il consenso è diffuso.

I Raggi verdi sono percorsi prevalentemente alberati per pedoni e ciclisti che dalla cerchia dei Bastioni si irradiano sino ai parchi di cintura. In tutto, il Pgt ipotizza sino a 250 chilometri di piste ciclabili, oggi un sogno, domani chissà. Nei quadranti sud e ovest il sistema dei parchi attende solo di essere sviluppato e collegato, altrove sarà lotta dura con proprietari e speculatori. Il Pgt, come peraltro lo schema individuato dal comitato di architetti dell'Expo, da Slow Food, dalle associazioni ambientaliste e agricole, vuole favorire il ritorno dell'attività agroalimentare nel Sud Milano. Il Comune e la Provincia, a prescindere dall'assai reclamizzata iniziativa a favore del verde di Claudio Abbado, hanno già iniziato a piantare decine di migliaia di alberi.

15 GRANDI PROGETTI PUBBLICI

Il Pgt è uno strumento nato da una legge regionale, la 12/2005 della Regione Lombardia. Ovviamente non contiene alcuna indicazione su chi debba costruire cosa. Tuttavia si ipotizzano 15 grandi progetti di interesse pubblico, indipendentemente dalle risorse finanziarie disponibili. Ne anticipiamo alcuni: la Passeggiata urbana dei Bastioni; la Circle line del ferro (citata sopra); il West park dell'intrattenimento tra Boscoincittà, Cave, Trenno e San Siro; il Filo rosso dei parchi periurbani, 72 chilometri ciclabili a sviluppo circolare collegati con i Raggi verdi. Oggi, anche soltanto un paio di queste idee ci sembrano, come si diceva, da libro dei sogni. Ma di qui al 2030, avendo a disposizione uno strumento forte, non ideologico, il più possibile condiviso tra diverse aree politiche, perché impedirci di sperare? La città di Ambrogio, con sette università e 180 mila studenti, è un laboratorio di idee assai vivace. Fatica a diventare politica e a tradursi in opere, è vero. Ma una Milano più europea può tornare a ispirare la parte moderna e viva dell'Italia.

La prima parte del piano di governo del territorio che l’assessore Carlo Masseroli ha presentato in giunta è un progetto che non può essere liquidato con le solite quattro parole: ci risiamo con la cementificazione. Non si può nemmeno prendere le distanze e passare oltre. Prima di esaminarne i contenuti vale la pena di fare due considerazioni. La prima: la congiuntura attuale di bassissima domanda di mercato se da un lato rende inattuale uno degli obiettivi del piano – l’edilizia a basso costo – dall’altro rende lo scenario degli operatori meno aggressivo, con tutto vantaggio di una riflessione più pacata e minori spinte sull’amministrazione.

La seconda considerazione è forse di maggior peso politico. È chiaro che il Pgt dell’assessore Masseroli, almeno nelle intenzioni, disegna uno scenario urbano all’interno del quale si vogliono definire aree con funzioni precise, si vuol proporre un riequilibrio di parti della città, si vogliono dotare i quartieri dei servizi dei quali hanno bisogno, in particolare del verde, si cerca di utilizzare aree dismesse – prevalentemente demaniali – il tutto con forte privilegio dell’interesse pubblico.

Insomma, un impegno che sembra guardare al rapporto pubblico-privato in maniera assai diversa da quella che è stata la prassi degli ultimi anni: meno disponibile verso gli interessi del blocco edilizio. Velleità? In questo momento un’apertura di credito è indispensabile, poi si vedrà.

Se queste sono le premesse, il conflitto di principio col piano casa in approvazione in Regione appare insanabile. Il piano casa non guarda in faccia a nessuno, non ha cultura, non si pone grandi problemi, è un’operazione fortemente connotata Lega, chi vuole e ha i soldi allarghi, alzi e ampli senza riguardo alle destinazioni d’uso: densificare la città come capita capita e accentuarne certamente gli squilibri. Ecco la vera sostanza del dibattito all’interno della maggioranza. La vena populista della Lega le fa dire di no all’edificazione sulle piste di allenamento dell’Ippodromo ma solo per dimostrare che sta dalla parte del popolo e non dei signori, poi però vuole la mano libera nel devastare la città.

Questa è la coalizione che governa Milano, questa è la gente che tiene in piedi il governo Berlusconi qui e a Roma: l’alleato fedele. Quanto al Pgt di Masseroli, di cose da dire ce ne sono molte. Abbiamo accennato alla connessione tra sviluppo dell’edilizia e realizzazione di case a basso costo; se l’edilizia nel suo insieme, quella privata sostenuta da acquirenti solvibili, non riprende, restiamo al palo e ci restiamo su due versanti: da un lato non ci saranno oneri di urbanizzazione per dar corpo a quelle parti del Pgt che dipendono dalla mano pubblica (verde, infrastrutture viabilistiche, spazi pubblici, arredo urbano), dall’altra non si darà risposta alla domanda di fascia bassa che ha bisogno di case a prezzo contenuto, prezzo al di sotto dei valori di mercato. Ma è da qui che si mette in moto il volano della ripresa e la mobilità del mercato immobiliare. Abbiamo bisogno di un consistente investimento pubblico in edilizia economica: non è una novità per nessuno che gli anni migliori per il mercato immobiliare milanese abbiano coinciso con quelli dell’investimento in edilizia pubblica. Quanto alla qualità della nuova Milano indicate dall’assessore nel suo documento – La città sicura di sé, la città vivibile, la città efficiente – il discorso non si può esaurire in poche battute.

Finalmente si parla di città sicura di sé senza evocare ronde, caserme di carabinieri e ciarpame destro-leghista, ci si confronta forse troppo in alto pensando alle case a basso costo di Madrid o al verde di Copenaghen o alla capillarità del trasporto pubblico londinese: per una volta in un documento pubblico non si sente parlare delle "eccellenze" milanesi ma si tratta di un ambizioso progetto. Finalmente siamo in grado di confrontarci con qualcosa di definito e chi si oppone potrà farlo con critiche puntuali là dove il progetto sembra più debole: la distribuzione delle aree di intervento, alcune scelte di destinazione d’uso francamente discutibili o molto controverse e la mancanza totale di ipotesi di coordinamento sovracomunale, tanto per cominciare.

Il Corriere della Sera, ed. Milano, 7 luglio 2009

Via libera al piano del territorio Pdl-Lega: salvo l’ippodromo

di Andrea Senesi

Venticinque aree per costruire la Milano dei prossimi de cenni. Venticinque, meno una: all'Ippodromo il cemento non arriverà.

Via libera all’accordo sul Piano di governo del territorio, il documento quadro che disegnerà l’urbanistica di Milano dei prossimi decenni. Dopo mesi di infinite trattative, ieri la Lega ha pronunciato il sì definitivo. Il Pgt arriverà in giunta oggi, come chiesto dal sindaco Letizia Moratti e dall’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli. Secondo il documento generale saranno 25 le aree di trasformazione, ciascuna con tanto d’indice volumetrico. «Non è un documento chiuso», assicura Palazzo Marino.

Venticinque aree per costruire la Milano dei prossimi decenni, la metropoli dal la ritrovata grandeurcapace di richiamare dentro i suoi confini i giovani e il ceto medio. Venticinque, meno una: l'ippodromo. Sulle piste dove da decenni galoppano e trottano i cavalli il cemento non arriverà.

«Il percorso è avviato. Entro settembre contiamo di portare la delibera in Consiglio per la prima approvazione », spiega l’assessore.

L’ippodromo, dunque. Con le parole del capogruppo lumbard Matteo Salvini e dello stesso Masseroli che confermano: «Sulle due piste non si costruirà nemmeno un metro cubo». Il che, sottolinea l’assessore, non vuol dire per forza di cose che entrambe le piste rimarranno al loro posto. Il trotto, per dire, potrebbe anche essere trasferito altrove, magari, come si dice, fuori Mila no. Ma su quell’area non potrà nascere niente più che un parco.

Rimane il documento generale. Con le 25 aree di trasformazione, ciascuna con tanto d’indice volumetrico. «Non è un documento chiuso. Saranno gli accordi di programma che di volta in volta, area per area, confermeranno o modificheranno le volumetrie indicate».

«È solo l’inizio di un percorso. Oggi abbiamo salvato un milione di metri quadrati dall'avanzare del cemento», sottolinea Salvini che si godela vittoria, mentre tutti gli altri capigruppo della maggioranza di Palazzo Marino brindano comunque all’accordo raggiunto. «Un documento di un’importanza epocale», dice Giulio Gallera del Pdl. Che racconta di una proposta spuntata tra le pieghe del futuro Pgt e immediatamente condivisa da tutti: «Realizzare un nuovo Qt8. Un nuovo quartiere dove tutti i grandi architetti di fama mondiale daranno ilproprio contributo». «Si passa da una cultura dirigista, quella che animava il vecchio piano regolatore del 1980, a una visione liberale e moderna di governo del territorio », esulta anche l’Udc Pasquale Salvatore. «L’ottica di ragionamento deve rima nere quella della grande area metropolitana», osserva il repubblicano Franco De Angelis.

Di tutt’altro umore l’opposizione. Ammette il capo gruppodel Pd Pierfrancesco Majorino: «Siamo molto preoccupati ». «Anche perché la nascita di questo Pgt è stata gestita come una trattativa puramente privata. I contorni dell’accordo poi confermano tutte le ambiguità sul tema del verde e delle aree pubbliche». In conclusione: «Se l’idea è quella della cementificazione selvaggia, noi siamo pronti a un'opposizione durissima».

La Repubblica ed. Milano, 8 luglio 2009

La città del futuro apre i cantieri

di Alessia Gallione

Nasce la Milano del 2030. Quella che dovrà trasformare 31 aree – dalle ex stazioni alle caserme, dall´Ippodromo all´Ortomercato – in tutto undici chilometri quadrati su cui si potranno costruire undici milioni di metri cubi, equivalenti a circa mille condomini. «Zone oggi degradate – dice l´assessore all´Urbanistica Carlo Masseroli – che recupereremo senza consumare suolo». Con l´obiettivo di realizzare case a prezzi bassi come a Madrid o quartieri con servizi a 5 minuti di distanza come a New York.

Dagli scali ferroviari abbandonati alle caserme dismesse, dalla zona attorno a San Siro a quella che sorgerà attorno ai padiglioni di Expo. In tutto 11 chilometri quadrati di superficie su cui si potrà costruire fino a 11 milioni di metri cubi, equivalenti a circa mille nuovi condomini di medie dimensioni (35 appartamenti ciascuno), che potranno aggiungersi ai 640mila esistenti. Con una visione generale del futuro della città, però, che l´assessore all´Urbanistica Carlo Masseroli, definisce «rivoluzionaria». Perché, nelle intenzioni di Palazzo Marino, nei prossimi vent´anni Milano dovrà arrivare ad avere il 35 per cento delle case a basso costo come a Madrid, dovrà raddoppiare la quantità di verde attrezzato puntando al modello di Copenhagen, somigliare sempre più a New York per i quartieri con servizi raggiungibili a piedi in cinque minuti o a Berlino per gli spostamenti con i mezzi pubblici. «La nostra sfida - sintetizza ancora Masseroli - è realizzare una "Milano per scelta", in cui chiunque potrà trovare quello di cui ha bisogno per abitare, divertirsi, studiare, lavorare».

Gli obiettivi internazionali sono ambiziosi. Così come le promesse del Comune. E il percorso è appena iniziato. Dopo quasi due anni di lavoro, discussioni, incontri e scontri politici, la prima parte del Piano di governo del territorio, che sostituirà il vecchio Piano regolatore, è stato approvato dalla giunta. Diventerà "legge", però, non prima di luglio del prossimo anno. Ma l´impostazione c´è. Ed è quella che avuto il via libera della maggioranza, dopo l´ultimo confronto con la Lega che ha chiesto garanzie sull´Ippodromo: sulla zona San Siro si potrà costruire, ma non sulle piste di allenamento. In tutto, i nuovi edifici che potranno sorgere equivalgono a circa mille condomini: 11 milioni di metri cubi contro i circa 250 milioni che già oggi esistono in città. «È il 4 per cento in più», spiega Masseroli. Che dice: «Questo piano non parte dalle quantità o dalle destinazioni d´uso, come in passato. Ma dall´interesse pubblico, dall´idea di città che vogliamo creare. A partire dalla prima di cinque regole d´oro che ci siamo dati: non consumeremo suolo e salvaguarderemo il Parco agricolo Sud. Non c´è nessun rischio di cementificazione perché le aree che verranno trasformate oggi sono degradate, insicure, spazi su cui non si può accedere».

In totale le zone (compresi i cosiddetti piani di cintura) che cambieranno volto sono 31. Non in tutti, però, si potrà costruire la stessa quantità di palazzi: il piano, infatti, si basa su un principio che permette di spostare le volumetrie acquisite dai privati da quartieri da riqualificare a verde ad altri, in cui sarà più spiccata la vocazione abitativa. Palazzo Marino ha già delineato dieci macro-aree con possibili destinazioni. «Ma sono solo indicazioni - precisa Masseroli - tutto potrà cambiare a seconda delle esigenze della città». E così potrà nascere un distretto con la vocazione della ricerca e della tecnologia in Bovisa, dell´università a Lambrate, della pratica sportiva a Forlanini, dell´attività amministrativa con la Cittadella della Giustizia di Porto di Mare; e poi uno spazio che guardi al design e alla creatività tra l´ex stazione di Porta Genova e quella di San Cristoforo; il commercio e l´artigianato che, come in un enorme centro commerciale diffuso, potranno cambiare le arcate della stazione in via Aporti e Sammartini. San Siro e la piazza d´armi della caserma Santa Barbara sono immaginati come una cittadella dello sport e dello spettacolo. E poi l´Ortomercato: qui dovrà sorgere la Città del gusto e della Salute legata a Expo. Ma da sempre, questa fetta di Milano fa gola a molti appetiti immobiliari. Non solo: in ballo rimane il trasferimento dei mercati generali. E, dopo i danni per il nubifragio di ieri, il leghista Davide Boni attacca: «Credo che ormai non sia più rimandabile la chiusura dell´Ortomercato e il necessario spostamento di una struttura ormai fatiscente».

"Che rischio affidare il futuro agli appetiti dei costruttori"

intervista di Maurizio Bono a Massimiliano Fuksas

Fantastico: una camera a gas di 14 chilometri, e a pagamento. Non sanno che quelle trappole nessuno le fa più?

La trasformazione urbana non è compito di cooperative e imprese, gli indirizzi devono essere pubblici

Massimiliano Fuksas, il papà della nuova Fiera di Rho Pero, è appena tornato di ottimo umore dal cantiere della sua "Nuvola", il nuovo Centro congressi di Roma all´Eur che sarà finito tra un paio d´anni: «Tutto secondo i piani, è conclusa la parte sotterranea con la grande sale da novemila persone e stiamo innalzando il primo pilastro della teca che conterrà la nuvola vera e propria, il contenitore translucido che ha dentro la sala congressi. Ma parliamo pure di Milano, che a differenza di voi milanesi che ne parlate sempre male, io trovo una città interessante. Certo, un po´ complicata da vivere... ».

Come vede il Piano di governo del territorio milanese presentato ieri? Undici milioni di metri quadrati di aree da trasformare, 31 aree identificate su cui edificare mille nuovi condomini.

«Mi pare molto, per una città di un milione e 300mila abitanti scarsi. E soprattutto mi colpisce che riguardi solo il territorio comunale. Io ho sempre pensato che Milano debba prima di tutto integrare il proprio hinterland e la provincia, per far massa critica, piuttosto che individuare al suo interno nuove aree su cui costruire».

Ma che male c´è a far nuove case recuperando aree dismesse?

«Nessun male in sé, però francamente mi pare che pensare di incontrare tanta domanda sia un po´ irrealistico, sapendo che intanto sta venendo su un´altra intera nuova città, coi grandi progetti in corso a Milano. E tutta di uffici, mentre nell´ultimo paio d´anni, con la crisi, gli uffici non li vuole più nessuno».

Il Piano di governo del territorio però guarda molto avanti, fino al 2030. Si spera ben oltre la crisi.

«Si spera. Ma oltre a sperare, bisognerebbe muoversi in modo diverso per uscirne. Per carità, io i vecchi piani regolatori rigidi li ho sempre odiati, che si superino è un successo. Conosco i giovani architetti di Metrogramma che hanno fatto lo studio preliminare del Pgt, uno ha anche lavorato con me. Ma la loro è un´idea, poi bisogna come la si trasforma in progetto, con quali strumenti e piani attuativi. Di sicuro non si può pensare di rifare le città solo con le cooperative e le imprese di costruzioni. Da questa logica lottizzatoria è difficile far nascere una cultura del vivere collettivo, perché a loro interessano le volumetrie. Vuol sapere come stanno facendo a Parigi? »

Ce lo dica...

«Non voglio fare il trombettiere di Sarkozy, ma lì il primo passo per collegare città, periferie e l´intera Île de France è stato mettere in cantiere 158 chilometri di metropolitana, a un costo per lo Stato di 38 miliardi di euro. Poi, intorno alle 38 stazioni create hanno lasciato mano libera per costruire, ponendo come condizione l´alta qualità architettonica e paesaggistica dei progetti».

Gli amministratori locali però risorse simili non le hanno. E a quanto pare per fare i metrò Milano fatica ad averli anche dal governo di Roma.

«Dove trovi i soldi? Beh, in un paese normale li trovi facendo pagare le tasse. È lo Stato, bellezza. Se invece di abolire l´Ici fai pagare il giusto, o magari anche un po´ di più come in Francia, le risorse si possono investire, anche in funzione anticrisi. Per poi naturalmente recuperarli vendendo i diritti edificatori, come accade dappertutto. Ma la differenza è che l´intervento pubblico orienta le scelte. Invece la via imboccata dal Pgt non mi sembra poi così inedita: deregulation e poi, con il meccanismo a venire delle perequazioni, possibilità di molti scambi con poche garanzie di effettivi controlli».

Nel campo delle infrastrutture per i trasporti, il Pgt prevede anche un grande tunnel di 14 chilometri che attraversa Milano da Rho a Linate: come trova l´idea?

«Assolutamente fantastica: una bella camera a gas di 14 chilometri, e per di più anche a pagamento... No, seriamente, sono anni che nelle grandi città non si progettano tunnel, inghiottono migliaia di automobili e la necessità di farle uscire da quella trappola produce disastri urbani in forma di rampe e viadotti. Ma perché non si concentrano su metropolitane pulite come ormai fanno anche in Asia? E per i progetti bislacchi i soldi dove li trovano? Speriamo nella crisi edilizia... ».

Il Corriere della Sera ed. Milano, 8 luglio 2009

Il Comune: cambieremo 12 quartieri Via libera per costruire mille case

di Andrea Senesi

Come mille palazzoni da 35 appartamenti. Undici milioni di metri cubi spalmati su 25 aree «di trasformazione urbana» (più altre cinque in altrettanti parchi di cintura, dove però non arriverà neanche un centimetro di cemento e si lavorerà solo sul verde). Il Piano di governo del territorio, il documento quadro destinato a mandare in pensione dopo trent’anni il vecchio piano regolatore, da ieri è nero su bianco. La giunta ha dato ufficialmente il via libera, dopo l’accordo sancito lunedì all’interno della maggioranza servito di fatto a stralciare l’ippodromo dall’elenco delle aree edificabili.

Altri numeri. Le nuove volumetrie che con il nuovo documento urbanistico si realizzeranno nel corso dei prossimi decenni sono in totale il quattro per cento di quanto edificato fino ad oggi all’in terno dei confini comunali. Altro esempio. Partiamo dalla superficie: undici chilometri quadrati su cui costruire. L’assessore all’Urbanistica, Carlo Masseroli, assicura che, decimale in più decimale in meno, la media degli indici di edificabilità (metri cubi per metro quadrato) sulle 25 aree non supererà quota uno. Si torna così al dato di partenza, quello che fotografa in undici milioni di metri cubi la quantità di cemento destinata ad abbattersi sulla città. Spulciando nei dettagli del piano si scopre che in via Stephenson, zona abbandonata dietro Quarto Oggiaro, l’indice di densità è fissato addirittura a tre. Facile immaginare allora che lì arriveranno grattacieli e palazzoni. Strategici saranno soprattutto due ambiti d’intervento: le stazioni ferroviarie dismesse e le caserme rimaste vuote con la fine del servizio di leva e con l’esercito affidato ai soli professionisti. «Nessuna colata di cemento — assicura però Masseroli —. Le nuove case nasceranno assieme al verde in aree oggi completamente abbandonate a incuria e degrado». Non si consumerà nuovo suolo, in somma. Dice Maurizio Cadeo (Arredo urbano) che conl’arrivo del Pgt si allargheranno anche tre aree verdi: piazza Vetra (si uniranno i due spezzoni ora divisi), il parco di Trenno e quello delle Cave. Nei piani del Comune ciascuna macrozona (una dozzina, in totale) avrà tanto di personale «vocazione». Sport e spettacolo, per dire, nella nuova zona di San Siro, che nel frattempo avrà inglobato anche la piazza d’armidella caserma Santa Barbara; la cittadella della ricerca in torno alla Bovisa, quella del la giustizia con il trasferimento di carcere e Palazzo di Giustizia in zona Rogoredo-Porto di Mare. Lungo via Sam martini e via Ferrante AportiPalazzo Marino vorrebbe poi veder nascere il futuro polo commerciale della città, con l’arrivo di negozi e botteghe artigiane. Ma vincoli e destinazioni d’uso, fa capire lo stesso assessore, sono concetti ormai da archeologia urbanistica: «Noi non diremo mai che cosa dove nascere in questo o in quel luogo. Noi poniamo soltanto le cornici e fissiamo le regole per un governo del territorio che parta davvero dall'interesse pubblico. Ma secondo la nostra filosofia la cultura dei vincoli del vecchio piano regolatore è definitivamente morta».

C’è il tema della perequazione, poi. Il sistema, cioè, che introduce la possibilità di trasferire o addirittura scambiare i diritti volumetrici dei singoli operatori. E c’è l’housing sociale, infine. Con l’obbligo di destinare agli al loggi a basso costo almeno il 35% delle nuove residenze costruite. «Il rischio è quello di un uso barbaro delle aree pubbliche e di una guerra al verde» attacca il pd Pierfrancesco Majorino. Replica di Masseroli: «Vogliamo offrire a tutti l’opportunità di vivere o di tornare a vivere a Mila no. E lo faremo aumentando la qualità della vita». E il milione e ottocentomila abitanti? «Non c’è un obiettivo legato alla quantità. Conta solo la qualità».

Nota: anche se non si tratta di documenti aggiornatissimi, si può comunque far riferimento anche ai volumi "Milano verso il suo futuro" scaricabili dalle pagine PgT del Comune (f.b.)

Sembrava un canard quello dei 700.000 cittadini milanesi da sommare agli attuali 1.300.000 per toccare il favoloso tetto dei due milioni. La notizia era vera, era l’assessore «allo sviluppo del territorio», Masseroli, a parere falso. Insorse sul Corriere il presidente del Fai, Giulia Maria Crespi, preoccupata se non indignata. L’assessore rispose smentendo se stesso e sbagliando i numeri. Alla domanda «con quanti residenti effettivi» la città, disse che a Milano «dormono» (cioè risiedono) 1.700.000 persone! Così sarebbero solo 300.000 le unità di popolazione necessarie per raggiungere l’obiettivo. Ma prima il nostro si riferiva, giustamente, a 1.300.000 e i conti tornavano non solo con i 700.000 abitanti auspicati ma anche con i settanta milioni di metri cubi di edifici necessari.

A ogni modo Masseroli, come la craxiana nave, va avanti. Sappiamo che non è l’assurda quantità di nuovi cittadini a interessare l’amministrazione comunale, i proprietari fondiari e gli immobiliaristi. Sono i metri cubi di costruzione, del tutto indifferente il loro utilizzo. Abitazioni? Uffici? Atelier di moda? Nulla? Di sicuro prevarranno i volumi vuoti, almeno per lungo tempo, come è successo in una serie di edifici realizzati indipendentemente da una domanda reale. Inoltre funziona l’enorme riciclaggio di denaro mafioso. A Milano – se ne scrive, se ne legge – è soprattutto la ‘ndrangheta a operare legalmente o no in diversi mercati, dall’edilizia ai negozi, dalle pizzerie all’ortomercato, dal racket dei rifiuti all’usura... Che le costruzioni restino vuote non importa. La rendita continua a riprodursi comunque nei passaggi di proprietà, i valori fondiari crescono tendendo all’infinito, non s’è vista alcuna visibile diminuzione di prezzi durante la crisi, anche se rallentano un po’ le compravendite (quanto alla diminuzione sperata degli affitti, chiedere ai giovani lavoratori e studenti ormai trattati a posto letto, non a monolocale o alloggetto, la stessa procedura subita dagli immigrati meridionali negli anni Cinquanta).

L’assessore va avanti. Ecco il preludio al Piano di governo del territorio, i giornali pubblicano l’elenco e l’ubicazione di venticinque zone/aree/punti/complessi edilizi su cui si deve costruire. Cos’è un piano senza pianificazione? Proprio questo, un buon esempio. Interessano solo i metri quadri e i metri cubi. Difatti leggiamo sui quotidiani: nove milioni di metri quadrati di aree da trasformare. Dagli scali ferroviari ai verdi ippodromi di san Siro, dal Porto di Mare vicino a Rogoredo alla Cascina Merlata prossima al Cimitero maggiore, dai diversi «piazzali» alle stazioni… (postilla: la Stazione Centrale è già stata massacrata per essere commercializzata, vedere per credere). Poi la «valorizzazione» di edifici storici enormi come il Palazzo di Giustizia (Piacentini), il carcere di San Vittore, caserme… Le superfici utilizzabili, in base all’indice di 1 mq/1mq (masseroliano aumento recente da 0, 65/1, ossia + 54%) diventerebbero cubature di circa trenta milioni di mc. Tutto si tiene: quegli incredibili settanta milioni di metri cubi per la crescita fino a due milioni di abitanti trovano il presupposto nel Pgt con le sue venticinque occasioni per costruire a più non posso, non per un qualche obiettivo urbanistico quindi sociale (pianificare città e territorio in base ai bisogni sociali attuali e razionalmente prevedibili), ma come rete di offerte che le imprese faranno. L’affare in euro sarà talmente grosso da non essere quantificabile e il Comune incasserà la sua parte almeno in oneri di urbanizzazione. Fa già testo l’«avviso per l’individuazione di un partner per la valorizzazione e lo sviluppo delle aree» relative al progetto Ferrovia Nord dalla stazione di Cadorna a Bovisa (leggiamo che l’immobiliare Hines ha dichiarato la propria disponibilità). E la taciuta Expo? Quale altra colossale speculazione, una volta smontati gli impianti, sulle aree dei Cabassi e dei Ligresti liberate «per contratto» dal vincolo agricolo?

Lo schema generale del Pgt dovrebbe approdare in Consiglio comunale in autunno.

Come si muove l’opposizione? Come d’uso ora: senza uno straccio di pensiero radicalmente alternativo, senza modelli «di sinistra», per così dire (ma la sinistra non c’è più, e il centrosinistra è diventato centrismo). Il procedimento urbanistico-edilizio generale milanese da anni verificato nei fatti, cominciato con il quartiere della Bicocca voluto da Tronchetti Provera e accettato dall’amministrazione comunale (sindaco Albertini), è quello degli immobiliaristi che propongono il dove, il quando, il quanto, il prezzo e l’amministrazione che si accoda: non sappiamo di effettivi disaccordi nella politica circa contrattazione o negoziazione, che, parolacce (e realtà) straordinariamente espressive, sono entrate (esse stesse o dei sinonimi), oltre che nel corrente linguaggio, in tutti e quattro progetti di nuova legislazione urbanistica presentati in parlamento.

A Milano “la nave va” e nemmeno una barchetta le taglia la strada. E altrove?

Milano, 6 maggio 2009

Expo dimezzata, il piano del governo

di Giuseppina Piano

Addio ai nuovi padiglioni dell’Expo per un 2015 quasi a costo zero. La exit strategy messa in pista dal governo, causa terremoto, lavora a un 2015 totalmente diverso da quello promesso al mondo: non più un preventivo di 4 miliardi di euro ma poco più di 1,5. Con 29 milioni di visitatori accolti non in una nuova area costruita per l’occasione. Ma in quella Fiera di Fuksas aperta nel 2004. Eccolo, il coniglio tirato fuori dal cilindro da Bossi e Tremonti. Con i leghisti al lavoro per approfittare di un effetto collaterale del «piano B»: smantellare l’Expo Spa guidata da Stanca.

Addio dunque alla nuova Milano con la via d’acqua e i piroscafi sui Navigli, con una nuova linea metropolitana (la M6), con la zona di Rho-Pero rivoltata come un guanto. Addio ai padiglioni costruiti a fianco della Fiera che c’è già. Il risultato sarebbe un’Expo che non sarebbe più l’Expo. Quasi a costo zero perché circa un miliardo investito per la preparazione dell’evento dovrebbe rientrare, nel 2015, con gli affitti agli espositori e i biglietti venduti.

Non è detto che il piano riesca. Ma l’ipotesi è più che seriamente allo studio. Due le controindicazioni: Letizia Moratti proprio non può accettare di veder azzerato in questo modo la sua Expo. E assicura: «Non è possibile, va contro il dossier presentato al Bie». Ieri, in un lungo colloquio a Roma a Palazzo Grazioli con il premier Silvio Berlusconi, deve aver rappresentato tutte le sue perplessità. Ma sa altrettanto bene, il sindaco, che se Tremonti non mette i soldi, dovrà piegarsi al "piano B". Secondo, e più rilevante, problema: il Bie, il Bureau internazionale che assegna le Esposizioni universali, potrebbe davvero non accettare di vedere stravolto il progetto vincitore, tanto più che la costruzione di un nuovo sito era stata una condizione espressamente posta per la candidatura. Sarà già dura fargli digerire l’azzeramento della nuova linea M6 (costo 870 milioni, opera che il dossier di candidatura assicurava essenziale per reggere l’afflusso di 29 milioni di visitatori a Rho-Pero). Le norme che regolano le Esposizioni dicono che il Bie potrebbe ritirare l’Expo a Milano, non accettando il nuovo progetto. E incassando pure una salata penale dallo Stato italiano. Ma Berlusconi e Tremonti hanno una carta pesante da far valere oltre alla crisi economica mondiale: il terremoto in Abruzzo. E forse, maligna qualcuno, sarebbe un modo indiretto per arrivare a far saltare il banco.

Certo l’Expo del 2015 sarebbe travolto. Dei 4 miliardi preventivati come essenziali per costruire il nuovo sito, 1,2 servivano per costruire i padiglioni e il parco della nuova area espositiva; 1,8 per le nuove infrastrutture di accessibilità (di cui 870 milioni per la metrò 6 sono già stati cassati, 530 non potranno resistere per la Via d’Acqua e la Via di terra). Resterebbero da trovare i 374 milioni per potenziare quello che c’è già con nuovi svincoli e parcheggi. Il resto del budget, circa 900 milioni, servivano per pagare i sei anni di preparazione e i sei mesi di apertura: un investimento che dovrà comunque ripagarsi nel 2015. I tagli, del resto, sono assicurati anche sul pacchetto delle opere non direttamente collegate all’Expo ma comunque strategiche per il 2015, dalle nuove autostrade lombarde ai metrò 4 e 5 di Milano, alle ferrovie per Malpensa.

E la Lega? Bossi vuole aumentare il peso in Lombardia nel complicato risiko di potere che aprirà con Berlusconi dopo le elezioni di giugno. In ballo c’è la presidenza al Pirellone l’anno prossimo. Ma in ballo c’è anche, guarda caso, la Fondazione Fiera. Di certo il Carroccio sta attaccando a muso duro Lucio Stanca con ogni pretesto. E con Leonardo Carioni, contemporaneamente presidente dell’immobiliare Sviluppo Sistema Fiera e membro del cda Expo, come testa d’ariete: prima su Palazzo Reale, quindi sugli organici. «Pensano di assumere 80 dipendenti, quando alla Pedemontana lavorano 20 persone», ha dichiarato giusto due giorni fa in un’intervista. E pazienza se al Toroc delle Olimpiadi di Torino lavoravano in 900. Una strategia che mira chiaramente a costringere Stanca, arrivato a capo dell’Expo con la carta bianca data da Berlusconi, a patteggiare tutto il potere. Con la Fiera dentro agli appalti e alla gestione di quel miliardo che sopravviverebbe. E con il grande business del dopo-2015 sul tavolo di trattativa: resterebbe da definire cosa fare delle aree a Rho-Pero dove si dovevano fare i padiglioni. Si potrebbero lasciare non edificabili come non edificabili sono oggi? Difficile crederlo. Piuttosto, si dovrà decidere se svincolarle per un nuovo quartiere. O piuttosto assegnarle comunque al trasferimento dell’Ortomercato cedendo in cambio ai proprietari (Fiera e Cabassi) i 700mila metri quadrati lasciati liberi dai mercati in via Lombroso. In un caso o nell’altro, business del mattone.

Che cosa resta dell’Expo cinque lezioni per Milano

di Carlo Brambilla

Edifici bizzarri, come astronavi aliene abbandonate. Immense scatole di cemento vuote. Surreali periferie disabitate. Ardite cattedrali nel deserto urbano. Degrado. Solitudine. Silenzio. Inquietanti paesaggi da day-after. Lo sguardo di cinque grandi fotografi è andato a documentare cosa resta oggi di cinque Expo che si sono tenute negli anni recenti in Europa. Cinque reportage sulle condizioni attuali di Saragozza, Lisbona, Hannover, Siviglia e in Svizzera nei pressi del lago di Neuchatel, firmati da Gabriele Basilico, Marco Introini, Claudio Sabatino, Claudio Gobbi e Maurizio Montagna. La mostra, che verrà inaugurata oggi alle 18,30 alla Triennale, è una geniale provocazione culturale, promossa dall’Ordine degli Architetti di Milano per spingere la città alla riflessione. E porsi qualche domanda su cosa resterà a Milano dell’Expo dopo il 2015. Prima che sia troppo tardi.

Spiega Franco Raggi, architetto, curatore della mostra: «Queste immagini illustrano meglio di tanti discorsi come le ambiziose architetture realizzate per i grandi progetti fieristici debbano fare i conti con il "dopo". E come sia cruciale fare previsioni di riutilizzo o di dismissione se non si vogliono lasciare sul terreno eredità fisiche, architettoniche e urbane separate e sconnesse dalle complesse realtà urbane che le hanno ospitate. E riflettere se al posto del vecchio, anacronistico modello, di esposizione universale, gigantesca, fisica e muscolare, non sia meglio immaginare soluzioni più leggere, diffuse su tutto il territorio della città». «Cosa lascerà a Milano l’Expo nel 2016? - si domanda Daniela Volpi, presidente dell’Ordine degli Architetti. - Per rispondere a questa domanda abbiamo organizzato una serie di incontri che si concluderanno con una discussione generale in Triennale mercoledì 3 giugno, alle 21,15».

Le realtà delle cinque città in mostra sono diverse tra loro. Le esperienze di Hannover, del 2000, e di Saragozza, nel 2008, restano le peggiori. Quelle dove maggiormente risalta il senso di abbandono a loro stesse di immense aree urbane. Un po’ meglio il caso di Siviglia, del 1992. Qui l’Expo consente almeno di dotare la città di infrastrutture di cui era priva. Mentre l’esperienza più riuscita appare quella di Lisbona, nel 98, realizzata in un’area lungo il fiume Tago, di cui restano opere interessanti come la grande stazione Oriente realizzata da Santiago Calatrava, l’Expo e la città e l’acquario marino. Un caso completamente a parte, invece, è l’esposizione Suisse, del 2002. Qui gli edifici sono stati interamente smontati dopo la manifestazione. E il paesaggio è tornato a essere quello che era prima. «Un intervento forse fin troppo leggero - commenta Franco Raggi. - Perché un’Expo può essere invece un’occasione per lasciare qualche segno architettonico positivo».

Sul tema dell’Expo 2015 la Fondazione Corrente di Milano ha dato vita a una mostra e a tre incontri sul tema expossible? Un'altra Expo è possibile? in cui sono intervenuti Fulvio Papi, Antonello Negri, Jacopo Muzio (curatore del ciclo) Steve Piccolo, Toni Nicolini, Gianni Beltrame, Empio Malara, Francesco Memo, Giancarlo Consonni e Claudio Onorato.

L'Expo non può essere considerata un’occasione per dare ossigeno a un modello di sviluppo che, nella crisi, mette drammaticamente in luce la sua insostenibilità. Il tema dell'Expo – Nutrire il pianeta. Energia per la vita – è veramente fecondo e di interesse mondiale. Il comitato scientifico ha lavorato bene sul terreno dei contenuti e, a questo punto, insistere sulla diatriba Expo-sì/Expo-no risulta sterile. Semmai bisogna adoperarsi perché l’Esposizione sia realizzata in modo che i contenuti non vengano traditi da scelte irresponsabili che comportino ulteriori devastazioni di un territorio e di un paesaggio già fortemente degradati. Per questo occorre chiedere con forza 1) che si costituisca quanto prima un'assise in cui si raccolgano e confrontino varie proposte progettuali, 2) che, in ogni caso, il progetto che si intende realizzare venga sottoposto a una valutazione pubblica avendo come interlocutore diretto anche il Bie (Bureau International des Expositions).

Occorre coinvolgere nell’Expo istituzioni, organismi, luoghi e paesaggi così da fare della manifestazione non un intervento/evento separato dal contesto ma un’occasione per valorizzare elementi qualificanti della città e della regione ospitanti e per mostrare effetti di politiche virtuose e buone pratiche in coerenza con il tema dell’esposizione.

Va in questo senso anche l'appello di Emilio Battisti e Paolo Deganello:

Perseguire la coerenza fra contenuti e modi di realizzazione dell’Esposizione significa dare risposta alla seguente domanda: come si presentano Milano, la Lombardia e l'Italia all’appuntamento del 2015? Sapranno essere all’altezza mostrando i risultati di politiche in linea con i problemi al centro della manifestazione, oppure il tema è solo uno specchietto per le allodole mentre il vero cuore dell'operazione è rappresentato dalle speculazioni immobiliari? Non ci sono scappatoie: le amministrazioni locali (Milano, Provincia e Regione) e il Paese ospitante devono dimostrare di saper organizzare una manifestazione in modo coerente con il tema proposto su un doppio versante: il suo assetto e il suo lascito.

La decisione di occupare un'area agricola per ospitare l'Expo 2015 rappresenta già una forte incrinatura nella coerenza.

Si obbietterà che in questo caso l’amministrazione del capoluogo lombardo cerca di fare i conti con il lascito permanente dell’intervento temporaneo. Ma lo fa a suo modo, imbastendo un’operazione in due tempi:

1) lo spostamento dell'Ortomercato a Rho/Pero sul sito occupato dall'Esposizione Universale, una volta conclusa la manifestazione;

2) la nascita della cosiddetta “Città del Gusto” sulle aree liberate dall'Ortomercato e date in contropartita all’immobiliarista Cabassi che, bontà sua, mette a disposizione l’area agricola scelta per l’Expo.

Lo scambio è senza alcuna contropartita sostanziale per l’interesse collettivo. L’amministrazione comunale di Milano si accontenta di innescare un processo su una linea seguita da tempo: espulsione nella periferia metropolitana di funzioni “vili” (con occupazione di suolo agricolo) e accentramento di attività ritenute qualificanti. Tra gli effetti che non vengono messi in conto c’è il dilatarsi degli spostamenti obbligati dei clienti dell’Ortomercato: un onere aggiuntivo permanente in termini di tempo e di costi di trasporto che avrà contraccolpi negativi soprattutto per la piccola distribuzione (negozi e banchi dei mercati rionali). Tutto il contrario dell’obbiettivo da più parti sbandierato di accorciamento delle filiere nell’approvvigionamento alimentare (un tema questo che, c’è da scommettere, sarà fra le parole d’ordine dell’Expo).

La “Città del Gusto” è perfettamente in linea con un insieme di diverse altre operazioni di trasformazione urbana all’insegna della speculazione immobiliare. Va in questo senso la proposta di spostare l’Ippodromo su aree del Parco Sud-Milano (così da realizzare nell’attuale sede un nuovo quartiere di lusso), per non dire del recupero degli Scali ferroviari. Operazioni considerevoli che si aggiungono a quelle da tempo approvate e che si apprestano a essere realizzate sull’area dell’Ex-Fiera e sull’area Garibaldi-Repubblica. Questa massa gigantesca di volumi edificabili autorizzano l’assessore all’Urbanistica Masseroli a parlare di una crescita programmata di 700.000 mila abitanti per la città di Milano. Una scelta rivoluzionaria, se fosse credibile; ovvero se le nuove abitazioni del capoluogo fossero immesse sul mercato a un prezzo in grado di competere con la produzione edilizia dell’hinterland strettamente intrecciata con la fuga di popolazione da Milano (oltre mezzo milione di abitanti).

In realtà si perseguono contemporaneamente la disseminazione degli insediamenti e la iperdensificazione delle aree pregiate. Per chi attualmente ha responsabilità di governo del territorio il controllo della tendenza insediativa è l’ultima delle preoccupazioni. L’unico obiettivo è sostenere la speculazione edilizia ovunque e comunque. Siamo a un liberismo privo di un qualsiasi obiettivo sociale e che punta sulla crescita ad ogni costo con l’idea conclamata, e tutta da dimostrare, che ne deriverebbero benefici per tutti.

Nel contempo sia a Milano che nell’hinterland metropolitano cresce a vista d’occhio l’invenduto e lo sfitto, ma questo non sembra indurre a ripensamenti. Il Pgt del capoluogo mette in campo la realizzazione di quantità spropositate di residenza e uffici dando per scontato che gli operatori immobiliari si rivolgano a una fascia sociale alta (o molto alta). I prezzi di mercato arrivano ormai fino a oltre 4 volte il costo di costruzione. Si assisterà dunque inevitabilmente a un ulteriore allargamento della forbice fra offerta e domanda. Per ora il ‘castello’ si regge, per una fetta, sul sostegno delle banche (il cui portafoglio è pericolosamente appesantito dall’esposizione verso il settore immobiliare) e, per un’altra, sull’apporto di capitali di provenienza illecita capaci di reggere immobilizzi infruttiferi di quote spropositate di capitali per periodi molto lunghi.

Si fa sentire la sostanziale mancanza di lavoro critico da parte delle istituzioni di ricerca (le autocelebrate università milanesi) così come si è del tutto dissolta l’opera di sorveglianza dei maggiori quotidiani. La stampa si fa anzi cogliere con le dita nella marmellata: forme di pubblicità occulta, come quella contenuta per esempio in un recente servizio che dava notizia di 800 prenotazioni per l’acquisto di appartamenti di lusso (ancora sulla carta) nei mostruosi grattacieli in programma per l’area dell’ex-Fiera. Come a dire: «Correte ad accaparrarvi gli attici più prestigiosi dagli ottomila-dodicimila euro al metroquadro».

Tutto questo mentre assai poco si fa per rispondere alla domanda di edilizia sociale unanimemente riconosciuta come un’emergenza. Molti pubblici amministratori preferiscono continuare a giocare con la bolla immobiliare sull’orlo di un baratro.

Del tutto sottovalutato è il problema dell’accessibilità al luogo scelto per l’Expo. Si preferisce stupire come in uno spettacolo di magia. Un primo coniglio estratto dal cappello è la nuova “Via d'acqua” pensata per collegare la Darsena milanese con il sito della esposizione. I proponenti non si sono nemmeno posti il problema da dove attingere l’acqua (visto che non può certo scorrere in salita) né di come superare il dislivello fra Milano e Rho/Pero, per non dire dei guasti prodotti sui luoghi attraversati. Con lo slogan «Potrete raggiungere Rho, la Fiera e l'Expo in battello!» si punta su scenari alla Disneyland per un popolo non di cittadini, ma di bambinoni di ogni età.

Ma il culmine della devastazione prossima ventura può venire dal secondo coniglio estratto dal cappello: il tunnel sotterraneo di collegamento tra Rho-Pero e l'aeroporto di Linate. Di quest’opera faraonica si celebrano il basso impatto sull’ambiente e il paesaggio. Come se le emissioni delle auto non venissero comunque sparate nell’aria e come se le 8 uscite previste con tutti gli svincoli connessi non producano ferite rilevanti. Si tratta in realtà di un vero e proprio Passante automobilistico. L’intento non dichiarato è infatti collegare la Brebemi (di prossima realizzazione) con le autostrade a Ovest e a Nord-Ovest di Milano.

Nessun investimento significativo è invece destinato al miglioramento effettivo della mobilità metropolitana, quando il potenziamento del sistema delle ferrovie regionali (non solo radiali sul capoluogo) sarebbe, questo sì, un bel lascito dell’Expo in un contesto al collasso.

Ma vale la pena tornare sulla scelta dell’area. Un città e una metropoli che avessero un piano di riassetto territoriale farebbero dell’Expo una risorsa per la sua realizzazione. Nell’operazione Expo entrerebbero progetti di riqualificazione urbana e metropolitana, di valorizzazione dei beni culturali e di rilancio dell’agricoltura conservativa. Oltre alla parte espositiva concentrata in uno specifico insediamento, andrebbero predisposti degli itinerari complementari in cui far entrare il sistema delle abbazie, delle cascine, delle ville e dei centri storici dell’hinterland milanese.

Per quanto si è potuto vedere l’Expo del 2015 è concepito solo in termini anti-urbani. Lo dicono la scelta localizzativa messa in campo e quanto si è visto nelle restituzioni virtuali del gruppo 5+1.

In netta alternativa a questa impostazione si dovrebbe puntare sulla saldatura fra la dimensione metropolitana e quella urbana. Per raggiungere questo obiettivo il progetto Expo andrebbe pensato in chiave ‘archeologica’. E mi spiego. La struttura dell’esposizione andrebbe concepita in un’ottica di disegno urbano, avendo cura di assicurare il pronto adattamento e riuso di quanto prodotto per la manifestazione temporanea, almeno quanto all’impianto. Per questo la sfida è pensare contemporaneamente un complesso atto a ospitare l'esposizione e facilmente trasformabile in un pezzo di città integrato ad altre parti urbane e dotato di un’elevata accessibilità. Solo dando vita a una parte di città non si sarà sprecato denaro pubblico e si eviterà che il giorno successivo le strutture che hanno ospitato l’Expo, alla chiusura della manifestazione, si trasformino in un cimitero.

In questa prospettiva, invece di dislocare l’Expo in un’area agricola, andrebbero vagliate attentamente le opportunità offerte dalle maggiori aree industriali dismesse. Si pensi a un’area come quella delle ex-Falck di Sesto San Giovanni le cui dimensioni si avvicinano a quelle richieste per l’Expo. Se fossero attrezzate per ospitare la manifestazione, l’aree ex-Falck potrebbero ricevere un impulso per il recupero che difficilmente potrà arrivare da un progetto come quello redatto da Renzo Piano (un progetto di impronta vetero-corbusiana, ovvero concepito in una logica post-urbana).

In conclusione, le scelte relative all’Expo vanno valutate sulla base di questa alternativa: attivano processi di riqualificazione urbana e rurale, rilanciando lo spazio del convivere e la difesa dei paesaggi o puntano a creare concentrazione disurbane (con consumo di suolo agricolo e investimenti infrastrutturali che non migliorano il quadro della mobilità)?.

Il tema dell’Expo milanese sarebbe incentrato sull’agricoltura e l’alimentazione, sui beni primari per l’umanità. Sarebbe, scrivo, perché osservando gli avvenimenti di Milano e dintorni si notano piani e realizzazioni estranei al tema, anzi rivolti a contrastarlo, a seppellirne le motivazioni originali, a ingannare chi avesse imprudentemente dato fiducia ai promotori, invece sospettabili truccatori di carte. Ora il quadro è in piena luce. Basta radunare le informazioni della stampa negli ultimi mesi, basta aggirarsi in eddyburg fra gli articoli, la posta, gli interventi per sapere che la realtà corre verso un’Expo marchiata da edificazione speculativa intensa come mai: che significa cancellazione di territori agricoli e di aree urbane libere vincolate a verde o a servizi sociali, cementificazione di aree ferroviarie dismesse, costruzione esorbitante di strade e autostrade pura violenza verso spazi agrari irrigui e paesaggi di campagna storica. Altro che opposizione al consumo di suolo dichiarata anche da sindaci, assessori e presidenti. Edificazione distruttiva come moderna rapallizzazione metropolitana (conventrizzazione significò difatti totale distruzione), devastazione di quelle risorse che il falso programma Expo indica destinate ad assoluta tutela e forte aumento. Tutto questo per decisione delle istituzioni pubbliche, Regione, Comune di Milano, certi altri comuni, persino Parco Sud e Provincia di centrosinistra sebbene quest’ultima cerchi di coprire il consenso alla speculazione immobiliare nel Parco trascinata dall’operazione Cerba (Centro europeo di ricerca biomedica avanzata) rivendicando presunte cautele ambientali del nuovo Ptcp. Ad ogni modo la solida piattaforma per tutte le operazioni è l’accordo con i maggiori immobiliaristi e proprietari fondiari, che consiste nelle loro proposte e immediata accettazione degli enti, capintesta la giunta morattiana. Come fa da tre lustri, Milano continua a precedere le proposte di legge urbanistica in parlamento (ce ne sono quattro compresa la vecchia Lupi) basate sull’impari negoziazione fra i privati e l’ente pubblico. E tutto questo indipendentemente dagli effetti della definitiva deregolamentazione voluta oggi dalla destra (solo?) attraverso il dissennato “piano casa”.

D’altronde. Non sono terreni agricoli vincolati quelli su cui sorgeranno le opere dell’esposizione? Non sarà tolto il vincolo affinché a manifestazione terminata i proprietari costruttori Ligresti e Cabassi portino a conclusione l’affare rimpinzando di cemento gli immaginati poveri del mondo cui l’expo destinerebbe il buon cibo propagandato in figura?

Panorama metropolitano disastroso rispetto ai principi e modelli che stanno a cuore a eddyburg, all’urbanistica in cui abbiamo creduto, alla battaglia senz’armi sufficienti (p. es. bravi politici alleati) che cerchiamo di combattere in difesa del piccolo residuo di giustezza e bellezza nel territorio aperto e nelle città. Eppure, avendo studiato la condizione dell’area milanese e la sua trasformazione, avendo assistito al tradimento della mirabile costituzione storica valsa fino alla guerra (territorio policentrico, centri urbani e centri rurali divisi da ampie fasce di terreni agricoli), ho provato a riguardare insieme a bravi giovani la metropoli d’oggi nella parte esterna alla città centrale, ossia il territorio che definiamo nuova periferia per distinguerla anche nominativamente dalla periferia urbana storica addossata e compenetrata alla parte consolidata della città. Insomma l’hinterland, il circondario “dei cento comuni” attorno a Milano. Riguardo al problema del verde agrario preteso e tradito dall’Expo proponiamo, in maniera semplificata ma non astratta, un nostro modello d’azione utopica come potendo da subito far cessare la colata di materia edile che appunto sta colando dappertutto. Questa corona circolare intorno alla città centrale può essere esaminata secondo due semi corone molto diverse.

Semi corona settentrionale: la sua condizione storica contraddistinta da agricoltura povera su terreni asciutti e poi, anche per questo, da vocazione industriale accompagnata da un fitto sistema infrastrutturale non ha consentito, per così dire, alcuna difesa dalla gigantesca trasformazione degli anni Cinquanta e Sessanta, dalle ulteriori espansioni e dagli incessanti tumulti edificatori pervasivi, inoltre dalla complicità degli enti pubblici e compiacenza di troppi urbanisti. Qui è il mondo del più spiaccicato sprawl.

Semi corona meridionale: la permanenza di agricoltura irrigua intensiva e più tardi anche la creazione del Parco hanno preservato in buona parte la struttura policentrica e di conseguenza il vasto spazio aperto. Non si sono instaurati gli stessi processi che a nord, quelli costituiti da migliaia di episodi edilizi; l’agricoltura forte è servita a evitare il rivestimento edilizio della terra come se la città centrale esplodesse. Tuttavia si sono insediati sparsi fronti edificatori particolarmente aggressivi. Il policentrismo storico è ancora riconoscibile, il territorio evidenzia ancora il valore dell’agricoltura di tradizione capitalistica, ma certe violenze dotate di supporti nuovi hanno provocato conseguenze laceranti. Qua e là si è assistito al passaggio non da una produzione a un’altra (da agricola povera a industriale) ma da agricoltura altamente qualificata, seminativo irriguo di forte produttività, a grandi insediamenti terziari o residenziali sostenuti dalla finanza dei misteri. Il primo fu l’incredibile insediamento di Sesto Ulteriano (San Donato), un’accozzaglia di duecento capannoni, per lo più magazzini deserti, cittadella di stoccaggio che dobbiamo attraversare quando vogliamo andare dall’abbazia di Chiaravalle a quella di Viboldone. Apparve l’insensato Quartiere Zingone a Trezzano sul Naviglio. Piombò il fallimentare complesso “Girasole” sulla campagna di Lacchiarella. Cabassi realizzò i torvi benché colorati fabbricati per uffici ad Assago detti “Milanofiori” (ora sappiamo che vuole aggiungere lì, in quella campagna, una “Milanofiori 2”). Il fratello di Berlusconi fondò “Milano 3” per 10.000 abitanti surclassando il piccolo comune di Basiglio e i suoi antichi campi irrigui. Ligresti costruì diversi gruppi di edifici alti per uffici con i due ultimi piani abusivi. Altro seguirebbe nell’elenco. E i nuovi pericoli dovuti alla liberalizzazione diciamo istituzionale di aree vincolate in comuni del Parco? Dobbiamo però sapere che sono i processi strutturali a provocare i danni irreversibili. Infatti la trasformazione consiste nell’abolizione di fior di aziende capitalistiche o a conduzione diretta efficiente a causa della proprietà già caduta nelle mani di potenti società immobiliari.

Nel territorio dello sprawl (e anche nelle sacche meridionali di forte espansione edilizia, per esempio Rozzano), non è possibile in quasi tutto lo spazio il rilancio di un’agricoltura per un’effettiva produzione. Tuttavia resistono in zone ancora irrigate, soprattutto a est verso l’Adda, modesti assetti aziendali non del tutto degradati. Qui potrebbe fondarsi una ripresa agraria al fine di custodire il paesaggio storico, opporre fronti produttivi alla devastazione dell’ambiente in qualsiasi modo possa essere minacciata. (Dicono che in urbanistica e in edilizia noi siamo il partito del no. Di certo, lo siamo, e dovremmo rafforzarne il principio. Il modello utopico si basa sul blocco completo delle costruzioni in tutte le aree libere del circondario milanese in esame). Invece nella parte più diffusa e confusa della conurbazione la terra libera si distingue da una parte per poche ma non trascurabili aree dove la vecchia coltivazione ridotta a gerbido non potrà più riprendere vigore, da un’altra per numerosissimi interstizi fra le edificazioni e le infrastrutture, specie fra i confini irriconoscibili di insediamenti dotati degli antichi nomi comunali. Il programma utopico consiste nella determinazione di una politica del grande verde per gli spazi privati e pubblici. Un piano totalizzante e preciso per una vasta piantumazione. Salvate le aree aziendali ancora adatte al seminativo irriguo (est/sud-est della semi corona) costruiamo l’architettura di una foresta metropolitana partendo da masse alberate erette nelle aree a gerbido, proseguiamo l’impianto in tutte le superfici interstiziali libere, inseriamolo poi capillarmente nell’edificato più o meno aggregato dei comuni come filare di strade o magari boschetto urbano in angoli dimenticati. Un fiume selvoso con i suoi emissari, sia per crescita da piante pioniere secondo proposta degli agronomi sia per applicazione di un disegno geometrico a griglia o a linea. Spetterà agli agronomi la scelta delle essenze, specialmente riguardo alle piante pioniere. Per noi sarebbero benvenuti dappertutto alberi come quelli più resistenti e belli di Milano, parte di quei centosessantamila sopravvissuti alla guerra del traffico, dello smog, degli impresari edili, della stessa amministrazione comunale: platani, bagolarie, aceri, ippocastani. Quanti? Non possiamo conoscere il totale degli spazi liberi nei comuni. Calcoliamo la possibilità di piantarne almeno cinquecento per ettaro di terra nuda e uno ogni quattro metri al massimo nei filari. Valutando un modesto incremento della superficie grazie ai margini meno compromessi di nord ed est, è plausibile un obiettivo di un milione di piante, unica possibilità di parziale riscatto del territorio in causa. Sarebbe interessata una superficie complessiva di circa duemila ettari in una miriade di episodi, però realmente o idealmente collegabili fra loro. Poco, rispetto alla semi corona settentrionale dell’hinterland? O troppo, rispetto al fastidio istituzionale (e popolare?) verso le piante, i boschi, i viali alberati, i parchi, i giardini?

Per il territorio meridionale il progetto utopico non lo è troppo giacché non può che scegliere la strada dell’incondizionata protezione del paesaggio agrario esistente, salvo applicare il medesimo modello di piantumazione nei luoghi contrassegnati dai citati insediamenti ivi caduti come estranei ultracorpi dallo spazio. Il progetto significa qui riscoperta e rilancio dei valori di un’architettura proveniente dalla vocazione umana alla lavorazione della terra in maniera coerente alle risorse naturali o reperite, e dalla costituzione dei suoi fondamenti strutturali (aziende capitalistiche o a conduzione diretta su fondo di misura adeguata). Cos’era una marcita dagli undici sfalci annuali se non un eccezionale esempio di architettura del suolo e dell’acqua? E vuol dire difesa e sostegno delle aziende la cui attività assicurano produzione e produttività, restauro degli spazi agrari, partecipazione dell’agricoltura alla vita della metropoli. Questo è il nodo non da sciogliere ma da tener ben stretto: appartenenza necessaria del paesaggio agrario alla metropoli, solidità del principio che se la metropoli lo interiorizza, così come interiorizza la foresta, salva la parte residua ma importante della propria storica conformazione policentrica indispensabile alla sua stessa vita.

Da una parte la forestazione, dall’altra l’agricoltura vera, non imbalsamata quale mera reminiscenza, avanzano come il bosco del Macbeth per abbattere gli schemi concettuali e le abitudini progettuali che contraddistinguono l’urbanistica e l’architettura divise e subalterne ai loro committenti pubblici e privati: considerare l’espansione edilizia “sviluppo”, misurare gli spazi liberi agrari e no come “vuoti” da riempire. È lo spazio aperto vivo, vegetale, non degradato che può impedire la fine della metropoli. Il problema sollevato dall’economista statunitense Henry George centoventicinque anni fa si è enormemente aggravato e descrive la nostra mortale separazione dal paesaggio naturale o umanizzato: “Le numerose popolazioni di queste grandi città sono del tutto frustrate dei gradevoli influssi della natura. La maggior parte di esse non riesce mai, tra un anno e l’altro, a camminare sulla terra” (1884).

Milano, 15 marzo 2009

Il progetto «Cerba» (Centro europeo di ricerca biomedica avanzata), il polo della scienza e della salute a Sud di Milano, ingrana la quinta. L’approvazione dell’accordo di programma, ieri, da parte della giunta regionale, apre la fase operativa per realizzare la cittadella per la scienza nel cuore del Parco Sud: un grande unico istituto di ricerca che guarda alla medicina molecolare e tanti istituti di cura come satelliti intorno (l’oncologico Ieo, il cardiologico Monzino e l’Istituto europeo di neuroscienze).

E sono i numeri (cifre a sei e a nove zeri) a fotografare la portata del progetto: un miliardo e 226 milioni di euro il costo, che sarà interamente a carico di privati; 620 mila metri quadri l’area interessata, adiacente al l’Istituto europeo di oncologia, oltre la metà della quale di parco attrezzato e aperto al pubblico; 45 mila ricoveri previsti al­l’anno, 800 mila visite ambulatoriali; un accesso previsto di 19 mila persone al giorno; 5 mi la operatori e quasi altrettanti posti di lavoro dall’indotto sul territorio. Infine, 500 scienziati. «Milano si candida a divenire la capitale della ricerca bio medica », ha commentato con orgoglio il sindaco Letizia Mo ratti.

«Capitale europea se non mondiale», ha aggiunto il presidente della Regione, Roberto Formigoni, ricordando che «questo è il secondo progetto che abbiamo fatto partire in un mese, dopo la Città della salute. Un progetto che avrà anche positive ricadute economiche e sociali ».

Due le fasi di realizzazione: la prima entro il 2013 punta a realizzare più del 50% delle strutture di diagnosi, cura e ricerca. La seconda fase, tra il 2013 e il 2018, prevede il completamentodelle strutture e la riorganizzazione viabilistica per raggiungere il centro. E che dire dell’emozione del professor Umberto Veronesi, che del Cerba è l’anima: «Per me questo è un sogno realizzato, dopo 10 anni di un faticoso percorso. Richiameremo 'cervelli' da tutto il mondo. L’idea del Cerba— ha spiegato — è del tutto originale. Con la decriptazione del genoma umano è stata rivoluzionata la medicina tradizionale. Ormai si è nell’era della medicina molecolare e la separazionetra malattie oncologiche, cardiovascolari e neurologiche non ha più senso. Nella medicina molecolare il sapere è in continua evoluzione e s’impongo no la centralizzazione della ricerca e la personalizzazione di diagnosi e terapie».

Con Cerba si realizza una struttura unica, dove l’hardware e il software, macchine costosissime e i migliori cervelli, lavorano senza dispersione di ri sorse. E dove è trainante una visione olistica della medicina «che cura l’uomo non la malattia ». Sogno che non si sarebbe realizzato, ha precisato Formigoni, senza quei metri quadri di verde messi a disposizione da Salvatore Ligresti, che — come recita l’accordo di programma — non consegnerà semplicemente degli ettari di Parco agricolo alla Provincia ma ne farà «un parco attrezzato, come opera di compensazione e riqualificazione ambientale», aperto al pubblico, sobbarcandosi anche i costi per la realizzazione (18 milioni di euro) e la gestione per 30 anni (25 milioni di euro) dello stesso. Infine, onore al merito delle istituzioni, con Regione e Comune, la Provincia: «Chi ha progettato il Cerba (l’architetto Stefano Boeri, ndr) —ha spiegato l’assessore all’ambiente di Palazzo Isimbardi, Bruna Brembilla — ha pensato a cosa significa inserire una simile realtà in un terreno fragile e prezioso come questo Parco».

postilla

Il dispiegamento ideologico dell’articolo è tanto militarmente compatto quanto prevedibile. Dalla descrizione dei vantaggi del progetto per l’umanità tutta (vantaggi che, come implicitamente si suggerisce, sarebbero stati impossibili in posti diversi e con meno metri cubi), all’assicurazione che quello sarà, come dice già il titolo, un “maxiparco”. Peccato che il maxiparco sia esattamente la cosa sopra la quale verranno a posarsi i contenitori grandi a sufficienza per ospitare quei ricercatori e aspiranti ricoverati che accorrono da tutto il mondo. La bella operazione di landscaping circostante, ora decantata, è quanto la proprietà (Ligresti, dicono) ha sinora impedito in tutta l’area, boicottando anche le aziende agricole che volevano fare il proprio mestiere di ordinaria manutenzione del territorio (lo hanno raccontato inchieste della stampa, non le leggende metropolitane). Dulcis in fundo, l’assessora provinciale non perde l’occasione per rifilarci l’ennesima interpretazione di urbanistica partecipata d’élite, ovvero quella a cui partecipano due o tre persone al massimo. Scelte fra le più qualificate, naturalmente. Per verificare che il Cerba con tutti i suoi metri cubi sia inserito al meglio nell’ambiente, non servono quei farraginosi e obsoleti strumenti della tradizione stalinista, come scelte localizzative discusse, valutazione di alternative, inserimento in uno schema di area vasta: macché. Basta il fatto che il sensibile architetto, ci assicurano, “ha pensato”. Ah beh, allora siamo a posto. (f.b.)



QUI una sommaria descrizione del progetto e qualche link

C’è una città abbandonata dove nessuno abita, lavora, vive. È la Milano vuota, fatta di 30 mila case sfitte, di interi palazzi di uffici disabitati, di quasi un centinaio di stabili deserti, con un milione di metri quadrati di scali ferroviari dismessi e 685mila metri quadrati di aree ex industriali non riconvertite. Una Milano da ripensare e da riutilizzare per coprire la fame di spazi e case senza consumare ancora territorio con nuove costruzioni. Anche con incentivi fiscali per favorire l’affitto e cambi di destinazione d’uso più facili e fluidi, dicono gli architetti Boeri e Battisti.

Una città vuota, con circa 30mila appartamenti sfitti e almeno un centinaio di interi edifici abbandonati. Una città che occupa suolo prezioso, ma che nessuno abita e dove nessuna attività fiorisce. Un contenitore senza alcun contenuto. Migliaia di metri quadrati di ex fabbriche in disuso, appartamenti senza locatari. È la Milano abbandonata. Da ripensare. Per tanti architetti, come Stefano Boeri, anche un patrimonio sprecato su cui bisogna intervenire nella città che ha fame di case.

In città sono circa un milione i metri quadrati occupati da scali merci ferroviari da riconvertire - Farini o Romana, per citarne solo un paio - mentre altri 685mila sono coperti da aree industriali dismesse e non rigenerate. E ancora: su 677mila appartamenti in città, il 4 per cento non è abitato. Che fa circa 30mila case abitabili ma sfitte (anche se qualcuno stima che siano anche di più). E dei 47mila edifici privati censiti, alcuni adibiti ad uffici sono interamente non affittati. Mentre il Comune ha già stilato una lista di edifici completamente vuoti e in disuso, sia pubblici che privati, grandi e piccoli: sono 88. Ex scuole - in piazzale Abbiategrasso, via Baroni, Narni, Spadini - ex caserme (come quella, immensa, di viale Forlanini al 37). Ma ci sono pure l’ex galoppatoio di via Fetonte, l’ex mercato del pesce di via Sammartini, l’area ex Martinitt di via Pitteri, piuttosto che le cascine di via Anassagora, Canelli, Molinetto di Lorenteggio. Un patrimonio enorme, lasciato lì a deperire, con la fame di case e spazi di cui soffre Milano.

«Gli uffici sfitti in città sono pari a 30 grattacieli Pirelli vuoti - ripete l’architetto Stefano Boeri - . Lo sfitto nel residenziale è dovuto alla sfiducia e alla paura, ma se la cosa è gestita in maniera intelligente, con agenzie di immobiliare sociale in cui si fanno contratti che danno garanzie ai proprietari, si può sbloccare. È successo a Barcellona dove con questa formula si sono rimessi in campo 20mila appartamenti. A Torino, 1800. Invece per gli uffici c’è un eccesso di offerta rispetto alla domanda. Bisogna intervenire rendendo più fluida la destinazione d’uso, ora troppo rigida, per favorire i cambi di destinazione e arrivare a forme di residenzialità mista in cui convivano il piccolo artigiano, il laboratorio, il loft, l’abitazione. Così era, una volta, il tessuto di Milano». Ma con tutto quel che c’è di costruito e non utilizzato, ha senso costruire ancora? «Per me non ha senso costruire fuori dalla città, il modello di sviluppo di Milano sta dentro il suo perimetro, senza consumare suolo - conclude Boeri - . E l’Expo dovrebbe favorire l’utilizzo dell’edilizia esistente».

Per l’architetto Emilio Battisti «i numeri di questo patrimonio non utilizzato sono enormi. Se fosse valorizzato potrebbe contribuire a calmierare il mercato degli affitti troppo alti, una delle cause di abbandono della città. Bisognerebbe tassare pesantemente chi tiene sfitto o, per contro, offrire incentivi fiscali per affittare». Anche per Battisti «è assurdo di fronte ad un patrimonio di questa entità pensare di costruire ancora. L’Expo, per esempio, dovrebbe essere portata in città anche per attirare i giovani, invece di edificare insensati padiglioni a Rho-Pero». «Il fabbisogno di alloggi è di 70mila unità a Milano - aggiunge Stefano Chiappelli, segretario del Sunia - ma anche noi ci rendiamo conto che non si può cementificare la città. Bisogna utilizzare il patrimonio esistente, tutto quello che è a disposizione deve essere recuperato e usato. Ed è necessario mettere al centro di tutto l’affitto, con politiche fiscali premianti. La cedolare secca del 20 per cento sul reddito derivante da locazione, per esempio, e la possibilità, per l’inquilino, di detrarre dalle tasse una parte dell’affitto».

Per una coppia di sposini entrare finalmente nell'appartamento nuovo di zecca, prenotato da anni e comprato con il mutuo, dovrebbe essere una festa. Invece Caterina, nata e cresciuta a Porta Romana, commessa in Corso Como, un'Ornella Muti da giovane, più si avvicina la data del trasloco a Santa Giulia più si intristisce. «In quel deserto non ci voglio andare». Non sono capricci, quelli di Caterina (che non è un personaggio di fantasia, ma la figlia della portinaia del palazzo dove abito). Al quartiere Santa Giulia ci sono una ventina di palazzi e la nuova sede di Sky. E intorno c'è davvero il deserto: migliaia di metri quadrati di gibbosa terra battuta, non un filo d'erba, due pozze d'acqua scura su cui svolazzano i gabbiani-spazzini, unico collegamento con il resto del mondo la strada che porta al vecchio quartiere di Rogororedo e alla stazione della ferrovia e della metropolitana. Bisogna fare un chilometro per comprare il pane, altrettanto per buttare via il sacco della spazzatura. Perchè a Santa Giulia non si saprebbe dove piazzarli i cassonetti, parecchie vie che corrono tra i palazzi non sono ancora asfaltate. Per farla breve: nei 1.887 alloggi occupati dai primi pionieri lo scorso autunno arrivano acqua, luce e gas. Tutto il resto manca. Gli abitanti, che ora sono 3 mila, a regime diventeranno 5 mila. «Siamo tipi pacifici», assicura Andrea Cottica, portavoce del Comitato di quartiere Santa Giulia. Ciò nonostante sospettiamo che se qualcuno dei 5 mila inciampasse per caso in Luigi Zunino, dall'incontro l'immobiliarista-finanziere uscirebbe più ammaccato che da un summit con le banche creditrici. Che lo tengono artificialmente in vita per non rimetterci le paccate di soldi che gli hanno improvvidamente prestato.

Il quasi-fallimento di Zunino - indebitato per (almeno) 3 miliardi di euro - spiega il deserto di Santa Giulia. Il nome l'ha coniato l'ex vitivinicultore piemontese per rendere più glamour il progetto che prima si chiamava Montecity-Rogoredo, da realizzare su 1 milione e 200 mila metri quadrati dismessi dalla Montedison e dall'azienda metalmeccanica Redaelli (siamo nel quadrante Sud-Est di Milano). Risanamento spa, la finanziaria di Zunino, aveva fatto le cose in grande: un centro congressi da 8 mila posti, l'Ellisse (residenze lussuose disegnate dall'archistar Norman Foster all'insegna della domotica, delle nuove tecnologie e del parquet di rovere), parchi, giardini, scuole, alloggi per studenti, promenade commerciale, centro benessere, metrotramvia, hotel, una chiesa, parcheggi in superficie e sotterranei, svincolo della tangenziale, bretella con la Paullese. Ci saremo anche noi, annunciavano Rinascente, Esselunga, Virgin, Dolce&Gabbana... Cinque anni dopo gli unici a «esserci» sono la sede di Sky e i palazzi costruiti in edilizia convenzionata o libera dalle cooperative del consorzio "Le residenze". Questi ultimi sorgono nel pezzo di area che, in base all'accordo di programma, Zunino ha ceduto per realizzare abitazioni a prezzi abbordabili (tra i 2.500 e i 3 mila euro al mq). Gli oneri di urbanizzazione per "Le residenze" sono ovviamente a carico di Risanamento. Ma Zunino è talmente alla canna del gas da non avere neppure la somma (relativamente) modesta per asfaltare le strade, fare un po' di parcheggi, costruire un asilo. I lavori sono stati bloccati per otto mesi. Ed è qui che si è fatto sentire il Comitato di quartiere Santa Giulia. Assemblee, un forum on line, incontri a palazzo Marino e - colpo da maestri - un video su Youtube che mixa le immagini di Santa Giulia com'è con i "render" promozionali di Santa Giulia come avrebbe dovuto essere. «Santa Giulia sarà un coacervo di stili di vita, ci sarà il lavoro, ci sarà la famiglia, ci sarà il tempo libero, ci sarà vita 24 ore al giorno», recita una voce impostata. Interrotta da foto di strade inesistenti, sbarre, cantieri deserti, pozzanghere, scavi lasciati a metà.

«Qualcosa abbiamo ottenuto», dice Andrea Cottica. Il Comune, che fin qui aveva fatto il pesce in barile, è stato costretto a svolgere la sua parte quanto meno di stimolo e di controllo. I lavori sono ripresi ed entro la fine dell'anno dovrebbero essere ultimati la via pedonale che attraversa "Le residenze", i parcheggi di pertinenza e l'asilo. «Ma noi siamo come San Tommaso, finchè non tocchiamo con mano non ci crediamo», precisa l'archietto Natale Comotti, presidente del consorzio e consigliere del Pd a Palazzo Marino.

I lavori sono ripresi anche sul retro del palazzone di Sky che versa a Zunino 1 milione di euro d'affitto al mese. «Erano stati interrotti perchè Risanamento doveva 30 milioni di euro all'impresa costruttrice Colombo», ci spiega Shawky Geber, il sindacalista della Fillea Cgil che ci ha fatto da cicerone a Santa Giulia. Geber non sa se i 30 milioni li abbia anticipati Sky o se Zunino li abbia presi dal gruzzoletto che le banche gli hanno allungato alla fine del 2008 perchè facesse almeno le cose indispensabili. Le banche, la più esposta è Intesa-San Paolo, hanno congelato il 73% dei debiti di Risanamento che, di fatto, è commissariata.

«Il prossimo che salta è Zunino». Il ritornello gira a Milano da quando i «furbetti del quartierino» uno dopo l'altro sono andati a gambe all'aria. Il primo colpo a Santa Giulia l'ha dato la giunta comunale quando ha deciso di spostare il Centro congressi nell'area di Citylife (quella con i tre grattacieli storti che urtano la sensibilità del fallico Silvio), preferendo Ligresti a Zunino. Ma Zunino è riuscito a farsi male da solo, concordano i nostri interlocutori. «Troppa ingordigia, assurdo pretendere 9-10 mila euro al metro quadro per residenze di lusso in periferia. Non avrà raccolto neppure una prenotazione», dice Geber. «Idea audace pensare di fare un quartiere d'élite a ridosso di Ponte Lambro (una delle zone più degradate di Milano, ndr) e della tangenziale», rincara Cottica. «E' l'ennesimo caso di finanziere immobiliarista che gioca con i soldi e cade sui mattoni», chiude Comotti. Zunino era già messo male di suo, la crisi globale ha completato l'opera.

E adesso? Adesso tutti sperano negli «arabi». Sperano che si faccia avanti qualche sceicco, qualche fondo sovrano dei paesi del Golfo che compri Zunino e i suoi debiti. Sembrava quasi fatto l'accordo tra Risanamento e Limitless, un fondo di Dubai guidato dallo sceicco Saeed Ahmed Saeed, per la cessione dell'area ex Falck di Sesto San Giovanni (ridisegnata da Renzo Piano) su cui grava un debito di 250 milioni. Invece sono venuti fuori intoppi sia sul versante delle autorizzazioni comunali che del prezzo da pattuire tra Intesa-SanPaolo e Limitless. Bene che vada, se ne riparlerà alla fine dell'anno. Poiché anche l'emirato di Dubai ha le sue gatte immobiliarfinanziarie da pelare non è detto che l'affare vada in porto. Insomma, Santa Giulia, tagliata fuori dai progetti dell'Expo, sembra destinata a restare zitella. Ogni tanto qualcuno lancia l'idea di fare lì la cittadella della giustizia o il secondo stadio di calcio. Tutte chiacchiere.

A Santa Giulia era previsto lavoro per cinque anni. «Dopo due è tutto finito», commenta amaro Geber, «c'erano 43 gru e adesso ce ne sono solo un paio. Qui doveva sorgere una città a misura d'uomo, invece è un dormitorio». «E' quel che non vogliamo diventare», punta i piedi Cottica, «il comitato l'abbiamo messo in piedi proprio per questo». In effetti, nel deserto di Santa Giulia, l'unica cosa che crea socialità è il comitato di quartiere. Molti hanno aderito ancor prima di traslocare. «Dica alla signora Caterina di contattarci, qui c'è un sacco di lavoro da fare». In un volantone il comitato ha elencato i problemi da risolvere. 450 ragazzi in età scolare, 160 in età da nido e da asilo. Dove li mandiamo? 12 mila persone che, quando si spostano in auto, devono per forza passare da un'unica rotonda su via Rogoredo. Cosa succede se un giorno putacaso è impraticabile?

Al sabato le bancarelle del mercato si piazzano lungo via Rogoredo. Gli ambulanti dicono che la posizione è piuttosto infelice. Non potrebbero spostarsi in uno spiazzo più vicino a Santa Giulia? Allarmati da un'inchiesta aperta sulla bonifica delle aree dismesse (costi gonfiati per 14 milioni, un giallo internazionale dove non si capisce chi è il truffato e chi il truffatore) quelli del comitato hanno voluto sincerarsi se almeno la bonifica è stata realizzata correttamente: «effettuati i prescritti prelievi e campionature Asl e Arpa hanno rilasciato gli attestati di regolarità» (non per seminare il panico, ma a Geber mentre su un auto che ballonzola attraversiamo il «deserto» è subito venuto il raschietto in gola).

Resterebbe da spiegare come ha fatto il vitivinicultore Luigi Zunino a passare dalla Coldiretti di Nizza Monferrato al salotto di Mediobanca (in coppia con la moglie deteneva il 3%, supponiamo se ne sia disfatto per spegnere una piccola parte dell'incendio dei debiti). Archiviamolo tra i tanti misteri italiani e andiamoci a rileggere un'intervista rilasciata dal nostro al Corriere nel 2005 a proposito di Santa Giulia. «Sarà il nuovo centro, quello di cui Milano aveva bisogno... Sorgerà una via commerciale che farà impallidire via Montenapoleone... Sarà una boccata d'ossigeno per Milano. Con la domotica stiamo anticipando lo stile di vita dei prossimi anni... Non sarà un quartiere finto, dove dormire e passeggiare». Alla domanda «non pensa di rischiare troppo?» Zunino rispondeva: «No. Un imprenditore per essere tale deve saper rischiare. Ho investito ad oggi 750 milioni di euro in questo progetto, e non me ne sono mai pentito. Anzi, ho fatto pubblicità al Paese».

Mentre su Zunino cala il sipario, l'unica àncora di sopravvivenza per gli abitanti di Santa Giulia è Rogoredo vecchia, quella della canzone di Jannacci.

Nota: il contrappunto a queste desolate osservazioni "obiettive" è naturalmente la propaganda del comune di Milano, granitico da sempre nel sostenere l'assoluto valore dei suoi programmi di riqualificazione urbana delegati all'operatore privato anche sul versante delle grandi strategie. Qui la pagina su Santa Giuliadel settore Sviluppo del Territorio. Per chi volesse una lettura critica contestuale del progetto, metto a disposizione di seguito l'esercizio svolto dagli studenti Beatrice Miceli e Giorgio Stefanoni nell'ambito del mio corso sulla Riqualificazione Urbana del primo semestre aa 2008-2009 alla Facoltà di Architettura e Società del Politecnico di Milano (f.b.)

"Solo cemento, manca il progetto carta bianca agli immobiliaristi"

Teresa Monestiroli

Giancarlo Consonni, professore di Urbanistica al Politecnico, cosa pensa del nuovo Piano di governo del territorio del Comune?

«Mi sembra che l’amministrazione ragioni solo in termini di quantità e non di struttura della città. Invece di costruire il vero policentrismo, il Comune sta delegando il progetto di città alle società immobiliari. In questo modo si perde una grande occasione, quella di ripensare Milano dandogli una nuova ossatura non solo funzionale ma anche relazionale. Riqualificare va bene, ma bisogna governare gli interventi come è stato fatto a Parigi e Barcellona altrimenti si finirà per perdere occasioni straordinarie come è già successo nel caso di Bicocca e dell’area dell’ex Maserati».

Per quantità intende volumetrie e cemento?

«Il problema non è il cemento, ma la mancanza di progetto più ampio. Le quantità devono stare dentro un’idea di città altrimenti non si capisce che cosa distingue un ammasso informe di edifici da un luogo che abbia una qualità urbana. In questo modo finiremo per avere tante periferie incapaci di diventare centri di attrazione e che orbiteranno su un centro sempre più piccolo».

Il Piano di governo del territorio prevede l´aumento della popolazione milanese di 700 mila unità. È possibile?

«Pensare che i cittadini che hanno lasciato Milano tornino è un sogno. Se il Comune fosse veramente in grado di fare un piano di edilizia a basso prezzo sarebbe una vera e propria rivoluzione, ma gli immobiliaristi non accetteranno mai. In realtà il piano sta dando alle società immobiliari carta bianca per costruire volumetrie sproporzionate, senza più i vincoli delle destinazioni d´uso. Il tutto senza un’armatura fatta di piazze e di strade. Questo renderà le periferie dei ghetti e si alimenteranno i problemi di sicurezza».

Cosa c’entra la sicurezza con l’urbanistica?

«È la città stessa a sconfiggere l’insicurezza attraverso il naturale presidio dei luoghi da parte dei cittadini. Se non si creano le condizioni di relazione urbana si finisce per avere quartieri dormitorio o, al contrario, di lusso ma isolati dal resto della città».

L’assessore Masseroli punta alla riqualificazione degli scali ferroviari come Rogoredo e Porta Romana. È d’accordo?

«Gli scali sono una grande occasione di sviluppo. Ma ripeto, dipende da come vengono riqualificati. Se rivalutare significa accumulare volumi informi sarà un disastro».

È favorevole anche al trasferimento dell’ippodromo per realizzare a San Siro un quartiere di lusso?

«Questo è davvero sbagliato. L’ippodromo è un’area storica che andrebbe riqualificata, farci un altro quartiere non ha senso. E poi mi chiedo: in un momento di crisi come questo chi comprerà tutte queste case di lusso? La crisi economica dovrebbe spingere l’amministrazione a ripensare un modello qualitativo di intervento invece si continua con la vecchia logica. Faccio solo un esempio: il parco Sempione è il regalo che la crisi edilizia dell’Ottocento ha fatto alla città. Doveva essere un quartiere di lusso ma si è deciso di trasformarlo in area verde».

Metri cubi di palazzi, ma per chi?

Luca Beltrami Gadola

Hanno cominciato a dirlo quasi due anni fa e non aggiungono nulla. Imperturbabili. La recitazione è quella della scuola "Non lo fo per piacer mio ma per dare un figlio a Dio". Viso lievemente atteggiato al sorriso, tono di voce pacato, la devozione al pubblico interesse fatta maschera teatrale. Quello che stupisce è la capacità di dire sempre le stesse cose mentre fuori infuria la tempesta: di questo è specialista la nostra sindaca. La settimana scorsa ha riunito la giunta per un’intera giornata a discutere del bilancio di metà mandato. Al termine ci aspettavamo un documento che non c’è: un’analisi del passato - quel che abbiamo fatto o non fatto - e un documento sul futuro: cosa fare, visto che lo scenario è totalmente cambiato, altri i problemi milanesi, altre le priorità, altre le risorse. Invece no: un generico richiamo all’efficienza, una tirata d´orecchi a chi vuol fare il giocatore solitario, un appello alla coesione politica.

Due le possibilità: o il programma elettorale era una scatola piena di sole parole, o non sanno cosa pensare e questo è forse peggio. Ormai anche gran parte del mondo conservatore è convinta che dobbiamo guardare a uno sviluppo completamente diverso: le città, dove vive più del 50% della popolazione mondiale, ne sono il laboratorio. Urbanistica dunque in primo luogo. Ma qui arriva prima Berlusconi: 550 milioni per investimenti destinati alla casa. Il gruppo Citylife ne ha spesi 523 per comprare la vecchia area della Fiera, tanto per capire lo sforzo, come dire al massimo 4.000 appartamenti da 80 metri, una goccia. Poi un incremento tra il 20 e il 30% delle volumetrie edificate. Destinati a chi questi volumi se con la crisi non si vende un chiodo? Cosa vuol dire rilanciare l’edilizia in queste condizioni di mercato? Perché così poco all’edilizia residenziale pubblica che assorbe più manodopera e che ha più indotto? Per l’ambiente e per il Paese, per la bellezza e la vivibilità della città sarà un disastro. Che fine farà il piano dell’assessore Masseroli? Difendiamolo, persino meglio lui della follia berlusconiana.

Dalle case al posto dell’ippodromo ai palazzi da costruire su oltre un milione di metri quadri di stazioni e binari ferroviari, ai nove milioni di aree destinate a parchi mai realizzati. Il sindaco presenta oggi ai partiti il nuovo Piano di governo del territorio: toccherà a loro decidere quanto, e dove, costruire. E la Lega insiste: «No al cemento sull’ippodromo»

Un milione e 300mila metri quadrati dove costruire palazzi al posto di stazioni e binari ferroviari che non servono più. Altri cinque milioni e mezzo dove già è stata decisa la nascita di nuovi quartieri ma che bisogna dotare di nuove infrastrutture. Un tesoretto di nove milioni di metri quadri su cui, finora, non si poteva costruire perché destinati a parchi e servizi pubblici che però non sono diventati realtà. E la grande incognita dell’ippodromo di San Siro: un milione e mezzo di metri quadrati di verde che bisogna decidere se mantenere. È partendo da questi numeri che, dopo cinquant’anni, Milano si reinventa. Con più grattacieli per non consumare suolo. Con tre nuove linee del metrò. E con l’obiettivo, forse, di arrivare a due milioni di abitanti nel 2030.

Parte il grande business del mattone e va in pensione il Piano regolatore del 1954, rivisto già nel 1980, per essere sostituito dal Piano di governo del territorio (Pgt) degli anni Duemila. Chili e chili di carta su cui si giocherà la partita del nuovo cemento. Oggi Letizia Moratti presenterà le bozze ai partiti della sua maggioranza. Arrivare a due milioni di abitanti nel 2030, come azzardò l’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli? Questo il Piano oggi non lo dice ancora. La quantità sarà definita solo quando i partiti daranno il loro via libera su quanti metri quadrati si possono sbloccare e, soprattutto, quanti metri cubi si possono lasciare costruire. Quantificando per ogni area un «indice di edificabilità». La Lega, ad esempio, si presenta all’appuntamento in trincea: «Non vogliamo sentir parlare di 700mila nuovi abitanti. Per nuovo cemento non c’è spazio, Milano è già sufficientemente urbanizzata» manda a dire Matteo Salvini. Nuovi quartieri? «Non sull’ippodromo». Proprio San Siro, e il nuovo quartiere da costruire con il trasloco dell’ippica, saranno la battaglia più rilevante che si giocherà nel centrodestra di Letizia Moratti: l’assessore Masseroli, ma anche la Regione, vogliono sbloccare molto presto la zona, i partiti frenano. Almeno fino alle elezioni provinciali.

Il Piano che il sindaco presenterà oggi già cambia tutto il sistema delle regole del gioco: sparisce la distinzione tra destinazione d’uso industriale - commerciale - residenziale, restano solo le zone vincolate come non edificabili. Arriva la «perequazione» e la «borsa dei diritti volumetrici». Le «aree di trasformazione», le direttrici dove andranno nuove case e nuovi abitanti, sono però già chiarissime nel Pgt che recepisce quello che sta già avvenendo: la Bovisa e la zona ai confini con Sesto, verso ovest Cascina Merlata e tutta l’area dell’Expo, Montecity - Rogoredo, Garibaldi - Repubblica e Citylife, il Portello e quello che è rimasto della vecchia Fiera. L’assessore alla Mobilità, Edoardo Croci, assicura: «Tutte le aree di trasformazione saranno accessibili da sistemi di trasporto pubblico, garantendo una migliore vivibilità». La novità più rilevante è la rivoluzione ferroviaria: 1,3 milioni di metri quadrati per nuove case e nuovi parchi al posto di stazioni che verranno chiuse (da Porta Genova allo scalo merci Farini, da San Cristoforo a Porta Romana), o che verranno ridotte riducendo il fascio dei binari e i depositi (Lambrate, Rogoredo, Greco, Certosa). Sarà uno dei grandi business immobiliari dei prossimi anni. Con un accordo tra Fs e Comune che assicura due obiettivi: la plusvalenza dovrà essere reinvestita in nuove opere ferroviarie per migliorare l’accessibilità a Milano, mentre gli oneri di urbanizzazione finiranno in nuove metrotranvie per collegare le stesse zone al centro. Le altre grandi aree in costruzione dovranno nascere sugli assi delle nuove metropolitane, la nuova linea 4 da Lorenteggio a Linate (ma mancano i fondi per arrivare all’aeroporto) e la nuova 5 da Niguarda a San Siro (qui i soldi, per la linea che incrocerà Citylife, dovrebbero invece arrivare da Roma). L’arrivo del metrò a San Siro aumenterà ancora gli appetiti immobiliari sull’ippodromo. E intanto la prefettura ha chiesto, per motivi di sicurezza, di spostare di 200 metri la fermata prevista a fianco dello stadio.

A Milano si è costruito molto negli ultimi dieci anni: grandi cantieri, ma soprattutto una moltitudine di piccoli interventi. Ora il vento è cambiato. La crisi economica deprime la domanda immobiliare, crolla l’occupazione. Sogni, promesse, progetti devono confrontarsi con la realtà. Con un tessuto urbano che, tra piccole e grandi lacerazioni, non trasmette un senso di insieme. Con una città non compiuta, che si rifugia entro i confini daziari negandosi un ruolo regionale e contraddicendo la sua stessa storia, fatta di scambi, di commerci, di relazioni.

È urgente riflettere su Milano. Disconnessa dai fenomeni globali, la città stenta ad aggiornare una tradizione ambrosiana fatta di innovazione e senso della misura. Mentre la proposta avanzata per superare la crisi e costruire il futuro è a senso unico: mattoni, e ancora mattoni, sfruttando il traino di Expo 2015. Un proposta peraltro non nuova nell’urbanistica milanese degli ultimi decenni. Lo testimonia Per un’altra città, pubblicato di recente da un gruppo di docenti del Politecnico. Tra i molti spunti, colpisce l’esito deludente degli strumenti negoziali. Introdotti per assicurare flessibilità, sono stati largamente impiegati per modeste o banali lottizzazioni. Numeri alla mano, hanno generato una scarsa utilità pubblica rispetto al corrispondente vantaggio privato. Mancano all’appello molte opere-simbolo che avrebbero dovuto caratterizzarli, e persino parte dei servizi promessi, attesi o semplicemente necessari.

Il deficit più evidente riguarda la mobilità pubblica, i cui costi, economici e ambientali, sono ora sulle spalle della comunità. Sostenere che, in carenza di risorse, la negoziazione con gli operatori privati sia l’unica strada percorribile è dunque fuorviante: se non è stato possibile in questi ultimi anni, in pieno boom immobiliare, come sarà possibile in futuro, in piena crisi economica? E ancora: una cornice formale è davvero un retaggio del passato? Dal 1980, tra varianti e deregolamentazione, la qualità urbana complessiva non è certo migliorata, con il risultato paradossale di deprimere ulteriormente il mercato.

Senza un quadro strategico, vacilla anche la presunta efficienza meneghina. Due esempi. Il sistema aeroportuale, con il progetto di metropolitana e l’idea di tunnel stradale verso Linate ("city airport" da ridimensionare) in assenza di un collegamento diretto su ferro tra la stazione Centrale e Malpensa (hub da rilanciare). O il sistema fieristico, definitivamente concentrato nel nuovo polo di Rho-Pero, con la dismissione del Portello che ha poco più di 10 anni di vita.

Nell’attesa di conoscere concretamente qual è il progetto complessivo di città, e come si intende realizzarlo, i (futuri) 2 milioni di abitanti hanno già legittimato l’incremento degli indici di edificazione, intervenuto per ampie porzioni di città. E giustificheranno nel nuovo piano l’assai probabile introduzione di nuovi diritti edificatori, mediante un indice fondiario unico esteso a tutta la città. Cosa rimarrà dunque da governare all’atteso PGT, quando vedrà la luce? Potrà farlo in modo efficace, dovendo confrontarsi con la somma delle puntuali negoziazioni connesse ai singoli programmi di intervento, il cui campo di applicazione è stato esteso e potenziato?

Nuove regole urbanistiche vuol dire anche nuovi operatori sulla piazza milanese. Una scelta di mercato, che richiede però un disegno strategico, per gestire il più che prevedibile eccesso di offerta. Per evitare che l’Expo rianimi la produzione edilizia bruciando per molti anni a venire il mercato immobiliare cittadino. Si torna dunque al punto: l’urbanistica a Milano non può avere ambizioni solo quantitative, né focalizzarsi unicamente sull’incremento dei residenti, come esito dalla prospettata riduzione dei valori immobiliari. Così facendo, sottovaluta l’effetto collaterale di un diffuso impoverimento patrimoniale per gli attuali proprietari della casa di abitazione. E accantona la vera emergenza sociale che è la riduzione del costo degli affitti: specie in tempi di crisi, è questa la condizione necessaria per frenare l’ormai più che decennale processo di selezione della popolazione milanese, e per fare di Milano una città compiuta. Una città di case e di cittadini.

La Legge Urbanistica approvata martedì dalla Regione Lombardia è il primo regalo che Berlusconi, tramite Formigoni, fa alla Moratti per aver mollato il controllo della SoGE, e un compenso gradito per i tanti palazzinari e investitori immobiliari (Ligresti, Tronchetti e banchieri vari) interessati ai soldi di Expo e presenti anche nella vicenda Alitalia-Cai.

Con la nuova legge, con una legge ad hoc e in nome di Expo, si darà la possibilità di costruire sulle aree libere dove i piani regolatori e particolareggiati non abbiamo già realizzato o avviato interventi di sistemazione. La possibilità vale anche per le aree verdi, a standard o destinate a servizi. Una norma antidemocratica, perché lascia alla Giunta il compito di decidere togliendo ogni ruolo al Consiglio Comunale, ossia ai rappresentanti eletti dai cittadini. Nessun piano, nessuna analisi, si ignorano anche i dati evidenti (crisi finanziaria e dei mercati immobiliari, 90.000 alloggi vuoti, sfitti, invenduti nel Comune di Milano). Solo profitto e speculazione, dando l’opportunità a speculatori e società immobiliari di un vero e proprio sacco della città, degno del capolavoro del neorealismo cinematografico di Rosi sulla speculazione immobiliare durante il boom economico degli anni ’60.

Cemento ovunque: scali ferroviari, ippodromi, aree interne al Parco Sud, verde di quartiere, spazi di respiro della città. Un grosso regalo per Ligresti e compagnia bella. Una sciagura per una città già inquinata e congestionata a livelli insopportabili. Un disastro ambientale per un territorio consumato e costruito oltre i limiti del buon senso. Ora le deliranti previsioni dell’Assessore Masseroli su una Milano dell’Expo con 2 milioni di abitanti (ma ancora non ha detto dove andrà a prendere i 700 e passa mila milanesi mancanti a questo obiettivo) potranno trovare spazio e ad andare a braccetto con chi, da qui al 2015, avrà come unico obiettivo far girare il totalizzatore dei propri depositi bancari (quasi sicuramente in qualche paradiso fiscale... per completare l’esproprio di beni comuni). Milano, grazie a o a conseguenza di, Expo si appresta a diventare un mostro, non lo spazio pubblico pensato e progettato per rispondere ai bisogni della comunità che la vive, ma territorio di conquista, macchina da profitto, vetrina usa e getta, dove l’interesse privato e gli affari contano più dei diritti e del bene comune. Fa niente se ogni persona di buon senso suggerirebbe altre ricette per rendere più sana e vivibile Milano. Arriva Expo, bisogna far girare la slot machine!

Noi l’avevamo detto, potrebbe essere l’amara constatazione. Expo renderà peggiore la vita di noi tutti per soddisfare gli scopi e i guadagni di pochi. Expo 2015 è questo: miliardi di euro di soldi pubblici che finiranno in tasca ai privati, territori e città consumati e devastati, beni comuni privatizzati, diritti ridotti. Non è la favola buona con cui la Moratti ha incantato i milanesi, i democratici, gli ambientalisti del fare e l’associazionismo «embedded ». E non ci sono alternative all’Expo che ci stanno confezionando se non il NoExpo, non farlo e salvare Milano per salvare noi stessi. Parafrasando il titolo scelto per la rassegna «Nutrire le immobiliari – energia per la speculazione». Svegliatevi!

Comitato NoExpo

Nota: una descrizione dell'ennesimo "emendamento" alla legge urbanistica lombarda tagliato su misura agli interessi particolari, è stata riportata anche ieri da la Repubblica e ripresa da questo sito (f.b.)

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