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«Gli "eventi" sono come dei tappeti volanti su cui la città prende il volo. Ma per chi ha responsabilità di governo è pronta un'insidia». la Repubblica online, ed. Milano, 13 aprile 2017
Milano migliore città d'Italia nella classifica "Cities of Opportunitiy". Milano con un incremento annuale di turisti più del doppio di quello di Roma. Milano attrattiva per gli investimenti stranieri. Milano locomotiva in un Paese che arranca. Gli eventi - Salone del mobile, Tempo di libri, settimana della moda eccetera - sono un ottimo combustibile per la locomotiva, soprattutto per quella mediatica.

Il bombardamento non dà tregua e, nell'euforia, è pronto l'ologramma di una Milano da bere 2 (anzi, 2.0): un totem per nuove danze tribali di cerchie ristrette (gli addetti ai lavori e gli appassionati del genere). Intendiamoci: prendere di mira gli eventi è come sparare sulla Croce Rossa. Ogni evento è una boccata di ossigeno, comunque confortevole per un corpo in asfissia. Il problema è un altro. Nell'immaginario alimentato dai media gli "eventi" sono come dei tappeti volanti su cui la città prende il volo; da cui il sogno di alcuni: dare continuità così da passare da un tappeto all'altro in una sorta di galleggiamento sulla realtà.

Per chi ha responsabilità di governo è pronta un'insidia. La concatenazione degli eventi distrae l'attenzione dei cittadini e allenta la pressione delle aspettative sul "palazzo": si forma una cortina fumogena dietro cui il manovratore può sentirsi protetto e alla fine consegnato a un ruolo di super manager al servizio della macchina- eventi. È una trappola da cui i primi a prendere le distanze dovrebbero essere proprio gli amministratori pubblici. La concatenazione serrata di eventi è la soluzione per i problemi della metropoli milanese?

O non piuttosto un modo per nascondere sotto il tappeto (volante o meno) lo stato della cose? La realtà vede incursioni del capitale finanziario che non ha alcun interesse ad attrezzare la "locomotiva", ovvero a mettere la metropoli milanese nelle condizioni di reggere la sfida della competizione internazionale e, insieme, di affrontare la questione sociale. Questione che, più che mai, ha nella carenza di lavoro il punto centrale. Se pure non mancano segnali positivi, persiste infatti una condizione drammatica, segnata da una crisi che, per quanto riguarda le opportunità di lavoro, non passa. È in primo luogo di questo che dovrebbero preoccuparsi coloro che hanno la responsabilità della cosa pubblica. Si sa: è complicato e poco remunerativo sulla breve distanza, ma le difficoltà non possono disarmare la politica: gli amministratori non possono ridursi al ruolo di promotori del fare per il fare, lasciando al mercato ogni decisione e regolazione.

Ma c'è qualcosa di più: gli eventi hanno via via affermato uno stile che la politica ha finito per mutuare: un modo di affrontare le scelte che bada più alla ricaduta mediatica che alla sostanza. Si veda la vicenda del riuso degli scali ferroviari. La sequenza logica vorrebbe che la pubblica amministrazione indicasse gli obiettivi strategici per la città e agisse di conseguenza. Obiettivi che non possono escludere la triade coesione sociale, qualità urbana, rafforzamento delle potenzialità strutturali dell'economia. Invece Palazzo Marino si pone nella veste di chi vuole indistintamente attrarre investimenti, dove l'afflusso di capitali è giudicato positivamente in sé, a prescindere dalla ricaduta sulla città.

Accade così che, da decenni, a Milano le scelte di trasformazione urbana siano demandate ai cosiddetti operatori mentre il Comune si è ritagliato un ruolo di facilitatore che arriva fino a quello di banditore, con la spettacolarizzazione dei progetti di

trasformazione sfornati dalle archistar. Un modello di gestione che tratta i cittadini come pubblico incolto e impotente: da avvolgere con la melassa della partecipazione ma da isolare quando, come a Città Studi, mostra piena consapevolezza dei valori urbani e competenza su ciò che li minaccia. Insomma il pericolo non sono gli eventi concatenati, ma l'eventopoli: una dinamica che consegna allo spettacolo l'assalto e il disfacimento stesso della città.

«Mentre sugli scali ferroviari siamo chiamati a dilettarci fra architetture ardite, rendering trompe-l’oeil e pecorelle urbane, i termini economici dell’accordo di programma che il Comune vuole “completare entro l’estate 2017” restano alquanto oscuri». arcipelagomilano.org, 12 aprile 2017 (m.c.g.)

Mentre sugli scali ferroviari siamo chiamati a dilettarci fra architetture ardite, rendering trompe-l’oeil e pecorelle urbane, i termini economici dell’accordo di programma che il Comune vuole “completare entro l’estate 2017” restano alquanto oscuri. Una meritoria iniziativa di dibattito pubblico della Casa della Cultura del 27 marzo scorso sul tema "Il recupero degli scali ferroviari: chi ci guadagna?" ha consentito di fare qualche chiarezza sui vistosi limiti dell’Accordo di Programma: quello bocciato in Consiglio comunale nel dicembre 2015 e riproposto fin qui come base di discussione senza indicazione alcuna sul suo aggiornamento.

L’Accordo di programma del 2015 è assi diverso rispetto alle precedenti stesure del 2005 e 2007: come ha mostrato Giorgio Goggi al convegno, esso non prevede più il totale reinvestimento dei plusvalori emergenti sulla rete ferroviaria da parte di FS, mutando in maniera sostanziale la filosofia di fondo in senso privatistico. Non vogliamo qui entrare su problemi più generali, ma solo attrarre l’attenzione sui vantaggi finanziari che al Comune spetterebbero e sulle procedure che occorre riportare su binari giuridicamente corretti.

Il testo dell’Accordo non considerava che, già prima della sua sottoscrizione, avvenuta il 18 novembre 2015, da parte dei rappresentanti del Comune, della Regione e di Ferrovie, il Testo Unico in materia Edilizia era stato modificato dal cosiddetto decreto Sblocca Italia (settembre 2014), il quale aveva introdotto una innovazione di grande portata istituzionale ed economica in tema di oneri dovuti per il rilascio del permesso di costruire: un “contributo straordinario”, in aggiunta ai tradizionale oneri, da pagare in caso di varianti urbanistiche, pari ad almeno il 50% dei plusvalori generati dalla variante stessa (1).

Questa innovazione è applicabile all’Accordo di programma per gli scali ferroviari, che è stato fin dall’inizio concepito in variante alla pianificazione urbanistica comunale. La mancata considerazione dell’innovazione nel 2015 è dipesa, presumibilmente, dalla circostanza che il testo dell’Accordo era stato formato già prima del 2014 e ci si era dimenticati di adeguarlo alla novità legislativa allora intervenuta. Ma oggi non è possibile continuare a dimenticarsi di quella novità, assai rilevante per l’Accordo. In mancanza dell’Accordo di programma, per le aree degli scali ferroviari il PGT consente esclusivamente interventi di manutenzione o ampliamento di impianti strumentali all’esercizio ferroviario (art. 8, comma 4, delle norme di attuazione del documento di piano del PGT). È dunque certo che l’Accordo di programma configura una variante urbanistica e che pertanto è soggetto alla disciplina introdotta nel 2014.

Il testo dell’Accordo non fa menzione di questa disciplina, ma ne adombra suggestivamente il contenuto indicando che, oltre ai normali oneri (i famosi 50 milioni anticipati da FS), si riconoscerà al Comune il 50% su eventuali plusvalenze. Ma il testo costruisce una definizione del tutto fantasiosa e fuorviante del computo di tali plusvalenze: esse risulterebbero dalla differenza fra “i valori di cessione delle aree (…) e i valori netti contabili delle aree al momento delle cessioni delle stesse (VNC)” (art. 14.5.a dell’AdP).

Questa definizione dei valori netti contabili (cioè in sostanza del valore economico dell’intero programma di trasformazione urbana) è quella che vige nella tassazione statale dei redditi di impresa e dei capital gain, ma non ha nulla a che fare con quella che governa la tassazione locale delle trasformazioni urbane, che fa riferimento alle plusvalenze realizzate grazie alla variante rispetto alle vigenti disposizioni di piano in materia di usi del suolo e volumetrie costruibili (2).

Attraverso opportune rivalutazioni dei cespiti fondiari e immobiliari prima della loro vendita, ogni impresa potrebbe sempre azzerare le plusvalenze ai fini del contributo da pagare al Comune! Questa indicazione dell’AdP ha già fuorviato in modo sostanziale quel poco di dibattito politico sull’economia dell’Accordo (il M5S ha addirittura presentato una interrogazione parlamentare sui valori delle aree nel bilancio FS, una questione che appare invece irrilevante per il caso milanese).

A quanto corrisponderebbe l’onere per Ferrovie derivante dalla vigente legislazione sugli oneri urbanistici? Una valutazione cautelativa di larga massima – effettuata partendo dalla destinazione attuale dei suoli nel PGT di Milano e scontando tutte le previsioni di costi indicate nell’allegato finanziario dell’AdP – presentata da Gabriele Mariani alla citata conferenza della Casa della Cultura e da cui non abbiamo motivo di discostarci dopo ripetute riflessioni, indica il valore delle plusvalenze complessive realizzabili dal programma in un miliardo di euro e il conseguente pagamento al Comune in 500 milioni (da aggiungere agli oneri tradizionali). C’è all’evidenza una certa differenza rispetto ai 50 milioni promessi, per cui è lecito parlare di penalizzazione dell’interesse pubblico.

La giustificazione che l’AdP implicitamente fornisce si lega al dettato dell’art. 31.3 delle norme di attuazione del Piano delle regole, che rinvia per le destinazioni e le volumetrie delle aree ferroviarie proprio all’Accordo di programma (già a quel tempo avviato). Ma quella disposizione non muta il carattere di variante della pianificazione comunale dell’Accordo stesso, come riconosciuto in più punti dallo stesso testo dell’Accordo. L’Accordo di programma deve dunque rispettare la norma statale introdotta nel 2014 sul contributo dovuto al Comune per il plusvalore derivante dalle variazioni di piano.

Infine: nel documento del Comune di Milano del novembre 2016 sulle linee di indirizzo per rilanciare l’Accordo di programma non si fa menzione di un elemento cruciale. Il vecchio Accordo è decaduto per la sua mancata ratifica da parte del Consiglio comunale entro il termine di trenta giorni dalla sua sottoscrizione, e con tale bocciatura ha cessato di generare aspettative di automatico recepimento del PGT vigente. È ben possibile riavviarlo, facendo salve molte analisi e molti accordi (non quelli finanziari però!); ma esso avrà bisogno di avere una esplicita accettazione, ancora una volta come variante totale.

L’AdP ora in discussione è un nuovo Accordo, del tutto distinto da quello bocciato. C’è la possibilità di ripensarlo, anche interpretando le ragioni della precedente caduta: nelle volumetrie, che in una città già densa paiono eccessive, nella visione che deve aprirsi alla città metropolitana e negli obblighi delle parti. In particolare occorre chiarire entità e qualità degli investimenti di Fs sulla rete, anche considerando che una parte rilevante sarà realizzata a fronte di oneri dovuti, evitando che si addossino al programma piccoli investimenti, casuali, che Fs deve effettuare comunque per fornire un servizio adeguato (come si fa nell’AdP).

Il Comune dovrà pensare attentamente a firmare impegni penalizzanti per le sue finanze, trascurando l’innovazione introdotta nel 2014 che impone di riservare al Comune almeno la metà del plusvalore generato dalla variazione di pianificazione insita nell’Accordo di programma. Gli amministratori che non ne tenessero conto si esporrebbero a responsabilità amministrativa patrimoniale nei confronti del Comune, per aver omesso un’entrata doverosa. E l’intera procedura giuridico-urbanistica-fiscale dovrebbe essere improntata a nuovi criteri di trasparenza, data la natura pubblica di tutti i partner e la natura di beni di interesse comune che queste aree posseggono.

Politecnico di Milano e Università Statale di Milano

1) L’art. 18, comma 4, del testo unico dell’edilizia (d.P.R. 380/2001), come modificato dall’art. 17 del decreto Sblocca Italia (d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv. in l. 11 novembre 2014, n. 164) stabilisce che «L’incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la regione definisce per classi di comuni in relazione: (…) d-ter) alla valutazione del maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d’uso. Tale maggior valore, calcolato dall’amministrazione comunale, è suddiviso in misura non inferiore al 50 per cento tra il comune e la parte privata ed è erogato da quest’ultima al comune stesso sotto forma di contributo straordinario, che attesta l’interesse pubblico, in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade l’intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche.»

2) Nel caso del Comune di Roma, in cui il contributo straordinario è nato giuridicamente, le plusvalenze sono infatti computate proprio così.

Probabilmente a tutti noi, per un motivo o l'altro, capita di attraversare qualche volta il mercatino o mercatone rionale che si svolge vicino a casa, sfiorando o schivando una o due bancarelle di frutta, verdura... (segue)

Probabilmente a tutti noi, per un motivo o l'altro, capita di attraversare qualche volta il mercatino o mercatone rionale che si svolge vicino a casa, sfiorando o schivando una o due bancarelle di frutta, verdura, vestiti o paccottiglia varia. Altrettanto probabilmente, però, non ci è mai successo di ascoltare ad esempio una delle signore che frugano nel cestone delle offerte, sbuffare a proposito di «impianto normativo come fattore abilitante dello sviluppo». E nemmeno di orecchiare casualmente il ragazzo figlio di immigrati, che aiuta con le cassette della frutta, lamentarsi perché ci vorrebbe proprio una «ottimizzazione dell'assetto viabilistico e mobilità». Certo qualunque cliente del mercato ve ne potrebbe raccontare a decine, di consapevolissimi problemi legati alle regole di crescita della città, farraginose e che li hanno penalizzati anche gravemente in un momento o nell'altro della vita. E qualunque bancarellaro di quelli che state sfiorando nel vostro attraversamento, sa per esperienza quanto carente sia il sistema stradale urbano, quello dei parcheggi e delle piazzole per la sua attività, e poi le consegne, gli spostamenti per lavoro, le forniture. Ma certo non pensano ai propri problemi in termini di «fattori abilitanti dello sviluppo», e nemmeno di «assetto viabilistico»: non è il loro linguaggio, sono parole che significano poco o nulla, gli nascondono anziché evidenziare i concetti, li respingono anziché coinvolgerli. Allora perché mai, rivolgersi a loro con quel linguaggio a dir poco inadeguato?
Eppure è esattamente quel che sta succedendo col Questionario per il nuovo Piano di Governo del Territorio di Milano, secondo «Linee Programmatiche, che pur ponendosi in continuità con le precedenti, imprimono un carattere nuovo alle politiche urbane […] ponendo tra le priorità l’ascolto della città e i processi di partecipazione» (come recita testualmente la Delibera di avvio del procedimento per un nuovo strumento urbanistico). Si vogliono stimolare e gestire processi di inclusione, ma come ha osservato recentemente Luca Beltrami Gadola, lo si fa formulando «domande che sono solo un elenco di titoli e non una richiesta di opinione ed è difficile capire quale nesso abbiano molte domande rispetto alla determinazione di una scelta di natura urbanistica». Vorrei andare anche oltre questa critica di impianto e obiettivi, per aggiungere che al cittadino medio, diciamo pure alla quasi totalità dei cittadini, risulta difficilissimo capire addirittura il senso, di quelle domande, che sembrano compilate da un tecnico specializzato, o comunque da qualcuno addentro alla questione, con termini, costruzioni, accostamenti, che il cittadino medio può al massimo provare a interpretare, giocando al Piccolo Urbanista Dilettante. In altre parole, più che di inclusione o partecipazione il processo innescato pare essere una sorta di tentativo di cooptazione, dove l'uomo della strada si avvicina gradualmente alla mistica della programmazione del territorio assimilandone il linguaggio. Come se non fosse possibile esprimersi in altro modo.
Foto F. Bottini
Nel seminale Rapporto Skeffington britannico sulla partecipazione in urbanistica (1969), pur non rinunciando certo del tutto a questa peraltro discutibile «cooptazione linguistica», le amministrazioni istruivano un processo di piano idealmente e letteralmente formando nuovi cultori della materia, provenienti da ogni classe sociale e di età, attraverso varie forme di comunicazione divulgativa. Se certamente la strategia di sviluppo territoriale urbana o ancor di più metropolitana era cosa complessa, impossibile da ridurre a qualche benintenzionato slogan o scarabocchio progettuale, allora meglio spiegarla in modo dettagliato organizzando addirittura «corsi o conferenze tematiche nei fine settimana, magari in collaborazione con altri enti o associazioni anche nazionali». Oltre naturalmente a pianificare e alimentare canali più tradizionali di comunicazione divulgativa, dalla stampa di informazione, a mostre, filmati, programmi radiofonici e televisivi, dibattiti pubblici, insomma una vera e propria alfabetizzazione. Cosa ben diversa, dal pretendere (non mi viene un verbo diverso) che la nostra dirimpettaia appassionata di fiori, o il barista che ci mette da parte l'ultimo cornetto alla crema, colgano al volo il senso di domande del tipo: «Quale importanza assegna, all'approccio integrato e sistemico, sul riassetto della componente geologica, idrologica e sismica»? Diciamo che si può, e si deve, fare di meglio, di molto meglio.

* Qui, per chi volesse ripassarsi alcuni passaggi chiave del Rapporto Skeffington sulla partecipazione in urbanistica, un estratto in italiano

* Qui, naturalmente (e caldamente consigliato in lettura critica) il Questionario del Comune di Milano per il Piano di Governo del Territorio: potete anche legittimamente compilarlo come «city user», per inciso

«Mentre si rafforzano l’opposizione al progetto per il riuso degli Scali Ferroviari e le iniziative di contrasto di un comitato di residenti del quartiere di Città degli Studi sempre più numeroso e agguerrito, il Comune di Milano avvia le consultazioni per il nuovo PGT. E la partecipazione civica?» Arcipelagomilano.org, 29 marzo 2017.(m.c.g.) con postilla

L’ultima entrata a gamba tesa delle Ferrovie dello Stato sarà l’annunciata esposizione con presentazione degli architetti e dibattito dei suoi progetti per gli Scali ferroviari nel quartiere clou del Fuorisalone del Mobile, vicino al nuovo passaggio che collega il Piazzale della Stazione di Porta Genova con la zona di Via Tortona: il Comune portato al guinzaglio da FFSS. Ma andiamo oltre per non indignarci troppo.

Il destino delle aree di Arexpo – con la collegata questione del trasferimento della Statale da Città studi -, gli scali ferroviari e l’avvio del percorso che porterà alla presentazione del nuovo Piano di Governo del Territorio sono i tre temi caldi del dibattito urbanistico in città e che, se non lo si fosse capito, son tre episodi che dimostrano quanto sia necessario fare chiarezza e abbandonare la strada sin qui seguita, se si è ancora in tempo, prima del classico naufragio sugli scogli della contestazione.

La contestazione è la più immediata conseguenza dell’assenza di autorevolezza di chi ha ruolo di governo e non, si badi bene, l’isterica manifestazione di un’opposizione preconcetta che affonda le sue radici nella durezza dello scontro politico.

L’osservazione attenta delle forze in campo vede nelle truppe della contestazione molta trasversalità, sia si tratti di professionisti dell’urbanistica e dell’architettura, della sociologia urbana o dell’economia territoriale, sia si tratti di comuni cittadini.

La mancanza di autorevolezza è a sua volta figlia della percezione che la platea degli interessati ha del modo di procedere, tra proposte estemporanee e spesso contraddittorie, malamente supportate da argomenti poco incisivi e non convincenti, e nutre la convinzione che si proceda sostanzialmente tra quello che chiamo “urbanistica delle emozioni” e l’urbanistica degli interessi forti non collettivi.

L’urbanistica delle emozioni ha le sue parole guida: verde, economia di suolo, compatibilità ambientale, densità edilizia, edilizia sociale, qualità della vita.

L’urbanistica degli interessi forti non collettivi ne ha altre: valorizzazione immobiliare per le Ferrovie dello Stato, sistemazione di buchi finanziari di Expo e Arexpo – con contorno di banche-, lotta all’interno del mondo della ricerca tra pubblico e privato, lotta di potere all’interno del mondo universitario e accademico.

La politica ha anch’essa una sua parola chiave, il passe par tout foglia di fico: partecipazione.

La composizione di questi interessi, quali del tutto legittimi e quali oltre la soglia del legittimo, devono trovare una composizione indispensabile per risolvere due problemi contigui: da un lato la necessità di regolare/autorizzare le trasformazioni territoriali con una velocità compatibile con un adeguato sviluppo economico e sociale del Paese, dall’altro lato allargare il più possibile la base di consenso per limitare le sacche di dissenso spesso strumentalizzate ai soli fini di lotta politica.

Il problema riguarda la formazione degli strumenti di politica urbanistica, il loro procedimento, i tempi, la correttezza metodologica, la condivisibilità e l’efficacia, sia si tratti di strumenti generali, il PGT, sia si tratti di strumenti attuativi come gli Accordi di Programma o persino grandi convenzioni tra pubblico e privato.

L’annuncio dato dal Comune dell’apertura delle consultazioni per la formazione del nuovo PGT e il lancio di un questionario indirizzato alla città pongono un problema metodologico urgente.

Un corretto approccio non può prescindere dalla redazione e assunzione da parte della pubblica amministrazione (PA) di un “protocollo” per la formazione degli strumenti delle politiche urbanistiche, accettato e condiviso dagli stakeholder e dai cittadini, in un ambiente trasparente e basato su di un’accessibilità facile e abilitante.

Come per qualunque protocollo di ricerca si dovrà individuare la materia e il risultato o i risultati attesi, e poi, solo a titolo di esempio, l’individuazione degli attori e gestori del processo, i dati disponibili, quelli da ricercare, la formulazione di prime ipotesi di lavoro, l’individuazione delle fasi e delle attività e la loro successione temporale, le consultazioni, l’adozione di momenti di partecipazione, l’eventuale predisposizione di simulazioni, la redazione del prodotto di ricerca, la sua presentazione per la discussione, la redazione finale.

Alcune delle fasi che ho indicato sono previste per legge: ad esempio per la redazione del Piano di Governo del Territorio, dove esemplarmente non si dice con chiarezza a che punto dell’elaborazione da parte degli uffici della PA debba avvenire la “consultazione”, spesso confusa con la partecipazione. Detto per inciso, chi è consultato deve sapere a che punto del percorso si chieda un suo intervento per dare la risposta appropriata.

Perché la discussione sia produttiva, la pubblica amministrazione deve chiarire cosa intenda per consultazione e partecipazione, attività distinte ma con ricadute reciproche fortissime.

Senza la presunzione di esaurire minimamente la questione largamente dibattuta, basta pensare ai tipi di consultazione open-call o selected-call, due segmenti del crowdsourcing*, oggi messe in atto dal Consiglio Comunale in maniera casuale sul tema del PGT e sul tema degli scali, legati entrambi alla strategia della democrazia partecipativa, detta anche inclusiva, e, per finire, alla “remunerazione” di chi partecipa attivamente alle operazioni di crowdsourcing.

Una prima notazione a proposito del questionario indirizzato ai cittadini: domande che sono solo un elenco di titoli e non una richiesta di opinione ed è difficile capire quale nesso abbiano molte (troppe?) domande rispetto alle determinazione di una scelta di natura urbanistica.

Meglio sarebbe dire che si tratta di un questionario generale dal titolo “la città che vorreste”, ossia ben al di là del perimetro dell’urbanistica come comunemente viene intesa.

Sugli obbiettivi e sull’uso di questo questionario deve ancora essere detto tutto.

* crowdsourcing significa affidare un compito a un vasto e indefinito gruppo di persone (crowd, la folla), tramite una open-call o una selected-call, ovvero una chiamata aperta cui chiunque può rispondere in quanto cittadino (open) o in quanto categoria di cittadini (selected).

Postilla

«Mentre si rafforza l’opposizione di accademici e professionisti al progetto per il riuso degli Scali Ferroviari e mentre, contro il trasferimento delle Facoltà scientifiche dell’Università Statale dal quartiere di Città degli Studi nelle aree exEXPO, si sviluppano le iniziative di contrasto di un comitato di residenti sempre più numeroso e agguerrito ("Salviamo città studi"), il Comune di Milano avvia le consultazioni per il nuovo PGT. E la partecipazione civica? Sarà affidata a un questionario, al quale i cittadini dovranno rispondere entro il 14 aprile (!). Il questionario è organizzato su tematiche generiche e astratte (attrattività e inclusione, rigenerazione urbana, resilienza, qualità degli spazi e dei servizi per il rilancio delle periferie, semplificazione e partecipazione); e, all’interno di ciascuna tematica, su una serie di quesiti dettagliati ai quali rispondere con una valutazione da 1 a 4 (quesiti rispetto ai quali nessun cittadino dotato di buon senso o di un po’ senso civico potrebbe astenersi dall’attribuire un punteggio alto). Insomma: una iniziativa retorica, inutile e particolarmente irritante, perché finalizzata a occultare la forte conflittualità che si sta manifestando nei confronti dell’amministrazione comunale da parte della cittadinanza attiva. Che ormai da decenni partecipazione e trasparenza siano considerate dall’amministrazione di Milano, una procedura meramente retorica la prima, e un inutile orpello la seconda (e, purtroppo, non solo a Milano,vedi l'articolo di Enzo Scandurra , La benedetta partecipazione) già lo sapevamo. Ma in questo caso, l’iniziativa dell’Assessore all’Urbanistica e del suo team di ‘esperti’ sfiora il ridicolo»

«Per creare le condizioni di autonomia rispetto agli interessi locali, è necessario ricostituire quella dialettica tra funzioni comunali e sovracomunali, tra pianificazione urbanistica e di area vasta». millenniourbano, 28 marzo 2017 (c.m.c.)

Nel corso del 2016 alcuni comuni di province confinanti fanno sapere, con atti dedicati o attraverso modalità informali, di essere interessati ad entrare nel territorio amministrato dalla Città metropolitana di Milano. La bocciatura del referendum di dicembre ha reso il processo di modifica dei confini più complesso, ma viene da domandarsi guardando alle difficoltà in cui si muovono le città metropolitane (non solo Milano) se convenga realmente ad un comune entrare nella Città metropolitana.

Le province sono rimaste nella Costituzione, e anche se molto alleggerite nelle risorse (sia bilanci che personale) continuano a gestire funzioni importanti. Con gli amministratori comunali negli organi provinciali sono ora rappresentati i territori, più che i gruppi politici, e per via del voto pesato ponderalmente sugli abitanti sono il comune capoluogo e i comuni più grandi a contare veramente. Tuttavia anche i piccoli possono farsi sentire se riescono tra loro ad aggregarsi secondo alleanze territoriali.

Nelle città metropolitane invece il doppio incarico del Sindaco, imposto dalla legge, colloca il comune capoluogo in una situazione di assoluto dominio, ben diversa da quella primus inter pares del comune capoluogo negli organi delle province. Alcuni comuni di confine sono attratti dal passaggio alla città metropolitana immaginando facilitazioni nell’accesso a finanziamenti nazionali ed europei, che però saranno in gran parte intercettati dal Comune capoluogo e destinati ai propri cittadini.

Dopo un primo momento di disorientamento, successivo all’approvazione della Legge Delrio, i Sindaci delle città metropolitane, anche quelle dove lo statuto ha previsto l’elezione diretta, hanno cominciato ad apprezzare il potere che deriva loro dal doppio incarico, e difficilmente se ne priveranno, o permetteranno al legislatore nazionale di sottrarglielo. Dispongono di fatto di un territorio molto più ampio, oltre i confini amministrativi, da utilizzare per soddisfare i bisogni dei propri cittadini elettori andando a scaricare gli effetti indesiderati sui cittadini di altri comuni, e sui relativi Sindaci, ai quali quei cittadini rivolgeranno le proprie lamentele. Dispongono inoltre di un potere politico ampliato, anche oltre la semplice somma dei due incarichi, che proietta questi doppi sindaci verso il protagonismo nella futura scena politica nazionale.

Il documento con le linee di indirizzo per l’avvio del procedimento del nuovo PGT (Piano di Governo del Territorio) del Comune di Milano ha contenuti generici (1), e mancano indicazioni su alcuni dei temi oggi più caldi, come le aree degli scali ferroviari, l’edilizia sociale, l’inquinamento atmosferico, o inquietanti, come la scalata di ferrovie al metrò M5 o il rinnovato interesse dell’Amministrazione per la riapertura dei Navigli. Se nel documento poco si dice sulle questioni locali, praticamente assenti sono quelle sovracomunali.

A monte si dovrebbe, secondo logica, prima fare il piano della Città metropolitana, fissando obiettivi, riferimenti e azioni prioritarie sugli aspetti di area vasta, e solo dopo i PGT dei comuni (il piano strategico approvato la scorsa primavera non ha alcuna funzione utile a tale fine). Per contare nel sistema decisionale transfrontaliero e transcontinentale, che si sta formando tra le grandi città del mondo bisogna entrarci con il sistema metropolitano tutto, non con il solo comune capoluogo. Ma bisogna prima pensare a ristabilire condizioni dialettiche, tra due istituzioni, il capoluogo e la città metropolitana, che dovrebbero collaborare pur restando autonome, svolgendo ognuna in modo indipendente le funzioni che le sono proprie.

Pensare ad un’unica struttura che sviluppa sia il PGT del Comune capoluogo sia il PTM metropolitano, che ovviamente sarebbe in capo e controllata dal Comune (come ci insegna l’esperienza del Piano strategico dell’anno scorso), rischia di aggravare il cortocircuito istituzionale, già creato dal doppio incarico di Sindaco sulla stessa persona, confondendo le funzioni comunali dell’urbanistica con le funzioni sovracomunali di pianificazione della Città metropolitana. Le decisioni sugli aspetti di area vasta, di competenza dell’ente intermedio secondo la legge, devono essere prese da un organismo indipendente, autonomo rispetto agli interessi locali.

L’iniziativa del comune capoluogo non è di per se stessa un male, anzi. I problemi sono casomai generati dal doppio incarico imposto per legge. In alcune Province il Sindaco del Comune capoluogo è anche Presidente, ma è una scelta dei comuni, ed è revocabile. Quindi più facilmente negli organi provinciali possono mettersi in moto meccanismi di compensazione o correzione in caso il comune più grande mostri tentazioni egemoniche. In mancanza di organi politici eletti direttamente, che prima rappresentavano i cittadini dell’intera provincia, sono oggi le città capoluogo i quasi unici soggetti ad avere la forza politica e tecnica per promuovere iniziative aggregative all’interno degli organi provinciali.

A Milano si è invece stabilito con legge che l’incompatibilità tra cariche non esiste, qualunque cosa accada. Ma non è l’unico problema, a Milano non solo il capoluogo, ma la stessa Città metropolitana è molto più piccola, almeno in termini di superficie, del sistema metropolitano reale, che si estende fino ad includere polarità urbane e parti consistenti delle province confinanti, anche quella di Novara che si trova in Piemonte. Neppure il PTM sarebbe dunque luogo adeguato (figuriamoci dunque il PGT !) da cui partire per definire il futuro del sistema metropolitano, del quale il capoluogo Milano è motore e indiscusso riferimento nelle relazioni nazionali e internazionali, ma con il quale Milano è anche inestricabilmente connessa, tanto da non potere sopravvivere come soggetto internazionale senza il supporto dei territori con i quali vive in simbiosi (2).

Di tutto questo non si trova riscontro nel documento di linee guida. Da nessuna parte si parla del sistema metropolitano reale, forse anche perché il doppio sindaco non può su quest’ultimo esercitare il potere assoluto che invece gli compete sulla Città metropolitana. E quindi di questo il documento semplicemente non fa cenno, dimenticando che è stata l’OCSE, non un organismo qualunque, ad evidenziare già nel 2006 che il sistema metropolitano è molto più esteso dei confini della vecchia provincia.

L’avviso di avvio del procedimento e le allegate linee guida seguono un’impostazione generica e minimale nei contenuti, adempiendo secondo lo stretto necessario a quanto previsto da una legge regionale che vede l’avvio del procedimento e la relativa consultazione come un mero provvedimento amministrativo senza coglierne, o volutamente ignorando, le potenzialità di coinvolgimento dei cittadini.

La legge non chiede nulla in più di quello che Milano ha fatto, ma uno sforzo in più ci poteva stare visto che si tratta del primo importante atto di pianificazione successivo alla storica istituzione della Città metropolitana a gennaio 2015. Si poteva anche essere un po’ più innovativi nel metodo, oltre che un po’ meno avari nei contenuti. Le linee guida potevano essere basate su un serio rapporto di monitoraggio del PGT in vigore. Il monitoraggio è obbligatorio per legge, ed era stato programmato nella VAS del PGT vigente.

Con i dati del monitoraggio si sarebbe potuto costruire un rapporto per rendere conto sull’evoluzione del territorio e dell’ambiente, sullo stato di attuazione degli obiettivi del PGT vigente, sulla verifica di efficacia delle strategie del piano approvato nel 2012. Tutte informazioni che sarebbero state preziose per coinvolgere su questioni concrete, non su dichiarazioni retoriche, i rappresentanti degli interessi organizzati, i cittadini tutti, per valutare cosa ha funzionato e cosa no dell’esperienza precedente e proporre misure correttive.

Tornando alla discrasia tra Sistema metropolitano e Città metropolitana è evidente che prima del PGT, ma anche del PTM, bisognerebbe pensare a modalità e strumenti di governance che includano nelle scelte di grande scala le polarità urbane che sono esterne alla Città metropolitana ma interne al Sistema metropolitano. Una governance del sistema metropolitano che potrebbe magari essere promossa unitamente dal doppio Sindaco con la Regione, che si farebbe carico di garantire la partecipazione delle polarità urbane delle province confinanti, e potrebbe per Novara collegarsi con la Regione Piemonte.

Potrebbe essere un modo per ricostituire, non solo in via teorica, quella dialettica tra funzioni comunali e sovracomunali, tra pianificazione urbanistica e di area vasta, che è necessaria per creare le condizioni di autonomia rispetto agli interessi locali. Per passare dalla teoria all’operatività bisognerebbe capire se la Regione sia in grado di assumere un ruolo di coordinamento territoriale, funzione che ad oggi non ha mai svolto, a parte qualche tentativo ancora acerbo e preliminare nei piani territoriali regionali d’area e nella variante del PTR attualmente in discussione in Consiglio. Ma questo è un altro discorso, che lo spazio di questo intervento non consente di affrontare (3).

Note

(1) Come bene evidenzia Pierluigi Roccatagliata nel suo intervento su Arcipelago Milano del 22 marzo 2017, a commento delle linee guida che il Comune di Milano ha pubblicato per la consultazione formale di avvio del procedimento che si conclude il 31 marzo.

(2) Sulla discrepanza tra dimensione amministrativa e dimensione reale dei sistemi metropolitani vedere anche l’intervento dell’autore su Millennio Urbano del 4.11.2016 e nello specifico del caso Milanese gli interventi sempre dell’autore su Arcipelago Milano del 14.9.2016 e del 11.5.2016

(3) Il tema dell’adeguatezza del livello regionale nella funzione di coordinamento territoriale è trattato in un intervento dell’autore su Millennio Urbano del 14.04.2015.

«Un trasloco problematico per la città. Ma chi decide?» ArcipelagoMilano, 15 marzo 2017 (m.c.g.)

Vorrei tornare sulla questione del trasferimento delle Facoltà della Università Statale all’area Expo e del destino di Città Studi, riguardo al conflitto tra interesse del cittadino e interesse finanziario.

Rimando alle documentate argomentazioni già pubblicate su ArcipelagoMilano prodotte dall’associazione “Che ne sarà di Città Studi?” e dal Municipio 3 per chi ne volesse sapere di più, limitandomi qui a riassumerle per sommi capi ad uso di chi ancora non le conoscesse.

L’Università Statale ha intenzione di spostare le sue numerose facoltà dislocate nel quartiere Città Studi nelle aree di Arexpo, ove creerebbe un nuovo campus universitario. Ciò tra l’altro avverrebbe in concomitanza con il trasferimento altrove dell’Istituto Tumori e del Besta, liberando così complessivamente nella zona circa 350.000 mq di edifici. Il che vuole anche dire che almeno 20.000 persone, studenti e impiegati, cesseranno di usare quei servizi diffusi in tutto il quartiere, dai mezzi di trasporto alle attività commerciali e residenziali, che ne fanno ora un quartiere ottimamente servito e vitale.

È evidente che una così massiccia dismissione, con poche o nessuna prospettiva di rioccupazione degli edifici abbandonati per gli anni a venire, produrrà con certezza un lungo periodo di gravissimo degrado per l’intero quartiere. Mentre 20.000 persone saranno trasferite in una zona molto più periferica, che per un certo tempo difficilmente garantirà loro lo stesso livello di servizi disponibili a Città Studi.

Perché tutto ciò avviene? Per quanto è riassunto nella lapidaria considerazione del Rettore della Statale: per ristrutturare le attuali sedi storiche del quartiere «Avremmo costi di circa 1.500 euro al metro quadro. L’investimento complessivo sarebbe analogo a quello necessario per il trasferimento sulle aree Expo».(Il Fatto Quotidiano 19 luglio 2016)

Dunque per il Consiglio di Amministrazione dell’Università è ovvio che il gioco non vale la candela, conviene abbandonare Città Studi e trasferirsi in una nuova sede sui terreni di Arexpo, così risolvendo anche parte del problema di quest’ultima: come far fruttare la sua faraonica e per ora deserta urbanizzazione.

Proprio questo è il punto. È ormai cosa arcinota e acquisita da molto tempo che il “valore” di una città o di una sua parte non è costituito solo dai suoi edifici e dalle sue infrastrutture, ma anche e soprattutto dalla linfa che dà loro un senso: la presenza di attività umane e del loro intrecciarsi in un legame di reciproca necessità e valorizzazione. Senza questa linfa edifici e infrastrutture perdono ogni valore, e il degrado si estende a tutto l’intorno. Dunque è questa linfa che conferisce il “plusvalore” anche ai beni privati, e che in buona sostanza rappresenta ciò che si può definire “bene comune”, in quanto immateriale e generale generatore di valore.

Inoltre negli ultimi decenni la capacità dell’uomo di creare artificialmente qualità urbana dovunque lo si decidesse si è dimostrata una pericolosa illusione, che a fronte di pochissimi casi felici ha generato moltissimi mostri, di cui sono piene le periferie.

E a Città Studi, che ha già sofferto per i molti vuoti lasciati dalle scelte tecnico-finanziarie dei decenni precedenti (vedi zona Rubattino – Lambrate ma non solo), ci è voluto più di mezzo secolo per creare una fitta e solida rete di attività di commercio e servizi legate alla presenza quotidiana di studenti, docenti e impiegati. Il che ne fa una zona di Milano attiva, un corpo vivo, parte sana della città .Un perfetto esempio di “bene comune”, amplificato dalla qualità della sua urbanistica ottocentesca, con molto verde, e dagli edifici di cui è composta, comprese le sedi accademiche, alcune di valore storico.

È dunque ormai diffusa la consapevolezza che per la qualità di vita in una città è importante preservarne il tessuto insediativo recuperando il più possibile sia gli edifici esistenti che la delicata sinergia di funzioni che si è nel tempo creata tra essi e con le infrastrutture circostanti più significative . Conservare e ridensificare anziché dismettere e delocalizzare, anche quando questa operazione comporta investimenti maggiori di quelli necessari per nuove edificazioni, è la base di ogni politica insediativa moderna rispettosa dell’ambiente e delle persone.

Le pressioni del Governo per dare un senso all’operazione aree ex Expo hanno condizionato gli organi decisionali dell’Università Statale, spingendoli a ragionare come banali operatori immobiliari: se a me conviene delocalizzare lo faccio, e del bene comune chi se ne frega.

Peccato che questo messaggio sembri arrivare da una Università che si fregia del titolo di “Statale”, quasi considerasse privo di qualsiasi valore quello che sarebbe invece opportuno insegnare a tutti i suoi studenti, ovvero il rispetto per il bene comune.

Ma certo che una logica più virtuosa non si instaura mai se mancano indirizzi, incentivi e regole. Quindi ancora più deprimente è notare che il Comune e i suoi Municipi non mostrino alcun interesse alla questione, e non prendano posizione, colludendo di fatto con la visione opportunista di Arexpo.

Un’Amministrazione pubblica evidentemente poco interessata ad assumersi l’unico ruolo che le spetterebbe, ovvero quello di guardiano del “bene comune” nell’interesse di cittadini, non di questo o quell’imprenditore ancorché pubblico. Dunque per ora il destino di Città Studi sembra segnato. Viene da paragonare i responsabili di questo scempio annunciato a un ‘equipe di illustri chirurghi di indiscussa professionalità che si preparano a trapiantare un rene (le facoltà universitarie) da un donatore vivo (Città Studi) a un malato (Arexpo, che se no non ce la fa a riempire le sue preziose aree deserte).

Peccato che si siano dimenticati di chiedere al donatore se è d’accordo, e pronti a concludere: il trapianto è stato un successo, il paziente è vivo, sfortunatamente il donatore è morto.

Relazione introduttiva al convegno "Ex Scali ferroviari: la parola ai cittadini". Un tema decisivo per il futuro della metropoli lombarda: vinceranno gli affari immobiliari o le condizioni di vita degli abitanti di oggi e di domani? Milano, 18 marzo 2017



“Ex Scali ferroviari: la parola ai cittadini.
Convegno dibattito sull’uso delle ultime aree libere di Milano"
Palazzo Marino, Milano. 18 marzo 2017


Milano dispone ormai di poche risorse in termini di aree prevalentemente o totalmente non edificate e inutilizzate ma intercluse nel tessuto urbano. Tra queste principalmente gli scali ferroviari, la Piazza d’armi, la Goccia di Bovisa, le caserme ed altre minori.

Per quanto riguarda gli scali ferroviari si tratta di 1.250 000 mq, di cui 1.053.000 in trasformazione. L’accordo di programma destinava circa la metà di queste aree all’edificazione, con la possibilità di realizzarvi 674.00 mq di SLP per funzioni residenziali e terziarie, pari a 2.022.000 mc convenzionali e circa 4.000.000 mc reali vuoto per pieno, oltre ad eventuali servizi pubblici e privati in aggiunta, lasciando a verde circa 525.000 mq.

Lo scopo della giornata odierna è riflettere sulla opportunità che venga data rapida attuazione a previsioni urbanistiche di questa natura, più o meno rivisitate, come sembra sostenere la giunta o invece riconsiderare queste scelte, anche alla luce della prospettiva, comunque già avviata, della revisione dell’intero piano di governo del territorio. Cercando di valutare la questione non soltanto dal punto di vista degli aspetti procedurali, di diritto e societari come è stato già fatto in altre occasioni, ma primariamente dal punto di vista propriamente urbanistico: cosa può sperare, volere, ottenere la città dalla trasformazione di queste aree?

Solo un accenno alle principali motivazioni di chi caldeggia il rapido varo del progetto: dare un futuro ad aree da tempo inutilizzate e in qualche parte degradate, alimentare con offerte qualificate il mercato immobiliare, utilizzare parte dei proventi immobiliari per realizzare vari tipi di servizi, tra i quali la cosiddetta “circle line”, finalizzata ad incrementare l’utilizzo del trasporto pubblico. Argomentazioni largamente pubblicizzate, ad esempio nel workshop di FS di dicembre, sulle quali perciò non pare necessario soffermarsi oltre.

Da parte mia svilupperò invece le ragioni del dubbio e delle necessità di approfondimento, che mi paiono consistenti.

Partiamo dall’aria che respiriamo. L’Italia (a causa di Milano in primis) è sotto procedura di infrazione per la persistente violazione dei limiti europei sulla qualità dell’aria. La Commissione europea ha inviato all’Italia testualmente un “ultimo avvertimento” il 15 febbraio 2017, intimandogli di provvedere con adeguate misure. Dopo gli avvertimenti scatteranno le sanzioni che saremo noi cittadini a dover pagare. E’ chiaro e fuori discussione che la densità edilizia e di traffico nell’area urbana sono le cause di tale situazione di inquinamento atmosferico, date le condizioni geografiche e meteo climatologiche che non sono modificabili dall’uomo. Primo dubbio allora: non si ritiene opportuno fermare o almeno rinviare ogni ulteriore densificazione edilizia, come quella ipotizzata sugli scali e su altre aree dismesse, fino al raggiungimento di uno stabile miglioramento della qualità dell’aria, o almeno all’ avvio di un efficace piano di risanamento? In particolare le funzioni attrattive (cioè caratterizzate da presenze prevalentemente o esclusivamente diurne, dunque uffici, commercio, servizi pubblici e privati, etc.) generalmente contribuiscono alle emissioni più di quelle residenziali, per ragioni sia di richiamo di traffico che di caratteri funzionali e tipologici. D’altro canto il mercato milanese e le non-norme urbanistiche vigenti tendono a spostare il mix funzionale delle iniziative immobiliare verso tali funzioni. Non si ritiene dunque di dovere in particolare contenere l’ulteriore intensificazione nella città di tale gruppo di funzioni, invece largamente ipotizzate e auspicate sugli scali?

L’ulteriore addensamento di funzioni attrattive nella città centrale accresce le criticità nei comuni di cintura e in particolare in quelli dove pure esistono sia risorse territoriali dismesse sia centri terziari sviluppatisi nei decenni passati, che talvolta presentano ormai condizioni critiche dal punto di vista dell’utilizzo. Non si ritiene dunque di dover riconsiderare la deriva in accrescimento di tali funzioni a Milano anche per ragioni di equilibrio sociale ed economico rispetto al resto dell’area metropolitana? Altrimenti si corre il rischio che la crescita di Milano, invece di essere sviluppo armonico, si trasformi in qualcosa di molto diverso: concorrenza sleale, (al limite del parassitismo) nei confronti dell’hinterland. Dunque prima di avviare nuove grandi operazioni terziarie milanesi si misuri bene lo stato di salute, sotto questo profilo, della cintura metropolitana.

L’entità dello stock edilizio inutilizzato o invenduto, da sommarsi a quello non ancora realizzato ma già convenzionato o concesso è, a Milano, certamente molto rilevante, benché ad oggi non precisamente quantificato. Non si ritiene opportuno sospendere decisioni che legittimino nuova produzione edilizia fino all’accertamento dell’entità di tale patrimonio e soprattutto all’assunzione di misure efficaci per il suo “smaltimento”, posto che l’ulteriore alimentazione di un mercato immobiliare sovraccarico potrebbe avere effetti ulteriormente depressivi e, quel che è peggio, distorsivi rispetto a diverse e più moderne e corrette direzioni di investimento?

Il sistema del trasporto pubblico milanese è stato storicamente conformato da una cabina di regia strettamente urbana, con conseguente sotto dotazione infrastrutturale e funzionale dell’hinterland, come dimostra la pronunciata sproporzione del taglio modale tra trasporto pubblico e privato, nella cintura rispetto al capoluogo. Non si ritiene sia giunto il momento di correggere questo squilibrio, spostando la cabina di regia dalla città alla metropoli reale (dunque Monza compresa)? E di valutare se la priorità di investimento non debba essere data a prolungamenti esterni delle linee metropolitane, alla protezione del trasporto pubblico, al potenziamento in genere del servizio extraurbano, particolarmente su ferro, alla organizzazione degli interscambi ed altro ancora, piuttosto che alla realizzazione della Semicircolare milanese, affetta da limiti funzionali non piccoli ( solo un treno ogni 20 minuti nella tratta nord più densamente edificata) e che comunque aumenterebbe invece di diminuire il differenziale di accessibilità tra città centrale e hinterland ( non dimentichiamo che la stazione di Porta Romana è a soli 2km da piazza del Duomo) ? E poi esisterebbero davvero le risorse per fare la Semicircolare? Il vecchio ADP vi destinava 50 milioni, considerati sufficienti per alcune delle sistemazioni di stazione, utili per Ferrovie indipendentemente dalla attivazione di una linea urbana. E il resto del progetto quanto costa e chi lo finanzia? Nella documentazione non risulta esservi risposta.

Chi sostiene la bontà della trasformazione ipotizzata sugli scali (concentrazioni volumetriche di funzioni attrattive e più trasporto pubblico) la argomenta con il miglioramento della percentuale traffico pubblico / privato che si otterrebbe. Ma di solito non considera che la riduzione del valore percentuale della gomma sul ferro sarebbe pagata con un aumento del suo valore assoluto, con esiti finali altamente incerti e potenzialmente anche negativi: cioè con un possibile aumento assoluto del traffico. Non sembra opportuno approfondire assai bene la non semplice questione prima di prendere decisioni irrevocabili?

Gli scali ferroviari sono invece una potenziale risorsa basilare per il futuro sviluppo di una logistica urbana non inquinante: arrivo delle merci su ferro molto vicino alla destinazione finale e ultimo miglio su mezzi elettrici di varia tipologia. Si tratta naturalmente di una prospettiva che presuppone una trasformazione profonda del sistema di trasporto merci nella regione e anche nel paese, che tra l’altro è ormai auspicata anche dalle Ferrovie. Data l’insostituibilità delle aree in questione per ospitare queste possibile attrezzature, non si ritiene obbligatorio far precedere ogni ipotesi di trasformazione degli scali dalla messa a punto degli schemi progettuali per il loro utilizzo come piattaforme logistiche urbane innovative, in modo da non bruciare per sempre questa opportunità? E ciò non modificherebbe il perimetro stesso delle aree in dismissione?

La Milano compatta ha una dotazione di verde ancora pressoché limitata ai parchi ottocenteschi centrali, nonostante nel frattempo siano completamente cambiate l’entità, le esigenze e la sensibilità ambientale dei cittadini. Non si ritiene che, oggi, verde urbano voglia dire anche orti urbani ed agricoltura di prossimità, land art, grandi spazi attrezzabili per attività del tempo libero, creazione di paesaggio ed altro ancora e che per tali funzioni gli scali e le altre aree dismesse, a maggior ragione se fortemente urbane e collegabili al sistema del verde metropolitano, siano una risorsa irripetibile, imperdibile e in realtà di enorme valore non solo ambientale ma anche economico strategico, proprio come è stata, ad esempio, la creazione del Central Park a New York? Gli effetti della trasformazione a verde di queste aree sarebbero clamorosi: con gli scali la dotazione di verde della città centrale e semicentrale (per intendersi entro o a diretto contatto con la circolare 90/91) crescerebbe del 57%. Una quantità già apprezzabile persino da un punto di vista strettamente ecosistemico/ambientale (qualità e temperatura dell’aria). Analogamente l’utilizzazione a verde della Goccia e di Piazza d’armi avrebbero un valore simile, e persino più radicale, dotando la fascia urbana compatta semiperiferica di grandi parchi di cui è oggi quasi del tutto priva, essendo quelli esistenti situati solitamente in cintura, cioè all’esterno del continuo edificato. Il sistema verde Bovisa- Farini, avrebbe poi il carattere di una penetrazione di verde quasi continua dai parchi di cintura al centro terziario di Porta nuova: un vero Central Park milanese.

Non mancano nel mondo esempi di grandi parchi realizzati specificamente su scali ferroviari dismessi. Ad esempio il Central Park di Valencia, il Millennium Park di Chicago, il Rail Deck Park di Toronto, il Park Spoor Nord di Anversa, lo State Historic Park e il Taylor Yard River di Los Angeles, il Park am Gleisdreieck e il Schöneberger Natur-Park Südgelände a Berlino. Da notare che di solito, grazie alla geometria fusiforme queste nuove aree verdi presentano il vantaggio di un grande allungamento degli affacci: il che moltiplica gli effetti di riqualificazione urbana. Anche a Milano i fronti direttamente riqualificati sarebbero assai rilevanti.

Gli scali, la piazza d’armi, la Goccia della Bovisa, ed altre ancora, sono aree sostanzialmente pubbliche, e come tali da non doversi nuovamente ripagare con altri soldi pubblici. Non si ritiene che tali aree debbano essere perciò destinate principalmente alla creazione dei nuovi parchi e di eventuali altri servizi necessari e richiesti dalla popolazione, limitando la nuova edificazione alla quantità occorrente per pagare il costo delle opere di sistemazione a verde e di eventuali altri servizi o dell’edilizia residenziale pubblica (oltre che degli smantellamenti, delle bonifiche necessarie, e della sistemazione delle stazioni)? Quale può essere l’ordine di grandezza della nuova edificazione occorrente in tale ipotesi? Il PGT stima ufficialmente l’utile immobiliare medio a Milano in 1.000 €/mq SLP. A Farini, Genova e Romana, i valori immobiliari sono notevolmente superiori alla media e dunque superiore è l’utile immobiliare, che potremmo prudenzialmente valutare in almeno 2.000 €/mq. Se quantifichiamo gli extra costi che si vogliono coprire nella misura indicata dal vecchio ADP e vi aggiungiamo quello della sistemazione a parco, si giunge ad un extra costo totale di circa 314 mln €, corrispondente all’utile immobiliare di 157.000 mq SLP contro i 518.000 dell’edilizia libera prevista nel vecchio ADP: meno di un terzo. Questo ridimensionamento consentirebbe di lasciare e sistemare a verde circa l’80% delle aree in dismissione. Ora, è del tutto evidente che i conti non si possono fare con questa grossolana approssimazione, sufficiente solo per determinare l’ordine di grandezza delle variabili in gioco, ma questi sono i ragionamenti che vorremmo veder sviluppati ed affinati dal Comune per tentare di definire un possibile accordo con FS che sia nell’effettivo interesse pubblico.

Il vecchio ADP è molto lontano da questo modello. Non mi soffermo su questo punto perché un altro intervento entrerà nel merito dello squilibrio tra utilità pubblica e privata nel vecchio ADP.

Quale procedura adottare? Solo un accenno: sembrerebbe di poter dire meglio e quasi obbligatoriamente all’interno della revisione del PGT e comunque e soprattutto con approccio metropolitano, data la vastità delle implicazioni extra situ, che difficilmente possono essere trattate di striscio ed accidentalmente in un ADP.

Chi deve rispondere a tutte queste domande? Certo gli amministratori con adeguati supporti tecnici. Ma su tali questioni, benché non semplicissime, vorremmo che i cittadini fossero bene informati e direttamente chiamati ad esprimersi. La città è dei cittadini e quando sono in gioco grandi questioni e risorse irriproducibili è giusto che possano influire direttamente sulle decisioni. L’urbanistica ai cittadini! Questa è la rivoluzione che oggi viene proposta.

«Quali forme e funzioni alternative a quelle puramente decorative possono essere immaginate per le aree verdi che fanno parte dello spazio pubblico e come esse possono adattarsi ai bisogni e alle diverse modalità di fruizione della città?» Millennio urbano, 1 marzo 2017 (c.m.c.)

Una filosofia del verde urbano è questione seria ed essa ha innanzitutto bisogno di un glossario per inverarsi sia nella sua declinazione amministrativa che nella percezione collettiva della parte non edificata delle città. Vale la pena tornare quindi sulla polemica delle palme messe a dimora nelle aiuole di piazza del Duomo a Milano e farlo a partire da alcuni concetti sulla cui confusione spesso indugiano gli amministratori.

Partiamo quindi dalla nozione di giardino pubblico, al quale appartiene l’aiuola che di esso è una versione spazialmente limitata e preclusa alla pubblica fruizione. Sorvoliamo qui sulla storia dell’apparizione dei giardini pubblici nello spazio urbano per concentrarci solo un attimo sui loro aspetti progettuali e sulle relazioni di questi ultimi con gli elementi naturali.

Rispetto allo scandalo delle palme a Milano ciò che qui interessa sottolineare è che i giardini, in ogni loro forma e manifestazione aiuole comprese, sono un consolidato esempio di globalizzazione botanica e l’arte della composizione delle differenti specie vegetali ha storicamente cercato di essere qualcosa di distinto dalla rappresentazione della natura circostante. Segno di questo scostamento dalla imitazione della natura può essere colto da ciò che scriveva nel 1838 lo scozzese John Claudius Loudon in The Suburban Garden. Piantare alberi e arbusti non autoctoni era l’unico modo per fondare un’arte del giardinaggio altrimenti impossibile, dato che la semplice imitazione della natura non ha di per sé qualità artistiche. A partire dalla metà del XIX secolo il principio dello stile gardenesque, che ha influenzato tanto i giardini privati quanto quelli pubblici, si è andato via via consolidando come un vasto repertorio di piante esotiche.

Di esse fanno parte le palme cinesi (Trachycarpus fortunei) piantate nell’aiuola tripartita di piazza del Duomo che hanno stupidamente fatto gridare all’africanizzazione di Milano. A ragione il progettista del recente allestimento sponsorizzato da Sturbucks ha affermato che non c’è da meravigliarsi dell’uso delle palme e dei banani, perché soprattutto le prime, nella versione cinese climaticamente più adattabile, sono presenti da oltre un secolo anche nei giardini lombardi. L’esotismo della composizione vegetale, che sta per essere completata di fronte al monumento che di Milano è il simbolo, non ha quindi di per sé nulla di scandaloso ed è una solenne stupidaggine rivendicare il primato delle piante autoctone negli allestimenti delle aiuole.

Eppure nel precedente allestimento della piccola area verde di piazza del Duomo, realizzato grazie ad un differente sponsor nel 2014, un insieme di alberi, arbusti e piante erbacee “autoctone della pianura Padana” aveva sostituito i “fiorellini laccati e cavolfiori ornamentali nel luogo simbolo di Milano”. “ La natura entra in città. E lo fa dalla porta principale”, era la perentoria affermazione che accompagnava la descrizione giornalistica della nuova filosofia milanese del verde urbano, che«non asseconda il gusto del momento con fiori che durano una stagione, ma preferisce specie perenni, nella loro forma spontanea, che rappresentano il territorio».

Qui sta lo scandalo, almeno nel significato etimologico di inciampo: solo tre anni fa l’obiettivo era la rinaturalizzazione delle aree verdi, con conseguente risparmio sui costi di gestione, e ora si dà via libera ad una interpretazione decisamente artificiale dell’aiuola che fa parte della pavimentazione della piazza simbolo di Milano. Quanta confusione, quindi, tra i carpini del 2014 e le palme del 2017, riguardo la funzione ecosistemica e simbolica del verde urbano.

Le palme dello scandalo, al di là del dibattito sul valore estetico del nuovo allestimento dell’aiuola, potrebbero fornirci l’occasione per interrogarci sulla funzione di quel fazzoletto di verde non fruibile a chiusura di una piazza che è ormai anche uno dei centri nevralgici dei flussi turistici globali. Rispetto poi al fatto che non vi è dubbio che un’aiuola abbia eminentemente una funzione ornamentale c’è però da chiedersi cosa significhi questa infinitamente piccola mimesi della estremamente grande diversità botanica del pianeta modificata ogni tre anni per iniziativa dello sponsor di turno con l’alternanza di flora locale e globale. Quali forme e funzioni alternative a quelle puramente decorative possono invece essere immaginate per le aree verdi che fanno parte dello spazio pubblico e come esse possono adattarsi ai bisogni e alle diverse modalità di fruizione della città?

A questo riguardo una riflessione può essere fatta a partire dalla foto del 1943 che fa da testata a questo articolo. Durante l’ultima guerra la necessità di trovare spazi per la produzione di cibo in una città ridotta alla fame non aveva risparmiato l’aiuola di piazza del Duomo, dove al posto delle piante ornamentali fu seminato il grano. In anni più recenti Renzo Piano e Claudio Abbado avevano pensato a quell’area per mettere a dimora una piccola parte dei 90.000 alberi che avrebbero dovuto costituire il rimedio principale ai mali ambientali di Milano secondo la provocatoria proposta del grande direttore d’orchestra.

Essa aveva sicuramente il pregio di considerare il verde urbano molto al di là della funzione decorativa da mero compendio vegetale delle composizioni architettoniche tipico della tradizione Beaux-Art. Tra la decorazione vegetale, la produzione di cibo e la valenza ecosistemica si snoda tutta l’indeterminatezza del concetto di verde urbano, che include una certa quantità di usi diversi del suolo: dalle aiuole spartitraffico alle aree agricole e boschive interne alla città, passando per i parchi pubblici, le aree cani, i giardini privati e persino le terrazze e i balconi.

Il passaggio dalla gestione pubblica a quella sponsorizzata di quella porzione di verde urbano rappresentata dall’aiuola di piazza del Duomo dovrebbe quindi farci riflettere su quanto sia fondato continuare a considerarla tale. Tanto le piante autoctone quanto quelle esotiche vengono temporaneamente messe a dimora in una scenografia di elementi vegetali che diventa un episodio del paesaggio urbano. Se la sua funzione è simile a quella che hanno le fioriere sui balconi degli edifici, essa avrà necessariamente poco a che fare con il concetto di “area verde” inteso come spazio non edificato e non impermeabilizzato.

Se è così lo scandalo delle palme non deve sorprendere, ma invece deve meravigliare la confusione che regna sul concetto di verde urbano. Esso viene continuamente sbandierato come elemento cruciale di concetti quali la sostenibilità, la resilienza e l’equità sociale delle città, finendo così per far parte della ulteriore confusione che attorno ad essi gravita. Spesso utilizzato per operazioni di creazione preventiva del consenso delle politiche pubbliche, esso viene infine assimilato all’idea di bene comune che piace tanto agli amministratori in virtù della sua genericità.

Se si vuole affrontare seriamente una nuova filosofia del verde urbano che lo sottragga innanzi tutto alla mera funzione decorativa, diventata economicamente insostenibile per le casse pubbliche, si deve prioritariamente far uscire il concetto dalla vaghezza con il quale lo si evoca quando di mezzo ci sono questioni importanti come il rapporto tra pubblico e privato nella gestione delle città.

Riferimenti

L. De Vito,Orti perenni e prati fioriti la nuova filosofia del verde inizia da piazza Duomo, La Repubblica, 4 luglio 2014.

«I prefabbricati sono costati 6,5 milioni, cade l'idea di usarli per allestire un villaggio della solidarietà e ospitare i senzatetto, dopo il no netto della Regione alla possibilità di utilizzarli per i profughi. Verrà ceduto a chi paga le spese per smontarlo». la Repubblica, ed Milano, 27 febbraio 2017 (p.s.)

E anche l'ultimo tentativo del Comune di "salvare" il campo base di Expo trasformandolo in un "villaggio dell'accoglienza " per sfrattati e senzatetto è fallito. Alla fine Palazzo Marino si è arreso. Con l'assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino che accusa la Regione di «atteggiamento ottuso». Il motivo? «Finora non ci hanno risposto: mi pare evidente che non vogliano aiutarci e a questo punto non possiamo perdere più tempo ». Corsa terminata, si torna alla casella di partenza. E al bando che i liquidatori di Expo spa pubblicheranno già in questi giorni. Obiettivo: vendere al miglior offerente, che dovrà anche smontarle a proprie spese, le palazzine prefabbricate con 576 alloggi, ma anche uffici, un edificio utilizzato come mensa e un magazzino.

Sembra una storia senza fine, quella dell'ex campo base. Una piccola città sorta a Rho, a un chilometro in linea d'aria dal sito, per accogliere durante la corsa contro il tempo del cantiere gli operai che hanno costruito i padiglioni e, durante i sei mesi dell'Esposizione, le forze dell'ordine che hanno vigilato sull'evento. Una sorta di Fortezza Bastiani, poi. Rimasta intrappolata dalle polemiche politiche, come quelle che hanno diviso i partiti e le istituzioni sulla possibilità di accogliere i migranti.

Un "no" alla presenza dei profughi, che la Regione ha continuato a ribadire. Ricordando come gli accordi originari tra Expo spa e il Comune di Rho imponessero lo smantellamento delle costruzione e la trasformazione dell'area in una zona verde. Il Comune con questo ultimo tentativo avrebbe voluto utilizzare gli spazi per l'emergenza abitativa. «Ma anche in questo caso - dice Majorino - se Regione lo avesse chiesto, non avremmo mai potuto accettare un vincolo discriminatorio che escludesse persone senza casa di origine straniera».

Un rischio concreto, per il Comune. Che alla fine ha abbandonato l'idea. Passando a quello che l'assessore chiama "il piano B". Eccolo: «Gli alloggi per 300 persone che in via Lombroso dovevano restare in piedi per qualche settimana saranno aperti per sei mesi. Se quell'area dovesse servire, poi, discuteremo con Sogemi (la società comunale che gestisce l'Ortomercato, ndr) per trovarne un'altra in zona».

A questo punto, però, il progetto si allargherà e sarà destinato non solo a clochard, ma anche «a persone senza casa e a richiedenti asilo». E il campo base? Dopo quasi due anni dall'inizio di Expo, andrà all'asta. Con i liquidatori che già lo scorso novembre avevano preparato il bando e hanno la necessità di "valorizzare i cespiti aziendali". Si prova almeno a risparmiare i 2,2 milioni che servirebbero per smontare tutto. E a non buttare via beni pagati con soldi pubblici: i prefabbricati hanno un valore di 6,5 milioni e in tutto, tra recinzioni e fondamenta, ne sono stati spesi 9 per far sorgere il villaggio.

Il bando dovrebbe essere pubblicato già domani e le eventuali offerte potranno essere presentate fino al 31 marzo. Expo spa si rivolge a «enti pubblici e a operatori economici e non», come "società e associazioni". Potranno acquistare il campo base a pezzi. A parte i tre moduli che la Regione ha voluto destinare alle popolazioni colpite dal terremoto, tutto il resto va sul mercato. A cominciare dalle 16 palazzine su tre livelli, con 576 camere: ognuna, grande otto metri quadrati, ha un bagno privato, l'aria condizionata ed è arredata.

«Una profetica riflessione del cardinale sulla metropoli, tratta dall’Opera Omnia (3° tomo) in uscita a 90 anni dalla nascita». Il Sole24ore, 12 febbraio 2017 (m.c.g.)

Mai come in questo tempo stiamo sperimentando, più ancora che la forza, la debolezza delle nostre città. Eventi drammatici che hanno toccato altre metropoli, il riproporsi recente di oscure minacce e più in generale la complessità dei processi in atto nei grandi agglomerati urbani sembrano indurre a un senso di sgomento di fronte alla difficoltà di reggere alle sfide che pone la grande città.

Eppure la città è un patrimonio dell’umanità. Essa è stata creata e sussiste per tenere al riparo la pienezza di umanità da due pericoli contrari e dissolutivi: quello del nomadismo, cioè della desituazione che disperde l’uomo, togliendogli un centro di identità; e quello della chiusura nel clan che lo identifica ma lo isterilisce dentro le pareti del noto. La città è invece luogo di una identità che si ricostruisce continuamente a partire dal nuovo, dal diverso, e la sua natura incarna il coordinamento delle due tensioni che arricchiscono e rallegrano la vita dell’uomo: la fatica dell’apertura e la dolcezza del riconoscimento. Ambrogio le caratterizzava secondo la nota formula: «cercare sempre il nuovo e custodire ciò che si è conseguito».

Noi avvertiamo la fatica di costruire la città del nostro tempo come un luogo insieme protettivo e aperto, come una specie di Gerusalemme celeste dalle molte porte (Apocalisse 21,12-13). Per queste porte infatti entrano e sono entrate tante differenze disorientanti. E vi sono entrate ancor prima di quelle che noi comunemente definiamo con il prefisso di extra e a cui tendiamo ad attribuire mali che sono più radicalmente epocali e culturali.

È stata infatti la società complessa a sancire la fine della unità di un costume comune e identificante. È stata la frammentazione ad essa congenita che ha polverizzato quella che prima era un’unica identità nei tanti sottoinsiemi della società, i quali aspirano ciascuno a regole particolari e diverse. Sicché l’apertura della città rischia oggi di spersonalizzarla e ogni soggetto che vi entra si sente isolato; e, d’altro canto, l’identità si rifugia, quasi per paura, nei tanti gruppi amicali paralleli che rivendicano proprie regole particolari. Così l’apertura, disarticolandosi, non arricchisce più l’identità e l’identità, parcellizzandosi, non dà senso a tutta la città.

Eppure la città conserva un ruolo visibile di manifestazione dell’umano, se è vero che diventa luogo simbolico privilegiato dove si scarica il conflitto; una cassa di sfogo di scontri ideologici e perfino di disagi comuni. Ed essa ne paga forti tributi di insicurezza e perfino di sangue. E così può nascere uno spirito di fuga dalla città, verso zone limitrofe protette, verso zone franche, per avere i vantaggi della città come luogo di scambi fruttuosi e l’eliminazione degli svantaggi di un contatto relazionale ingombrante.

È allora la città destinata a disperdersi in un nuovo feudalesimo, compensato magari dalle impersonali relazioni mediatiche? È destinata a diventare un accostamento posticcio tra una city, identificata dal censo e dagli affari, e molte diversità a cui si concede di accamparsi in luoghi privilegiati o degradati, a seconda dei casi? E però se l’antidoto alla città difficile diventa una piccola città monolitica assediata dalle mille città diverse, la città perde il suo ruolo di identità-apertura e si originerà una faglia di insicurezza che metterà a repentaglio gli insiemi. È questa, in realtà, una delle caratteristiche e uno dei limiti d’una oligarchia, non d’una democrazia, stando a Platone: «uno Stato oligarchico è non unico, ma doppio: uno dei poveri e uno dei ricchi, sussistenti entrambi nello stesso territorio, in perenne conflitto tra di loro».

Si evidenzia perciò, oggi come non mai, la difficoltà della gestione della città e del suo governo politico, e può nascere la tentazione di gestire la città limitandosi a tenere separate le parti che in essa convivono mediante una specie di paratie tecniche. Ma così la città muore e soprattutto muore il suo compito di custode della pienezza dell’umano, per cui essa era nata.

Invece, proprio in forza della sua complessità localizzata, la città permette tutta una serie di relazioni condotte sotto lo sguardo e a misura di sguardo, e quindi esposte al ravvicinato controllo etico, e consente all’uomo di affinare tutte le sue capacità. Essa è infatti sempre meno un territorio con caratteristiche peculiari, e sempre più un mini- Stato dove si agitano tutti i problemi dell'umano. È perciò palestra di costruzione politica generale ed esaltazione della politica come attività etica architettonica. E in più ha dalla sua il vantaggio di una tradizione di identità propria.

Ce l’ha in particolare Milano – e le è comunemente riconosciuta – nel ruolo del lavoro e dell’organizzazione amministrativa e di servizi, di un raccordo tra religione e strutture formative e caritatevoli, che la rendono luogo facilmente riconoscibile da chi vi sopraggiunge. Ma se si perdono le radici culturali di questa identità e si cerca solo di mantenerne vivi i vantaggi tecnici, si finisce col perdere l’anima della identità e, alla lunga, anche i suoi vantaggi.
Milano non può, nel nome dell’identità, perdere la sua vocazione all’apertura, perché proprio questa è iscritta nella sua identità, cioè la capacità di integrare il nuovo e il diverso.

L’accoglienza, come categoria generale, non è per la milanesità solo un affare di buon cuore e di buon sentimento, ma uno stile organizzato di integrazione che rifugge dalla miscela di principi retorici e di accomodamenti furbi, e si alimenta soprattutto ad una testimonianza fattiva. Per questo sono lieto che sia possibile, in collaborazione anche col comune, offrire alla città una Casa della carità che risponda alle intenzioni di un generoso benefattore milanese e rimanga come segno di accoglienza verso i più sprovveduti. (...)

La paura urbana si può vincere con un soprassalto di partecipazione cordiale, non di chiusure paurose; con un ritorno ad occupare attivamente il proprio territorio e ad occuparsi di esso; con un controllo sociale più serrato sugli spazi territoriali e ideali, non con la fuga e la recriminazione. Chi si isola è destinato a fuggire all’infinito, perché troverà sempre un qualche disturbo che gli fa eludere il problema della relazione: commune conversationis officium, dice Ambrogio: «comune è il dovere di intrattenere relazioni».

«Appunti di psicopatologia urbanistica, autovalori dominanti ed ecologia della mente in memoriam Fiorentino Sullo». ilgiornaledell'Architettura, 8 febbraio 2017 (m.c.g.)

Economia – dal greco οἶκος (oikos), “casa” inteso anche come “beni di famiglia”, e νόμος (nomos), “norma” o “legge” – si intende sia l’organizzazione dell’utilizzo di risorse scarse (limitate o finite) quando attuata al fine di soddisfare al meglio bisogni individuali o collettivi
(wikipedia, ad vocem)
Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi
(Maurizio Lupi)

Lupi per agnelli

Milano si conferma anche oggi, nel bene e nel male come la capitale della ricerca avanzata del post: dimenticate subito le utopie moderniste di progresso civile e culturale, dopo l’apparentemente innocuo camouflage postmoderno con bricolage di capitelli, piramidi e colonne che nascondeva il disimpegno etico del nuovo che avanza, ora è la volta del postumano….. Alla (fanta)urbanistica futurista dell’assessore Carlo Masseroli, dove la fiducia nelle sorti progressive veniva sostituita dalla fiducia nella buona sorte (e lui, ingegnere dei sistemi, che aveva promesso di ritornare ai suoi amati diagrammi di flusso ora è catapultato a dirigere Milanosesto Spa per lo sviluppo delle aree ex Falck), al decesarismo democratico che ha inabissato la giunta Pisapia e spento per sempre l’alba arancione di Milano (ma a volte ritornano e, promoveatur ut amoveatur, Ada Lucia De Cesaris rispunta come grand commis nominata dal Ministero dell’economia a propria rappresentante nel Cda di Arexpo).

Tutti ancora al capezzale della suburbanistica del giorno dopo, o fast post, inauguratasi con Expo e ora con Arexpo. Oggi, dulcis in fundo, anche con Pierfrancesco Maran (preconizziamo per lui un futuro di ministro alle infrastrutture….) nel solco della continuità corrono i cavalieri, destri e sinistri, dell’apocalisse urbanistica contrattata di rito ambrosiano sempre a cavallo dei lupi affamati di suolo. Siamo giunti finalmente alla post-urbanistica, proporre e veicolare archifiction, inoculando nell’immaginario sociale la falsa immagine di un ritorno al futuro, ma quando il futuro ormai non c’è più.

Come si può capire fino in fondo questa rivoluzione copernicana dell’urbanistica meneghina? Riassume il meglio delle due posizioni: quella di un mondo che non sarà mai e quella di un mondo che quando si manifesta ha già superato l’orizzonte degli eventi e si ritrae in se stesso annichilendosi e trasformandosi in un buco nero che, come l’Expobuco, si è dimostrato capace d’inghiottire sogni e risorse degli italiani, non meno avido di alcune nostre storiche e ora non più prestigiose banche.

È il salto definitivo e irreversibile nella fiction finanziario-architettonica. Come è possibile che tutto accada in una democrazia ormai matura e forse avanzata? Basta deformare l’orizzonte epistemologico che vuole definire il progetto come un processo lineare continuo che parte da un punto (il cosiddetto prima) e arriva a un altro (il cosiddetto dopo), fino a far coincidere i due punti temporali in uno solo, tecnicamente chiamato scenario. Anche costruire non sarà più necessario… La smaterializzazione del progetto comporta la sua scomposizione in quanti fotonici, che per essere liberi di viaggiare alla velocità della luce, si distaccano da tutto quanto viene definito convenzionalmente come iter e legittimazione sociale di un progetto, per entrare nel nuovo ambito dell’aleatorietà determinata ai fini della grancassa della psicopropaganda virale del Ministero della Verità & Marketing. Le soluzioni sono aleatorie e discrezionali ma rimandano a quantità incognite, di autovalori dominanti che snaturano il carattere “pubblico” e la trasparenza del mercato, negoziati in modo opaco e indiretto per poi essere rapidamente cartolarizzati e avviati al consumo.

Come si traduce tutto ciò in burocratese urbanistico? La parola magica è Accordo di programma. Come ha scritto Maria Cristina Gibelli(1) :«è a Milano che ha fatto i primi passi una deregolazione urbanistica che ha poi trovato una configurazione organica con la LR 12/2005 sul Governo del Territorio e i suoi molteplici, e sempre peggiorativi, emendamenti successivi. È a Milano e hinterland che si stanno cogliendo i frutti avvelenati, in termini di coesione sociale, vivibilità, ma anche competitività, di quella stagione». Proprio su questo Accordo di programma degli ex scali Fs (1,25 milioni di mq che possono valere sino a ******) si è arenata la giunta Pisapia.

Ed è lo stesso Accordo, con qualche intervento di chirurgia estetica e social, che la giunta Sala si appresta a convalidare entro maggio con lo stesso spirito e gli stessi cosmetici principi con cui la giunta Pisapia ha poi ratificato il Piano di Governo del Territorio Masseroli-Moratti. La natura dello scambio segue la classica equazione asimmetrica dell’incremento di valore della speculazione fondiaria: ossia, prendo un’area a valore nullo o addirittura negativo, come in questo caso, e attraverso una trasformazione che è innanzitutto linguistica (la promessa di un cambio di destinazione d’uso), la rendo produttrice d’immaginario, di futuro.

Ora bisogna però stabilire se nella promessa di questo futuro la città assume il carattere di feticcio della merce, ossia, parafrasando Arjun Appadurai, tenda esclusivamente «a mascherare i rapporti sociali che rendono possibile la sua appropriazione a scopo di profitto da parte del capitale» (Scommettere sulle parole. Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata, Milano 2016, p. 17).

Architettura quindi non più come disvelamento, come invenzione critica, come nuova utopia del possibile, frammento di verità, progetto di emancipazione culturale e sociale, ma come tragica maschera che nasconda le contraddizioni e la falsa coscienza dei rapporti in atto, supina ai dettami imperanti dello spirito dell’incertezza. Architettura come formalizzazione, astrazione e commercializzazione del meccanismo del rischio stesso. Allora niente di meglio che l’immarcescibile visione del paradiso che, come ci ha spiegato Marcel Proust, è solo quello che abbiamo perduto. Come tutte le visioni beatifiche, sono misteri che oltrepassano la capacità di rappresentazione sensibile e la comprensione razionale. E allora avanti ancora con quell’ormai trita, frusta e paradossale menata improponibile della città giardino universale dove tutti non fanno altro che passeggiare ridenti e giulivi, innaffiano le piante sui terrazzi rigogliosi dove fioriscono orchidee perenni, vanno in bicicletta e portano a spasso cani…

Così si compie il miracolo della trasformazione di un reietto terzo paesaggio postindustriale “scalo ferroviario obsoleto da bonificare”, un Vicolo Corto pieno di problemi logistici, infrastrutturali e costi di bonifiche ambientali, a un meraviglioso “Central Park” (Public Garden non si usa più…) che rimanda alla favolosa casella del Parco della Vittoria del Monopoli, su cui tutti vogliono mettere le mani. Al subentrato “Central Park” vengono poi attribuiti dei volumi virtuali trasformati immediatamente in denaro sonante per i fortunati proprietari delle aree medesime, al di là che poi le suddette volumetrie vengano prima o poi realizzate.

La società titolare delle aree (Ferrovie dello Stato, che ha appena acquisito la linea 5 della metropolitana, e spinge da tempo anche per rilevare la maggioranza in Trenord al posto della Regione…), acquisiti i diritti “rapinati” con le equivoche pratiche di sdemanializzazione alla Giulio Tremonti, una volta firmato l’Accordo di programma li iscrive a bilancio ed è così ora pronta a quotarsi in borsa per poi essere privatizzata dagli speculatori finanziari. La polpetta indigesta viene poi condita in salsa social e adeguatamente lubrificata dalla politica compiacente, dall’establishment di programmatori e facilitatori, espertoni meglio se professori specialisti in supercazzole tecnichesi e storytelling a lieto fine, stampa compiacente, menestrelli e azzeccagarbugli specializzati nel paralogismo politico.

Dispiace vedere sempre in prima linea rettori e direttori di dipartimenti universitari e politecnici (di per sé enti terzi e non fiancheggiatori conto terzi… spesso chiamati sempre in camera caritatis, quando l’operazione è riuscita e il paziente è morto), pronti a correre al capezzale di una politica sputtanata per spendere le ultime briciole di dignità rimasta a fare da stampella alle strampalate e raffazzonate speculazioni territoriali che servono a colmare i buchi di bilancio di altrettante e spregiudicate gestioni finanziarie di enti pubblici e parapubblici come Fiera, Aler, ospedali, ecc., a cui si aggiungono, come contorno, il circo barnum dei visionari zelanti architetti con incarichi diretti o pseudodiretti, sempre compiacenti nell’offrire i propri servigi, ansiosi di lasciare il segno in ogni angolo della città, rigorosamente bipartisan, assunti in pianta stabile a tutto regime per la clonazione indefinita dello status quo e delle sue best practices, con sprofluvio di kermesse, articoli, forum e seminari, senza dimenticare spruzzate quanto basta di proteste e opposizioni antagoniste tanto per far credere che la democrazia sia ancora viva. Ma Milano non era la capitale dell’intellighentia critica? «Lotus International» ha dedicato un Forum e il numero Meteo Milano al dibattito in corso.

Un film già visto con la Fiera delle vanità, i grandi quartieri di lusso, gli Ospedali riuniti, l’Expoballa, Cascina Merlata… Ora è il turno degli scali ferroviari che, però – e questa è forse la maggiore difficoltà -, sono incuneati nel tessuto del cuore di Milano e lambiscono la città storica e i quartieri che ne costituiscono l’ossatura identitaria e il patrimonio genetico. Un’operazione a cuore aperto, irreversibile, che rischia di sfigurare per sempre ciò che è sopravvissuto dell’identità di Milano.

Anche per questo, tra i più di trecento architetti e firmatari dell’appello (rassegna stampa, elenco firmatari e interventi nel sito scaliferroviarimilano.blogspot.it) è nata l’idea di costituirsi nell’associazione “Città bene comune”, per affermare il primato della cittadinanza attiva, ben consapevoli che non saranno i tecnici, i regolamenti, le dispute di diritto, il finto teatrino della politica a salvarci ma solo la vera politica con la P maiuscola, ovvero quella che, come diceva Aristotele, significa amministrazione della polis per il bene di tutti: la determinazione di uno spazio pubblico al quale tutti i cittadini partecipano.

Débat public alla milanese…

Salzwasser in der Tennishalle! Ja, das ist ärgerlich, aber nasse Füße sind noch lang nicht das Ende der Welt(H. M. Enzensberger, Der untergang der Titanic, 1929)

Nella palude conformista milanese qualcosa non ha funzionato. Il dubbio si è fatto sospetto, a cui son seguiti la paura, lo sconforto e il tormento di un’angoscia ricorrente. Gli spettri dell’omologazione globale, i mostri come il quartiere fantasma griffato Daniel Libeskind di condomini sghimbesci abitato solo da dj tatuati con la Porsche, le Costa Concordia arenate di Zaha Hadid in piazza Giulio Cesare, i grattacieli mignon di City Life, la turbina a vento di Cesar Pelli sono ormai tra noi! Questi fantasmi si aggirano cupi e minacciosi nel salotto buono, turbando le coscienze dei milanesi che hanno sviluppato ormai una punta di diffidenza bipartisan, nonostante tutti gli sforzi della politica di sedarli e gli imbonitori che vendono lambrusco spacciandolo per champagne.

Alla luce di queste non esaltanti esperienze, risulta oltremodo patetico il tentativo di far passare per débat public quello che invece è astuta opera di disinformazione politica e di creazione del consenso. Meccanismo ormai rodato, per quelle operazioni di mattone deluxe certo più alla portata del fiato corto e delle idee stantie della politica contemporanea che dell’urbanistica avveduta e previdente e della pianificazione strategica lungimirante. Una politica che di moderato ha spesso solo la cultura e la fiducia nell’intelligenza critica.

Nonostante tutto e forse anche meno male, non sono bastate certo le cure e visioni dei cinque architetti-scenografi chiamati al capezzale per tessere gli scenarios e stimolare l’appetito degli investitori a sedare la diffidenza dei milanesi. Questo l’obiettivo della tre giorni di workshop milanese organizzata a fine dicembre 2016 da FS in “collaborazione” con il Comune. Dopo il lungo battage del «Corriere della Sera» sulle neoallucinazioni forestali del transgenico e sempre più green Stefano Boeri (il cosiddetto Fiume verde, il Pratone…), FS ha chiamato lo stesso Boeri (Studio SBA) e il “secchione” Cino Zucchi (CZA, che forse si poteva risparmiare la pagliacciata…), oltre a Benedetta Tagliabue (EMBT), all’olandese Francine Marie Jeanne Houben (Mecanoo) e al cinese Ma Yansong (MAD Architects). In attesa, come recitava il comunicato stampa, «del supporto di un advisor tecnico internazionale, le idee dei cittadini saranno trasformate in elaborati e modelli. Le cinque visioni possibili verranno presentate al Comune di Milano nel marzo 2017. L’Amministrazione comunale deciderà successivamente come gestire il processo di trasformazione urbana. Farini, Porta Romana, Porta Genova, Greco-Breda, Lambrate, Rogoredo, San Cristoforo sono i sette scali ferroviari milanesi inseriti nel progetto di riqualificazione, per una superficie complessiva di un milione e 250mila metri quadrati».

La musica è sempre la stessa… nonostante il Gran Ballo Excelsior di politici locali e nazionali, la variegata fauna di biodiversità architettonica presentata, l’ottimo catering, il parterre prestigioso e gli special guests a stuzzicare l’atmosfera festosa e arguta da Festival della mente, oggi di gran moda, la partecipazione prefestiva alla tre giorni in massa di architetti affamati di crediti formativi e di pressoché tutto il Comune di Milano in licenza studio. Oggi finalmente un pionieristico studio (A. Casavola, Perché comprare Parco della Vittoria conviene? Modellizzazione e studio sugli autovalori dominanti del gioco del Monopoli, s.d. Università della Calabria), ha messo a disposizione una tabella dei valori fondiari che ci consente di capire le ragioni profonde di tanto agitarsi: «Abbiamo quindi in questa tabella dei fattori che ci permettono di determinare la convenienza relativa di un appezzamento rispetto agli altri, tenendo unicamente conto della rendita che essi sono in grado di garantire.

In questa modellizzazione notiamo che l’elemento che continua a rimanere per rendita asintotica e massimale più conveniente è Parco della Vittoria, sebbene non sia il più frequente: questo primato spetta infatti (tra gli appezzamenti che danno rendita) a Corso Raffaello». L’autore subito ammonisce sull’esagerato ottimismo che potrebbe derivare dalla sensazionale scoperta: «Si noti infine la logica e attesa altissima frequenza della prigione, dovuta all’uso della regola del doppio sei».

Per questa urbanistica contrattata di rito ambrosiano è sempre buono il momento di proclamare che due più due fa cinque, e farcelo credere. Era inevitabile che prima o poi succedesse, era nella logica stessa delle premesse su cui si basa. La visione del mondo che la informa nega, tacitamente, non solo la validità dell’esperienza democratica ma l’esistenza stessa di una realtà esterna all’infuori di essa stessa.

In questa strategia della distensione e della creazione del consenso, la narrazione verde assume i toni di un astuto camouflage, che serve a nascondere i veri problemi di una programmazione che si è allineata alle prospettive di rischio e di performance sul brevissimo termine, e a quei calcoli che appartengono più alle prospettive monopoliste e di dumping finanziario tardocapitalista in una prospettiva di mercato viziato e drogato che alle logiche di promozione e sviluppo di una città, di un distretto territoriale. L’ormai inflazionata sussidiarietà, di per sé non un male, cercava di rimodulare il controllo dei rapporti stato-individuo sulla scala territoriale. Ha praticamente fallito, in quanto, a parte nicchie ecologiche particolari non fa altro che amplificare e duplicare difetti già immanenti alla scala del potere centrale, per di più appesantite dalle consuete dinamiche socioantropologiche.

La distribuzione di poteri e poltrone in una prospettiva socio-territoriale ancora più angusta non ha fatto altro che annichilire le responsabilità e la capacità decisoria intorno ad argomenti di generale interesse nazionale. Un altro effetto perverso è stato quello di prosciugare e smontare quelle sacche di sapere professionale e di buona pratica amministrativa che resistevano nella macchina comunale per affrontare le sfide strategiche e di larga scala, oggi rese ancor più critiche dalla questione irrisolta della “regione metropolitana”.

In altri casi, la gestione “dal basso”, come spesso è avvenuto per i beni culturali, è riconosciuta come un micidiale boomerang compromissorio, dove la mancanza di una chiara distinzione tra ciò che è di natura intrinseca bene pubblico e ciò che è privato, a causa di una legislazione incoerente e carente sul fronte delle garanzie di legittimità e per interpretazioni viziate per conflitto d’interessi, in mancanza di una legislazione aggiornata ma soprattutto efficace, ha spesso generato, nei casi non giudiziari, equivoci e proliferazione di contenziosi.

Il carattere di contratto negoziale tra attori, assunto nella quasi totalità dei casi, ha naturalmente bisogno di un quadro legislativo raffinato e di controlli efficaci e tempestivi per garantire trasparenza, equità e legalità (favorire, non garantire a tutti i costi il negoziato). E non è detto che basti, ossia è condizione necessaria ma non sufficiente, perché è indispensabile che tutto avvenga in un quadro sociale che attui il pieno rispetto di un corretto e fisiologico esercizio delle virtù democratiche.

Per questo, e per la persistente consapevolezza di una cronica incapacità di attuare un indispensabile aggiornamento senza derogare dai principi cardine della Carta costituzionale, il rapporto società-politica deve essere inquadrato anche nei termini di una “revisione” dei principi del contratto di gestione amministrativa che regolano anche il rapporto della gestione dei beni comuni, che s’intrecciano con un diritto privato oggi sempre più aggressivo e prevalente.

Questa materia “sensibile” ha avuto finora scarso ascolto dalla politica in termini legislativi, e ha spesso costretto all’uso del referendum, ma ha costituito un fertile terreno di confronto tra “beniculturalisti” e “benicomunisti”, costituzionalisti, ambientalisti ed ecologisti. E ora, per la prima volta, ha destato anche una folta rappresentanza di architetti, urbanisti, intellettuali e cittadini attivi, una società civile milanese trasversale, transgenerazionale e bipartisan, che al grido di “Città bene comune” ha trovato una naturale, inedita convergenza “politica” di obiettivi, cercando nuovi strumenti e spazi per opporsi, resistere e denunciare rischi e limiti di una situazione che si è protratta per troppo tempo e i cui guasti non siamo in grado di prevedere fino in fondo.

(1)Gibelli M. C. (2016), “Milano: da metropoli fordista a Meccadel real estate”, in Meridiana, n. 85

«Il PIL finisce con l’essere l’altare sul quale si chiede a un Paese di fare sacrifici come se tutti i Paesi fossero uguali e in particolare il valore dei servizi resi non dovesse tenere conto di specifiche realtà». ArcipelagoMilano, 31 gennaio 2017 (c.m.c.)

Negli ultimi giorni da Banca d’Italia, da Bruxelles e dalla Banca Centrale Europea sono arrivati ammonimenti, bacchettate e sollecitazioni come piovesse. Due i temi principali: le mancate o parziali riforme e lo sforamento dello 0,2% del rapporto debito PIL, fissato al 3% col patto di stabilità e crescita (PSC) stipulato e sottoscritto nel 1997 dai paesi della UE. La domanda che mi faccio e che penso si facciano molti dei nostri lettori è: ma che colpa abbiamo noi? Sì, proprio come il refrain della vecchia canzone dei Rokers del 1965, (magari riascoltarla non fa male). Noi milanesi.

Tanto per cominciare non siamo stati capaci di far pesare a Roma quello che ora il Governo ci riconosce: essere la principale locomotiva del Paese – non l’unica certo – e non aver mandato in Parlamento una classe politica capace di fare riforme che non abortiscano sugli scogli della Corte dei Conti, della Corte Costituzionale e, a livello locale, sugli scogli dei Tribunali Amministrativi Regionali. La sollecitazione a fare le riforme cade in un mondo legislativo assolutamente inadeguato, di dilettanti allo sbaraglio. Un esempio? La legge Delrio.

La scarsa attenzione al formarsi di una classe dirigente e, ancora peggio, una sorte di disprezzo della politica da parte della borghesia imprenditoriale sono due nostre colpe gravi. Ricordo a me per primo ma a tutti quelli della mia generazione il tempo in cui i milanesi si gloriavano nel dire che a Roma si faceva politica e noi invece lavoravamo e che i politici erano un taxi sul quale si saliva al bisogno. Questo disimpegno lo stiamo pagando anche adesso.

Se saremo sanzionati da Bruxelles e fossimo costretti ad esempio a un aumento dell’IVA e/o delle accise sulla benzina, è chiaro a tutti che il peso maggiore andrà sulle aree dove produzione e consumi sono maggiori. Se così sarà noi dunque saremo in prima linea.

Qui però vale la pena di aprire ancora una volta il problema del sistema di calcolo del PIL (o Prodotto Interno Lordo) che misura il valore di mercato di tutte le merci finite e di tutti i servizi che hanno una valorizzazione in un processo di scambio. Il PIL finisce con l’essere l’altare sul quale si chiede a un Paese di fare sacrifici come se tutti i Paesi fossero uguali e in particolare il valore dei servizi resi non dovesse tenere conto di specifiche realtà.

Nel calcolo del PIL sono sì compresi virtualmente anche i valori della produzione legata all’economia nera, guai se così non fosse da noi, ma essendo un calcolo teorico comunque ci penalizza ma, quello che è più grave, non si conteggiano i servizi forniti in modo volontario e gratuito ormai da una vastissima platea di cittadini. Milano in testa alla lista del lavoro volontario gratuito. Lo stesso discorso vale per il lavoro domestico e di accudimento a vecchi e bambini, ancora prevalentemente femminile, altrove in Europa per la maggior parte a carico dello Stato.

L’obiezione c’è: se questo lavoro fosse pagato, essendo di tipo integrativo e sostitutivo di funzioni non svolte dalla mano pubblica, e se quest’ultima le pagasse, i conti dello Stato peggiorerebbero e di conseguenza il rapporto debito/PIL.

Ma io propongo un’altra lettura. Il volontariato funziona dal punto di vista del suo valore con un meccanismo simile alla banca del tempo: è una sorta di autotassazione volontaria a favore dello Stato al quale “versiamo” il nostro tempo, dunque un aumento del gettito fiscale. Se così potesse essere, se così si potesse calcolare il PIL, fuori dall’utopia, di nuovo noi milanesi saremmo in prima linea come contribuenti volonterosi, insieme con altri, in un Paese più ricco, certo sulla carta. Ma il PIL non è carta?

La riflessione comunque sul PIL va fatta e noi milanesi dovremmo chiederla e forse, per una volta, troveremmo d’accordo M5s, Lega, Forza Italia, Pd e tutti insomma.

Ma la gratuità del lavoro è un tema che si allarga e comprende anche una parte della classe politica: sull’onda della riduzione dei costi della politica, ad esempio la legge Delrio prevede che i consiglieri delle Città Metropolitane non percepiscano compensi.

Contemporaneamente molti Comuni assumono consulenti che hanno emolumenti superiori a quelli degli assessori con i quali collaborano. Il divario tra le somme percepite da consiglieri comunali e quelli regionali sono stridenti. Ad alcune cariche e funzioni pubbliche può accedere soltanto chi ha redditi propri, alla faccia della democrazia, come ha sottolineato anche recentemente il Procuratore Generale milanese Roberto Alfonso all’inaugurazione dell’anno giudiziario.

Nel Paese delle disuguaglianze anche questo è un aspetto sul quale riflettere, senza indugi, senza ipocrisie e sapendo che per farlo si dovranno correggere anche pesantemente trattamenti che vengono da situazioni pregresse e diritti”acquisiti”. La politica saprà fare pulizia? In casa sua prima che altrove?

Pubblichiamo il testo dell'appello del gruppo cittadinanza attiva e comitato FAI "Che ne sarà di città degli studi?" 18 gennaio 2017 (m.c.g.)

Un altro esempio di ‘cattiva pratica’ urbanistica e amministrativa del capoluogo lombardo: pur di assecondare il discutibilissimo progetto di riuso delle aree EXPO Milano 2015, fortemente voluto da Renzi e da AREXPO (la società proprietaria dei terreni, controllata per il 39% dal ministero dell'Economia e delle finanze e compartecipata dal Comune di Milano e dalla Regione Lombardia) si mette a rischio la sopravvivenza di una vasta porzione della periferia milanese storicamente vocata all’istruzione universitaria. Ma i cittadini non ci stanno.(m.c.g.)

Egregio Sindaco Sala,

siamo un gruppo di residenti di Città Studi, Lambrate e Milano Est aggregatisi a partire dal febbraio 2016 tramite Facebook (dove la nostra pagina “Che ne sarà di Città Studi?” conta oggi oltre 2300 membri) e iniziative sul territorio. Lo scorso novembre, la campagna da noi lanciata per il riconoscimento di Città Studi come “Luogo del Cuore FAI” ha avuto un riscontro molto significativo tra i cittadini della Zona 3: in quattro settimane scarse hanno aderito con più di 4.500 firme, conferite per un terzo sul sito del FAI e per ben due terzi (oltre 3.000 firme) su carta, recandosi appositamente presso diverse decine di negozi della zona che si sono offerti di ospitare la raccolta. Vista la massiva e sentita partecipazione, il nostro gruppo si è anche costituito nell’omonimo Comitato FAI “Che ne sarà di Città Studi?”. (1)

Le scriviamo per manifestarLe la nostra viva preoccupazione per il futuro della periferia di Zona 3, che pare pericolosamente sospeso tra cecità amministrativa e vuoto di programmazione urbanistica.

L’area di Lambrate Stazione-Rubattino-Ortica è notoriamente afflitta da cronici problemi – degrado, occupazioni abusive, randagismo e microcriminalità- derivanti dalla presenza di numerosi siti industriali ed edifici civili dismessi lasciati in stato di abbandono, primo tra tutti l’amplissima area dell’ex Innocenti al Rubattino, da dieci anni sospesa nel limbo del lentissimo completamento della fase 1 e della mancata attuazione della fase 2 del PRU.

Eppure, a più di 6 mesi dall’insediamento della Sua Giunta e del Municipio 3, da parte di entrambe le amministrazioni non c’è segnale dell’intenzione di intervenire in modo strategico e radicale per risolvere finalmente lo stallo del PRU Rubattino e i collegati problemi di degrado e sicurezza dell’area. Il Piano per le Periferie da Lei varato lo scorso dicembre addirittura vede quest’area esclusa da ogni intervento strutturale.(2)

Il disinteresse del Comune e del Municipio 3 per la risoluzione dei gravi problemi dell’area Lambrate Stazione-Rubattino-Ortica si somma alle incognite del progetto che incombe sulla periferia del quartiere Città Studi: il trasferimento delle Facoltà Scientifiche dell’Università Statale sul sito di Rho-Expo. Grazie al sostegno fornito dalla Sua Amministrazione e da Lei personalmente, oltre che dall’uscente governo Renzi e da Regione Lombardia, il progetto è stato finanziato e troverà attuazione.

Sull’abnormità e sui possibili devastanti effetti di questo trasferimento e dell’ulteriore progetto di trasloco che interesserà la stessa periferia di Città Studi – lo spostamento a Sesto San Giovanni degli Istituti Tumori e Besta – ci siamo già espressi nell’allegato volantino(3), diffuso in 15mila copie tra i residenti di Zona 3 e che La invitiamo a leggere. Ora ci preme richiamare alla Sua attenzione che l’area Lambrate Stazione-Rubattino-Ortica è contigua e strettamente connessa – dal punto di vista della vitalità sociale, culturale ed economica – all’amplissima area di Città Studi (vie Valvassori Peroni, Pascal, Golgi, Celoria, Ponzio, Venezian, Colombo, Saldini, Botticelli, piazzale Gorini) che si svuoterebbe in conseguenza del trasferimento delle Facoltà Scientifiche di UniMi a Rho e dei due ospedali a Sesto.

È sorprendente come un’Amministrazione che proclama di voler porre le periferie al centro della propria visione sia completamente cieca alla concreta possibilità che il trasloco di UniMi e degli ospedali da Città Studi avrà l’effetto di aggravare ed allargare nella periferia e sin dentro il cuore di Zona 3 il cronico problema delle aree dismesse e abbandonate al degrado. Già oggi dall’area di Lambrate Stazione-Rubattino-Ortica l’abusivismo, il randagismo e la microcriminalità si allungano fin dentro zone più centrali di Lambrate e Città Studi. Il rischio che questi problemi avanzino e diventino endemici dentro la Zona 3 è grandemente favorito dalla vastità delle superfici che si svuoteranno e spopoleranno a seguito dei due progetti di trasferimento: almeno 350.000 mq tra edifici e plessi universitari e ospedalieri, oltre ai terreni annessi.

Non meno grave per Città Studi, Lambrate, Rubattino, Ortica e l’intera Zona 3 sarà il venir meno della vitalità sociale e culturale e dell’indotto economico che l’Università, gli ospedali e la correlate presenze (studenti, ricercatori e docenti, personale tecnico-amministrativo, personale sanitario, utenti degli ambulatori ospedalieri, degenti e loro famiglie) garantiscono da molti decenni a tutta la Zona 3, risultando però particolarmente importanti proprio per la sua periferia.

Con queste premesse, il trasferimento delle Facoltà Scientifiche e degli Istituti Tumori e Besta da Città Studi potrebbe assestare alla periferia della Zona 3 un colpo molto grave, se non fatale. In apertura della conferenza di presentazione del piano “Fare Milano” Lei ha detto che il Sindaco è in contatto quotidiano con i suoi cittadini che lo richiamano all’attenzione sui problemi. Ispirati da queste parole, abbiamo deciso di rivolgerci a Lei direttamente per segnalare il rischio concreto che, continuando su queste linee – da un lato avallate lo smantellamento di Città Studi senza avere alcun piano per il post dismissione, dall’altro non intervenite a sanare i problemi dell’area Lambrate Stazione – Rubattino – Ortica – Lei e la Sua Amministrazione getterete le basi per il futuro disastro sociale ed economico della periferia di Zona 3. Ci appelliamo a Lei perché scongiuri tale prospettiva, rivedendo con urgenza le vostre politiche per queste aree, a partire dagli interventi urbanistici.

In un evidente vuoto di programmazione urbanistica, si stanno infatti innestando sulla stessa zona, entro un raggio di pochissimi chilometri, tre grandi progetti: due dismissioni – Istituti Tumori e Besta, Università Statale – e una riqualificazione – scalo ferroviario di Lambrate – portati avanti ognuno per conto proprio, in assenza di una visione complessiva e ignorando i problemi e le potenzialità del territorio.

Guardando a tali potenzialità, la necessità di reperire nuovi spazi che spinge l’Università Statale a lasciare Città Studi poteva ben essere risolta utilizzando i numerosi grandi spazi disponibili alla periferia di Zona 3, tra l’altro vicinissimi alle sedi storiche di UniMi. Un’Amministrazione comunale davvero interessata a “mettere le periferie al centro”, avrebbe certamente visto la grande opportunità di riqualificare e anche rilanciare tutta la periferia di Zona 3 che si poteva creare destinando proprio l’amplissima e servitissima (tangenziale, stazione FS, metro, mezzi di superficie, aeroporto) area ex-Innocenti al Rubattino (4) alla realizzazione del nuovo e moderno campus di cui la Statale ha bisogno. Considerata anche la presenza in zona dell’area dello scalo di Lambrate da riqualificare, Rubattino offriva spazi sufficienti per accogliere l’intero progetto Human Technopole (5). Il nuovo polo scientifico e tecnologico si sarebbe qui giovato della presenza del Politecnico e delle numerose aziende farmaceutiche, biomediche e tecnomedicali che hanno sede nella periferia e nell’hinterland Est di Milano.

Invece, tramite ingenti finanziamenti pubblici, il Governo Renzi e Regione Lombardia hanno incentivato l’Università Statale a trovare nuovi spazi a Rho. L’Amministrazione comunale ha appoggiato la soluzione, consegnando la periferia di Zona 3 a un futuro di possibile ulteriore declino. Infatti, a partire dalla necessità di risolvere il problema del post-Expo, si è creato con effetto domino il problema del post-Città Studi, su cui persiste l’allarmante silenzio del Comune e del Municipio 3.

A noi cittadini della Zona 3 pare proprio che Lei e la Sua Giunta puntiate ad affossare la nostra periferia, piuttosto che “metterla al centro” come da Suo programma elettorale. Ora ci aspettiamo che vi facciate responsabilmente carico delle nostre preoccupazioni, riconsideriate molto seriamente la situazione – urbanistica e non solo – della periferia di Zona e diate risposta alle nostre domande, rompendo il vostro silenzio.

Da parte nostra, in rappresentanza dei cittadini della periferia e dell’intera Zona 3, vigileremo con massima attenzione su tutte le ulteriori vicende e fasi che riguarderanno la dismissione delle Facoltà Scientifiche e degli Istituti Tumori e Besta da Città Studi, adoperandoci per difendere la storia e l’identità del nostro territorio, con lo stesso civismo che ci ha spinto a scriverLe.

Grazie per la Sua attenzione,

Il Gruppo di Cittadinanza Attiva e Comitato FAI “Che ne sarà di Città Studi?”

Milano, 18 gennaio 2017

Note alla lettera:

Note alla lettera:
1) Presentazione e scopo del comitato disponibili al link: http://iluoghidelcuore.it/comitato/584
2) La situazione non pare sostanzialmente modificata dall’integrazione al Piano per le Periferie recentemente proposta dal Municipio 3.
3) Il volantino, del novembre 2016, è scaricabile sul blog del nostro gruppo, al link: https://chenesaradicittastudi.files.wordpress.com/2016/11/volantino_pronto_per_stampa.pdf
4) Ci riferiamo alla vastissima area su cui dopo un decennio non ha trovato ancora attuazione la fase 2 del PRU Rubattino, situata immediatamente a ridosso del quartiere residenziale “Parco Grande Rubattino”, distante appena 2 km dalle Facoltà Scientifiche di UniMi site intorno a via Celoria.
5) In zona Rubattino, a due passi dall’area ex Innocenti e dallo scalo di Lambrate, sono tra l’altro presenti, di proprietà della Statale, un ampio terreno non edificato (18.000 mq) in via San Faustino e, di fronte, in via Trentacoste 2, un edificio moderno che ospita le Facoltà di Farmacia e Veterinaria e confina con un’ampia area non più edificata appena dismessa dal Comune.

Nel prossimo futuro Milano e la sua area metropolitana rischiano di sprecare anche l’ultima cruciale occasione per realizzare un autentico policentrismo: quella del riuso degli scali ferroviari dismessi, una superficie in dismissione. arcipelagomilano.org, 24 gennaio 2017 (m.c.g.) con postilla

Il workshop dedicato al recupero degli scali ferroviari milanesi, organizzato da FS Sistemi Urbani (FSSU) in collaborazione con l’assessorato all’Urbanistica del Comune di Milano che si è svolto il 15, 16 e 17 dicembre nell’ambito dell’iniziativa Dagli scali, la nuova città, al di là del suo successo prevalentemente mediatico, ha comunque consentito il confronto, del quale ho riferito nei miei resoconti, tra progettisti, urbanisti, amministratori, funzionari, imprenditori e semplici cittadini, su importanti temi urbanistici diventati di grande attualità. Infatti, al termine del mandato di Pisapia, l’Accordo di Programma (AdP) predisposto dopo una lunga e complessa trattativa con FSSU dal precedente assessore Lucia De Cesaris, del tutto inaspettatamente, non è stato approvato in via definitiva dal Consiglio Comunale costringendo la nuova amministrazione e riaprire la trattativa.

Il workshop ha anche offerto l’occasione per portare all’attenzione di un vasto pubblico l’Appello sugli scali ferroviari milanesi che ha denunciato l’attuale inadeguatezza del Comune rispetto al compito promuovere una cultura urbana di cui a Milano si sente da tempo la mancanza, considerato che le grandi trasformazioni degli ultimi vent’anni sono state soprattutto frutto di trattative ed accordi condotti in assenza di ogni forma di dibattito pubblico e di partecipazione sociale alle decisioni.

Con la nuova amministrazione e le impegnative dichiarazioni del nuovo Assessore all’Urbanistica Pierfrancesco Maran subito dopo la sua nomina nell’incontro del 19 luglio dello scorso anno, era sembrato che si volesse cambiare totalmente metodo. Ma quando ci si è resi conto che il Comune aveva delegato a FSSU la definizione delle strategie e degli indirizzi per il recupero degli scali ferroviari, la delusione è stata grande e molto diffusa la volontà di manifestare il proprio dissenso come testimoniano le trecento adesioni al nostro Appello.

Per quanto il fatto che FSSU e assessorato abbiano assegnato degli incarichi diretti, sopra soglia e senza alcuna selezione di evidenza pubblica a cinque colleghi possa essere apparso il movente della denuncia resa pubblica con l’Appello, in effetti le questioni che abbiamo contestato anche direttamente all’assessore Maran sono ben più importanti e gravi.

Innanzi tutto il fatto di accettare la doppia identità di cui si avvale FSSU – tema trattato molto chiaramente da Luca Beltrami Gadola su queste stesse pagine – che si comporta come soggetto privato nel momento in cui assegna gli incarichi professionali senza rispettare la legge Merloni e come ente pubblico quando siede al tavolo della trattativa per la definizione dell’AdP e pretende di sottoscriverlo insieme a Comune e Regione in base all’ art. 34 della legge sull’Ordinamento degli Enti locali.

Poi, che a svolgere il ruolo di definizione degli indirizzi strategici e dei criteri urbanistici per il recupero degli scali ferroviari milanesi sia FSSU, che vanta la proprietà delle aree ed ha come compito fondamentale la loro valorizzazione immobiliare. Aree sulle quali è invece tenuto il Comune a esercitare la propria competenza urbanistica, in piena autonomia, equanimità e interpretando l’interesse pubblico.

Inoltre, che la trattativa tra Comune e FSSU e per la definizione del nuovo AdP si svolga essendo tuttora pendente il ricorso presentato da quest’ultima nell’aprile dello scorso anno al TAR della Lombardia per ottenere l’annullamento degli atti relativi alla mancata approvazione da parte del Consiglio Comunale del precedente AdP con l’evidente intento di condizionare il Comune nel corso della trattativa soprattutto perché nel ricorso si riserva espressamente di chiedere presunti danni passati e futuri.

Ne consegue che quella che è indicata come “collaborazione” tra FSSU e Assessorato all’Urbanistica non ha alcuna validità in termini di corretta pratica amministrativa. Tuttavia nel farvi riferimento il Comune si rende nei fatti corresponsabile degli atti che FSSU ha adottato e sta portando avanti con l’iniziativa Dagli scali, la nuova città, anche nell’impiego di ingenti risorse pubbliche, visto e considerato che essa è al 100 % di proprietà di FS e quindi del Ministero delle Finanze.

L’accesso agli atti, che ho chiesto personalmente, ha provato che non esisterebbe alcuna delibera della Giunta o del Consiglio comunale che autorizzi la collaborazione con FSSU. Nella lettera che ho ricevuto dalla Direzione Urbanistica del Comune di Milano si dichiara infatti che non vi è alcuna collaborazione tra il Comune e FSSU, e che l’ufficio non possiede alcun documento o informazione (sic!) relativi all’evento Dagli scali, la nuova città.

Stando a quanto pubblicamente affermato sia dall’Assessore Maran e dal presidente di FS Sistemi Urbani Carlo De Vito, l’unico atto formale in base al quale la collaborazione tra FSSU e Comune è stata attuata, sarebbe la Delibera di Indirizzo sugli scali del Consiglio comunale. Ma in essa non si cita affatto l’iniziativa Dagli scali, la nuova città. Per cui l’assessore avrebbe collaborato alla sua realizzazione in assenza di atti che esplicitamente lo autorizzino.

Invece, parrebbe che solo in coda a una riunione di Giunta del 6 di dicembre, l’assessore Maran abbia chiesto la conferma al possibile uso del logo del Comune per l’indizione e la realizzazione del workshop di tre giorni che si sarebbe tenuto, aperto alla cittadinanza, dal titolo Dagli scali, la nuova città.

Al termine di queste considerazioni relative alla scarsa trasparenza e alla dubbia legittimità della collaborazione tra FSSU e Comune, campeggia una questione ben più importante che riguarda la legittimità della proprietà delle aree degli scali ferroviari vantata da FSSU. Infatti, nel momento in cui si è proceduto alla loro dismissione dalla funzione per la quale erano state espropriate e concesse alle Ferrovie dello Stato, verrebbero meno i presupposti della concessione e con maggior evidenza dello stesso titolo di proprietà.

Le questioni illustrate fanno emergere chiaramente un impegno trasversale e ampiamente condiviso, tra chi ha aderito al nostro appello, ad affrontare tematiche di interesse molto generale che non consentono di interpretare l’azione intrapresa come una questione puramente corporativa.

Ma anche in questo quadro di interessi molto generali non si può non lamentare la genericità e scarsa attendibilità delle promesse – formulate dall’assessore e inspiegabilmente condivise dall’Ordine degli Architetti – che i concorsi si faranno in futuro, dopo la firma dell’AdP, sui singoli scali e le grandi funzioni che vi si localizzeranno, perché così facendo il Comune rinuncia alla sua imprescindibile funzione di indirizzo dello sviluppo della città che si elabora in questa fase, accettando di fatto la “visione” della proprietà.

Peraltro, le prospettive di effettivo recupero delle aree dismesse degli scali ferroviari sono condizionate da fattori estremamente aleatori: la situazione del mercato immobiliare, la disponibilità di investimenti stranieri, la discrezionalità di chi acquisterà da FSSU le aree edificabili e la caratterizzazione politica della amministrazioni che si avvicenderanno nei tempi, inevitabilmente lunghi, di interventi tanto impegnativi.

La considerazione di queste difficoltà induce a immaginare che ci siano altri interessi, ben più consistenti, che esigono di semplificare la procedura e ridurre al massimo i tempi della definizione del nuovo AdP tra FSSU, Comune e Regione. Pierfrancesco Maran può essere comprensibilmente interessato a portare a casa l’AdP per la speranza di vedere, entro il suo mandato, qualcosa di realizzato su qualche scalo a favore della sua brillante carriera politica.

La Regione, per quanto possa avere pieno titolo a essere il vero regista a causa della portata territoriale dell’operazione scali, tiene un atteggiamento prudente concedendo un generico patrocinio all’evento Dagli scali, la nuova città, forse consapevole che un maggior coinvolgimento potrebbe essere censurabile.

Ma FSSU ha ben altre finalità che non coincidono affatto con il pubblico interesse. Infatti, con l’attuale crisi del mercato immobiliare, con l’offerta inevasa di immobili a City Life e Porta Nuova con gli impegni già assunti di localizzare nell’area di Expo le grandi funzioni, immaginare che si possa avviare concretamente e a breve il recupero degli scali è pura illusione. FSSU è interessata innanzi tutto a ottenere che il Comune firmi l’AdP perché solo al momento della firma si genereranno, per incanto, le volumetrie sulle aree degli scali consentendo a FSSU, che attualmente è una Srl di capitali pubblici, di entrare in borsa diventando una Spa con capitali anche privati. Quindi l’operazione è tutta finanziaria e gestita in una logica privatistica attraverso la traduzione delle aree dismesse in diritti edificatori, utili poste di bilancio necessarie alla programmata quotazione in borsa.

Non credo ci sia altro da aggiungere e invito chi non l’avesse ancora fatto ad aderire aggiungendo la propria firma all’Appello sugli scali ferroviari milanesi.

postilla

Nel prossimo futuro Milano e la sua area metropolitana rischiano di sprecare anche l’ultima cruciale occasione per realizzare un autentico policentrismo: quella del riuso degli scali ferroviari dismessi (7 scali ferroviari, una superficie in dismissione di ben 1.100.000 mq.). Invece di imporre, trattandosi di aree caratterizzate da alta accessibilità pubblica, rigorosi criteri di localizzazione di nuove funzioni di irraggiamento metropolitano, l’amministrazione comunale sta delegando a FS Sistemi Urbani tutta la filiera progettuale. Nel 2015 si era verificata una inaspettata discontinuità: la bozza di Accordo di Programma, a cui si lavorava dal 2005 nelle segrete stanze del potere e che prevedeva la realizzazione di 674.000 mq di superficie di pavimento, prevalentemente a destinazione residenziale e spalmati sul territorio in maniera indifferenziata, era decaduta per l’ostruzionismo non solo dell’opposizione, ma anche di parte della maggioranza, evidenziando, nella fase conclusiva del mandato del sindaco Pisapia, una dialettica politica inattesa. Ma con la giunta Sala, e con l’assessore all’Urbanistica Maran, si sta compiendo un salto di qualità: immemori della bocciatura recente, si è lasciato a FFSU non più ‘soltanto’ il compito di proporre progetti, ma anche di elaborare visioni strategiche di medio-lungo periodo (naturalmente, ricorrendo alle firme prestigiose di 5 studi di fama internazionale i quali, su incarico professionale della FFSU, sono alacremente al lavoro e presenteranno le loro proposte nell’aprile 2017). Si tratterebbe di un compito tipicamente pubblico e la scelta dell’amministrazione suscita seri interrogativi. La delega ampia affidata a FSSU prelude a una approvazione senza se e senza ma delle sue proposte? Si rinuncia ancora una volta da parte dell’amministrazione municipale a svolgere un compito di regia e di controllo sul disegno complessivo della città? E il sedicente governo della Città Metropolitana non batte un colpo su progetti di evidente irraggiamento di area vasta?
E’ molto probabile, perché è FFSU, perché sono i grandi gruppi della finanza immobiliare che, per motivi del tutto estranei alla effettiva rigenerazione urbana, continuano a dettare l’agenda a questa amministrazione, così come l’hanno dettata alla precedente.
Qualcosa si sta però muovendo nella società civile e nel mondo della professione e dell’accademia: il successo dell’iniziativa promossa da Emilio Battisti è un segnale promettente.(m.c.g.)


Una vicenda, quella del riuso delle aree Expo 2015, come al solito opaca e gestita secondo le contingenti convenienze individuali, disancorata da una visione di ambito metropolitano e incompatibile con l'opzione, espressa dai cittadini nel referendum consultivo del giugno 2011, a favore della conservazione integrale del parco agroalimentare. Arcipelagomilano online, 18 gennaio 2017 (m.c.g.)

Non credo di essere un buon esegeta del renzismo perché è un percorso politico che a mio avviso non ha portato e non porterà dove si vorrebbe ma una cosa mi è chiara: di là dalle strategie banalmente di potere l’obiettivo era lo svecchiamento del Paese avviluppato in una rete di istituzioni inadeguate alla sua crescita, paralizzato da una burocrazia pletorica, inefficiente, castale e autoreferenziale e spesso funzionalmente incompetente, governato da una classe politica in parte intellettualmente vecchia, in parte incapace di declinare la propria ideologia per adattarla alla nuova società in balia di un travolgente cambiamento.

L’esito del referendum costituzionale, pur rappresentando solo un aspetto di quella politica, l’ha travolta tutta: una delle ragioni probabilmente è che il cambiamento in un Paese articolato come il nostro in tanti poteri diversi e spesso tra di loro conflittuali, con tante caste e burocrazie capillarmente insediate a presiedere la vita dei cittadini, con tante cattive abitudini e pigrizie ormai incistate, avrebbe richiesto una operazione di rinnovo molto difficile, capillare, una operazione alla quale le truppe di complemento del renzismo – i nuovi amministratori locali, il nuovo apparatchiks – non ha saputo far fronte. Nemmeno a Milano, l’isola renziana.

Le truppe di complemento sono il rincalzo a un esercito piccolo per la bisogna e che non riesce a formare nuovi soldati ma quelli di complemento hanno un difetto: sono l’espressione di un vecchio addestramento. Così è stato e così è.
La vicenda della aree Expo ha colto il renzismo in mezzo al guado e con truppe di complemento.

Arexpo è l’eredità pesante di una operazione da seconda repubblica con le sue compromissioni tra affari e politica: alla scelta di una localizzazione sbagliata si è aggiunta una gestione economica opaca e confusa nel groviglio del dare e dell’avere tra Expo 2015 Spa in liquidazione e Arexpo Spa, una società che solo con l’ultima assemblea del 30 novembre si è data un nuovo Statuto e ha definito la composizione del suo Consiglio di amministrazione e la sua mission: “Valorizzare, Trasformare, Innovare”. Una società pubblica di promozione immobiliare.

Al vertice di questa società c’è un consiglio di amministrazione di cinque persone: Giovanni Azzone, già Rettore del Politecnico, ordinario di Sistemi di controllo di gestione; Giuseppe Bonomi, una vita tra aeroporti e direttore generale della Presidenza di Regione Lombardia, Ada Lucia de Cesaris, avvocato amministrativista già Vicesindaco a Milano e Assessora al territorio; Chiara Della Penna, avvocata specializzata in diritto commerciale e in diritto anti trust; Marco Simoni, economista, della segreteria del Vice Ministro dello Sviluppo Carlo Calenda. In fine un direttore generale, Marco Carabelli, laureato in Economia e commercio, già direttore al Bilancio e programmazione, poi vicesegretario generale di Regione Lombardia.

Qualcuno può vantare una esperienza in promozione immobiliare? Chi li ha messi lì? Lo stato maggiore delle truppe di Complemento? Cerchiamo la competenza? Troviamo il manuale Cencelli, quello mai morto nemmeno nell’era renziana.

La verità è che Arexpo non è una società di promozione immobiliare: è tutt’altro, è un affare da seconda repubblica, uno snodo di interessi. La dimostrazione? Due fatti strettamente collegati: la redazione del documento di indirizzo e il recente bando del quale si parla in seguito.

Il Documento di indirizzo, dal titolo “Linee Guida del Piano Strategico di Sviluppo e Valorizzazione di Arexpo”, curiosamente ancora prima che il Governo entrasse come socio di maggioranza relativa (39,28%) Arexpo lo commissiona e lo ottiene da Pricewaterhouse Coopers e a Roland Berger – due società di consulenza – per farsi dire cosa fare di quelle aree. Quando mai una società di sviluppo immobiliare non sa cosa dovrebbe fare? Non ha le risorse interne per saperlo? Curioso.

Il documento prodotto nel settembre 2016, corposo, già dalle prime pagine dice che l’area Expo è il luogo ideale per un Parco della Scienza, del Sapere e dell’Innovazione. Solo per quello? Altre alternative no? Molte delle affermazioni per avallare questa ipotesi sono mere opinioni senza visibile supporto di ricerca: sembra più che altro un documento a sostegno di una candidatura.
Comunque. Parco della Scienza sia! Ma anche nuova localizzazione dell’Istituti Italiano di Tecnologia – assai discusso – e alcune università.

Lo Stato in novembre 2016 interviene con il Ministero dell’economia e delle finanze e nomina i suoi rappresentanti nella società. Il ministero dell’Università e della Ricerca incredibilmente non compare, forse nessuno lo interpella, forse questa operazione potrebbe essere collocata nel Programma Nazionale della Ricerca, che però è fermo al 2012 e che se fosse varato dovrebbe andare al CIPE per l’autorizzazione definitiva. Campa cavallo.

Arexpo comunque non si ferma e, sempre non sapendo bene di suo cosa fare, a dicembre fa un bando per la scelta di un unico contraente in grado di ideare e gestire lo sviluppo e la “Rigenerazione Urbana” dell’area ex Expo, cosa che invece il soggetto prescelto dovrebbe saper fare, ossia la gestione del masterplan secondo il documento di indirizzo e poi realizzare il tutto sulle aree, forte di una concessione di 90 anni. Un soggetto difficile da trovare viste le dimensioni dell’operazione, la sua complessità e la diversità dei ruoli.

Comunque Arexpo non ha dubbi e ha solo un problema: come si sceglie il soggetto operatore? Niente paura, la formula è quella prevista dal Codice degli Appalti: l’offerta economicamente più conveniente, quella usata per l’appalto della Piastra Expo e che ha riempito di sé le cronache giudiziarie, formula che i tribunali si ritrovano sempre quando si parli di malaffare, opacità e abusi. Usare però questo procedimento di scelta del contraente è fuori luogo: è un meccanismo per appaltare opere edili, non certo scegliere un piano che preveda un intervento urbanistico.

Ma ammettiamo pure che in questo caso tutto, nella più assoluta legalità, sia logico e coerente. Sapete chi deciderà i destini della più grande trasformazione territoriale del milanese? Una commissione, quella prevista Codice degli appalti, che valuterà, secondo certi parametri predefiniti, l’offerta economicamente più vantaggiosa: vantaggiosa per chi? Per pagare i debiti di Arexpo? Chi ci sarà in quella commissione? In rappresentanza di chi? Della ricerca? Dello sviluppo economico del Paese? Di Milano? Della città metropolitana? Chi valuterà onori e oneri per Milano? Oneri per manutenzioni delle aree, delle opere di urbanizzazione, per nuovi trasporti pubblici indispensabili? Per 90 anni? In un mondo che cambia e dove, se tutto va bene, siamo a stento capaci di fare programmi a 5 anni, la durata di un governo o una consigliatura comunale?

Un dettaglio: prima di partire con l’attuazione bisognerà probabilmente arrivare a un nuovo Accordo di Programma, perché le necessarie autorizzazioni competono al Comune di Milano. E se l’accordo fa la fine di quello per gli scali ferroviari?Un bando così forse andrà deserto, comunque non è per il mercato italiano e per finire è l’abdicazione a un ruolo di governo del territorio: il governo non si appalta.

Fermiamo il bando fin che siamo in tempo e ridefiniamo i ruoli. Quel che c’è oggi è frutto del lavoro di truppe di complemento, da rottamare: un renzismo che tradisce Milano.

Paolo Burgio intervista Giancarlo Consonni, che con numerosi colleghi urbanisti, architetti ed ecologisti ha firmato l’appello al Comune per protestare contro gil modo in cui si procede a decidere la trasformazione degli scali FS a Milano. z3xmi.it online, 6 dicembre 2016

1.Professor Consonni cosa l’ha spinta a sottoscrivere questo appello?
Si sono travisati gli impegni assunti nella delibera del Consiglio Comunale che prevedeva un concorso pubblico: la procedura scelta esautora l’amministrazione pubblica e i cittadini dal governo del territorio e dei destini della città. Si sta ripetendo quello che è accaduto negli ultimi trent’anni per interventi di rilevanza cruciale in cui il progetto è stato redatto su incarico dell’operatore immobiliare proprietario delle aree (da Bicocca, che ha fatto da apripista, alle altre grandi aree dismesse: Innocenti, Om, Porta Vittoria, Montedison-Rogoredo, fino a Porta Nuova e Citylife). Il bilancio è sotto gli occhi di tutti: seguendo questa prassi, si sono via via perse straordinarie occasioni per migliorare la qualità urbana.
In tutti questi casi il Comune non ha mai espresso una linea strategica, un’idea di città. Emerge un limite culturale di fondo, oltre che politico (le due cose sono strettamente collegate).
La storia si ripete ora con una mistificazione in più. Se nel caso di CityLife il problema era che l’ente Fiera doveva trovare le risorse per il trasferimento a Rho-Pero, qui FS-Sistemi Urbani maschera la politica immobiliarista con l’esigenza di dover reperire risorse per un nuovo passante ferroviario o altri interventi sulla rete regionale dei trasporti su ferro. Non vi è dubbio che occorra rivedere la politica del trasporto pubblico in Lombardia con particolare attenzione agli spostamenti pendolari; ma che, per conseguire dei miglioramenti su questo fronte, si debbano reperire risorse dalla speculazione immobiliare su aree sostanzialmente pubbliche, è un modo di procedere assurdo.

2. In Italia da tempo assistiamo a continue deroghe delle norme che impongono di bandire concorsi pubblici, una pratica che non trova spazio in Francia, in Germania e in altri paesi europei. Così facendo si nega in effetti un principio di democrazia e di trasparenza. Ne conviene?

Certamente. Fare un concorso pubblico vuol dire redigere un bando; operazione che comporta non solo la definizione degli indici di edificabilità, certo importanti, ma soprattutto la messa a fuoco degli obiettivi strategici: tutte scelte che non possono essere delegate al proprietario delle aree e agli investitori. Il bando serve a definire le finalità sociali della trasformazione. Sul terreno degli obiettivi strategici si registra una grave lacuna nelle politiche del Comune di Milano, come della gran parte dei comuni italiani, del tutto impreparati e disattenti sulla questione del rilancio della qualità urbana degli insediamenti e delle relazioni. Qui è il punto. La democrazia non si misura solo sui modi di formazione delle decisioni ma sugli esiti delle trasformazioni: nel loro rispondere o meno alla necessità di assicurare le migliori condizioni materiali della convivenza civile. Un terreno, questo, su cui l’Italia, che pure è stata maestra nell’arte di costruire città, mostra da tempo una grave carenza a confronto con l’Europa più avanzata.

Nel Bel Paese le politiche di governo del territorio manifestano il totale disinteresse circa le ricadute degli interventi urbanistici sul medio-lungo periodo. Dall’agenda politica sono completamente uscite questioni relative ai modi dell’abitare e ai modi di strutturarsi delle relazioni. Una carenza vistosa che ha radici profonde in un analfabetismo diffuso sul tema del fare città. Si spiegano così trasformazioni urbanistiche e architettoniche che nulla hanno a che vedere con modalità inscrivibili nelle politiche di Rinascimento urbano perseguite altrove (penso in particolare a Barcellona). Basta una visita a CityLife: due grattacieli (un terzo previsto non è stato realizzato) in un deserto di relazioni, una spianata pavimentata su cui si affacciano anche due raggruppamenti insediativi di residenze di lusso, nei quali è incamerato la parte preponderante del verde pubblico previsto per l’intero intervento. Si respira un’aria da gated communities che non va certo in direzione della convivenza civile.

A cavallo del 1900 Edmondo De Amicis ci ha restituito una Torino in cui, in certe zone della città borghese, artigiani, operai e impiegati convivevano nella stessa casa, o nello stesso isolato, con i più abbienti (un principio che valeva anche per Milano e le altre città italiane). Oggi si va decisamente in direzione opposta: si assiste al dilagare di forme esasperate di segregazione sociale, favorite da zonizzazioni selettive e da tipologie insediative concepite secondo logiche sempre più esclusive. Gli ultimi sviluppi sono all’insegna di un ritrarsi delle residenze dei più facoltosi in nuovi ‘castelli’, edifici alti su palafitte con i piani terra non più abitati. In altri termini per questi ceti si predispongono modalità abitative ossessionate dal problema della sicurezza, diffidenti e difese dalle relazioni con l’intorno. Si fa avanti un vivere asserragliato in torri in cui sembrano riaffacciarsi le città puntaspilli del Medioevo. Che cos’altro è il celebratissimo “bosco verticale”? Un caso, questo, nient’affatto isolato. Già prima, Renzo Piano per le aree ex Falck a Sesto San Giovanni ha proposto una sequela di grattacieli su pilotis alti 15 metri e i primi tre piani non abitati, in mezzo a un verde genericamente definito. Un modo di abitare egoistico, che è l’opposto della città. La città è condivisione, nella tutela e nel rispetto reciproco.
Negli ex scali ferroviari si deve dare spazio al verde? D’accordo, ma è sul come che va portata l’attenzione. Se il verde (anche qui imprecisato) ha come prezzo un bordo di grattacieli di residenze di lusso – tanti “boschi verticali” come suggerisce un rendering recentemente ‘regalato’ da Stefano Boeri al «Corriere della Sera»– è già delineato uno scenario preoccupante. Da cancro antiurbano.
Stiamo mimando in modo ridicolo Central Park e i suoi grattacieli in una città come Milano che non ha questi principi nella sua logica costitutiva e nella quale, per fortuna, le relazioni socializzanti sono ancora un fatto primario. Del resto, solo nel continuo connettere presenze e ritrovare punti di convivenza civile si può pensare di salvaguardare processi in cui la cura della democrazia e la costruzione della città vanno di pari passo.
Ci sono poi le quantità e su questo si sta mistificando. Sergio Brenna ha fatto dei calcoli precisi: non ha senso partire dall'ipotesi del verde al 50% con indici volumetrici elevati: poiché nell’insieme del progetto devono rientrare le dotazioni di servizi e spazi verdi, non si può pensare che ci siano logiche compensative per cui il verde e i servizi di interesse generale si possano realizzare altrove: devono essere contestuali. Lo dico per esperienza: se si va oltre l’indice di 0,50 mq su mq (superficie lorda di pavimento su superficie fondiaria), non si potrà mai far tornare i conti: si dovrà forzare il gioco con le tipologie edilizie (vedi il rendering di cui sopra) e una dotazione inadeguata di servizi urbani e territoriali.

3. Spesso si giustificano queste scelte con le esigenze economiche, occorre recuperare risorse sfruttando i processi di riconversione di aree pubbliche perché i soldi non ci sono e dobbiamo contenere il debito pubblico. È questa una vera soluzione?

È una questione centrale. Il Comune, per quello che si è visto negli ultimi decenni, mira unicamente a incamerare oneri di urbanizzazione. Risorse che, dopo la riforma Bassanini, possono venire utilizzate per coprire qualsiasi spesa o buco di bilancio, quando invece, come era nella legge originaria, dovrebbero servire a realizzare i servizi complementari che rendono l’abitato equilibrato. Mentre dimostra disinteresse sulla questione centrale del fare città, l’amministrazione comunale ambrosiana punta a favorire qualsiasi realizzazione purché il flusso degli oneri di urbanizzazione, destinati ormai per il 30-40 % alla spesa corrente, non si interrompa.
In altri termini, vendiamo il futuro per far fronte ai bisogni quotidiani (compresi il mantenimento di una macchina burocratica farraginosa).
L’assenza di visione strategica, e di pratiche conseguenti, mette evidenza in cosa consista l’attuale crisi della democrazia:. Non si può monetizzare la perdita di qualità degli aggregati insediativi e accettare l’aumento di segregazione urbana pur di assecondare operatori immobiliari che, per conseguire il massimo sul piano della rendita, si rivolgono a una sola fascia di mercato, con prezzi ormai superiori ai 10.000 euro/mq.
Il verde, poi – ce lo insegnano le migliori esperienze europee (Parigi, Barcellona ecc.) –, svolge pienamente il suo ruolo se è abitato, se è frequentato intensamente dalla collettività. Perché questo accada, si deve predisporre un’offerta oculata di opportunità. Il parco urbano non può essere un generico spazio rinaturalizzato: deve essere frequentato, presidiato in modi d’uso in cui la contemplazione degli elementi naturali e la cultura devono andare di pari passo.
Mentre si procede a tappe forzate verso la legittimazionedella più grande variante in deroga nella storia dell’urbanistica milanese, una lucida riflessione critica sulla perdurante latitanzadell’amministrazione locale che non fa quello che le compete. Arcipelago Milano, 29 novembre 2016 (m.c.g.)


Chi viene dafuori, se vuol capire bene dove è arrivato, deve affidarsi alla saggezza deipopoli: i proverbi. Chi viene a Milano ne ha a disposizione moltissimi ma duesono fondamentali: “Var pussee un andàche cent andemm” e “Ofelè, fa el to mestè”, Arcipelago Milano,29novembre 2016.
Varpussee un andà che cent andemm” – meglio andare che dirsi andiamo – è ilritratto dei milanesi sempre di corsa, spicci nelle loro decisioni. È questo ilmotto dell’attuale Giunta a proposito degli scali? O l’ansia di tener fede a unimpegno elettorale? Non lo so ma questa volta farei volentieri a meno di quelproverbio perché tutta questa fretta sugli scali è decisamente inspiegabile,salvo che Fs Sistemi Urbani non abbia avuto ordine dalla capogruppo diconsolidare un valore immobiliare che oggi non c’è fin tanto che l’accordo diprogramma non sarà sottoscritto dalle tre parti: Fs, Comune di Milano, RegioneLombardia. Fino a quel momento le aree non valgono nulla.

Vorreiricordare che l’approvazione di un accordo di programma comporta, a norma delcomma 6 dell’art. 34 del D.Lgs. n. 267/2000, la dichiarazione di pubblicautilità, indifferibilità ed urgenza delle opere e che questi trerequisiti sono inscindibili. Vorrei sbagliarmi ma almeno l’indifferibilità el’urgenza non li vedo proprio, sopratutto nell’attuale situazione del mercatoedilizio e per le ragioni ben illustrate dalla ricerca condotta nel 2015 dalPolitecnico di Milano: «E infine i vincoli e le opportunità rintracciabili neiprofili amministrativi, dovendosi ancora precisare se l’attuazione degliinterventi opererà in variante o meno alla pianificazione vigente e quali sianole condizioni di fattibilità procedurale di eventuali “usi temporanei”. Lalunga prospettiva temporale della trasformazione, infine, che va ben oltrel’arco decennale di cogenza dello strumento pianificatorio – conformativo,suggerisce l’adozione di una strategia di “manutenzione continua e programmata”la cui gestione sia affidata a un qualificato Collegio di Vigilanza» (Bazzani).(1)

Vorrei anchericordare che gli accordi di programma costituiscono anche deroga allostrumento urbanistico in vigore e dunque un’eventuale adozione perpetua ilmalcostume, anche milanese, di procedere nella gestione urbanistica della cittàper varianti continue, rinviando sempre un’operazione complessiva di ridisegnourbano: quest’atteggiamento rispecchia forse l’inesistenza della cosiddetta“visione”, l’araba fenice della politica milanese. Spero che il tutto non siaqui
Ofelè fael to mestè”. Questo proverbio invece fa proprio al caso nostro: bellosarebbe se ognuno facesse il proprio mestiere a cominciare da Ferrovie delloStato e non si impancasse a essere il pensatoio dell’urbanistica milanese.L’operazione Dagli scali, la nuova città è francamente imbarazzante perMilano perché mescola ruoli che dovrebbero essere ben distinti: che cosa vuoldire che FS Sistemi Urbani «promuove un processo partecipato, inclusivo ecollaborativo, di rigenerazione urbana sostenibile delle aree ferroviariedismesse nella città di Milano.»? In nome di chi? In sostituzione di unruolo che dovrebbe essere proprio dell’amministrazione comunale e dei suoiorganismi? Nell’interesse di chi? Suo evidentemente.

«Grazieal coinvolgimento di cinque team multidisciplinari [?] ­- otto architetti e unsociologo – guidati da architetti di fama internazionale, il processo siconclude con la presentazione di cinque scenari di sviluppo urbano». Eccoquel che vuol fare Fs Sistemi urbani. Il tutto con leggerezza vien classificatonella categoria “contributo alla discussione”. Io lachiamerei indebita pressione su un’amministrazione locale da parte dello Statonell’interesse di una sua Azienda, schierando in campo professionisti dirilievo per utilizzare la loro autorevolezza, o il ruolo giocato negliorganismi di categoria, a sostegno dei propri interessi travestiti da bene perla città.

Il tipo dibene da parte delle Ferrovie dello Stato verso Milano lo sperimentano tutte lemattine i viaggiatori che partono e arrivano alla Centrale (Grandi Stazioni)nel labirinto dei percorsi commerciali.

Saper fareil proprio mestiere: il Comune quello del committente nei confronti del mondodi tutte le professioni e i saperi, anche i più innovativi, ben sapendo che uncommittente deve sapere prima di tutto quello che vuole e quello che mette adisposizione in termini di risorse, conoscenze e aspettative, il suo software:il software politico costituito da un’idea di città, dalla conoscenzadei suoi bisogni, dalla sensibilità dei suoi desideri, dalla percezione dellesue opportunità, dei suoi diritti e dal confronto tra questi quattro elementi ela disponibilità di mezzi che fanno scegliere tra bisogni che si possono omeno, tra desideri realizzabili e, per finire, quali siano le opportunità dacogliere e i diritti da tutelare ad ogni costo.

Aiprofessionisti la cura dell’hardware senza debordare dal progetto versoil piano politico. Ai consulenti l’affinamento degli strumenti e l’eventualeallestimento di scenari e relativi modelli di simulazione: politicamenteneutrali.

(1) Nota a valle del Seminario “Un progetto per gli scali ferroviari milanesi” tenutosi lunedì 20 aprile 2015, presso il Politecnico di Milano

«Gli effetti dell' ambiguità e indeterminatezza istituzionale sono e possono risultare assai pesanti, presumendo che la grave vicenda del ponte crollato sia solo la punta dell’iceberg di un malessere diffuso, non solo in materie delicate come la viabilità e l’edilizia scolastica secondaria». ArcipelagoMilano online,15 novembre 2016 (m.c.g.)

Per la serie delle cose fatte a metà, le Province sono state abolite ma non troppo. Con la “legge Delrio” se ne è eliminata l’elezione diretta e ridotti risorse e personale. Inalterata invece la permanenza di quelle nate per recente duplicazione con l’effetto di mantenerle in vita anche se piccole deboli e screditate.

In verità il governo Monti cercò invano di riaccorparle con decreto-legge, purtroppo col risultato non casuale di cadere proprio l’ultimo giorno utile per la relativa conversione. Vedi ora il caso della provincia di Lecco, presunta corresponsabile del disastro del ponte crollato sulla superstrada 36 Milano-Valtellina e interprete del più classico scaricabarile burocratico, ma pure vittima di un’ambiguità del sistema di governo locale e intermedio.

Intanto il ministro Delrio, che nel frattempo ha cambiato mansione, naturalmente apre un’inchiesta. Ma sarebbe opportuno che indagasse pure sul pasticcio istituzionale di cui è il principale responsabile in quanto ministro proto-renziano del governo Letta, forzato – sotto la minaccia “populista” dell’esito elettorale 2013 – ad abolirle perlomeno dalla imminente scheda elettorale 2014. Pasticcio peraltro destinato ad aggravarsi nel caso del Si alla modifica costituzionale del Titolo V tra province cancellate e “città metropolitane” fittizie mantenute.

Se dunque, sul punto del fatto, non si vede la differenza tra competenze residue delle ex-province cancellate dal ruolo costituzionale ed ex-province mantenute con l’escamotage di promuoverle nominalmente a “città metropolitane”, sul punto del diritto cambierebbe la natura della cittadinanza tra “provinciali” e “metropolitani” col paradosso che – a parità di elezione indiretta dei rispettivi Consigli – i primi possono comunque eleggere il proprio Presidente mente i secondi devono accettare il Sindaco del capoluogo “di diritto” metropolitano.

Paradossale dunque anche il combinato disposto tra eventuale nuovo Titolo V e legge 56/14 per quanto assai sottovalutato nella pur accesa e prolungata campagna referendaria, a differenza dell’altro “combinato” divenuto celebre grazie all’intreccio con la legge elettorale nazionale. Tuttavia gli effetti di tale presente e futura ambiguità e indeterminatezza istituzionale sono e possono ancora risultare assai pesanti, presumendo che la grave vicenda del ponte crollato sia solo la punta dell’iceberg di un malessere diffuso, non solo in materie delicate come la viabilità e l’edilizia scolastica secondaria.

Intanto il 26 ottobre si è tenuta la seduta inaugurale del nuovo Consiglio metropolitano milanese con la prolusione del sindaco Sala che, al netto di auguri auspici ringraziamenti e buoni sentimenti, ha fatto un fugace riferimento alla governance, ovvero il cuore della questione («dobbiamo chiederci se la costituzione lenta e complessa della nuova struttura amministrativa e di governo chiamata Città metropolitana di Milano abbia un senso»), con due enunciati che meritano qualche riflessione. Una: «i soggetti costitutivi la città metropolitana vanno connessi non annessi». L’altra: occorre evitare che «enti dotati di competenze generali si sovrappongano gerarchicamente come in una matrioska».

Il primo in senso orizzontale: «Milano è il cuore di un arcipelago» composto da città e comuni come «isole autonome e radicate» appunto da connettere. Interessante il riferimento al termine “arcipelago” che ha una doppia etimologia: mare principale e, trattandosi per antonomasia dell’Egeo, aggregato di isole. (Tra parentesi tale appropriata definizione consente a questa rivista di riversare settimanalmente opinioni e riflessioni, studi e proposte nel mare aperto di una variegata sinistra senza soffocare le eventuali idee e ragioni appunto “isolate”).

Il secondo in senso verticale: evitare la sovrapposizione di poteri paralleli che, se non regolati da una sano principio di sussidiarietà ascendente, genera conflitti di competenza, duplicazioni e sprechi, rimpalli di responsabilità come appunto ancora nel caso del disgraziato ponte crollato.

Su questi temi decisivi si è scritto ampiamente e ripetutamente su ArcipelagoMilano e si dovrà tornare con una discussione seria e critica se si vorrà evitare che il secondo mandato del Consiglio metropolitano ripeta la abulica esperienza del primo, contrassegnata dalla svogliata reggenza di Giuliano Pisapia, che ha relegato una potenziale forma di governo moderna ed europea nella condizione di sostanziale irrilevanza politica e istituzionale (al punto che l’attuale Sindaco si chieda se “abbia un senso”!).

Mentre infierivano le Mani sporche la città era già cambiata e continuava a indebolirsi sia per diminuzione della popolazione residente ... (segue)

Mentre infierivano le Mani sporche la città era già cambiata e continuava a indebolirsi sia per diminuzione della popolazione residente sia per rivolgimento della composizione sociale: gli operai residenti (e gli assimilati), ancora oltre il 40% degli attivi al censimento del 1971 (esisteva anche una massa di 430.000 addetti industriali - segno di una forte domanda verso l’esterno), man mano spariranno, come sparirà l’industria per pura abolizione o per delocalizzazione (i due fenomeni - il sociale e l’economico - non erano direttamente collegati, valse forse di più il disinteresse dei governi locali verso il bisogno di case popolari). I lavoratori milanesi imprimevano alla città un marchio di classe, a suo tempo un’antinomia alla borghesia produttrice, classe dominante che si avvierà ben presto a tradire se stessa abbandonando la produzione, dedicandosi invece ai giochi finanziari valutari e borsistici e alla speculazione fondiaria e edilizia.

Quando le Mani sporche, con l’avanzare degli anni Ottanta, dispiegheranno in pieno la loro potenza corruttiva nella politica, negli affari, nell’urbanistica, nell’edilizia e si approprieranno delle risorse milanesi, il fronte minoritario di difesa dei valori civili e urbani non potrà che arretrare su posizioni poco esposte al pericolo, com’era nelle seconde e terze linee di trincea nella Guerra mondiale. Così il craxismo, diserzione irreversibile dal socialismo riformatore, integrando a sé anche parti corrotte o corruttibili del Partito comunista, potette mescolare al latrocinio prima l’immagine poi una falsificata realtà di città redistributiva del benessere, gaudente, festaiola, all’usanza di un’epoca come di Ballo Excelsior.

Lo slogan «Amaro Ramazzotti Milano da bere» perdette l’amaro e il titolo. Rimase «Milano da bere», logotipo della nuova ditta craxiana che ci invitava ad ubriacarci. Intanto il salasso di popolazione continuava, la vecchia linfa del confronto-scontro fra produttori rinsecchiva, a bere la città era un ceto incorporeo emerso dalla crisi delle classi e man mano uniformatosi mediante l’adattamento ai batteri della corruzione. Stava ancora dietro l’orizzonte verso la Spagna una movida estesa e irruenta (cose di giovani…). Era la moda-donna, sfilate e modelle, atelier e saloni a creare occasioni e grilli d’esserci. Quando la festa toccherà il culmine sarà Mani pulite, ossia l’azione della Procura milanese a tentare di sgombrare la sporcizia. Ci riuscirà in una certa misura e fino a un certo momento, quando il «sistema» le scatenerà addosso una furiosa ritorsione: per insegnare che il nostro paese non avrebbe potuto liberarsi mai dei tumori che lo infettano da sempre. Lo si vedrà, a Milano, con l’avvento o l’espansione di altri tipi di criminalità (mafia e ‘ndrangheta) anche nella moderna allegrezza dell’Expo e dell’oggi.

Il periodo del passaggio alla stagione di apparenza primaverile con le amministrazioni di centrosinistra, dopo un intermezzo autunnale (1993-97) in cui la conquista della poltrona a sindaco (Marco Formentini) fu per la Lega Nord il distintivo svanito di una diversità di breve durata, avvenne attraverso berlusconiani governi di centrodestra. Furono questi, prima e principalmente col sindaco Gabriele Albertini (due tornate), poi con Letizia Brichetto Moratti (una sola, sufficiente a ottenere l’Esposizione in una risibile gara con Smirne) a stamburare la grandezza e la bellezza di nuove urbanistiche, nuove edilizie e architetture anche quando fossero l’inverso: mancanza di pianificazione (p. es. un grande quartiere alla Bicocca fuori di piani generali, sulle ceneri di una delle più importanti industrie milanesi) o clamorose violenze all’unità degli spazi e delle cortine architettoniche. Violenze del resto già abbozzate da assessori delle giunte di sinistra. Con questi cominciarono in sordina, con gli altri furono inarrestabili, con l’avvento del centrosinistra proseguirono:

1) il massacro di piazze, viali, giardini…, in ogni caso luoghi quasi sempre alberati, per realizzare garage sotterranei multipiano nel centro urbano. L’intensificazione poi, non solo abolirà centinaia di spazi pubblici, ma funzionerà da calamita attirando più automobili verso quel centro da cui si sarebbe voluto (dovuto) tenerle lontane mediante un pedaggio d’ingresso (sindaco Moratti, 2008 con l’Ecopass, confermato dal centrosinistra);

2) la concessione di migliaia di interventi «fuor di senno» per il «ricupero abitativo dei sottotetti» (anche quando finti) in ogni tipo di case, compresi, come in un’accelerazione accecata, fior di palazzi del neoclassicismo, dell’eclettismo, del Liberty, del Novecento; addirittura approdata, elusa qualsiasi attinenza con la normativa originaria, dapprima a un incredibile «ricupero di sottotetto» in costruzioni con la copertura piatta, dopo, sbracandosi i controllori della giustezza e bellezza di tanti posti da me creduti fissi nella storia urbana, a innaturali stridenti sopralzi spesso non di un solo piano. Che tuttavia non basteranno a soddisfare le aspettative di proprietari e impresari per più forti guadagni. Ci penserà una strana, demenziale provvidenza, non ricordo quando varata ma in voga col centrosinistra: il «ricupero in altezza delle superfici lorde di piano (slp)», di sotterranei, piani terra e via a elencare nel «basso» da proiettare in «alto», scontando l’aleatorietà dei calcoli dunque la certezza degli abusi nel passaggio dallo stato esistente a quello sviluppato in altezza per un numero variabile di piani.

Il 10 dicembre 2003 (tredici anni fa!) apparve in eddyburg, poi in una raccolta della Libreria Clup, Parole in rete, 2005, un primo articolo di cui basta citare il titolo, La distruzione della linea del cielo milanese, per comprendere quali effetti perversi avesse già provocato l’applicazione della «legge dei sottotetti». Stime davano per sicuri 4.500 casi nel 2002-2003 cui se ne dovevano aggiungere diverse migliaia precedenti o in via di attuazione. Durante gli anni successivi tale maniera di costruire la città si moltiplicò secondo una funzione pressoché esponenziale (e altri articoli non mancarono di contestarlo) fino a saldarsi con la nuova fase delle concessioni ingiustificate a sopralzare di x piani a prescindere dai sottotetti e, peggio, come introdotto sopra, ad applicare l’utilizzo spropositato e incontrollato delle slp: persino dieci e più piani inventati da preesistenza zero, se così posso esprimermi. L’immagine a fianco (fotografia di Sergio Brenna) rappresenta il «ricupero in altezza della slp sotterranea di precedenti officine» (dizione regolamentare). Sorprende (per modo di dire…) che nessuno, appartenente a qualunque grado amministrativo, regionale o comunale, e nemmeno gli ordini professionali abbiano mai preteso la secca cancellazione dell’anomalia.

La città sembrava non aver ancora esaurito la riserva di furore distruttivo dei suoi caratteri d’elezione. Eppure quell’incessante distorsione dell’operare a regola d’arte sarebbe bastato per giudicare perduta in buona parte la conservazione del patrimonio in case e palazzi ben definiti nella conformazione da terra a cielo e capaci nell’insieme di dar lezione di architettura urbana. Invece un altro fronte d’attacco si mise in moto col centrodestra del sindaco Albertini accompagnato da un assessore, ingegner Gianni Verga, proprio lui già promotore in veste di amministratore regionale della «legge dei sottotetti». Cominciava l’epoca delle «Nuove Milano», in aree svuotate da edifici non più utilizzati per scelta immotivata (ex Fiera, sostituita dal nuovo insediamento ai margini occidentali della città) o in vaste parti scomposte del territorio comunale prima oggetto di concorsi urbanistico-architettonici, poi gettate nel secchio di impari accordi del municipio con potenti immobiliaristi, non essendo disponibile il primo ad affermarsi come autore almeno di piani di indirizzo se non, come sarebbe stato d’obbligo, di piani particolareggiati di attuazione (viale della Liberazione (Varesine), Porta nuova, Isola, Garibaldi, Repubblica… et al.).

Nel verso di un allineamento del governo locale al più sregolato neoliberismo mondiale, sindaci, assessori, giornali e giornalisti embedded, architetti e urbanisti, quelli condizionati da relazioni professionali costrittive, ordini professionali: complici l’analfabetismo di numerosi cittadini (comprensibile) e di qualche associazione (inaccettabile), anche «un analfabetismo diffuso sui rapporti che intercorrono fra habitat e convivenza civile» (G. Consonni, Habitat e condizione umana, in Id., Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà, Solfanelli, Chieti 2016, p. 63), quei dotti si misero a cantare la bellezza di inediti insediamenti edilizi: soprattutto dell’avvento, finalmente anche qui (trascurando qualche precedente discordante), della «forma» grattacielo indice di internazionalismo e relativa «attrattività» (ah… ah…). Cruda forma, appunto, quanto più inusitata, in-architettonica, stravagante, mattacchiona, storpiata negatrice della nitida drittezza statica. Destinazione d’uso? Chissà, l’interno avrebbe potuto essere vuoto o pieno di m…. nessuno se lo sarebbe chiesto; non sarebbe cambiato nulla. L’essenziale oggigiorno risiede in un mercato futuribile in cui la rendita fondiaria-edilizia si riproduce anche negli oggetti abbandonati. Il modello? Nel Medioriente, qualsiasi Dubai dei sette emirati o città nuove saudite; nel mondo, qualsiasi Kuala Lumpur o Bangkok o Shanghai o Manila o Rio o Buffalo o Johannesburg…

Un’omologazione che dà ragione allo psicoterapeuta James Hillman, al cui pensiero critico ricorro non per la prima volta. Siamo inconsci della bellezza, siamo antiestetici, anestetizzati, psichicamente ottusi, sicché vince la bruttezza titanica, la nostra vera nemica che colpisce gli occhi, gli orecchi, altre parti del corpo. Le persone dotate di sensitività improntata al principio di selezione sono le sole che, provando profonda rabbia dinnanzi allo spettacolo dis-umano, riescono a captare gli echi del mondo che danno al nostro corpo e al nostro spirito informazioni su come essere, su cosa accettare e cosa detestare (cfr. Politica della bellezza, Moretti&Vitali, Bergamo 1999, p. 64-67 ). Altro che giudizi, falsati da condizionamenti consci o inconsci, sulla base di «mi piace/non mi piace”, o “può piacere o non piacere” (famosa ex assessora all’urbanistica Ada Lucia De Cesaris), o «è bello ciò che piace» o, e basti, «è questione di gusti».

Le prime manifestazioni di arroganza verso i contestatori delle novità architettoniche (meglio dire, in diminuendo, edilizie) incentrate sull’erezione di grattacieli quanto più insensati per essere spettacolari e vantati dalle amministrazioni comunali quale segno di modernizzazione e primato, risalgono al Comune di centrodestra oltre dieci anni fa. Era appena all’inizio l’edificazione sull’area dell’ex Fiera campionaria, «enorme processo di riqualificazione» secondo il sindaco Albertini (intervista al Corriere della Sera, 20 aprile 2006), conosciuto per aver paragonato la guida di una grande città all’amministrazione di un condominio. Per la verità, ampliò i propri richiami culturali definendo i progettisti dei tre grattacieli, Hadid, Isozaki e Lebeskind, legati al gruppo di imprese aggiudicatario degli appalti, «i Brunelleschi e i Bernini dei nostri giorni», e l’asfittico verde, previsto in ritaglio fra i tre colossi circondati da densi e alti gruppi residenziali, «nostro Central Park»: come se non sapesse che il parco newyorkese misura quattro milioni di metri quadrati e l’intera nuda superficie dell’ex-Fiera 255.000 mq. Nella realizzazione lo spazio avrebbe potuto essere riorganizzato rispetto al progetto giacché il grattacielo di Lebeskind non sarebbe stato costruito subito. Al contrario…

«Siamo stati a City Life: vale il viaggio. Una landa desolata con tanto di cratere (in cui è stato sprofondato un campo da golf), due nuclei (gated communities camuffate) che catturano larga parte del verde residuo ecc. ecc. dove si dimostra come si possa fare cippirimerlo agli standard e mandare in soffitta il disegno urbano. Il tutto mentre gli osanna dei media non cessano: un vero fuoco di sbarramento», lettera di Giancarlo Consonni e Graziella Tonon, 21 ottobre 2016.

Gli osanna traboccano da City Life agli altri luoghi della Nuova Milano (vedi sopra) tutti coinvolti in un trionfale e stupefacente disordine urbanistico procedente verso quell’esclusiva stravolta immanenza dei tipi-forme-grattacielo che ho descritto. Gli architetti internazionalisti propensi soprattutto a esaltare se stessi sono «naturalmente» estranei alla nozione di contesto, insegna della scuola di architettura milanese; non gl’importa niente del retaggio sentito vividamente dai cittadini più anziani, il carattere peculiare delle loro opere è l’indifferenza, garantito complice della bruttezza. Per parte loro i media sembrano impediti a percepire la realtà da qualche imperscrutabile intoppo interno, come un groppo nelle viscere umane.

Scrivono di meraviglie della falsa «piazza», qatarina al 100 per cento, intitolata a Gae Aulenti e offendono l’autentica bellezza delle piazze che l’Italia può ancora esibire. Decantano il risanamento del «fangoso» parco dei divertimenti nell’area delle ex-Varesine, ma non immaginano che percorrendo viale della Liberazione in auto (impossibile a piedi!) chi detiene un pizzico di discernimento resta tramortito dalla visione di una caos a doppia faccia, la disposizione a caso degli edifici e, di questi, gli spropositi, i pasticci «architettonici» (virgolette necessarie). Dicono di respiro internazionale alitante all’ombra dei più alti grattacieli e ignorano che ora a Milano respirano a grandi boccate mafie e ‘ndranghete penetrate con capitali ripuliti nella finanza, nel commercio, nei cantieri; e tengono a latere le notizie sulla corruzione ritrovata persino negli appalti e subappalti dell’Expo creduta illibata. Inneggiano all’aumento dei turisti e non vedono che il turismo, qui, è del tipo che Carla Ravaioli definiva «inquinante», all’opposto di una prospettiva sociale e culturale (Il turismo inquinante, in eddyburg, 11 aprile 2005). Il campo di coltura è la vendita di abbigliamento (moda italiana d’altronde omogenea alla forma mondiale), con le concatenazioni richieste da soggiorni anche brevi (hotel, ristoranti-bar-pizzerie…).

La conoscenza dei monumenti e delle opere d’arte, al di là del confine di Piazza Duomo con la cattedrale, spetta solo a piccoli gruppi preparati. La Curia poi, è entrata in pieno con Santa Maria Nascente e dintorni nel circuito commerciale più retrivo, è penoso constatarlo ogni giorno: non solo perché l’ingresso alla chiesa si paghi ma per l’effettiva vendita delle solite cose desiderate dal consumatore conglobato, dentro un ampio negozio ligneo (dovrebbe imitare i barconi che trasportavano il marmo di Candoglia al piede della costruzione) appiccicato alla fiancata di sinistra.

Conclusione. «Fuoco di sbarramento» contro le critiche concentrate sulle Nuove Milano, giacché è su queste che gravita il trionfalismo del Comune e dei media: tuttavia qualche divergenza passa sulla stampa, per lo più enunciata da architetti indipendenti (p. es. Corriere della Sera 21 ottobre, idem 24 ottobre 2016). L’ultima risposta di chi non vuole cambiare idea è però una specie di offerta per un compromesso metaforico, basato sul gioco del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Prima (si intende la città piatta, inerte, forse triste) vedevamo la metà vuota del bicchiere, c’era poco o niente di cui rallegrarsi, ora siamo invitati a vedere quella piena e c’è molto da festeggiare. È ritornata la «Milano da bere».

«Strategia e visione per una città hanno a che fare con l'identità. “Scali ferroviari”: si ripropone una mai risolta questione . Due interventi dal dibattito sugli scali ferroviari». ȦrcipelagoMilano online,12 ottobre 2016 (c.m.c.)

URBANISTICA SCALI FERROVIARI
LE CITTÀ POSSIBILI

Giulia Mattace Raso

Ogni silenzio ha un suo proprio caratteristico linguaggio, quello che aleggiava nella Sala del Grechetto gremita, in attesa e durante l’incontro dedicato alla riqualificazione degli scali ferroviari e alle città possibili, parlava di una “domanda di senso”. Domanda di senso che riguarda l’oggetto il processo di trasformazione e il destino di queste aree con la consapevolezza che si stia discutendo del destino della città tutta.

E la prima considerazione evidente è dove finisce il tutto di questa città, perché solo con la coscienza della propria dimensione si individua il piano corretto delle scelte. È richiesto un salto triplo concettuale. Se le élite milanesi faticavano a pensarsi fuori dalla cerchia dei bastioni, non hanno immaginario sulla Città Metropolitana, è particolarmente arduo concepire il tema degli scali alla dimensione regionale, quale è rispetto alle reti, come tema di sviluppo e di uguaglianza di accesso alle funzioni urbane.

«Le scelte per la riqualificazione degli scali ferroviari, per localizzazione, qualità e dimensione delle aree, peseranno come e più di un piano urbanistico generale» ma in questo caso devono assumere le fattezze più proprie di un piano strategico, considerando allo stesso tempo un tema di cornice (lo sviluppo ambientale), un tema di scala (“siamo una città di 7 milioni di abitanti”), un tema di direzione (cosa vogliamo diventare).

Il caso di Torino illustrato da Stefano Lo Russo, è quasi lineare nel suo processo di trasformazione “forzata” alle prese con il declino della città fabbrica: si è riconvertita una città intera, con il suo piano urbanistico generale che ha saputo tracciare la via venti anni fa, il PRG del 1995 (le principali strategie: recupero del centro storico, costruire sul costruito, riorganizzazione della struttura urbana, riuso delle aree industriali), con una scelta forte e coerente, portare il trasporto su ferro sotto il piano di campagna e ricucire il tessuto urbano. Bussola operativa: nella trasformazione urbana l’amministrazione pubblica fa da regista, e nelle dinamiche con i privati l’ultima parola spetta al Pubblico.

Punto di partenza e destinazione finale chiari e riconosciuti a Torino per una visione strategica. Milano sembra già in difficoltà a pensare e definire se stessa. Ricordiamo anche solo il dibattito sull’anima della città prima di Expo, quando ci ponemmo il problema di presentarsi al mondo. Pensato in chiave di brand e marketing territoriale, di fatto affrontava il tema dell’identità: non ne siamo venuti a una.

Difficoltà che si scontra quotidianamente nella ambiguità della dimensione amministrativa: l’orizzonte dichiarato è quello della Città metropolitana ma nel dibattito attuale lo scalo ferroviario di Segrate rimane fuori dal conto perché “fuori dalle mura”. Eppure i geografi ci descrivono come una città di 7 milioni di abitanti, le dinamiche non possono certo essere quelle del ritorno immobiliare calcolato per singoli lotti.

Dobbiamo assicurarci che la cornice di riferimento cognitiva sia quella delle nuove logiche di sviluppo (il decoupling), quella dell’era geologica di appartenenza – l’antropocene -, essere consci di dover partecipare, in quanto attori primi del cambiamento come città, alle messa in atto delle convenzioni internazionali. Scrive Gianluca Ruggieri su questo stesso numero: «Più in generale, è urgente chiedersi come si stanno adeguando urbanisti e amministratori alla prospettiva post-carbonio. Ad esempio nella discussione sul destino degli scali ferroviari urbani, qualcuno si sta ponendo il problema di come gestire la logistica senza far uso di mezzi alimentati da benzina e gasolio (obiettivo che l’Unione Europea avrebbe posto ai centri urbani per il 2030)?»

Le sfide non sono banali, è richiesta attitudine nel gestire la complessità e nel cogliere le opportunità di sviluppo, sinergiche solo se i costi e i benefici saranno calcolati in modo complessivo. Minor costo per chi, maggior guadagno per chi: il caso M4 è paradigmatico nei suoi andamenti, quando si scontra una ratio economica pura con la qualità di vita generale della città, riflessa in quella apparentemente “particolare” dei comitati. Ma non si può pensare la partecipazione come opera di mitigazione sociale, accontentare i bisogni dei cittadini senza tenerne in conto i desideri, o si sta rinunciando alla loro spinta fortemente trasformativa.

La qualità della vita è un ingrediente indispensabile della capacità di attrazione della città e se la «reputazione ormai conta più della ricchezza» e il capitale reputazionale viaggia anche sui social media, questo l’abbiamo molto ben imparato con Expo, allora quel che pensano i cittadini non è proprio più così secondario.

CHI DETERMINA
LE SCELTE URBANISTICHE

Sergio Brenna

I due interventi di Favole e Targetti nello scorso numero di ArcipelagoMilano sono quanto mai utili a indicare quali dovrebbero essere gli obiettivi di interesse pubblico generale cui il Comune dovrebbe indirizzare le scelte di trasformazione urbanistica nel riuso degli ex scali ferroviari milanesi: per un verso la risposta alle esigenze della domanda di evoluzione demografica e sociale e per altro verso l’acquisizione da parte del Comune di una quota preponderante della rendita fondiaria da destinare alla realizzazione di infrastrutture pubbliche in ambito milanese-metropolitano, che invece FS/Sistemi Urbani ritiene di poter destinare prevalentemente all’alleggerimento dei propri costi di esercizio.

Entrambi gli interventi concordano che per motivi sia di evoluzione demografica prevedibile sia di andamento del mercato immobiliare, soprattutto residenziale, non vi sia necessità nei prossimi decenni di grandi quantità di edificazioni a libero mercato, quanto piuttosto di edilizia sociale a basso costo per rispondere alla domanda che attualmente è inevasa dal mercato per impossibilità di accedere ai costi gravati dalla rendita fondiaria.

Da questo punto di vista desidero precisare che il richiamo di Targetti all’obbligo di legge degli anni ’60/’70 (L.167/62, modificata poi dalla L. 865/71) di destinare a edilizia economico popolare dal minimo il 40% al massimo del 70% del fabbisogno abitativo decennale stimato, in realtà non è mai venuto meno: semplicemente con il progressivo esaurirsi delle aree a ciò destinate nei Piani di Edilizia Economica e Popolare (PEEP) approvati in quegli anni e l’estinguersi dei finanziamenti pubblici all’edilizia sociale, lo stiamo di fatto silenziosamente disapplicando, soprattutto dopo che gli strumenti urbanistici vengono approvati solo in sede comunale, senza sostanziali controlli da parte della Regione, se non quelli dell’eventuale contrasto con opere di interesse regionale (strade, centri servizi, ecc.).

Molto interessante è anche il tentativo di Targetti di stimare la redditività del business plan relativo alle quantità edificatorie attualmente previste in PGT e, per quanto lui stesso introduca più volte elementi prudenziali, mi pare che l’ordine di grandezza da lui stimato in 1,2 miliardi di euro in dieci anni sia del tutto attendibile ed evidenzia la sproporzione con le contropartite pubbliche attualmente previste dall’Accordo di Programma non ratificato dal Consiglio comunale nel dicembre dell’anno scorso.

Dissento, invece, dalla sua troppo remissiva considerazione che secondo la legge urbanistica regionale i diritti volumetrici sono sanciti dai Piani Attuativi e non dal Documento di Piano del PGT e che, quindi, ogni Accordo di programma possa integrare ad libitum il PGT (non a caso è ciò che ha dato origine alle spropositate edificazioni di Citylife e Porta Nuova, dove gli indici edificatori contrattati sono stati di oltre 1 mq/mq e gli spazi pubblici realizzabili dell’ordine di soli 15 mq/abitante, contri i 44-45 mq/abitanti promessi): è una procedura che mi ricorda troppo da vicino la prassi disastrosa degli anni ’50/’60 delle “convenzioni” caso per caso, senza o contro le previsioni dei Piani Regolatori Generali, perché non debba allarmarmi.

È bene invece che i diritti volumetrici siano fissati negli strumenti di pianificazione generale in maniera congruente alle quantità di spazi pubblici e alle densità fondiarie che si intendono ottenere, e che i Piani Attuativi (compresi gli Accordi di programma) vi si attengano, salvo articolarne: mediamente non oltre lo 0,50 mq/mq, se si vogliono spazi pubblici effettivamente realizzabili dell’ordine di 45 mq/abitante, irrinunciabili per una città che voglia dirsi confrontabile con le grandi metropoli europee.

Una volta fissata in questo modo la quantità edificatoria ammissibile e, quindi, la base del valore economico dell’operazione di trasformazione urbana, per le grandi proprietà in trasformazione sarebbe più opportuno introdurre l’obbligo di attuare un meccanismo di alienazione dei propri patrimoni fondiari non con il criterio del rialzo del prezzo, ma con quello del ribasso della quota di edificazione privata e conseguentemente con la crescita della quota di edilizia sociale.

In tal modo si potrebbe sia stabilizzarne il livello della rendita fondiaria attorno ai valori accettabili condivisi, sia massimizzarne l’utilità sociale, sia infine ottenere un esito progettuale conformativo congruente con i tessuti circostanti.

Purtroppo accade esattamente il contrario. Infatti i Comuni spesso applicano elevati indici edificatori nelle trasformazioni poiché da una parte accettano la proposta immobiliarista privata, d’altra sono condizionati dal dover far fronte con gli oneri urbanizzativi a necessità immediate cui non sono più in grado di rispondere con le ordinarie risorse di bilancio. Si accetta, così, l’omologazione del comportamento di queste proprietà istituzionali a quello degli immobiliaristi, alla sola condizione che le rendite fondiarie vengano totalmente o parzialmente reinvestite in ambito locale. Non importa se in un orizzonte di investimenti infrastrutturali di lungo periodo o, come per lo più accade, anche solo in modo congiunturale.

In questo modo si finisce per incentivarne lo sviamento di comportamento persino quando si tratta di enti, quali FS, che per compito istituzionale e funzionalità aziendale dovrebbero indirizzare prioritariamente i propri investimenti a sostenere gli obiettivi di riequilibrio territoriale di area vasta e di lungo periodo. È a riflettere su questi temi che vorrei veder l’attuale amministrazione impegnata a confrontarsi con le forze sociali e intellettuali della città, anziché attardarsi a rimasticare la riproposizione dell’Accordo con FS bocciato dal Consiglio comunale nel dicembre scorso.

Dopo le recentissime “elezioni fantasma” dei consigli metropolitani, quali sono i programmi dei nuovi amministratori della Grande Milano? Un suggerimento: il vero problema è l’hinterland. arcipelagomilano.org, anno VIII, n. 32 (m.c.g.)



Pensando alla costituzione della CittàMetropolitana e all’opportunità che offre di costruire un Piano Strategico,stupisce la disattenzione che nel dibattito politico e tecnico recente si èmanifestata nella nostra città sulle tendenze demografiche e occupazionali dimedio termine, rilevate dalle statistiche ufficiali, che hanno caratterizzatol’evoluzione della struttura territoriale interna all’area metropolitana[1]. Icensimenti, ormai non più recentissimi, e altri dati aggiornati al 2015 ciconsentono di individuare alcunetendenze forti, e preoccupanti, dalle quali si dovrebbe partire per costruirequalunque strategia per gli anni a venire. Alcune elaborazioni sugli ultimi trecensimenti (1991-2011) per popolazione e occupazione per macrosettori,presentate in un saggio recente da uno degli autori [2], colmanoin parte tale vuoto di analisi e di riflessione (consentendoci anche diaggiornare alcuni dati demografici che Istat ha cambiato nei mesi estivi e diaggiungere nuove informazioni sugli anni recenti).
Considerando separatamente Milano comune,Hinterland e Città Metropolitana complessiva, e confrontando i dati con gliandamenti medi italiani (vedi tabella), osserviamo che nel primo decennio1991-2001 il comune di Milano continua a perdere popolazione in misurarilevante, -113.000 abitanti, solo in parte catturati dall'hinterland (+44.000abitanti). Nel decennio successivo questa tendenza si riduce e in un certosenso si capovolge: Milano comune continua a perdere popolazione anche se inmisura assai meno rilevante (-14.000 abitanti), ma l'hinterland ne guadagna 112.000portando in positivo il totale della Città Metropolitana. Dunque nel decennio2001-11 Milano vede rilanciata la sua forza di attrazione complessiva rispettoal decennio precedente, ma tutto lo sviluppo demografico della cittàmetropolitana si è localizzato nell’hinterland mentre il capoluogo mostra unasostanziale stagnazione - un fatto confermato dai dati anagrafici del Comune diMilano, ripresi annualmente da Megliomilano nel suo Osservatorio Permanente sulla Qualità della Vita, che indicano neldecennio un aumento di sole 1.412 unità. Successivamente, nel periodo 2011-15,questi stessi dati indicano una crescita demografica del Comune, ma solodell’1,35% (+18.000 unità), una percentuale ben lontana dal +7,7% indicato dallacitata pubblicazione del PIM per il 2011-14 (p. 49) [3] [4].
Crescita della popolazione e delle attivitàproduttive extra-agricole –
Milano e Italia, 1991-2011
AREA
Variazione
Variazione
Variazione
Variazione
Valore
E
Assoluta
%
Assoluta
%
Assoluto
DATI
1991-2001
1991-2001
2001-2011
2001-2011
2011
POPOLAZIONE
Milano Comune
-113020
-8,25%
-14.088
-1,12%
1242123
Città Metropolitana
-68759
-2,28%
97841
3,33%
3038420
Milano Hinterland
44261
2,70%
111929
6,65%
1796297
Italia
191969
0,34%
2463744
4,32%
59433744
ADDETTI TOTALI
Milano Comune
47472
6,24%
74132
9,17%
882774
Città Metropolitana
100579
7,13%
75329
5,03%
1571898
Milano Hinterland
53107
8,19%
1197
0,17%
689124
Italia
1434189
7,98%
536394
2,76%
19946950
ADDETTI MANIFATTURIERI
Milano Comune
-55674
-37,66%
-18392
-23,27%
60640
Città Metropolitana
-103012
-23,63%
-88677
-28,17%
226110
Milano Hinterland
-47338
-16,43%
-70285
-29,81%
165470
Italia
-424283
-7,49%
-942338
-19,54%
3881249
ADDETTI COSTRUZIONI
Milano Comune
-1682
-5,60%
4951
16,44%
35075
Città Metropolitana
4281
6,28%
8987
11,97%
84056
Milano Hinterland
5963
15,62%
4036
8,98%
48981
Italia
202123
14,42%
43836
2,82%
1597519
ADDETTI SERVIZI PRIVATI
Milano Comune
87941
20,52%
85683
16,22%
614015
Città Metropolitana
171979
26,60%
138806
16,58%
976121
Milano Hinterland
84038
38,56%
53123
17,19%
362106
Italia
1314413
17,33%
1359767
16,75%
9478155
ADDETTI ALTRE ATTIVITA’
Milano Comune
16887
10,92%
1890
1,10%
173044
Città Metropolitana
27331
10,55%
16213
6,02%
285611
Milano Hinterland
10444
10,00%
14323
14,58%
112567
Italia
341936
10,28%
75129
1,53%
4990027
Fonte:elaborazioni su Censimenti ISTAT [5].
Per quanto concerne l'andamento dell'occupazionetotale, osserviamo come nell'ultimo decennio lo sviluppo complessivoprovinciale sia stato all'incirca doppio di quello medio italiano - un fattoche non si verificava da alcuni decenni - ma anche come tutto lo sviluppo sisia esclusivamente concentrato sul polo centrale milanese, mentre l'hinterlanddimostra una stasi occupazionale preoccupante. Nel decennio precedente losviluppo occupazionale era stato ben differente: la crescita complessivaprovinciale dell'occupazione era stata vicina a quella italiana e si eraspalmata in modo simile fra polo centrale e hinterland (ed anzi, in modoleggermente più favorevole a quest’ultimo). Dunque nell’ultimo decennio l’areametropolitana ha ripreso a sostenere lo sviluppo nazionale ma solo grazie alladinamica del capoluogo. Semplificando – ma non troppo – gli effetti territorialidel rinnovato ruolo di Milano, tutto lo sviluppo demografico si è localizzatonell'hinterland mentre tutto lo sviluppo occupazionale si è localizzatoesclusivamente nel comune centrale, evidenziando una divaricazione abbastanzaanomala che ricorda la situazione degli anni ’50.
Quali tendenze settoriali hannodeterminato lo scenario complessivo ora tratteggiato? L'industriamanifatturiera ha abbandonato il capoluogo almeno a partire dagli anni ‘70, permotivi di ristrutturazione, di riconversione ma soprattutto didelocalizzazione. Nel decennio 1991-2001 essa perdeva il 37% dei suoi addetti eancora nell'ultimo decennio ne perdeva altri 20.000, riducendo la sua presenzaa 60.000 unità, pari a meno del 7% dell'occupazione extra-agricola totale.
Per contro l'hinterland non ha piùaccolto nell’ultimo ventennio l'occupazione manifatturiera in fuga dal centrourbano, come in parte era accaduto in precedenza, ed anzi ha perso di suo il16% dell'occupazione nel primo decennio e quasi il 30%, pari a -70.000 addetti,nell'ultimo decennio. Nel primo decennio, una iniziale terziarizzazionedell'hinterland era in grado di controbilanciare la perdita di posti di lavoroindustriali: l'aumento del terziario privato (+85.000 posti di lavoro) era similea quello manifestatosi nel polo milanese. Nell'ultimo decennio tuttavia questoprocesso si è ridotto fortemente, con un aumento assoluto pari a meno di dueterzi di quello milanese (e certamente di qualità molto inferiore), portandoconseguentemente a quella stasi dell'occupazione totale extra-agricoladell'hinterland che abbiamo sottolineato[6]. L'hinterlandmilanese sembra non trovare più una sua caratterizzazione economico-produttivaall'interno dell'area metropolitana, non essendo più nutrito in termini diservizi tecnologici e di occasioni di sviluppo manifatturiero da un polomilanese sempre più rivolto ai servizi finanziari, di comunicazione e dellamoda; e non essendo in grado di sviluppare in modo significativo un terziarioqualificato che non sia quello puramente commerciale[7].
La crescente caratterizzazioneresidenziale e commerciale dell’hinterland - comprensibile se pensiamo alminore costo delle abitazioni e alla qualità urbana e dei servizi spesso noninferiore a quella delle periferie del comune centrale - accentua la tendenza aun dualismo che spacca l'area metropolitana, generando crescenti movimentipendolari; indice, quello che è più grave, di una cesura in quella forte integrazioneproduttiva che aveva caratterizzato l’agglomerazione milanese in tutto ilperiodo del boom economico del dopoguerra. Ristabilire una sinergia fra unterziario qualificato prevalentemente (ma non esclusivamente) localizzato nelcentro e un hinterland produttivo, primo e naturale partner e cliente per iservizi di tale terziario, dovrebbe costituire l'obiettivo prioritario di unacittà metropolitana (e di una élite produttiva, culturale e politica milanese)consapevole dei limiti dei processi spontanei attuali e delle potenzialità chesembrano oggi andare sprecate.
I dati sugli addetti al settore dellecostruzioni forniscono un'indicazione ulteriore di grande interesseinterpretativo. Se nel passato recente e nel primo decennio qui considerato losviluppo dell'occupazione indicava una crescita dell'attività ediliziaesclusivamente nell'hinterland e una caduta nel centro urbano, in linea con letendenze demografiche, nell'ultimo decennio si assiste a un chiaroribaltamento. Si osserva infatti una sorta di boom edilizio nel centrometropolitano con una crescita degli addetti pari a oltre il 16%: circa ildoppio del tasso di crescita registrato nell'hinterland e cinque voltesuperiore al tasso di crescita medio nazionale. Un simile indicatore dicrescita quantitativa, una crescita peraltro ben visibile nella città,confligge tuttavia con le tendenze rilevate sul fronte demografico.
Per quale popolazione si è costruitorecentemente nel capoluogo? All'evidenza, non si è manifestata quella tendenzaal ritorno di residenti, superficialmente attesa da tanti sostenitori dellosviluppo edilizio quantitativo dei Piani di Governo del Territorio delleamministrazioni di centro-destra (ma anche dell'ultimo governo di sinistra,anche se in misura minore), né - fortunatamente! – l’irresponsabile obiettivodi riportare Milano agli "splendori" degli 1,7 milioni di abitanti, se non deidue milioni, sbandierati dall’assessore all’urbanistica della giunta Moratti. Siè costruito nel cuore metropolitano in gran parte per una domandainternazionale a carattere prevalentemente finanziario, che certamente fin quisi è manifestata ma le cui aspettative potrebbero facilmente cambiare nonappena ci si avvedesse dei limiti dell'offerta immobiliare milanese. Si trattadi limiti che riguardano la qualità, sia edilizia che urbanistica, e ilrapporto qualità/prezzo - come si dice nel settore, il value for money. La domanda internazionale non è sufficientecomunque per colmare un'offerta oggi largamente sovradimensionata.
Un vero rilancio delle prospettive disviluppo - economico, residenziale ed eventualmente edilizio - potrà avveniresoltanto se si recupererà una dimensione realmente metropolitana nel governodel territorio e una nuova complementarietà e integrazione produttiva fracapoluogo e hinterland, oggi tutta da reinventare.

(pubblicato su arcipelagomilano.org, anno VIII, n. 32)



[1] Una interessante ma recentissimaeccezione è costituita da: Centro Studi PIM (2016), Spazialità Metropolitane:economia, società e territorio, Argomenti&Contributi, n. 15, giugno.
[2] M. C. Gibelli (2016), “Milano:da metropoli fordista a Mecca del real estate”, Meridiana, n. 85, 61-80.
[3] L’errore commesso, facilitato daalcune leggerezze delle statistiche ufficiali e para-ufficiali, è quello diaver assunto per il capoluogo un dato demografico-anagrafico 2011 “forzato” alribasso per renderlo coerente col dato censuario (che presentava circa 100.000abitanti in meno rispetto ai dati anagrafici). Le due fonti, censuaria eanagrafica, sono diverse, perché diverse sono le metodologie; ma proprio perquesto un tasso di sviluppo deve essere calcolato su dati di fonte omogenea. Sottolineiamoil fatto non per pignoleria ma perché si tratta di un dato “politicamente”sensibile.
[4]Un +7% di popolazione (percirca 90.000 unità) può comunque essere raggiunto se si parte dal dato delminimo storico, registrato nel 2003 (e dunque su un intervallo di 12 anni e nondi tre). Ma esso è determinato principalmente dall’aumento dei residentistranieri, quasi tutti extra-comunitari provenienti da paesi poveri, che nelperiodo 2005-15 sono aumentati di 86.000 unità (Statistiche/stranieri/comuni-italiani).
[5] Poiché Istat nell'ultimocensimento 2011 ha cambiato definizioni e nomenclature dei settori, levariazioni assolute e percentuali intercensuarie sono effettuate su omologhedefinizioni settoriali; pertanto le variazioni assolute ricavabili dai dati nondevono essere sommate per ottenere i valori iniziali.
[6] A livello territoriale più fine,fanno positiva eccezione a questa tendenza solo il Nord Milano e il Sud Est(Pim, op. cit., mappa 12b p. 28); in tutte le altre sub-aree il saldooccupazionale è fortemente negativo.
[7] Nella pubblicazione PIM (p. 23) siindica come il settore commerciale si sia particolarmente sviluppatonell’ultimo decennio nelle aree del Magentino-Abbiatense, Alto milanese, Sudest e Adda Martesana.

«La dicotomia centro/periferia appare oggi subordinata alla scala sovracomunale, un quadro che amplia il tema in una più attuale e sistemica visione di rete policentrica.Una agenda al futuro mettendo a sistema strumenti esistenti», Arcipelagomilano online, 27 luglio 2016 (c.m.c.)

L’intervento di Michele Monte Periferie e rigenerazione urbana, nell’illustrare le priorità di programma della nuova giunta su degrado urbano – come criticità sociale ed economica oltre che insediativa – e rigenerazione, stimola ad approfondire le dotazioni disponibili per agire qui e ora, sollecitando considerazioni che, per quanto sparpagliate e poco sistematiche, mi auguro possano corroborare la discussione in senso operante.

Che il neosindaco Sala abbia fatto leva sull’opinione pubblica attraverso la categoria – piuttosto genericista e un tanticchio desueta, ma tanto retoricamente di sinistra – di ‘degrado periferie’ buon pro ha fatto in termini di risultato elettorale, anche se l’analisi del voto locale auspicata da Monte potrebbe dare chiavi di lettura affatto scontate e utili alla politica riformista in continua trasformazione.

Nel merito delle azioni e degli strumenti, Monte sintetizza i limiti – tra inerzia amministrativa settoriale e mancato corto circuito tra apparati di analisi e strumenti conoscitivi necessario a fornire dati utili a qualificare i fenomeni e conseguentemente orientarne lo sviluppo – e propone quattro mosse per la costruzione degli strumenti operanti: Analisi e raccolta dati; Feedback con la cittadinanza e suo coinvolgimento; Integrazione tra enti e operatori, tra pubblico e privato; Laboratorio permanente di elaborazione.

In sintesi cercherò di evidenziare come la dicotomia centro/periferia appare oggi subordinata alla scala sovracomunale, un quadro che amplia il tema in una più attuale e sistemica visione di rete policentrica, ovvero di città metropolitana, in cui i margini reciproci tra comuni contermini, se rimossi per un attimo i confini amministrativi, possono diventare risorsa.

Inoltre parlerei di azioni di rigenerazione nel senso di uso rinnovato, piuttosto che di degrado. Riferendomi a un approccio interculturale, in cui l’aspetto sociale, economico e insediativo sono tra loro inscindibili, che nel nostro mestiere significa sintesi di progetto. Ma che passa attraverso una strumentazione fatta di norme e orientamenti specifici dettati dal Piano, che forse a Milano è il momento più adatto per essere messo in discussione.

1. Città metropolitana. È a questa scala che Milano può dare gambe e futuro alle idee che il sindaco-manager già sta ‘vendendo’ al parterre internazionale. È alla scala di città metropolitana che si deve discutere di post Expo, di città della salute, di logistica infrastrutture e trasporti. È in questo quadro, ripeto, che ha senso creare le sinergie tra innovazione e inclusione, tra pubblico e privato. Così come per la questione degli Scali ferroviari, che da mera risorsa immobiliare da sdoganare sotto forma di convenzione di standard, si inquadrerebbe in un più adeguato disegno di strategia urbana intercomunale. Che significa, di ritorno, con una sensibilità progettuale maggiore a scala di vicinato, cioè tra Comune e Comune.

2. La Babele dei linguaggi. Da pochi mesi si è reso operativo uno strumento di lettura sintetica dei 135 PGTonline di Città Metropolitana (sistema dinamico presentato anche su queste pagine) grazie a un accordo trasversale tra Ordine degli Architetti, centro studi PIM e Ance Assimpredil – un buon esempio di integrazione operativa tra enti per altri versi distanti tra loro, così come tra pubblico privato auspicato da Monte. La mosaicatura delle diverse tavole tematiche che compongono i singoli Piani comunali, ben rappresenta io credo la Babele di linguaggi e obbiettivi nel confronto tra Comuni, che necessiterebbe di un grado 0 di unificazione anche solo del suo codice di rappresentazione: chissà se nella revisione in corso della Legge Regionale 12/2005 si riuscirà a tener presente?

O bisogna dar ragione a chi vede nella debolezza della Legge Regionale 32/2015 istitutiva di Città metropolitana di Milano espressione dell’interesse autocentrico del capoluogo a discapito del sistema policentrico, “allo scopo di mantenere un controllo saldo ed esclusivo sulle proprie competenze” (Si veda M.C. Gibelli in Eddyburg 20.05.2016).

3.PGT. All’interno del Piano di Governo del Territorio di Milano nel 2012 veniva introdotta una mappa che identificava 88 zone omogenee denominate Nuclei di Identità Locale (Nil). Ad essa era accompagnata una analisi piuttosto capillare a supporto del Piano dei servizi, con tanto di matrici esplicative, che tuttavia in questi anni non hanno avuto occasione di uso e aggiornamento. Senza necessariamente partire da zero forse potrebbero essere una base di partenza per quanto Monte propone riguardo ad analisi e raccolta dati, capillari e trasversali, attivando le necessarie deleghe ai Municipi per il loro aggiornamento. A scala metropolitana questo tipo di analisi è cruciale per mettere in relazione efficace le diverse dimensioni di Milano e dei Comuni contermini. 
E forse più in generale è il momento di pensare, dopo la soluzione ‘rimediale’ della giunta Pisapia di emendamento al Piano Masseroli/Moratti, di affrontare in modo sistematico una nuova stesura del PGT, anche sulla base di quanto in questi quattro anni testato.

4. Laboratorio permanente. È cruciale creare sinergia tra diverse iniziative da tempo in rete, come per esempio Innovare per includere, recentemente presentato a Base dall’assessore Cristina Tajani con gli altri suoi colleghi di giunta, attraverso la creazione di un tavolo metropolitano permanente di lavoro, e magari come l’assessore Pierfrancesco Maran ha recentemente affermato in occasione dell’incontro organizzato da Emilio Battisti dedicato proprio agli Scali Ferroviari, facendo capo all’Urban Center come luogo dell’incontro cittadino. Una azione di partecipazione non improvvisata ma sotto forma di laboratorio con obbiettivi e competenze condivise. Una reale iniziativa dal basso che agisce con l’amministrazione per rendere quanto prima operante l’azione di rigenerazione, e non solo a carattere territoriale.

« Nell’ultimo decennio si è diradata la cortina fumogena e sono tornati evidenti iniquità, privilegi, ingiustizie. Ma il giovane proletariato è disgregato e inconsapevole».Il manifesto, 29 maggio 2016 (c.m.c.)

Il cielo sopra Milano è azzurro questa mattina, terso come poche volte capita in pianura. Cammino per il quartiere Isola mentre lo sberluccicante grattacielo dell’Unicredit mi ricorda senza possibilità di dubbio quanto sia cambiata la mia città in questi anni. Milano è diventata più bella. La contemporaneità si è fatta materia, si respira un’atmosfera internazionale, i vuoti sono stati riempiti, ciò che era infranto è stato sostituito, hanno perfino piantato qualche albero, a magra consolazione di un’aria sempre irrespirabile. Apprezzo questi cambiamenti ma non sono un ingenuo.

Continuo a camminare lungo la strada che porta verso il centro del quartiere, i faccioni sorridenti dei candidati alle elezioni stonano con tutta questa innovazione, sono inopportuni, un retaggio quasi offensivo. Fra poco ci saranno le elezioni. I cinque anni di Giuliano Pisapia hanno fatto bene alla città, il sindaco ha governato con praticità e buon senso; certo poteva fare meglio, ci sono stati diversi contrasti interni, alcuni assessori sono stati poco coraggiosi, altri hanno avallato con le loro scelte il mancato ricambio generazionale ma la sua giunta è stata la prima che ho sentito un poco appartenermi.

Sono cresciuto negli anni Ottanta e Novanta, a Milano il berlusconismo – come il craxismo prima di lui – è stata una cosa seria, ha permeato fino in fondo la struttura sociale e culturale della città, l’ha plasmata a sua immagine e somiglianza: garrula, ottimista e tragicamente incompetente. Noi i fascisti non li abbiamo mai avuti, nelle nostre periferie non c’è mai stata una militanza di destra identitaria, la nostra destra aveva un volto persino peggiore: era fluida, senza appartenenze, ignorante, qualunquista, legata a doppio filo a quella idea illusoria di benessere alla portata di tutti che fu alla base della stagione politica berlusconiana.

E poi c’erano i leghisti ma in città non hanno mai contato nulla, bisogna andare nella Lombardia profonda per tastare con mano la loro influenza, per vedere quelle facce rubizze senza vergogna, orgogliose di non rappresentare niente se non il ben noto provincialismo reazionario. Poi ci sono i ciellini, e sebbene la loro presenza sul territorio sia impalpabile, l’innata prepotenza si sente fin troppo bene nei consigli di amministrazione degli ospedali e delle partecipate statali.

Sono stati fatti molti errori e credo che se ne faranno altri. La politica nazionale del partito democratico ha fatto sentire la sua influenza ed è mancata la forza di opporsi a una strategia di normalizzazione che ponesse fine all’esperimento Milano. Il risultato è che si fronteggiano due candidati molto simili: pallidi, intercambiabili, nel senso che entrambi potrebbero benissimo stare dall’altra parte, comunque deludenti, espressione di una borghesia in chiara crisi identitaria, costretta a campare di rendite e patrimoni novecenteschi.

Chiunque vinca noi abbiamo già perso, ed è evidente passeggiando in queste strade. Sono in piazza Minniti, alla mia sinistra comincia via della Pergola. Al posto della celebre casa occupata hanno costruito delle villette con i terrazzini stile finta vecchia Milano. Più avanti c’era Garigliano, lì francamente non so nemmeno cosa abbiano fatto, forse degli uffici. Come al vecchio Leoncavallo, a pochi chilometri da qua, del quale non rimane nemmeno una traccia estetica della sua esistenza. Ma non voglio essere nostalgico, non rimpiango la mia giovinezza e tantomeno la militanza perduta, non voglio ripetere gli errori della generazione precedente, i vecchi non sono mai meglio dei giovani, sono solo più stanchi.

L’avventura politica dei centri sociali è finita da più di quindici anni, quelle che dovevano essere le nuove parole d’ordine sono state copia incollate da formule ripetute a memoria, a loro volta già eredità faticosa e castrante. E non sarà l’ennesimo partitino all’1,5 % a colmare questo vuoto, impegnati come sono a difendere rendite di posizione personali.

Sono quarant’anni che in Italia manca un’elaborazione politica originale, perlomeno una traccia di avanguardia culturale che guardi al futuro eliminando anche solo per un momento la distinzione fra realtà e sogno. E noi abbiamo bisogno di sogni almeno quanto abbiamo bisogno di conflitto. Basta guardarsi intorno per capire quanto a Milano il conflitto sia stato espulso da ogni ambito sociale, da ogni ambiente di lavoro, da ogni confronto intellettuale. Eppure ci sarebbe spazio per nuove forme di lotta.

Nell’ultimo decennio si è diradata la cortina fumogena e sono tornate a essere molto evidenti le differenze sociali, le iniquità economiche, i privilegi spudorati, i torti e l’ingiustizia che stanno alla base di ogni esigenza di rivolta. Ma chi subisce è troppo abituato a farlo. Il nuovo giovane proletariato urbano è tramortito, disgregato e inconsapevole, basta lasciargli l’accesso a un livello minimo di consumo per disinnescare alla base ogni forma di ribellione.

E dall’altra parte – che per quanto mi riguarda è sempre la parte del nemico – in alcune frange residuali della media borghesia intellettuale, persiste una sorta di postura ideologica, innocua e spesso caricaturale, molto attenta a ciò che erano un tempo le battaglie del partito radicale – ovvero le questioni di genere, i diritti civili, un vago ambientalismo – ma fatalmente distratta su ogni questioni riguardante la contrapposizione di classe.

Questa contraddizione, che è tutta politica e non c’entra nulla con il costume, ha rappresentato il vero equivoco della sinistra italiana del secondo dopoguerra. Guardando per l’ennesima volta il disperare di questa gente, come faccio ad appassionarmi alla prossima tornata elettorale?

Ci vediamo fra vent’anni, quando non avremo la pensione. Allora si che tornerà il conflitto. Ma sarà devastante.

Dopo le elezioni, la prima manovra dei sindaci, costruite le giunte personali e verificata la sicura debolezza dei Consigli causata vent’anni ... (continua la lettura)

Dopo le elezioni, la prima manovra dei sindaci, costruite le giunte personali e verificata la sicura debolezza dei Consigli causata vent’anni fa dalla riforma dei poteri (enormi quelli per sindaco e giunta) voluta da sinistra e da destra, consisterà nell’appropriarsi dell’urbanistica. Non una ennesima discussione, magari approdo a un acronimo nuovissimo ma ugualmente insensato come tanti altri nati e presto morti, ma un concreto daffare personale nel campo della rendita fondiaria dominante e del continuo roteare del ciclo (e riciclo…) edilizio. Sarebbe la logica conseguenza delle dichiarazioni programmatiche pre-elettorali. Al primo punto, il cambiamento del Piano di governo del territorio (Pgt), in ogni caso: a) contrasto politico radicale fra nuova e precedente amministrazione, b) continuità integrale o sostanziale, compresa la conferma del primo cittadino, c) continuità politica vaga e cambio del sindaco, d) difficile definizione dello stato dell’arte comunale se, prima, le differenze fra gli aspiranti teoricamente antagonisti paressero ambigue o addirittura mancassero. I casi c) e d) si fondono se riguardiamo l’odierna vicenda milanese[i].

Queste ipotesi valgono per tutti i contesti locali, municipi grandi, medi e piccoli. Nei comuni maggiori, messe da parte le nuove conformazioni territoriali e burocratizzazioni gestionali tipo città metropolitana, è pur sempre la città esistente negli storici confini comunali il luogo dell’accumulazione capitalistica benché non più attraverso la produzione industriale[ii]. Comunque non è da Roma ma è da Milano, ritenuta dal premier nazionale futura punta di diamante degli assetti politici contrassegnati da centrismo tendente a destrismo neoliberista, che proverrà l’indirizzo per il ribaltamento di democrazia versus massima personalizzazione del potere e decisionismo extra-costituzionale.

Vedremo i risultati del referendum sulle modifiche della Costituzione e di altri in fase di raccolta delle firme.

Dunque, Milano. Il candidato sindaco Giuseppe Sala, che ha rimpiazzato il rinunciatario Giuliano Pisapia in una tormentosa guida di un presunto centrosinistra privo di un’ala sinistra, si prenderà l’urbanistica, per quale scopo? In primo luogo un’attenuazione di supposti indirizzi «troppo» riformatori del Piano di governo del territorio, mentre noi osservatori ormai distaccati dalle iniziali speranze riposte nella nuova amministrazione del 2011 sappiamo che niente di progressista esso contiene. Se il nostro guardasse al modesto abbassamento dell’indice medio di edificazione, dovrebbe accorgersi che svolgere il compito di mediatore nel ristretto spazio fra due numerini, Pgt ante e post centrosinistra «arancione» (il colore dell’entusiasmo per la vittoria di Pisapia), sarebbe avvilente.

La pianificazione effettiva della giunta a guida Ada Lucia De Cesaris per l’urbanistica e l’edilizia si è differenziata poco da quella ventennale di un centrodestra che fece meritare alla gestione dell’urbanistica e dell’edificazione privata il marchio di «rito ambrosiano» (Vezio De Lucia), una speciale condizione di smaccato favore agli speculatori e agli impresari edili. Ora come allora, in forma meno volgare e direi violenta, il Comune è stato (è) come uno spettatore dell’attività degli imprenditori d’affari urbani, degli impresari edili, delle grandi aziende (non più industriali, ma finanziarie, bancarie, editoriali, comunicazionali); si mette in coda al movimentismo degli attori investitori e accetta, magari agendo con la finzione di un dialogo vacuo, la proposta del prodotto completo. Vuoti urbani da riempire, demolizioni e ricostruzioni, false ristrutturazioni moltiplicatrici, aree enormi messe a disposizione del disegno privato: la realizzazione di vaste cubature totalmente svincolate da ragionevoli indici di edificazione fondiari e territoriali rappresenta l’urbanistica senza piano, la costruzione della città senza scelta pubblica, il quando, il dove, il come lasciati alle intemperie di un mercato illogico per i riguardi sociali dei cittadini e anche per i loro interessi economici.

Allora, di che Pgt parliamo? Chi, dei candidati a sindaco, ricorda che i piani regolatori, se si vuol controllare la conservazione e il divenire della città, devono impegnare il Comune in piani particolareggiati («di esecuzione», dice la legge urbanistica del 1942[iii]) man mano dimostrati come necessari?

Ugualmente, il concorrente Stefano Parise capintesta del centrodestra (non «presunto», attributo da noi assegnato al centrosinistra giacché i due personaggi, con la loro biografia da manager liberisti, ci sembrano assai somiglianti) da sindaco si muoverebbe contro il Pgt attuale promuovendo il ritorno a quello dell’amministrazione guidata da Letizia Brichetto Moratti. Lui si immagina di rivoluzionare in senso liberista un sistema urbanistico-edilizio che non avrebbe bisogno di aggiunte alla condizione sopra descritta. Dal punto di vista dei vecchi architetti di sinistra attori di urbanistiche sociali degli anni Cinquanta e Sessanta, l’uno vale l’altro, se così si può dire.

Il ritorno all’intellighenzia morattiana e, addirittura, albertiniana (Gabriele Albertini, sindaco predecessore di Letizia Moratti è ora capolista per Parise), il legame con Claudio De Albertis, presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance), presidente della Triennale, immobiliarista di grido attraverso l’azienda di famiglia Borio Mangiarotti significano qualche punto in più di pericolo, limitato a una sgradevole vanteria di essere i migliori. Ne è figura simbolica proprio Albertini, sindaco il cui compito, ripeteva spesso, non sarebbe diverso da quello di un amministratore di condominio. Intanto concertava con le grandi aziende e i potenti costruttori rivolgimenti urbani come il pezzo di città nuova sui terreni della Pirelli o l’intervento sull’area dell’ex Fiera noto per i tre grattacieli (il terzo non ancora eretto) firmati da Libeskind, Hadid e Isozaky: «in un enorme processo di riqualificazione ci siamo avvalsi del lavoro dei migliori architetti del mondo, i Brunelleschi e i Bernini dei nostri giorni», anche per questo sarebbe [giustamente] elevato il costo delle abitazioni[iv].

Conclusione elettorale. Al ballottaggio fra i due maggiorenti non saremo costretti comunque a scegliere. Per ragioni storiche di appartenenza, per ragioni culturali, per non spegnere per sempre la fiammella di una piccola sinistra sincera: che si presenta coraggiosa al primo turno e che rappresenterà nel Consiglio comunale la parte di cittadini attenti al retaggio del valori sociali di un’altra Milano, non ancora arresa al Moloch degli affari e al suo fratello Moloch della bruttezza[v].

[i] Cfr. L. Meneghetti, La contesa degli identici a Milano, madre della compravendita, in eddyburg, 20.04.2016.
[ii] Ibidem.
[iii] L’art. 13 stabilisce che devono essere indicati, oltre a altri dati planimetrici e altimetrici, le masse e le altezze delle costruzioni lungo le strade e le piazze. Non è difficile, senza forzare l’interpretazione, avvicinare questa norma all’opportunità di disegnare precise plani-volumetrie sulle aree in causa. Quando si dette, nel nostro paese, la rara possibilità di progettare in questo senso i quartieri dei Piani di edilizia economica e popolare (Peep) secondo la legge 167/1962, i migliori piani illustrarono soluzioni chiaramente preludenti a specifiche tipologie abitative. Ved. “
Urbanistica”, n. 41, agosto 1964.
[iv] Gabriele Albertini, in «
Corriere della Sera - Milano», 20 aprile 2006 (Redazionale).
[v] Rileggiamo la pagina 67 di: James Hillman, Politica della bellezza, a cura di F. Donfrancesco, Moretti&Vitali, Bergamo 1999.

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