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Cari amici e compagni, per la prima volta in anni, all’elettorato milanese che si è stancato della conduzione di destra della città, particolarmente nella versione morattiana, viene offerta la straordinaria possibilità di scegliere liberamente un candidato alla carica di sindaco tra tre nomi eccellenti; prodotto di procedure e di proposta chiare e trasparenti: Stefano Boeri, Giuliano Pisapia e Valerio Onida. Se fosse possibile scegliere razionalmente tra questi candidati non solo in base alle simpatie personali, ma anche in base alla valutazione della sua capacità di vincere la competizione elettorale con la destra, non vi sarebbe alcun problema, ma è proprio la qualità dei tre candidati a rendere necessario il ricorso al più efficiente dei metodi irrazionali di scelta: il principio democratico del voto, consolidato da millenni di pratica.

Nel nostro sistema questo tipo di voto si chiama “primarie”: è un metodo importato dalla pratica americana e ha dato, in quel paese, complessivamente buona prova nel corso del tempo. In Italia è stato adottato dai partiti di sinistra che hanno così dato un contributo importante alle buone pratiche politiche (poche ahinoi!) del nostro paese, anche se poi si è fatta molta retorica e anche qualche cattiva applicazione. Questa volta, invece, l’elettorato milanese si trova di fronte a una reale competizione aperta e a vere primarie: è una reale novità che deve interessare non solo il popolo della sinistra, ma tutto l’elettorato milanese. Queste primarie assumono un’importanza strategica che va al di là del pure rilevante scopo di parte: se funzionano diventano uno strumento che può contribuire a ridurre l’inquietante crepaccio che si è aperto tra gli apparati dei partiti politici (nessuno escluso, nonostante la retorica delle “gente”) e la cittadinanza.

Ma che significa “funzionare”? Intanto un primo risultato è stato raggiunto, nelle ultime elezioni i partiti della sinistra hanno presentato, dopo logoranti negoziazioni interne, candidati dell’ultimo momento, spesso non molto entusiasmanti, a volte imbarazzanti, sempre perdenti. Il nuovo metodo garantirà dunque che si sceglierà un candidato vincente? Si spera, ma ovviamente non è certo: siamo alla famosa prova del pudding di cui sapremo la bontà solo dopo averlo mangiato. Credo che tutti (e non solo gli elettori di sinistra, ma tutti i cittadini interessati a ridurre il peso degli apparati politici), dovrebbero essere contenti di un risultato felice, ma forse è chiedere troppo. Non è chiedere troppo, però, esigere che gli apparati di partito locali, soprattutto dopo tante cattive prove, si astengano dal manipolare le primarie.

Beninteso ciò non vuol dire che il PD o altri partiti non debbano sostenere il candidato che ritengono migliore, ma sarebbe bene che si trattenessero dal targare troppo evidentemente un candidato alle primarie, sarebbe un grave errore di quelli che purtroppo le dirigenze di partito della sinistra negli ultimi anni hanno dimostrato di saper compiere a ripetizione, ma che oggi, in una situazione in cui si aprono delle reali possibilità di porre fine a un regime ideologico, da cattiva abitudine si trasformerebbe in peccato mortale. Purtroppo non si tratta di un timore astratto: il tentativo si è già mostrato nel più miserabile dei modi quando nelle esequie, c’è chi ha tentato di trasformare la morte tragica del povero Riccardo Sarfatti, in un lasciapassare per una linea politica che pochi giorni prima il Sarfatti vivo non era riuscito a imporre.

E’ il segno triste che la cosiddetta logica politica, nelle menti di qualcuno, ha raggiunto livelli inauditi di miserabilità intellettuale, umana e genuinamente politica, perché l’opportunismo paranoico di parte che domina nelle transazioni partitiche oggi è rifiutato da gran parte dell’elettorato che, non potendo incidere su queste perverse abitudini, rifiuta in blocco l’area della democrazia politica. Attenti quindi. Oggi, con questi tre ottimi candidati, la sinistra pr una volta può vincere, purché vinca la tentazione di dividersi come sempre, al ribasso.

Ci sono modi e modi per fare le primarie: si possono fare delle primarie esclusive per dividere l’elettorato di sinistra da parte di ogni tifoseria, concentrando l’azione sul demolire gli altri concorrenti. Sarebbe un disastro perché poi il perdente o i perdenti resterebbero a casa o voterebbero altrove. Ma si possono anche fare primarie inclusive incentrate sul fare emergere in positivo le doti di ciascun candidato; alla fine ogni candidato ne uscirebbe comunque con un’immagine rafforzata e il vincitore sarebbe comunque invogliato a recuperare gli altri nella squadra, una squadra che avrebbe intanto ricevuto un insieme di giudizi positivi. Si può fare, non è impossibile, purché tutti ci impegniamo a non cadere nel gioco puerile dell’ammazzalamico e nello sparo nei garretti (propri) che ha dominato la politica del PD negli ultimi anni.

Cerchiamo di crescere fuori da queste puerili regressioni e di aiutare i nostri amici politicos a non ricadere nell’usuale curva sud parlamento mediatico. Sono moderatamente ottimista perché la mobilitazione anticipata dell’elettorato che questa volta c’è stata ha evitato che gli apparati tirassero fuori il solito coniglio all’ultimo momento. Su può fare, si può davvero fare se gli apparati non manipoleranno le primarie e si impegneranno a seguirne il risultato. E’ una preghiera fatta da un singolo individuo, ma chi ha orecchie per sentire l’opinione dei tanti che la sordità degli apparati relega al mutismo, non ci mette molto a capire che si tratta di una seria intimazione condivisa da molti: giù le mani dalle primarie.

Comprare e vendere case non è solo comprare e vendere metri quadri e le loro qualità prestazionali. Si comprano e vendono possibilità di relazione. Relazioni a distanza (trasporti, ma anche banda larga ecc.); relazioni di prossimità (disponibilità di servizi, qualità degli spazi pubblici, sicurezza). L’incidenza delle potenzialità relazionali sul valore degli immobili varia dunque in relazione alla posizione (le cosiddette “economie esterne”). È qui che si forma la rendita immobiliare urbana. La quale è in buona parte il frutto di un investimento pubblico e di un lavoro collettivo. Per questo le società politicamente evolute hanno cura che la quota di rendita che è frutto dell’investimento pubblico ritorni alla Pubblica Amministrazione. Non è solo una questione di giustizia sociale: solo così la Pubblica Amministrazione è in grado di operare la manutenzione e l’ammodernamento delle reti, dei servizi e dello spazio pubblico, senza cui una città e un territorio decadono.

E in Italia? Si dirà: ci sono gli standard e gli oneri di urbanizzazione. Vero; ma si è fatto di tutto per rendere i primi inadeguati e per trasformare i secondi in fonte per garantire il funzionamento corrente delle amministrazioni locali. Così le nostre città non sono messe in grado di competere sul terreno dell’efficienza e della qualità della vita.

Il Pgt di Milano punta tutto sulla possibilità dell’investimento immobiliare. Ma è come se sull’albero di Natale si appendessero balocchi di un peso spropositato. Se mai uno di questi balocchi si appenderà, il ramo è destinato a spezzarsi. L’interesse pubblico è fare città, quello privato è vendere metri quadri. Se non si trova l’armonizzazione fra obiettivi tanto distanti, il fallimento è assicurato. E a pagare il prezzo saranno le future generazioni.

Sono passati 911 giorni da quando Milano ha vinto la gara internazionale per l’Expo 2015 (era il 31 maggio 2008). Ora mancano solo 19 giorni all’esame del Bie (il Bureau international des expositions) di Parigi, che deve ufficializzare la candidatura. Ma Milano non ha ancora risolto neppure il primo problema: dove farlo, l’Expo. Ha bruciato un paio di manager che avrebbero dovuto realizzare l’evento (prima Paolo Glisenti, poi Lucio Stanca), ha perso tempo in interminabili litigi tra partiti, gruppi e cricche, ha sfrondato i bilanci perché i soldi sperati all’inizio, ora non ci sono. E adesso? Tutto rischia di saltare perché non è stato trovato un accordo su come acquisire i terreni a nord di Milano previsti per l’Expo.

Lo stallo nelle decisioni

Perché è così difficile? Che cosa impedisce di trovare una soluzione? Giuseppe Sala, il manager che ha assunto la guida di Expo spa, sa che non dipende da lui. La decisione sulle aree è nelle mani di tre persone: Roberto Formigoni, Letizia Moratti, Guido Podestà, cioè i politici al vertice di Regione, Comune e Provincia di Milano. Sono loro che non hanno ancora trovato un accordo. Perché? Per spiegare l’attuale rebus delle aree, bisogna capire una sproporzione, una differenza, uno scarto: tra le iniziali aspettative di guadagno per gli operatori (altissime) e ciò che è rimasto invece oggi sul tappeto (molto meno). Nel 2007, quando l’Expo è stato pensato, politici e operatori economici speravano di partecipare a uno dei ricorrenti banchetti italiani, grandi eventi o terremoti, in cui una cascata di soldi pubblici arriva ad accontentare amici e amici degli amici. Nella convenzione iniziale, sottoscritta nel giugno 2007 dal Comune di Milano e dai due proprietari dell’area prescelta (Fiera e gruppo Cabassi), si prevedeva di cedere i terreni in concessione all’Expo per vederseli restituiti nel 2017 con i diritti a costruire un milione e mezzo di metri cubi di uffici, residenza, spazi commerciali. Come l’intero quartiere di Milano-Bicocca. E in un’area già ben infrastrutturata, con strade, mezzi pubblici, metropolitana, parcheggi, aree verdi... Un bingo.

La speculazione quasi mancata

Tre anni dopo, le cose sono cambiate. Invece dell’Expo “pesante”, molto costruito, è prevalso un progetto “leggero”, con poco cemento e grandi orti: un immenso giardino botanico in cui i paesi partecipanti potranno presentare le loro coltivazioni, con serre e terreni che riproducono le biodiversità, i climi del mondo e le loro tipicità alimentari. Secondo l’architetto Stefano Boeri, autore con altre archistar internazionali del concept plan del nuovo Expo e oggi candidato sindaco a Milano, i metri cubi di cemento sopravvissuti sono circa 350mila. Solo un quarto dell’ipotesi iniziale. Ecco allora da dove nasce la litigiosità che ha impedito finora a Regione, Comune e Provincia di mettersi d’accordo.

Prima c’era da mangiare per tutti,e comunque si litigava per avere i posti migliori a tavola. Ora in tavola è rimasto uno spuntino e i commensali fanno fatica a rinunciare a quanto era stato apparecchiato. I due commensali principali sono, appunto, i proprietari dei terreni. Cabassi, per una piccola parte. E la Fondazione Fiera di Milano. Che vuol dire, semplificando un po’ ma non troppo, Roberto Formigoni. Ecco perché Formigoni sta facendo da mesi il braccio di ferro contro tutti: deve recuperare il più possibile della tavola imbandita. Come? Diventando egli stesso immobiliarista, un inedito immobiliarista pubblico, che oggi compra le aree e dopo l’Expo le valorizzerà. Letizia Moratti e Podestà preferivano invece il comodato d’uso. Staremo a vedere chi vincerà. Con un problema: le aree oggi sono agricole, dunque hanno un valore basso; può un’istituzione pubblica come la Regione pagarle più del loro valore (l’ultima offerta era di 90 milioni di euro per il tratto di Cabassi), in nome di una speculazione immobiliare futura?

L’ipotesi Ortomercato

A questo punto Stefano Boeri spariglia: “Andiamo a fare l’Expo all’Ortomercato: un’area già pubblica. È la soluzione migliore”. Replica Giuliano Pisapia, altro candidato sindaco del centrosinistra: “No, è meglio impiantare l’esposizione universale del 2015 negli spazi già attrezzati della nuova Fiera”. A entrambi replica Giuseppe Sala, il gran manager di Expo spa: “Impossibile fermare per sei mesi le attività della Fiera. E impossibile spostare altrove per sei mesi tutte le attività dell’Ortomercato. L’area scelta resta quella. I politici decidano come acquisirla e ce lo dicano in fretta. C’è molto da lavorare, per recuperare il tempo perduto”.

Niente case Aler, né appartamenti confiscati alla mafia, alle famiglie rom dei campi regolari: gli alloggi li trovi il prefetto attraverso i privati. Sono bastati l´intervento del ministro Maroni e poco più di un´ora al tavolo convocato ieri in prefettura per smantellare uno dei punti cardine del piano nomadi, che ancora pochi giorni fa l´assessore alle Politiche sociali Mariolina Moioli assicurava non si sarebbe toccato.

Ora, a destra, tutti plaudono alla decisione, aggiungendo: avanti tutta con lo sgombero di Triboniano entro fine ottobre. Ma in realtà ci sono ancora punti in sospeso. Primo: la convenzione firmata da prefettura e Comune vincola la chiusura dell´insediamento alla sistemazione delle famiglie regolari. Vuol dire che chi ha titolo a stare nel campo potrebbe presentare, e vincere, un ricorso al Tar. Secondo: le associazioni del terzo settore - e con loro Curia e Caritas - non sono disposte ad accettare di stracciare i contratti già firmati per le case Aler.

«Ci si impegnerà per trovare una soluzione alternativa ma stiamo parlando di sistemare persone, serve cautela» ammonisce il prefetto Lombardi. A lui è arrivata la patata bollente della ricerca di nuove case, e chissà se seguirà il "consiglio" del vicesindaco De Corato: «C´è anche il patrimonio enorme della Curia, visto che ci invita spesso a essere solidali con i rom». Ma il vicesindaco è stato superato a destra dai suoi compagni di partito nella gara a chi chiedeva più forte di non dare le case Aler ai rom. Così ora il capogruppo Pdl in consiglio comunale, Giulio Gallera, può dirsi «estremamente soddisfatto: sarebbe stato un grave errore creare corsie privilegiate rispetto a chi è in graduatoria». E l´europarlamentare ex An Fidanza: «È una vittoria politica del Pdl e una vittoria del buon senso». Certo, il fatto che a "risolvere" tutto sia stato un ministro del Carroccio fa segnare punti - nella gara di esternazioni a cui la città ha assistito - agli alleati leghisti. Il presidente del consiglio regionale, Davide Boni, riconosce a Maroni «il merito di aver disinnescato ogni tipo di tensione tra i milanesi» e il capogruppo leghista in Comune Matteo Salvini aggiunge: «Se la Lega gestirà sicurezza e politiche sociali sarà una garanzia per tutti».

Un auspicio che rimanda a un altro nodo della vicenda, perché il vertice ha sconfessato la linea dell´assessore Moioli, che ieri si è limitata a dire: «Il progetto va avanti, è tutto a posto». Il voltafaccia del Comune, di certo, non piacerà al mondo cattolico, e la sintesi la fa Pasquale Salvatore dell´Udc: «Questa vicenda si trascinerà come quella della moschea di viale Jenner. È semplicistico dire che provvederà il gran cuore di Milano». La palla rimandata alle associazioni: su questo picchia duro l´opposizione, che sperava in altre soluzioni e che giudica quella di ieri - parole del capo della segreteria del Pd, Filippo Penati - «una sceneggiata di pessima qualità». Uno «scaricabarile inaccettabile che evidenzia l´incapacità della giunta di affrontare i problemi», per il candidato Pd alle primarie Stefano Boeri. «Il segno di una sconfortante sconfitta della politica», per un altro candidato, Valerio Onida. Roberto Cornelli, segretario del Pd metropolitano, ricorda la proposta di usare le case confiscate alle mafie e attacca: «Più di 300 sgomberi dal 2007, questo l´unico atto concreto sui rom della giunta Moratti, che dimostra ancora una volta di non saper gestire le difficoltà sociali, scaricandole sulle associazioni».

«Milano, maggio 2015, viene finalmente inaugurata l’Esposizione Universale più attesa della storia. L’enorme lavoro preparatorio, migliaia di cittadini che hanno portato idee e proposte in centinaia d’assemblee locali, ha dato i suoi frutti. L’Expo milanese sarà il primo a impatto zero: nessuna speculazione, nessuna nuova edificazione ma un grande lavoro di recupero, riutilizzo e valorizzazione del patrimonio urbano esistente; 200.000 visitatori attesi al giorno che si muoveranno solo con mezzi di trasporto pubblico a emissione zero. Per l’occasione Milano si è rifatta il look; il nuovo bosco urbano realizzato al posto del vecchio quartiere fieristico è il simbolo della prima città mondiale ad aver risolto i problemi energetici e della mobilità con un ricorso totale a energie rinnovabili, con una rete di linee pubbliche e percorsi ciclabili che non hanno paragone al mondo. I quartieri periferici sono stati trasformati in tante cittadelle dove cultura, socialità e vivibilità sono le nuove parole d’ordine. Il Parco Sud è diventato il principale fornitore di alimenti biologici alla città e costituisce il più vasto sistema di agricoltura periurbana d’Europa; una rete wireless gratuita fruibile da milioni di persone quotidianamente ha reso la metropoli più ricca dal punto di vista culturale, cognitivo, scientifico e tecnologico; il 40% del territorio comunale pedonalizzato. Questi sono solo alcuni dei fiori all’occhiello del Rinascimento ambrosiano. Insomma oggi Milano è una città dove chiunque vorrebbe vivere e il modello cui tutte le metropoli si ispirano per superare i problemi che stanno portando il pianeta al collasso….Purtroppo non sarà così…»

Sono passati tre anni da quando scrivemmo questa visione onirica di un Expo impossibile, introduzione del dossier contro la candidatura di Milano per Expo 2015. Da allora è successo di tutto, sono cambiate tante cose, non i motivi e le ragioni che ci portano oggi, settembre 2010, a continuare a lottare contro Expo e le logiche che stanno dietro il grande evento.

Il modello economico-sociale, sino al 2007, anno di esplosione della crisi che stiamo conoscendo, si è fondato sulla finanziarizzazione di ogni spetto della vita sociale, con intreccio fondamentale tra ciclo immobiliare e mercati finanziari, con la cartolarizzazione dei crediti concessi per l'acquisto della casa, con tutti i dispositivi finanziari di cui si è parlato. Parlando ad esempio della Spagna, tanto celebrata per le sue varie 'Esposizioni' assistiamo al crollo del ciclo finanziario immobiliare che ha travolto l'economia ed ha portato a una disoccupazione superiore al 20 per cento. Lo sfruttamento estremo delle risorse territoriali e la privatizzazione totale delle sue risorse sono componenti ineliminabili delle logiche di valorizzazione, analogamente accade per la privatizzazione ed esternalizzazione di quelli che un tempo erano definiti servizi pubblici, sia che si tratti di reti infrastrutturali che di reti di servizi alle persone. Inoltre il modello, da noi noto come “modello lombardo”, esalta la precarizzazione di ogni rapporto di lavoro. Questo modello di gestione del territorio è infine privo di qualsiasi dimensione strategica; crea e deve comunque ricostruire costantemente le basi del consenso alla propria gestione del potere e del territorio, in questo la mobilitazione mediatica attorno ai grandi eventi e l'altra faccia rispetto alla mobilitazione mediatica dei sentimenti di paura e razzismo.

In questo quadro “pre-crisi” Expo 2015 serviva per ristrutturare, ridefinire e ricomporre centri di potere economico, politico e finanziario, a perpetuare modello e profitti; oggi serve per drenare le poche risorse pubbliche rimaste e beni comuni da privatizzare, scaricando, secondo logiche da shock economy, sui territori e la collettività, i costi della crisi e della speculazione finanziaria e immobiliare. Nonostante tre anni di tagli, privatizzazioni, promesse future e deroghe legislative l’operazione non decolla, anzi il pesce Expo puzza sempre più di marcio, non solo per i sempre più evidenti appetiti delle organizzazioni criminali sugli appalti di Expo.

Expo è diventato un ospite ingombrante per gli stessi che avevano cavalcato a fini propagandistici ed elettorali, l’assegnazione della rassegna a Milano e all’Italia. Malgrado le sparate roboanti dei vari sponsor politici di Expo e le rassicurazioni tremontiane, appare evidente che soldi non ce ne sono, idee men che meno, e che l’unica certezza è che per fare Expo si devono regalare soldi, sottoforma di diritti edificatori, ai proprietari delle aree, per realizzare una rassegna che anche i meno scettici vedono già fallimentare sotto tutti i punti di vista. Non a caso i balletti e le lotte intestine al blocco politico-economico maggioritario nel paese sul controllo di Expo: o Expo resta un business finanziario e garantito con denaro pubblico o crolla tutta l’impalcatura e nessuno vuole rimanere con il cerino acceso in mano, a meno di non trovare nuovi equilibri e nuovi garanti, anche in materia di controllo sociale e dei “malumori” di piazze e territori.

La lettura a posteriori delle cronache dell’estate milanese conferma quest’analisi, anche in virtù di alcuni fatti, di portata nazionale, che ben si addicono a essere applicati alla vicenda Expo.

Innanzi tutto la vicenda Expo Spa. Dietro l’uscita di Stanca e la sua sostituzione con Sala nel ruolo di amministratore delegato, uomo vicino alla Compagnia delle Opere, è ben visibile la volontà del sistema di potere formigoniano, fino a questo punto abbastanza defilato, a prendere pieno controllo dell’operazione Expo, non accontentandosi più di gestire la parte infrastrutture e solo indirettamente, tramite Fiera, le vicende legate al sito Expo. Quest’accelerazione a riaffermare il proprio ruolo da parte di Formigoni è quasi contemporanea all’intreccio di inchieste e arresti che colpiscono esponenti di spicco della Regione Lombardia, uomini della Cdo, imprenditori, cosche, scoperchiando un marciume che va dalla movimentazione terra, allo smaltimento rifiuti, alle bonifiche con evidenti riscontri dell’interesse di ‘ndrangheta e mafia per partecipare al business di Expo. Le inchieste coinvolgono anche l’area di Santa Giulia, uno dei progetti fiore all’occhiello con cui la Moratti aveva presentato al B.I.E. la Milano del 2015.

Queste inchieste non fanno che confermare un quadro già evidente tre anni fa: Expo è una grande opportunità per ‘ndrangheta e mafia, lo strumento ideale per lavare soldi sporchi e arricchirsi di profitti puliti. In questi anni diverse inchieste della Magistratura hanno evidenziato il problema, solo Moratti, De Corato, Formigoni e il Prefetto sembrano non vederlo, preferendo distogliere l’attenzione dei milanesi, individuando di volta in volta pericolosi soggetti, cui rivolgere accuse e deliri securitari (rom, centri sociali, quartieri meticci, occupanti di case per necessità). Come se non bastasse, alla piovra criminale si somma la piovra politica, spesso affine alla prima come le indagini sembrano evidenziare, e in particolare il sistema di potere e clientelare che Formigoni e gli uomini della Compagnia delle Opere hanno in tutta la regione.

Oggi tutta l’operazione Expo si può dire sia gestita da uomini Cdo: da Sala, A.D. di Expo Spa, a Fiera, proprietaria delle aree, al tavolo Lombardia controllato da Formigoni, che si occupa di tutte le opere infrastrutturali, ai comuni più interessati all’evento (il sindaco a Rho, Masseroli l’uomo del PGT di Milano, i comuni della Brianza interessati da Pedemontana e altri progetti previsti in nome di Expo). La vicenda dell’acquisto delle aree, inoltre, rende ancora più chiaro che gli appetiti affaristici sono tanti e che s’intrecciano alle lotte intestine alla destra per le prossime elezioni amministrative. Lotte che sono già emerse sull’approvazione del Piano di Governo del Territorio di Milano.

Ed è proprio quest’ultimo strumento normativo a fornire le garanzie migliori per il business Expo. Infatti, il PGT, approvato a luglio e che dovrà passare in seconda votazione entro marzo 2011, sancendo la completa deregolamentazione urbanistica e il trionfo dei diritti volumetrici, permette di trasformare in diritti edificatori i soldi che non ci sono, per buona pace di Boeri e di quanti pensano ancora all’Expo-Gulliver gigante buono. Le volumetrie enormi previste dal PGT unite al trionfo della sussidiarietà nella gestione di quelli che erano i servizi pubblici (tema e business caro alla Cdo, ma anche alle Coop, come del resto il mattone) permetteranno ai privati che investono in Expo di trovare ben laute ricompense.

Saprà la città evitare tutto questo? E come? Questa è la scommessa dei prossimi mesi, salvo implosione su se stesso di Expo complice la borsa chiusa di Tremonti. La prossima campagna elettorale sicuramente si giocherà anche su chi la sparerà più grossa e darà più garanzie sul tema Expo. Già oggi assistiamo a un riposizionamento di tutta una serie di soggetti politici ed economici, trasversali agli schieramenti, sia in chiave nazionale che milanese. Strani feeling, candidature improvvise, riconoscimenti reciproci. In questo senso la candidatura di Boeri a sindaco, sostenuta dal PD, non è solo l’ennesima ambizione dell’archistar buono per tutte le stagioni (dal CERBA nel Parco Sud, a Ligresti, ai grattacieli di Garibaldi, al masterplan di Expo). Leggiamo in quest’operazione la volontà del pallido PD milanese e del sistema economico che vi ruota attorno, di volersi erigersi a garanti dell’operazione Expo e di quanto contenuto nel PGT, magari con un po’ di case in più per le Coop (già interessate al business Expo tramite la proprietà di Euromilano sull’area di Cascina Merlata). Soprattutto vediamo il centro sinistra ambire a un ruolo rispetto ai centri del potere economico-finanziario di alternativa credibile alla destra nel portare avanti grandi eventi e grandi opere, in un clima di maggior disciplinamento e controllo sociale e di accettazione di tagli e sacrifici. Come leggere se no le tante dichiarazioni estive di Penati e Boeri che reclamavano soldi e attenzioni per Expo? Siamo al ridicolo, con la proposta di nuove aree dove fare la rassegna (da Arese a Porto di Mare) e con Tremonti che si erge a paladino degli Expo-scettici, dopo aver devastato scuola, università e ricerca per trovare i soldi per le grandi opere. Così come fa sorridere l’ingenuità di chi scopre solo oggi i rischi speculativi legati a Expo e propina prima un inutile referendum dal sapore elettorale, imbarcando chi continua a ritenere l’evento una grande opportunità per la città, un referendum utile solo alla campagna elettorale di Boeri.

Un paese normale avrebbe già chiesto scusa al mondo e risparmiato soldi per altri impieghi ben più urgenti visto lo stato di crisi che vive l’Italia. Ma le iene del grande evento, banche e speculatori vari non si arrendono e confidano che nel sempre più confuso clima politico italiano, Expo vada avanti in nome dell’orgoglio patrio e dell’emergenza nazionale. Tutti amici, tutti fratelli, tutti sul carro con il sacco da riempire e guai a chi contesta. Sembra un fumetto e invece è il contesto in cui si annuncia l’ennesimo autunno di crisi e di lotte cui la politica non sa più rispondere se non con insofferenza bipartisan e ricette sociali ed economiche a senso unico. Chi critica i signori della crisi, i Marchionne, i finti sindacalisti o riformisti teorici del meno diritti e più precarietà, è considerato alla stregua di un pericoloso terrorista. Ai territori stufi di essere saccheggiati o inquinati si risponde con le manganellate, come con gli Aquilani a Roma, o a Chiaiano. Così come con i manganelli si risponde a chi lotta per difendere il posto di lavoro e la dignità dello stesso. E mentre accadeva questo, in un agosto silenziosamente bipartisan sono state rinnovate le deleghe alla Protezione Civile in materia di grandi eventi, Expo incluso, a chiarire che comunque non esiste altro Expo che non quello che hanno in mente lorsignori, costi quel che costi.

Solo un soggetto manca nella tragi-farsa: la popolazione della metro-regione Milano, coloro che pagheranno i costi diretti di Expo, così come sono assenti le tante vittime indirette, i “tagliati” nella scuola e nei servizi pubblici, i precarizzati. Sembra che Expo cali dall’alto e i soldi maturino nelle fantomatiche serre. Sappiamo bene che non è così, che la città sta già pagando i costi di Expo uniti e sommati a quelli della crisi. E sappiamo che le tasche degli italiani sono già troppo impoverite per poter arricchire una casta privilegiata ingorda e arrogante. Sappiamo anche che il prossimo voto milanese non risolverà la partita, se non si esce dalla logica “degli expo” o delle “olimpiadi” e non si pensa a un progetto di città, di convivenza sociale, di pubblico e bene comune, di nuovo welfare su scala metropolitana. Tutto questo manca nel dibattito, non solo milanese, perché non è funzionale alla metropoli onnivora cara al capitalismo globalizzato e che Milano ben rappresenta. Ma i bisogni e le emergenze restano e quindi la necessità che siano le persone, le popolazioni, i soggetti attivi sul territorio a ritornare protagonisti, condividendo saperi e percorsi reticolari di lotta e rivendicazione, a partire dalle emergenze più immediate: fermare il PGT di Milano (con ricadute positive a cascata sui PGT dei comuni metropolitani) e avviare un percorso virtuoso di ripensamento sulla città metropolitana, sul concetto di servizi pubblici e di mobilità, d’interesse pubblico e bene comune; uscire da Expo 2015 e costruire un movimento più ampio per l’abolizione della Legge Obiettivo (quella delle grandi opere e dei grandi eventi in deroga a tutte le norme e poteri speciali nelle mani di pochi); rilanciare la città con un patto sociale basato su un nuovo modello di welfare metropolitano, che garantisca continuità di reddito, servizi pubblici.

Comitato No Expo, settembre 2010;
info@noexpo.it

Corso Vittorio Emanuele potrebbe diventare la quarta via commerciale del mondo (occidentale). Con i suoi 50 mila visitatori al giorno - stima fatta al netto delle nuove aperture di marchi come Gap e Banana Republic dall’operatore immobiliare Beni Stabili - è stato calcolato che l’anno prossimo l’arteria dello shopping milanese sarà dietro solo alla Fifth Avenue di New York (150 mila passaggi medi al giorno), gli Champs-Élysées di Parigi (100 mila) e Oxford Street di Londra (90 mila).

Ad arricchire l’offerta commerciale del centro saranno tre nuovi centri commerciali che nei prossimi mesi saranno inaugurati nei palazzi che un tempo ospitavano i cinema Excelsior, Ambasciatori e Corallo. Spazi polifunzionali con vetrine di diverse marche, food shop e ristoranti aperti anche la sera. Il primo a inaugurare sarà il negozio Coin e Ovs Industry, l’ex Oviesse: sei mila metri quadrati che prenderanno il posto della multisala Excelsior-Mignon, chiusa nel 2008 per mancanza di spettatori. Un’operazione da 80 milioni di euro che, per l’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli, contribuirà «a rivitalizzare il quartiere, insieme all’arrivo di grandi marche che negli ultimi mesi hanno scelto Milano come nuova piazza commerciale».

Il centro dell’intrattenimento - solo qualche anno fa corso Vittorio Emanuele era la via del cinema - , si sta lentamente trasformato nella promenade dello shopping per eccellenza. Chiuse le sale, infatti, gli spazi sono stati tutti convertiti alla moda. Sia quella a prezzi stracciati come Zara, che ha preso il posto del cinema Astra di corso Vittorio Emanuele, sia quella dei grandi stilisti come Dolce e Gabbana che hanno trasformato il Metropol in viale Piave da cinema a passerella. Solo nel caso del Mediolanum di Largo Corsia dei Servi la sostituzione è stata di altro tipo: al posto delle poltroncine rosse infatti sono arrivate le panche della palestra Skorpion, che sta ancora terminando i lavori di riqualificazione.

La morfologia del centro dunque negli anni è radicalmente cambiata, diventando una zona di passaggio esclusivamente diurno, visto che alle sette di sera spegne le luci. «I cittadini sono liberi di andare al cinema dove vogliono - ribatte Masseroli - . E se scelgono le multisale della periferia dobbiamo prenderne atto e far sì che il centro si trasformi come chiede il mercato. Questa è la flessibilità di cui Milano ha bisogno. Non solo. La zona tornerà ad essere residenziale dal momento che gli uffici stanno via via spostando le loro sedi in altri punti della città. Sono certo che questo porterà con sé una maggior vivibilità anche serale».

Resta il fatto che delle 141 sale di proiezione cinematografica che si contavano nel 1970, oggi ne sono rimaste solo 17. E nonostante il nuovo modello di multisale il numero di schermi si è più che dimezzato passando da 254 a 103. In compenso, fa notare il Comune, i dieci cinema che negli ultimi anni hanno chiuso i battenti per mancanza di spettatori, sono stati trasformati (tre sono ora in ristrutturazione) in 93 mila metri quadrati di negozi, uno spazio pari alla superficie totale di Harrod’s a Londra. Ma distribuito nel centro città e (quasi) tutto dedicato alla moda. Come il Teatro Versace, quartier generale di Versace e dove Donatella organizza anche eventi musicali, o come lo Spazio Astoria, che sulle ceneri di un cinema porno oggi ospita le sfilate dell’alta moda. E ancora la "design gallery" Visionnaire di piazza Cavour, nata al posto del cinema Cavour.

postilla

Qualche volta fanno invidia, quelli che abitano esclusivamente il proprio mondo fantastico, fatto di grandi idee, e da questo traggono magari la forza per trasformarle in realtà. Come Masseroli, il quale pare si sia vantato di essere soprattutto un manager, e di non capire gran che di urbanistica. Però, detto fra noi, non pare ci voglia un luminare di settore per capire la differenza tra Fifth Avenue, Champs-Élysées, e Corso Vittorio Emanuele. Come direbbe Petrolini, “basta un paio di scarpe nuove”, ovvero farsi passin passetto prima il percorso dall’abside del Duomo a San Babila, e poi ritentare l’esperimento anche solo per qualche sezioncina contenuta di Midtown, o quando l’Arc del Triomphe continua ad essere una prospettiva irraggiungibile fra le cime degli alberi. Per capire che fare paragoni è strumentale, sciocco, fazioso. Per capire anche, guardando il panorama internazionale con occhi un po’ meno foderati di compiaciuto prosciutto, che il modello delle vie commerciali tutte identiche (perché “così vuole il mercato”) è buono solo per quei paesi sottosviluppati dove una classe dirigente locale cavernicola e arrogante ritiene chissà perché moderno e auspicabile sconvolgere la complessità urbana con artificiose iniezioni di luci al neon, che sarebbero forse suonate magnifiche un paio di generazioni fa, quando Petula Clark cantava “Downtown” (in Italia, forse in assenza di corrispettivi, la canzone si chiamava "Ciao Ciao"), ma oggi, come ci spiegano ad esempio molto bene le ricerche della New Economics Foundation, rischiano di seppellirci sotto una montagna di fuffa. Insomma di questa modernità da filmetto anni ’60 ne abbiamo abbastanza, anche chi non se ne è ancora accorto (f.b.)

DOWNTOWN

When you're alone and life is making you lonely

You can always go - downtown

When you've got worries, all the noise and the hurry

Seems to help, I know - downtown

Just listen to the music of the traffic in the city

Linger on the sidewalk where the neon signs are pretty

How can you lose?

The lights are much brighter there

You can forget all your troubles, forget all your cares

So go downtown, things'll be great when you're

Downtown - no finer place, for sure

Downtown - everything's waiting for you

Don't hang around and let your problems surround you

There are movie shows - downtown

Maybe you know some little places to go to

Where they never close - downtown

Just listen to the rhythm of a gentle bossa nova

You'll be dancing with him too before the night is over

Happy again

The lights are much brighter there

You can forget all your troubles, forget all your cares

So go downtown, where all the lights are bright

Downtown - waiting for you tonight

Downtown - you're gonna be all right now

And you may find somebody kind to help and understand you

Someone who is just like you and needs a gentle hand to

Guide them along

So maybe I'll see you there

We can forget all our troubles, forget all our cares

So go downtown, things'll be great when you're

Downtown - don't wait a minute for

Downtown - everything's waiting for you

Sul Piano di governo del territorio del Comune di Milano si diranno molte cose nelle prossime settimane: la fase delle «osservazioni» durerà infatti fino al 15 novembre e siamo tutti chiamati a esprimere dubbi, critiche e proposte di modifica al Pgt. Non sarà facile in due mesi orientarsi nelle quasi mille pagine del piano, ma una cosa è certa: lo strumento che vuol mandare in pensione i vecchi piani regolatori per portare in città nuovi principi di urbanistica dovrebbe essere conosciuto da tutti i milanesi che credono nella cittadinanza attiva come leva per migliorare i propri quartieri e la propria città.

Si cercherà di scavare nelle pieghe del piano anche per rispondere alla domanda «cui prodest»?. È giusto che sia così: in una democrazia matura esercitarsi a capire chi potrà trarre i maggiori vantaggi da uno strumento che fissa le regole di governo urbanistico della città— dove, come, quanto e per chi costruire abitazioni, uffici, spazi pubblici e servizi — è sempre fonte di trasparenza.

In questo esercizio di scavo bisogna prima di tutto procurarsi un buon badile, ovvero la pazienza e la voglia di acquisire conoscenze per interpretare il piano, a partire dal nuovo principio della «perequazione»: la possibilità per i proprietari di aree di trasferire diritti di sviluppo edificatorio tra diverse parti della città. In questo ci aiuteranno le molte organizzazioni indipendenti che promettono di battere i quartieri con assemblee e incontri.

Ma è utile anche scavare nei punti giusti del documento per evitare perdite di tempo.

Il cittadino che «osserva» il Pgt dal proprio quartiere potrebbe iniziare a scavare in due zone: 1) dove il piano chiede agli abitanti di un quartiere di collaborare ogni anno con il Comune alla definizione dei servizi di interesse pubblico che mancano e che andrebbero realizzati; 2) dove il piano indica le aree della città in cui si potrà costruire «di più», con indici maggiori, sostenendo il giusto principio che si può aumentare la densità abitativa solo in prossimità di grandi assi e snodi di trasporto pubblico. In entrambi i casi, per capire «cui prodest», è importante che il Comune espliciti definizioni emisure: quali dati, informazioni e indicatori di quartiere il Comune metterà a disposizione dei milanesi in modo che tutti possano avere una fotografia aggiornata e completa della quantità e della qualità dei servizi esistenti nel quartiere? Poiché i privati potranno realizzare «identificare e realizzare» i servizi di interesse pubblico in un quartiere, fin dove si spinge il piano nella definizione di «interesse pubblico»? In quali forme concrete verrà ascoltata la voce degli abitanti dei quartieri? Se gli abitanti di un quartiere da «densificare» sosterranno che, pur d'accordo con il principio generale, l'intervento immobiliare proposto procura più danni che benefici, avranno speranza di sedersi attorno a un tavolo di lavoro con istituzioni e operatori privati ed essere seriamente ascoltati? Io ho l'impressione che per il Pgt la sfida vera sia per il Comune: dimostrare di essere all'altezza dei suoi cittadini.

Il mago dei numeri Draghi: "Scegliamo chi ha davvero più chance di vincere poi le elezioni vere". L’autocandidatura dell´avvocato ha dato la scossa al Pd nella scelta dell´anti-Moratti. Il costituzionalista critica l´appoggio del partito a uno degli sfidanti: "Così si snatura tutto"

MILANO - «Il vero problema è guardarsi negli occhi, e capire chi di noi tre è in grado di dare un bel calcio nel sedere alla giunta Moratti». Così parla Stefano Boeri, architetto di fama internazionale, e da un paio di settimane candidato sindaco alle primarie del centrosinistra, fissate il 14 novembre. Problema non da poco, per come si è messa la partita a Milano, in vista del voto comunale fissato in primavera. Boeri, che stasera verrà incoronato ufficialmente dalla direzione provinciale del Pd - anche se lui, come gli altri due sfidanti, non ha tessere di partito in tasca - è stato per mesi tra i grossi nomi corteggiati dal Pd, in cerca di un anti-Moratti pescato dalla società civile in nome di quella strategia del «civismo» evocata da Pierluigi Bersani e subito abbracciata dal gruppo dirigente milanese. Ma quando l´architetto ha detto sì, superando corposi dubbi e sbarazzandosi di un possibile conflitto d´interessi (si è dimesso dalla consulta cui si deve l´ideazione del masterplan di Expo 2015), qualcuno era arrivato prima di lui. Un altro professionista della Milano che conta: l´avvocato Giuliano Pisapia, già presidente della commissione Giustizia della Camera - dov´era stato eletto nel ‘96 come indipendente di Rifondazione - che a metà luglio si è candidato a sindaco con l´appoggio di Sinistra e libertà, di pezzi di società civile difficilmente collocabili entro i confini della sinistra radicale e, successivamente, anche della Federazione della sinistra. Lui è partito prima, e nei sondaggi è in testa: quello di Mannheimer, primi di settembre, gli dà quasi venti punti di vantaggio su Boeri, e anche una consultazione online di Repubblica Milano, che ha raccolto sedicimila votanti, lo ha collocato al primo posto. «Mi sono mosso - spiega Pisapia - perché ho capito che, se non l´avessi fatto per tempo, adesso ci troveremmo in una situazione disastrosa». Cioè ancora senza lo straccio di un candidato.

Già. Un bel guaio, per il Pd, partito rimasto fino ad allora immobile e anche tentato di evitare la strada delle primarie, che la candidatura di Pisapia ha reso invece obbligata. Risultato: il Pd ha subito preso le distanze dall´avvocato, temendo che all´ombra della Madonnina si potesse ripetere quel che Nichi Vendola - e per due volte - è riuscito a fare nella sua Puglia. Così ha premuto sull´acceleratore, intensificando il pressing su Boeri, che verrà infatti incoronato ufficialmente dalla direzione provinciale in programma stasera. Con qualche mal di pancia, perché quando l´architetto ha detto sì, nel Pd sono cominciati i tormenti. Qualcuno - per esempio un paio di consiglieri comunali, ma non solo - aveva già annunciato il sostegno a Pisapia. Mentre altri, nel Pd come nella società civile, successivamente si sono mossi alla ricerca di un terzo nome, per contestare la scelta di indicare un candidato "di partito", prefigurando l´esito delle primarie. E così, lanciato da un comitato di personalità della cultura, delle professioni e dell´associazionismo milanese, si è fatto avanti il terzo uomo: il costituzionalista Valerio Onida, già presidente della Consulta, anche lui - come gli altri due - non legato ai partiti. Un´iniziativa voluta soprattutto da Riccardo Sarfatti, battitore libero del Pd, scomparso tragicamente in un incidente d´auto venerdì scorso. Ma prima di morire, il «galantuomo della politica» aveva cambiato idea, chiedendo - inutilmente - al "comitato dei 92" che aveva contribuito a mettere in piedi di appoggiare Boeri. E come Sarfatti, dentro quel comitato, adesso la pensano anche don Gino Rigoldi e un altro pezzo da novanta della Milano engagée come Guido Rossi (ieri con Boeri si è schierato pure l´architetto Renzo Piano). Onida non fa una piega e va avanti toccando un nervo scoperto: «Ritengo contraddittorio che i partiti esprimano l´appoggio a uno dei candidati prima delle primarie, ciò non fa altro che snaturare lo spirito della consultazione, che è innanzitutto uno strumento per coinvolgere gli elettori». Insomma: «Se non ci fossero le primarie, come farei a Candidarmi senza il sostegno di alcun partito?».

Il ragionamento di Onida ha fatto breccia anche nel Pd. Ecco la senatrice Marilena Adamo: «Tra noi c´è chi è per primarie vere e chi dice che bisogna indicare Boeri. Sto cercando di spiegarlo ai ragazzi di Milano: non dobbiamo commettere l´errore di marcare così stretto Boeri, sarebbe la stessa cosa che sta facendo la sinistra radicale con Pisapia». Analoghi dubbi avrebbero colto anche l´ex ministro Barbara Pollastrini, senza contare che nel Pd si sono già schierati con Onida alcuni ex popolari, come Daniela Mazzucconi. Sono divisioni che il "mago dei numeri" Stefano Draghi considera come «conseguenza inevitabile di un confronto vero». Neppure lui, però, ha ancora deciso: «Stavolta farò una calcolo cinico, non politico: non importa che il gatto sia bianco o nero, l´importante è che acchiappi il topo, quindi alle primarie sosterrò chi mi sembra abbia più chance per battere la Moratti».

Stamane il Comune di Milano depositerà per 30 giorni il documento del Piano del Territorio in visione ai cittadini che avranno a loro disposizione sino al 15 novembre per le loro osservazioni.

Scaduto questo termine, il Comune avrà 90 giorni per accoglierle o meno e dovrà presentare il nuovo testo, che terrà o no conto delle osservazioni, per l’approvazione in Consiglio Comunale e le relative votazioni. Dunque entro il 15 di febbraio, se nulla di traumatico accadrà nel frattempo, il nuovo strumento urbanistico diventerà efficace, ma viene da dubitare seriamente, vista l’arroganza indefettibile dell’assessore Masseroli ribadita domenica sera al dibattito ospitato alla festa del Pd. Dunque, a meno di una dura opposizione, il Pgt sarà approvato prima delle Comunali. Questo almeno è lo scenario più probabile.

È bene che il Pgt, nel suo testo definitivo, sia approvato con qualche anticipo sulla data delle elezioni, per molte ragioni. Una premessa: il Pgt potrà essere rifatto o modificato senza alcun limite, fatte salve le procedure e i tempi necessari e d’altro canto la mancata approvazione di quello attuale non comporta l’arresto dell’attività edilizia, come qualcuno capziosamente ha affermato, ma potrà proseguire con il vecchio piano regolatore che ha permesso di tutto ma con il limite della cosiddetta salvaguardia, ossia non in contrasto con il nuovo che comunque è certamente più permissivo del vecchio.

Perché è importante che sia approvato prima delle Comunali? Le ragioni sono almeno tre: perché è comunque un documento molto, troppo, esteso e qualunque rilettura chiede tempo per assimilarne i contenuti; perché i candidati alle primarie è opportuno che si pronuncino su un testo definitivo per chiarire quale sarà il loro futuro atteggiamento; perché il giudizio sulla giunta uscente e sulla sua capacità di capire la realtà fisica e sociale di Milano si può dare solo su un documento definitivo che sancisca inequivocabilmente l’incapacità di capire i cittadini, che sono altra cosa dai partiti e dagli interessi che si vogliono tutelare.

Un’ultima considerazione. In passato per osservazioni s’intendevano genericamente le obiezioni di natura tecnica e specifica che i cittadini proprietari facevano ritenendo di essere stati sfavoriti o addirittura danneggiati da un nuovo strumento urbanistico. Questa volta, visto l’impianto del documento e la sua natura profondamente ideologica e di parte, le osservazioni potranno e dovranno riguardare anche aspetti di quadro generale e di natura politica. Chi ha detto che la città debba essere pensata per 1milione e 700 mila abitanti? In base a quali considerazioni? È giusto privilegiare sempre e in ogni caso l’intervento dei privati? Le localizzazioni di addensamento della volumetria a che logica rispondono? Vedo con favore che molti gruppi si stanno organizzando per stendere le osservazioni: spero che si moltiplichino e che dal loro lavoro possa nascere una visione della città più vicina al sentire diffuso dei cittadini e non solo dai portatori d’interessi esclusivamente economici.

«Non potrò neppure aprire la finestra, che vita sarà questa?». Il Pirellone bis stringe il condominio su tre lati, è una gabbia di specchi, la luce arriva solo di riflesso, il tempo è scaduto e stare alla finestra non serve. Anzi, è peggio: dal 15 ottobre inizieranno i traslochi e si riempiranno gli uffici. Gli inquilini di via Bellani 3 sono stati circondati, hanno dettato le condizioni per la resa, ma non hanno spuntato un accordo: dovranno convivere col nuovo Palazzo Lombardia, inscatolati dal cemento. La Regione avrebbe preferito un divorzio consensuale, il progetto era di acquistare e demolire, non compra più: aveva offerto 4.500 euro al metro quadro ma gli abitanti ne chiedevano almeno il doppio, il costo del mattone più il disturbo e la buona uscita. La trattativa, ora, è chiusa. Non si sono intesi, e non sfugga il paradosso: don Ettore Bellani, l’uomo della targa sul muro, educava i sordomuti.

Il gigante e la casina. Qui vivono quattordici famiglie, due appartamenti sono sfitti, il terrazzo è ben curato, colpisce il verde. In questi giorni è stata attivata la nuova antenna per la televisione satellitare, regalo della Regione: «Il grattacielo oscurava il segnale— raccontano gli abitanti —. Ma se pensano di rabbonirci così, si sbagliano». I rapporti sono tesi dall’inizio, tre anni fa, da quando la Regione inizia a tirare su la sede direzionale in zona Garibaldi: «La nostra casa è stata costruita nel 1936, non ieri. C’è gente che vive qui da decenni. Eppure, un giorno arrivano, cancellano il Bosco di Gioia e dicono che siamo di troppo».

Si parte da lì. Il Pirellone vuole comprare a «prezzi di mercato» e col «consenso unanime» dei residenti: li trova resistenti. In alternativa, ipotizza una «permuta con altre unità immobiliari di pari superficie utile, di pari valore e nello stesso ambito territoriale tra Garibaldi e Repubblica». Insomma: insiste. Anche perché nell’angolo occupato dalla palazzina dovrebbe piantare alberi e posizionare «una cella a idrogeno e servizi connessi». L’assemblea di via Bellani 3, invece, non cede alla prima, rifiuta la seconda e ignora la terza offerta: «A queste condizioni, non ne vale la pena».

Antonio Rognoni è direttore generale di Infrastrutture Lombarde spa, la holding regionale che ha costruito Palazzo Lombardia e seguito il caso Bellani: «Il piano d’acquisto è basato su una stima dell’Agenzia del territorio e ai prezzi del 2008, i più alti. Oltre non si va: gestiamo denaro pubblico, non possiamo accettare atteggiamenti speculativi».

Per altro, non c’è più tempo. Il 15 ottobre, per primi, si trasferiranno da via Pola al nuovo grattacielo i dipendenti della direzione regionale Sanità: tutti i traslochi dagli uffici periferici, secondo il programma di Infrastrutture Lombarde, dovranno essere conclusi il 30 gennaio 2011. «Se non succede nulla — annunciano gli abitanti di via Bellani— torneremo alla carica». Rognoni esclude ripensamenti: «Li abbiamo trattati con i guanti, hanno scelto loro di restare lì».

È dal problema della casa e della difficoltà di trovare un´abitazione in affitto a prezzi decenti, che partirà Stefano Boeri. Per dimostrare come ci sia la necessità di dare vita a una "Agenzia per la casa" che dia risposte e coordini le politiche di assessorati ed enti. Ma soprattutto come esistano già un´infinità di «isole deserte», da riempire. «L´equivalente di 30 Pirelloni di uffici sfitti, che potrebbero essere trasformati in case, e 80mila appartamenti vuoti. Quello che dobbiamo fare è rimetterli sul mercato, a prezzi calmierati», spiega il candidato alle primarie. Senza dover tirare su altri palazzi, espandere i confini di una metropoli che dovrebbe tornare a costruire se stessa prima di consumare altro suolo. Come, invece, prevede il Pgt della giunta Moratti: «Non ha senso un Piano di governo del territorio che si basa sullo scambio dei volumi e non sulle quantità di persone», attacca.

L´esperienza a cui guardare per la casa arriva da Barcellona, dove una sorta di "immobiliare sociale", la Provivienda, da dieci anni mette in contatto i proprietari con chi, una casa, non potrebbe trovarla senza la loro garanzia: studenti, giovani coppie, migranti. Ed è questo lo schema che Boeri seguirà per comporre il mosaico del programma: facendo rete. Quella locale delle associazioni che già lavorano in città. Ma anche quella internazionale, chiamando "testimonial" che, dall´Europa agli Stati Uniti, hanno dato vita a esempi alternativi concreti. Il cantiere del 2011 è stato inaugurato.

La corsa dell´archistar che studia da candidato è iniziata. Quando, alle 15 di due giorni fa, è sceso dall´aereo che lo ha riportato a casa da Harvard - dove ha tenuto un ciclo di lezioni - è atterrato anche su un altro mondo: una campagna elettorale già infiammata. Anche se lui assicura: «Non sarà al veleno». Da allora, raccontano i suoi, non si è più fermato. La macchina organizzativa è stata avviata, una squadra di giovani, una ventina, è già operativa. Molti hanno lavorato con lui al Politecnico o su progetti come la ristrutturazione delle cascine. «Qualche ex studente mi ha chiamato dicendo che rinunciava all´Erasmus per darmi una mano». Ed è proprio a uno staff giovane che sta pensando Boeri. Nuove facce e nuove generazioni. Per mettere in moto, prima di tutto, un giro nei quartieri. Una necessità per chi ha bisogno di farsi conoscere.

E poi ci sono quelle 400 telefonate di stima che dice di aver ricevuto: da Maria Grazia Guida della Casa della carità a Severino Salvemini, da Maria Berrini (Ambiente Italia) a Luca Doninelli, Enzo Mari e il designer Fabio Novembre. Da lì si partirà per costruire il comitato. Che dovrà trovare una sede: «Mi piacerebbe che fosse in una zona viva, magari lungo un asse commerciale», dice. L´agenda inizia a riempirsi. Ieri sera la prima uscita pubblica, all´inaugurazione di MiTo alla Scala, dove c´era anche il sindaco Letizia Moratti ma i due all´arrivo non si sono incrociati. Questa mattina il debutto alla Festa del Pd: Boeri incontrerà gli inquilini delle case popolari. In attesa del 19, quando si rinnoverà l´incontro con il segretario Pier Luigi Bersani. Proprio con i dirigenti locali del Pd è già avvenuto ieri un colloquio. Nei prossimi giorni si proseguirà con tutti i partiti, dall´Udc all´Idv. Le presentazioni sono d´obbligo. Per future alleanze, si vedrà. Lui è sicuro: «Ci sono pregiudizi su di me che sono costruiti ad arte e cadranno».

La candidatura a Sindaco di Milano di S. Boeri e il probabile appoggio alla stessa del PD milanese, non costituisce un’alternativa alla Milano della Moratti e di venti anni di giunte di destra.

L’archistar del Masterplan di Expo 2015, dei giardini pensili a Garibaldi-Repubblica, ma anche del G8 alla Maddalena (quello della cricca di Bertolaso…), ben rappresenta gli interessi del sistema di potere imperante nella metropoli milanese. Il suo ruolo nell’operazione Expo, garantisce a banche, Fiera, immobiliaristi e consorteria varia, la continuità del modello basato sulla densificazione urbana, la trasformazione della metropoli in un grande polo logistico-commerciale, la rinuncia a una visione pubblica di città. Un modello che vede nell’Expo l’occasione per ristrutturare il territorio milanese, al di là della portata reale dell’evento, spartendosi le scarse risorse pubbliche rimaste, e nel PGT lo strumento normativo per completare la deregolamentazione urbanistica e la privatizzazione della città e dei servizi pubblici (con un po’ di housing sociale e di servizi in appalto a cooperative bianche e rosse).

In questi mesi, mano a mano che il fallimento di Expo diventava palese, complice la crisi economica e le lotte di potere tra i soci di Expo Spa, il PD milanese e Boeri sono state voci costanti nel chiedere risorse, leggi, accordi per garantire la riuscita di Expo 2015, quasi preparassero il terreno alla candidatura, legittimandosi agli occhi del potere economico-finanziario milanese, come garanti dell’operazione e unici in grado di portarla a compimento, magari in un contesto di pace sociale e di città disciplinata. Non ci stupiscono perciò gli apprezzamenti trasversali che Boeri potrà raccogliere, né l’ostinazione con cui il PD continua a difendere Expo 2015. Difendono l’uno gli interessi del proprio ruolo, gli altri, gli affari del blocco economico di riferimento (leggi Legacoop), peraltro sempre più sodale nel business con la “piovra economica e clientelare” che la Compagnia delle Opere rappresenta in Lombardia.

Milano ha bisogno di altro. Lungi da noi voler fare campagna elettorale per questo o quell’altro candidato, ci limitiamo a ribadire che la priorità è uscire dalle logiche che portano a Expo e che ispirano il PGT di Milano, che portano privatizzazioni e precarietà. La necessità è un’altra Milano, che rimette al centro il concetto di Pubblico, inteso come spazio, come priorità, come modalità di erogazione dei servizi e di gestione delle risorse, e non gli interessi di casta o di bottega.

Seguirà nei prossimi giorni un più dettagliata analisi sulla situazione milanese.

Dopo mesi di afasia, il Pd ha scelto Stefano Boeri per conquistare Palazzo Marino. L'architetto cool che piace alla borghesia che conta ha lavorato per cementificare la Milano dell'Expo su committenza del sindaco Moratti. Intervista a Giuliano Pisapia, avvocato, sfidante della sinistra alle primarie



Giuliano Pisapia e Stefano Boeri. Sono due persone in vista e ben educate, però adesso non potranno più evitare di partecipare al giochino che li vuole uno contro l'altro. L'avvocato e l'architetto. Una sfida a colpi di primarie per cercare di insidiare la poltrona mai così traballante di Letizia Moratti - i sondaggi la danno abbondantemente sotto la sua poco calorosa coalizione. Adesso che il super architetto Stefano Boeri ha deciso di candidarsi a sindaco, facendo finta di essere espressione della società civile (in realtà è il candidato del Pd), le primarie diventano una cosa seria. Si dovrebbe cominciare a parlare di contenuti e presto si faranno vivi altri candidati per rendere meno scontata la competizione. Ne parliamo con Giuliano Pisapia, avvocato, ex parlamentare del Prc, il primo a metterci la faccia due mesi fa, quando sinistra e centrosinistra non sapevano che pesci pigliare.

La battuta più velenosa è del sindaco. Dice che con la candidatura di Boeri la sinistra non potrà più dire che lei non sa scegliersi i collaboratori. In effetti, l'architetto era a libro paga proprio per i progetti urbanistici contestati dalla sinistra.

Per quanto mi riguarda, io in questi anni mi sono solo scontrato con tutte le politiche della Moratti, dall'ultima ordinanza fino ai problemi più gravi mai affrontati, casa e lavoro, per non parlare dell'Expo. Prima di decidere la mia candidatura ho letto tutti i cento punti del programma del sindaco, e almeno novantotto non sono mai stati affrontati. I restanti due, poco e male. Piuttosto che di Boeri preferisco parlare delle mie esperienze, e chi mi conosce sa bene che io a Milano ho svolto la mia professione di avvocato impegnandomi nella difesa dei diritti di tutti e in particolare dei più emarginati, prima come volontario e poi come parlamentare. Per questo credo di poter affrontare le primarie con umiltà ma con la consapevolezza che questo mio impegno verrà riconosciuto.

Come è possibile far passare l'archistar di Expo 2015 e dei grattacieli per i ricchi del quartiere Garibaldi come un'alternativa al centrodestra?

Il Pd ha fatto di tutto per avere un candidato alternativo cercando di farlo apparire espressione della società civile. Posso solo dire che parte di quella società, che preferisco chiamare cittadinanza attiva, si stava già misurando con me in seguito alla mia candidatura. Ricordo solo che da parte del Pd ho ricevuto reazioni durissime quando ho proposto di non acquistare i terreni dei privati per realizzare l'Expo. Ho detto che si sarebbero potuti utilizzare i tanti terreni pubblici, e questa prospettiva evidentemente non è piaciuta.

Prova a marcare qualche differenza sostanziale fra te e Boeri.

Posso solo dire che, essendo in corsa da due mesi, ho già elaborato delle schegge di programma insieme alle persone che mi hanno incontrato. Non conosco il programma di Boeri, per cui sarei costretto a dare dei giudizi unicamente sulla base di ciò che si dice di lui. Non è corretto, le differenze ci sono e si vedranno presto.

Ti va di essere etichettato come candidato della sinistra radicale o pensi che sia necessario guardare al centro? Del resto così farà Boeri, perfetto esponente degli interessi della borghesia amica del mattone.

Mi sta stretto essere il candidato dei partiti, mi sta bene essere di sinistra. Io sono di sinistra... Ma credo che per vincere sia necessario cercare altri appoggi, dai disillusi che non votano più a sinistra fino a quei voti che si sono spostati sulla lega e sulla destra.

Piuttosto complicato.

Non è difficile, basta mettere a confronto ciò che hanno fatto i sindaci socialisti e la disastrosa gestione della destra. Dobbiamo convincere le persone che la sinistra è capace di governare.

Come pensi di coinvolgere quella parte della cittadinanza attiva che non vuol sentir parlare dei partiti?

Con la mia storia politica. Per coerenza mi sono dimesso dalla Commissione giustizia alla Camera quando il Prc fece cadere Prodi, e poi ho deciso di non candidarmi quando il partito mi offrì un'altra occasione. A un certo punto è indispensabile allontanarsi dai partiti per non perdere il contatto con la realtà. In questi due mesi ho incontrato tante persone, i comitati che mi sostengono sono formati da qualche iscritto, qualche ex disilluso e molti giovani. Sono già riuscito a dare la senzazione di essere libero dai partiti.

Due mesi, cosa ti ha più sorpeso?

Una netta divisione della città in due, da una parte i rassegnati e dall'altra gli incazzati. Spero che i primi si rimettano in gioco e che la rabbia si trasformi in volontà di mobilitazione.

Non pensi sia necessario ritagliarsi un profilo più aggressivo per rianimare gli scettici che non ci credono?

Credo di essere molto duro sui contenuti, forse sul piano del linguaggio lo sono meno, ma questa è la mia modalità. Cerco di ragionare, non di urlare.

I rom. La campagna elettorale qui si avviterà. Sono anni che De Corato investe sulla caccia agli zingari. Dove il discrimine è tra umanità e disumanità, forse la sinistra, per principio, non dovrebbe essere più decisa?

Questo è uno dei motivi per cui mi impegno a vincere. Nella mia squadra ho messo una persona come Paolo Limonta, lui è sempre di fianco ai bambini dei campi quando vengono sgomberati. Non è una scelta casuale.

Sai fino a che punto è arrivata la frantumazione a sinistra. Credi di riuscire a dare il segno di una ritrovata unità, o assisteremo ai soliti giochetti?

Credo di poter parlare di unità a sinistra attorno al mio nome, a Milano. Ma è chiaro che il passaggio delle prossime elezioni è di grande importanza a livello nazionale. Il problema è ricostruire una sinistra forte, perché le persone di sinistra ci sono e sono tante.

E vero che giochi a poker?

Sì, è l'unico gioco che mi permette di non pensare, mi rilassa.

Adesso che carte hai in mano?

Una bella scala, con l'asso di cuori.

GIULIANO PISAPIA

Avvocato penalista, ex parlamentare del Prc, già presidente della Commissione giustizia alla Camera, Giuliano Pisapia da sempre si batte per la difesa dei diritti dei più deboli. La sua è stata la prima candidatura per le primarie milanesi che guarda a sinistra

STEFANO BOERI

L'«archistar» più famoso sulla piazza milanese ha un profilo professionale molto alto. Tra i tanti progetti che portano la sua firma, anche il masterplan dell'Expo di Milano. E' molto ben inserito negli ambienti finanziari che contano. E' il candidato del Pd.

Anche se quello che si eleggerà il prossimo anno sarà il sindaco dell’Expo, sarebbe riduttivo far ruotare la corsa per il Comune intorno all’evento del 2015: dalle politiche sul traffico a quelle sull’aria, dal rilancio delle periferie all’integrazione degli stranieri, fino al decoro urbano, c’è l’imbarazzo della scelta sui problemi da affrontare e risolvere per il bene di Milano. Ma il fatto che nella sfida a Letizia Moratti (che ha fortemente voluto e poi ottenuto l’assegnazione dell’Expo), sia entrato in campo l’architetto Stefano Boeri (che del progetto Expo è uno degli autori) obbliga a tener conto di ogni sussulto politico intorno alla manifestazione, perché nei prossimi mesi potrebbe condizionare, nel bene o nel male, entrambi i candidati.

Restano i problemi di fondo (si farà? Non si farà?), restano le difficoltà di budget (ridimensionato con la crisi), ma soprattutto resta il buio attorno al senso di un progetto che sul tema della fame nel mondo non è riuscito a coinvolgere il mondo produttivo e quello delle università. Oggi Expo può essere un asso vincente o una palla al piede per il sindaco Moratti, ma può anche condizionare le mosse dell’architetto Boeri, che correttamente si è dimesso dall’incarico di progettista, ma è stato fino a ieri uno dei più ascoltati consiglieri del sindaco.

Per Milano, per il bene della città, sarebbe auspicabile trovare una visione che accomuni i candidati di Palazzo Marino sulle ricadute positive di Expo: definendo subito quali e quante saranno, in concreto, se al teatrino della politica si sostituisse il gioco di squadra. Un passo in questo senso l’ha già fatto un altro candidato, Giuliano Pisapia: un segnale di stile, che forse non è stato colto.

Milano è stanca di parlare di un Expo che non si vede, che fa notizia soltanto per i ritardi o le dimissioni di qualcuno, che ha lasciato una scia velenosa di polemiche e di inefficienze. Milano chiede, anche attraverso Expo, di dare concretezza a politiche urbane in grado di migliorare la qualità della vita dei suoi abitanti, di osare con alcuni progetti di sostenibilità, di creare zone a impatto zero di traffico, di ricostruire la socialità perduta in alcune periferie.

L’ambiente, la riqualificazione urbana, musei all'altezza di una metropoli europea (vedi Brera), una città finalmente più a misura di bambini, un grande omaggio al genio di Leonardo, sono certamente temi per la campagna elettorale. Sarebbe un bel segnale se, al di là della normale battaglia politica, i candidati al Comune trovassero il modo di fare arrivare a chi cerca con fatica di traghettare Expo verso un difficile traguardo un messaggio di questo tipo: su alcuni progetti per la città, pochi e mirati, ci impegniamo a dare il nostro contributo senza farci la guerra e lo facciamo per Milano e per i milanesi. Questi progetti però devono venir fuori. Altrimenti Expo continuerà ad essere, per i cittadini, un ufo o poco più.

Milano - Tanto di cappello: quando una strategia c’è va riconosciuta, e a modo suo ammirata pure. Soprattutto se dall’altra parte non si intravede nulla, salvo innumerevoli e maldestri tentativi di imitazione, o critiche sacrosante che però, ahinoi, non si presentano (o forse non hanno davvero) col medesimo respiro millenario. La strategia, il “piano”, è quello della destra ciellino-fascista che imperversa ormai da lustri nella capitale padana, via via plasmata a sua immagine e somiglianza, almeno nel senso comune di chi ragiona o dovrebbe ragionare, salvo stridere con tutto ciò che non controlla, e trovare lì una specie di “antitesi”, di opposizione, che però ovviamente non potrà mai di per sé trasformarsi in proposta alternativa.

Avevano perfettamente ragione coloro che, intervenendo in varie fasi nella discussione sul Piano di Governo del Territorio dicevano quanto fosse sostanzialmente inutile andarne a contestare questo o quell’aspetto, se non si ricomponeva l’insieme delle critiche entro una idea di città completamente diversa, e non fatta di rattoppi a quella degli altri. Perché anche le scelte urbanistiche più “generali” e le strategie di massima a loro volta si inseriscono in un quadro più ampio, non necessariamente di ordine esclusivamente territoriale. Solo per toccarne un aspetto, di questa coerente complessità, proviamo a dare un’occhiata alle ultime politiche di “tolleranza zero”. Cosa c’entrano? C’entrano, c’entrano parecchio.

Prima c’è stata la stagione dei grandi piani di iniziativa privata, a loro volta discendenti dei più antichi documenti direttori sull’innovazione infrastrutturale e il riuso delle superfici dismesse. Non ha un particolare interesse, qui, andare a vedere se, come, e quanto quelle operazioni abbiano solo mosso capitali e aspettative, e siano naufragate fra le erbacce, la nuova fauna urbana di nutrie e leprotti, o peggio nel tragicomico delle archistar letteralmente sedute su un mucchio di veleni che tentano di nascondere con le loro tavole colorate. La cosa forse più interessante è capire che parallelamente a quei progetti si è impennato complessivamente il mercato immobiliare, con processi progressivi di espulsione dal nucleo centrale metropolitano, e di sprawl a cerchi concentrici sempre più ampi. Lasciando al loro destino i poveri neovillettari coatti, va osservato come la forma di resistenza più vistosa all’espulsione sia quella di chi si adatta – anche in mancanza di alternative – a quel che offre il convento.

Inquilini delle case popolari, finché glie le lasciano, e soprattutto neoimmigrati: non solo i disperati nascosti sotto qualche cavalcavia o fra i residui capannoni in disuso, ma la fascia intermedia più dinamica che prova a sopravvivere. Sono questi la vera opposizione al regime. In stragrande maggioranza del tutto legali e integrati, per ovvi e comprensibili motivi di relazione familiare, culturale, etnica, si ritrovano in strettissimo rapporto quotidiano, personale, a volte anche economico, con qualche sacca di illegalità. Producono anche parecchio disordine, soprattutto se per “disordine” si intende qualcosa che non si capisce, non si vuole capire, non si ha interesse a capire. Che rapporto potranno mai avere questi brandelli di città sconosciuti (sconosciuti ai rappresentanti eletti dal popolo), sia con la confusa immagine da cartolina del quartiere del tempo che fu, sia con quella altrettanto confusa di una fantascientifica popolazione di ricchi, su e giù dall’aeroporto agli attici da tre milioni euro, a produrre fantastiliardi di reddito.

Entrambe queste versioni della città futura virtuale ispirano le convergenti politiche della Falange: da un lato l’apparentemente demenziale “densificazione” a due milioni di abitanti da stipare chissà dove e chissà come; dall’altro le insinuate speranze di ritorno al bel tempo che fu, quando c’era il rispetto, la dignità, e la gente stava al suo posto … La Falange da par suo si presenta anche sul versante fisico proprio come una tenaglia, coi nuovi grandi quartieri (veri o ancora solo appiccicati sul sito web del Comune) della corona esterna pronti ad accogliere il popolo terziario avanzato, quelli intermedi in attesa del messia liberatore dal giogo dell’immigrazione, e il piccolo nucleo centrale a fungere da laboratorio-pensatoio. Basta guardare una mappa della città per vedere questo schema riprodursi ineffabile ogni qual volta l’eroe libertador di turno (a dire il vero pare sempre lo stesso, ma non mancano i comprimari occasionali di settore) lancia i suoi strali contro gli effetti nefasti della globalizzazione.

Sull’asse urbano della Padana Superiore, l’operazione coprifuoco in via Padova è scattata come un orologio appena qualcuno ha innescato la scintilla: troppa vita in quel quartiere, staccare la spina, chiudere tutto, emergenza! E qualche centinaio di metri più in periferia, i rendering degli architetti stanno puntualmente trasformando l’ex area Marelli ai confini con Sesto San Giovanni nel futuro Quartiere Adriano. Nella zona più centrale della cosiddetta Chinatown di via Sarpi, la fede nell’ineluttabile ritorno a un fumoso ambiente Vecchia Milano mai esistito si è addirittura andata a scontrare col sacro libero mercato, l’impresa, sfiorando l’incidente diplomatico internazionale con l’intervento del Console cinese. Ma se si tira una riga a scavalcare la porta nei Bastioni progettata a fine ‘800 da Cesare Beruto, ci si infila quasi subito fra le torri della zona Garibaldi, i localini post-bifolchi dove si sniffa ma non si deve dire, i boschi verticali dove si fa il mutuo solo per visitare l’appartamento.

La ricetta del panino immaginario a tre strati si è ripetuta in questa estate climaticamente anomala del 2010 anche nell’ultimo caso, quello del quartiere Lodi-Corvetto, sull’asse urbano della via Emilia. Anche qui gli eroi della liberazione dal giogo degli oppressori immigrati, verso il luminoso ritorno della Vecchia Cara Milano col cervelè all’angolo, inquadrano la direzione esatta, nel caso specifico quella di Rogoredo, su cui si affacciano le propaggini estreme dell’abortito (ma questo è un dettaglio) Santa Giulia, by appointment of his majesty Sir Norman Foster, ciumbia!

E la forza del destino che tutto travolge ha individuato da par suo il nuovo nemico: Bersani. Non il segretario del ciondolante Pd, ma il ministro che a suo tempo nel più perfetto stile italiano ha liberalizzato il commercio mettendo fine alla pianificazione di stile sovietico chissà perché approvata dai democristiani, aprendo le porte al degrado urbano. Insomma l’immigrato non si merita il libero mercato: torniamo al bel tempo che fu anche con la corporazione dei bottegai che per diritto di sangue controllano il quartiere.

Solo in questa cornice, del dispiegarsi coerente di una Urbanistica dei Fasci e delle Corporazioni, è possibile apprezzare appieno oltre vent’anni di piccoli e grandi passi sulla strada verso il futuro. Gli ultimi particolari nell’articolo riportato di seguito. Grazie per l’attenzione.

Oriana Liso, Stop a kebab e Internet point il commercio cambia regole, la Repubblica ed. Milano, 17 agosto 2010

Un piano del commercio per fissare regole severe, che impediscano il proliferare di negozi etnici, di Internet point, ma anche di bar e locali della movida. È questo il progetto di Comune e Regione, che stanno lavorando per mettere a punto un regolamento che non contrasti con le leggi nazionali, come quella (la cosiddetta Bersani) che ha liberalizzato le licenze. «Finché abbiamo questa legge non possiamo intervenire, abbiamo le mani legate», è la posizione del sindaco Moratti, che ha firmato l´estensione dell´ordinanza antidegrado - che entrerà in vigore domani - a un nuovo tratto di corso Lodi e vie limitrofe, «come chiesto dai residenti», secondo la versione di Palazzo Marino. Ed è proprio il sindaco ad annunciare: «Stiamo lavorando con la Regione per vedere se si può, con una legge regionale, mettere a punto delle misure per i negozi di vicinato e le botteghe storiche, però non possiamo andare contro una legge nazionale. Per controllare esercizi come phone center, Internet point, kebaberie usiamo anche le ordinanze».

Già il mese scorso ci sono stati i primi incontri tra l´assessore comunale Giovanni Terzi e il suo omologo regionale Stefano Maullu per stabilire un piano d´azione. Perché il problema è proprio quello di non entrare in rotta di collisione con la legge nazionale, scrivendo regolamenti che potrebbero poi facilmente essere annullati dai giudici amministrativi. Per questo, spiega Maullu, «pensiamo a una griglia operativa che dia ad ogni Comune gli strumenti per creare dei distretti commerciali armonici, dove non ci sia una concentrazione eccessiva dello stesso tipo di attività, anche grazie a criteri più rigidi per concedere le licenze». Tra i criteri, per esempio, ci potranno essere regole igieniche stringenti, o una trasparenza maggiore su proprietari e finanziatori di ogni attività, oppure, ancora, un controllo puntuale su diplomi e attestati che dimostrino la competenza di chi apre un´attività in quel settore specifico (ad esempio, i centri massaggio, i saloni di estetica, i parrucchieri).

A questo, aggiunge l´assessore Terzi, si potranno sommare anche regole sugli orari (che scoraggino l´avvio di nuove attività nelle zone già dense di locali) e che fissano distanze minime tra le vetrine. «Un criterio di distribuzione che non vale solo per i negozi etnici, ma anche per i locali della movida e per le gelaterie, vogliamo rendere armonici i quartieri, evitando superconcentrazioni di alcune categorie merceologiche a spese di altre», spiega Terzi.

L´idea di mettere le briglie alla legge Bersani non dispiace agli stessi commercianti. Tanto che Simonpaolo Buongiardino, consigliere delegato dell´Unione del commercio, attacca: «La deregulation di questa legge ha tolto la possibilità ai Comuni di fare dei piani commerciali, e quindi di porre dei limiti ad alcune attività: ma non si può pensare a periferie trasformate in suk di negozi etnici, o a zone anche centrali dove tutte le vetrine sono di abbigliamento e non si trova un supermercato». L´occhio di Regione e Comune resta puntato sulle insegne straniere, visto che - come raccontano i dati della Camera di commercio - in città sono oltre mille le imprese con titolare nato fuori dall´Italia, ovvero il 33 per cento delle ditte del settore (la media in provincia è del 26, in Italia del 9). A portare la bandiera delle attività sono i cinesi: rappresentano oltre il 55 per cento dei servizi di ristorazione stranieri.

Il futuro del Parco Sud si chiama agriturismo. Ne è convinto il presidente della Provincia Guido Podestà che, in vista dell’arrivo dei visitatori di Expo, lancia un progetto per aumentare le strutture e i posti letto all’interno dell’immensa area verde ai confini con la città. «Il potenziale è altissimo - dice - e noi vogliamo incentivare la ristrutturazione delle cascine in questo senso». Ma l’urbanista Beltrame avverte: «Attenti all’assalto degli speculatori».

Natura e relax, è rivoluzione cascine

di Alessia Gallione

In Toscana o in Umbria è una tradizione (e un business) da anni. Vecchi casolari trasformati, dove trascorrere vacanze a contatto con natura. Tra relax e prodotti tipici. Ed è proprio all’agriturismo che, adesso, guarda Palazzo Isimbardi per rilanciare il Parco Sud. Aprendo la strada sempre di più alla possibilità per le aziende di affiancare l’attività di produzione all’ospitalità. Ristrutturando e cambiando la destinazione delle cascine. E aumentando, anche in vista dell’arrivo dei visitatori di Expo, il numero dei posti letto. «Perché il potenziale è enorme - spiega il presidente della Provincia e del direttivo del Parco, Guido Podestà - e vogliamo incentivare la nascita di queste attività che, non solo non snaturano ma possono diventare una salvaguardia per la vocazione agricola del territorio».

È al centro dei dibattiti politici da anni: un’area immensa a rischio cemento, però, visto che le mire di molti costruttori non sono mai cessate. Per Podestà non va stravolta. Ma ribadisce: «Non dobbiamo farne un totem. Il Parco va reso penetrabile con percorsi pedonali, ciclabili, ippovie. E non dobbiamo scandalizzarci se qualche Comune pensa a realizzare sui confini una scuola, amplia un cimitero o una fabbrica». La svolta per renderlo, però, per far vivere il Parco si chiama agriturismo. E la Provincia - che sovrintende la pianificazione anche attraverso i cosiddetti "Piani di cintura" - vuole dire sì alle domande di riconversione presentate: una decina, per ora, quelle in attesa di risposta in diversi Comuni. «Oggi - dice Podestà - ci sono un migliaio di aziende, ma solo una ventina ha sviluppato una attività completa di agriturismo». In tutto 150, 180 posti. Che potrebbero moltiplicare: «Sarebbero un’ottima risposta in termini di ricettività in vista di Expo. Anche per i milanesi dovrebbe diventare un’abitudine andare ad acquistare prodotti o a pranzare nelle cascine».

Se, per ora, la possibilità di dormine in cascina non è così sviluppata, decine di aziende si sono organizzate con la vendita diretta, le fattorie didattiche, lo sport o i ristoranti. Dario Olivero, presidente del Consorzio agrituristico "Terre d’acqua" che racchiude 15 aziende tra il Parco Sud e Ticino, avverte: «Piuttosto che realizzare nuove costruzioni, siamo favorevoli a ristrutturare le strutture esistenti. Ma ci vuole un progetto di lungo periodo per capire se potrà esserci richiesta anche dopo Expo». Senza dimenticare i finanziamenti: «Per una norma dell’Unione europea l’agriturismo non è finanziabile nel Milanese. Regione e Provincia dovrebbero attivarsi con fondi propri». La sviluppo dell’agriturismo sembra piacere anche a Massimo D’Avolio, sindaco pd di Rozzano e presidente dell’Assemblea dei 61 Comuni: «Potrebbe essere un’opportunità per valorizzare la zona in chiave turistica. Sicuramente ci sono molte vecchie cascine che potrebbero essere ristrutturate».



L’altolà dell’urbanista "L’area fa gola a molti attenzione ai trucchi"

intervista di Stefano Rossi a Gianni Beltrame

Gianni Beltrame, urbanista, è fra i padri del Parco Sud, essendo stato uno dei direttori del Pim, il centro studi per la programmazione dell’area metropolitana milanese. Architetto, l’agriturismo è compatibile con il Parco Sud?

«In linea di principio sì. Tuttavia il Parco è oggetto di aggressioni edificatorie e speculative. Si deve controllare caso per caso per verificare se si tratti di iniziative di vero agriturismo».

Qual è il fattore discriminante?

«È agriturismo se si soggiorna in una cascina che svolge una normale attività agricola. Non è agriturismo se si va in un albergo o un ristorante truccato da attività agricola».

C’è un rischio reale?

«L’agriturismo è facilmente oggetto di mistificazioni. Anche le revisioni dei confini del parco su richiesta dei Comuni vanno esaminate con attenzione. Sono spesso una scusa per nuovi interventi urbanistici nelle aree protette».

Eppure molti Comuni, in primis quello di Milano, sostengono che il Parco Sud sia un’area degradata.

«Quella del degrado è una balla che il Comune di Milano racconta per arrivare a una conclusione ovvia: il Parco Sud va risanato. Come? Costruendoci sopra. Da tempo il Comune strizza l’occhio a Ligresti, Paolo Berlusconi, Cabassi, che hanno comperato anche in anni recenti dagli enti pubblici a prezzi di svendita. Sono loro i grandi proprietari e non certo gli agricoltori, che sono in affitto. Il Comune però non dice che il Parco Sud, anche se può non essere bello dal punto di vista della manutenzione, ha salvato dalla cementificazione la zona agricola più bella e sviluppata della pianura padana, una delle più fertili d’Europa. Nel Settecento e Ottocento gli agronomi inglesi e tedeschi venivano a studiare il sistema irriguo milanese».

Le aziende agricole però segnano il passo.

«Logico, se la proprietà ricatta l’affittuario con rinnovi contrattuali di due anni in due anni. È questo che ha fatto abbandonare i campi. Servono contratti più lunghi per giustificare la riqualificazione. L’agricoltura ha strutturalmente tempi lunghi di investimento e di resa».

Il Pgt, il Piano di governo del territorio adottato in prima lettura a luglio, dà garanzie per la salvaguardia del Parco Sud?

«Il Pgt ne voleva la distruzione. Vedremo dopo le modifiche in prima lettura e dopo l’approvazione definitiva. Il Comune punta a renderlo edificabile, in ossequio ai desideri dei grandi proprietari di cui questa maggioranza è portavoce. Ma non ne ha il potere, e nemmeno la Provincia, che è solo l’ente gestore. Il Parco Sud è stato istituito con legge regionale».

Regione, Provincia e Comune sono governate dalla stessa maggioranza.

«È chiaro che il Parco Sud è la più bella occasione speculativa che si offre nel milanese. La scelta di proteggere l’ultima grande fascia agricola è stata lungimirante ma, dopo aver cercato di costruire il parco per decenni, negli ultimi anni ho potuto solo tentare di difenderlo».

È trascorsa ormai una intera generazione da quando, col famoso filmato delle cariche di dinamite a sbriciolare il complesso di case popolari Pruitt-Igoe di St. Louis, si sanciva il tramonto culturale di un’epoca. Non solo, come osservava il critico del New York Times, la “morte dell’architettura moderna”, ma la fine di un modello di quartiere di iniziativa pubblica, evolutosi dalla fine del XIX secolo fino ai grandi complessi standardizzati monoclasse che ancora oggi gravano di problemi (ma non solo) le banlieues di tutto il mondo.

Caratterizzato, questo quartiere, da una risposta “industrialista”, meramente quantitativa al problema sociale della casa, con unità abitative riconducibili per tipologia ai grands ensembles francesi, e soprattutto sprovviste dei servizi di quartiere e, pertanto, dipendenti dall’esterno, nonostante la declamata autosufficienza su cui si basavano all’epoca i progetti. Non a caso l’età d’oro, se mai ce ne è stata una per questi agglomerati, coincide con la fase della città industriale e del welfare tradizionale. Deindustrializzazione, globalizzazione, nuovi flussi migratori hanno in brevissimo tempo accelerato la crisi già in corso dei grandi quartieri di edilizia popolare del dopoguerra, trasformandoli via via in spazi di crisi e, in epoca molto recente, in luoghi di sperimentazione di politiche urbane volte al recupero e rilancio.

Le esperienze di recupero migliori si affidano alla formula del “mix”: mescolanza sociale, di attività, di modi di fruizione dell’alloggio, ovvero l’esatto contrario del modello monoclasse/monouso delle zone dormitorio a resilienza zero. Esistono come noto varie modalità di approccio al problema, ma ci mancava forse ancora quella squisitamente ideologica e marcatamente opportunista, così come ce la propone sottotono, approfittando anche della disattenzione estiva, l’assessore pidiellino alla casa del Comune di Milano, Gianni Verga.

Qual’è il suo modello? Sostanzialmente quello di risolvere il problema della casa pubblica trasformandola in tutto o in parte in residenza privata. Dovrebbero convincere della lungimiranza del progetto le promesse di “moderne infrastrutture”(?), un occhio particolare alle esigenze della popolazione universitaria alla disperata ricerca a Milano di alloggi a prezzi accessibili, alcune esperienze evocate a sproposito come quella dell’isolato in piazzale Dateo, in realtà riconquistato ad un uso misto dalle lotte sociali, dopo vari lustri di attesa e reiterati tentativi di privatizzazione da parte dell’amministrazione comunale.

Niente di nuovo sotto il sole, per di più ferragostano: chi governa Milano “sa orecchiare” dalle buone pratiche europee, o forse si avvale di suggeritori competenti. Ma la distanza fra Milano e altre grandi città europee appare sempre più siderale. Niente a che vedere ad esempio con Monaco di Baviera dove la mixité è un obiettivo lungimirante che sostanzia la pianificazione strategica di lungo periodo e il piano urbanistico della municipalità; e che si traduce in una prescrizione molto precisa cui gli operatori privati non possono sottrarsi; infatti, a Monaco tutti gli interventi di riqualificazione o di nuova edificazione nelle aree dismesse (anche le più centrali) devono realizzare una offerta abitativa così ripartita: 40% di edilizia sociale, 30% a prezzi di mercato, 30% destinata ai giovani e con fitto calmierato. Ma niente a che vedere neanche con la Francia, dove si riqualificano i grands ensembles attraverso demolizioni mirate per far spazio davvero a nuovi servizi di quartiere,a nuove attività economiche e a nuovi gruppi sociali.

Possiamo sperare nell’ennesimo ballon d’essai di chi sgoverna Milano, ma certamente gli abitanti del Sant’Ambrogio non stanno dormendo sonni tranquilli.

Dal sito del Comune di Milano: comunicato stampa del 18 agosto 2010

Mix sociale per il "Sant'Ambrogio"

L'assessore alla Casa Verga vuole dare un colpo di spugna ai quartieri-ghetto. La strategia di riqualificazione degli stabili di edilizia residenziale pubblica punta su infrastrutture moderne, locazioni a canone sociale, convenzionato e vendita a prezzi calmierati



Milano, 18 agosto 2010 – “Il Comune di Milano è impegnato a promuovere la creazione di mix sociali all’interno dei quartieri o dei singoli stabili per cambiare volto ai cosiddetti quartieri-ghetto”. L’assessore alla Casa Gianni Verga riassume così la strategia con cui avverrà la razionalizzazione e riqualificazione degli stabili di edilizia residenziale pubblica nel quartiere Sant’Ambrogio.

“Vogliamo infatti – prosegue Verga - che questa zona, caratterizzata dal progressivo invecchiamento della popolazione e dal declino delle funzioni commerciali, ritorni a essere un centro vitale, in cui si mescolano famiglie di ceto medio, anziani, studenti universitari”.

Il mix sociale è già stato sperimentato positivamente dal Comune nell’immobile di piazzale Dateo – in cui convivono canoni sociali, moderati, studenti, e l’AgenziaUni che sostiene gli universitari alla ricerca di un alloggio – e nelle nuove case in via Appennini, angolo via Gallarate, inaugurate lo scorso dicembre.

L’assessore Verga annuncia che Comune e Aler, rispettivamente proprietari del complesso Sant’Ambrogio 1 e Sant’Ambrogio 2, lavoreranno insieme per sperimentare un modello di recupero dell’area, in un’ottica di diversificazione e di integrazione. A questo scopo sarà costituito un gruppo di lavoro, composto da personale delle Direzioni Centrali Casa e Sviluppo del Territorio del Comune, e da rappresentanti dell’ Aler.

Nei due complessi residenziali verrà incrementata l’edilizia sociale e definito un mix abitativo attraverso l’articolazione dell’offerta di alloggi e mirate modalità di assegnazione per favorire l’ingresso di nuova popolazione, soprattutto giovani.

Saranno riqualificate le infrastrutture e studiati interventi volti al risparmio energetico e alla riduzione delle emissioni.

Gli alloggi situati nei caseggiati in condominio verranno venduti e i proventi saranno utilizzati per riqualificare l’ambito, i servizi o le infrastrutture.



I nuovi alloggi saranno:

- in parte in locazione perpetua a canone sociale

- in parte in locazione a canone convenzionato, anche con patto di futura vendita

- in parte in vendita a prezzi convenzionati.

Le risorse necessarie per realizzare l’intervento saranno reperite con la partecipazione ai programmi regionali e nazionali di finanziamento e, se necessario, mediante il coinvolgimento di risorse di altri soggetti pubblici e privati.



Il quartiere Sant’Ambrogio

L'area si trova nella periferia sud di Milano, tra l’asse di via Famagosta e il Parco Agricolo Sud, in prossimità dell’Autostrada dei Fiori.

Il complesso Sant’Ambrogio 1, di proprietà comunale, è stato realizzato tra il 1964 e il 1965 e il complesso Sant’Ambrogio 2, di proprietà dell’Aler Milano, tra il 1971 e il 1972.

La zona è accessibile grazie alla Linea 2 della metropolitana con la fermata Famagosta e con il prolungamento fino ad Assago.

A Milano Comune e Aler sono complessivamente proprietari di oltre 75mila alloggi, spesso coagulati in quartieri o ambiti di edilizia residenziale pubblica, caratterizzati dalla compresenza di patrimonio residenziale comunale e di Aler.

Spariti in un anno 800 negozi "Niente ripresa, autunno nero"

di Laura Fugnoli

Chiusi, e non solo per ferie. In un anno sono morti 824 negozi. Un’emorragia che non conosce fine, nei primi sei mesi del 2010 il saldo tra chi apre e chi chiude è rimasto negativo, con 122 imprese in meno. E oggi il mondo del commercio travolto dalla crisi rilancia un nuovo allarme per il rientro dopo le ferie: l’autunno, è la certezza, sarà duro. Altri rischiano di rimanere soffocati dall’estate afosa e per niente generosa. Troppi rischiano di non sopravvivere al secondo anno di recessione. La ripresa non si è vista, e anche «i saldi sono stati un fallimento - ammette Renato Borghi, presidente Ascomoda - i ricavi hanno avuto un incremento di un misero 3% rispetto all’anno scorso e la delusione è diffusa».

Secondo i dati della Camera di commercio, tra giugno 2009 e giugno 2010 tra quegli 800 negozi scomparsi hanno chiuso 44 macellerie (-5,9%) e 26 panettieri (-3,7%), oltre una cinquantina i negozi con articoli per la casa. Non va meglio ai ferramenta (-3,8%), ai cartolai calati del 4,5%. Nella città della moda sono 90 i negozi di abbigliamento che hanno abbandonato l’avventura 8 - 2,6%). Si inizia con la superofferta, poi la svendita totale e si approda mestamente alla chiusura definitiva. In lieve controtendenza le attività di vendita di elettronica e telefonia, le sole ad avere un saldo positivo insieme alle gelaterie, esplose nel 2010 con ben 17 punti vendita in più.

Ma adesso spaventa l’autunno. Settembre sarà un grande banco di prova. «La riapertura dopo le ferie è un momento estremamente delicato. Con l’autunno i nodi vengono al pettine», dice Simonpaolo Buongiardino, amministratore dell’Unione del commercio. Poca fortuna sembrano avere anche i temporary shop. «Sono stati pompati come segno di dinamismo e vivacità, ma ora trovano pochi occupanti», spiega Buongiardino. Cartina di tornasole sono le scarse ristrutturazioni estive: «Questo è il tipico momento in cui chi ha un negozio in genere rinnova i locali e chiama imprese e muratori - dice Giorgio Montingelli dell’Unione Commercianti - ma ora di restyling non se ne vedono. Segno che i negozianti non vogliono, e non possono, investire». Sopravvivere è già un miracolo, dunque.

Eppure c’è chi azzarda nuove aperture, in particolare nel commercio ambulante che richiede meno impegno finanziario. Pur calate del 5,8% dallo scorso anno, le attività nei mercati hanno visto una discreta crescita negli ultimissimi mesi: dietro ai banchi di frutta e verdura, di abbigliamento e di casalinghi, però, sono quasi spariti gli italiani. «Su 5mila soci almeno il 30% ora è straniero - spiega Giacomo Errico, presidente dell’Apeca, associazione di categoria degli ambulanti - ma non mancano casi di macellai milanesi che mollano il negozio e si convertono a centri di vendita itineranti». Niente spese di affitto, basta un furgone anche usato, 3.500 euro circa l’anno per l’occupazione del suolo se si vuol lavorare cinque giorni a settimana. Tra i negozianti costretti a chiudere, c’è chi si ricicla così.

Il ceto medio è sempre meno medio, dicono i commercianti. E anche questo incide. «In viale Piave abbiamo cambiato il negozio a marchio Borghi in Outlet, con merce più a buon mercato per un target più modesto», afferma Renato Borghi. Per altri la sopravvivenza scatta con l’accorpamento o l’acquisizione. «Ci sono vie che sembra abbiano perso appeal, come Paolo Sarpi - dice Luigi Ferrario, coordinatore dell’associazione Vie dello shopping - e non sono solo gli italiani a chiudere la serranda, ma anche gli stessi commercianti cinesi. In corso XXII marzo, invece, il turnover di negozi è vorticoso, ma aprire e chiudere continuamente non è sempre un buon sintomo. La poca resistenza è spesso conseguenza delle difficoltà di accesso al credito. Le banche vogliono garanzie e in tempi bui le garanzie sono merce rara, quasi introvabile».

"Affitti d’oro e superstore così non si può reggere"

di Luca De Vito

Ilaria Parentini, lei è la terza generazione della famiglia che gestisce la "Vetreria di Empoli", in via Pietro Verri 4. Quando abbasserete definitivamente le serrande del vostro negozio?

«Questo chiuderà sabato 28 e resteremo aperti soltanto in via Montenapoleone al 22, dove abbiamo un altro spazio».

Perché chiudete?

«È stata una scelta dolorosa ma obbligata, la richiesta d’affitto per un negozio così in centro a Milano è diventata troppo alta. E poi c’è la concorrenza della grande distribuzione. Sono stata da Ikea il 13 di agosto e c’era pieno di gente: è ovvio che centri così grandi finiscono per sottrarci buona parte del mercato. E poi è anche cambiata la mentalità della clientela in questi ultimi tempi...».

In che senso?

«Adesso c’è la crisi economica e molta gente si rivolge ai centri commerciali. Uno va, si compra bicchieri e posate e viene via».

Da quanto tempo siete aperti?

«Noi siamo iscritti all’albo delle botteghe storiche e siamo in via Verri dal 1938, quando mio nonno, dopo un breve periodo in via Bigli, ha aperto il negozio. Qui la nostra azienda si è evoluta e ha modificato il suo percorso: abbiamo iniziato con i vetri a mano colorati, poi l’azienda si è ampliata e abbiamo cominciato a rivendere prodotti ai negozianti, sia in Italia che all’estero».

E adesso?

«Adesso siamo dispiaciuti di dover chiudere in via Verri, pensi che moltissimi nostri clienti ci hanno chiamato per dirci che sono disperati e che non sapranno come fare senza di noi. Non sappiamo ancora chi subentrerà, ma secondo me sarà un negozio di abbigliamento. Si vede solo moda in giro».

Però avete il negozio in via Montenapoleone.

«Esatto, e da qui in avanti concentreremo i nostri sforzi là. Abbiamo una prima sala con tutti bicchieri, un po’ particolari e decorati. Poi nel secondo salone c’è un reparto di cose antiche, per gli specialisti ma anche per chi vuole qualcosa di bello e un po’ diverso. È una specie di "mercatino", noi acquistiamo dai privati e rivendiamo. E si può trovare davvero di tutto, mi creda».

Nel futuro che cosa vede?

«Vorremmo aprire un reparto dedicato al Natale, da novembre, occupandoci un po’ del settore addobbi. E poi vorrei continuare con il servizio di riparazione. Vecchi vasi, oggetti di vetro, cristalli rotti che le persone ci portavano a far aggiustare: abbiamo il nostro artigiano, era un servizio che davamo qua in via Verri e mi piacerebbe che continuasse anche in via Montenapoleone».

"Con i prodotti di nicchia sfidiamo la recessione"

di Tiziane De Giorgio

Markus Mutschlechner, lei è uno dei soci di Delicatessen che ha due negozi che vendono specialità altoatesine. Da settembre rilanciate con un terzo punto vendita, in corso Buenos Aires, e un ristorante in via Casati.

Che cosa vi ha spinto, in un momento in cui molti commercianti sono costretti a chiudere?

«La crescente richiesta dei clienti. Abbiamo cominciato a vendere specialità altoatesine nel 2005, aprendo un negozietto in piazza Santa Maria Beltrade, dietro via Torino. Da allora le vendite sono aumentate di anno in anno, consentendoci di aprire una seconda bottega. E perfino in un anno di crisi come questo, ci siamo ritrovati con i negozi pieni. Così, abbiamo deciso di scommettere ancora una volta».

Qual è il segreto per non risentire degli effetti della crisi?

«Offriamo un servizio che gli altri negozi non danno. Siamo aperti sette giorni su sette, dalle otto del mattino alle otto di sera. Sabati e domeniche comprese. Anche d’estate, non abbiamo praticamente mai chiuso la saracinesca. Nemmeno a Ferragosto. Queste cose la gente le apprezza. Diventi un servizio sul quale si può contare sempre. In un momento così difficile bisogna offrire sempre di più: noi ci sforziamo di farlo in tutto».

Cioè?

«Le specialità altoatesine che vendiamo sono di prima qualità: chiediamo ai nostri fornitori brezel, sacher, canederli freschissimi. Questo ha un costo, certo. Ma alla fine si è ripagati e la gente viene da noi quando vuole un piatto particolare, magari assaggiato in vacanza. E poi ci siamo organizzati per fare un servizio catering, abbiamo pensato che potesse essere carino organizzare cene altoatesine dall’antipasto al dolce. E la cosa è stata apprezzata così tanto che a breve apriremo anche un ristorante. Bisogna sapersi inventare, insomma».

Tre negozi, tre affitti, però.

«Sì, vero. E sono salatissimi, visto che le nostre sedi sono tutte in zone centrali. L’affitto del negozio che apriremo in corso Buenos Aires, poi, è una legnata pazzesca. Però se a Milano non stai in una via strategica non vendi, non c’è niente da fare. Sono tanti i negozianti delle vie secondarie o periferiche che si ritrovano a dover chiudere. Con l’apertura della terza sede, però, avremo più gioco sui fornitori, aumentando gli ordini puoi strappare molto più sconto. Ma soprattutto, contiamo di essere ripagati dalla clientela stessa, come è avvenuto con l’apertura della seconda sede: quando la gente si fida, il passaparola arriva anche dall’altro lato della città».

postilla

pare quasi superfluo sottolineare come e quanto, nei medesimi giorni in cui si levano questi lamenti sul disastro del commercio di un certo tipo nell’area centrale, l’amministrazione prosegua imperterrita nella chiusura coatta di esercizi per imprecisati motivi di “ordine pubblico”. Confermando se non altro il sospetto di un preciso orientamento delle sue politiche urbane: eutanasia di ogni parvenza di articolazione e complessità sociale, e preparazione di una specie di caricatura locale delle città globali. Almeno nell’interpretazione regressiva e piuttosto squallida che ne danno gli amministratori attuali: da un lato la borghesia più o meno blindata fra boschi verticali, quadrilateri d’oro, boutiques del salamino o del sandalo di tendenza; dall’altro poche sacche di underclass o ceti comunque emarginati, a garantire lavori sporchi (dalla pulizia dei bagni della discoteche alla fornitura della polverina magica che si consuma là dentro), confinati in una sorta di post-baraccopoli precaria, priva di servizi considerati inutili per questa non-umanità senza diritti. La coerenza fra politiche urbanistiche e gestione urbana corrente, credo di averla più o meno delineata anche nell’ultimo contributo sul tema. Si tratta di stupidità, o di un lucido piano reazionario, consapevolmente perseguito? Come sempre succede in questi casi, probabilmente un po’ di entrambe le cose (f.b.)

QUANTI stracci dovranno volare prima che qualcuno sancisca che della truffa perpetrata ai danni dei residenti a Santa Giulia non ci sono colpevoli? Quante prese di distanza? Quanti scaricabarile? Quanta ipocrisia nell’ennesima tragicommedia all’italiana? Ve li ricordate i nostri amministratori ai vari Mipim di Cannes (Marché international des professionels de l’immobilier, per chi non ama gli acronimi) dove presentavano trionfanti le penne del pavone e dove il progetto Santa Giulia era uno dei fiori all’occhiello? Quanto si è scritto e stampato a spese nostre dagli enti pubblici per fare pubblicità ai privati... «I progetti in corso sono tutti caratterizzati da una particolare attenzione al verde, che costituisce il trait d’union degli interventi tesi a trasformare Milano in una nuova città, più vivibile e dalla forte vocazione europea. I nuovi quartieri di Garibaldi Repubblica, del Portello, di Santa Giulia sono intersecati da parchi pubblici e dotati di collegamenti veloci di trasporto pubblico. La qualità è anche il parametro con cui Milano sta attuando una nuova politica per la casa, che vedrà la realizzazione, su aree di proprietà pubblica, di nuovi alloggi destinati all’edilizia residenziale a canone sociale e moderato».

Questo è quello che il sindaco Letizia Moratti scriveva in un delizioso opuscolo edito congiuntamente da Camera di Commercio, Provincia e Comune di Milano. Leggo però sempre più spesso che non possiamo lasciar cadere l’occasione dell’Expo 2015 perché faremmo una cattiva figura internazionale. Ma proprio questa sarebbe la cattiva figura che fa traboccare il vaso? E queste dei grandi progetti sbandierati ai quattro venti e finiti a Santa Giulia in un confronto tra magliari cosa sono? Certo nulla rispetto a quel che combina il presidente del Consiglio, ma Milano non era la capitale morale?

Lasciatemi dire una cattiveria: sarei curioso di sapere che risultati darebbero dei sondaggi e delle analisi fatte oggi in tutte le ex aree industriali, come la Fiera a Rho-Pero. Chissà mai? A pensar male si fa peccato ma... E dove sono realmente finite le fidejussioni che la legge prevede per tutti gli adempimenti connessi all’attività edilizia? Non bisognerebbe citare i latini ma "sed quis custodiet ipsos custodes?" (ma chi custodisce i custodi?), si domandava Giovenale nel I secolo dopo Cristo.

E pensare che si era indotto a scrivere per l’indignazione nei confronti dei costumi del suo tempo: oggi non gli mancherebbe la materia perché viviamo in un Paese sì di arroganti ma contemporaneamente di volutamente irresponsabili. Da quanto tempo qualcuno non si alza in piedi e dice: «È vero, ho sbagliato, mi sono ciecamente fidato e questa non è una scusa valida. Anche se materialmente non ho commesso nulla, chiedo scusa a tutti e mi dimetto irrevocabilmente». Che gioia sarebbe per le nostre orecchie. E se a fare questo bel gesto fosse qualche presidente di banca? «Signori soci, a Santa Giulia abbiamo dato credito a chi non lo meritava e lo sapevamo, me ne vado con una raccomandazione: adesso non facciamo altri "pasticci" per salvare i nostri compensi e i denari di e correntisti». Forse anche qualche funzionario di cooperativa dovrebbe recitare il mea culpa: le cose viste dall’elicottero son belle, ma sotto?

Flop immobiliare e finanziario di privati fuori controllo, cementificazione e degrado. Lotte di potere tra i leader del Pdl. Infiltrazioni mafiose. La triste fine del quartiere Santa Giulia è l’immagine spezzata di Milano dopo 17 anni di governo delle destre. Eppure proprio in questi giorni all’ombra della Madonnina si prendono decisioni che valgono decine di miliardi. Le questioni sul tavolo sono tre. Expo 2015, con il braccio di ferro tra Letizia Moratti e Roberto Formigoni sull’acquisizione dei terreni di Rho-Pero che ospiteranno la fiera; il Piano di governo del territorio (Pgt), approvato dopo estenuanti sedute fiume, che spiana il terreno a banche e palazzinari; e i progetti edilizi già in atto (come i grattacieli storti di Citylife) o defunti prima di nascere (come Santa Giulia). Tre questioni enormi che muovono immense somme di denaro: i 25 miliardi della manovra di Tremonti a confronto sono poca cosa. E tra meno di un anno a Milano si elegge il nuovo (o il vecchio) sindaco.

Il giro del fumo

Dopo la fine della Milano delle fabbriche, la città produce aree dismesse da bonificare e rifiuti tossici da smaltire. Gli ex siti industriali diventano aree edificabili che il pubblico troppo spesso lascia all’iniziativa privata. Terreni degradati si trasformano magicamente in oro. Fanno bilancio, entrano in un gioco finanziario che ha come protagonisti immobiliaristi foraggiati dai maggiori istituti di credito e assicurativi. Due mondi che spesso si intrecciano. Non a caso sia Zunino che Salvatore Ligresti tramite la figlia Jommella (lui non può perché condannato ai tempi di Tangentopoli) in tempi diversi si sono seduti nel salotto buono di Mediobanca.

Intorno a questo giro ruotano gli interessi di imprese che si occupano di svolgere il lavoro che a cascata coinvolge una lunga serie di aziende in subappalto permeabili alla malavita. In cambio però l’economia gira, la città si trasforma in un cantiere a cielo aperto e c’è lavoro. E poco importa se la vivibilità della città soccombe sotto milioni di tonnellate di cemento e un milanese ogni due giorni viene ucciso dallo smog, come ha appena dimostrato un’agghiacciante ricerca dell’Università di Milano. Finiscono nel mirino anche le aree occupate dai centri sociali, i campi rom sgomberati a centinaia e persino i terreni «occupati» da fabbriche ancora al lavoro (il caso Innse dell’estate scorsa). Il gioco fino a ieri funzionava per quasi tutti. La pax fomigoniana si è basata anche sulla gestione dei rapporti tra Compagnia delle opere e Cooperative più o meno rosse nella spartizione della torta dei lavori.

Un modello che non è stato ostacolato né dal centrosinistra, che per anni al Pirellone ha sposato l’astensione, né dall’ex presidente della Provincia del centrosinistra, Filippo Penati: dopo aver perso disastrosamente con Formigoni è stato nominato vicepresidente fantasma del nuovo consiglio regionale eletto in aprile. In questo contesto si sono mossi prima l’ex sindaco del Pdl, Gabriele Albertini, e poi Letizia Moratti. L’ex sindaco ha dato l’ok ad una serie di progetti edilizi faraonici senza alcun piano della città. Sono nati così i progetti della Hines nell’area Garibaldi Repubblica, Citylife all’ex Fiera, i progetti di Zunino a Santa Giulia e alla ex Falck di Sesto San Giovanni. Poi i progetti sugli ex scali ferroviari. Letizia Moratti ha cercato di dare un immagine unitaria e grandiosa di questo sterminato cantiere in mano ai privati.

Ha vinto la sfida per Expo 2015 e sono cominciate a circolare immagini futuribili della Milano dei sogni. Poi ha messo a punto il Piano di governo del territorio, il primo piano regolatore dal 1980 che però più che regolare mette nero su bianco una vera e propria deregulation. Tutto bene? Non proprio. Il gioco del mattone si è spezzato. La crisi mondiale nata sui subprime legati alle case ha portato alla stagnazione del settore, sia sul piano finanziario che su quello dell’economia reale ulteriormente depressa dall’aumento di precarietà e cassa integrazione, dal blocco dei mutui e dai tagli dello Stato - dalla scuola alla manovra. Tira solo il mercato delle case di lusso. L’offerta supera la domanda e alcuni grandi progetti finiscono malissimo, come è accaduto a Santa Giulia, o barcollano, come Citylife. Pochi giorni fa anche Salvatore Ligresti, che di Citylife è il padrino, ha dovuto mettere in vendita uno dei gioielli di famiglia, la storica Torre Velasca. Nello stesso tempo, e di conseguenza, si complica il quadro politico e i rapporti tra i diversi leader del Pdl diventano sempre più tesi; la Lega cresce insidiando le posizioni di potere degli alleati, mentre il centrosinistra finora ha collezionato solo sconfitte.

Piano, troppo piano

Sul Piano generale del territorio (Pgt) il Pdl ha già rischiato il crollo, diviso tra l’area ciellina e quella laica. Il piano che lo stesso sindaco ha definito come il suo provvedimento più importante, è stato approvato dopo 7mesi: 55 sedute cui spesso è mancato il numero legale, con estenuanti tour de force di 15 ore filate. Il voto finale è arrivato alle 4 del mattino del 14 luglio. Si basa su quattro principi. La perequazione: una sorta di borsa delle volumetrie che possono essere comprate e cedute da un terreno all’altro. La fine della destinazione d’uso, per cui si costruirà senza dover dire cosa e in che contesto. La sussidiarietà dei servizi, secondo cui il pubblico se ne occupa solo laddove i privati non possono o non hanno interesse di arrivare.

E la densificazione. Si è partiti con l’assessore all’urbanistica Masseroli che fantasticava 700 mila nuovi milanesi in 20 anni. Mese dopo mese la cifra si è ridotta e ora non si fanno più previsioni. Grazie al crescere delle tensioni interne al Pdl, l’opposizione è riuscita a strappare alcuni importanti modifiche. Il lavoro dei consiglieri Patrizia Quartieri, Giuseppe Landonio e Milly Moratti, ha trovato un punto di incontro con la posizione fino a qualche mese fa più morbida del Pd, che ha deciso di dare battaglia guidato dal capogruppo Pierfrancesco Majorino. L’opposizione per una volta unita ha battuto un colpicino e ha portato a casa cambiamenti importanti. Il 35% delle costruzioni per l’housing sociale.

L’aumento delle aree verdi. La non edificabilità del Parco Sud, un enorme polmone verde e agricolo alle porte della città, anche se le volumetrie di quei terreni potranno sempre essere scambiate per costruire altrove; e anche se il presidente della provincia, Guido Podestà, ha invece aperto a interventi immobiliari, in linea con la politica del suo predecessore Penati (Pd). Adesso i cittadini sono chiamati a fare le proprie osservazioni e l’approvazione definitiva del Pgt, se arriverà, sarà ormai in piena campagna elettorale.

Un bel problema per il sindaco, Il giorno dopo il voto in notturna, Moratti sorridente si è appropriata di queste modifiche come fossero farina del suo sacco. E continua a fantasticare la Milano che non c’è. Ha annunciato per il 2035, 11 linee metropolitane (al momento si fatica a vedere la fine delle linee 4 e 5), decine di nuovi parchi, asili, scuole e servizi in ogni quartiere ameno di un chilometro dal portone di casa, una circle line intorno alla città, mentre il progetto di un faraonico tunnel da Rho a Linate è stato stralciato,ma non dimenticato.

Castelli in aria

Chi finanzierà queste opere immense che il sindaco continua a vaticinare? Le animazioni virtuali della Milano del futuro continuano a scorre come sogni. Si aprono fantomatiche vie d’acqua, poi scompaiono, sorgono e spariscono grattacieli e fantomatici Central park. In vista della campagna elettorale cambia anche il look di donna Letizia. Dal tailleur ad un immagine più casual, il sindaco si fa fotografare sul suo terrazzo con piscina vista Duomo, dove coltiva pomodorini bio. Si appella giocherellando all’orgoglio dei milanesi, perché votino sul sito del Monopoli per inserire Milano tra le nuove caselle della versione italiana del gioco. Confessa di pattugliare le zone della sua città in incognito, travestita come Serpico, insieme al rampollo di famiglia.Ma la realtà la perseguita, la bolla del mattone rischia di scoppiare da un momento all’altro sotto le spinte della crisi, delle indagini della magistratura e della litigiosità del Pdl. Da troppo egemone nell’area più ricca del paese.

Santa Giulia fa ballare i politici lombardi

«Se c’è un’inchiesta che può far paura a Formigoni è Santa Giulia». Da due anni questa voce circola con insistenza a destra e sinistra. Una voce che appare meno inverosimile dopo il clamoroso sequestro di uno dei più grandi cantieri d’Europa (1,2 milioni di metri quadrati) per ordine della procura di Milano per l’inquinamento delle falde acquifere. Ma c’è di più. L’inchiesta sull’area ex Redaelli-Montedison, che avrebbe dovuto ospitare l’avveniristica «città ideale» di Zunino, si intreccia con le recenti retate che hanno portato all’arresto di 300 affiliati alla ‘ndrangheta che operavano in Lombardia. La bonifica di Santa Giulia era affidata dalla Regione a Giuseppe Grossi senza le dovute fidejussioni in caso di mancanze nei lavori.

Il «re delle bonifiche» gestisce appalti di bonifica anche in molte altre aree della regione, come l’ex fabbrica chimica Sisas di Pioltello. Grossi era già stato arrestato a ottobre per frode fiscale nell’ambito dell’inchiesta dei pm Laura Pedio e Gaetano Ruta. Con lui arrestarono Rosanna Gariboldi, assessore provinciale pavese del Pdl. La signora accusata di riciclare i soldi di Grossi (in totale l’inchiesta riguarda 22 milioni di fondi neri) ha patteggiato la pena. Gariboldi è la moglie di Giancarlo Abelli, parlamentare del Pdl, ex assessore lombardo, vice coordinatore nazionale del Pdl e fedelissimo di Formigoni. Abelli era colui che nominava i dirigenti Asl, come Carlo Chiriaco, il direttore della Asl di Pavia arrestato nell’ambito dell’inchiesta sulla ‘ndrangheta e che di Abelli parla nelle intercettazioni della Dia.

Un filone dell’inchiesta riguarda anche l’ex assessore del Pirellone Massimo Ponzoni. La magistratura sospetta che i contatti tra politici e sospetti mafiosi servissero anche a raccogliere voti. È emerso anche il nome dell’uomo più votato della Lega per il consiglio regionale, Angelo Ciocca, 35 anni di Pavia. Avrebbe avuto rapporti con l’avvocato tributarista Pino Neri, arrestato per concorso in associazione mafiosa. Un fatto imbarazzante che impedisce ai «duri» di via Bellerio di fare troppo i «puri» nei confronti degli alleati del Pdl. Sul tavolo del procuratore aggiunto Ilda Bocassini è finito anche il fascicolo su uno strano suicidio. Pasquale Libri, 37 anni, funzionario degli appalti dell’ospedale San Paolo di Milano qualche giorno fa si è buttato dalla tromba delle scale.

L’uomo era stato intercettato mentre parlava con Chiriaco con cui fra l’altro discuteva dello zio di sua moglie, Rocco Musolino, boss dell’Aspromonte. Il 12 gennaio scorso Libri partecipò ad un incontro con altri presunti affiliati delle cosche in via Pirelli 27, a Milano, sede elettorale del candidato Pdl alle regionali, Angelo Giammario. La Lombardia non è la Calabria, da nessun punto di vista. Il fatto che le organizzazioni mafiose siano presenti tra i tanti attori dei giochi politici e d’affari milanesi non è una novità. Ma queste vicende stanno intaccando lo strapotere del Pdl e dei suoi alleati. «Formigoni finora non è toccato – spiega Luciano Muhlbauer, ex consigliere regionale del Prc tra i primi a denunciare la gravità della questione morale al Pirellone -ma le indagini della magistratura, che è sempre nel mirino di Berlusconi, possono far scoppiare le tensioni sempre più evidenti tra le varie anime della destra».

Nel deserto di Santa Giulia, intanto, 1.887 famiglie ricevono rassicurazioni dal sindaco Moratti e dall’assessore Masseroli, gli stessi che fino a un mese fa dicevano che le bonifiche erano in regola. E che ora danno la colpa all’Arpa e al Pirellone. Alcuni abitanti non amano i riflettori, temono che a questo punto saranno ancora più soli. Il sequestro li ha privati anche di un parco e di un asilo (nel 2005 era già stato chiuso perché ai bambini stranamente piangevano gli occhi). Si pensa ad una azione legale collettiva. Mentre le istituzioni, Comune, Provincia e Regione, Arpa, oltre che Risanamento - la società di Zunino che deve gestire il suo fallimento - si rimpallano le responsabilità. E intanto le acque viaggiano nel sottosuolo e possono inquinare con i loro elementi cancerogeni pozzi a distanza di 30 chilometri. Resta solo da capire se i camion che scaricavano scorie nella notte trasportavano materiale proveniente da altre discariche o scavi,magari da altre speculazioni edilizie.

Fatto non improbabile visto che in quei diversi siti spesso operano in subappalto le stesse ditte sotto inchiesta. L’altro giorno in Prefettura a Milano era ospite la commissione nazionale sui rifiuti presieduta daGaetano Pecorella. La stessa commissione che il giorno del sequestro stava sentendo come esperto Claudio Tedesi, il direttore dell’Asm di Pavia coinvolto dall’inchiesta. Pecorella ha lanciato l’allarme per l’infiltrazione mafiosa nello smaltimento dei rifiuti in Lombardia, «anche nelle grandi società». Proprio a casa del prefetto Lombardi, colui che un mese fa aveva detto che la ‘ndrangheta in Lombardia non esiste.

Coprifuoco anche al Corvetto. Dopo Sarpi e via Padova arriva l’ordinanza anti-degrado per un altro quartiere: in questo caso il giro di vite riguarderà soprattutto i bar, che dovranno chiudere tassativamente a mezzanotte contro le 3 di notte attuali. Il provvedimento, deliberato ieri dalla giunta comunale, scatterà il primo agosto e resterà in vigore fino al 16 ottobre in fase sperimentale.

L’amministrazione ha inoltre deciso di prorogare i divieti per la zona Sarpi e per via Padova, in scadenza il 31 luglio. La prima ordinanza è stata prolungata fino al 31 gennaio 2011, la seconda - così come per l’area del Corvetto - avrà valore fino al 16 ottobre. «Noi le avremmo firmate tutte fino alla fine dell’anno, ma abbiamo accolto una richiesta della commissione dei pubblici esercizi», puntualizza il vicesindaco Riccardo De Corato.

L’intenzione di estendere i divieti per la sicurezza era già stata manifestata dal sindaco, che ha spiegato di aver pensato alle ordinanze dopo aver visitato personalmente i quartieri di notte, camuffata per non essere riconosciuta: «Sono andata con mio figlio e con la scorta — ha sottolineato Letizia Moratti— Tutti quanti travestiti». Un provvedimento analogo, e certo non è un caso, è già allo studio anche per la zona Imbonati.

Foto di F. Bottini

Ma il passo immediato riguarda il quartiere Corvetto, in particolare il piazzale, via Ravenna, viale Martini, piazzale Gabrio Rosa, viale Omero, via Barabino, via dei Cinquecento, via Pomposa, via dei Panigarola, via Mompiani, via Polesine, piazzale Ferrara, via Comacchio, via Mincio, via Bessarione, via Romilli, via Salò, via Riva di Trento (nel tratto tra Bessarione e Romilli), piazza Bonomelli, piazzale Angilberto, via Osimo, corso Lodi (nel tratto compreso tra via Brenta e piazzale Corvetto), via Marocchetti. Lo schema dell’ordinanza è lo stesso già collaudato in Sarpi e via Padova. Per quanto riguarda gli affitti, si ribadisce per i proprietari l’obbligo di depositare il contratto al comando dei vigili e per gli occupanti degli alloggi di depositare l’apposita scheda entro 15 giorni. Riconfermato inoltre l’obbligo per gli amministratori di segnalare eventuali situazioni anomale.

La sanzione per i trasgressori è di 450 euro.

La seconda parte del provvedimento riguarda invece gli orari dei pubblici esercizi. I centri massaggi, che oggi non sono soggetti a vincoli orari, potranno rimanere aperti dalle 7 alle 20. I phone center dalle 7 alle 22. I bar, «compresi quelli che fanno attività di pubblico trattenimento oggi ammesso fino alle 3», per esempio i locali del karaoke, dalle 6 alle 24. E’ stata inoltre anticipata di un’ora, cioè a mezzanotte, la chiusura di take-away, pizzerie al taglio, kebab: questi esercizi, inoltre, non potranno vendere bevande da asporto oltre le 20, se non in contenitori di plastica o carta. Vietata ogni forma di commercio itinerante. Anche per il mancato rispetto dei limiti stabiliti dal Comune per gli esercizi pubblici è prevista una sanzione di 450 euro.

«Le ordinanze — sottolinea il vicesindaco, Riccardo De Corato — sono un’ulteriore iniezione di sicurezza per il quartiere Corvetto. La proroga delle ordinanze per via Padova e Sarpi è frutto invece dei positivi risultati raggiunti. In particolare il controllo sugli affitti, grazie a 1319 schede autocertificative presentate alla polizia locale, ha portato alla luce situazioni di sovraffollamento dovute a clandestini e pericolose irregolarità».

Il vicesindaco segnala infine che le violazioni sugli orari degli esercizi pubblici sono state finora 113: 90 nell’area di via Padova, dove l’ordinanza è in vigore dal 28 marzo, e 23 nel quartiere Sarpi. «Numeri che indicano un sostanziale rispetto delle disposizioni — dice — che a conti fatti non sono così pesanti come qualcuno sosteneva».

postilla

Lo stile, manco a dirlo, scimmiotta al peggio il mai dimenticato George Dabliù che di fronte al riscaldamento globale individuato e ribadito dagli scienziati, chiamava alla Casa Bianca uno scrittore di fantascienza per autoconvincersi al noto, micidiale immobilismo. Immobilismo che poi genera o rafforza vari mostri: nel caso del riscaldamento globale tutte le possibili scappatoie e ritardi, a favorire i soliti noti e preparare l’allegra strage dei poveracci, in quello delle politiche urbane a spianare la strada al binomio sprawl -riqualificazione a senso unico. Ovvero da un lato espulsione degli indesiderati (più o meno tutti, salvo gli elettori solventi del centrodestra) verso le sconfinate praterie padane, da riempire di villettopoli/campi profughi con comodo svincolo, dall’altro con un altro deserto pronto da “valorizzare”. Coi coprifuoco milanesi, siamo se possibile, anche un passetto più indietro rispetto agli sventramenti ottocenteschi o alle modernizzazioni forzate dell’urban renewal postbellico, perché non esiste alcun motivo, salvo le solite squallide tesi fascistoidi da uomini veri, che vogliono snidare il male eccetera eccetera. Basta togliere di mezzo questi ideali hitleriani da fumetto di serie Z, per scoprire la solita sbobba: una scusa qualsiasi per levare di torno la vita di un quartiere, e trasformarlo in un deserto su cui speculare dopo il “risanamento sociale”. Dato che il risanamento vero, cioè mettere in campo politiche di inclusione, convivenza di fasce di reddito disomogenee, micro-sviluppo economico, costa fatica e non coincide con i soliti interessi degli amici, meglio il risanamento patacca, un po’ simile a quello delle finte bonifiche sulle aree industriali. Si solleva un po’ di polverone, si falsificano le carte (ovvero si presentano grandi risultati in termini di fermi e sgomberi, senza spiegare a cosa servono), e il gioco è fatto. Un quartiere dopo l’altro. Possibile che anche su questo non ci siano risposte diverse dalla solita solidarietà, che mette la coscienza a posto ma lascia al loro posto anche tutti i problemi che poi giustificano la discesa in campo degli amministratori imbecilli e degli speculatori che li manovrano? (f.b.)

La piazza di Sant’Ambrogio a Milano è tutelata come bene culturale. Perché è un elemento essenziale nella struttura millenaria urbana, spazio pubblico inedificato, costituito e fondato sui sedimenti della storia della città. A fianco della basilica dedicata al santo protettore, un’area sacra, copre un cimitero protocristiano. Non può essere adibita ad usi incompatibili con il carattere storico – artistico e che compromettano la stessa integrità fisica del bene. Lo vieta testualmente e lo punisce il codice dei beni culturali. Italia Nostra crede perciò che la piazza di Sant’Ambrogio non possa essere svuotata per far posto, nella artificiale profonda cavità, ai cinque piani di un parcheggio automobilistico ed essere trasformata nella soletta cementizia di copertura del vasto edificio, rivelato in superficie dalle rampe veicolari di entrata e uscita, dalle griglie di aerazione, dagli ingombranti volumi tecnici di servizio. Italia Nostra crede che questa sia la distruzione irreparabile di un bene culturale. Ha perciò richiamato l’interesse della Procura della Repubblica e ora si oppone alla richiesta di archiviazione, motivata con il mero rinvio alla valutazione discrezionale, ritenuta insindacabile, della istituzione della tutela, la soprintendenza, che ha approvato un simile intervento. Italia Nostra attende la decisione del Giudice per le indagini preliminari: neppure la soprintendenza può legittimare radicali trasformazioni fisiche di un bene culturale che il “Codice” espressamente vieta e punisce come reato.

Roma, 23 luglio 2010

Il più storico, originale e centrale dei grattacieli italiani è per un terzo sfitto e... lo mettono in vendita. Sembra una parabola, una metafora dei tempi che viviamo e della contraddizione crescente nell´economia dell´edilizia. Mentre si inaugurano o costruiscono o progettano torri sempre più alte tra la Stazione Centrale e la vecchia Fiera, tanto da poter immaginare che tra non molto una gigantesca cortina potrebbe fare da sfondo al Castello e impedire la vista delle Alpi dalla terrazza del Duomo, mentre si vara un Piano di governo del territorio che punta a "ridensificare" Milano riempiendola di nuovi alloggi e uffici, Salvatore Ligresti apre le procedure per vendere la Torre Velasca.

Forse sono soldi che servono per tappare i buchi aperti da altre avventure immobiliari? O addirittura per finanziarne di nuove? Di certo non è un segno di vitalità del mercato immobiliare, come avrebbe potuto essere fino a qualche anno fa un passaggio di mano nella proprietà del fungone modernista adiacente a Piazza Missori. Non è dato sapere quanto i milanesi amino la Torre Velasca, ma almeno si tratta di un edificio originale e in larga misura autoctono.

Secondo Gae Aulenti ora la Torre rischia cattive ristrutturazioni, se non addirittura demolizioni, e chi organizza l´Expo dovrebbe muoversi per salvarla. («Tagliamo uno dei grattacieli previsti e destiniamo le risorse per il restauro della Velasca»). È una provocazione che può avere un senso nel ripensare la grande occasione dell´Esposizione universale. Il recupero del vecchio piuttosto che la costruzione del nuovo. La gente che si riappropria della Milano vera. Quella più antica, che è anche la più moderna.

Oltre al riferimento a Expo, potrebbe esserci quello agli uffici comunali. La Giunta Moratti ha recentemente avviato le procedure per dotarsi di un grattacielo di almeno 30 piani. Come la Regione. La motivazione è la stessa che ha portato al Pirellone-bis: sarebbe efficiente e risparmioso dismettere sedi sparse in proprietà o in affitto e concentrarle in un palazzo molto verticale. A parte il fatto che i conti economici ed energetici dell´operazione torre Formigoni non sono mai stati verificati (Tremonti la cita spesso come esempio di spese pazze) la Moratti dovrebbe tener conto che la costruzione di grattacieli a Milano sembra oggi molto impopolare. Un sondaggio recente ha dato risultati schiaccianti («Piace l´idea di una Milano con nuove costruzioni, sviluppata in altezza?» 80% di no, con punte del 90% nei ceti popolari e nelle fasce d´età più alte). Se il Comune è proprio convinto che gli serve una torre, compri la Velasca. Non è possibile (né ammissibile) che un nuovo grattacielo ben fatto costi di meno.

La Repubblica ed. Milano

Una città costruita sui veleni

di Davide Carlucci

Chi ha chiuso un occhio sui veleni di Santa Giulia? È il grande interrogativo all’indomani del sequestro dell’avveniristico quartiere nella zona sud est di Milano, ai confini con Rogoredo. La Guardia di finanza - insieme all’Asl e al Corpo forestale dello Stato - ha posto i sigilli dopo che l’Arpa ha consegnato una relazione-shock dalla quale è emerso l’altissimo livello di contaminazione del terreno e delle falde acquifere. Le concentrazioni di sostanze cancerogene come il tricloroetilene sono risultate fino a cento volte superiori ai limiti di legge - 116,50 milligrammi per litro a valle contro l’1,5 consentito - nella prima falda. Un po’ più leggere le concentrazioni nella seconda falda, a venticinque metri di profondità. Ma non meno preoccupanti: a quel deposito sotterraneo attingono anche le acque pubbliche. «Per ora non ci sono pericoli per la popolazione - avverte comunque Giuseppe Sgorbati, direttore dell’Arpa - ma potrebbero essercene in futuro se non si interverrà con una vera bonifica».

Ma come mai i tecnici non se ne sono accorti prima? È la domanda che pone, tra le righe, il giudice Fabrizio D’Arcangelo, firmatario del provvedimento di sequestro, quando parla delle «numerose anomalie, sia sul piano procedimentale-amministrativo, sia su quello tecnico della esecuzione della bonifica evidenziate dall’Arpa». L’Agenzia regionale protezione ambiente - che in passato, all’epoca dell’intervento, avrebbe dovuto vigilare sulla correttezza dello smaltimento dei rifiuti degli impianti Montedison e delle acciaierie Redaelli - ha fornito la sua ricostruzione. «Secondo l’Arpa - scrive il gip - all’atto della formalizzazione dell’accordo di programma e della convenzione del 2004/2005, atteso che il progetto coinvolge tutta l’area ex Montedison e non solo le aree già bonificate e collaudate per uso industriale, e posto che nel progetto parte di queste aree diventavano ad uso residenziale, sarebbe stato necessario sottoporre l’area a un’indagine preliminare». Lo imponeva lo stesso regolamento d’igiene del Comune per un cambio di destinazione d’uso di un’area considerata insalubre.

Ma nel caso di Santa Giulia, invece, è stato previsto un piano di gestione delle terre e un piano di scavi sotto le fondamenta dei palazzi, che non prevedeva l’analisi delle contaminazioni sotto il parco trapezio e nella falda. «Nella normativa vigente - scrive il gip - il piano scavi può essere eseguito solo su terreni non inquinati o già bonificati e certificati. In questo caso l’area di conduzione del piano scavi è diversa rispetto a quella nella quale era stata condotta la bonifica tra il 1993 e il 1996». L’errore, insomma, secondo l’Arpa è stato soprattutto del Comune e, in seconda analisi, della Provincia. Restano così le parole di Cesarina Ferruzzi che, interrogata, ha spiegato che«effettivamente l’area era molto inquinata e per altro molto vicino alla città" aveva aggiunto: "La presenza di materiali inquinanti di diversa tipologia determina un inquinamento molto più grave perchè c’è una miscela di vari principi inquinanti, una sorta di bomba biologica". Quanto ai costi la manager del gruppo aveva affermato "praticamente il costo della bonifica sarebbe stato doppio". Anche Grossi sul punto aveva dichiarato: "se si fosse fatta una bonifica si sarebbero dovuti spendere 400-500 milioni di euro e forse non sarebbero nemmeno bastati in ragione delle dimensioni dell’area".

Grossi: falda inquinata, si sapeva ma ripulirla sarebbe costato troppo

Scoppia il caso Montecity. L’area dell’ex Montedison, quella dove doveva sorgere la città "ideale" di Zunino e dove già sono abitate palazzine e c’è il centro Sky, è stata posta sotto sequestro. Nel terreno infatti sono presenti inquinanti pericolosi, la falda avvelenata da sostanze nocive all’ambiente e alla salute, anche cancerogene. Tutto per una mancata bonifica. In più, l’Arpa lancia un’accusa al Comune: «Avrebbe dovuto controllare meglio prima di dare il via libera al progetto». L’inchiesta è coordinata dai pm Laura Pedio e Gaetano Ruta.

Nell’interrogatorio del 18 dicembre 2009 il re delle bonifiche dà una spiegazione del suo operato: «Per rendere gli investimenti convenienti e favorire il recupero delle aree ex industriali è necessario che ci sia un ritorno economico finanziario...». Senza alcun commento, il giudice Fabrizio D’Arcangelo riporta questo passaggio nel decreto con cui dispone il sequestro dell’area di Santa Giulia. Per Grossi è l’ultima tegola. Ora i pm Laura Pedio e Gaetano Ruta non gli contestano più soltanto la frode fiscale, ma l’avvelenamento delle acque, per il quale è prevista una pena fino a 15 anni.

In libertà da aprile dopo sei mesi di custodia cautelare, il cuore ancora sotto controllo dopo l’intervento chirurgico di un anno fa, Grossi continua a scegliere il silenzio. «La vicenda giudiziaria e le condizioni di salute fanno sì che lavori molto meno di prima», dicono dal suo entourage. Ma per Edoardo Bai, esperto di bonifiche per Legambiente, non è così: «Le aziende collegate a lui hanno continuato a fare affari nel campo delle bonifiche, come se nulla fosse accaduto». Contando come sempre, fa capire Bai, sulla benevolenza del governatore Formigoni. L’esponente ambientalista si riferisce alla vicenda della Sisas di Pioltello, una delle tante bonifiche affidate a Grossi (se ne potrebbero citare tante altre, dall’ex zuccherificio di Casei Gerola, in provincia di Pavia, al sito inquinato dalle melme acide di Cerro al Lambro, nel sud Milano). La Sisas è una Santa Giulia al cubo: la bonifica dei terreni, contaminati in modo ancora più pesante, non è mai stata fatta, e i fondi stanziati sono stati sperperati dai vecchi proprietari, i Falciola, il cui patròn, Luciano, è stato condannato giovedì a cinque anni e sei mesi di carcere. La corte di Giustizia europea per questo commina all’Italia una multa da dieci milioni di euro e la Regione, per evitarla, affida a Grossi l’incarico di bonificare l’area. Travolto dalle inchieste, l’imprenditore deve ritirarsi dall’affare senza aver completato il recupero. Nonostante questo la Regione, fa notare Legambiente, sta per preparare una delibera con la quale "liquida" a Grossi 20 milioni di euro per i lavori già effettuati.

Per diversi rivoli i destini di Grossi, inoltre, s’incrociano con quelli dei fedelissimi di Formigoni. Rosanna Gariboldi, moglie di Giancarlo Abelli - l’uomo più vicino al governatore del Pdl - ha patteggiato due anni, con pena sospesa, per aver riciclato proprio una parte dei fondi dell’evasione realizzata grazie alla mancata bonifica di Santa Giulia. Ieri, con il sequestro di Montecity, Grossi trascina con sé nei suoi guai giudiziari anche l’ingegner Claudio Tedesi, uno dei professionisti a cui più ha fatto ricorso. Tedesi, che ha gestito interventi importanti in tutt’Italia, dalla Fibronit di Bari a Bagnoli, direttore generale delle Asm di Vigevano e di Pavia, è considerato vicino ad Abelli. «Sono stato democristiano ma di Abelli sono amico solo sul piano personale - dice lui - ora non ho tessere di alcun tipo. L’area di Santa Giulia? Risultava già bonificata già quando sono arrivato io. Non rientrava nei miei compiti».

la Repubblica ed. Milano

La paura di mille famiglie "È a rischio anche l’asilo?"

di Massimo Pisa

Guardano Montecity dal fondo del Parco Trapezio, giardinetti dalla sghemba forma dove scivoli, altalene e giostre sono ancora in gabbia e fanno compagnia a tubi a vista e mucchietti di terriccio non ancora lavorato. «Lo aprono a settembre, l’asilo? Resta chiuso? Hanno messo i sigilli anche lì, che non lo vediamo?». Gli interrogativi sono di due nonne che passeggiano a metà pomeriggio all’ombra dei palazzoni di via Cassinari, proprio sotto il terrapieno che copre i box interrati e nasconde parzialmente alla vista l’asilo. Che qui, a Santa Giulia, dove il tasso di carrozzine e bimbi che sfrecciano con gelato in mano è notevole, aspettavano tutti con trepidazione, e ora chissà.

La notizia dei sigilli della Finanza ai cantieri sorprende e manda di traverso la pausa postprandiale a parecchi residenti, che la radio non l’avevano ascoltata e nemmeno la tv, su Internet non c’erano andati e ora sgranano gli occhi. Come Bernadette, ungherese, 36 anni, pancione con sorellina in arrivo («Sono al settimo mese») per il piccolo Davide che va in giro con la bici a rotelle. «E certo che sono preoccupata - spiega - anche perché a questo asilo dovevo iscrivere mio figlio. Stiamo qui da un anno e del terreno inquinato non sapevo nulla: sul contratto di acquisto della casa avevano specificato la bonifica. Come si vive qui? Bene, nonostante la polvere dei lavori, i recinti ai giardini e qualche box scassinato. Tranquilli, almeno fino ad ora». Jacopo e Ylenia, 41 e 30, apprendono mentre scaricano la spesa dall’auto: «Siamo qui da gennaio, in affitto. I servizi ci sono e si sta benissimo, con qualche piccolo furto come in tutti i condomini nuovi. Stavamo decidendo se comprare o meno. Beh, ora vedremo... «. La sicurezza dei condomini, anche in un giorno come questo, è l’unico tema che vedi fisicamente trattato in pubblico: sui portoni si invita a denunciare i furti («Coloro i quali hanno subito il danno sono cortesemente invitati a sporgere regolare denuncia alla P. s. «), si annuncia l’ingaggio di una società di vigilanza privata ma non c’è traccia di cromo esavalente o di falda avvelenata, non ora.

Come se il problema fosse alieno, distante da questi recinti e dai terrazzoni trompe l’oeil. Vanessa Yoshimura, nippobrasiliana di 29 anni, scarrozza i due pupi di 4 anni e 2 mesi ed è un manifesto di ottimismo. «Ho saputo da una mail di mio marito: "Merda, mettono i sigilli". Ma non sono spaventata, le verifiche sul terreno della scuola le faranno. Non possiamo disperarci, no?». Bellangela Cappelluti («Nome di mia nonna, era di Molfetta, nome unico») vanta le virtù dei suoi due balconi che rinfrescano i suoi 62 anni e quelli di suo marito. «Senta, qui si sta bene. È tranquillo, non c’è traffico, non c’è l’inferno del Corvetto dove abitavo prima, solo il fischio dei treni. Certo, queste notizie non fanno piacere. Però dicono che l’acqua dei nostri rubinetti non c’entri. E io bevo solo minerale. Frizzante». Franco Fumagalli, chirurgo 53enne, a passeggio con figlia e cagnetta, racconta il suo anno e mezzo a Santa Giulia quasi rivendicandolo: «Ogni giorno è andato un po’ meglio, continuano ad aprire negozi, ci sono i mezzi, il campetto da basket qui dietro. Non hanno fatto le bonifiche? È la vecchia storia: questo è un problema di tutta la Lombardia, non solo del quartiere».

A tremare, soprattutto, sono i polsi dei nonni. Di Manrico Hintereger, 67 anni asciuttissimi, che abita in via San Venerio, «sono le case delle Acli, qui dietro, ma i miei nipoti vengono a giocare in queste strade, respirano quest’aria. E chissà cosa trasportavano, quei camion che andavano e venivano dalla Germania, quando il cantiere era aperto». Di Angelo Misani, capogruppo pd in consiglio di zona, figlio e nipoti in appartamento con vista boulevard: «Preoccupatissimi, sì. Non sappiamo nemmeno cosa faranno di questi cantieri. E dire che era venuto l’assessore Masseroli, pochi mesi fa, a rassicurare tutti».

Gli arrabbiati (per i veleni) e gli scettici (sui veleni). Chi teme catastrofi e chi si fa bastare le rassicurazioni dell’Arpa, anche sul web, sul forum (santagiulia. forumup. it) che raccoglie le voci del quartiere. Ci sono due anime, e pensieri misti, questa notte a Montecity.

Corriere della Sera

Quartiere sequestrato per inquinamento

di Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella

«Veleni nella falda acquifera, ci sono rischi per la salute». Sequestrato dai giudici di Milano il quartiere Santa Giulia. L’accusa indica una mancata bonifica dell’area Montecity-Rogoredo. Nell’acqua ci sarebbero sostanze e rifiuti tossici. I terreni furono comprati nel 1998 dal gruppo Risanamento di Zunino e riconvertiti in un progetto urbanistico da 1,6 miliardi firmato dall’architetto Norman Foster.

«Se si fosse fatta una bonifica dell’area Montecity-Rogoredo si sarebbero dovuti spendere 400-500 milioni di euro», e invece «per rendere gli investimenti convenienti — testimonia ai pm l’imprenditore delle bonifiche ambientali Giuseppe Grossi — è necessario ci sia un ritorno economico e finanziario». Così, a dispetto dei lavori commissionati dall’immobiliarista Luigi Zunino a società di Grossi e da queste subappaltati alla Edil Bianchi srl e alla Lucchini Artoni srl, nessuna efficace bonifica è stata fatta in questo milione e 200mila metri quadrati a sud-est di Milano dismessi nel 1985 dalla chimica Montedison e dalla siderurgia Redaelli, comprati nel 1998 dal gruppo Risanamento di Zunino, e dal 2003 riconvertiti in un progetto urbanistico da 1,6 miliardi con la firma dell’architetto Norman Foster. E nessuno tra Comune-Provincia-Regione, in un «procedimento amministrativo» costellato da «numerose anomalie», ha controllato l’attuazione della bonifica da ddt e pesticidi.

Risultato: nelle acque della «falda sospesa» (tra i 4 e gli 8 metri di profondità) e nella «prima falda» (da 10 a 35 metri) il giudice Fabrizio D’Arcangelo rileva, sulla scorta dei dati dell’Agenzia regionale per l’ambiente (Arpa) e del Nucleo ambiente dei vigili urbani, «concentrazioni notevolmente superiori ai limiti di legge» (oltre 20 volte nella prima falda, 100 volte nella falda sospesa) di «sostanze tutte pericolose per l’uomo» in quanto «cancerogene (tricloroetilene, tetracloroetilene, tricloroetano, manganese, cadmio, cromo esavalente), pericolose per l’ambiente (cloruro di vinile, arsenico), tali da mettere a rischio la fertilità e provocare danno ai bambini non ancora nati (cadmio e cromo esavalente)».

Ieri Arpa eMetropolitana milanese (che gestisce l’acquedotto) in comunicati ufficiali hanno assicurato che «l’inquinamento al momento non costituisce un elemento di rischio sanitario per i residenti» e «l'acqua nelle loro abitazioni è indenne da ogni contaminazione». Ma il giudice D’Arcangelo, per le ipotesi di reato di «avvelenamento delle acque» e «gestione di rifiuti non autorizzata», ieri ha ordinato alla Gdf di Milano il sequestro preventivo di tutta l’area non edificata nel quartiere proprio sulla base delle relazioni sollecitate all’Arpa dai pm Pedio e Ruta.

«La prima falda oggetto di indagine — ha risposto l’Arpa ai pm il 9 giugno — viene captata e utilizzata a scopo idropotabile dall’acquedotto del Comune anche in aree limitrofe a quelle in questione, a riprova del suo ampio utilizzo anche attuale». In particolare «a ovest è presente la centrale Martini dell’acquedotto, i cui pozzi presentano in alcuni casi filtri che partono da 30 metri di profondità senza strati argillosi soprastanti, che quindi captano inequivocabilmente la prima falda oggetto d’indagine»; mentre «idrogeolo-gicamente amonte del sito ci sono le opere di captazione facenti capo alle centrali Ovidio e Linate dell’acquedotto, che riforniscono di acqua potabile il nuovo quartiere di Santa Giulia».

Il sequestro ha tre tipi di conseguenze: giudiziarie, economiche e politiche. Le prime risiedono nella gravità dell’ipotesi (punita in Corte d’Assise con 15 an ni) notificata ieri agli indagati Zunino, Grossi, al direttore dei lavori Claudio Tedesi (oggi a capo dell'Asm di Pavia), al responsabile di cantiere Ezio Streri, agli amministratori di "Santa Giulia spa" Silvio Bernabè e Davide Albertini Petrone, al rappresentante della "Lucchini Artoni" (Vincenzo Bianchi) e ai capo cantiere e rappresentante della "Edil Bianchi" (Alessandro Viol e Bruno Marini).Pesante anche il contraccolpo economico, non tanto perché Risanamento ha perso in Borsa l’8%, quanto perché le banche esposte con Risanamento per circa il 60% dei suoi 3,2 miliardi di debiti (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Bpm, Banco Popolare), e che nel novembre 2009 avevano salvato il gruppo di Zunino dal fallimento chiesto in luglio dalla Procura al tribunale fallimentare, ora devono svalutare un’area stimata un anno fa (forse già generosamente) un miliardo, e preventivare oneri aggiuntivi.

Qui si incrocia il riverbero politico: il giudice rimarca non solo che «sono venuti a mancare i principali strumenti di controllo» da parte degli enti pubblici (come sui «500 mila metri cubi di scavi in più rispetto alla convenzione con il Comune»), ma anche che «non sono state versate le fidejussioni previste dalla normativa a tutela degli enti pubblici», cioè le garanzie finanziarie che avrebbero dovuto essere prestate alla Regione in misura non inferiore al 20% del costo stimato della bonifica. E così al danno, e al pericolo per la salute, si aggiunge ora la beffa: «Alla luce della riscontrata contaminazione della falda — constata infatti il giudice —, gli enti pubblici non hanno ad oggi risorse finanziarie per intervenire in sostituzione nel caso di mancato intervento del soggetto interessato».

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