«La giurisprudenza di Tar e Consiglio di Stato è tassativa: le osservazioni al Pgt devono essere esaminate non in complessi disomogenei ma una per volta, salvo casi precisi. Un punto fondamentale, che non è stato rispettato. A dimostrazione che questa giunta guarda solo a interessi economici, e ignora quel che viene dal basso».
Giuliano Pisapia, candidato sindaco del centrosinistra. È un atto di forza della giunta la decisione sul voto del Pgt?
«No, è solo un atto di debolezza. Anche l’ultimo piano regolatore, tanti anni fa, fu approvato discutendo ogni singola osservazione. Evidentemente questa maggioranza, che non è tale neanche nei numeri, si impegna a parole ma poi non mantiene nei fatti, il sindaco e Masseroli invitano i cittadini a fare osservazioni e poi le ignorano, consapevoli che, se fossero state esaminate tutte, non ce l’avrebbero fatta».
Perché?
«Perché spesso manca il numero legale. E perché rischiavano di finire in minoranza: la grandissima parte delle osservazioni sono propositive, quindi avrebbero disegnato un Pgt del tutto diverso da uno che prevede l’equivalente di 243 nuovi Pirelloni e uno sviluppo urbanistico tale da inserire dentro Milano una città grande come Genova».
Cosa si può fare, a questo punto? Ricorrere al Tar?
«Di certo la giunta deve fare attenzione: approvare un piano di governo illegittimo è un rischio. E quando si calpestano le regole della democrazia arriva la mobilitazione dei cittadini. Ma oltre ai ricorsi ci sono altre strade».
Lei ha proposto una moratoria per il Pgt.
«È una prima idea. Il Pgt non è passaggio burocratico, ma uno strumento che determina il futuro della città. Ecco perché sarebbe rispettoso nei confronti dei cittadini rinviarne l’approvazione a una futura giunta. Ma ci possono essere già oggi dei punti limitati di convergenza».
Sta aprendo a una soluzione diversa?
«Credo si possano fare degli stralci al Pgt, approvando ora solo quei punti condivisi da tutti, come l’housing sociale, che è anche un tema urgente. Questo vorrebbe dire che non tutto il lavoro fatto è stato inutile. Ovviamente, però, questa possibilità non vale per l’impianto generale del piano, che è in contrasto con la nostra visione».
Lei è ottimista. Crede davvero che la maggioranza potrebbe accogliere la sua proposta?
«La scelta sulla modalità di voto indica una volontà irreversibile. Ma ricordo anche che ci sono 5 referendum ambientali in ballo: non si può adottare un piano di governo del territorio ignorando il risultato di quel voto. E comunque il Pgt, se approvato ora, potrà essere annullato o modificato dalla prossima giunta».
Se non questo Pgt, quale immagina da sindaco di Milano?
«Il nostro terrà conto prima di tutto della città metropolitana, a differenza di questo, che si ferma ai margini di Milano. Bisogna invece considerare i rapporti con chi entra e esce dalla città. Secondo punto: si dovrà rivedere totalmente il meccanismo della perequazione, senza toccare i territori agricoli che invece vanno rafforzati. Lo stesso vale per i parchi urbani e i giardini storici: vanno salvaguardati, limitando al minimo indispensabile la possibilità di costruirvi all’interno».
Un altro pilastro del suo Pgt?
«Si dovrà intervenire sul territorio studiando modalità di riduzione del traffico, di aumento del trasporto pubblico e un sistema di parcheggi nella fascia di accesso alla città. E poi guardiamo a una città moderna, con luoghi di aggregazione per giovani e anziani che questo Pgt non prevede, perché pensato solo per persone ad alto reddito e uffici».
Il Pgt attuale riempie la città di nuovi palazzi. Il vostro?
«Sarà studiato sulle necessità di persone che hanno superato i limiti di reddito delle case popolari, su chi sta migliorando la sua posizione senza potersi permettere le case di lusso immaginate da questi signori, destinate a restare sfitte o invendute».
Chi sta lavorando al vostro progetto di Pgt?
«Un gruppo di lavoro molto robusto - uno di quelli della mia officina - che raccoglie grandissime professionalità del mondo dell’università e del lavoro. Partendo, ovviamente, dai programmi dei quattro candidati alle primarie».
Da sindaco, quanto tempo ci metterà ad approvare un nuovo Pgt?
«In sei mesi ce la possiamo fare. E nel frattempo, a differenza di quanto dice il centrodestra, la città non si fermerà».
postilla
A Milano si confrontano idee alternative di società, di democrazia e, quindi, di città. Per gli amministratori attuali, ascoltare e valutare le proposte dei cittadini è un'inutile perdita di tempo. I pareri che contano sono già stati ascoltati, ed è su quella base che è stato prefigurato il cosiddetto "sviluppo urbanistico" della città. Per questo le richieste di dialogo, pur doverose, resteranno inascoltate. Ci auguriamo che i prossimi amministratori abbiano una visione più inclusiva e solidale del governo del territorio, meno prona agli interessi immobiliari. L'attuale legge urbanistica regionale, criticabile sotto altri aspetti, offrirà loro strumenti e occasioni adeguati per alimentare il dibattito pubblico, prima, durante e dopo il voto consiliare. (m.b.)
Quest’anno comincia con i propositi e non con le previsioni: intellettuali e cubiste non vaticinano più, lasciano il passo agli indovini di professione. Il futuro nella sua folle incertezza fa paura: nessuna persona seria vuole compromettersi. Non capisco se sia un segno di senno o l’abbandono della speranza di qualcosa di meglio, come il discorso del Presidente della Repubblica che sembrava il commiato pieno di raccomandazioni di un padre al figlio in partenza per la guerra, guerra incomprensibile e che non si vincerà ma alla quale si è tenuti per onor di firma. L’incerto per l’incerto in Italia ma anche nella piccola e provinciale Milano che si avvita sempre di più sui suoi problemi, da quelli dei servizi pubblici allo sbando, alle nuove norme urbanistiche.
Su quest’ultimo fronte di guerra, dalla trincea degli immobiliaristi stremati da un lungo digiuno, partono robuste cannonate contro la collettività che vorrebbe salvare il proprio spazio vitale, come se fossero queste strenue difese a tenerli a stecchetto e non un mercato immobiliare inesistente. La realtà è che gli immobiliaristi per primi, Ligresti e Cabassi e ora anche Ferrovie dello Stato sanno perfettamente che il problema è il mercato che non si muove ma devono difendere il potenziale edificatorio delle loro aree per ridare contenuto alle garanzie che servono loro per sostenere fragili bilanci e per continuare in quell’infinito gioco di scatole cinesi che alimenta un sistema finanziario immobiliare drogato al quale l’amministrazione milanese fa da pusher. Lo sa? Ne è consapevole? Sta al gioco?
Mi domando da sempre in capo a chi vada la responsabilità del governo dell’edilizia, non dal punto di vista urbanistico ma da quello economico. Le risposte che l’assessore Masseroli ha dato agli immobiliaristi sono state secche e nell’interesse del bene comune ma quanto resisterà in questa guerra che vede le alleanze farsi e disfarsi secondo la convenienza degli equilibri politici del momento? A prescindere dalla capacità di resistenza dell’assessore, dalla posizione che prenderà la Provincia, dal ruolo che giocheranno i Comuni della cintura milanese coinvolti nelle vicende del Parco Sud, e da quelli del nord Milano, resta sempre insoluto il grande nodo dell’urbanistica: è compito suo contrastare l’iniqua rendita di posizione, ossia l’appropriazione da parte di privati cittadini di una ricchezza che si genera nelle loro tasche senza alcun merito e senza alcuna fatica? Ricchezza prodotta da quella collettività che si è nel tempo fatta città pagando di tasca propria strade, scuole, edifici pubblici, servizi collettivi, insomma tutto quello che trasforma una landa incolta in luogo di residenza, lavoro e socialità. Credo sia un nodo indissolubile, che non si riesce a sciogliere ma solo a governare e che dipende dalla capacità di un Paese di muoversi verso una giustizia fiscale che recuperi alla collettività queste risorse e questa ricchezza lasciando all’urbanistica il suo vero ruolo: la definizione della forma della città e l’equilibrio delle sue funzioni. All’inizio dell’anno è lecito sognare.
Pgt, l’affondo dei signori del mattone
di Teresa Monestiroli
È partito l’attacco dei costruttori al Piano di governo del territorio del Comune. Sommerse fra le oltre 4.700 osservazioni che sono state presentate in novembre al documento urbanistico, ci sono anche quelle depositate da due tra i maggiori immobiliaristi della città: Salvatore Ligresti e i Cabassi. Entrambi proprietari di aree strategiche nella Milano del futuro, i costruttori battono cassa e chiedono a Palazzo Marino - come rivela l’agenzia Radiocor - piccole, ma sostanziali modifiche al Pgt. In una parola: volumetrie per costruire, nel caso di Ligresti, in terreni che con il Pgt entrerebbero nel Parco Sud, in quello dei Cabassi nell’area Expo.
In un gruppo di osservazioni presentate dalle holding della famiglia dell’ingegnere Immobiliare Costruzioni (Imco) e Altair viene contestato uno dei punti cardine del nuovo Piano di Masseroli: il trasferimento dei diritti volumetrici di Ligresti (con indice 0,50) dalle aree Ticinello, Macconago, Vaiano Valle sud e Bellarmino a quelle dell’ex Macello dietro Porta Vittoria. Stando al Pgt, quindi, l’Imco perderà la proprietà di questi terreni - che una volta passati al Comune verranno annessi al parco e quindi non saranno più edificabili - per acquistare, attraverso il meccanismo della perequazione, volumetrie altrove. L’operazione non piace a Ligresti. La sua contestazione riguarda sia la «serie di vincoli» da rispettare (una strada storica e la previsione di alcuni collegamenti a verde) che caratterizza l’ex Macello, sia «l’evidente problema di densità edilizia dell’area» (qui verranno costruiti anche nuovi edifici della Sogemi). Quindi chiede di riportare i suoi diritti volumetrici nella zona di Macconago, cioè vicino ai terreni (sempre di sua proprietà) dove sorgerà il Cerba. La risposta dell’assessore all’Urbanistica è secca: «Quelle aree fanno parte del Parco Sud e, in quanto tali, saranno governate dai Piani di cintura urbana della Provincia. L’osservazione verrà respinta e rinviata alla discussione sui piani».
Ma le critiche di Ligresti non si fermano qui. L’ingegnere chiede anche di applicare le nuove regole del Pgt ai terreni del Cerba che, essendo un servizio pubblico per la città, dovrebbe produrre volumetrie da trasferire altrove. Anche in questo caso la risposta degli uffici è dura: «Non è possibile applicare in maniera retroattiva le regole del Pgt. Il Cerba dipende da un accordo di programma antecedente e quello verrà rispettato». Infine, sempre tra le recriminazioni dell’Imco, c’è quella di avere una maggior destinazione residenziale (quindi più redditizia) in via Stephenson, l’area periferica con un indice di densificazione molto elevato (2,7) che Masseroli vuole trasformare nella Défense milanese. La risposta dell’assessore è: «Il Pgt segue il principio della flessibilità e quindi non dà alcuna destinazione d’uso alle aree. In via Stephenson il nostro orientamento è che diventi zona del terziario, ma non imponiamo nulla».
Ma non è solo Ligresti a voler costruire di più di quanto previsto nel Pgt. Anche Matteo Cabassi ha presentato una richiesta di modifica al Piano per avere un indice di edificabilità sulle aree Expo pari a 1 metro quadrato per metro quadrato, invece di 0,50. «Anche questa osservazione verrà rifiutata - risponde Masseroli - perché il consiglio comunale ha stabilito che sulle aree Expo il riferimento è l’accordo fatto dalla società e non il Pgt».
Il Cerba e i terreni nel Parco Sud
L’ingegnere vuole allungare la città
di Alessia Gallione
La città nella città che da sempre sogna di costruire inizia dove finisce via Ripamonti. È questa Ligrestopoli. Distese e distese di terre ai confini e all´interno del Parco Sud, che l´immobiliarista ha accumulato nei decenni con la pazienza di un Mazzarò. Ai suoi ospiti di riguardo, si racconta che ami mostrarle lui stesso accompagnandoli in speciali pellegrinaggi. Su molte non può costruire. Non potrebbe. E anche dove - fuori dal perimetro del verde tutelato - ha acquisito diritti volumetrici ai tempi del Piano casa degli anni Ottanta, il Pgt adesso gli chiede di spostare altrove i volumi. Ma Salvatore Ligresti, all´affare del Parco Sud, non ha mai rinunciato. Anzi. E proprio ora che il documento urbanistico è arrivato al traguardo finale, vuole passare all´incasso. E vuole farlo sfruttando la grande opportunità del Cerba, il polo di ricerca e cura che sorgerà su 620mila metri quadrati posseduti da una sua società.
È lì, sull´area di Macconago attaccata al Centro, che Ligresti vuole realizzare un nuovo quartiere da almeno 60mila metri quadrati. Senza accettare di far atterrare sull´ex Macello i suoi futuri palazzi. Perché è lì che Milano si allargherà, portandosi dietro una via Ripamonti raddoppiata, il tram 24 che partirà dal Duomo, magari una metropolitana leggera se il Comune manterrà le promesse dopo aver cancellato la linea "6": un pezzo di periferia (stralciato dal Parco Sud), destinato a diventare strategico. Perché quando il Centro sarà pronto - con le sue cliniche, laboratori, strutture ricettive e residenziali per i parenti dei pazienti e i medici, i bar, i ristoranti, il parco attrezzato da 320mila metri quadrati, muoverà insieme allo Ieo 20mila persone al giorno - diventerà appetibile tirar su in zona nuove case. Una gallina dalle uova d´oro. A delineare la visione sono le stesse società di Ligresti: «Edificare sulle aree vicine al Cerba potrebbe contribuire a dare un assetto conclusivo a questo lembo di città e si collocherebbe lungo una direttrice di trasporto pubblico per la quale il progetto Cerba ha già previsto il relativo rafforzamento».
La giunta ha appena adottato il piano del Centro per la ricerca biomedica avanzata e, a febbraio, si prepara ad approvarlo. I cantieri, che potrebbero partire in primavera, si avvicinano. Allora, le terre su cui sorgerà la cittadella scientifica e che oggi sono in pegno alle banche come garanzia per il rifinanziamento della principale cassaforte dei Ligresti, dovranno passare di proprietà. Saranno del fondo immobiliare etico che si occuperà di raccogliere i fondi necessari (1 miliardo e 226 milioni) per costruirla. Come, dovrà essere stabilito. Ma la Imco dell´ingegnere potrebbe o vendere subito la superficie o entrare con quel capitale (ancora da quantificare, ma sicuramente di valore) nello stesso fondo, incassando nel tempo gli utili.
Si torna sempre lì, al Parco Sud. Proprio da Macconago, e da un Piano integrato di intervento rimasto per anni nei cassetti degli uffici del Comune, era partita l´ultima offensiva di Ligresti sull´urbanistica. Per tre progetti (nella lista anche via Natta e Bruzzano) che non decollavano, ufficialmente, il costruttore aveva chiesto alla Provincia di Guido Podestà il commissariamento di Palazzo Marino. Tutto rientrato in extremis. Per via Macconago, che prevede case su oltre 20mila metri quadrati, la giunta è pronta a votare all´inizio del 2011. Ma all´immobiliarista non basta. Chiede altri volumi per allargare quel quartiere con vista Cerba e Parco. Ma ad avere l´ultima parola sul destino della zona sarà Guido Podestà. È il presidente della Provincia che si è aggiudicato il primo round dello scontro con il Comune per decidere la competenza: sui 40 milioni di metri quadrati di verde milanesi del Parco, compreso Macconago, saranno i suoi Piani di cintura a dover valutare le "proposte" del Comune e dire cosa fare.
Podestà mette le mani avanti "Sul Parco Sud decidiamo noi"
di Teresa Monestiroli
La Provincia dà il via libera al Piano di governo del territorio firmato dall’assessore Carlo Masseroli. Ma nel formulare la sua «valutazione di compatibilità» con lo strumento urbanistico già in vigore a livello provinciale, avverte Palazzo Marino che su quasi un quarto del suo territorio (40 chilometri quadrati su 180, cioè l’area del Parco Sud) la competenza spetta a lei. O meglio, al direttivo del Parco Agricolo Sud che, a sua volta, è presieduto dal numero uno di Palazzo Isimbardi, il presidente Guido Podestà.
Quindi, visto che il parco riguarda oltre a Milano anche i comuni di Buccinasco, Opera, San Giuliano, San Donato, Segrate e Peschiera Borromeo, qualsiasi tipo di intervento «rimane nell’ambito delle norme di pianificazione del Parco in vigore». Ben vengano dunque le proposte di Milano per il futuro dell’area verde, ma queste «dovranno essere sviluppate all’interno dei Piani di cintura urbana», documenti ancora in via di definizione che, stando alle parole dell’assessore al Territorio di Palazzo Isimbardi Fabio Altitonante, «saranno conclusi nel 2012».
Sembra un dettaglio, ma è una precisazione che crea più di un problema al Pgt ambrosiano, perché vincola ogni decisione sull’area del parco a un piano di urbanistica di là da venire, in cui la Provincia potrebbe pretendere cambiamenti anche significativi alle regole previste da Masseroli. Rimettendo così in discussione l’indice di edificabilità dell’area verde (fissato a 0,15 metri quadrati su metro quadrato) con obbligo di trasferimento al di fuori del parco. Variazioni, spiegano in Comune, che comunque dovranno ripassare per l’approvazione dai Consigli comunali coinvolti. Quindi, nel caso Podestà dovesse aumentare l’indice assegnato al parco dopo un lungo braccio di ferro nell’aula di Palazzo Marino tra maggioranza e opposizione, la discussione si riaprirebbe di nuovo, questa volta però fra i due enti entrambi governati da una maggioranza di centrodestra. Ipotesi che non sembra preoccupare Masseroli: «È un altro passo avanti nel percorso di definizione del Pgt. È di competenza della Provincia fare le sue osservazioni».
Al di là del Parco Sud, bloccare l’applicazione della perequazione in questa zona fino al via libera ai Piani di cintura urbana significa mettere a rischio l’intero impianto della borsa delle volumetrie, dal momento che uno dei bacini di maggior peso in città è proprio il parco. D’altronde, spiega Podestà, «la delibera va inquadrata proprio nell’ottica della difesa di questo polmone verde che la Grande Milano dovrebbe utilizzare per respirare meglio, senza rinunciare a crescere». Ed è proprio quest’ultima sottolineatura – «senza rinunciare a crescere» – che inquieta chi, come le opposizioni, chiede che non siano ammesse deroghe alla tutela del parco. Il capogruppo del Pd in Provincia Matteo Mauri legge la decisione di ieri della Provincia, che «contiene più vincoli e modifiche che via libera», come «la dimostrazione che continua lo scontro di potere nel centrodestra tra Moratti e Podestà, scontro che aveva avuto il suo apice qualche mese fa e che aveva coinvolto anche Ligresti».
"Il verde è in pericolo costruire nei campi è l’obiettivo di tutti"
intervista a Gianni Beltrame di Stefano Rossi
Architetto Gianni Beltrame, lei è uno dei padri fondatori del Parco Sud, avendo contribuito con il centro studi Pim a progettare l’assetto urbanistico dell’area. La Provincia e il Parco Sud (entrambi presieduti da Guido Podestà) hanno dato l’ok al Pgt del Comune di Milano anche per le aree cittadine incluse nel parco.
«In realtà, il via libera è condizionato al rispetto da parte di Milano degli accordi di programma che la Provincia farà con la Regione e lo stesso Comune sulle aree milanesi del Parco Sud con i cosiddetti Pcu, Piani di cintura urbana. Insomma, la Provincia dice diplomaticamente al Comune: ti ascoltiamo ma decidiamo noi».
Per il Parco Sud è una garanzia?
«No, perché Provincia, Comune e Regione sono intenzionati a smantellare il Parco Sud, costruendo dove la programmazione precedente non lo prevedeva. Un obiettivo non dichiarato ma ciò non toglie che il Pgt sia pensato con questa finalità, tanto che affida l’urbanistica all’iniziativa privata degli immobiliaristi».
Anche nel Parco Sud? Senza che si possa evitare?
«Un ostacolo c’è e non è cosa da niente. La legge regionale 12 sull’urbanistica dice in modo esplicito che sulle aree agricole non si può costruire».
Quante aree sono classificate come agricole nel Parco Sud?
«Secondo la nostra strategia originaria, tutte. Tranne i 61 Comuni inclusi nel perimetro del parco e una ragionevole area limitrofa di espansione. Quando i Comuni del parco lamentano di non potersi sviluppare, drammatizzano in modo scorretto la situazione. Lo spazio per crescere c’è».
La legge regionale 12 è una garanzia sufficiente?
«Poiché aggirarla è impossibile, temo che la modificheranno. Oppure si inventeranno qualcos’altro ma non si arrenderanno».
Nessuno più difende il Parco Sud?
«Carlo Petrini ha capito l’importanza di salvaguardare le ultime aree agricole in ambito metropolitano. Aree uniche, perché non ne restano altre. E storiche. La loro destinazione agricola non fu una nostra invenzione, l’hanno avuta per secoli. Finché non sono saliti al potere i cultori del cemento».
Eppure Comune e Provincia parlano spesso di degrado del Parco Sud.
«Il degrado riguarda aree marginali nel territorio di Milano. È causato scientificamente da grandi proprietari come Ligresti, Cabassi e Paolo Berlusconi. Attraverso contratti agricoli brevi si rende precaria la vita delle aziende, che investono meno».
Il Comune ha sempre assicurato che nel Parco Sud non si costruisce, gli indici edificatori generati nel parco andranno usati in altre aree. L’opposizione si è battuta su questo.
«Il centrosinistra non ha capito che, una volta accettato l’indice di edificabilità, il guaio è fatto. Poi non ha senso cercare di abbassarlo, sulle aree agricole l’indice dev’essere zero. Così i proprietari si rassegnano e l’agricoltura torna a respirare. So bene che l’attribuzione di un indice è alla base dello scambio con cui le aree del Parco Sud vengono cedute al Comune, in cambio della possibilità di edificare altrove. Ma perché il Comune dovrebbe acquisire le aree? Certo non si metterà a fare l’agricoltore, le farà deperire e poi ci costruirà o farà costruire a qualche immobiliarista».
Il poker tra sindaco e presidente
per il grande business del mattone
di Alessia Gallione
Dopo la Regione e il direttivo del Parco Agricolo Sud, anche la Provincia dà il via libera al Piano di governo del territorio di Palazzo Marino. Ma nel farlo, il presidente Guido Podestà ricorda al Comune di Milano che una buona parte del suo territorio – i 40 chilometri quadrati di Parco Sud – sono di sua competenza. E dunque ogni proposta di trasformazione di quest’area verde verrà definita all’interno dei Piani di cintura urbana, scritti il prossimo anno proprio dalla Provincia.
Il primo round l’ha vinto Guido Podestà nella sua duplice veste di presidente della Provincia e del Parco. Sarà lui a distribuire le carte e gli altri giocatori, compreso il Comune, dovranno aspettare i Piani di cintura per capire che cosa si troveranno in mano. Il Pgt, per ora, è soltanto una "proposta". E, anche se diventerà legge per la città, sarà congelato su quei 40 milioni di metri quadrati.
Ma dietro il duplice via libera al Piano di governo del territorio, si è consumato un braccio di ferro tra Comune e Provincia. Con Palazzo Isimbardi che ha provato, attraverso il parere del Parco, a far saltare il banco. Una prima versione, dagli accenti duri, cancellava di fatto le scelte del Pgt sulle aree verdi: sarebbe stato un colpo fatale all’intero strumento urbanistico perché è proprio il progetto di liberare le aree agricole, spostando altrove le volumetrie da costruire, uno dei capisaldi del documento. Per ora, Carlo Masseroli ha passato la mano. Il suo imperativo è un altro: far approvare la sua "creatura" dal Consiglio comunale. Una mediazione, almeno nei toni, è stata trovata. Ma lo scontro è pronto a riesplodere quando si entrerà nel merito delle scelte.
È corso tutto volutamente sottotraccia. Compreso l’incontro in extremis tra Masseroli e Podestà, nel giorno della riunione del direttivo del Parco. Niente a che vedere con i toni da duello aperto scatenati dal caso Ligresti e dalla richiesta di commissariamento ad acta del Comune che, un anno fa, il costruttore presentò in Provincia. Ufficialmente, al centro della guerra urbanistica c’erano tre progetti edilizi fermi da anni. Ma il vero obiettivo dell’ingegnere siciliano sarebbe stato un altro e ben più importante: il Pgt e quello strumento della perequazione che cancella la possibilità di costruire sui suoi terreni all’interno del Parco Sud. Lì, «in fondo a via Ripamonti», anche la scorsa estate Ligresti confessava di sognare «nuovi quartieri completi che devono avere le scuole per i bambini».
È questo che dice (o direbbe) il Piano comunale di quell’area: i proprietari non potranno costruire e i loro diritti volumetrici verranno spostati altrove. Un bacino immenso da cui il Pgt trae 6 milioni di metri quadrati di ipotetici edifici da far calare sulla città. Anche questo meccanismo, però, viene messo in discussione. Quanto sarà l’indice che verrà generato, in pratica, potrà variare. E a decidere come e dove sarà la Provincia. Questa la lettura di Palazzo Isimbardi, che canta vittoria. Nonostante le scelte dovranno trovare d’accordo anche Comune e Regione: un altro round, un altro scontro. Non solo. Tra i probabili punti di frizione anche la proprietà delle aree liberate grazie allo scambio di volumetrie: per il Comune dovrà rimanere in capo a Palazzo Marino; la Provincia tenterà di annetterle al Parco.
Sembrava trovato mesi fa, l’accordo tra Moratti e Podestà sul Pgt. Su tre punti: l’ippodromo – anche la Lega lo pretendeva – doveva essere stralciato dalle aree di trasformazione; nel piano sarebbero dovuti entrare progetti di housing sociale su terreni della Provincia e Palazzo Isimbardi avrebbe dovuto decidere sul Parco Sud. Le prime due condizioni si erano già risolte (anche se ieri un’osservazione della giunta provinciale chiede di garantire la salvaguardia del trotto e della pista Maura). Rimaneva irrisolta la competenza sui 40 milioni di metri quadrati di verde. E la questione è riesplosa adesso: al momento degli "ok" formali, sul traguardo finale.
Ma quale sarà il futuro dell’area? Per capirlo bisognerà attendere i Piani di cintura. Anche se il rischio che si aprano spazi per possibili costruzioni non è escluso. Podestà, adesso, si erge a difensore del polmone verde. Nessun grattacielo, nessun regalo agli immobiliaristi. Ma quelle «soluzioni condivise» che invoca dovrebbero «coniugare ambiente e sviluppo». E, in passato, non ha nascosto la sua filosofia di base: «Il Parco Sud non è un totem. Bisogna che diventi più penetrabile e più fruibile ai cittadini. Deve consentire un respiro fisiologico ai Comuni limitrofi».
la Repubblica
Ultimo OK per il CERBA, i cantieri in aprile
di Alessia Gallione
Dopo cinque anni, da quando è ufficialmente partito l’iter, il Cerba si avvicina sempre di più al traguardo. Nell’ultima riunione del 2010, la giunta comunale ha adottato il piano urbanistico: un passaggio fondamentale, che può essere considerato l’anticamera dei cantieri. Tanto che, adesso, si guarda alla partenza dei lavori del nuovo polo di ricerca e cura che dovrà nascere nel Parco Sud: la prima pietra potrà essere posata già tra l’aprile e il maggio del prossimo anno, con la prima fase del parco scientifico internazionale di 620mila metri quadrati sognato da tempo dall’oncologo Umberto Veronesi che terminerà tre anni dopo.
Non è stato sempre facile, il cammino del Cerba. E non soltanto per l’opposizione degli ambientalisti che hanno contrastato a lungo la nascita del Centro europeo di ricerca biomedica avanzata all’interno del verde del Parco Sud, su terreni di Salvatore Ligresti. Lo ammise lo stesso Veronesi, nell’aprile dello scorso anno. «Ci sono stati grandi entusiasmi ma anche molte battute d’arresto», disse quando fu firmato da tutte le istituzioni l’accordo di programma che sbloccò il progetto, dopo una battuta d’arresto e un ritardo sulla tabella di marcia di un anno. Adesso - i cantieri sarebbero dovuti iniziare nel 2010 - arriva il voto della giunta.
«Un passaggio importante», lo definisce l’assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli. L’atto di ieri, infatti, è l’adozione del programma urbanistico. Che ora, dopo il tempo a disposizione dei cittadini per le osservazioni, passerà nuovamente in giunta per l’approvazione finale, tra gennaio e febbraio del prossimo anno. Il piano, però, c’è già ed è tutto contenuto nel documento appena votato. È di fatto il via libera al maxi-polo (progettato da Stefano Boeri) per la cura e la ricerca nei campi più vari: dall’oncologia alla neurologia, dalla radioterapia allo studio del Dna. Ci sarà spazio anche per edifici residenziali e ricettivi per i pazienti, i loro parenti, gli studenti e i medici e per un parco attrezzato di 320mila metri quadrati che la Fondazione si impegna a gestire per 30 anni.
In tutto (l’intero disegno si concluderà nel 2019) costerà 1 miliardo e 226 milioni, che arriveranno da finanziamenti privati. Ed è proprio questa la sfida che ora dovrà affrontare la Fondazione Cerba: trovare i fondi. Anche se il direttore Maurizio Mauri è ottimista: «L’adozione è un passo importante perché significa che tutte le istituzioni credono nel progetto. Per i fondi siamo nella fase della raccolta, ma siamo sicuri che con l’approvazione definitiva le dimostrazioni di interesse, che sono tante, si concretizzeranno».
Corriere della Sera
Via libera al piano urbanistico Entro un anno i lavori per il Cerba
Il Cerba è più vicino ed entro il 2011 partiranno i cantieri del Polo della scienza e della salute che nascerà a sud della città. La giunta comunale ha adottato ieri il piano urbanistico per la realizzazione del Centro europeo di ricerca biomedica avanzata: ora, scattano i tempi utili per le osservazioni e, nel giro di un paio di mesi, si conta di arrivare all’approvazione definitiva. Nell’ottobre del 2009 era stato ratificato l’accordo di programma, già sottoscritto da Regione, Provincia e Fondazione Cerba. Soddisfatto l’assessore all’Urbanistica, Carlo Masseroli: «È un traguardo importante, soprattutto perché questo centro diventerà un’eccellenza internazionale e Milano si pone sempre più come capitale mondiale della ricerca e della sanità pubblica e privata» .
Il costo dell’intervento, che riguarda un’area del costruttore Salvatore Ligresti ed è un progetto dell’architetto Stefano Boeri, è di un miliardo e 226 milioni. L’area interessata, limitrofa all’Istituto Europeo di Oncologia, è di 620 mila metri quadrati, oltre la metà dei quali diventeranno un parco pubblico. Per quanto riguarda il Centro, sono previsti 45 mila ricoveri all’anno, 800 mila visite ambulatoriali, un accesso di 19 mila persone al giorno e 5 mila operatori, con la garanzia di nuovi posti di lavoro e di un indotto economico sulla città e comuni limitrofi. Per la parte della ricerca, poi l’ambizione è di dare spazio a 500 scienziati. Preoccupato il consigliere Basilio Rizzo: «Il Cerba in sé è una proposta importante. Ma farlo nel Parco Sud significa minare la salvaguardia dell’area»
Nota: il riferimento per qualche dato in più sul CERBA è all'articolo pubblicato qui a suo tempo (f.b.)
L’altro giorno l’edizione milanese del Corriere ha pubblicato una pagina in cui era rappresentato a volo d’uccello il futuro insieme dell’area di Porta Nuova cioè dell’antico Centro Direzionale; forse una maligna illustrazione delle notizie disastrose intorno alla politica italiana che hanno dominato le prima pagine dei quotidiani lo stesso giorno. La storia di quell’area comincia quasi settant’anni or sono. In piena Resistenza, alcuni architetti del razionalismo italiano elaborarono una proposta per un nuovo piano di Milano.
Da quella data i progetti urbani sull'area si sono susseguiti tra polemiche scandali ma con un progressivo, inesorabile peggioramento: sino all'anti-progetto dei nostri anni. Non mi riferisco solo alle singole architetture (anche se con l'attuale condizione culturale a cui fanno riferimento le architetture di successo mercantile non vi è modo di sperare), ma soprattutto allo sgangherato disegno urbano che sembra persino non fare riferimento neanche a quella sciagurata «regola del caos sublime» tanto citata dagli architetti di successo mediatico globale. Sappiamo bene quanto l'ideologia della deregolazione, cioè della nozione di libertà come pura assenza di regole, abbia agito sulla città dei nostri anni: un tempo sulla decostruzione delle periferie, oggi contro i centri urbani, contro il disegno degli spazi tra le cose che è importante come le cose stesse, contro l'importanza dello spazio pubblico, come spazio della vita dei cittadini, a favore della sua progressiva privatizzazione.
Gli architetti di successo hanno rinunciato al disegno urbano per concentrarsi sulla bizzarria infondata dei linguaggi dell'oggetto singolare, trasformati in calligrafia al servizio del marketing: pubblico e privato. La violazione delle regole, anche se non vi sono più regole da violare, è diventata soprattutto una necessità di mercato e di successo mediatico degli architetti. — così non vi è molto da aspettare dalla responsabilità dei singoli architetti travolti (ma talvolta anche consenzienti) nei confronti dei prepotenti interessi immobiliari, ma certo ci si sarebbe aspettato qualche cosa di più da chi ha la responsabilità pubblica, che avrebbe dovuto avere un qualche controllo nei confronti del disegno di insieme e dei suoi obiettivi civili, un disegno nel nostro caso specifico talvolta tentato, ma incapace di resistere alle condizioni quantitative imposte dalle società proprietarie, che forse sono a loro volta affascinate dalla moda e dagli interessi nello stesso tempo.
Naturalmente bisogna anche tenere conto dello snobismo immobiliare che ha guardato soprattutto ad architetti con una forte esperienza quantitativa piuttosto che qualitativa (grossi architetti piuttosto che grandi architetti), ma assai poco sensibili alla storia in generale ed a quella culturale di Milano in particolar modo, al provincialismo dell'imitazione della grande metropoli globalizzata, all'altezza dei grattacieli come desiderio di vincere un «Guinness dei primati» . Ed il primo cattivo esempio lo ha dato, da questo punto di vista, proprio l'edificio della Regione in cui le relazioni contestuali sono le più disprezzate. Ha ragione il testo (troppo gentile e nobile) di Consonni pubblicato nelle stesse pagine del Corriere che conclude scrivendo che Milano «ha smarrito la strada dell'urbanità» .
Il tunnel da Linate a Cascina Merlata non si ferma. La società Condotte ha presentato al Comune il piano di fattibilità per costruire la maxigalleria (11,5 chilometri) che attraverserà la città passando fino a 40 metri sotto terra. Un progetto da 2,5 miliardi, pagati dai privati, che la Condotte ha in programma di realizzare insieme a Impregilo, pronta a entrare in gioco al posto della Torno, recentemente fallita. Secondo i calcoli dei costruttori è possibile costruire un primo tratto di tunnel da Rho-Pero a Garibaldi entro il 2015.
È stato calcolato che da viale Forlanini a Cascina Merlata ci sono ottanta semafori. Ipotizzando di incontrare una luce verde su due, in totale assenza di traffico, per percorrere quegli oltre dieci chilometri di strada che attraversa il centro città un automobilista impiega 40 minuti. Che diventano facilmente un’ora durante il giorno, anche di più nelle ore di punta. Quando sarà terminato il tunnel che da Linate porterà fino all’autostrada dei Laghi, passando fino a 40 metri sotto terra, lo stesso automobilista impiegherà 12 minuti.
È una delle principali attrattive di quest’opera mastodontica secondo il piano di fattibilità presentato qualche giorno fa al Comune dalla società Condotte, il colosso dell’edilizia che ha partecipato al traforo del Monte Bianco e che ora cerca di accaparrarsi l’appalto per realizzare la galleria sotto Milano. Un tunnel a pagamento che, sempre secondo le stime dei costruttori, dovrebbe portare fino 110mila auto sotto terra ogni giorno, liberando le strade dal traffico e favorendo il miglioramento della qualità dell’aria (e della vita) in città. Una galleria a pedaggio (0,60-0,70 euro al chilometro) che collegherà il city airport con la nuova Fiera Rho-Pero e ancora oltre con Cascina Merlata.
Il progetto, che con l’approvazione del Piano di governo del territorio in consiglio comunale sembrava rinviato a data da destinarsi, in realtà procede. A fine novembre, infatti, la Condotte ha presentato il piano di fattibilità e ora l’amministrazione ha sei mesi di tempo per rispondere. Ma la società, già pronta a imbarcare nell’affare anche Impregilo al posto della fallita Torno, si augura che la pratica venga sbloccata prima. Secondo i calcoli dei tecnici, infatti, per costruire gli 11,5 chilometri previsti - l’ultimo tracciato è stato ridotto di due chilometri e mezzo rispetto all’originale - ci vogliono circa sei anni di lavori. Quindi, per arrivare all’Expo con almeno una prima parte realizzata - il tratto da Cascina Merlata a Garibaldi-Lancetti, pari a 4 chilometri - bisogna che gli scavi partano entro la fine del 2011. Per farlo, dice Condotte nella sua relazione, il Comune dovrà bandire la gara d’appalto non oltre l’inizio dell’anno (gennaio - febbraio). Altrimenti sarà tardi per l’appuntamento con il 2015.
Resta però il vincolo che il consiglio comunale ha approvato durante la discussione del Piano di governo del territorio, la scorsa estate. Allora il centrosinistra presentò un emendamento in cui si chiedeva di inserire il tunnel nel futuro Piano urbano della mobilità, che non verrà discusso prima della prossima primavera. Secondo Condotte, però, se il sindaco fosse davvero intenzionata (come era parso all’inizio della storia) a concludere almeno la prima parte della galleria entro il 2015, potrebbe spingere il piede sull’acceleratore sfruttando i poteri speciali per le infrastrutture legate all’Esposizione. Naturalmente non è affatto detto che Letizia Moratti acconsenta, soprattutto ora che la campagna elettorale è cominciata e il suo programma è ancora avvolto nelle nebbie: bisognerà vedere cosa sarà previsto nel capitolo traffico-inquinamento. Quel che è sicuro è che l’opposizione cercherà in ogni modo di fermarla, avendo più volte manifestato la propria totale contrarietà. Ed Enrico Fedrighini, consigliere dei Verdi, ha già espresso i suoi dubbi: «Il progetto sta marciando spedito - commenta - . Mi chiedo quali siano le ragioni di interesse pubblico per portare avanti questo intervento visto che al momento è solo una previsione nel Pgt senza alcun riferimento né nel Piano urbano della mobilità né nel Piano delle opere pubbliche».
L’importanza della vittoria di Giuliano Pisapia è fuori discussione e giustamente è stato rilevato che, per tanti aspetti, assume rilievo nazionale. Da una parte, la vistosa differenza fra centro destra e centro sinistra: mentre il solo Silvio Berlusconi comunica al suo popolo la ricandidatura di Letizia Moratti, alcune decine di migliaia di cittadini hanno scelto il candidato dell’altro schieramento, e hanno scelto quello più a sinistra, il meno gradito al Pd. Questa è la seconda ragione che dà risalto alla competizione milanese. Il Pd sta sostenendo abbastanza coerentemente il ricorso alle primarie, ma a vincere, in alcuni luoghi anche assai importanti, non è il suo candidato. In Puglia ha vinto Nichi Vendola, detestato da autorevoli esponenti Pd, a Firenze ha vinto Matteo Renzi, anche lui non certo gradito allo stato maggiore dei democratici toscani. Entrambi però hanno vinto le elezioni propriamente dette. Questi risultati, più e meglio di tante analisi politologiche, dimostrano il distacco del Pd dal suo potenziale elettorato e l’incapacità di comprendere i motivi del crescente distacco dalla politica.
A Milano, correttamente, si sono dimessi i vertici del Pd e si è aperto un dibattito. La Milano democratica, che ha assistito sgomenta alla nascita della Lega e del berlusconismo, fra quattro mesi potrebbe riprendere il filo della sua storia, che va dalla Resistenza al centro sinistra a Tangentopoli. Un risultato possibile solo se si affrontano, finalmente, i nodi autentici della crisi della politica di sinistra. Chi segue questo sito sa che, da anni, abbiamo riconosciuto in Milano la capitale della rendita immobiliare e abbiamo attribuito la ripetuta sconfitta del centro sinistra all’incapacità di contrastare la mala urbanistica, della quale, anzi, il centro sinistra è stato talvolta complice. Perciò vale la pena di ricordare almeno le tappe principali della vicenda ambrosiana.
In primo luogo, il documento del 2000 “Ricostruire la grande Milano” curato da Luigi Mazza per conto di Maurizio Lupi, assessore allo sviluppo del territorio. 160 pagine in cui si recita il de profundis all’urbanistica pubblica e si trasferisce tutto il potere all’iniziativa privata. Il principio ispiratore è che i piani regolatori non servono (“i piani regolatori servono a chi non si sa regolare”, si diceva a Napoli negli anni di Achille Lauro) e sono sostituiti dalla sommatoria degli interventi edilizi. Insomma, una rivoluzione copernicana, l’urbanistica non governa l’edilizia ma ne è governata.
La seconda cosa che merita di essere ricordata è la proposta di estendere la linea milanese a tutta l’Italia. Protagonista è sempre Maurizio Lupi – intanto eletto alla Camera per Forza Italia e assiduo frequentatore di salotti televisivi – che firma il disegno di legge di riforma urbanistica noto ai nostri lettori come “legge Lupi”. Prevede esplicitamente la cancellazione del principio stesso del governo pubblico del territorio: gli atti cosiddetti “autoritativi” (quelli cioè propri del potere istituzionale) sono sostituiti da “atti negoziali” nei quali l’interesse collettivo è solo uno degli attori, insieme agli interessi immobiliari. Altri contenuti della proposta sono la cancellazione degli standard urbanistici e l’insensata incentivazione del consumo del suolo. La legge Lupi fu approvata nel 2005 dalla Camera con il voto favorevole di 32 deputati del centro sinistra (è bene non dimenticarlo), con il consenso dell’Inu e nell’assoluto silenzio della stampa, salve pregiate eccezioni. Solo eddyburg s’impegnò in un’accanita resistenza (curando anche la pubblicazione di un pamphlet, La controriforma urbanistica), e contribuì sicuramente alla mancata definitiva approvazione della legge al Senato. In effetti una vittoria di Pirro, gli stessi risultati si sono intanto raggiunti con la moltiplicazione delle leggi di deroga alla strumentazione urbanistica.
Infine, l’esempio più noto della new wave milanese: il progetto CityLife relativo all’area dell’ex Fiera con i tre grattacieli, alti fino a 218 metri (detti il Curvo, lo Storto, il Dritto) opera di grandi star dell’architettura. È l’esito di una gara vinta dal gotha dell’immobiliarismo lombardo raddoppiando l’importo a base d’asta e dimezzando gli standard urbanistici. Succede così che una scelta decisiva per il futuro della città – dal punto di vista dei pesi edilizi, dello skyline e dei servizi – non è assunta in base a regole garanti dell’interesse pubblico ma solo a beneficio della rendita immobiliare.
Com’è noto, l’urbanistica di rito ambrosiano, è stata a mano a mano imitata da molti comuni, non solo di destra. Anche il comune di Roma ha fatto propria quella linea. Per certi versi anzi a Roma è stato peggio, perché nella capitale sono state seguite le stesse procedure adottate a Milano, con l’aggravante che intanto si cercava riparo dietro l’ipocrita paravento della pianificazione ordinaria. Le conseguenze sono note. A Roma, le elezioni del 2008 il centro sinistra le ha perdute soprattutto perché non è stato capace di comprendere la delusione di vasti strati di cittadini, soprattutto delle periferie, per l’irresponsabile politica capitolina che, invece di metter mano al promesso risanamento, ha dilatato sempre di più i perimetri della nuova edificazione, attuando un’espansione senza fine, a bassissima densità, invivibile. Si sono formati centinaia di comitati, nell’assoluto disinteresse dell’amministrazione. Così, alla fine, ha vinto Gianni Alemanno.
Su tutto ciò, su Milano, su Roma, su tutti gli altri luoghi che hanno visto la degenerazione dell’urbanistica, ma soprattutto sulle ragioni politiche che ne hanno consentito lo sviluppo, ci sembra indispensabile un’ampia discussione, su questo sito e altrove, a partire dalla vittoria di Pisapia.
A Giuliano Pisapia vanno intanto i nostri auguri di cuore.
House Living and Business
Il PGT di Milano è a rischio bolla quanto il mercato immobiliare!
di Greta La Rocca
I numeri del Mercato immobiliare sono falsi e gonfiati. Ve l’abbiamo scrittoL’immobiliare italiano risale per la bolla fiscale!presentando il Terzo Rapporto Immobiliare 2010 di Nomisma (importante società fondata, agenzia di rating per l’Industria delle Costruzioni e per l’Industria Immobiliare Italiana), smentito dai dati Istat.
Dopo Nomisma, è stata la volta di Scenari Immobiliari: istituto indipendente di studi e ricerche, analizza i mercati immobiliari e l’economia del territorio in Italia e in Europa; fondata nel 1990 da Mario Breglia (che è anche socio onorario diAICI – Associazione Italiana Consulenti e Costruttori Immobiliari–AICI, elenco soci 2010) è la più grande banca dati di valori e compravendite, guru del mattone per imprenditori e immobiliaristi; tra le attività anche pubblicazioni, seminari a inviti e forum a pagamento tra cui l’European Outlook organizzato tutti gli anni a Santa Margherita Ligure.
Mercoledì 1 dicembre, alla Sala Colonne di Palazzo Affari ai Giureconsulti a Milano, Scenari Immobiliari e AIM, Associazione Interessi Metropolitani hanno organizzato il convegnoIl nuovo pgt: conseguenze e impatti sulla città e sul mercato immobiliare. Scenari Immobiliari ha presentato lo studio che avrebbe dovuto tracciare il quadro dettagliato di quello che sarebbe stato lo sviluppo della città con l’introduzione del Pgt. Studio che non è stato commissionato da AIM, ma è stato realizzato da Scenari Immobiliari che di AIM, Associazione culturale fondata nel 1987 da un gruppo di imprese e banche milanesi (tra i soci,Gruppo Bancario Credito Valtellinese, Intesa San Paolo, a2a, Gruppo Falck…) per promuoverericerche e progetti sulla città di Milano, è socio e nel cuiConsiglio Direttivoc’è anche Mario Breglia.
I dati presentati da Breglia dimostrano che nel periodo 2016-2030, quando il Pgt sarà entrato a regime, l’offerta media annua di case a Milano ammonterà a 40mila abitazioni all’anno di cui 5mila nuove, mentre nel quinquennio 2010-2015 saranno 38mila annue di cui 4.300 nuove… se moltiplichiamo le 40mila abitazioni all’anno per 15, otteniamo 600mila abitazioni che, se sommate alle 190mila (le 38mila del quinquennio precedente moltiplicate per 5) fanno 790mila abitazioni totali… senza considerare l’invenduto che a Milano oggi è pari a 100mila abitazioni…
Abbiamo chiesto a Breglia, se l’offerta totale non fosse alta…38mila abitazioni all’anno per 5 anni, dal 2010 al 2015, vuol dire 190 mila…
No, è totale quel dato… non è annuo…
38mila abitazioni all’anno… è annuale, abbiamo visto la ricerca…
Ah, sì….
190mila dal 2010 al 2015… dopo l’Expo, dal 2016 al 2030, parliamo di 40mila case… quindi 40mila per 15 anni… fa 600mila…. dimentichiamoci dell’invenduto, sommiamo questo dato alle 190mila dei 5 anni precedenti… il totale fa 790mila…
… troppe moltiplicazioni…troppe
mi scusi, 38 dal 2010 al 2015 all’anno….. 40 mila dal 2016 al 2030 all’anno…. il totale è 790mila…. sono tante…
sì… non lo so… però….
A Milano ci sono 100mila abitazioni invendute…
Questo dipende dal mercato…
…guardiamo i dati, le transazioni vanno dalle 28mila alle 32mila che è stato il massimo storico nel 2007…. se si parla di 38mila nel primo quinquennio e 40mila nel secondo periodo, significa che mediamente ogni anno ci saranno dalle 6 alle 10mila case che rimarranno invendute… se le moltiplichiamo per 20 anni….
No, rimangono… cioè si sommano negli anni precedenti.. cioè negli anni successivi…
…scusi, le transazioni nel 2009 sono state 32.000, il massimo storico… se moltiplichiamo questo dato per il periodo 2010-2030, otteniamo 640mila transazioni in 20 anni… se sottraiamo a 790mila, il totale dell’offerta abitativa, quest’ultimo dato… abbiamo 150mila abitazioni invendute… senza calcolare l’invenduto di oggi… è altissimo..
No… ogni anno c’è l’invenduto dell’anno precedente, più le nuove costruzioni, più l’invenduto dell’anno…
…appunto… sono tante…
No, non è che rimane invenduto per 5 anni… se un’abitazione su 4 rimane venduta, viene aggiunta l’anno successivo… e l’anno successivo se ne possono costruire un po’ meno…
Mi sta dicendo che i dati, 38mila per il primo quinquennio e 40mila per il secondo periodo,… non sono dati annuali, sono valori da cui va sottratto l’invenduto dell’anno precedente?
…certo… l’invenduto rimane anno per anno e viene assorbito dall’anno successivo… abbiamo fatto un’ipotesi… noi abbiamo fatto una media, ma in realtà alcuni anni va meglio e alcuni peggio…
…per cui i dati sono…
la media non è corretta, avremmo dovuto fare tutte le tabelle anno per anno… l’anno medio è per dimostrare una tesi non per fare un convegno sul mercato immobiliare… noi abbiamo fatto un’ipotesi, queste sono simulazioni.
Breglia, nel presentare la ricerca al tavolo dei relatori, parla di suggestioni… e invita a guardare i dati e a prenderli per quello che sono, suggestioni… e precisasono ipotesi, possono variare…
I dati di Scenari Immobiliari, precisa Breglia, non guardano all’Expo, non pensano a quale incremento l’Esposizione Universale potrebbe portare in città… sono previsti posti di lavoro a Milano? Se fosse, ci sarebbe anche una domanda abitativa… E, precisa la ricerca, i dati non prendono in considerazione l’housing sociale, vera preoccupazione però del Pgt e dell’Assessore Masseroli, ma per Breglia un buco nero nella mia ricerca
Abbiamo chiesto a Breglia, che ha parlato didisponibilità di abitazioni a prezzi più abbordabili, come sarà possibile?
Non sarà possibile, perché se non faccio una vera politica di costruzioni a prezzi bassi e in affitto non posso modificare il mercato…
Breglia lancia frecciate all’Assessore Masseroli, per abbassare i prezzi delle abitazioni, il Comune dovrebbe incentivare trasformazioni di aree dismesse consentendo maggiori volumetrie però facendo soltanto case in social housing… dovrebbe coinvolgere molto le cooperative, essere più presente sul mercato… proprio quello che l’Assessore non vuole fare….. e Masseroli, rispondeBreglia non ha letto il Pgt… No, Breglia ha detto “Facciamo i conti a prescindere dall’Housing sociale”… fare i conti su un piano del territorio in cui, nelle grandi aree, il 35% sarà obbligatoriamente in housing sociale… credo che sia una semplificazione… un’ipotesi di lavoro che falsa molto i numeri finali……
Breglia non parla di abbassare i prezzi delle case perché vorrebbe dire sgonfiarli e quindi ammettere che quelli attuali sono falsi… anche se, sgonfiare i prezzi delle abitazioni sarebbe l’unica soluzione per far ripartire il mercato, vendere il nuovo già costruito e far fuori l’invenduto. L’economia italiana è crollata, le famiglie sono in crisi, il reddito (dati Istat) è a crescita zero dal 1997 a oggi… se il prezzo delle case non viene allineato alle attuali possibilità degli italiani, e quindi non viene riportato al valore dei redditi degli anni ’90, le case non verranno vendute…L’immobiliare italiano ritorna alla Lira, si venderà solo al prezzo degli anni ’90!
Breglia dichiara che il numero delle nuove abitazioni ogni anno dipenderà dall’invenduto dell’anno precedente… se ho tanto invenduto, costruirò di meno… Partiamo dai dati presentati: se l’invenduto fosse pari a 40mila abitazioni, vuol dire che delle 40mila ipotizzate ne realizzerò zero… il nuovo sarà zero… i costruttori saranno felici…
la Repubblica ed. Milano
Quanti saremo fra vent'anni
di Alessia Gallione
All’inizio era la Milano da 2 milioni di abitanti. Un sogno ambizioso, quello immaginato a Palazzo Marino. Dopo l’esodo verso l’hinterland, oltre i confini di una città sempre più piccola e cara. Talmente ambizioso da essere subito ridimensionato. Eppure, il Pgt che disegna la città del 2030, continua a crederci nella "Grande Milano": potrà crescere fino a 1.787.637 abitanti: 500mila in più rispetto a oggi.
È per loro, per i nuovi "milanesi per scelta" su cui punta il Pgt, che dovranno essere costruite le nuove case. Abitazioni per giovani coppie e per chi un’abitazione ai prezzi di mercato non se la può permettere: questa è l’ambizione del Piano. Proprio coloro che, in passato, da Milano sono fuggiti. Sugli ex scali ferroviari, al posto delle caserme e delle aree dismesse: sono oltre 6 milioni di metri quadrati le nuove costruzioni disegnate - in teoria - soltanto nei nuovi quartieri. Ma a quel sogno di far tornare a crescere la città, non tutti ci credono. A dispetto delle ottimistiche previsioni del Comune, a leggere i dati dello studio di Scenari Immobilari, l’asticella andrebbe fermata molto prima. Nei prossimi vent’anni la rivoluzione del Pgt non creerà 500mila milanesi come sostiene il piano. Al massimo, è la previsione del presidente Mario Breglia, l’impatto che le regole urbanistiche avranno sulla popolazione porterà a un incremento di 111.000 abitanti. E nel 2030, Milano sarà una città da 1 milione e 400mila abitanti. «Purché ci siano i servizi», è l’avvertimento.
Per iniziare a capirlo, quanto sarà davvero grande Milano, bisogna guardare ai dati dell’anagrafe. Eravamo 1.256.000 nel 2001; siamo poco più di 1.300.000 nel 2010. Un saldo positivo di 50mila abitanti, ottenuto soprattutto grazie agli stranieri. Breglia ha analizzato i motivi che spingono a uscire dalla città: l’inquinamento, il traffico, le poche infrastrutture, i prezzi elevati delle abitazioni. E su quest’ultimo punto, il Pgt non darebbe risposte certe. Bisognerebbe seguire l’esempio di Londra «che ha varato un piano di edilizia per chi lavora in città: i pompieri, le infermiere, i vigili. È a loro che dovremmo pensare». Eppure Carlo Masseroli ci crede nell’opportunità di costruirle, queste case per le fasce medie: «Se c’è un numero certo nel Piano - dice - sono le 30mila abitazioni in housing sociale». Del resto, ovvero di quanti saremo nel 2030, sostiene di non volerne sentir parlare: «Non mi interessa: quello sui numeri è un approccio vecchio. Non si può disegnare il futuro contando gli abitanti e quello del Pgt è uno strumento nuovo. A me interessa che chi viene a vivere a Milano lo faccia per scelta». Milano, è uno degli slogan del Pgt, diventa grande quanto vuole e può essere grande. Tutto lasciato alla "libertà" del mercato e dei privati.
E, allora, quanti saremo nel 2030? Il demografo della Bicocca Giancarlo Blangiardo crede che sia più realistica la stima a 1 milione e 400mila abitanti. «Se dovessimo essere ottimisti non avremo più di 100mila abitanti. Milano sta resistendo faticosamente a mantenersi attorno al milione e 300mila per effetto della componente immigratoria. Il capoluogo, però, ha già iniziato a perdere un po’ della sua attrattiva iniziale per gli stranieri rispetto alla regione: ormai ci sono province come Mantova e Cremona, che crescono più velocemente». Anche secondo Blangiardo, «una delle grandi scommesse sarebbe mantenere il proprio patrimonio di giovani, che quando escono dal nido vanno dove la vita è accessibile».
Anche per il geografo del Politecnico, Matteo Bolocan, «è già molto se il Pgt riuscirà a tenere per qualche anno lo stesso ritmo degli ultimi tempi. Ci sono tendenze fisiologiche di queste città - dice - che le politiche pubbliche possono provare a intercettare e pilotare ma non a determinare. Non si dovrebbe, poi, costruire di più e tanto, ma bisognerebbe farlo per fasce specifiche di popolazione». Bolocan guarda oltre i confini cittadini: «Mi interessa poco se la città centrale recupera abitanti - dice - ma se la regione urbana milanese recupera in efficienza e qualità della vita». Per il docente del Politecnico, insomma, Milano continuerà a essere vissuta ancora molto dai "city user".
Gaetano Lisciandra, architetto e vice presidente di InArch Lombardia, ha studiato i numeri del Pgt: «Gli interventi già in corso realizzeranno case per 95.000 abitanti; a questi si aggiungono quelli dei nuovi quartieri e delle volometrie generate dal Pgt per un totale di 262mila abitanti in più. Manca però buona parte della città». Eppure Lisciandra nutre «qualche legittima preoccupazione sulla reale possibilità che le previsioni insediative del Pgt possano davvero attuarsi». Il motivo? «Perché i meccanismi - spiega - sono in molti casi volontari. A cominciare dallo scambio delle volumetrie». E poi ci sono i servizi: mancano 9 miliardi di euro. Anche questo conterà per capire quanti nuovi milanesi saremo in grado di creare: «Perché la gente - conclude l’architetto - verrà a vivere qui se la città sarà attraente e darà lavoro».
Vezio De Lucia nel suo scritto molto opportunamente solleva la questione se la vittoria di candidati non sponsorizzati dalle segreterie dei partiti maggiori nelle primarie di coalizione del centro-sinistra, tra cui in particolare quella di Pisapia a Milano, possa aprire una riflessione anche sulla lunga stagione di acquiescenza di quei partiti alle politiche di deregolazione del controllo dell’assetto urbano, affermatasi sempre più estesamente con lo strumento dei PII. Confesso di essere non poco titubante a rispondere in senso affermativo. Cerco di argomentare il perché.
I Programmi Integrati di Intervento:
un ritorno alle “convenzioni” contro il PRG
nate in Lombardia e applicate ovunque
Dal 1992 in poi, col progressivo diffondersi di una sempre più estesa deregulation di ogni progetto complessivo di città, le grandi trasformazioni urbane indotte dall’attuale cambiamento del modello produttivo, attuate in un’ottica di sommatoria di singole opportunità di valorizzazione aziendale hanno di nuovo prodotto e via via continuano sempre più estesamente a produrre effetti molto più simili a quelle degli anni ’50-’60 dalle “convenzioni” fuori PRG, che non a quelle pensate e in parte prodotte dalla Legge del ’42 e dalla Legge Ponte nel periodo 1967-1992.
Si tratta, nel complesso, di una tendenza – precocemente praticata dalla Lombardia (Leggi Verga e Adamoli), ma poi generalizzatasi a livello di legislazioni regionali e nazionale - che alimenta una sostanziale sfiducia negli esiti prodotti dall’applicazione delle norme sui rapporti tra densità edificatorie e spazi pubblici, faticosamente conquistate fra il 1967-’68 (Legge Ponte e DM sugli standard) e il 1977 (prime leggi regionali di Lombardia, Piemonte, Emilia, Liguria, Toscana e, infine, Legge Bucalossi sul regime dei suoli).
I Programmi Integrati di Intervento (PII), che costituiscono l’estensione a livello nazionale di quelle esperienze, col tempo sono andati diffondendosi sino a divenire il principale strumento d’intervento soprattutto nelle trasformazioni urbane più significative e consistenti (ma spesso anche in quelle relativamente più minute e diffuse), non solo perché potevano prescindere dalle previsioni di un determinato PRG sulla base di occasionali convenienze attuative di proprietà fondiaria e operatori immobiliari e spesso di occasionali maggioranze politico-amministrative disposte ad approvarle, ma soprattutto perché si andava affermando che – trattandosi di strumenti negoziali – essi potevano prescindere anche dai limiti normativi imposti a PRG e relativi strumenti attuativi dal DM n. 1444/68.
Tale deriva interpretativa è stata facilitata dall’introduzione nelle legislazioni regionali del concetto di standard qualitativo che, prevedendo un’equivalenza tra la cessioni di minori aree pubbliche rispetto a quelle del PRG (o addirittura rispetto a quelle minime di leggi regionali e DM nazionale) in cambio della realizzazione di opere pubbliche di maggior valore rispetto a quelle degli oneri urbanizzativi di base, rendono quanto mai aleatoria e discrezionale la valutazione della effettiva convenienza pubblica al mutamento di previsione urbanistica rispetto a quella prescritta in precedenza dal PRG per quell’area e per destinazioni analoghe a quelle propostevi.
Solo recentemente, a fronte di ricorsi di cittadini che si ritengono danneggiati da tali previsioni abnormi, i TAR hanno cominciato a sentenziare circa l’inderogabilità delle norme nazionali del DM in tema di densità edificatorie, altezze massime, distanze tra edifici e dotazioni pubbliche minime da parte di normative e piani attuativi regionali e comunali in tema di PII, sopralzi e usi di sottotetti, ampliamenti in deroga normativa a scopo di rilancio economico dell’edilizia.
E’ desolante, tuttavia, constatare che ciò possa avvenire solo come conflitto tra interessi privati contrapposti, come è tipico dei ricorsi al TAR, dove viene rigettata come legittimamente improponibile qualunque istanza di carattere generale e collettiva.
Lo scambio ineguale tra liberismo pubblico e virtù privata:
il progetto pubblico di città soppiantato
dal risparmio energetico-ambientale degli edifici
L’urbanistica, dopo essere stata al centro di grandi aspettative e rivendicazioni sociali negli anni Sessanta-Ottanta, negli ultimi decenni non gode ormai più di buona fama in un periodo di difficoltà finanziarie e di rapidità di mutamenti economico-produttivi e il suo posto nell’immaginario sociale collettivo dell’aspettativa di un futuro migliore è stato preso dall’ambientalismo ecologista.
Eppure il rischio è che anche questo si riveli alla fine un obiettivo illusorio e succube del neoliberismo economico, oggi prevalente, che ritiene un lusso insostenibile mantenere le regole di un progetto di territorio e città, pubblicamente individuato e condiviso, che è stato il pensiero fondante dell’urbanistica. Accettarne la progressiva demolizione a fronte della promessa di edifici “intelligenti”, “verdi”, “energeticamente autosufficienti”, in uno scambio ineguale tra liberismo pubblico e virtù privata, credo sarebbe la resa ad un “pensiero unico” di privatismo cui è colpevole rassegnarsi
Per quanto le pubbliche amministrazioni possano, caso per caso, contrattare alcune contropartite di utilità sociale, in assenza di un bilancio di sostenibilità urbana e ambientale complessiva, si finisce comunque per entrare in un gioco truccato a saldo finale in perdita dal punto di vista dell’utilità sociale e della sostenibilità ambientale, che finisce per produrre effetti esiziali, anche se probabilmente non necessariamente di nuovo e soltanto nella forma - come fu nel 1966 - di una frana edilizia, ma piuttosto con lo slittamento del Paese nella gerarchia produttiva e contestualmente col crollo della vivibilità sociale ed ecologica delle nostre città e dell’ambiente. C’è solo da augurarsi che non debbano solo essere tragicamente gli episodi d’intolleranza sociale o gli eventi catastrofici, che pure sempre più frequentemente si susseguono, a far sì che ci se ne debba render conto.
In campo di governo della città e del territorio, infatti, ci muoviamo ormai da tempo in una situazione che potremmo descrivere come analoga a quanto in questo periodo si cerca di attuare nei confronti dello Statuto dei Lavoratori e del contratto collettivo: cioè, ridurre ogni rapporto (in questo caso non tra lavoratore e azienda, ma tra Ente locale e trasformazioni urbane) ad un caso a sé, senza alcun criterio generale con cui operare il confronto e la trattativa nel definire l’interesse collettivo e generale da perseguire.
Una nuova “Milano da bere”:
dallo stilismo della moda
allo stilismo immobiliare delle “archistar”
A Milano, in particolare, questa stagione di allegre contrattazioni sull’orlo del baratro e senza alcun progetto generale di città ha inteso nobilitarsi dandosi il nome di Nuovo Rinascimento Urbano. La denominazione appare quanto mai appropriata, se s’intende con ciò sottolinearne il carattere di decisioni élitariamente garantite dal placet del “principe” istituzionale (formalmente di volta in volta il Sindaco pro-tempore, - Marco Formentini, Gabriele Albertini, oggi Letizia Moratti - benché, dietro la loro immagine, l’assessorato all’urbanistica sia sempre stato saldamente in mani CL) sotto l’influsso della capacità massmediatica dei progettisti di fama ingaggiati di volta in volta dai promotori immobiliari per lubrificare con fantasmagorie inusitate l’inflazione delle volumetrie edificatorie progettate senza adeguate dotazioni di verde e servizi pubblici. E’ lecito, quindi, dubitare che si tratti di prìncipi ed artisti altrettanto “illuminati” quanto quelli rinascimentali, quando comunque si poteva essere “grandi” nelle ambizioni e talvolta anche negli errori, senza con ciò provocare catastrofi irreversibili.
Senza consapevolezza della necessità di tornare ad un progetto generale del “bene comune città” è inevitabile che ogni tentativo di discutere collettivamente limiti ed indirizzi ai criteri di riutilizzo di queste aree sulla base di interessi generali degli utenti delle città venga bollato come un’indebita intromissione nelle “magnifiche sorti e progressive” che le forze economiche e finanziarie – col benevolo consenso di amministrazioni pubbliche sempre più condizionate dall’immediatezza delle ristrettezze di bilancio - pretendono di interpretare egemonicamente nella trasformazione delle città, e per la quale ritengono propria legittima prerogativa proporre quantità e funzioni secondo una valutazione delle opportunità di mercato di volta in volta ritenute attendibili dalle proprie aspettative aziendali.
Ciò consente loro di pretendere non solo una docile adattabilità delle decisioni pubbliche alle eventuali fluttuazioni di stima di quelle quantità e funzioni, ma anche quella di fornirne una conformazione progettuale e di immagine che, ovviamente, nella loro visione attiene piuttosto al carattere della riconoscibilità del marchio aziendale o del logo pubblicitario, che non a quello dei caratteri insediativi o della tradizione culturale del contesto o della città in cui si colloca l’intervento. In questo, occorre dirlo, supportate dal pervasivo diffondersi di una cultura progettuale veicolata in campo urbanistico-architettonico dall’ambito mass-mediatico e più affine al mondo della novità effimera della moda e del design che non all’individuazione di tendenze stabili e durature, che meglio si confanno a fenomeni di lunga durata come sono quelli di costruzione della città e dell’ambiente. Insomma bisognerebbe riflettere se non sia giunto il momento di promuovere un’estensione delle rivendicazioni no logo anche al campo delle manifestazioni della creatività architettonica e urbanistica !
Gli esiti morfo-tipologici dei casi milanesi più noti e rilevanti (Citylife, Garibaldi-Repubblica) sono stati giustificati dall’Amministrazione comunale sia per l’eccezionalità simbolica loro attribuita (il Rinascimento Urbano), sia per sancire che negli strumenti di programmazione negoziata vige l’insindacabilità degli esiti delle trattative “politiche”, anche in deroga alle norme strappate negli anni Sessanta-Settanta all’approvazione del Centro-sinistra storico (limiti massimi di densità fondiaria, di distanza e di altezza, limiti minimi di aree pubbliche), sinora ritenute inderogabili anche da PII e Accordi di Programma . Invece, essi sono stati fortemente contestati sia dalla cultura urbanistico-progettuale sia dall’opinione pubblica per la forte disomogeneità con il tessuto urbano circostante e l’incongrua distribuzione dei pochi spazi pubblici racchiusi tra altissime edificazioni.
I grattacieli sghembi o il “verde verticale”, bizzarramente teorizzato e praticato dallo stesso Boeri come surrogato degli spazi pubblici mancanti, sono stati oggetto non solo dei lazzi dei comici e degli anchormen delle televisioni pubbliche e private, ma persino delle critiche dello stesso Berlusconi e della rivista del suo consigliere culturale Dell’Utri, sia pure in nome di uno spirito di preservazione della tradizione espressiva locale e nazionale, ambiguamente contraddittorio con l’altrove decantato liberismo economico nell’uso immobiliare della città .
Il diffondersi dell’insoddisfazione e della vera e propria protesta popolare di fronte agli esiti delle prime trasformazioni in corso d’attuazione a Milano (ex Fiera, Isola, Garibaldi-Repubblica) e le preoccupazioni per l’annunciato riproporsi di quel metodo sulle ancor più vaste aree (ex scali ferroviari in dismissione: Farini-Romana-,Vittoria-Greco-S. Cristoforo; Expo 2015, ex caserme, aree a margine dei grandi Parchi urbani: Parco Sud, Parco Groane; ecc.) sono in parte stati alla base del rifiuto ad avallare la scelta del PD verso la candidatura di Boeri ed è forse l’argomento più palese per pretendere che anche tra i fautori di quanto sinora attuato si avvii una riflessione sulla necessità di mutare radicalmente il modo di affrontare un tema di portata così vasta e collettiva.
Senza voler rinfocolare le polemiche in corso su quelle due aree e sui motivi del trattamento di favore loro riservato, è tuttavia evidente che esso non potrà essere riproposto sull’intera estensione delle aree degli scali ferroviari in dismissione (1.340.000 mq, più di cinque volte l’area dell’ex Fiera!), né su quello delle aree destinate ad Expò per sei-sette mesi nel 2015 (circa 1 milione di mq) senza mettere in discussione la sostenibilità ambientale dell’assetto insediativo.
Occasione per dare impulso ad un disegno complessivo e largamente condiviso di sostenibilità insediativa nel lungo periodo (imposto anche dalla direttiva europea sulla Valutazione Ambientale Strategica) o ennesimo cedimento al pervasivo diffondersi di una cultura amministrativa e progettuale dell’occasionalità, improntata più al carattere della riconoscibilità del marchio aziendale o del logo pubblicitario, che non a quello dei caratteri insediativi e culturali del contesto urbano, mutuata dall’ambito mass-mediatico, più affine al mondo della novità effimera della moda e del design che non ai fenomeni di lunga durata della conformazione urbana e assunta acriticamente da pubblici amministratori inclini (tanto a destra, quanto a sinistra) alla politica-spettacolo ?
In particolare nel caso milanese, se non si vuole ridurre la discussione sulla morfologia urbana che si vuol ottenere a mero pettegolezzo sulle personali preferenze estetiche di questo o quel pubblico amministratore o uomo politico, di questo o di quell’architetto di grido (come già avvenuto non senza contrasti anche trasversali agli schieramenti politici nel caso dell’ex Fiera e di Garibaldi-Repubblica), occorre, che il potenziale espresso dal riuso di quelle aree si indirizzi fuori da quell’effimera temperie di iniziative progettuali che producono una frammentata congerie edifici dalle variegate figure organiche sparse quasi non noncuranza, al limite della casualità dell’objet trouvé, in un pot pourri che vorrebbe alla fine dare soddisfazione a tutti i palati, sia nel campo delle aspettative di commesse professionali che in quello della pubblica opinione. Una rassicurante miscela tra l’effimera inusualità formale e un’aura di internazionalismo mondano che evoca il clima di compiaciuta autocelebrazione della “Milano da bere” poco prima del suo tracollo in Tangentopoli.
Il PGT di Milano:
Un consumo di suolo
quadruplo che in Germania
Molti articoli di stampa hanno commentato in maniera un po’ scontata e convenzionale che il Piano di Governo del Territorio (PGT) in corso di approvazione a Milano in base alla Legge regionale del 2005 ne segnerà il destino urbanistico per i prossimi venti-trent’anni (ma, per vero, del tutto analogamente in quasi tutti i comuni dell’hinterland, compresi quelli tuttora amministrati dal centro-sinistra, come Sesto San Giovanni e Cinisello a nord o San Giuliano a sud): i giornali non si sono resi conto, tuttavia, di accreditare con ciò una verità paradossale. Infatti, con una scelta per vero discutibile e assai probabilmente illegittima, la legge urbanistica regionale del 2005 ha deciso di utilizzare in Lombardia solo una pianificazione urbanistica di durata quinquennale, senza più alcun orizzonte strategico di medio-lungo periodo, e quindi le previsioni del PGT di Milano cesseranno di avere effetto verso il 2016, giusto all’indomani del mitizzato evento di Expo.
Ciò nonostante le quantità edificatorie messe in gioco corrispondono effettivamente ad un ritmo di crescita che è dell’ordine di tre-quattro volte quello ritenuto sostenibile da realtà socio-economiche ben più solide e strutturate di quella italiana, anche se per qualche verso comparabili con quella lombarda, come quella della Repubblica Federale Tedesca, la quale ha imposto alle proprie amministrazioni locali previsioni urbanizzative con un consumo massimo di suolo di 1,34 mq/abitante/anno (cioè 30 ettari l’anno per l’intera RFT). Se applicassimo quel parametro alla situazione milanese, il PGT dovrebbe consentire la nuova urbanizzazione di 8-9 milioni di mq, mentre ne prevede invece quasi 32 milioni di metri quadri. Vale a dire, appunto, un consumo urbanizzativo di suolo che la Germania riterrebbe sostenibile in un orizzonte temporale di venti-venticinque anni.
Su quelle aree alla densità geografico-urbanizzativa attualmente in atto a Milano (comprendendo cioè il consumo di suolo per reti infrastrutturali e attrezzature generali), che è di oltre 90 mq/abitante e che, come constatiamo quotidianamente, produce una qualità di vita assai congestionata, si può stimare una nuova quantità edificatoria dai 10 ai 17 milioni di metri quadri di superficie lorda abitabile (intesa in senso lato, ossia comprendendovi sia le funzioni residenziali che terziarie), a seconda dell’indice di affollamento stimato (un abitante/utente ogni 30 o 50 mq abitabili). Gli stessi dati del PGT (in genere piuttosto propensi alla sottovalutazione) stimano una quantità abitabile di nuova realizzazione di 12-13,5 milioni di metri quadri.
E’ assai interessante rilevare, inoltre, che l’ulteriore residua superficie di suolo ancora urbanizzabile dopo quella messa in gioco dal PGT è di altri 8 milioni di metri quadri: cioè, dopo questo PGT ci resta nuovo suolo urbanizzabile solo per un altro PGT, ma se in fatto di consumo di suolo ci acconciamo a comportarci come la prudente Germania.
A queste quantità edificatorie vanno aggiunte le nuove edificazioni negli ambiti già urbanizzati che, come dimostrano alcune simulazioni recentemente illustrate all’Ordine degli Architetti di Milano, con densità edificatorie ammesse superiori ai 7 mc/mq, alcuni stimano possano produrre altri 12 milioni di metri quadri edificatori abitabili. E’ assai difficile credere che tutte queste quantità possano davvero realizzarsi nel prossimo quinquennio, anche in considerazione delle iniziative immobiliari già in atto e della difficile situazione economico-finanziaria.
I nostalgici del sovradimensionamento
scorazzano nella prateria delle iniziative immobiliari
In realtà ciò che il PGT prefigura è una vasta prateria di iniziative immobiliari nella quale la finanza possa scorrazzare acquisendo diritti edificatori virtuali (dei veri e propri futures speculativi, cui possono accedere solo banche e finanziarie che abbiano una dimensione economica in grado di attendere nel medio-lungo periodo la ripresa dei mercati, come dimostrano le recenti estromissioni degli immobiliaristi più tradizionali alla Zunino e Ligresti dalle più rilevanti iniziative immobiliari in corso), e che, con il meccanismo dei cosiddetti scambi perequativi, non si sa dove, come e quando si consolideranno in forme insediative.
Ma al Comune questo sembra non importare gran che: l’importante è far girare il business. In fondo è quello che già era accaduto con il sovradimensionamento dei PRG negli anni Cinquanta-Sessanta, e per alcuni la nostalgia sembra davvero irrefrenabile, se si è avuto il coraggio di rievocare, rivalutandolo, il cosiddetto “rito ambrosiano”, tempo addietro simbolo di pratiche consociative deteriori tra amministratori pubblici e interessi speculativi. Basti dire che per garantire l’attuale livello della rendita fondiaria (900-1.200 Euro/mq abitativo realizzabile) basterebbe un indice edificatorio di 0,40 mq/mq ad uso privato, mentre il PGT promuove senza alcuna contropartita usi edificatori privati di 0,65 mq/mq, cui si aggiungono le quantità edificatorie per l’edilizia sociale e per la premialità ambientale, sino a spingere la densità edificatoria a superare 1 mq/mq (di nuovo anche in questo aspetto del tutto indifferentemente tra amministrazioni di centro-destra o di centro-sinistra e nel capoluogo milanese o nei grandi comuni dell’hinterland).
Invertire questa tendenza sarebbe possibile proprio a partire dalla risorsa strategica rappresentata dalle grandi proprietà pubbliche istituzionali di aree destinate alle trasformazioni urbane (gli ex scali ferroviari, le ex caserme, ecc.), se il Comune, anziché incentivarne l’omologazione al comportamento degli speculatori immobiliari nella ricerca della massimizzazione delle rendite, subordinasse la sottoscrizione degli accordi di programma con queste proprietà all’impegno da parte loro ad attuare un meccanismo di alienazione dei propri patrimoni fondiari con il criterio del ribasso sulla quota di edificazione privata e conseguentemente con la crescita della quota di edilizia sociale, ferma restandone l’edificabilità totale ammessa. In tal modo si potrebbe sia stabilizzarne il livello della rendita fondiaria attorno ai valori attuali sia massimizzarne l’utilità sociale.
Purtroppo è esattamente il contrario di ciò che i Comuni amano fare quando sono condizionati dal dover far fronte a necessità immediate cui non sono più in grado di rispondere con le ordinarie risorse di bilancio: si accetta l’omologazione del comportamento di queste proprietà istituzionali a quello degli immobiliaristi, alla sola condizione che le rendite fondiarie vengano totalmente o parzialmente reinvestite in ambito locale, non importa se in un orizzonte di investimenti infrastrutturali di lungo periodo o, come per lo più accade, anche solo in modo congiunturale. In questo modo si finisce per incentivarne lo sviamento di comportamento persino quando si tratta di enti, quali FS, che per compito istituzionale e funzionalità aziendale dovrebbero indirizzare prioritariamente i propri investimenti a sostenere gli obiettivi di riequilibrio territoriale di area vasta e di lungo periodo. I proventi derivanti dalla rendita fondiaria delle trasformazioni urbane più rilevanti, anche se milanesi, dovrebbero infatti essere indirizzati prioritariamente al finanziamento dei collegamenti infrastrutturali a livello regionale, interregionale e internazionale, quali le tratte italiane di collegamento su ferro da Milano al progetto svizzero AlpTransit/NTFA, via traforo del San Gottardo, o, a livello interregionale, la Gronda ferroviaria Novara-Malpensa-Seregno-Verdello-Orio al Serio. Gli investimenti sul nodo ferroviario di Milano verrebbero così indirizzati a sistema con i centri di interscambio delle merci e le nuove polarità intermedie dell’area padana, anziché finire per surrogare le carenze di investimento dei bilanci municipali, provinciali e regionali nel far fronte ai costi dei movimenti pendolari sul capoluogo milanese, il cui ruolo di dominanza finisce per esserne confermato ed anzi esaltato.
D’altra parte, anche rimanendo in ambito municipale, l’assoluta illogicità urbanistica di attribuire gli indici edificatori in base alle crescenti aspettative di rendita delle proprietà fondiarie nel medio-lungo periodo (e che come si è detto potranno essere incamerate solo da grandi investitori finanziari) si evidenzia nel fatto che con l’indice di edificabilità territoriale di 1 mq/mq non solo nei singoli piani attuativi non è possibile realizzare le aree pubbliche per 17,5 mq/abitante di parchi pubblici e grandi servizi prescritti dalla legislazione nazionale , ma persino i servizi propri di quartiere sono inferiori al minimo di 18 mq/abitanti sempre fissati dalla legislazione nazionale nel mitico 1968 e mai abrogata.
La legge urbanistica della Lombardia:
un regressivo protofederalismo urbanistico
La legge regionale lombarda del 2005, in una sorta di empito anticipatorio di un regressivo protofederalismo in campo urbanistico , proclama che con l’approvazione dei nuovi strumenti urbanistici quinquennali inventati in Lombardia (i PGT) si disapplicherà l’odiato Decreto ministeriale del 1968. Tuttavia, ogni qual volta i cittadini hanno l’accortezza e la forza di impugnarli di fronte ai Tribunali Amministrativi, le sentenze ribadiscono che questo non è assolutamente legittimo, in assenza di un quadro di sostenibilità dell’assetto insediativo finale cui essi metteranno capo.
Per confondere le acque il Comune di Milano va sbandierando il fatto che nei PII ai privati si chiede la cessione ad uso pubblico del 50% delle aree di intervento, e tende surrettiziamente a presentare questa richiesta (in realtà del tutto immotivata dal punto di vista logico) come una sorta di equispartizione mezzadrile tra interesse pubblico e privato, mentre è possibile dimostrare che anche solo per garantire le dotazioni pubbliche minime di quartiere e quelle per parchi e servizi territoriali generali (da 35,5 a 44 mq/abitante, a seconda che quelle di quartiere siano le minime del 1968 o quelle maggiorate dalle regioni), persino con l’indice 0,65 mq/mq occorre oltre il 67% dell’area da destinare ad uso pubblico. Come ho già detto, con l’indice di 1 mq/mq è, invece, addirittura fisicamente impossibile realizzare tutti gli spazi pubblici richiesti e contemporaneamente farci stare gli edifici se la maggior parte delle aree pubbliche non viene monetizzata e non si aggirano i vincoli di altezza e distanza tra gli edifici privati.
E’ questo, infatti, l’altro vincolo che con la disapplicazione da parte della legge regionale lombarda del Decreto ministeriale del 1968 ci si propone di aggirare, poiché con densità edificatorie così elevate è spesso comunque fisicamente difficile farci stare tutte le volumetrie se non facendole salire molto in altezza e accostando molto gli edifici tra loro. Il Decreto ministeriale, invece, pur con la macchinosa rigidità di meccanismo normativo che talvolta gli è stato rimproverato, impone un obbligo di semplice ma grande sensatezza: se si interviene con un piano urbanistico attuativo che realizza tutti gli spazi pubblici richiesti, il progetto può liberamente proporre altezze e distanze degli edifici secondo un proprio autonomo criterio insediativo; se invece le densità sono talmente elevate da non consentire di realizzare tutti gli spazi pubblici richiesti e occorre monetizzarne una parte rilevante (e quindi il progetto urbanistico non è autonormato, ma si impianta sulle condizione urbane contestuali) il decreto impone, oltre a limiti massimi di densità fondiaria, che gli edifici rispettino le altezze massime degli edifici preesistenti e circostanti ed abbiano distanze pari almeno alla propria altezza.
Un obbligo odioso ed intollerabile per le fantasie da archistar cui fanno ricorso i promotori immobiliar-finanziari del Rinascimento Urbano, ma che rischia soprattutto di mandare in fumo tutte le lucrose architetture finanziarie che si celano dietro l’incremento degli indici edificatori. Un obbligo che, ovviamente, è invece visto come l’ultima ancora di salvezza da parte dei cittadini che si trovano malauguratamente a vivere letteralmente all’ombra di quei mastodonti che la deregulation normativa consentirebbe; ad esempio, nel progetto Citylife (Ras, Generali, Deutsche Bank, Ligresti) sull’area dimessa dalla vecchia Fiera – indice edificatorio 1,15 mq/mq, 50% di area pubblica - gli edifici sul margine sono alti tre volte quelli circostanti e le tre torri centrali (alte il doppio dei grattacieli più alti della città, simbolicamente rappresentati dal mitico Pirelli degli anni Sessanta, ora sede del Consiglio regionale e dal nuovo Palazzo del Governatore recentemente voluto da Formigoni) in inverno oscureranno molti edifici circostanti per l’intera giornata.
Per l’assessore all’urbanistica del Comune di Milano, il CL Masseroli, tuttavia, tutto questo non è un problema (soprattutto nel caso dell’area dell’ex Fiera perché il venditore dell’area, che ha realizzato il doppio della base d’asta proposta, era Fondazione Fiera, sino a poco tempo fa completamente egemonizzata da CL a partire dal Presidente Roth e giù per li rami di Fiera Congressi, Fiera Esposizioni dai vari Lupi, Intiglietta e Compagnia delle Opere cantante), perché, come spiega l’assessore, se gli edifici crescono in altezza, attorno rimane comunque dello spazio libero. Che il peso insediativo e addirittura l’ingombro fisico sia abnorme non lo preoccupa affatto: è come se ci spiegasse che la sera nelle discoteche alla moda della “Milano da bere” può non esserci alcun limite alla quantità di alcolici che si può ingerire, purché la si beva in bicchieri alti e stretti!
Il problema, come ho spiegato, è che non si vuol intaccare la possibilità di attribuire ai privati l’intera densità edificatoria di 0,65 mq/mq, che è la massima ragionevolmente ammissibile per ottenere un insediamento urbanisticamente ed ambientalmente sostenibile, devolvendola invece interamente all’accresciuta aspettativa della rendita immobiliar-finanziaria, salvo poi dovere e volere incrementare ulteriormente l’edificabilità totale per riconoscere delle premialità all’accresciuta sensibilità verso il risparmio energetico degli edifici o far fronte alle esigenze di housing sociale, su cui si appuntano gli appetiti delle sussidiarietà dei più svariati orientamenti politico-sociali. Chi ne fa le spese è il carico insediativo sul territorio, i cui effetti negativi si misurano solo su un orizzonte temporale di lungo periodo, cui la politica amministrativa degli enti locali non è interessata né dal punto di vista degli interlocutori né da quello dei risultati.
Tuttavia tutti questi provvedimenti dal punto di vista della conquista di un consenso di massa hanno avuto il limite di tornare utili quasi esclusivamente alle aspettative delle grandi e medie proprietà fondiarie, quali quelle delle aree dimesse e dei PII. Questo avviene nonostante la Regione Lombardia abbia da tempo provveduto a introdurre la possibilità di trasformare ad uso abitativo e in deroga agli indici edificatori prescritti dagli strumenti urbanistici non solo i sottotetti degli edifici già esistenti da tempo, ma anche quelli degli edifici di nuova progettazione (anche se per questi ultimi, un po farisaicamente e al fine di evitare il rischio di impugnazione per mancato rispetto degli indici edificatori che vengono violati, solo dopo un periodo di “invecchiamento” di cinque anni dalla avvenuta realizzazione dell’immobile cui appartengono.
Molte sono state le proteste degli ambienti più sensibili alla qualità storico-estetica dell’immagine urbana per le aberranti e invadenti incombenze visive delle sopraelevazioni che sono andate dilagando per l’intera città. Sta di fatto che questa liberalizzazione è stata diffusamente applicata per la trasformazione d’uso dei sottotetti condominiali, ma ben poco nelle piccole e piccolissime proprietà delle casette mono-bifamiliari dell’hinterland, sia nella versione spartana delle “coree” degli Anni Cinquanta sia in quella più agiata degli Anni Sessanta-Settanta del “boom” economico.
Su questo aspetto sono, quindi, intervenute più di recente le disposizioni recepite dal cosiddetto “Piano Casa” che consentono incrementi volumetrici da 300 a 600 metri cubi per gli edifici mono e bifamiliari e sino a 1000 metri cubi per quelli plurifamiliari (in pratica da uno a tre nuovi alloggi in più) e sino al 40% in più (senza limiti volumetrici complessivi e anche con la costruzione di nuovi edifici) per gli insediamenti di edilizia economica popolare. Anche nei centri storici (e salvo il parere discrezionale di una commissione ad hoc), la demolizione e ricostruzione di edifici di più recente costruzione verrebbe premiata con un incremento volumetrico del 30%, a fronte dell’utilizzo di tecniche costruttive a risparmio energetico, che tuttavia non farebbero che aggravarne la dissonanza dal contesto insediativo.
Ciò che si vuol dar ad intendere alla piccola e piccolissima proprietà è che anche loro (nel loro piccolo, s’intende!) e nonostante il degrado urbano in cui vivranno, potranno godere dei vantaggi individuali di cui hanno sinora goduto i grandi interventi mossi dai PII in spregio a qualunque criterio di logica insediativa, ma solo di valorizzazione fondiaria; e, tuttavia, con edifici di assoluta impermeabilità non solo alla dispersione energetica, ma anche all’interazione col contesto urbano. Una vera capsula di sopravvivenza individuale, in qualche modo riproposizione aggiornata all’emergenza socio-ambientale del mito del rifugio antiatomico degli anni Cinquanta-Sessanta! E’ quel che accade nei vari PII Citylife, Porta Nuova, Santa Giulia a Milano, ma anche all’ex Falck di Sesto San Giovanni, che ha un’amministrazione PD-PRC!
E’ necessario, invece, che si confermi il ruolo di indirizzo pubblico promosso dall’ente comunale, non più succube di progetti che celano dietro l’effimera novità di immagine, la più torva predominanza della rendita fondiaria elevata a sistema dominante, vera stella polare dell’azione dell’attuale amministrazione comunale.
Una perequazione non liberistica,
ma progettualmente e socialmente orientata
Ciò è possibile spalmando le aspettative di rendita immobiliare della proprietà sull’ampia platea di aree messe in campo dal PGT in corso, usandone i meccanismi perequativi non nel senso di un indistinto liberismo insediativo, come va pontificando l’assessore all’urbanistica Masseroli , ma proprio per riservare alcune aree a funzioni pubbliche di indirizzo strategico.
Occorre, quindi, riprendere una consolidata tradizione progettuale dell’urbanistica progressista imprimendo un deciso orientamento pubblico ai progetti lungo la direttrice di Nord-Ovest da quelle destinate ad EXPO, a Nuova Bovisa, all’ ex Scalo Farini e, per quanto ancora possibile, all’ex Fiera-Citylife e Garibaldi-Repubblica, su cui incombono così numerose, eterogenee ed estemporanee aspettative immobiliari, spesso veicolate da altrettali iniziative progettuali.
Soprattutto sulle aree di Expo è necessario fondare un centro di attività pubbliche permanenti tese all’indirizzo dell’uso appropriato delle risorse agricolo-alimentari, spalmando le aspettative di riuso immobiliare della proprietà sull’ampia platea di aree messe in campo dal PGT in corso, coi meccanismi perequativi tanto cari all’assessore all’urbanistica di Milano, il CL Masseroli. Si darebbe così finalmente seguito concreto alla forse unica ma essenziale, indicazione strategica nella relazione redatta nel 2000 dal prof. Mazza, come premessa al Documento di Indirizzo Urbanistico (D.I.U.) dei Programmi Integrati di Intervento (PII) introdotti dalla legge del 1992: “Un intervento nel settore nord-ovest avrebbe un rilievo strutturale sulla forma della regione urbana…La dimensione dell’area deve essere tale da permettere l’insediamento di uffici e servizi con superfici monopiano a luce diretta ed insieme una parte rilevante di verde e spazi e attrezzature per il tempo libero e sportive. Costruire uno spazio urbano capace di fare concorrenza all’attrattività dei centri storici per qualità monumentale e ambientale. Un’ambizione che dopo tanti disastri dell’urbanistica e dell’architettura moderna può far sorridere, ma è una condizione indispensabile per il successo del progetto.” .
Avrà presente Pisapia tutto ciò (ha parlato poco di urbanistica e ambiente durante la campagna elettorale delle primarie, e più di lui l’hanno fatto Sacerdoti e Onida, sia pure in termini un po’ generici di partecipazione e attenzione all’ambiente e allo svantaggio sociale) ? E soprattutto saprà resistere alle sirene neo-liberiste intonate dalle forze centriste (Tabacci in primis, coi suoi occhi dolci ai vari Albertini, Profumo & Co.) e dallo stesso PD, come condizione per confermargli l’appoggio? Non finirà che a un candidato sindaco particolarmente connotato a sinistra si pretenderà di affiancare una squadra che lo controbilanci in senso moderato, soprattutto in campo edilizio-immobiliare?
Solo dopo aver sciolto questi dubbi, i fumi che avvolgono l’ebbrezza dell’inattesa vittoria potrebbero lasciar intravedere un’alba nuova anche per l’urbanistica milanese!
Niente auguri multietnici in via Padova. Il Comune, dopo aver montato le luminarie natalizie lungo quattro chilometri di strada, le ha fatte togliere prima ancora di accenderle, lasciando sospesi solo quei fili luminosi che riportano l´augurio in italiano. Bandendo quello in inglese, spagnolo, cinese e arabo. Il blitz - deciso un paio di giorni fa dall´assessore all’Arredo urbano Maurizio Cadeo - ha colto di sorpresa il quartiere che ieri è insorto per chiedere il ripristino delle decorazioni. A difendere la strada sono scese in campo tutte le associazioni del territorio, i partiti di opposizione, una parte del consiglio di zona 2 dove il centrosinistra presenterà una mozione contro la decisione del Comune, la Chiesa e perfino la Lega con il capogruppo Matteo Salvini, che dice: «Ogni luce accesa in via Padova è la benvenuta. Male ha fatto Cadeo a rimuovere le luminarie, perdendo denaro e energie che dovrebbero essere impegnate per cose più importanti».
L’installazione di luci lungo via Padova è stata realizzata dall’artigiano Claudio Seghieri - già collaboratore del Comune - ed era stata montata una decina di giorni fa. Due cuori legati insieme da un filo di lampadine su cui si appoggiava la scritta "Auguri": all’ingresso e alla fine della via la parola era scritta in italiano; nella parte centrale si declinava in tutte le lingue del mondo. «Un segnale di accoglienza per le comunità di stranieri che abitano il quartiere» per le associazioni di via. Una deriva verso «i quartieri ghetto» per l’assessore Cadeo che, viste le luminarie, ne ha deciso il ritiro immediato. «L’illuminazione di via Padova - spiega l’assessore - è stata fortemente voluta e pagata dal Comune come segnale di attenzione verso un’importante via di periferia. L’aggiunta delle scritte in diverse lingue è nata dalla richiesta di alcune associazioni all’allestitore di cui non ero a conoscenza». Cadeo sostiene di aver visto un rendering che riportava solo i cuori rossi legati da strisce luminose, e che preferisce «spostare gli auguri in tutte le lingue in una via di accesso alla città, come viale Forlanini».
L’artigiano Seghieri si difende spiegando: «Cadeo mi ha detto di concordare direttamente con le associazioni le luminarie, e così è stato. Quando ho mandato il rendering in Comune gli auguri non c’erano ancora, è vero, serviva tempo per capire come si scriva "buone feste" in cinese o in arabo. Ma mai avrei pensato potessero essere un problema». Secondo Seghieri «l’assessore aveva dato carta bianca alle associazioni e non mi sembrava una richiesta strana. Poi, dopo venti giorni di lavori, è arrivata una telefonata da Palazzo Marino con l’ordine di rimuovere le luminarie per sostituirle con altre solo in italiano». Prima ancora di accendersi, dunque, le luci si sono spente. E Cadeo garantisce che «non torneranno». Anche se il quartiere è già pronto a protestare. Nei prossimi giorni, infatti, le associazioni tappezzeranno la strada con manifesti e striscioni di auguri in tutte le lingue, sabato l’associazione "Cambiamo città, restiamo a Milano" distribuirà volantini.
Critico anche Don Virginio Colmegna, che dice: «Un brutto episodio che mi auguro sia chiuso in fretta». Riflette don Piero Cecchi, della parrocchia di San Giovanni Crisostomo: «Il Papa a Capodanno fa gli auguri in 68 lingue, io battezzo in spagnolo e in inglese, quando benedico le case distribuisco una lettera della diocesi tradotta anche in arabo: esprimersi in tante lingue è segno di larghezza di cuore». Dura anche l’opposizione. Pierfrancesco Majorino, capogruppo del Pd, chiede «auguri multietnici in tutta la città a partire da Palazzo Marino» e il segretario Roberto Cornelli aggiunge: «È l’ennesima occasione sprecata di aprire la nostra città a nuove culture del mondo».
In quasi settantamila per scegliere il candidato del centrosinistra. Uno per designare quello del centrodestra. Nel giorno in cui le primarie incoronano Giuliano Pisapia, Silvio Berlusconi «ufficializza» la candidatura di Letizia Moratti. Eccoli i due candidati e le due coalizioni che si sfideranno a maggio per la poltrona di sindaco. Due metodi completamente opposti. Da un lato «la partecipazione» (al di sotto delle aspettative), la mobilitazione della società civile, dall’altra l’investitura dall’alto, la prosecuzione di un lavoro cominciato nel 2006. Nessun giudizio di valore, anche perché il voto che «conta» è quello delle comunali e fino a ora il centrodestra milanese non è mai mancato agli appuntamenti importanti.
Chi è mancato è stato invece il Pd. L’effetto Vendola ha colpito ancora una volta. Dopo la Puglia è toccato a Milano. L’endorsement dei democratici sull’architetto Boeri si è rivelato un boomerang dalle conseguenze disastrose per i vertici del partito. E anche imponderabili, perché la vittoria di Pisapia, candidato della sinistra che vuole dialogare con i moderati, apre fatalmente uno spazio politico al centro. Che qualcuno cercherà di occupare. Questo nonostante il patto di coalizione siglato dal centrosinistra e i «giuramenti» di totale sostegno al candidato vincente da parte di tutti i partiti.
Apre la porte allo «spettro» che si aggira per Milano e risponde al nome di Terzo Polo condito in salsa meneghina. È la vecchia proposta caldeggiata dal filosofo Massimo Cacciari, voce inascoltata del Pd: un Terzo Polo composto da Fli, Udc, Api con il consenso più o meno tacito del Pd. Ma che sta prendendo sempre più piede, trovando sponda in tanti leader politici del centro. Un «ordigno» in grado di minacciare entrambi gli schieramenti maggiori. Soprattutto se il candidato del Terzo Polo rispondesse al nome dell’ex sindaco, Gabriele Albertini. Una «mina» che centrodestra e centrosinistra dovranno maneggiare con grande cautela se non vorranno trovarsi completamente spiazzati dall’irruzione della terza forza. Pisapia riuscirà a stoppare una possibile diaspora centrista? Il Pd ripenserà alla sua politica?
L’altra faccia della medaglia è che il popolo delle primarie non ha obbedito agli ordini di partito e non ha partecipato in massa. È il segnale di una società civile che, più che aver voglia di tornare protagonista, appare profondamente delusa dalla politica. Un dato che ogni politico con la testa sulle spalle dovrà prendere in considerazione. Perché quello di ieri è solo un «fermo immagine» di una situazione in rapido movimento non solo a Milano, ma a livello nazionale. Se la città vuole tornare a essere «laboratorio» deve fare in fretta. E possibilmente non farsi dettare l’agenda da Roma.
MILANO — «Vede? Quelli sono gli appartamenti progettati da Zaha Hadid. E qui al centro dall’estate vedremo "spuntare" il primo dei tre grattacieli. Li faremo tutti e tre, magari quello di Daniel Libeskind un po’ meno storto. Ma non sarà molto diverso perché le torri sono il simbolo di Citylife». Claudio Artusi, amministratore delegato della società che sta realizzando il progetto urbanistico sull'area delal ex Fiera di Milano, punta il dito verso il cantiere. Difficile immaginare oggi gli alberi, i palazzi, le torri, il museo: separato dal resto della città da un muro nemmeno troppo alto c'è una specie di grande cratere. Dice però Artusi: «Ora Citylife ha azionisti, governance, finanziamenti. la macchina è partita e non si fermerà fino a lavoro concluso».
Però il socio (con opzione di uscita) Ligresti ha detto che l'iniziativa è difficile e vi occorre l'appoggio delle banche.
«L'ingegner Ligresti ha senz'altro un punto di osservazione più ampio del mio. Però Generali e Allianz hanno confermato di restare con aumenti di capitale, acquisendo la quota di Lamaro-Toti e, per quanto riguarda la compagnia triestina, manifestando la volontà di rilevare eventualmente anche quella dello stesso Ligresti. Come capo azienda una maggior affidabilità da parte degli azionisti non potevo immaginarla. E per quanto riguarda le banche, se ci fossero state difficoltà qualche defezione ci sarebbe stata nel pool dei sei istituti che ha invece confermato il contratto di finanziamento da 1,4 miliardi, non crede?».
Lamaro o Ligresti usciranno dal general contractor Tre torri?
«Con Tre torri abbiamo i contratti su due lotti di appartamenti. Sugli altri progetti Citylife si è solo impegnata a chiedere a Tre torri la prima proposta, che non è vincolante. Quindi il "diritto" si ferma alla partecipazione alla gara. Insomma: dell’assetto di Tre torri e di altri general contractor ci premono solo qualità e competitività».
Quanto avete già utilizzato delle risorse a disposizione?
«Finora 550 milioni su 1,4 miliardi e i soci hanno versato 320 milioni, più o meno la metà di quanto si sono impegnati in termini di equity. Su 100 euro 70 provengono dai finanziamenti bancari e 30 dai mezzi propri messi a disposizione dagli azionisti. L’altra risorsa è rappresentata dagli incassi da vendite: più sono, meno devono versare gli azionisti».
La crisi vi ha fatto modificare i piani. Come?
«L’area del progetto è di 366 mila metri quadri, di cui 170 mila dedicati al parco, il terzo in città per dimensioni. Originalmente era previsto che il 55% della cubatura totale fosse residenziale e il 45% destinato a uffici e locali commerciali. Le dinamiche di mercato non sono facili da prevedere, ma abbiamo aumentato la possibile quota riservata agli appartamenti fino al 70%. E stiamo riflettendo se destinare al r esi denziale l a t orre Li beskind».
Timore di uffici sfitti? A Milano non mancano.
«E resteranno sfitti: significa che l’offerta non risponde alle esigenze degli operatori. Noi scommettiamo su Milano e pensiamo ci sarà richiesta di location di "classe A"».
Gli appartamenti quanti saranno? «Più o meno 1.100-1.300». Si parla di prezzi piuttosto alti.
«È tutto trasparente. Finora abbiamo messo in vendita 450 apni di prezzo, secondo la disposizione su strada o su parco e il piano, sono ampie: da 6-6.700 euro fino a 11.500. Criticità nella domanda sono più legate ai timori legati a comprare sulla carta o a trovarsi a vivere con i cantieri ancora aperti, meno al fattore prezzo. La casa è un bene rifugio e in un certo senso crisi e incertezza favoriscono l’investimento.
C’è ancora un ricorso sugli oneri da versare al Comune.
«Sì, "ballano" 18 milioni. Citylife deve versare al Comune, fra opere e denaro, circa 220 milioni. I principali contributi in opere sono 25 milioni per la Metro 5,16 per il parco pubblico; in denaro 45 milioni per il museo di arte contemporanea, 12 per il Vigorelli, 8 per il Padiglione 3».
Ci sono timori sull’impatto ambientale.
«Citylife sarà a "emissioni zero"...».
Però aumenteranno la popolazione che vive e lavora in zona e il traffico
«Abbiamo calcolato circa 5 mila persone residenti e 5 mila che vengono ogni giorno per lavorare, più l’afflusso al parco, al museo di arte contemporanea, al centro commerciale. Per quanto riguarda i residenti, Citylife sarà la zona pedonale fra le più ampie d’Europa e tutti le famiglie dovrebbero disporre di almeno due posti auto. Sul traffico: vogliamo confrontarlo con quello che periodicamente veniva richiamato dalla Fiera?»
Domenica prossima le forze progressiste milanesi sceglieranno il candidato per le elezioni a sindaco di Milano. Sarà, comunque vada, una bella prova di democrazia. Per la prima volta da quindici ininterrotti anni di dominio della “politica” si sono confrontati quattro esponenti della società civile da sempre schierati culturalmente e socialmente, lasciando giustamente in panchina la troppo screditata politica. Valerio Onida è uno dei migliori esponenti di quella cultura costituzionale di cui abbiamo così tanto bisogno; Giuliano Pisapia è uno stimato avvocato, da sempre schierato con la parte debole della società milanese; Michele Sacerdoti ambientalista è uno storico punto di riferimento dei comitati milanesi; Stefano Boeri è uno degli esponenti in vista della cultura architettonica. E’ un buon segno che persone di questo livello abbiano sentito il bisogno di cimentarsi per la sfida amministrativa, ci dice che la società civile può riappropriarsi di spazi per quindici anni preclusi da una politica che ha oscurato ogni ricchezza culturale.
C’è poi un fatto specifico che rende particolarmente interessante l’esito delle primarie. All’interno del quartetto si confrontano due differenti concezioni della città. Tre dei candidati sostengono che in questi anni Milano è stata sepolta sotto una mostruosa quantità di cemento e di asfalto e che è ora voltare pagina e di anteporre agli interessi speculativi quelli dei cittadini. Onida ha detto in proposito parole molto lucide: si deve voltare pagina e fermare la dissennata corsa ad una cementificazione senza fine e la fase dei progetti calati dall’alto.
Il quarto candidato, Stefano Boeri, non appartiene a questa cultura. Non che non abbia mutato in questi ultimi tempi il suo atteggiamento sul futuro della città, ma perché pesa come un macigno la sua sovraesposizione in questi anni in cui a Milano si è potuto costruire dappertutto. Boeri è stato infatti uno dei più attivi progettisti delle trasformazioni urbane promosse da Hines, Pirelli Re, Ligresti e altri. E’ stato consulente del sindaco Moratti e, pur essendosi dimesso da poco, ha avuto un ruolo chiave nella predisposizione del master plan per l’Expo 2015. Boeri, insomma, è stato uno dei protagonisti della cultura della privatizzazione della città, del predominio degli interessi della proprietà fondiaria, delle grandi opere che ha trionfato in questi anni. Peraltro, come noto, è stato anche progettista delle opere per il G8 alla Maddalena coordinate dall’indimeticabile “Cricca”.
La destra ultra liberista milanese del sindaco Moratti, attraverso la cultura della cancellazione dell’urbanistica, sta perseguendo la costruzione di una nuova Milano per 1.800.000 cittadini, mezzo milione in più degli attuali. Si pensa insomma di tornare agli anni ’70 quando grazie al potente sviluppo industriale la popolazione era arrivata proprio a quel valore. Da allora Milano ha assistito ad una gigantesca chiusura di una miriade di attività produttive ed ha subìto il predominio della speculazione immobiliare pubblica e privata. Oggi che le fabbriche hanno lasciato il posto a ogni tipo di speculazione e i prezzi delle case sono senza controllo (a City life Ligresti vende a 8.500 euro!). Costruire per mezzo milione di nuovi abitanti è dunque un obiettivo folle, dettato soltanto dagli smisurati appetiti della proprietà fondiaria e degli istituti finanziari.
Sembra insomma che nel futuro di Milano ci sia soltanto il sogno del cemento. In assenza di alcuna politica industriale di livello nazionale, tutte le carte del futuro produttivo della grande metropoli, oltre che al settore finanziario e terziario, sono affidate al cemento. In questo senso, nasce la candidatura per ospitare l’Expo internazionale del 2015. Dietro all’ingannevole slogan della “capitale mondiale dell’agricoltura e della sostenibilità” si nasconde solo la devastante cementificazione delle ultime aree libere residue, dei pochi polmoni verdi rimasti. E poi, di quale tutela dell’ambiente può seriamente parlare chi ha permesso che – come a Pioltello e Santa Giulia e tanti altri casi minori – di costruire mostruose speculazioni su un mare di veleni che oggi attenta la salute dei milanesi? Onida, Pisapia e Sacerdoti, hanno le carte in regola per rappresentare una cultura nuova che segni un punto di discontinuità.
Speriamo che l’effervescenza culturale che ha segnato queste settimane milanesi non vada perduta e si avveri il sogno di un grande urbanista come Lodovico Meneghetti, che nel suo recente Promemoria di urbanistica (Politecnica, 2010) dice tra l’altro “avendo assistito al tradimento della mirabile costruzione storica valsa fino alla guerra…. riguardo al problema del verde agrario preteso e tradito dall’Expo proponiamo un nostro modello d’azione utopica come potendo da subito far cessare la colata di materia edile che sta colando dappertutto”. Ecco, Milano ha bisogno di utopia e non di altro cemento.
Nell'icona: una proposta dell'arch. Boeri: "Il bosco verticale"
Bell’esempio davvero, per i ragazzi del Beccaria. Lì, di fronte alle finestre sbarrate dell’istituto di pena minorile di Milano, si consuma l’ultimo scandalo di concessioni edilizie facili, di veleni sepolti e mai bonificati, di controlli assenti e responsabilità liquide in nome del dio cemento.
I sigilli disposti dalla Procura all’area dell’ex cava-discarica di Geregnano, ai confini ovest della città, tra i nuovi centri direzionali in costruzione e il capolinea della metropolitana di Bisceglie, raccontano dell’ennesimo cortocircuito tra profitto privato e salute pubblica. Pesticidi, diossina, metalli pesanti, pcb, solventi clorurati, idrocarburi: quasi due milioni di metri cubi di rifiuti indifferenziati e nocivi, accumulati quando non era reato scaricarli nelle cave dismesse, che sgocciolavano nella falda. Bonificarli sarebbe costato troppo, 700 euro al metro quadro: meglio una più economica, ed epidermica, messa in sicurezza. Qui sopra dovevano sorgere due torri d’appartamenti di 30 piani, un falansterio di uffici da 40 piani, un nido e un asilo. Nonostante la prima indagine comunale sui terreni, datata 1998-99, avesse urlato quei rischi. Nonostante un parere della Regione Lombardia del 2002 che ammoniva dal costruire sulle aree contaminate. Nonostante le sospensive e le richieste di integrazione della Conferenza dei servizi. Chi ha chiuso gli occhi? Chi ha approvato il progetto senza ordinare, come scrive il pm Paola Pirotta, «una preventiva e completa rimozione dei rifiuti ivi stoccati»? Quanto costa bonificare un’area da 300mila metri quadri? E quanti siti a rischio contano Milano e provincia?
BONIFICHE, CAPPING, BARRIERE IDRAULICHE E IL CERINO
La vicenda dell’area Bisceglie è una perfetta miniatura di come funzionino le cose nella città dell’Expo, dei palazzinari che non dormono mai, delle istituzioni che continuano a passarsi tra loro il cerino acceso e delle formiche che, nel loro piccolo, si incazzano. Sono gli abitanti del comitato di zona, che cominciano ad accumulare una pila di documenti, analisi di rischio, pareri e verbali che alla fine fanno coagulare in un esposto alla magistratura: da qui i sigilli di ieri. Le carte dell’Asl e dell’Arpa parlano chiaro: dagli hotspots piazzati a campione sui terreni, emerge l’elenco del veleno su cui dovrebbero dormire 4mila persone, dislocate in 1300 appartamenti. Dibromoetano 1.2, tricloropropano 1.2.3, stirene: sostanze letali, già nella falda in sospensione, giù in profondità.
Il consiglio di zona spedisce mozioni e diffide al Comune, i quotidiani cominciano a dare voce ai malumori degli abitanti contro le due società costruttrici, l’Antica Pia Acqua Marcia di Francesco Caltagirone e la Residenze Parco Bisceglie di Edoardo De Albertis, padre di Carla, ex assessore della giunta Moratti. Eppure, il 14 maggio 2009, Palazzo Marino approva (autorizzazione numero 310/152) il Progetto Operativo di Bonifica e Messa in Sicurezza con tutte le sue integrazioni. Di bonifica, nel piano, ce n’è poca: un metro di scavo nel sottosuolo. Per il resto, si passa a procedure di "capping": verrà tappato col cemento e isolato con un enorme telo di polietilene da un millimetro e mezzo di spessore, un sistema di tubi provvederà alla captazione e allo sfogo dei gas dal sottosuolo, una rete di sbarramenti idraulici farà il resto. Previsto anche un periodo di monitoraggio di non meno di dieci anni.
Non basta. Accanto al Comitato Calchi Taeggi si schierano Legambiente e Italia Nostra, che spedisce un esposto di tre pagine al sindaco Letizia Moratti il 18 dicembre 2008. Niente, si va avanti. La Conferenza dei servizi, organo che associa Comune, Provincia, Arpa e Asl, sorveglia e insieme spezzetta le responsabilità. Viene costituito un Osservatorio, ulteriore stratificazione e diluizione dei controlli sull’ex cava di Geregnano: oltre alle quattro istituzioni della Conferenza, partecipa un delegato della Regione, uno del Consiglio di zona, la direzione dei lavori, le due società incaricate della bonifica, le due cooperative supabbaltatrici, il comitato dei residenti. Tengono sette riunioni a partire dal 30 settembre 2009, l’ultima volta, prima dei sigilli, si riuniscono il 7 ottobre 2010. C’è soddisfazione per il vantaggio sul cronoprogramma, la messa in sicurezza è invece «come da programma - si legge nel verbale - in fase iniziale essendo stata realizzata la barriera idraulica e rimanendo da eseguire le attività di capping che costituiranno la fase 2». Tutto va bene, madama la marchesa. Segue sopralluogo.
Rileggere l’elenco dei partecipanti e scorrere le dichiarazioni di ieri è un altro utile esercizio. «Non è una procedura nella quale la Provincia avesse compiti di controllo», garantisce il presidente Guido Podestà. «Piena fiducia ai miei uffici», rassicura l’assessore comunale ai Lavori pubblici, Carlo Masseroli, il teorizzatore della Milano da due milioni di abitanti (oggi sfiora il milione e 300mila). «Non è una responsabilità che abbiamo da soli, ma insieme ad altre istituzioni», sottolinea invece da Palazzo Marino Letizia Moratti. «L’Arpa ha svolto la sua attività in maniera irreprensibile. La responsabilità? Del Comune», ribatte il governatore Roberto Formigoni. È davvero così? È sempre così? Cosa stabilisce la legge?
INTERESSE NAZIONALE, REGIONALE, COMUNALE
«È un casino». In maniera popolarescamente efficace, il medico ed esperto in legislazione sulle bonifiche Edoardo Bai, membro di Legambiente Lombardia, certifica il groviglio normativo. «I siti sono divisi in base al livello di inquinamento. La Sisas di Pioltello e Rodano e l’Acna sono di interesse nazionale. C’è un livello intermedio, di interesse regionale. L’area Calchi Taeggi, così come quella di Santa Giulia, sono di interesse comunale. I controlli normativi sono affidati alla Conferenza dei servizi, ma è il Comune ad approvare i progetti. i controlli sul campo sono invece demandati all’Arpa. O all’Asl in caso di pericolo imminente per la salute». Santa Giulia-Montecity è un altro emblema di questo groviglio. L’area è quella dietro la stazione di Rogoredo, dove sulle ceneri delle officine della Montedison sono sorti i nuovi uffici di Sky e un quartiere residenziale che doveva essere il fiore all’occhiello dell’immobiliarista Luigi Zunino. La firma di Norman Foster sui palazzi, quella di Giuseppe Grossi, il re delle bonifiche, sullo smantellamento dei veleni dell’area. Morale: bonifica mai effettuata (Grossi finisce nei guai), smagliature nei controlli, i sigilli della Guardia di Finanza che arrivano il 20 luglio 2010, un pezzo di quartiere chiuso sotto gli occhi dei residenti, che nel frattempo avevano già acquistato. Pagano tutti, a partire dai bambini: l’asilo a loro destinato poggiava su mercurio e cloroetilene e non è mai stato aperto, carcassa colorata con giardino avvelenato. I bimbi del quartiere sono stati spostati dal Comune un chilometro più in là. Peccato che le pareti di quella struttura grondassero amianto e lana di roccia.
Grossi e Arpa, dunque Regione, dunque Formigoni. Un intreccio che aveva il suo precedente nella vicenda della Sisas di Pioltello, una delle discariche più pericolose d’Europa, in attesa di bonifica dal 9 dicembre 1985, quando una sentenza del Tribunale ordinò di smaltire in maniera definitiva i metalli pesanti, l’acetilene, il nerofumo e i fusti lì contenuti, 290mila tonnellate di rifiuti industriali. Provvedimento mai eseguito, la società fallì nel 2000, il caso finì alla Corte di Giustizia Europea di Strasburgo e una nuova sentenza di condanna, stavolta a carico del governo italiano, cominciò a far scattare il tassametro delle multe: a oggi, siamo a 490 milioni di euro. Per ovviare al problema, nel 2009 Giuseppe Grossi si era proposto alla Regione come salvatore della patria: appalto da 120 milioni di euro, più 44 in nero, la richiesta del re delle bonifiche. Che, arrestato, mollò tutto nel luglio scorso, chiedendo indietro 25 milioni di euro di rimborso dalla Regione.
Storie nere, quelle delle discariche, che attirano interessi pericolosi e le brame della ‘ndrangheta. Scene da Gomorra, come a Santa Giulia, dove i camion di notte scaricavano il materiale scaricato di giorno. Ombre lunghe, come alla cava Bossi tra Pero e Bollate, pienissima area Expo, dove un laghetto artificiale era stato trasformato dalla famiglia Mandalari in una discarica abusiva a cielo aperto da 70mila metri quadri col colpevole silenzio del Comune di Bollate e della Regione. E ancora ‘ndrangheta a Desio, Seregno e Briosco, ancora una discarica abusiva a cielo aperto scoperta nei tre paesi brianzoli dalla polizia provinciale nel settembre 2008, ancora terreni presi in affitto dai comuni e imbottiti di veleni senza che nessuno se ne accorgesse. Ma è quando discariche e cemento si incontrano che si crea, troppo spesso il cortocircuito. Perché le aree più inquinate sono le più appetite dai costruttori? E conviene davvero acquistare un terreno da bonificare, anche solo in parte?
VIZI ITALIANI E IL SUPERFUND STATUNITENSE
«Le aree inquinate - sostiene Bai - sono ormai le uniche dove si può costruire in grande. Il resto è già stato edificato». Gli esempi recenti, a Milano, non mancano. I cinque immigrati che protestano in cima a una torre della multietnica via Imbonati da una settimana per il permesso di soggiorno forse non sanno che quella Potsdamer Platz in miniatura che li circonda era l’ex Carlo Erba, rudere industriale dieci anni fa e oggi luccicante coacervo di uffici. La Fiera a Rho, il Politecnico all’ex gasometro alla Bovisa, i grandi progetti nascono sulle macerie del boom economico. «E la legge 152 del 2006 - aggiunge Bai - il Testo Unico in maniera ambientale, col principio del giusto profitto viene incontro ai grandi costruttori. Porti via un po’ di rifiuti, perché tutti non si può, il resto lo metti in sicurezza perché meglio di così non si può, in cambio delle costruzioni. Poi il privato fa il furbo, non mantiene le promesse, e il gioco è fatto».
C’è poi una specifica lombarda, la legge regionale 126 del 2009, la contestata "legge Grossi" (proprio lui): con le sue forme di compensazione di tipo urbanistico, concede a chi bonifica la licenza di poter costruire altrove con notevoli vantaggi fiscali. «Il problema - sostiene Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia - è economico. Perché gli oneri delle bonifiche continuano a ricadere sul pubblico. Non è sempre facile che il sistema dei controlli sia così rigoroso. E soprattutto, non c’è nessuno che si faccia carico di un’intera bonifica, anche se la messa in sicurezza o lo smaltimento tramite microorganismi non sono nemmeno così economici, visto che il pompaggio di acqua dalla falda deve essere sempre controllato e a tempo indeterminato. E a Milano e dintorni la quantità di siti contaminati è enorme».
Solamente in città sono 36. Si arriva a 80 con la provincia, cifra che raddoppia se si conta la Brianza. E si escludono le aziende a rischio incidenti, la cui lista tra il milanese e il monzese (la Icmesa, la Snia Viscosa e l’Acna sono i tre esempi più famigerati) sfiora il numero mille. «Le ex cave usate come discariche - spiega il consigliere comunale Enrico Fedrighini, dei Verdi - sono quelli dove anche l’intervento di bonifica è più pericoloso. Perché devi andare a scavare e rischi di mischiare materiali già tossici, spingendoli verso la falda. E poi: tutto questo materiale, dove lo sposti, in un altro buco? E dove? Aggiungiamo la lentezza delle burocrazie, centrali e periferiche: l’Italia sullo smaltimento dei rifiuti tossici è la tartaruga d’Europa, troppe responsabilità sulle firme di documenti sono sulle spalle di semplici funzionari, che hanno paura a firmare qualsiasi cosa. C’è anche un problema di organico, a Milano. Il settore Ambiente del Comune è poverissimo, conta solo cinque persone che devono fare fronte a tutti questi problemi».
Costi, controlli e lentezze, sulla nostra pelle. Come uscirne? «Negli Stati Uniti - risponde Bai - esiste il Superfund, e funziona. È una tassa per le bonifiche che pagano gli imprenditori, un fondo da cui si attinge ed è controllato dall’ente pubblico». Qui siamo a Milano, Italia, e non è così semplice. «Un sistema per tagliare la testa al toro - prova Fedrighini - ci sarebbe, evitando il giro di subappalti e le bonifiche al risparmio. L’ho proposto anche alla giunta, che pare interessata. L’idea è semplice: fidejussione del privato costruttore, e gestione degli interventi da parte del Comune, o della Regione, tramite aziende iscritte a un albo con determinati parametri economici ed etici. È una soluzione a costo zero. E definirebbe le responsabilità. Che sarebbero finalmente, senza ombra di dubbio, politiche: del sindaco e dei governatori».
caro direttore, l’intensa attività edilizia degli ultimi anni ha peggiorato la qualità della vita a Milano. Inquinamento dell’aria, scarsità di verde, mancanza di adeguati spazi pubblici, carenze nel trasporto pubblico e ridotta integrazione sociale sono sotto gli occhi di tutti. Ciò nonostante, il Pgt adottato a luglio rinuncia a governare le future trasformazioni, anzi: afferma di «non voler essere un piano». Non stupisce dunque la vaghezza delle previsioni insediative, l’assenza di una prospettiva metropolitana, il disimpegno rispetto ai grandi interventi in corso (molti dei quali in difficoltà) o l’evanescente regia sulle nuove e cospicue trasformazioni messe in campo.
Né stupisce l’ossessiva volontà di cancellare ogni «vincolo»: in un sol colpo, vengono abbattuti i limiti massimi di edificazione, il controllo morfologico e tipologico, la dotazione minima di standard e le destinazioni d’uso. Tutto questo furore innovativo, per ottenere che cosa? È semplice da intuire. Prima però bisogna superare la retorica liberista che ammanta il Pgt e la mistificazione che lo puntella, e che narra di raggi verdi e di suolo «liberato» e, più ancora, di 5 nuove linee metropolitane, del prolungamento delle 3 linee esistenti e del secondo Passante ferroviario. Opere che dipendono quasi integralmente da finanziamenti nazionali (indisponibili) o da un nebuloso project financing (nel caso del tunnel stradale ambiguamente congelato). Accantonati i falsi miti, rimangono i veri obiettivi del Pgt. Che sono tre.
Primo: un’ulteriore densificazione volumetrica della parte centrale della città, che è già tra le più dense al mondo, una vera e propria «città di pietra». Secondo: la generazione di nuovi diritti volumetrici attraverso un meccanismo di perequazione che finirà per penalizzare sia le aree di origine (il Parco Sud), sia quelle di destinazione (come gli scali ferroviari, le caserme, San Vittore o la Bovisa). Alle prime vengono attribuite volumetrie non necessarie, non essendoci alcun progetto dopo l’eventuale acquisizione al demanio pubblico. Sulle seconde vengono recapitati oltre 10 milioni di metri quadrati di nuova superficie: una quantità abnorme, se si pensa che a Milano negli ultimi 15 anni si sono programmati e costruiti tra i 5 e i 6 milioni di metri quadrati e che nella città esistente il nuovo Pgt mette in gioco altri 30 milioni di metri quadrati, indifferenti alla storia dei tessuti urbani e alle esigenze dei cittadini. Sulla regolazione di questi nuovi diritti non si è deciso nulla, se non che verranno gestiti da un’imprecisata «borsa». Di certo, convertiti in strumenti finanziari, miglioreranno le condizioni patrimoniali di pochissimi soggetti, ma graveranno per decenni sulla città e sul suo opaco mercato immobiliare, condizionando ogni prospettiva di ordinato sviluppo urbanistico.
Terzo: la pratica dei Pii, che ha portato alle note vicende di Santa Giulia, Citylife o Garibaldi-Repubblica, assurge a regola generale. Il nuovo Pgt attribuisce all’amministrazione il compito di negoziare con i privati, caso per caso, l’attuazione delle trasformazioni. Il negoziato si svolgerà però «senza rete», perché non sono stati fissati i requisiti minimi di convivenza urbanistica, a partire dalla manutenzione della città pubblica esistente. Non solo: in nome della sussidiarietà orizzontale, il Pgt stabilisce dettagliate modalità di accreditamento per i soggetti privati che erogano servizi di interesse pubblico, ai quali attribuisce anche crediti volumetrici. Dunque, invece di tutelare i servizi pubblici che arrancano, l’amministrazione si attribuisce il compito (improprio) di selezionare l’ingresso degli operatori sul mercato e di determinare le condizioni per l’esercizio dell’attività di impresa. Altro che liberismo.
Fino a metà novembre è possibile proporre osservazioni al Pgt. Non crediamo che, se sarà approvato, il Pgt sarà molto diverso da quello adottato a luglio. Vogliamo però dire che cosa, per noi, è irrinunciabile: definire chiare regole di scambio pubblico-privato; programmare le trasformazioni nel tempo, associandole a un progetto infrastrutturale e sociale fattibile, precisando l’offerta di servizi pubblici; «rimettere in circolo» le volumetrie inutilizzate, rendendo più aderenti al mercato le previsioni di nuova edificazione; annullare i diritti edificatori nelle aree del Parco Sud; ripristinare un progetto sugli usi e sulle densità; focalizzare le poche risorse disponibili sull’edilizia sociale da destinare all’affitto. È la nostra proposta per restituire senso, utilità e dignità al Pgt di Milano.
Andrea Arcidiacono, Paolo Galuzzi, Laura Pogliani, Giorgio Vitillo (Politecnico di Milano), Stefano Pareglio (Università Cattolica del Sacro Cuore)
«Non parlo da tecnico, ma da cittadino a cittadino»: così diceva il grande architetto Giovanni Michelucci. Che lingua parla il Pgt di Milano nelle sue mille e passa pagine scaricabili (a fatica) da internet? Se potessimo chiedere, non all’Accademia della Crusca, ma ai 60.387.000 residenti in Italia cosa significa «evasione della spesa», ci risponderebbe, credo, solo chi l’ha scritto. E che direbbe un cittadino qualunque nel leggere che «il pendolarismo in entrata a Milano è cresciuto di circa 300.000 auto al giorno»? E i demografi di fronte a un’espressione come una «classica crescita demografica»? E che reazione avrebbe uno studente liceale minimamente attrezzato di fronte all’affermazione che il Pgt non intende rinunciare «ai caratteri di genericità e flessibilità propri di un piano strategico per una grande area»? Se genericità è rivelatore del vuoto di idee, lo scambio fra generico e generale che ricorre in un altro passo è indicativo di quale considerazione venga riservata all’interesse generale.
Il cittadino che ha che vedere con la scarsità di posti nell’asilo nido potrà essere rassicurato nell’apprendere che il Piano dei Servizi è «inteso come mediascape»? Dormirà tra due guanciali nel sapere che il Pgt della sua città intende far fronte al «fabbisogno edificatorio» e non, per esempio, al fabbisogno abitativo? Ancora una volta un lapsus freudiano.
Si obbietterà che a parlare in un Pgt sono soprattutto le immagini. Si veda allora, a pagina 37, l’Ipotesi di studio per il riutilizzo della tangenziale est. Partendo dall’assunto (illusorio) che la nuova tangenziale esterna Est-est potrà scaricare il traffico di quella attuale, si ipotizza che questa si trasformi in una sorta di boulevard a cui ancorare otto enormi grattacieli. Otto leccornie per immaginari assessorili.
Per capire il meccanismo del nuovo Pgt, bisogna partire da un triangolo ai confini con la città. Tra capannoni abbandonati, il campo rom di Triboniano come "vicino", i primi cantieri a disegnare quello che potrebbe essere lo skyline futuro. È questa l’area che, nella mappa dei 26 nuovi quartieri, ha ottenuto l’indice volumetrico più elevato. Una terra di nessuno, via Stephenson. Su cui però il Comune punta. E che dovrà rinascere grazie a una foresta di 50 grattacieli che, nelle intenzioni di Palazzo Marino, dovranno accogliere una novella Défense.
«Un rospo - ha definito via Stephenson l’assessore Carlo Masseroli - che potrebbe diventare un principe se sarà baciato dalla principessa Pgt». Perché lì accanto dovranno sorgere i padiglioni di Expo, portandosi dietro infrastrutture e investimenti. E lì il Comune ha grandi ambizioni. Anche Salvatore Ligresti, che è uno dei proprietari, pensa che quello di Parigi sia un modello: «Sviluppare poli esterni, come alla Défense o come all’Eur - ragiona il costruttore - è utile per snellire il traffico e sviluppare centri direzionali all’esterno». Anche se sulla possibilità di trasferire quel «simbolo» in via Stephenson è dubbioso: «È un grosso rischio». Affari, certo: anche questo è il Pgt. E, non a caso, per attirare l’interesse degli immobiliaristi Palazzo Marino permette di concentrare una gran quantità di costruzioni in via Stephenson: in tutto 1,2 milioni di metri quadrati, quasi 800mila in più di quanto "varrebbe" l’area, grazie agli acquisti al mercato delle volumetrie.
Il libro mastro dell’urbanistica dei prossimi vent’anni sarà proprio il "registro delle volumetrie": in quelle pagine verranno annotati tutti gli spostamenti di diritti a costruire che si potranno scambiare come in Borsa. Compresi quelli che "genererà" il Parco Sud, dove non si potrà cementificare. È il meccanismo che metterà in moto il Piano. A cominciare da quei 26 nuovi quartieri che nasceranno al posto di binari e caserme. Perché non è tutta uguale, Milano: non quella che punta a 490mila abitanti in più. Non in questo Pgt che divide la città in 88 piccole zone e trasforma oltre 7 milioni di metri quadrati (8 se si considera anche l’area Expo) su cui caleranno quasi 6 milioni di costruzioni.
Ancora troppi per il centrosinistra, nonostante la mappa sia uscita modificata da otto mesi di dibattito in consiglio comunale che hanno, ricorda l’opposizione, «ridotto il cemento, raddoppiato il verde e fissato per ogni zona una quota minima di housing sociale». Il Pd ha pesato l’impatto con un’unità di misura: il grattacielo Pirelli, con i suoi 127 metri di altezza. Il conto: quei milioni di costruzioni, solo nelle zone più dense, equivalgono a 161 Pirelloni. Ma per una via Stephenson di giganti ci saranno altri perimetri da destinare a verde o a spazio pubblico come la stazione di San Cristoforo o dove - come allo scalo di Greco - le volumetrie calano rispetto a quelle sulla carta. Per lo scalo Farini, invece, il modello è Manhattan: un Central Park che occupa il 60 per cento dell’area e tanti grattacieli equivalenti a 19 Pirelloni.
Non tutte le aree cresceranno in egual modo. C’è una regola base nel Pgt che cancella le destinazioni d’uso: saranno le esigenze della città a determinare cosa sorgerà in una zona. In generale, la metropoli avrà uno stesso indice di base: 0,50 metri quadrati edificabili su ogni metro quadrato (molti piani di intervento oggi si aggirano su 0,65; a Citylife si è superato l’1). Vicino a stazioni del metrò o ferrovie, però, si dovrà partire da un indice 1, spostando la differenza anche con l’acquisto in "borsa". E poi ci sono i 26 appezzamenti di proprietà soprattutto delle Ferrovie, del Demanio o del Comune (ma anche di privati, come via Stephenson; a Bovisa e Cascina Merlata "comanda" EuroMilano), ognuna con possibilità di crescita differenti. Per costruire senza consumare altro suolo, nelle intenzioni del "padre" del Piano, Carlo Masseroli. Per lui il Pgt darà la possibilità di sviluppare la città unendo servizi, parchi, spazi pubblici. Tutto con «regia comunale». Ma è proprio la capacità dell’amministrazione di governare le regole e la trasformazione una delle incognite. Insieme ai soldi pubblici (7,7 miliardi) che mancano per aumentare trasporti e servizi.
Sfruttare al massimo le concessioni, però, secondo il responsabile scientifico del Pgt, l’architetto Andrea Boschetti, è una possibilità che costerà: «E chi costruirà di più dovrà garantire più servizi». Tra le aree in cui si potranno condensare più edifici c’è la piazza D’Armi della Perrucchetti: con metà superficie riservata a verde, i Pirelloni potrebbero essere 27. A Porta Genova si potrà puntare su spazi per atelier e design, alla Bovisa su una cittadella della scienza e della tecnologia. E, sempre a proposito di cittadelle, a Porto di Mare dovrebbe sorgere quella della giustizia, ma il Tribunale non è più a rischio trasloco e anche San Vittore sembra destinato a rimanere dov’è. Il resto lo faranno, come sempre, il tempo e il mercato.
Un sito che raccoglie i progetti collaterali all'evento Expo per «contribuire a realizzare un'esposizione universale diffusa e sostenibile». Questa piattaforma di «partecipazione online» è la proposta del dipartimento di Architettura del Politecnico che ha attivato il sito www.eds.dpa.polimi.it , accessibile da ieri, su cui già sono presenti proposte e ipotesi di lavoro. La creazione di «greenway ciclabili» e il recupero di aziende o luoghi dismessi in tutta la Lombardia, da Bergamo a Varese; ma anche la nascita di cinture agricole e la valorizzazione di Ville poco conosciute e visitate.
Dalla mobilità all’energia, dall’agricoltura allo sviluppo sociale, le proposte arrivano direttamente dalle associazioni e dalle istituzioni che li stanno definendo, secondo la logica della «partecipazione dal basso». «Non è un progetto che si contrappone a quello ufficiale— ha spiegato il professor Emilio Battisti, ordinario di Composizione Architettonica, che ha ideato l’iniziativa — e la logica è quella dell'integrazione.
L'obiettivo è dare la possibilità a quanti arriveranno a Milano in occasione dell'Expo di conoscere il territorio e le sue potenzialità in maniera diffusa, senza fossilizzarsi unicamente sul sito espositivo». L’iniziativa, che è cofinanziata dal Politecnico e dalla Fondazione Cariplo, è curata da un gruppo di giovani laureati che hanno ricevuto un assegno di ricerca per sei mesi. Il progetto si conclude entro dicembre: è già cominciata la ricerca di risorse e contributi per proseguire il lavoro il prossimo anno.
Archistar per la Città della Salute. Per realizzare l’opera da 520 milioni di euro, destinata a trasferire l’Istituto dei tumori e il neurologico Besta a nord ovest di Milano di fianco all’ospedale Sacco, il governatore Roberto Formigoni vuole coinvolgere imigliori studi di architettura del mondo: «È il progetto d’edilizia sanitaria più importante d’Italia — dice —. Il bando di concorso sarà internazionale».
Con la firma al Documento preliminare di progettazione (Dpp), ieri è arrivato il via ufficiale al maxi-polo di Vialba alla presenza dei vertici dei tre istituti sanitari. L’investimento sarà realizzato in project financing: metà del capitale sarà messa a disposizione subito dalla Regione (228 milioni) e, in minima parte, dallo Stato (40 milioni); gli altri 250 milioni saranno resi disponibili dai privati che recupereranno l’investimento con la gestione dei servizi (come posteggi, mense e pulizie) e, soprattutto, con un canone di disponibilità a carico di Regione.
Il compito di trovare la copertura finanziaria integrale dell’opera (con l’intervento delle banche) e di avviare le procedure di gara, adesso è del consorzio Città della Salute e della Ricerca, creato ad hoc dal Pirellone e presieduto da Luigi Roth, che nel suo curriculum vanta la creazione della Fiera in soli 30 mesi. Il concorso sarà pubblicato, con ogni probabilità, entro febbraio ( www.consorziodellasalute. ai concorrenti sarà chiesto di mettere a disposizione i fondi mancanti e di presentare un progetto architettonico all’altezza delle aspettative. «La Città della Salute sarà una struttura che "gira attorno" al paziente e al suo percorso di cura — dice Roth —. Sarà un luogo in cui il cittadino si orienta con facilità». Come tutti gli ultimi sei ospedali costruiti, neppure in questo caso ci saranno i reparti: i pazienti verranno distribuiti piano per piano a seconda della gravità della malattia (modello Toyota).
Confermati i tempi di realizzazione della struttura, con l’inizio dei lavori nel 2012 e il completamento per l’Expo. «Sono tempi da record», aggiunge Formigoni. Le nuove costruzioni occuperanno 220 mila metri quadri per le attività di ricerca e di cura, nonché per le strutture dedicate ai familiari dei pazienti e ai ricercatori. Altri 70 mila metri quadrati saranno dedicati a parcheggi, impianti tecnologici e all’asilo nido aziendale. I posti letto complessivi saranno 1.405 (Besta 250, Tumori 505, Sacco 650), quasi cento in più degli attuali (Besta 223, Tumori 482 e Sacco 604). I lavoratori, 3.200 in totale, saranno mantenuti ai livelli attuali. Insiste l’assessore alla Sanità, Luciano Bresciani: «Il progetto esalterà le eccellenze di ciascun istituto, cosa che altrimenti non sarebbe stata possibile».
Negli edifici attuali dell’Istituto dei Tumori e del Besta, al momento, è prevista solo la creazione di presidi ambulatoriali.
Ogni giorno intorno alla Città della Salute ruoteranno quasi diecimila persone, tra pazienti, familiari, medici, infermieri, fornitori. Di qui l’importanza dei collegamenti viabilistici. Gli attuali sono insufficienti. Tra le ipotesi più accreditate, quella di un metrò leggero dal costo di 300 milioni, che dovrà collegare Affori con Molino Dorino passando per l’area dell’Expo e, per l’appunto, dalla Città della Salute. Ma la decisione qui spetta al Comune di Milano.
Parte ufficialmente il progetto della Città della Salute. Dopo un lavoro preparatorio durato mesi, la pubblicazione del bando unico di gara è il primo atto concreto verso la costruzione del polo unico che riunirà l’ospedale Sacco, l’istituto neurologico Besta e l’Istituto nazionale dei Tumori. Un’idea che sta particolarmente a cuore al governatore Roberto Formigoni. Costo previsto dell’opera, 520 milioni di euro, di cui più della metà arriveranno dalle casse della Regione. Il resto, li metterà il concessionario che vincerà la gara, che potrà ammortizzare la spesa in base agli anni di durata della concessione o attraverso un leasing. La gara seguirà una procedura accelerata. Non servirà solo per scegliere il progetto, ma anche il costruttore. La proclamazione del vincitore è prevista nella primavera del 2011. I lavori inizieranno in ottobre per terminare entri il giugno 2015.
«Non si tratta di un semplice trasloco - anticipa il presidente del consorzio Luigi Roth - ma di gettare le basi di qualcosa di avveniristico verso le frontiere della nuova medicina molecolare». Un progetto ambizioso tutto pubblico che suona come una sfida al Cerba, il centro europeo di ricerca biomedica avanzata, guidato dal celebre oncologo Umberto Veronesi, che sarà un istituto privato non profit e nascerà, invece, in un’area di 62 ettari all’interno del Parco Sud. «La nostra è una iniziativa pubblica, nobile e intelligente - aggiunge con orgoglio Roth - che mette in campo solo risorse pubbliche. Il Cerba farà la sua storia». La Città della Salute, della ricerca e della didattica, sorgerà in un’unica area, nella periferia Nord Ovest. Come una città nella città. In grado di ospitare migliaia di pazienti con i loro parenti. Oltre 1400 posti letto, un centinaio in più di quelli attualmente disponibili, 220.000 metri quadri di superficie lorda di pavimento per le funzioni di ricerca e cura.
Di cui 180mila per la degenza, diagnosi e cura, ricerca e didattica e 40mila per le attività ricreative e compatibili. Altri 70mila metri quadri saranno destinati alle funzioni accessorie. Un progetto che basa i suoi fondamenti sul cambiamento di paradigma della medicina contemporanea. La valorizzazione delle «eccellenze» già presenti nei settori dell’oncologia, neurologia e infettivologia, attraverso la creazione di alcune aree comuni di lavoro. Prevista l’istituzione di un sistema unico integrato di contenuti medico scientifici e la creazione di un terzo polo universitario. Un approccio del tutto nuovo al tema della salute. «La Città della Salute è innovativa perché integra molte componenti diverse. La cura è strettamente connessa con la ricerca e progredisce giorno per giorno sul campo. Inoltre, la presenza dell’università e di un sistema didattico offre la possibilità ai giovani e ai ricercatori di essere formati sugli standard più elevati. Il progetto prevede quattro grandi rami, cui corrispondono quattro funzioni: sanitaria, complementare, infrastrutturale e ambientale».
postilla (lunghetta ma quanno ce vo’, ce vo’)
Il parallelo col Centro Ricerche Biomediche Avanzate del professor Veronesi (professore in Oncologia, Fisica nucleare e Urbanistica, of course ) appare più che mai adeguato nel caso specifico di questa trovata umanitaria della Città della Salute: in entrambi i casi si usa la leva della ricerca, della medicina, del progresso umano in generale, per fare esattamente il contrario. Ovvero, indipendentemente da quanto accadrà poi dentro i padiglioni delle nuove strutture, peggiorare, e di parecchio, l’ambiente complessivo della città dove per adesso si svolge ancora la maggior parte della nostra vita. E che quindi dovrebbe essere qualcosa di più di una specie di tabula rasa da riempire di metri cubi scientificamente eccellenti.
Col Cerba la nuova Cisal condivide il fatto di colmare un’area verde di interposizione fra zone edificate, e qui si potrebbe osservare nello specifico che forse (molto forse) la situazione è diversa da quella di vera e propria greenbelt metropolitana delle aree umanitariamente regalate a Veronesi dal filantropo Ligresti. Ma guardiamo un po’ meglio dal solito osservatorio GoogleEarth questa fettina di metropoli nord-occidentale, perfettamente allineata sull’asse di sviluppo del Documento di Inquadramento delle Politiche Urbanistiche Comunali.
All’estremo ovest i padiglioni della Fiera, attorno ai quali si sta completando la colmata stradale e edilizia gestita per anni dal medesimo Luigi Roth che ora vuole gettare le basi della medicina molecolare. Spostandosi a est, praticamente senza soluzione di continuità, si entra nel leggendario territorio delle aree Expo, per ora piene solo di tragicomici scontri di potere fra tutto e tutti, ma sappiamo tutti cosa ci si aspetta, in fondo, da quel “vuoto”. Di nuovo un salterello a est, appena oltre la biforcazione fra le due autostrade A4 e Autolaghi con lo svincolo Certosa, ed ecco i vecchi padiglioni dell’Ospedale Sacco, con lo spazio “vuoto” allineato sul tracciato dell’A4 di fronte al quartiere di Quarto Oggiaro.
Si aggiunga, volendo esagerare, che il garrulo assessore meneghino e ciellino Masseroli, per la fascia appena a sud dello svincolo Certosa, vantava pochissimi giorni fa previsioni in grado di farne un nuovo “Canary Wharf” con cubature da mettere i brividi a mezza Europa.
Come osserverebbe il vecchio Peppino De Filippo: …. E ho detto tutto!!
Anzi forse no, perché qualcosa di fondamentale l’ha già detta anche il presidente medico-molecolare Roth: la Città della Salute “integra molte funzioni diverse ”. Appunto. Per non dire dei fantastici “vuoti” che il previsto trasferimento di attività e personale aprirà altrove … ad libitum (f.b.)
Sul Cerbasi veda l’articolo scritto a suo tempo, Su come la medicina urbana nei paesi civili abbia approcci appunto un po’ più civili, si veda invece questo articolo dal Baltimore Sunriportato su Mall
la Repubblica ed.nazionale
Milano 2015, odissea nell’Expo viaggio nel grande sacco dei privati
di Alessia Gallione, Andrea Montanari
MILANO - La foto di gruppo è quella del 31 marzo del 2008 e Letizia Moratti la conserva ancora nel suo ufficio a Palazzo Marino. Tutti sorridenti, in quell’istantanea che immortala la vittoria di "squadra" bipartisan di Milano sulla rivale Smirne: il sindaco, Roberto Formigoni, l’allora presidente della Provincia del Pd Filippo Penati, il premier Romano Prodi. Un’era geologica fa. Perché da allora sono passati 927 giorni. Il "grande evento" del 2015 aspetta ancora di partire e dopo mesi di scontri e impasse, soltanto ieri è stato sciolto quello che avrebbe dovuto essere il primo dei nodi: la disponibilità dei terreni (privati) su cui sorgeranno i padiglioni di Expo. Un accordo in extremis raggiunto a cinque giorni dall’esame – martedì 19 – di fronte al Bureau International di Parigi, che aveva dettato un ultimatum in vista della registrazione ufficiale. Ma a cui tutti, a cominciare dai protagonisti del centrodestra, sono arrivati divisi.
La strada è segnata: i proprietari di quei terreni, Fondazione Fiera e gruppo Cabassi, hanno risposto positivamente alla richiesta della Moratti che, per presentarsi con qualcosa in mano a Parigi aveva chiesto «l’immediata e incondizionata disponibilità delle aree». «Un accordo un po’ sofferto, ma sulla scelta più idonea – ha commentato il presidente di Fondazione Fiera Gianpiero Cantoni – Non siamo né speculatori né interessati a operare se non in grandissima trasparenza».
Ma in quel gran gioco dell’oca che è diventato Expo, siamo tornati alla casella di partenza: il destino di quel milione di metri quadrati alla periferia Nord-Ovest della città era già stato scritto nel 2007. Un pezzo di niente, sulla carta terra agricola o con destinazioni industriali o artigianali, su cui caleranno però investimenti pubblici per più di un miliardo (oltre ai 10 per strade e metropolitane) rendendo appetibile quel triangolo stretto tra autostrade e ferrovie. È allora che fu abbozzato con Fondazione Fiera (proprietaria di 520mila metri quadrati) e il gruppo Cabassi (260mila) l’accordo finalmente approvato ieri: un comodato d’uso con diritto di superficie. Con la possibilità di costruire, 18 mesi dopo l’Expo, oltre 400mila metri quadrati di nuove case, uffici e negozi concentrati su metà dell’area (340mila metri quadrati), mentre l’altra metà resterà pubblica. L’indice di edificabilità è dello 0,52, in realtà raddoppia visto che si dovranno concentrare le volumetrie, facendo nascere palazzi da 14-18 piani. Un nuovo quartiere da 15mila abitanti, accusa il centrosinistra, un’operazione immobiliare da 400 milioni di euro.
Un tesoro conteso fino all’ultimo, perché è attorno a quelle plusvalenze che si è giocata la partita. Nonostante i privati siano chiamati oggi a pagare, oltre agli oneri di urbanizzazione, anche parte delle infrastrutture: il modo per garantire l’interesse pubblico. Attacca Penati: «Quello della Moratti è un regalo ai privati. La partita dell’Expo è politica ed è tutta giocata nel Pdl». Stefano Boeri, candidato sindaco alle primarie di centrosinistra, è uno degli architetti che ha disegnato il progetto del 2015: campi da coltivare con tutti i sapori del mondo al posto dei tradizionali padiglioni. Un orto planetario che questo accordo «sbagliato», dice, cancellerà con «una colata di cemento». Secondo i suoi calcoli, tra opere Expo e residenze future si arriverà a oltre 700mila metri quadrati: l’equivalente di 25 Pirelloni.
L’evento che avrebbe dovuto rilanciare la Capitale del Nord, finora è stato soltanto il palcoscenico di uno scontro di potere interno al centrodestra, per stabilire chi gestirà le leve di comando e i futuri appalti e cantieri. È così che se ne sono andati 927 giorni. In un braccio di ferro tra Letizia Moratti, il sindaco-commissario a cui il governo ha appena affidato altri poteri da "Bertolaso del Nord" per velocizzare i lavori a colpi di deroghe, e Roberto Formigoni, il governatore del "ventennio" di dominazione in Lombardia. Una battaglia di personalismi, una contesa tra l’anima laica del Pdl e quella cattolico-ciellina. Non a caso l’area scelta per i futuri padiglioni sorge vicino al nuovo polo fieristico di Rho-Pero e, per la maggior parte, è in mano alla Fiera, feudo ciellino e formigoniano fino all’avvento alla presidenza di Cantoni, fedelissimo del Cavaliere.
Gli ultimi mesi sono stati contrassegnati dall’indecisionismo del sindaco, che ha sempre propugnato la scelta del comodato d’uso con i privati, e dai veti del presidente della Regione che ha difeso fino all’ultimo la strada di una "newco" pubblica per acquistare i terreni. A comprare le aree ci aveva provato anche la società di gestione guidata allora da Lucio Stanca, l’ex ministro chiamato da Berlusconi alla guida: l’offerta arrivò a 180 milioni, ma finì in nulla. Formigoni iniziò così la sua partita a scacchi deflagrata in uno scontro aperto tra istituzioni: lo scorso luglio il Pirellone propose di comprare il milione di metri quadrati.
Per il governatore, che è arrivato a ventilare l’ipotesi dell’esproprio, era la via migliore e più trasparente per garantire «l’interesse pubblico». Per i detrattori, una mossa per mettere le mani su Expo tagliando fuori l’alleata-nemica Moratti e gestire attraverso Infrastrutture lombarde – il braccio operativo di Regione Lombardia – i lavori. Non solo. Chi possederà le aree deciderà anche cosa vi sorgerà. Per ora, in mano pubblica rimarrà un parco tematico che ruoterà attorno alle serre con tutte le colture del mondo, un auditorium, le case del villaggio Expo e tre padiglioni destinati al centro di produzione Rai. Ma il resto è tutto da inventare e anche qui il mondo dell’edilizia milanese vorrà pesare. Chi si contenderà quei lavori? E poi ci sono gli interessi di chi, oggi, non è della partita, come Salvatore Ligresti (che pure possiede gran parte di un’area dismessa non lontana dal sito Expo, che il Comune ha in programma di trasformare in una nuova Défence), ma che osserva con aria nient’affatto disinteressata quel che accade intorno a Rho-Pero. Nella peggiore delle ipotesi, perché sul mercato asfittico di questi anni si riverseranno altre migliaia di metri quadrati costruiti e da vendere, e la concorrenza dà sempre fastidio. Nella migliore, l’affare sarà così grande che forse anche gli esclusi di oggi troveranno un posto a tavola.
Corriere della Sera ed. Milano
Expo, via libera dei privati
di Elisabetta Soglio
Arriva in extremis, ma arriva. Fondazione Fiera e gruppo Cabassi hanno ieri scritto al sindaco commissario di Expo dichiarando la «disponibilità immediata e incondizionata» dei terreni che ospiteranno l’evento del 2015. La notizia verrà portata al Bie martedì prossimo. Restano da decidere, però, le modalità dell’accordo fra privati e soci pubblici sia per le spese di infrastrutturazione dell’area, sia per i criteri di edificabilità che verranno concessi. Dall’opposizione piovono critiche: «Ci opporremo a questa colata di cemento regalata ai privati». I terreni ci sono e lamacchina di Expo ricomincia a muoversi. Il consiglio generale della Fondazione Fiera, presieduto dal professor Gianpiero Cantoni, ha deliberato ieri «la messa a disposizione incondizionata, con decorrenza immediata e sino al diciottesimo mese successivo alla fine dell’evento» delle aree che ospiteranno Expo 2015. Anche il gruppo Cabassi, proprietario del 30 per cento degli spazi di Rho-Pero su cui sorgerà l’esposizione, ha scritto al sindaco-commissario garantendo la disponibilità chiesta.
Una precondizione indispensabile per poter continuare il cammino verso la registrazione del dossier italiano, che il Bie dovrebbe firmare il 23 novembre. Ma per martedì prossimo, 19 ottobre, è previsto l’incontro con il comitato direttivo del Bureau, al quale la Moratti e l’amministratore delegato della società Giuseppe Sala dovranno portare la garanzia dei terreni rimasta fino ad oggi in sospeso.
Il sospirato via libera, comunque, non risolve tutti i problemi: nel senso che, dal 20 ottobre, i soci pubblici dovranno tornare a discutere con quelli privati delle condizioni del comodato d’uso. I Cabassi e la Fondazione Fiera lasciano intendere che chiederanno il rispetto dell’accordo di programma sottoscritto dalle istituzioni nel 2007 e riconfermato nel settembre scorso. Questo, per quanto attieneagli indici di edificabilità: in realtà, tutto il discorso potrebbe essere rivisto dai consigli comunale, provinciale e regionale che dovranno ancora approvare la delibera.
Altra questione è quella della partecipazione dei privati alle spese di infrastrutturazione. Come chiesto dalla Regione, su indicazione dei pareri legali presentati dal Governatore Roberto Formigoni al sindaco commissario, oltre agli oneri di urbanizzazione Fondazione Fiera e Cabassi dovranno partecipare alle spese di infrastrutturazione dell’area. Pagando quanto, è tutto da decidere.
Per ora ci si accontenta del passo avanti comunque decisivo. Cantoni ha ammesso che «è stato un accordo un po’ sofferto», ma che quella scelta è parsa «la soluzione più idonea, perchè garantisce contemporaneamente l'interesse pubblico complessivo di tutti gli attori istituzionali coinvolti e evita un impatto negativo sul patrimonio e sul conto economico della Fondazione». Ripercorrendo le varie ipotesi prese in esame per la proprietà delle aree (l’esproprio, la costituzione di una newco e il comodato) il senatore Cantoni ha ribadito la preferenza per il comodato malgrado il presidente Formigoni abbia sostenuto la via della newco. Ma non ci sono dissidi: «Abbiamo concordato le linee con la Regione», puntualizza il presidente.
Nessun commento, fin qui, da Regione e Comune, anche se i vertici istituzionali sono soddisfatti perché comunque «ora abbiamo le carte in regola». Già oggi Formigoni e Moratti avranno un incontro privato per fare il punto della situazione, alla luce dei documenti nel frattempo esaminati. Arrivano invece le critiche del centrosinistra. Apre le danze l’architetto Stefano Boeri, che aveva realizzato il masterplan di Expo. «Quella del comodato— attacca— è una scelta profondamente sbagliata, che oltretutto seppellisce sotto una montagna di cemento il progetto di un orto botanico planetario per l'Expo 2015». Critico anche l’altro candidato, Giuliano Pisapia, che punta il dito contro Moratti e Formigoni: «Sarà vostra responsabilità non trasformare l’Expo in un affare d’oro per i soliti noti».
Dichiara guerra il capogruppo pd Pierfrancesco Majorino: «Andiamo verso una possibile cementificazione selvaggia dell’area Expo dopo il 2015. In consiglio ci opporremo all’ipotesi di una quartiere di lusso pagato dai contribuenti».
la Repubblica ed. Milano
"Addio orto planetario sull’area tanto cemento come per 25 Pirelloni"
Intervista a Stefano Boeri, di Alessia Gallione
«Questo accordo è la pietra tombale sull’idea di orto planetario presentato al Bie. Expo è stata usato come grimaldello per regalare migliaia di metri quadrati ai privati». Quel progetto di un’Esposizione leggera e verde, Stefano Boeri l’ha seguito fino a quando ha lasciato la Consulta architettonica per candidarsi alle primarie. Ed è «dall’eredità tradita», che parte l’accusa.
Dopo 927 giorni, siamo tornati alla scelta iniziale: il comodato d’uso.
«È umiliante che dopo più di due anni si sia arrivati a una soluzione che per certi aspetti peggiora l’accordo di programma presentato all’atto della candidatura».
Perché parla di scelta peggiore?
«Se nell’accordo iniziale era prevista un’edificazione sul sito di 580mila metri quadrati, la variante attuale in attesa di essere presentata in consiglio comunale consentirà ben 740mila metri quadrati di costruzioni, l’equivalente di 25 Pirelloni. Con buona pace dell’orto botanico e dell’idea di una grande area agricola di sperimentazione e di ricerca».
Secondo Moratti, però, Expo lascerà un grande parco su metà dell’area. Non basta a salvaguardare l’orto globale?
«Dai miei calcoli, dopo il 2015 i privati potranno costruire 505mila metri quadrati. A questi ne vanno aggiunti i 230mila che Expo realizzerà. E in questa quota sono compresi le serre, il villaggio, ma anche 80mila metri quadrati di una non ben chiarita sede Rai. In totale è l’equivalente di un quartiere come la Bicocca concentrato su un territorio più piccolo. Si tratta, nonostante la partecipazione dei privati ai costi delle infrastrutture, di un’indebita valorizzazione di un terreno privato prodotta grazie a investimenti pubblici».
La proposta della Newco avrebbe tutelato di più il pubblico?
«La linea di Formigoni era più seria e trasparente, ma non si misurava comunque con il problema di fondo: è profondamente sbagliato realizzare un grande investimento pubblico su aree private senza averle prima espropriate o avere chiarito che nessun vantaggio derivante da quegli investimenti favorirà i proprietari. Oggi quelle aree non valgono più di 10 milioni. Mi risulta che per l’acquisto si sia arrivati a offrirne fino a 180».
Chi ritiene che sia giusto costruire un nuovo quartiere lo fa sostenendo che così si farà vivere la zona.
«La nostra idea di orto botanico, oltre che dalla necessità di creare un paesaggio attrattivo e inedito, nasceva dalla volontà di non dare vantaggi ai proprietari privati e di valorizzare un terreno mantenendo la sua natura di grande spazio verde, permeabile e coltivabile. Oltre alle serre sarebbero rimasti l’auditorium e il villaggio. Il viale centrale si sarebbe potuto trasformare in un boulevard dell’alimentazione e della ristorazione italiana e con la Fiera si sarebbe potuta organizzare una grande esposizione dedicata al tema».
Quando ha iniziato a lavorare al progetto, però, l’accordo era quello. Perché non ha denunciato allora questi pericoli?
«I membri della Consulta avevano manifestato una totale contrarietà all’accordo di programma, ma avevamo avuto rassicurazioni sul fatto che i terreni di Rho-Pero sarebbero stati acquisiti o gestiti come pubblici. La verità è che, dopo il nostro progetto, non è stato fatto nulla per ridurre le premesse e promesse fatte ai privati».
Jacques Herzog ha espresso preoccupazione per la necessità di affrontare subito i contenuti. La condivide?
«Condivido pienamente la posizione di Herzog e il suo richiamo al coinvolgimento di Carlo Petrini, una delle anime del progetto. Bisognava partire subito anche con la valorizzazione delle cascine e di un’Expo diffusa. Ma si è fatto poco anche da questo punto di vista».
Expo può ancora essere un successo?
«Sono profondamente amareggiato da questa vicenda, ma la speranza è che si riesca a superare questo momento. Per questo faccio un appello alla città, a cominciare dai nostri governanti. Bisogna ridurre drasticamente le aspettative dei privati, valorizzate l’investimento pubblico sull’orto, che deve essere considerato come l’unica eredità possibile, e misurare su questo il valore del terreno. Se non si riesce spostiamo subito il progetto all’Ortomercato: è un’area pubblica e può ospitare lo stesso progetto con costi minori e procedure corrette e veloci».
Milano. Speculatori a chi? Marco e Matteo Cabassi da mesi hanno l'aria di prendersela a morte con chi li accusa di voler cavalcare l'occasione dell’Expo per fare un sacco di soldi a spese delle casse pubbliche. Ma adesso che, dopo mesi di ricatti e dispetti tra i politici di centrodestra, l'incredibile vicenda dell'esposizione universale del 2015 sembra giunta a una svolta decisiva, i due fratelli immobiliaristi, tra i più grandi operatori nazionali, si trovano in una posizione a dir poco imbarazzante.
La lettera siglata dal sindaco di Milano Letizia Moratti chiede “l’incondizionata e immediata disponibilità” delle aree a nord della città dove sorgeranno, almeno secondo i programmi di partenza, i padiglioni dell’Expo 2015. In sintesi significa che i Cabassi dovranno cedere gratis (in comodato) i loro terreni (260 mila metri quadrati) per poi vederseli restituire a esposizione conclusa con il diritto di costruire su metà di quelle aree. La risposta alla richiesta della Moratti, concordata con il governatore della Lombardia Roberto Formigoni e il presidente della provincia di Milano Guido Podestà (che però non l’hanno firmata), dovrà arrivare entro dopodomani, giovedì. Solo che, qualunque sia la loro replica, i Cabassi rischiano di perdere la partita. Se dicono no al sindaco, faranno la figura di quelli che boicottano un grande progetto descritto come la panacea di tutti i mali della metropoli lombarda.
E, peggio ancora, rischiano di vedersi espropriare le aree a prezzi di saldo. Se invece cedono al diktat del sindaco si imbarcano in un'operazione immobiliare dai ritorni incerti e comunque proiettati in futuro indeterminato. In più saranno anche chiamati sborsare subito alcune decine di milioni (la somma esatta non è chiara) a titolo di “contributi per infrastrutture”. Gli avvocati sono al lavoro. E di qui a giovedì non sono escluse nuove clamorose sorprese. Tra l'altro in gioco ci sono anche i terreni (circa 500 mila metri quadrati) controllati dalla Fondazione Fiera di Milano. Quest'ultima fa capo alla regioneLombardia, ma è presieduta dal berlusconiano Giampiero Cantoni, in rapporti non proprio idilliaci con il governatore Formigoni. Quanto basta per rendere ancora più incerto il risultato finale.
Sta di fatto che i Cabassi al momento non sanno bene che pesci pigliare. La grana dell’Expo è arrivata in una fase molto delicata per il gruppo che hanno ereditato da Giuseppe Cabassi, soprannominato il sabiunatt, uno dei protagonisti della Milano del mattone e della Borsa negli anni Settanta e Ottanta. La crisi partita alla fine del 2007 ha picchiato duro sugli imprenditori immobiliari. I Cabassi, meno indebitati dei concorrenti, sono fin qui riusciti a limitare i danni, ma, Expo a parte, i prossimi mesi sono decisivi. Il progetto di gran lunga più impegnativo, quello del nuovo quartiere Milanofiori (a sud della città sull'autostrada per Genova), è stato completato solo in parte. E il lotto già costruito, cioè 120 mila metri quadrati su 210 mila, non è ancora del tutto piazzato. La parte residenzialeper esempio, (12 mila metri quadrati) è stata venduta per il 30 per cento. La scommessa è riuscire a trovare compratori senza fare sconti troppo elevati rispetto ai 3.500 euro al metro quadro previsti inizialmente. I Cabassi si dicono fiduciosi. A dicembre, con cinque anni di ritardo rispetto alle previsioni, è prevista l'inaugurazione della fermata della metropolitana del nuovo quartiere. E questo almeno in teoria dovrebbe favorire le vendite.
Intanto però i debiti crescono. La posizione finanziaria netta del gruppo che fa capo alla holding Raggio di Luna (controllata dai Cabassi) alla fine del 2009 era negativa per 350 milioni di euro, quasi il doppio rispetto ai 177 milioni del 2007, prima che esplodesse la crisi mondiale del mattone. Anche la Brioschi quotata in Borsa, a cui fa capo l’operazione Milano-fiori, ha visto aumentare il peso dei debiti, che a giugno 2010 erano 261 milioni contro i 217 milioni di fine 2009. Non per niente nei mesi scorsi i Cabassi sono tornati al tavolo delle trattative con le banche per riformulare le condizioni dei prestiti, di cui è stata allungata la scadenza con garanzie supplementari.
Bilanci alla mano, la situazione non è da allarme rosso. La questione Expo però potrebbe rivelarsi decisiva per il futuro. Sul piano dei numeri, ma soprattutto per quanto riguarda i rapporti con la politica. Va detto che di recente i Cabassi hanno avuto modo di farsi apprezzare dalla famiglia Berlusconi comprando per 40 milioni l'area della Cascinazza a Monza. Su quei terreni è in corso da tempo una battaglia per una mega speculazione. Paolo Berlusconi, il fratello del premier, si è sfilato vendendo ai Cabassi, che hanno promesso altri 50 milioni in caso di via libera alla costruzione. Artefice della soluzione il neo ministro Paolo Romani, assessore a Monza. Un affare targato Pdl. Con tanto di lieto fine. Con l'Expo doveva arrivare il bis. Ma le liti nel centro-destra hanno mandato tutto a monte.
la Repubblica
Expo, cala il gelo di Formigoni
"Comodato, ha deciso la Moratti"
di Alessia Gallione
È il gelo di Roberto Formigoni che cala su Expo. E su quella che avrebbe dovuto essere «la soluzione condivisa» per sciogliere, a meno di due settimane dall’ultimatum del Bie, il nodo dei terreni di Rho-Pero. Perché un accordo, al termine del vertice notturno convocato in extremis a casa Moratti, Provincia, è stato trovato. La strada è quella del comodato d’uso, come volevano Letizia Moratti e Guido Podestà. E al governatore, che fino alla fine ha sostenuto le ragioni di una newco che acquistasse le aree, non è rimasto che fare un passo indietro. Quell’ipotesi per il Pirellone resta la migliore. Lo ha fatto capire chiaramente, Formigoni, prendendo le distanze dal risultato: «Visto lo stringersi dei tempi e i poteri straordinari dati a Letizia Moratti ho ritenuto di aderire alla strada indicata dal commissario». Un sì al comodato con i privati, quindi. A cui dovranno essere messi, però, dei "paletti legali" che Regione continua a ritenere indispensabili. Ma la scelta scatena le accuse del centrosinistra: «È un regalo ai privati e non tutela l’interesse pubblico».
Si erano riuniti a tarda sera, i duellanti di Expo. Tutti a casa del sindaco, Moratti, Formigoni e Podestà. Per un incontro decisivo sui terreni. Dopo due ore di discussione era toccato al presidente della Provincia rassicurare: «Accordo condiviso e clima sereno». Anche ieri Podestà è tornato a ribadire come la decisione di fosse «unanime»: «Abbiamo deciso tutti assieme». Il patto avrebbe dovuto essere suggellato da un comunicato congiunto. Ma quella nota ufficiale, fino a ieri sera, non è arrivata: per un’intera giornata sono state rimpallate tra Comune, Regione e Provincia diverse bozze. Senza mai arrivare alla versione definitiva. Il segno più evidente che la guerra dell’Expo non è ancora finita.
Fiera, ieri mattina, ha "brindato" all’accordo con un balzo in Borsa del 16,75 per cento. Ma a Formigoni, poco dopo, sono bastate poche parole a far calare il gelo: «Il sindaco prenderà un’iniziativa in cui spiegherà la proposta che ella preferisce». E far capire che la tregua, adesso, dovrà reggere al nuovo tavolo di confronto che si aprirà tra enti pubblici e proprietari privati. Lo ha confermato anche lei, Letizia Moratti: «Ora sta ai nostri tecnici elaborare la proposta che faremo a Fondazione Fiera e al gruppo Cabassi». Arrivando a ringraziare «in modo particolare Formigoni perché, rispetto a diverse soluzioni e ipotesi che abbiamo esaminato, siamo arrivati a un accordo nel percorso condiviso». Per la Regione, infatti, il contributo che dovranno versare i proprietari per le infrastrutture dovrà salire (da 50 a 120 milioni) e le aree dovranno essere messe a disposizione subito a prescindere dai contenuti della variante urbanistica (i metri quadrati di costruzioni future) che sarà approvata. «E mi auguro - ha aggiunto Formigoni - che i privati aderiscano e la questione possa essere sbloccata». Quasi una sfida.
Perché la preoccupazione per il futuro di Expo rimane. E il centrosinistra accusa. A cominciare dal candidato alle primarie del centrosinistra Stefano Boeri: «L’accordo è la conferma di una truffa che regala ai proprietari delle aree di Rho-Pero, dopo l’Expo, una enorme quantità di metri cubi». Il suo sfidante, Giuliano Pisapia, chiede di fermare «l’osceno teatrino che offende i cittadini». Anche per l’ex presidente della Provincia Filippo Penati la soluzione «è oscura. Non è chiaro se gli ingenti investimenti pubblici verranno rimborsati dai privati». Il segretario regionale pd Maurizio Martina parla di «una toppa peggiore del buco. Sarebbe meglio l’acquisizione delle aree senza escludere l’opzione dell’esproprio».
Corriere della Sera
Pace armata sulle aree Expo
di Elisabetta Soglio
Il sindaco Letizia Moratti è soddisfatta perché «siamo arrivati ad un accordo condiviso ed è estremamente positivo per un Expo che deve avere tutte le istituzioni unite in un gioco di squadra». Anche il presidente della Provincia Guido Podestà garantisce che «siamo tutti d’accordo». Ma il governatore Roberto Formigoni si chiama fuori: «Ha deciso il sindaco e noi abbiamo soltanto aderito, nella speranza che vengano garantite le condizioni poste dai legali e che i privati ci diano una mano». Per i terreni di Expo, quando mancano 12 giorni all’incontro del sindaco-commissario con i vertici del Bie, cui bisogna garantire la disponibilità delle aree, si è scelta la strada del comodato d’uso. Il Pd al Pirellone fa da sponda al Governatore: «Sarebbe stato più trasparente acquistare i terreni, come indicato da Formigoni». I tecnici, intanto, sono al lavoro per definire la proposta che sarà presentata ai Cabassi e alla Fondazione Fiera, cui sarà chiesto di partecipare alle spese di infrastrutturazione. Basta un pronome, alcune volte, per dare l’idea del clima. «Il sindaco prenderà un’iniziativa in cui spiegherà la proposta che ella preferisce». Ella, il sindaco Letizia Moratti, aveva assicurato soltanto la sera prima che era stata condivisa una soluzione per i terreni di Expo con il presidente Guido Podestà e il governatore Roberto Formigoni. Bastano un paio di frasi, e quel pronome che sa tanto di presa di distanze, per smontare tutto.
Roberto Formigoni si chiama fuori precisando di non aver condiviso nulla: ha deciso il sindaco, punto. Parole e toni ben diversi da quelli che Moratti e Podestà hanno usato ancora ieri. «Abbiamo scelto un percorso assieme a Provincia e Regione che si riallaccia a quanto condiviso nel mese di luglio con i soci di Expo», spiega sorridente la Moratti amargine della firma del protocollo per Expo con il sindaco di Bari, Michele Emiliano.
L’ipotesi individuata per garantire al Bureau International des Expositions entro il 19 ottobre la disponibilità dei terreni, è quella del comodato d’uso: la messa da disposizione delle aree da parte dei proprietari, il gruppo Cabassi e la Fondazione Fiera, che in cambio ne otterranno la restituzione post 2015, con tanto di diritti volumetrici.
Anche Podestà ricorda che la decisione dell’altra sera «è stata unanime». Si era però detto che sarebbe stato firmato oggi un comunicato, a suggellare l’intesa raggiunta: del comunicato, ovviamente, non c’è ancora traccia. Il sindaco ha puntualizzato che «i tecnici sono al lavoro per precisare i termini della proposta, che dovrà essere sottoposta ai proprietari». Formigoni ha ancora raccomandato che vengano quanto meno rispettate le indicazioni dei legali: che impegnano a una nuova stima sul valore dei terreni e alla «compartecipazione finanziaria dei privati alle opere di infrastrutturazione». Un passaggio non da poco: tra queste e le spese per gli oneri di urbanizzazione, si parla di oltre 200 milioni di costi a carico dei privati. Paletti che rendono più tortuoso il cammino verso la soluzione.
Nel frattempo, Formigoni incassa l’appoggio del Pd regionale e del vicepresidente del consiglio, Filippo Penati: posto che «è l’unico Expo che si svolge su terreni non pubblici», Penati si chiede perché non sia stata seguita la via dell’esproprio e, in secondo ordine, «pare incomprensibile il rifiuto della proposta del presidente Formigoni anche alla luce dell’approvazione da parte del consiglio regionale di un ordine del giorno in cui si proponeva di costituire una newco in grado di acquistare i terreni».
la Repubblica
Ecco chi perde e chi dopo il 2015
farà affari d’oro
di Alessia Gallione
Doveva essere l’Esposizione dedicata alla terra: da coltivare per far conoscere a 20 milioni di visitatori tutti i sapori del mondo. Dopo 919 giorni, è ancora l’Expo dei terreni. Un milione e 100mila metri quadrati stretti tra le autostrade e la Vela di Fuksas. Aree a cavallo tra Milano (l’85% della superficie) e Rho, che su carte e mappali sono agricole o con destinazioni industriali o artigianali.
Uno spazio abbandonato, tra città e campagna. Su cui sono destinati, però, investimenti pubblici per un miliardo. Rendendo quell’area strategica. E appetibile. Non solo perché dovrà conservare l’eredità di Expo (il parco, le serre...), ma anche perché dopo il 2015 quel pezzo di niente diventerà un nuovo quartiere con case, negozi e uffici. È su questo che si sta consumando lo scontro. Tra interesse pubblico e privato. Tra chi vorrebbe acquistare quelle aree, dividere il guadagno coprendo così anche il futuro deficit della società. E chi (Comune e Provincia) non può investire adesso per comprare e, con la scadenza del Bie alle porte, considera migliore la strada originaria, quella del "comodato d’uso".
[I proprietari]
I padiglioni di Expo non sorgeranno su un’area pubblica. È questo che oggi, di fronte all’impasse, molti considerano come l’errore originario. Di quel milione di metri quadri, solo quote minime sono del Comune di Milano (51mila metri quadrati) e di Rho (120mila). I maggiori proprietari sono Fondazione Fiera, con 520mila metri quadrati, e gruppo Cabassi con 260mila.
[Il comodato d’uso]
Il destino è stato segnato tre anni fa. Era il 28 giugno del 2007 quando Palazzo Marino, dopo mesi di trattative, concluse con Fondazione Fiera e Cabassi una scrittura privata. Uno schema poi perfezionato con una delibera di giunta (13 luglio 2007) votata dal consiglio comunale (19 ottobre 2007) e arrivato fino all’ultimo vertice a casa Moratti. È da lì che parte l’idea del comodato d’uso con diritto di superficie. Cosa vuol dire? I privati si impegnano a mettere a disposizione quelle aree (in "diritto di superficie") fino alla fine della manifestazione per una cifra simbolica (la delibera votata da Palazzo Marino prevedeva 5mila euro). Nel 2017, però, si impegnano a cedere definitivamente al Comune più della metà dell’area, ovvero 430mila metri quadrati. L’altra metà rimane loro. Ed è lì, su quei restanti 340mila metri quadrati, che potranno costruire.
[L’indice e la quantità di costruzioni ]
Cosa succederà dopo Expo? Da una parte il parco con le serre e le colture del mondo, la sede della Rai, i canali, un auditorium... Tutti spazi pubblici. Dall’altra un nuovo quartiere. Lo dice chiaro la variante urbanistica appena pubblicata che, entro fine anno, dovrà sbarcare in consiglio comunale per l’adozione. È in questo strumento urbanistico che tutti gli enti pubblici (Comune di Milano e Rho, Provincia e Regione) hanno di fatto confermato le previsioni del 2007. Allora, si era deciso, dopo Expo si sarebbe potuto costruire applicando un indice di 0,6 metri quadrati su metro quadrato. Oltre 500mila metri quadrati di case e palazzi compresi, però, 55mila metri quadrati (pari allo 0,008) riservati al pubblico. Nell’ultima versione sparisce solo la quota pubblica e l’indice per i privati rimane lo 0,52. Per avere un’idea: 430mila metri quadrati di superficie. Non solo. Visto che i cantieri sorgeranno solo su metà della zona, quell’indice è come se raddoppiasse. Si dovrà puntare in altezza con palazzi di 14-18 piani.
[I VANTAGGI ECONOMICI]
È la parte più complessa dell’accordo. Chi ci guadagna con il comodato d’uso? A luglio, per aumentare il cosiddetto interesse pubblico, si era arrivati a un ulteriore accordo con Fondazione Fiera e Cabassi. Gli investimenti pubblici sono tanti e quell’area, che oggi non vale molto, moltiplicherebbe il proprio valore grazie alle infrastrutture del 2015: solo quelle legate al sito valgono 120 milioni. Per i tecnici quei 400mila metri quadrati di nuove costruzioni garantirebbero un’operazione immobiliare da 400 milioni con un guadagno attualizzato di 141 milioni, con i futuri edifici venduti a 3mila euro al metro quadro. È in base a queste plusvalenze che il tavolo riuscì a strappare benefici per gli enti locali, 195 milioni di euro tra oneri di urbanizzazione (che incasserebbe soltanto il Comune) e contributi per le infrastrutture: 50 milioni che i privati metterebbero sul piatto. Nel conteggio anche la cascina Triulza (7 milioni) e il villaggio Expo affacciato sul canale. Destinato a diventare housing sociale, vale circa 45 milioni. Tutte cifre che, adesso, una nuova trattativa cercherà di alzare. A cominciare, per il Pirellone, da quel contributo per le opere: da 50 milioni dovrà raggiungere almeno quota 120.