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Titolo originale: Mapled Crusaders – Traduzione per Eddyburg Mall di Fabrizio Bottini



Oltre un gruppo di portali in granito a Rumford, Maine, c’è una città perduta fra aceri argentati e querce, appena oltre il fiume di fronte a una grossa cartiera.

Si chiama Strathglass Park, e rappresenta le vestigia di un esperimento di benevolenza aziendale. Progettato nel 1904 dal famoso architetto Cass Gilbert, più tardi autore del Woolworth Building a Manhattan e della Corte Suprema a Washington, questo gruppo di regali case in mattoni e pensioni per lavoratori fu costruito da un magnate delle cartiere per 266 lavoratori e le loro famiglie.

Il complesso propone uno sguardo su un passato degno del Mago di Oz, quando la foresta significava ricchezza. Gli impianti di lavorazione del New England erano lontani avamposti di un impero economico: pulsanti di attività, sfavillanti di luci nella notte, che riversavano denaro sulle comunità circostanti come nobili ubriachi.

C’era bisogno di operai delle cartiere, e venivano pagati magnificamente. I taglialegna conducevano una vita comoda. Alcune imprese offrivano ai dipendenti prestiti a tassi agevolati, si costruivano biblioteche e altre opere pubbliche, si fondavano società di mutuo soccorso per aiutare i bisognosi. Sino agli anni ’60 e ‘70, normalmente i lavoratori delle cartiere possedevano seconde case estive sulla sponda del lago, costruite su lotti affittati per cifre irrisorie dai datori di lavoro.

Quell’epoca è passata. Oggi, gli impianti più vecchi chiudono a causa della forte concorrenza di strutture più moderne ed efficienti all’estero, specialmente in paesi dove ci sono poche norme ambientali. Intanto anche i lavori nel bosco si sono fatti più meccanizzati e con uso meno intenso di manodopera: se il prodotto del bosco è rimasto quasi costante, l’occupazione è precipitata.

Fra il 1997 e il 2002 in Maine, il lavoro nel settore forestale è diminuito del 23%, con perdita di oltre 5.000 posti di lavoro. La prognosi per le contee più remote del New England, che un tempo si alimentavano del succo di foresta, non è favorevole: un abitante su quattro della Somerset County in Maine e uno su cinque della Washington County ora vivono in povertà. Le comunità ai margini delle zone di raccolta legname del New England sono distrutte.

Quello che conta di più, in tutta la regione i terreni sono lottizzati e venduti, una cosa vista da molti come un colpo la cuore della vecchia economia. Gruppi di investimento e famiglie facoltose si sono comprati il proprio feudo – qui li chiamano “quelli che si comprano un regno” – e i vecchi operatori del settore del legno stanno abbandonando le attività. Un ettaro su quattro nel Maine ha cambiato di mano negli ultimi dieci anni. A livello nazionale, circa 12 milioni di ettari, ovvero metà delle foreste private per usi industriali, sono stati venduti a partire dal 1996.

Ma dove va a finire, l’economia del legname? Sempre più, le comunità reclamano a sé i propri boschi, con gli abitanti e le amministrazioni che si mettono insieme per acquistare appezzamenti a due scopi: proteggere il territorio e stimolare l’economia locale. In alcuni casi, le terre sono lasciate disponibile specificamente per gli abitanti a basso reddito. Per dirla col promotore delle foreste sostenibili David Brynn, “In New England sta succedendo qualcosa di interessante”.

Questa terra è la nostra terra

Quando sono stati messi in vendita 50 ettari di bosco sul fianco di una collina nelle zone rurali del Vermont occidentale lo scorso anno, si sono presentati 60 potenziali acquirenti in tre differenti occasioni per riuscire ad averne un pezzetto. Tutto questo clamore per l’area non sorprende: quegli appezzamenti, sulla Little Hogback Mountain, sono pieni di magnifiche querce rosse, faggi, aceri, con un sentiero che serpeggia fino a una cima rocciosa con panorama sulla valle. Ed è entrato sul mercato nel mezzo di una piccola corsa alle terre, coi prezzi localmente in lievitazione, come del resto anche in New England.

Quello che sorprende nel caso particolare è questo: gli interessati stavano esaminando la possibilità di acquistare insieme ad altri. Se tutto va come previsto, non una ma 16 persone saranno proprietarie di tutto. Non singoli lotti per seconde case, ma una foresta comune, da mantenere indivisa e inedificata. Gli acquirenti, ciascuno dei quali pagherà una quota di 3.000 dollari, avranno accesso ai terreni per legna da ardere e tempo libero. Ogni 10-15 sarà effettuato un taglio a usi commerciali, i cui proventi sosterranno la gestione del bosco e le tasse sulla proprietà.

”Il metodo democratico di suddividere i terreni in piccoli appezzamenti così che chiunque potesse permettersene un po’, non funzionava” dice Deb Brighton. Abitante dell’area ed ex funzionaria dello stato per la conservazione, ha collaborato con un piccolo gruppo – che comprende Vermont Land Trust e Vermont Family Forests, gruppo senza fini di lucro dedicato al mantenimento delle condizioni attuali e di salute dei boschi da legname – per gestire la questione. “Era meglio organizzare il tutto come un’unica cosa, e metterla nelle mani di membri della comunità vivono e lavorano qui, ma che hanno sempre meno possibilità di possedere terre”.

Nel suo periodo allo Housing and Conservation Board del Vermont, la Brighton ha visto come vasti tratti di foreste nello stato fossero sempre più suddivisi, mentre i residenti di lunga data a basso reddito non potevano permettersi di acquistare terreni e mantenerli ad uso produttivo. A questo scopo, metà delle quote del progetto Hogback sono riservate a chi ha un reddito familiare inferiore a quello medio della contea di 59.000 dollari l’anno; le persone di questa categoria sono anche abilitate a un prestito agevolato che copre metà del prezzo d’acquisto. Il resto dei lotti viene ceduto a chi ha meno del doppio del reddito medio: in altre parole, non possono fare richiesta “quelli che si comprano un regno”.

La Brighton e i suoi colleghi ora stanno aspettando una decisione dell’ufficio imposte che fissi quanto saranno tassati i partecipanti, prima di concludere il progetto. Ma la zona, ora di proprietà del Vermont Land Trust, sta già dando il suo contributo alla comunità. La scorsa estate sono stati tagliati da operatori locali circa 6.300 board feet [misura di volume del legname di complicatissima conversione n.d.T.] di legname, poi lavorato negli impianti di Vermont e Quebec. Ora se ne stanno preparando altri 40.000, tra questa e altre zone vicine. I bancali riportano il marchio Vermont Family Forests, così chi acquista sa che si tratta di prodotto locale, da un bosco certificatamente gestito in modo sostenibile.

Il caso Hogback è solo un esempio di una tendenza in crescita. Negli ultimi tempi il progetto più grosso nella regione è stato l’acquisto nel maggio 2005 di 10.000 ettari di bosco comunitario da parte del Downeast Lakes Land Trust, che esiste da cinque anni, insieme alla New England Forestry Foundation. La zona è a ovest del remoto villaggio di Grand Lake Stream, e gli acquirenti hanno richiesto una certificazione del Forest Stewardship Council. Nel bosco è stata individuata una riserva ecologica di 1.500 ettari, e altri 120.000 saranno tutelati tramite procedura di conservation easement.Centinaia di chilometri di sponde a bosco saranno gestite per usi di tempo libero, con l’obiettivo di portare qui turisti a sostenere attività locali, come una serie di rifugi storici. Il bosco è visto come motore economico per mantenere vitale la comunità.

Altre acquisizioni comprendono l’acquisto da parte di Randolph, N.H., di una superficie a bosco di 4.000 ettari di cui si temeva l’edificazione. E lo scorso anno, è stata comprata la 13 Mile Woods, una foresta comunitaria di 2.500 ettari, da parte della cittadina di Errol, N.H., con l’assistenza del Trust for Public Land. Le aree rurali del New England, di fatto, sono diventate un laboratorio per grandi esperimenti di costruzione di un rapporto fra la foresta e le sue comunità.

Da cosa nasce cosa

”Il movimento per le foreste comuni sta crescendo rapidamente a livello nazionale” dice Jeffrey Campbell, a capo della Community Forestry Initiative della Fondazione Ford. “Le persone capiscono che questo offre un’occasione di sviluppo sociale ed economico”.

Il termine “ Community forestry” è una definizione pigliatutto. Significa una cosa in Messico, un’altra in Svizzera, un’altra ancora in Nepal. Negli Stati Uniti, cambia da una costa all’altra, e in tutti i territori che ci stanno in mezzo. Nel nord-ovest del Pacifico, dove il governo federale possiede circa la metà dei terreni, la definizione riguarda un processo all’interno del quale chi taglia il legname, ambientalisti e altri si mettono insieme per costruire un’idea di gestione dei terreni di proprietà pubblica.

Nei sei stati del New England, che messi tutti insieme potrebbero essere contenuti in quello di Washington, solo il 5% dei terreni sono di proprietà del governo federale. Proprietari privati di tipo industriale, investment trusts, scuole, amministrazioni locali, e stati, possiedono e gestiscono il resto. Quindi forestazione comunitaria significa qualcosa di diverso, in questa scacchiera ineguale di proprietà, e gli approcci sono vari tanto quanto gli ecosistemi e le comunità da cui nascono.

In Vermont, per esempio, si calcola che 120 delle 251 municipalità possiedano in totale 140 foreste. Questi “boschi della città” sono una tradizione del New England: all’inizio del XX secolo, tutti e sei gli stati hanno approvato leggi di istituzione di queste foreste, acquisite attraverso donazioni, comprate, o sequestrate quando non venivano pagate le imposte. La maggior parte sono state riservate a una miscela di raccolta legname e tempo libero.

Pochi hanno prestato attenzione a queste sacche di spazio per oltre cinquant’anni: semplicemente, lo sfruttamento locale è andato fuori uso. Ma le cose gradualmente sono cambiate, grazie sia all’interesse crescente per le potenzialità economiche, che – nel caso del Vermont – al the Vermont Town Forest Project, un’idea emersa due anni fa da un convegno di gruppi ambientalisti.

Jad Daley, responsabile della campgna per la Northern Forest Alliance, è a capo del progetto per i boschi comunitari e spera che la cosa produca una “impollinazione incrociata”: dimostrando come le comunità possano trarre benefici dai boschi, e incoraggiando chi non ne ha ad acquisirli.

Daley cita la piccola Goshen, Vermont, come esempio. La cittadina possiede 400 ettari di bosco da vent’anni, e ha contrattato coi taglialegna locali una raccolta selettiva. Sinora, la foresta ha prodotto oltre un quarto di milione di dollari di reddito, utilizzati per finanziare lavori stradali, tra l’altro. La cosa, a sua volta, contribuisce a ridurre la pressione delle tasse sugli immobili (e negli anni ha anche offerto vari benefici diversi come una piccola quantità di sciroppo d’acero regalata da un produttore a ciascun abitante in cambio dell’uso del bosco).

Altre comunità, come Stowe, Vermont, hanno deciso che i propri boschi sono più adatti ad essere gestiti per il tempo libero, ad attirare i dollari dei turisti. Altre ancora hanno preferito un approccio multiplo. Un comitato di abitanti di Lincoln, Vermont, dopo aver esaminato varie opzioni, ha deciso di raccogliere il legname in uno dei due boschi della cittadina, e destinare l’altro a riserva ecologica.

Daley afferma che il dibattito su cosa fare dei pezzi di terreno spesso è altrettanto importante del risultato finale: “Alla fin fine, i progetti diversi sono tanti quanti le 251 cittadine del Vermont”.

Ma tutti condividono un’unica idea forte. “Una foresta comunitaria significa in linea generale [un posto] dove le persone si mettono insieme, unite dal territorio di appartenenza o dagli interessi, e vengono coinvolte nel modo in cui gli alberi vengono gestiti per il bene di tutti” dice Ajit Krishnaswamy, direttore della rete nazionale di operatori forestali National Community Forestry Center. “E non si tratta necessariamente di aspetti economici; può riguardare anche benefici culturali e sociali”.

”Proprio come con le comunità, non esistono due boschi identici: è diversa la storia, sono diversi i terreni” dice Shanna Ratner, ex esponente di NCFC ora presidente della Yellow Wood Associates, che offre consulenza alle comunità rurali per lo sviluppo economico. “Man mano le persone si avvicinano a vedere la verità – ovvero quanto è possibile trarre dal bosco senza danneggiarlo – vedono anche che ci sono moltissime possibilità”.

Il tesoro delle colline

In una prospettiva ambientalista, città e colline della vecchia economia dei boschi ricordano più il regno di Mordor che quello di Oz. La raccolta di legname su larga scala ha sfruttato ed estirpato i boschi per alimentare gli impianti; la foresta è caduta preda dell’erosione e delle monocolture. Le cartiere hanno lasciato i fiumi incrostati di scorie e sempre più poveri di vita. Negli anni, a molti di quei danni è stato rimediato. Ma l’atteggiamento che hanno creato è più lento da cambiare.

Brynn, anche direttore di Green Forestry Education Initiative all’università del Vermont, ha fondato Vermont Family Forests. Racconta che l’organizzazione tenta di ribaltare un paradigma superato. Il vecchio approccio era di trarre dal bosco prodotti del legno, trovare un mercato, e preoccuparsi della foresta, eventualmente, solo dopo. “Quello che stiamo tentando di fare è rendere consapevoli le persone innanzitutto del benessere del bosco” dice Brynn. “Senza una sana ecologia del bosco, non c’è foresta sana, né economia sana. Significa vendere più di quanto possa offrire”.

I sostenitori delle foreste comunitarie lavorano per aumentare il valore di quel legname, e per assicurare che il valore resti alle comunità. Nel 2000, Vermont Family Forests ha collaborato col Middlebury College ad offrire legname a denominazione di origine locale certificata per un progetto edilizio da 47 milioni di dollari. Gli architetti opponevano resistenza, perché quanto offerto dai boschi locali non era perfetto quanto desideravano. Ma alla fine i progettisti hanno adottato i materiali locali e le loro imperfezioni.

Più a sud, la New England Forestry Foundation spera di contribuire a rinvigorire le stanceh economie del Massachusetts centro-settentrionale sostenendo il progetto North Quabbin Woods, che sta tentando di mettere insieme nove comunità dell’area e i proprietari (circa il 60% delle superfici è privato) per la sostenibilità dei boschi. Il programma comprende la formazione di guide per le attività all’aperto e la gestione di una linea commerciale che esiste da due anni a Orange, Massachusetts, dove una ventina di artigiani e artisti offrono prodotti ricavati dal bosco, come articoli per la casa e ornamentali.

Sono stati lanciati altri negozi che promuovono i prodotti dei boschi locali, da parte di gruppi non-profit a Farmington, Maine, e Stowe, Vermont. È un utile primo passo per evidenziare il rapporto di dipendenza fra città e albero, per dimostrare come gli abitanti del posto possano trarre beneficio dal controllo dei boschi. “La questione non è quanti tronchi possiamo cavare dalla foresta, ma quanti dollari si guadagnano da ciascun tronco” ha sottolineato Spencer Phillips della The Wilderness Society a un convegno dello scorso anno in Maine sulle foreste comunitarie.

Le community forests probabilmente non basteranno a costruire un utopico paradiso dei lavoratori. E le iniziative in corso – come lo sviluppo del mercato per il legname locale – non si evolvono tanto velocemente come vorrebbero molti. Ma non bisogna mai sottostimare un’idea potente. Qualcuno all’interno del movimento paragona i boschi comunitari alle produzioni agricole locali. Dopo anni di prepotenze, il pubblico sta lentamente ma costantemente prestando sempre più attenzione alla provenienza di quello che mangia. I fans delle foreste comunitarie dicono che può succedere la medesima cosa col legno.

”Il messaggio funziona in sede locale” dice Brynn. “È l’idea complessiva di avere un prodotto che viene da un posto che si conosce, che si conosce chi lo fa. È un altro modo per coltivare un senso del luogo a scala umana”.

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L´ultimo allarme giunge dalla Spagna. Lo lancia il ministro dell´Ambiente del governo Zapatero, Cristina Narbona. Nel periodo fra il 1987 e il 2005 la superficie occupata da costruzioni è cresciuta del 40 per cento. È un fenomeno «insostenibile e irresponsabile», denuncia il ministro. Le punte di questa «urbanizzazione selvaggia» (sono sempre parole di Cristina Narbona) sono nella regione di Valencia e della Murcia, dove si è superato il 50 per cento di aumento. Le coste della regione andalusa, poi, sono integralmente edificate in una fascia di un chilometro dalla battigia per il 34 per cento del totale. «Il trend è continuo ed ormai è senza controllo», continua Cristina Narbona. Una sola regione ha posto un freno, la Catalogna, che ha varato una rigida legislazione per impedire che altro suolo venga consumato.

Il caso spagnolo è ben noto a Richard Burdett, cinquant´anni, i primi venti dei quali trascorsi a Roma (suo padre era il corrispondente della rete tv Cbs) e poi a Londra, dove ora insegna Architettura e Urbanistica alla London School of Economics oltre ad essere fra i consulenti del sindaco Livingstone, Ken "il rosso", come lo chiamano per il suo radicalismo. Burdett è il nuovo direttore della Biennale Architettura di Venezia che quest´anno (vedi il programma nel box qui accanto) si concentra non su singoli oggetti, sul manufatto di questa o di quell´altra "archistar", ma sulla città, anzi sulle megalopoli, mettendo a confronto le esperienze urbane di sedici grandi concentrazioni, da Shangai, Mumbai e Tokyo, in Asia, a Caracas, Città del Messico e Bogotà in Sudamerica; da Johannesburg in Africa al Cairo e a Istanbul nell´area del Mediterraneo, fino alle europee Londra, Barcellona e Berlino in Europa e all´immensa conurbazione che va realizzandosi fra Milano e Torino.

Burdett è specialista degli effetti sociali dell´architettura. Si rigira per le mani le mappe delle sedici città e si sofferma sui colori intensi, quelli che indicano i luoghi in cui vivono i più poveri in una scala che va verso il tenue dei quartieri residenziali. I problemi che l´attraggono sono come tenere legati i diversi pezzi di una città, come distribuire le reti del trasporto pubblico. Sostiene di essere interessato a come realizzare i marciapiedi piuttosto che al Guggenheim di Bilbao, «che pure è un bellissimo oggetto». E aggiunge: «Nella nostra veste di architetti, urbanisti e creatori di città, quando creiamo un´infrastruttura dobbiamo sapere che questa può consentire integrazione sociale o, al contrario, può essere fonte di esclusione e di dominio».

La città che si espande, che oltrepassa i suoi confini, che consuma altro suolo e invade il territorio circostante è un modello che valica i continenti. Spiega Burdett: «Se osserviamo la terra dallo spazio durante la notte, vediamo enormi chiazze e cordoni di luce che rispecchiano da vicino le mappe globali dell´estensione urbana. Per esempio l´Europa è percorsa da un fitto nastro luminoso che si sta consolidando nel cuore del continente, dall´Inghilterra meridionale fino a tutta l´Italia settentrionale. Ma lo stesso fenomeno si osserva in ampie zone degli Stati Uniti o del Giappone oppure, ed è l´avvenimento più recente, nell´Asia meridionale e lungo le coste della Cina, dove si prevede che nell´arco di un paio di decenni si concentrerà quasi metà della popolazione urbana mondiale». È un fenomeno che può avere effetti distruttivi, se non controllato. Ma è anche l´occasione perché si sperimentino nuove forme di governo, affidate soprattutto alla mano pubblica. Su questo Burdett ha pochi dubbi. La London School of Economics è il tempio della terza via che sulle politiche urbane declina il suo verbo con molto mercato e molte, moltissime regole.

Moltissime regole sono indispensabili essendo questa "città dispersa" una città soprattutto privata... «Tutte le città, all´ottanta, novanta per cento, sono private, sia nel centro di Londra che nei barrios del Cairo, dove chi ha costruito abusivamente un palazzo di dodici piani lo lascia in eredità ai suoi figli, e ai figli dei figli e quel palazzo diventa poi perfettamente legale. Ma la politica pubblica deve essere molto autorevole e molto chiara. Ken Livingstone ha autorizzato la Bridge Tower, il nuovo grattacielo di Renzo Piano alto trecento metri a forma di guglia: ma sa quanti posti macchina ha consentito? Dodici. Alla Bridge Tower e nell´area circostante ci si deve arrivare a piedi o con il trasporto pubblico. A Tokyo vivono 35 milioni di abitanti, è la più vasta area metropolitana del mondo, ma il 78 per cento di loro usa abitualmente la metropolitana e non potrebbe fare diversamente». A Los Angeles, invece, domina ancora l´auto privata. Come a Roma, d´altronde, dove circolano quasi ottanta macchine ogni cento abitanti e fra i cento abitanti sono compresi i bambini e gli ultraottantenni.

Secondo le Nazioni Unite, ricorda Burdett, nel 2050 l´indiana Mumbai «si sostituirà a Tokyo nel ruolo di città più grande del mondo». Ma intanto la velocità da capogiro è tangibile nelle vaste conurbazioni cinesi: «Shangai cresce sia in altezza sia in ampiezza e ora conta quasi tremila edifici che hanno più di dieci piani, mentre fino a dieci anni fa ne aveva trecento. Il Comune confida di costruire 280 nuove stazioni di metropolitana». Ma l´immagine del nastro di luce non è brillante allo stesso modo. Immense concentrazioni dilagano nelle regioni centrali e costiere dell´Africa (si calcola che nel 2015 Lagos avrà ogni ora 67 nuovi abitanti), ma questi agglomerati sono il riflesso fisico e spaziale della povertà e della scarsa alfabetizzazione. «In Egitto», racconta Burdett, «nasce un bambino ogni venti secondi e oltre il 60 per cento della popolazione vive in insediamenti con edifici alti anche quattordici piani e appena un metro quadrato di spazi aperti pro-capite. Per questo il nuovo parco al-Azhar, un polmone di verde nel centro storico del Cairo, ha un valore sociale che va molto oltre i meriti estetici del progetto».

Le politiche pubbliche per la città sono, secondo Burdett, la scommessa dei prossimi anni. «L´impatto ambientale delle città è enorme, sia per il crescente peso demografico, sia per la quantità di risorse naturali che consumano», dice l´architetto londinese. Tutti gli aspetti della vita urbana hanno implicazioni per l´intero pianeta, per i suoi equilibri ecologici: dai gas di scarico che emettono le auto in fila per entrare in città, o per uscirvi, all´energia per riscaldare o raffreddare gli edifici. Londra, seguendo l´esempio di Singapore, ha imposto una tassa alle macchine private che entrano in città, riducendo così traffico e inquinamento e destinando soldi al trasporto pubblico e alla creazione di nuovi spazi pubblici, come la grande area pedonale intorno a Trafalgar Square disegnata da Norman Foster. Inoltre, invertendo la deregulation thatcheriana, la capitale inglese ha rinnovato i fasti della pianificazione urbanistica: per ospitare i settecentomila abitanti che si prevede arriveranno entro il 2016 (il novanta per cento dei quali extra-comunitari) non verrà edificato neanche un centimetro quadrato della green belt, la cintura verde che l´avvolge, non ci sarà altro consumo di suolo, ma verranno riusate aree industriali dismesse all´interno della città.

Ma non ci sono solo Londra o Barcellona a investire quattrini nella rinascita delle città. A New York, per esempio, sono stati banditi concorsi internazionali per progettare abitazioni pubbliche a basso costo. Ma agli occhi di Burdett spicca il caso di Bogotà, «un caso esemplare quanto imprevisto di trasformazione urbana in direzione dell´egualitarismo». Nel giro di qualche anno la capitale colombiana ha costruito il Transmilenio, un sistema rapido ed efficiente di trasporto pubblico, oltre a una rete di piste ciclabili e poi parchi e piazze «che hanno cambiato il modo in cui gran parte degli oltre 6 milioni di abitanti si spostano in città, con un impatto straordinario per la qualità della vita e per la riduzione della criminalità». Qualche tempo fa, poi, l´Onu ha indicato San Paolo del Brasile come modello di politiche urbane per gli investimenti nella scuola e nei trasporti, che stanno alleviando le drammatiche condizioni di alcuni barrios. Molti barrios cambiano volto anche a Caracas. Nella capitale del Venezuela, quando piove, i ripidi sentieri sterrati che percorrono questi quartieri disperati salendo ad altezze vertiginose, equivalenti a un palazzo di trenta, ma anche quaranta piani, si trasformano in tragiche colate di fango, che trascinano nella melma cose e persone. Ecco: molti di questi sentieri si stanno trasformando, racconta Burdett, in scalinate. È un´infrastruttura semplice e poco costosa, e se ben progettata, architettonicamente definita, serve a evitare che centinaia di persone muoiano ogni anno per un temporale e serve anche a tenere insieme pezzi di una periferia che pareva senza possibilità di redenzione.

Titolo originale: Letter from China: A tale of two cities: Shanghai and Osaka – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Chiamatelo spostamento, ascesa e caduta, scambio di luoghi, o quello che preferite, ma c’è qualcosa di enormemente importante che sta accadendo in Asia orientale: una tangibile mutazione nella posizione relativa di Cina e Giappone.

Certo, questa mutazione potete vederla nelle statistiche, che mostrano gli scambi con la Cina sempre più critici per il Giappone: il 21% del totale commercio estero, più di quello con gli Stati Uniti. Lo scambio del Giappone con la Cina, intanto, è enorme, ma si riduce a un pezzettino del boom generale del commercio cinese.

Per valutare in pieno quello che sta accadendo, però, si deve sentirlo sulla pelle, e il modo migliore per farlo è attraverso la vita delle due seconde città dei due paesi: Shanghai e Osaka.

Attenzione, queste non sono due seconde città comuni. C’è poco che può predisporre l’occidentale non iniziato sia al gigantismo che al dinamismo di queste due regioni urbane, e Shanghai e Osaka stanno al culmine di queste dinamiche.

Ma se Shanghai sta ancora crescendo, forse troppo in fretta per il suo bene, Osaka, il motore del vecchio miracolo asiatico, è impantanata da almeno un decennio, e l’odore dell’immobilità ristagna inconfondibile nell’aria.

La nuova dinamica della regione mi ha colpito direttamente in fronte in un recente volo da Shanghai a Osaka. Sono salito sull’aereo presto, ed ero seduto verso la coda, con una buona veduta su tutta la fusoliera. Poco dopo, sono entrate due giovani donne, che si sono sedute nell’angolo più lontano, vestite all’ultima moda, ma con gusto.

Certamente giapponesi, ho pensato, seguendo una regola pratica basata su vecchi e superati pregiudizi. Uno scrittore, Neal Stephenson, nel 1999 ha riassunto ciò in un romanzo, Cryptonomicon, che divideva l’Asia orientale fra persone che indossano buoni vestiti e altre che ne portano di meno buoni, il Giappone a rappresentare il primo e la Cina continentale il secondo.

Mi era dimenticato delle due giovani donne coi capelli leggermente tinti e le loro scarpe e borsette costose, fino alla coda per l’immigrazione all’aeroporto di Osaka, quando stavano davanti a me insieme agli altri stranieri, parlando animatamente in shanghainese.

Vagabondando per Osaka nei successivi due giorni, quello che mi ha colpito è stata la tranquillità.

Oltre al selvaggio traffico e rumore di clacson di Shanghai, scoprivo che qui mancava il rumore delle costruzioni, del tutto inevitabile nella capitale economica della Cina, dove le squadre di lavoratori sono dappertutto, radono al suolo magnifici vecchi quartieri e tirano su luccicanti foreste di grattacieli che non hanno eguali da nessuna parte, in Giappone o neppure negli Stati Uniti.

Non è che non ci siano automobili, a Osaka. Come la maggior parte delle altre cose in Giappone il traffico è ordinato, mai travolgente, e la Cina ha davvero ancora molto da imparare. Quello che mi ha colpito, però, erano le lunghissime file di taxi neri fuori dalle principali stazioni ferroviarie e della metropolitana di Osaka, che aspettavano tutte le sere invano qualche cliente.

Mi sono avvicinato a un autista della fila in attesa, Yuji Yamamoto, e presentandomi come un americano che vive a Shanghai, ho avuto una grossa reazione, forse qualcosa di simile a quella che avrebbe provocato in una piccola città interna americana qualcuno che tornava a casa dall’Europa un secolo fa, su una grossa nave da crociera.

”Pare che tutti gli affari se ne siano andati a Shanghai, e anche tutti gli uomini d’affari” dice Yamamoto, 58 anni.

”Dalle storie che ho sentito, Shanghai sembra una città straordinaria. Molti giapponesi ci vanno, e sembra che non ritornino più”.

Volevo sapere come andassero le cose a Osaka, e glie l’ho chiesto. “È esattamente come vede” ha risposto. “Si può aspettare qui per tre ore senza un cliente. La gente non spende più soldi”.

Anche una mia vecchia amica giapponese di Osaka mi ha riempito di domande su Shanghai, con lo stesso sguardo di meraviglia negli occhi. Quando ho finito di descrivere com’era la vita a Shanghai, coi suoi cambiamenti veloci, incessanti e assai poco sentimentali, ci ha pensato un attimo prima di rispondere. “Mi ricorda delle storie che mi raccontavano i miei genitori sullo sviluppo” dice. “Si guardava avanti. Tutto cambiava tanto in fretta, le cose andavano bene”.

”Mi pare che la gente di Shanghai stia vivendo ora la generazione dei miei genitori”.

Il governo giapponese non sembra ancora consapevole della mutazione che sta avvenendo, o forse questo è un elemento caratteristico dello schtick del primo ministro giapponese Junichiro Koizumi, che finge di ignorare il relativo declino del Giappone come parte del tentativo di far pesare di più il proprio paese.

Non si può dire lo stesso delle persone di Osaka, e presumibilmente di molti altri in Giappone. Alla domanda come mai l’umore sia tanto cupo a Osaka se i numeri della crescita economica del Giappone sono di nuovo positivi, un signore incontrato in treno dà una risposta interessante. “Ci sono solo due posti in crescita in Giappone, Tokyo, per via del settore finanziario, e Nagoya, per l’industria dell’automobile” sostiene Shinji Suzuki, broker assicurativo. “Se si va a Nagoya, si avverte la prosperità anche prima di uscire dalla stazione. Il resto del paese è semplicemente fermo”.

Se ha ragione, Tokyo e Nagoya, sede della Toyota, sono le ultime città del vecchio Giappone, il luogo che ha battuto il mondo per tanti anni in tanti settori. Il resto del paese ora guarda alla Cina con un misto di riverenza, paura e, per quelli nel settore giusto o col senso dell’avventura imprenditoriale, delle occasioni illimitate.

Ci sono così tanti giapponesi a Shanghai, che in città esistono più giornali in quella lingua di quanti non ne possa vantare in inglese una grossa città americana. Imprenditori e occasioni: tra l’altro chi le cercava stava in bella vista al mio ritorno a Shanghai dal Giappone, dove ho impiegato un’ora buona a passare l’ufficio immigrazione, non per inefficienza ma per via della folla immensa, dominata dai giapponesi portati qui dai 30 voli giornalieri per la città.

Non è certo un giudizio scientifico, ma non c’erano folle del genere quando sono atterrato a Osaka. Quello che c’era, sorprendente per chi ha abitato parecchi anni in Giappone chiedendosi come mai il turismo era così poco sviluppato, erano i cartelli di benvenuto e la letteratura turistica: in cinese.

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Titolo originale: Satellite urban areas to change City’s face – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Ho Chi Min City – Le città satellite cambieranno la struttura economica, della forza lavoro, e ridurranno la densità di popolazione in centro, sostiene Nguyen Van Dua, vicepresidente del Comitato del Popolo municipale.

Al momento, la città sta preparando l’area di Thu Thiem, accelerando le costruzioni in quella di Sai Gon a sud, ha approvato il piano generale per la zona urbana nord-ovest e ne sta preparando un altro per una nuova nel porto di Hiep Phuoc.

”Le nuove zone urbane di questo tipo dovrebbero risolvere alcuni dei problemi socioeconomici della nuova città moderna, comprendendo anche piani generali dei trasporti, l’ambiente, l’abitazione, elettricità, drenaggio e trattamento dei rifiuti” dice Dua.

Per raggiungere lo scopo, la città deve invitare esperti di pianificazione nazionali e internazionali, per il miglior progetto di una nuova città moderna.

Sarà anche necessaria l’opinione degli abitanti interessati dalle realizzazioni, nel quadro dell’attuazione dei piani.

”Un altro obiettivo urgente per rispondere alle necessità di sviluppo urbano è incrementare quantità e qualità del personale addetto” continua il vicepresidente.

Al momento, una delle cose più difficili per le autorità locali è avere a disposizione un’area libera.

”Le norme esistenti sono arretrate e impediscono un veloce processo di costruzione, oltre a non considerare i bisogni degli abitanti locali. Per risolvere la situazione, se ne devono fare di nuove che siano di beneficio allo Stato, agli investitori e ai residenti” dice Dua.

La città ha urgente bisogno di nuovi appartamenti per le rilocalizzazioni, e quindi si deve accelerare il programma per la costruzione di nuovi 30.000 alloggi municipali.

”Si devono coinvolgere più investitori, compresi i privati, all’interno del programma” aggiunge.

Nel 2006, l’amministrazione approverà i piani generali per Thu Thiem e Sai Gon sud, ed è stato prescelto un consulente di Singapore per redigere il piano dell’area nord-occidentale.

”Elementi infrastrutturali importanti come il tunnel Thu Thiem, il ponte Phu My e l’anello di circonvallazione autostradale devono essere oggetto della dovuta attenzione, per creare le condizioni di uno sviluppo in queste zone urbane chiave” dice Dua.

Tra le nuove quattro zone, Thu Thiem avrà un ruolo particolarmente importante per la città del futuro.

Sull’altro lato dell’attuale centro cittadino rispetto al fiume Sai Gon, la nuova zona contribuirà allo sviluppo su entrambe le sponde e con più spazio.

Collocata nel Distretto amministrativo n.2 su un’area totale di 770ha, Thu Thiem è progettata per essere il centro finanziario e di servizi della città. Al momento, il 50% della superficie è stato predisposto per le opere preliminari.

Su complessivi 2.975ha fra i Distretti 7 e 8, l’area urbana di Sai Gon sud è interessata da 17 progetti internazionali con un investimento totale di 884 milioni di dollari e da 79 progetti nazionali per complessivi 680 milioni.

Molti nuovi ponti, come Tan Thuan 2, Nguyen Tri Phuong, Kinh Te, Nhi Thien Duong e presto anche il Nguyen Van Cu, creano le condizioni favorevoli per i trasporti dalla nuova zona [sede del progetto residenziale ad appartamenti e ville Phu My Hung] verso il centro città.

L’area nord-occidentale compre una superficie di 6.000ha nei distretti Hoc Mon e Cu Chi, e dovrà diventare un polo industriale, aumentando di dieci volte la densità dei residenti rispetto agli attuali 30.000 abitanti.

La zona urbana del porto di Hiep Phuoc occuperà 3.600ha nel distretto Nha Be dell’omonimo comune. Circa 300ha sono destinati a industria, e l’amministrazione municipale prevede di consentire ai contadini di contribuire con propri terreni al processo di costruzione.

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Titolo originale: Rebuilding New Orleans, One Appeal at a Time – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

NEW ORLEANS, 4 febbraio – Ogni giorno la fila si snoda lungo uno spartano corridoio qui all’ottavo piano del Municipio, con centinaia di persone che stringono un pezzo di carta con scritta una fatale percentuale, che potrebbe obbligarli ad abbandonare la propria casa.

Quella cifra è sempre superiore a 50, e ciò significa che la casa era tanto danneggiata dall’alluvione dell’uragano Katrina – più di metà rovinata – che deve essere demolita, ameno che il proprietario possa spendere le decine di migliaia di dollari necessari a sollevarla qualche metro sopra il terreno, e sopra il livello di qualunque futura inondazione.

Ma c’è un modo per uscirne, ed è il motivo per cui tante persone fanno la fila ogni giorno, trasformando collettivamente questa città a pezzi. “Quello che dovete fare è rivolgervi a un ispettore edilizio, per far abbassare la percentuale sotto il 50” spiega un impiegato comunale alla folla. Ed è esattamente quello che succede alla fine della fila, in una grande sala aperta giù in fondo, in quasi il 90 per cento dei casi, raccontano i funzionari di New Orleans.

Accettando tanto spesso queste richieste – più di 6.000 negli scorsi mesi – i funzionari comunali essenzialmente stanno consentendo una ricostruzione a caso in tutta la città, minando alla base l’idea della commissione nominata dal sindaco C. Ray Nagin per la ricostruzione, di non rilasciare permessi di ricostruzione nelle zone colpite per molti mesi, finché non fosse possibile redigere un piano più accurato. Quel piano, già accolto da una diffusa opposizione, compreso il sindaco, ora è sostanzialmente morto.

Casa per casa, nei quartieri devastati di tutta la città, i proprietari tornano coi loro nuovi permessi di costruzione rivisti e ricostruiscono New Orleans. Si rilasciano 500 permessi del genere ogni giorno, dice Greg Meffert, funzionario comunale incaricato per la ricostruzione.

E non c’è nessun criterio particolare riguardo a chi ottiene un permesso, o considerazioni sulla possibilità del quartiere di contenere tanti abitanti quanti prima. Un ispettore edilizio della città, Devra Goldstein, ha definito le procedure dell’ottavo piano “davvero un salto nel buio, caotiche, Selvaggio West, prendetevi quel che volete”.

Quello che accade a quel piano, dice, rappresenta “un intero progetto del tutto casuale”.

Rappresenta anche la testimonianza del pervicace desiderio di molti abitanti di New Orleans di ritornare a casa, non importa con quali incertezze.

”Ci hanno detto, che controllando meglio ci sono possibilità di avere una valutazione di danni abbassata sotto il 50%, così potremo iniziare a ricostruire” dice George Aguillard, 65 anni, scaricatore di porto in pensione, mentre aspetta pazientemente tra la folla composta in gran parte da afroamericani al municipio.

”Alla mia età, non si può ricominciare di nuovo una nuova casa” racconta il signor Aguillard, che abita nel quartiere allagato di Pontchartrain Park. La sua valutazione di danno è stata del 52,13%.

Ma ci può essere un alto prezzo da pagare per questa elasticità dell’amministrazione nel lasciare che tanta gente rientri nelle zone alluvionate senza dover sopraelevare le proprie case. I responsabili delle assicurazioni federali antialluvione sostengono che questa pratica viola la procedura, che stabilisce come regola quel 50% per orientare verso un’edilizia sicura nelle zone a rischio. La gran parte delle città l’hanno adottata come criterio minimo, dicono i funzionari della Federal Emergency Management Agency, che gestisce il programma.

In cambio dei forti sussidi per l’assicurazione degli abitanti, il programma prevede che le città impongano un’edificazione in grado di resistere agli allagamenti. Alcune municipalità che violavano queste regole sono state escluse dai programmi assicurativi, mettendo a grave rischio migliaia di residenti.

”Si devono fermare, assolutamente”, dice J. Robert Hunter, ex capo del programma assicurativo federale per le alluvioni e ora direttore per il settore alla Consumer Federation of America. “Si può falsificare” sostiene. “Capisco queste persone. Ma non si può dire: va bene, sei povero, quindi puoi costruire in un posto pericoloso dove ci può essere un’alluvione, e dove puoi rimanere ucciso”.

Aggiunge “Non si può distruggere il programma assicurativo per ottenere un obiettivo di breve termine”.

Un altro ex direttore delle assicurazioni federali antialluvione, George K. Bernstein, è egualmente critico, e sostiene che la pratica di ridurre la percentuale di danno è “solo uno scippo ai contribuenti”.

”Se New Orleans sta falsificando le rilevazioni dei danni per consentire una ricostruzione inadeguata, deve essere buttata fuori dal programma” dice.

I funzionari della FEMA sostengono di osservare da vicino il caso di New Orleans ma di giudicare che la città stia rispettando le regole.

”So che stanno gestendo queste pratiche” dice Michael Buckley, vicedirettore per la riduzione degli impatti alla FEMA. “Non lo chiamerei un modo per modificare le regole”. Buckley dice di “non essere a conoscenza” di un processo di riduzione su grande scala delle valutazioni di danno.

Ma su all’ottavo piano, le revisioni al ribasso si concludono in pochi minuti. “È stato tutto molto semplice” racconta Charles Harris, vicesceriffo che ha avuto un metro e mezzo d’acqua nella sua casa nella zona orientale di New Orleans, e la cui percentuale di danni è stata portata al 47% dal 52% che era. “Sono stati davvero collaborativi. Credevo dovesse essere una cosa più combattiva. Ero pronto a mettermi in guardia. Non è stato niente del genere”.

Kevin François, manutentore di apparecchi ad aria condizionata con l’abitazione classificata al 52% di danni, dice “È stato fondamentalmente un entrare e uscire”. Lui, è uscito dal municipio con una cifra di parecchi punti inferiore al 50.

Meffert, il funzionario municipale, dice che le prime valutazioni qualche volta contengono degli errori. I proprietari devono giustificare qualunque modifica di queste quote, sostiene, e mettere a disposizione i particolari dei progetti di ricostruzione. “Quello che cambia il punteggio è: ‘Farò in questo modo’” dice.

Ma qualcuno se ne va dal municipio ancora di umore pugnace, nonostante l’accoglienza amichevole. “Non gli ho lasciato scelta” racconta fiera Florestine Jalvia, che ha fatto ribassare la propria valutazione fino al 47% di danni, dal 52,5%. Un atteggiamento più rigido sulla ricostruzione probabilmente avrebbe innescato il medesimo tipo di reazione dell’ora defunta idea della moratoria di quattro mesi. “Credo che la città stia cercando di evitare un grosso conflitto coi cittadini” dice la signora Goldstein, ispettrice edilizia.

Fuori, nei quartieri che si erano allagati, c’è un’attività febbrile, intermittente. Quelli che stanno lavorando duro escludono nettamente l’idea di aspettare finché sarà chiaro quali aree avranno la possibilità di ripresa.

”Beh, io non li ascolto” dice Kristopher Winder, mentre finisce di sventrare la casa di sua madre nel quartiere di Gentilly. L’ha ridotta alla sola struttura portante. Più giù lungo la stessa via, cartelli di fronte alle case lanciano messaggi di sfida: “ Stiamo ricostruendo, e non cercate di fermarci!” recita uno, e “ Non c’è nessun altro posto come casa tua”, un altro.

”Ci ho pensato, quando hanno detto quella cosa dei quattro mesi, e ho pensato che fosse pazzesco” dice il signor Winder. “Ero furioso. Non aveva senso”.

”Sto lavorando su questa casa” racconta. “Sarà di nuovo in piedi e funzionante in tre o quattro mesi”.

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Titolo originale: Albert Speer Jr. to Build "Detroit of the East" in China – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Col piano di costruzione di un intero settore urbano dedicato all’industria automobilistica nella città di Changchun, la Cina sta compiendo un altro ambizioso passo per diventare protagonista di primo piano dell’industria automobilistica globale. Presta i suoi servizi anche il figlio dell’architetto di Hitler.

Non è un segreto, che la Cina si stia gettando a capofitto nell’industria dell’automobile. Ma è di questa settimana la scelta da parte dei funzionari cinesi dello studio di architettura che realizzerà la loro prima Città dei Motori. E hanno indicato il figlio dell’architetto di Hitler – e il suo studio che si chiama Albert Speer & Partners – per il compito.

Albert Speer Jr. ha confermato che il suo studio ha vinto il concorso di progettazione da 140.000 dollari indetto dalla città di Changchun per progettare un intero distretto dedicato alla produzione di automobili e all’abitazione degli occupati nel settore.

Changchun è uno dei punti focali nelle ambizioni della Cina di diventare un attore di primo piano nel mercato automobilistico. La città è già al secondo posto a livello nazionale e sede di una joint venture con la Volkswagen che produce la Golf per il mercato interno cinese. Sono presenti in modo simile in questa città industriale anche Audi e Mazda, e i funzionari di Changchun affermano di avere in progetto altre cinque linee di montaggio nei prossimi anni.

Quella che è già chiamata la “Detroit d’Oriente” comprenderà alloggi per 300.000 abitanti e si prevede sarà completata nel giro di 10-15 anni. L’amministrazione municipale sostiene che il progetto si ispira in parte alla “ Autostadt” della Volkswagen nella sua Wolfsburg, quartier generale per la Germania. Autostadt mescola produzione automobilistica e strutture culturali aperte al pubblico.

Lo scorso anno, i cinesi hanno lasciato tutti perplessi dopo l’introduzione in Europa della loro prima vettura di esportazione, la Landwind, entrata nel mercato e che ha sollevato critiche pressoché universali. Ora nei mercati internazionali si sta introducendo anche la linea di auto cinesi Chery. Grazie al know-how tecnico acquisito attraverso le collaborazioni con produttori occidentali come General Motors e Volkswagen, la Cina sta avanzando rapidamente nelle tecnologie automobilistiche. Molti prevedono che diventerà un potente protagonista nei mercati globali nel giro di pochi decenni.

L’architetto, figlio del criminale di guerra nazista Albert Speer, architetto e ispiratore di Hitler, opera da tempo con successo in Cina. Nel 2002, il suo studio ha vinto un concorso di progettazione per realizzare una città dell’automobile simile a Shanghai. In Germania, Speer è uscito dall’ombra del passato familiare diventando uno dei principali architetti del paese. Il suo studio ha collaborato alla Expo 2000 di Hannover e alla ristrutturazione di gran parte del centro di Francoforte.

Nota: sul medesimo tema, Eddyburg ha proposto tempo fa un documentatissimo servizio dall'Economist (f.b.)

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Titolo originale: Regional differences– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Se un documento prodotto a Whitehall suggerisce esperimenti pilota per città-regione, probabilmente nelle amministrazioni della Grande Manchester si starà borbottando sotto voce: “ma perché ci avete messo tanto?”. La discussione sulle città-regione dura da decenni, ma solo ora il governo si è accorto delle loro potenzialità.

Richard Leese, leader del Labour al consiglio cittadino di Manchester e appassionato sostenitore delle città-regione, si sta aspettando davvero che la Grande Manchester venga nominata fra gli esperimenti pilota prima della fine del mese. “ Greater Manchester è un’area che possiede le infrastrutture migliori per cominciare ad assumere un ruolo di governo superiore” dice. “Non si tratta di superiorità su altre città-regione, ma di una conseguenza della storia della Grande Manchester da quando è stato abolito il consiglio di contea e l’inera area è riuscita a mantenere forte identità attraverso la Association of Greater Manchester Authorities (Agma). Una struttura che ha operato attraverso decisioni da parte di leaders di 10 distretti: sono stati discussi grandi temi come i trasporti, lo sviluppo economico, e raggiunte intese di carattere generale su una base di consenso”.

Il termine “ città-regione” si riferisce ad un livello politico e strategico di amministrazione e decisione simile alle deleghe speciali per Londra, ma non necessariamente secondo le stesse modalità di struttura e governo. Una città-regione è individuata come “ città centrale” e suo “ hinterland” con confini geografici chiaramente definiti. Ora che l’idea di assemblee regionali elettive è affondato senza lasciare tracce dopo un disastroso referendum nel 2004, il ministro per il governo locale, David Miliband, si è entusiasmato per questo approccio più flessibile al decentramento regionale, che potrebbe essere adottao da alcune delle otto città centrali del Regno Unito. Che comprendono Birmingham, Leeds, Newcastle, e Sheffield, oltre alla Grande Manchester.

Lo scorso mese è stato pubblicato un rapporto sull’argomento dal think-tank New Local Government Network che sottolinea l’evidenza di come “”città dotate di maggior indipendenza politica e fiscale sono più propulsive, intraprendenti e competitive”. Le città-regione assumerebbero alcune funzioni delle assemblee regionali, come ad esempio le responsabilità sui trasporti, coinvolgendo altri soggetti interessati – di fatto le imprese – come già accaduto a Manchester. Il rapporto auspicava una “sanzione legislativa” da parte del governo per rendere la città-regione una realtà.



L’esperienza di Manchester

Nella Greater Manchester, i membri della Agma, che si riuniscono ogni mese, ritengono che una città-regione leverebbe di mezzo la fissazione su Londra come unico motore economico del paese, facendo da guida per una politica della Northern Way. La Grande Manchester è una delle tre regioni della Northern Way, piano regionale di sviluppo per incrementare il livello economico sino alla media europea.

Sin da quando è stato abolito il Greater Manchester Council nell’ambito di una riorganizzazione di confini, la collaborazione è diventata la pietra di paragone della cultura di governo locale, nonostante le oscillazioni di maggioranza politica dei vari consigli nel tempo. Il comitato esecutivo istituito alla Agma, per esempio, consente ai leaders di orientare i fondi governativi verso i casi più urgenti. La nuova circonvallazione di Salford è il risultato di un accordo congiunto che stabiliva come priorità regionale l’accessibilità ai posti di lavoro nella vicina Oldham.

L’eredità dei vecchi confini, di quando esisteva ancora un consiglio di contea, ha lasciato alcuni utili residui. Il braccio economico dei defunti consigli per l’istruzione e la formazione professionale è diventato la Manchester Enterprises, istituita dalle autorità locali come agenzia di marketing per la regione. Le camere di commercio locali hanno ritenuto opportuno amalgamarsi in un’unica unità coi medesimi confini.

C’è molto altro in comune fra le autorità locali sui modi per rendere operante una città-regione: una crescita dal basso, anziché secondo un modello imposto dall’alto, è considerata irrinunciabile; finanziamenti da parte del governo centrale per progetti chiave come quelli sui trasporti; e una certa riluttanza ad assumere poteri di raccolta risorse, che si sono rivelati la campana a morto al referendum sull’assemblea regionale eletta del nord-est. Pochi sembrano credere che l’assemblea del nord-ovest, articolata per entità sub-regionali, sarà smantellata e le sue funzioni trasferite. Sembra esistere la possibilità di una felice coesistenza, anche se si tratta di un punto di vista dipendente dalle linee politiche.



La lista dei desideri politici

Nonostante l’insistenza sulla collaborazione cooperativa fra le 10 autorità, il desiderio personale di Leese sulla legge è il dovere, di collaborare, e la richiesta di un organismo congiunto composto dalle amministrazioni locali.

Susan Fildes, unica esponente Tory in un’area dominata dal Labour, avverte chiaramente che si potrebbero migliorare le relazioni di lavoro. In quanto leader di Trafford, sede del Manchester United e uno dei principali parchi industriali d’Europa, la Fildes si preoccupa per la parità degli enti locali, indipendentemente dalla quantità di popolazione o se siano o meno consigli collocati nello “ hinterland”.

”Ci dovrebbe essere maggior riconoscimento di come Trafford possa svolgere un ruolo da punto di vista economico” dice. “Dovrebbe funzionare in modo che ciascuna autorità locale abbia un peso identico dal punto di vista delle politiche da sviluppare, ma naturalmente poi prevale la dimensione politica del partito”.

La signora Fildes è chiarissima sul fatto che, se la città-regione inizierà ad assomigliare sotto sotto a un’assemblea regionale eletta, il suo entusiasmo politico sparirà. “Secondo me, una città-regione è un concetto economico e territoriale, in cui all’interno di una regione si collabora perché tutte le entità elette lavorino al miglioramento dell’insieme” dice.

Quello a cui tutti sono decisamente contrari, è l’idea di avere un mayor eletto a capo di una grande città, un modello di leadership simile a quello della capitale. John Merry, leader del consiglio di Salford, da’ voce al punto di vista dei colleghi. “La nostra proposta non è quella di avere una figura di mayor eletto, ma di un comitato esecutivo. Non vogliamo che venga imposta una sola struttura, e passare attraverso tutta la trafila di chiacchiere e opposizioni che ciò comporta”.

Howard Bernstein, chief executive del consiglio cittadino di Manchester, concorda. “Ken Livingstone è una grande mayor per Londra, ma lì non ‘era alcuna leadership prima. Queste figure funzionano in alcuni casi, in partcolare se esiste il modo di costruire una efficace guida cittadina, ma credo che si tratti proprio dell’ultimo dei nostri problemi”.

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Titolo originale: Shantytown Dwellers in South Africa Protest Sluggish Pace of Change – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

JOHANNESBURG, 24 dicembre – Mandando un segnale che qualcuno definisce sinistro ai dirigenti nazionali, le vaste baraccopoli del Sud Africa hanno iniziato a ribollire, talvolta in modo violento, per protesta contro l’incapacità del governo di offrire una vita migliore, come sembrava annunciare la fine dell’apartheid una dozzina d’anni fa.

In una di queste baraccopoli sul fianco della collina di Durban chiamata Foreman Road, i poliziotti antisommossa hanno sparato proiettili di gomma a metà novembre per disperdere 2.000 abitanti che marciavano verso l’ufficio del sindaco in centro. Due manifestanti sono stati feriti, 45 arrestati. Gli altri hanno bruciato un’immagine del sindaco della città, Obed Mlaba.

L’accusa era senza troppi fronzoli: da quando sono spuntate le mille baracche di Foreman Road circa vent’anni fa, l’unico miglioramento tangibile nella vita degli abitanti sono un rubinetto dell’acqua e quattro gabinetti di legno compensato. Elettricità e gabinetti veri sono rimasti un sogno. Le promesse di nuove case, si dice, sono state cose effimere.

”Questa è la zona peggiore del paese” dice uno degli abitanti, un uomo di mezza età che si presenta semplicemente come Senior. “Non abbiamo tanto bisogno di acqua o elettricità. Abbiamo bisogno di terra e case. Devono trovare terreni e costruirci le nuove case”.

A Pretoria la stessa settimana, 500 abitanti di una baraccopoli hanno saccheggiato e messo a fuoco la casa e l’automobile di un consigliere comunale per protestare contro la limitazione degli accessi alle case pubbliche. Quindici giorni dopo, altri dimostranti hanno bruciato gli uffici municipali di Promosa dopo essere stati sgombrati dalle proprie baracche illegali. A fine settembre, gli abitanti della township di Botleng si sono rivoltati dopo che l’acqua potabile con infiltrazioni dalle fogne aveva causato 600 casi di tifo e forse 20 morti.

Solo giovedì scorso, i funzionari di Cape Town hanno avvertito i residenti di una vasta baraccopoli vicina all’aeroporto della città che potevano essere arrestati se avessero tentato di occupare un complesso di case popolari non finito.

Il ministro della sicurezza del Sud Africa ha dichiarato in ottobre che l’anno precedente ben 881 manifestazioni di protesta hanno scosso gli slums; voci non ufficiali dicono che almeno 50 sono state violente. Non sono state tenute statistiche per gli anni ancora precedenti, ma l’analista David Hemson dello Human Sciences Research Council in Pretoria, stima che il dato ufficiale del ministro è almeno di cinque volte superiore a qualunque paragonabile periodo precedente.

”Credo sia uno degli sviluppi più importanti del periodo post-liberazione” dice Hemson, coordinatore di un progetto sullo sviluppo urbano e rurale per l’istituto. “Mostra che la gente comune ora sente che l’unico modo di andare avanti in qualche modo è scendere per strada e mobilitarsi: e si tratta dei segmenti più poveri della società. È una trasformazione radicale dall’atteggiamento, diciamo, del 1994, quando tutti si aspettavano grandi cambiamenti dall’alto”.

In realtà, il governo ha fatto molti cambiamenti. Dal 1994, il governo del Sud Africa ha costruito e in gran parte consegnato 1,8 milioni di abitazioni minime, di norma 6x8 m., spesso ad ex occupanti di baraccopoli. Più di 10 milioni di persone hanno avuto accesso all’acqua potabile, e un numero incalcolabile di altri sono stati collegati all’energia elettrica o a strutture igieniche di base.

Ma contemporaneamente, dicono i ricercatori, la povertà crescente ha causato a 2 milioni di altri la perdita della casa, e oltre 10 milioni hanno avuto tagliata l’acqua o la corrente per bollette non pagate. È anche aumentato il numero degli abitanti delle baraccopoli, sino al 50%, a 12,5 milioni di persone: più di uno su quattro sudafricani, molti ad un livello di squallore che lascerebbe senza parole la maggioranza degli osservatori del mondo sviluppato.

Per i neri sudafricani, la congiuntura attuale è minacciosamente vicina a quella sopportata sotto l’apartheid. Le prime baraccopoli nere sorsero sotto il dominio dei bianchi, risultato di una politica tesa a mantenere i non bianchi in povertà e privi di potere. Durante l’apartheid, dagli anni ’40 agli ‘80, i governi sradicavano e spostavano milioni di neri, collocandone molti in campi provvisori che diventarono poi baraccopoli permanenti, mandandone altri nelle townships nere che rapidamente attirarono masse di abusivi.

La povertà portò altri milioni di neri a migrare verso le città, dentro a vasti campi nelle fasce esterne di Cape Town, Johannesburg, Durban e altre città.

Sin dai primi giorni, il governo nero del Sud Africa si impegnò a rivolgersi alle miserie della vita nelle baracche. Il fatto che il problema in parte sia peggiorato, dicono ricercatori sociali, urbanisti e molti politici, è in parte il risultato di politiche fiscali che si sono concentrate ad alimentare l’economia da primo mondo che sotto l’apartheid, faceva del paese la nazione più ricca e avanzata d’Africa.

Il basso debito pubblico, la strategia dell’inflazione bassa, si sono costruite sulla premessa che un’economia stabile avrebbe attirato investimenti, e che il benessere si sarebbe esteso ai poveri. Ma mentre l’economia da primo mondo ha subito un boom, ha mancato di sollevare le masse di underclass fuori dalla loro miseria.

La disoccupazione, stimata al 26% nel 1994, è lievitata a circa il 40% come calcolano molti analisti; il governo, che non mette nel conto che ha smesso di cercare lavoro, dice che la disoccupazione è bassa. Le grandi imprese come le miniere e il tessile hanno licenziato i lavoratori manuali, e i settori di attività in crescita come quello bancario o il commercio non hanno riassorbito le eccedenze. Molti dei senza lavoro si sono spostati negli slums.

Sinora, i manifestanti delle baraccopoli si sono concentrati esclusivamente sulle amministrazioni locali, che ne hanno subito la furia. Ma anche se quasi tutti questi amministratori appartengono all’African National Congress di governo, di cui eseguono il mandato sociale e politico, “i poveri non hanno ancora collegato le due cose”, dice Adam Habib, altro ricercatore allo Human Sciences Research Institute che ha completato di recente uno studio dei movimenti sociali in Sud Africa.

Al contrario, il sostegno alla coalizione nazionale del presidente Thabo Mbeki sembra più grande che mai. E Mbeki ha visitato le baraccopoli e townships, promettendo di aumentare la spesa sociale e chiedendo ai propri ministri di migliorare i servizi per i poveri.

Per ora, quasi la metà dei 284 distretti municipali, che hanno l’onere della fornitura dei servizi, non può farlo, afferma il ministro per le amministrazioni locali. I problemi vanno da una base fiscale in diminuzione all’insufficienza degli stanziamenti nazionali, all’AIDS, che ha ridotto i ranghi degli amministratori istruiti.

Incompetenza e avidità sono diffuse. A Ehlanzeni, distretto con quasi un milione di abitanti nella provincia di Mpumalanga, 3 su 4 residenti non hanno servizio di raccolta rifiuti, 6 su 10 non hanno servizi igienici e 1 su 3 non ha l’acqua: il city manager ha uno stipendio superiore a quello del salario annuale da 180.000 dollari di Mbeki.

La frustrazione degli abitanti delle baraccopoli ha iniziato a ribollire a metà del 2004, quando gli abitanti di una zona vicino a Harrismith, circa 200 chilometri a sud-est di Johannesburg, sono entrati in rivolta e hanno bloccato un’autostrada per protesta contro le condizioni di vita. La polizia ha sparato, uccidendolo, su un contestatore diciassettenne. Da allora, le dimostrazioni si sono diffuse in tutti gli angoli del paese.

A Durban, il comune realizza circa 16.000 case minime ogni anno, ma la popolazione delle baraccopoli, ora circa 750.000 persone, continua a crescere oltre il 10% l’anno.

Le 180.000 baracche della città, stipate sino all’inverosimile, sono una cosa da vedere. Sia isolate o con pareti in comune, ricoprono fianchi di colline fra lottizzazioni per i ceti medi, fanno capolino fra le rampe d’uscita della superstrada o si ammucchiano vicino alle discariche. Sono costruite con legname di recupero, metallo, lamiera ondulata, coperture di cellophane fissate con blocchi di cemento. All’interno spesso sono foderate con strati di confezioni per il latte o succo di frutta, vendute come carta da parati nei mercati agli incroci, per tener fuori il vento e gli sguardi dei curiosi dalle fessure delle tremolanti pareti.

Le più o meno 1.000 baracche sul fianco della collina a Foreman Road sono di questo tipo. Un tubo in cima provvede all’acqua, che si trasporta in secchi a ciascuna baracca per l’igiene personale e lavare i piatti. In basso, a circa 150 metri lungo un avvallamento, quattro latrine scavate a mano con un capanno di legno: oggi tutte incomprensibilmente chiuse con un lucchetto. Gli abitanti dicono di andare raramente giù fino ai gabinetti, svuotandosi invece dentro a sacchi di plastica o secchi che si possono periodicamente buttar via o svuotare.

Le baracche da una stanza offrono il tipo più rozzo di rifugio. Un letto di solito si prende metà dello spazio; una tavola ospita le cose per cucinare; i vestiti vanno in una piccola cesta. Non c’è elettricità, quindi nessuna televisione; il divertimento viene da qualche radiolina a pila. Gli abitanti usano stufe a cherosene e candele per cucinare e scaldarsi, con risultati prevedibili. Un anno fa, un incendio alimentato dal vento qui ha distrutto 288 baracche. Un altro incendio nella baraccopoli di Cape Town all’inizio del mese ha lasciato 4.000 persone senza casa.

Qualcuna delle baracche è verniciata con colori di lotta, o decorata con manifesti pubblicitari di latte o tabacco, oppure porta appesi cartelli strappati dai pali della luce, originariamente messi per avvertire che gli allacciamenti abusivi alla rete elettrica avevano lasciato cavi scoperti penzolanti per la strada.

Gli abitanti dicono che il sindaco Mlaba durante l’ultima campagna elettorale ha promesso di costruire nuove case al posto dello slum e su terreni liberi sull’altro lato della collina. Ma poi invece l’amministrazione ha proposto di trasferire gli abitanti in zone rurali lontane dalla fascia esterna di Durban: e lontane dai posti di lavoro da giardiniere, donna delle pulizie e altri lavori umili trovati nei sedici anni di esistenza a Foreman Road.

Senza automobili, soldi per il taxi e nemmeno biciclette per andare al lavoro, gli abitanti hanno marciato in protesta il 14 novembre, ignorando il mancato permesso per il corteo. La dimostrazione è rapidamente diventata violenta.

Più tardi, in un’intervista piuttosto breve, un sindaco Mlaba chiaramente esasperato ha sostenuto che la protesta è stata opera di agitatori, con lo scopo di metterlo in imbarazzo in vista delle elezioni locali del prossimo anno.

”Naturalmente c’è uno scopo politico” ha detto. “Improvvisamente, ci sono dei leaders. Non ce n’era nessuno, ieri. Ci saranno ancora nel 2006 o 2007, dopo le elezioni?”.

Col medesimo sospetto riguardo agli agitatori, il governo del Sud Africa inizialmente ha reagito alle proteste delle baraccopoli ordinando ai servizi segreti di accertare se c’erano degli agenti esterni – una “terza forza” nel linguaggio dei movimenti di liberazione del paese – con l’obiettivo di indebolire il governo.

Gli abitanti scuotono il capo. “La terza forza” dice l’uomo che si fa chiamare Senior, “sono le condizioni in cui viviamo”.

In una baracca da due metri per tre, a un terzo circa dell’avvallamento di Foreman Road, vive Zamile Msane, 32 anni, con sua madre di 58 e tre figli di 12, 15 e 17 anni. La signora Msane non ha un lavoro. Una sorella ha dato alla famiglia dei vestiti usati, un vicino della farina di mais per mangiare. In sette anni, è scappata da tre incendi, nel 1998, 2000 e 2004, perdendo tutto tutte le volte.

E pure la signora Msane, arrivata qui dalla zona orientale del Capo otto anni fa, dice che non ritornerebbe alle campagne dove viveva, perché non c’è niente da mangiare.

Dice che ha partecipato alla marcia del 14 novembre per un motivo.

”Condizioni migliori”dice. “Non va bene qui, perché non ci sono vere case. Fuori c’è fango. Viviamo nella paura degli incendi. D’inverno fa troppo freddo, d’estate fa troppo caldo. La vita è troppo difficile”.

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NALGEP (National Association of Local Government Environmental Professionals), Smart Growth Leadership Institute, Smart Growth is Smart Business – Boosting the Bottom Line & Community Prosperity, 2004 – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini

[le parti scelte sono quelle generali e di sintesi, con l’esclusione dei capitoli dedicati ai singoli casi studio; il termine “smart growth” per evitare eccessive ripetizioni è stato a volte lasciato com’è, altre volte tradotto con “crescita sostenibile” o simili - f.b.]

Introduzione

In tutta l’America, le città si stanno misurando con gli effetti economici, ambientali, civili dello sprawl, ovvero la congestione da traffico, l’affollamento scolastico, l’inquinamento, la perdita di spazi aperti, il degrado delle infrastrutture. Il leaders locali e i funzionari pubblici da questo punto di vista sono in prima linea, nel tentare di gestire gli enormi cambiamenti dei propri centri. Molti funzionari hanno scoperto che una forte collaborazione col settore privato, in particolare con le imprese che sostengono una crescita sostenibile come alternativa allo sprawl, può essere cruciale nell’affrontare i problemi dell’insediamento diffuso.

La National Association of Local Government Environmental Professionals (NALGEP) e lo Smart Growth Leadership Institute si sono associati nella predisposizione di questo rapporto, Smart Growth is Smart Business. Il lavoro presenta 17 profili di imprese e gruppi di imprese che hanno attuato azioni smart growth nelle città di tutto il paese. Delinea le ragioni per cui queste imprese leader sostengono politiche e progetti di crescita sostenibile, e propone cinque possibili approcci chiave ad un’economia smart growth.

Smart Growth is Smart Business fa seguito ad un primo studio, pubblicato dalla NALGEP nel 1999, Profiles of Business Leadership on SmartGrowth: New Partnerships Demonstrate the Economic Benefits of Reducing Sprawl (vedi http://www.nalgep.org). Questo lavoro pioniere proponeva le linee secondo cui alcuni soggetti leader come Providence Energy, Greater Cleveland Growth Association, e il Commercial Club di Chicago, stavano cominciando a intraprendere iniziative nelle proprie città per contenere lo sprawl e promuovere una crescita sostenibile delle proprie comunità. Elencando i numerosi aspetti per cui lo sprawl limita la convenienza di alcune attività economiche e la competitività delle imprese, lo studio individuava l’inizio di un cambio di atteggiamento da parte della business community, lontano dalla semplice resistenza ai tentativi di controllo della crescita, e favorevole a sostenere iniziative per indirizzare modi e caratteristiche dellos viluppo economico locale. Lo studio individuava 19 esempi di attività nel paese che reagivano alle minacce dello sprawl, ed esaminava motivi e metodi dei sostegni locali alla smart growth. Veniva identificato un filo conduttore comune a tutti i casi studio: le imprese agivano a favore di una crescita sostenibile perché ciò faceva bene ai loro affari, ovvero al bilancio.

In questo nuovo studio, Smart Growth is Smart Business, NALGEP e Smart Growth Leadership Institute tentano di stabilire se il settore privato abbia aumentato il proprio interesse per la smart growth oppure se si trattasse di una semplice moda del momento. Volevamo capire se i leaders di impresa avrebbero continuato a promuovere una crescita sostenibile anche in tempi di crisi economica, profitti in calo, riduzione dei posti di lavoro. Abbiamo tentato di individuare nuove attività di successo e profitto in grado di portare vitalità e prosperità nel proprio territorio. Abbiamo ampliato il nostro Advisory Council di rappresentanti di impresa e governi locali. Abbiamo condotto ricerche ad identificare nuove attività impegnate in progetti smart growth, e intervistato un ampio campione di leaders economici: industriali, costruttori, commercianti, operatori immobiliari, imprese di servizi, istituzioni finanziarie.

Abbiamo scoperto che:

La qualità della vita è un elemento cruciale per le attività economiche– I rappresentanti dell’impresa sottolineano ripetutamente come la qualità della vita interessi direttamente i propri bilanci e come lo sprawl diminuisca la qualità della vita dei dipendenti. Per esempio il Silicon Valley Manufacturing Group e la BellSouth si sono impegnate in strategie smart growth ad offrire opportunità residenziali e di trasporto ai propri impiegati, consapevoli di dover migliorare la qualità locale di vita per attirare e trattenere una forza lavoro di alto profilo. “Per noi affari e questione ambientale vanno mano nella mano. Ci interessiamo alla tutela dell’ambiente perché questa qualità interessa direttamente la vita dei nostri collaboratori, dei clienti, delle comunità”, afferma Kenneth Lewis, presidente e CEO della Bank of America.

Reinvestire sul territorio ha un senso anche economico-produttivoLe imprese promuovono il reinvestimento di parte dei profitti nelle città e infrastrutture esistenti, in alternativa ai costosi progetti di nuove zone di crescita e nuovi servizi. Questi investimenti riducono i costi e fanno impennare i profitti, sul breve e lungo periodo. Per esempio, la New Jersey Natural Gas sta collaborando con il comune di Asbury Park e lo Stato del New Jersey a sostenere la rivitalizzazione di vecchi centri urbani e suburbani, creando nuovi modelli di miglioramento delle infrastrutture esistenti.

La Smart Growth è un’occasione emergente di mercato– Commercianti, costruttori e altri operatori stanno approfittando delle opportunità di mercato offerte dalla smart growth per guadagnarsi un vantaggio competitivo, rispondere alla nuova domanda della clientela, aumentare i profitti. La catena di distribuzione alimentare Whole Foods Market ha impostato una aggressiva strategia di localizzazione dei punti vendita, verso quartieri in via di rivitalizzazione. Specializzandosi in riuso dei siti industriali, insediamenti ad aumento di densità locale e legati al trasporto pubblico, e altre strategie di crescita sostenibile per il riuso di zone e immobili storici, la Struever Bros. Eccles & Rouse, Inc. è cresciuta da piccola compagnia a impresa immobiliare da 150 milioni di dollari, con grandi commesse e classificata fra le cinque principali di Baltimora.

Le imprese più avanzate sostengono un governo della crescita nelle proprie regioni di riferimento – I leaders di impresa si uniscono a municipalità, stati e organizzazioni di base per sostenere una pianificazione e gestione di tipo smart growth. La Wisconsin Realtors Association, ad esempio, sostiene attivamente la legge urbanistica statale del 1999, perché come sostiene il suo rappresentante Tom Larson “nessuno ha più interessi in gioco nella qualità della vita, né maggior consapevolezza di quello che sta succedendo nelle città, degli operatori immobiliari”.

La Smart Growth conviene sia nei cicli di espansione economica che di crisi– Le imprese stanno facendo investimenti di lungo termine sullo sviluppo sostenibile perché la smart growth funziona in entrambi i sensi, nei momenti di crescita come in quelli di relativo rallentamento o declino. I progetti di tipo sostenibile sono spesso stabili, i servizi si vendono bene, le politiche pubbliche aiutano a evitare costi e inefficienze dello sprawl. Nonostante il rallentamento dell’economia negli anni recenti, la Bank of America ha ampliato il proprio impegno verso i progetti smart growth, investendo 350 miliardi in interventi urbani su un periodo di dieci anni. Allo stesso modo, 275 datori di lavoro nella San Francisco Bay Area hanno raccolto più di 150 milioni da investire in riurbanizzazione di siti ex industriali, case a buon mercato e altri progetti di crescita sostenibile. Quando NALGEP pubblicò il rapporto Profiles of Business Leadership on Smart Growth nel 1999, l’economia americana toccava punte di crescita straordinarie. L’economia e il paese sono cambiati radicalmente da allora. Il paese sta lottando per riprendersi dalla crisi. Stati e governi locali affrontano un gettito fiscale in diminuzione, e una domanda di servizi in crescita. Le imprese hanno ridotto i posti di lavoro e i fatturati. E pure, la smart growth è forte quanto prima. Le attività di impresa di cui si sono ricostruiti i profili nel primo rapporto si sono mantenute, o ampliate. Molte altre compagnie e interi settori si impegnano ira in questa direzione. I leaders economici iniziano a raccogliere i frutti delle strategie smart growth.

Il presente rapporto, Smart Growth is Smart Business, mostra come costruire un territorio migliore miglior anche i bilanci. Ci aspettiamo che il movimento per la crescita sostenibile continui a crescere, e che rappresentanti del settore privato come quelli presentati qui aiutino a rendere la smart growth il modo corrente per le attività economiche nelle comunità di tutta l’America.

I costi dello sprawl

In sempre più città americane la gente sperimenta lo sprawl quotidianamente: le strutture commerciali sono collocate a chilometri dai clienti che servono, le residenze sono separate dagli spazi per il tempo libero, i luoghi di lavoro lontani dai lavoratori. Con la netta distinzione negli usi del suolo, lo sprawl fa crescere la straripante dipendenza da automobili e SUV, dato che l’auto è di solito l’unico mezzo per andare da casa al lavoro, a scuola, al negozio alimentare.

Persone e imprese si spostano sempre più lontane dal centro urbano, abbandonano le città e i sobborghi più vecchi, spostando gli investimenti verso fasce metropolitane sempre più esterne. Tutti gli interventi per migliorare la qualità dell’aria a livello nazionale sono stati vanificati dalle modalità di sviluppo insediativo diffuso, che determinano un aumento degli spostamenti veicolari e relativo inquinamento. Gli incrementi nel dilavaggio da strade, parcheggi, tetti e altre superfici impermeabilizzate minacciano le risorse idriche. È difficile trovare case a prezzi ragionevoli vicino a strutture commerciali e posti di lavoro. Le scuole sono affollate e servizi e infrastrutture urbane sovraccariche.

L’implicita inefficienza dello sprawl minaccia l’efficienza fiscale di città, suburbi, imprese private. Si devono realizzare nuove stradee svincoli autostradali. Scuole, caserme dei pompieri e di polizia devono essere costruite, ed occorre assumere personale. La crescita diffusa richiede anche la costosa estensione di servizi e infrastrutture verso nuove aree, che toglie risorse alla manutenzione di quelle esistenti e invecchiate.

Le comunità si impegnano a sostenere questi costi aggiuntivi, e le tasse aumentano sia per gli abitante che per le imprese. Lo Urban Land Institute (ULI) ha esaminato i costi per il contribuente relativi alla fornitura di nuove (o allargate) strade, servizi, scuole per nuove aree urbanizzate. Ne è emerso che un’abitazione media a 15 chilometri dal centro su un lotto di 1.500 metri quadrati costa al contribuente 69.000 dollari. Una casa vicina al centro su un lotto compatto ne costa 34.500: la metà dell’altra.Nella Loudoun County, Virginia, un sobborgo di Washington, DC, in grande crescita, le tasse sugli immobili sono aumentate di 764 dollari per abitazione fra il 2001 e il 2003 solo per coprire i costi delle infrastrutture connesse alle nuove urbanizzazioni, compreso un debito crescente per la contea.

Altri costi per le imprese comprendono le strade intasate, che riducono affidamento e produttività dei dipendenti. Secondo il Texas Transportation Institute (2003 Urban Mobility Study) il 59% delle principali strade risultava congestionato nel 2001. Lo studio ha rilevato che la congestione stradale è costata al paese 69,5 miliardi di dollari in sprechi di carburante e perdite di tempo, lo scorso anno: 4,5 miliardi in più dell’anno precedente. Le compagnie di trasporto merci che utilizzano le strade nazionali più affollate stanno pure perdendo in produttività dato che le arterie intasate limitano il numero delle consegne possibili. L’efficienza dell’intero sistema di distribuzione è diminuita, con costi più alti per le imprese e i loro clienti.

La crescita mal gestita aumenta i livelli di inquinamento, che si traducono in costi di regolazione e carichi per le imprese. Una bassa qualità dell’aria influisce sulla produttività, perché i lavoratori si assentano per cure a sé o ai bambini, affetti da problemi come l’asma. In alcuni casi una cattiva qualità dell’aria prolungata a lungo nel tempo può tradursi nella perdita dei finanziamenti federali per i trasporti.

Nelle aree di insediamento diffuso, di solito esistono poche opportunità di raggiungere la propria destinazione a piedi, il che limita la scelta dei dipendenti di mantenersi in forma attraverso questa routine quotidiana. Una crescita mal pensata diminuisce la capacità dei cittadini di mantenersi in buona salute camminando, il che aumenta l’assenteismo e diminuisce la produttività.

Queste tendenze stanno spingendo alcune città a prendere misure drastiche per limitare l’espansione a largo raggio e i relativi costi. In alcuni casi, costi e impatti dello sprawl possono portare le autorità ad adottare regolamenti restrittivi o addirittura moratorie sulla crescita. Il sobborgo in rapido sviluppo di Carroll County, Maryland, per esempio, ha di recente adottato una moratoria su tutte le nuove costruzioni.

Nessuno di questi fatti gioca a favore del successo economico. Per fortuna, le imprese stanno scoprendo che esistono metodi migliori per gestire la crescita, abbassare i costi, e le comunità di tutto il paese si stanno sforzando di sostenere uno sviluppo più sostenibile.

Nota: il documento integrale e originale (PDF 72 pp.) è disponibile al sito Smart Growth Leadership Institute (f.b.)

Personne, à Freedom Park, ne prononce jamais le mot "prostitution". Pourtant, dans cet immense bidonville, ce "camp de squatteurs" selon la terminologie locale, des centaines de femmes se vendent pour trois fois rien. Les clients, pudiquement appelés "boyfriends", petits amis d'une heure, d'une nuit ou d'un mois, sont des mineurs d'Impala Platinium, l'un des plus grandes mines de platine du pays. La mine, situé dans la Northern Province, à quelque 200 km au nord de Johannesburg, a attiré des milliers de ruraux, venant de toute l'Afrique du Sud et des pays voisins. Aujourd'hui, à Freedom Park, il y a environ 5 000 " shacks", des baraques de tôles alignées à perte de vue, peintes en rouge vif, jaune ou bleu, des couleurs pour cacher la misère.

La plupart des 20 000 habitants du bidonville sont sans emploi. Ici, il y a quelques hommes, en attente d'un job à la mine, et des femmes vivant de la "générosité" des mineurs. Les liaisons ne sont jamais qu'éphémères. Le mineur cherche une femme pour une heure, une soirée, parfois pour plus longtemps, mais un jour il repart dans son village, laissant derrière lui ses amours illégitimes. Environ 40 % des femmes de Freedom park sont séropositives.

Boniwe avait un "boyfriend", qui veillait sur elle depuis plusieurs années. Quand il est mort, sa femme est venue vider la maison. Dans son shack, il n'y a plus rien qu'un lit, une petite table et quelques écuelles. Elle vit là avec ses quatre enfants, parmi lesquels des jumeaux de 11 mois. L'un des deux est séropositif. Comme plus de 500 personnes, essentiellement des femmes, Boniwe a pu avoir accès à un traitement gratuit dans la clinique du bidonville. Mais ce matin, elle n'a pas pris ses médicaments. "Je n'avais rien à manger. Et on peut pas les prendre le ventre vide", explique-t-elle.

La clinique, qui existe grâce à des dons privés et à un fonds américain, a été créée par l'association Tapologo de Mgr Kevin Dowlings, archevêque de Rustenburg, la grande ville voisine. Il est le seul évêque catholique du pays à avoir préconisé publiquement l'usage du préservatif.

PAS D'EAU COURANTE

Selina a été l'une des premières à bénéficier de la distribution d'antirétroviraux. "Avant, c'était facile de trouver un boyfriend capable de payer jusqu'à 1000 rands (125 euros) pour une passe. Les types qui étaient virés avec une prime, ou les retraités, ils dépensaient beaucoup d'argent avant de retourner chez eux. Maintenant, tu peux difficilement avoir plus de 100 rands (12,5 euros)", explique-t-elle. "Et si tu demandes qu'ils portent un préservatif, c'est moins encore", poursuit-elle. En réalité, la passe se négocie souvent à 20 rands, à peine 2,50 euros.

Il n'y a rien ici, pas d'eau courante, pas de robinet public. Des camions passent chaque jour pour vendre de l'eau. Pourtant, il y a des citernes un peu partout. "Ils viennent les remplir avant les élections : après, c'est fini", raconte Batsesana, qui dirige l'équipe de bénévoles.

Tout, ici, est provisoire. Même la clinique, faite de quelques containers, est prête à être déplacée. Les Sud-Africains peuvent prétendre à l'une des petites maisons que l'Etat bâtit non loin de là. Les étrangers, eux, n'ont droit à rien. A terme, l'objectif de la municipalité est de raser Freedom Park, d'effacer à coups de bulldozer la misère et ses prostituées.

Nota: su un tema parallelo, in Eddyburg l'articolo sul rinnovo urbano" in Zimbabwe

Titolo originale:The Case for Paleo-Urbanism– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Circa venticinque anni fa, un costruttore e una coppia di architetti decisero di mettersi insieme per realizzare una cittadina che avrebbe radicalmente messo in discussione il senso comune dei costruttori contemporanei, e violato le convenzionali norme di zoning della maggior parte delle città del Nord America. A differenza di qualunque altro insediamento di quell’anno, pensarono lo spazio pubblico di quella città mettendo prima di tutto al centro il verde, da cui si irraggiavano le strade, culminanti in punti focali di interesse architettonico. Erano strade strette e fiancheggiate da ampi marciapiedi, a dimostrare che i pedoni avevano tanto diritto di star lì quanto le auto. Le case erano costruite vicine le une alle altre, e abbastanza vicino al marciapiede da poter tenere una conversazione dal portico con chi passava senza alzare la voce. Invece del solito mare di saracinesche da garage, sul fronte delle case c’erano basse recinzioni e porte per esseri umani a dare il benvenuto. Non era proibito l’accesso alle auto, ma si richiedeva si usare per tutte le case un vicolo sul retro per entrare nei garages. Anche se si trattava di un complesso di soli tre ettari, esso comprendeva una serie di funzioni (commercio, edifici pubblici, residenza) e insieme una miscela di tipi di abitazioni (casette isolate, appartamenti, abitazioni sopra i negozi).

A parte la rete irraggiante di strade, questa nuova cittadina “rivoluzionaria” non era tanto diversa dal tipo di piccolo centro o quartiere che si era costruito per decenni in tutto il Nord America sino a prima della seconda guerra mondiale. Ma nonostante ciò, la maggior parte degli operatori del settore pensavano che Seaside, Florida, avrebbe fallito. Non andò così. A dire il vero ebbe tanto successo che i valori immobiliari lì superarono quelli degli altri complessi nella zona dieci a uno. Negli anni seguenti, furono iniziati parecchi complessi di questo tipo “neo-tradizionale”. Undici anni dopo, architetti e costruttori di questi complessi collaborarono alla nascita del movimento diventato noto come New Urbanism. Ora esistono circa 650 insediamenti New Urbanist in vari stadi di sviluppo in tutto il Nord America. La maggior parte funziona molto bene nel libero mercato. Negli ambienti governativi ai vari livelli, molti urbanisti che dieci anni fa avrebbero solo visto una trasgressione alle norme di zoning, in queste strade strette e quartieri a funzioni miste, sono fra i più decisi sostenitori del New Urbanism o del suo movimento parallelo, la Smart Growth.

Non tutti sono convinti del successo economico dei New Urbanists e della loro accettazione da parte della gilda dei pianificatori. Il geografo David Harvey vede il pericolo che essi compiano alcuni degli stessi errori dei modernisti che criticano. Una delle preoccupazioni sollevate da Harvey nel suo articolo “The New Urbanism and the Communitarian Trap” (Harvard Design Magazine, 1997: 1- disponibile anche qui su Eddyburg), è la questione implicita in tutte le forme di utopismo. Precisamente, Harvey mette in guardia riguardo alla convinzione che cambiando l’ambiente si cambiano i comportamenti: “il movimento non riconosce che le difficoltà fondamentale col modernismo era la sua persistente abitudine di privilegiare le forme spaziali rispetto ai processi sociali”. Anche se si tratta di un avvertimento legittimo per qualunque movimento che si concentri sull’ambiente costruito, questo non è necessariamente il fato del New Urbanism. Chi sta al di fuori vede i piani di queste nuove città, ma quello che non vede è il processo a molti strati che sta dietro ai piani. I nuovi urbanisti hanno messo a punto un processo di charrette in cui i soggetti interessati, gli esperti, e in generale la comunità si riuniscono per fissare priorità e stendere i progetti. A differenza della classica “assemblea pubblica” che è di solito concepita per sciogliere critiche e resistenze rispetto a un progetto già esistente, in una charrette i partecipanti costruiscono il piano dalle fondamenta, e vedono le proprie idee messe in pratica.

Un’altra critica nei confronti del New Urbanism è il suo sottile storicismo e pervasiva qualità nostalgica. Dopo l’invito del governatore del Mississippi che chiamava 100 personalità New Urbanist a un consulto sulla ricostruzione delle città costiere distrutte dall’uragano Katrina, Eric Owen Moss, Direttore del Southern California Institute of Architecture, ha commentato che i nuovi urbanisti avrebbero offerto una “soluzione in scatola” per ricostruire la costa del Mississippi. Che la loro progettazione tradizionale avrebbe ricordato “un tipo di Mississippi anacronistico che anela ai bei vecchi giorni dello Old South tanto lenti ed equilibrati, piacevoli e ariosi, quando ogni persona sapeva stare al proprio posto” (Blair Kamin, “Mississippi Rocks the Boat with Bold Coastal Designs”, Chicago Tribune, 18 ottobre 2005). Se molti costruttori dell’area New Urbanist sono caduti nell’abitudine di offrire ai propri clienti una scelta piuttosto ristretta di tipologie storiche fra cui scegliere, si tratta di una risposta diretta a una domanda di mercato, e non di una base del movimento. I critici dell’architettura di solito mancano di comprendere l’importante distinzione fra architettura e urbanistica quando sparano certe bordate ai tentativi New Urbanist. I nuovi urbanisti sono molto più preoccupati di fare buona urbanistica – come gli edifici si rapportano con la strada e l’uno con l’altro, come funziona l’ambiente pubblico – di quanto non si interessino a qualunque particolare stile architettonico. Anche il paradigmatico intervento di Seaside contiene di tutto, dal colonial all’avanguardia, nella progettazione architettonica.

E infine, il New Urbanism è accusato di servire una specifica ed esclusiva categoria demografica: “Il new urbanism è essenzialmente un movimento bianco ed elitario - sostiene il teologo Glenn Smith, professore di teologia urbana alla McGill University di Montreal” (K. Connie Kang, “New Urban Model Becomes Article of Faith”, Los Angeles Times, 25 giugno 2005 - disponibile anche su Eddyburg). Non conta che la stessa accusa possa essere rivolta – come raramente avviene – anche contro il movimento ambientalista. Una critica del genere rappresenta una sfida significativa al senso di lungo termine del New Urbanism. Non credo che elitarismo e esclusività stiano nelle intenzioni dei sostenitori del movimento, ma i New Urbanists sono diventati vittime del proprio stesso successo. Ci sono così tante brutte, convenzionali, lottizzazioni suburbane che si costruiscono e, per contro, tanti pochi interventi realizzati con un po’ di buona urbanistica, che la domanda per una buona pianificazione tende a scappare verso i quartieri New Urbanist appena si rendono disponibili sul mercato.

Comunque, anche se il mercato inizia a correggersi e le abitazioni in un complesso New Urban diventano competitive con quelle in una lottizzazione suburbana, il problema dell’esclusività non è stato affrontato adeguatamente. Solo una piccola percentuale della popolazione nordamericana ricade nella categoria del nuovo acquirente di case. In più, molti americani vivono in appartamenti o case nelle parti vecchie delle città. Per la maggior parte di queste persone la percentuale di nuove case orientate al New Urbanism e lontane dal modo suburbano avrà pochi effetti sulla qualità della vita. Per fortuna, parecchi dei vecchi quartieri e centri urbani, dove vivono molte persone, hanno carattere urbano tradizionale anziché suburbano.

Questi quartieri sotto osservazione nelle città e cittadine costituiscono la scorta paleo-urbanistica del nord America. Sono stato introdotto al termine “ paleo-urbanistico” con Howard Ahmanson durante un convegno a Seaside, Florida, nel 2002. Molti di questi quartieri hanno bisogno di investimenti privati, aggiustamenti delle infrastrutture, scuole migliori. Ma hanno “buone ossa” in una prospettiva urbanistica. Il successo del New Urbanism si misurerà non da quanti nuovi interventi si riusciranno a realizzare entro un particolare periodo, ma da come la spinta generata da questi interventi saprà diffondersi nel tessuto urbano esistente del Nord America. D’altra parte, l’esperienza urbana collettiva di chi vive e forma questi insediamenti storici conferisce legittimità a progetti New Urban vulnerabili alle accuse di utopismo e nostalgia. Col paleo-urbanism che comincia ad apparire più nuovo e il new urbanism che inizia a mostrarsi un po’ più vecchio, credo si possa recuperare il senso positivo della forza vitale della buona urbanistica.

Come pastore, mi piace paragonare questo processo al ruolo dei movimenti di riforma interni alla chiesa. Sono il primo ad ammettere che la chiesa locale solidamente radicata nella tradizione storica sia piuttosto lontana dall’essere perfetta. Cosa più importante, queste chiese sono spesso sorde alle critiche e lente a cambiare. È raro che un vero cambiamento avvenga dall’interno della chiesa. Ma, nel corso della storia, sono emersi movimenti di riforma contro questi limiti. Molti dall’interno vedevano i movimento come una minaccia e li criticavano aspramente di voler togliere fedeli alla chiesa. Ma in generale vedo in questi movimenti un aiuto profetico alle chiese per riconoscere i propri limiti e operare i necessari cambiamenti. Nonostante questo giudizio positivo generale, riconosco anche che questi movimenti aiutano le riforme, ma non sostituiscono il ministero della chiesa locale.

Lo stesso mi pare per il New Urbanism nei confronti delle comunità paleo-urbanist. Le città, cittadine e quartieri con radici storiche costituiscono le forme e ambienti specifici dove devono essere vissute le nostre esistenze collettive. Fra cinquant’anni, qualche complesso New Urbanist diverrà storicamente radicato. Per adesso, li si comprende meglio in quanto movimenti di riforma. Il loro successo deve essere valutato non in base al mercato o al numero delle realizzazioni, ma piuttosto su come la loro esistenza migliora la qualità degli ambienti urbani tradizionali. Possiamo già dire che il loro effetto è stato positivo. In molte vecchie città, cittadine e quartieri si ripensano le norme di zoning, le larghezze stradali, gli standards dei parcheggi, secondo modalità New Urbanist. E vediamo tornare l’ambiente pubblico in molte comunità urbane. Nella misura in cui di queste trasformazioni si debba dar credito ai pionieri del New Urbanism, io applaudo i New Urbanists. Senza un collegamento vitale con la vita civica in senso ampio, il movimento potrebbe davvero essere a rischio di utopismo, nostalgia, ed elitarismo. Se il New Urbanism vuole evitare questo destino, deve considerare seriamente prospettive ed esperienze di chi vive negli ambienti paleo-urbani.

Nota: il testo originale di questo assai più originale, stravagante, assertivo articolo al sito di Comment Magazine ; forse a qualcuno potrà anche interessare la mia recensione del libro di Jacobsen, I Marciapiedi del Cielo (f.b.)

Titolo originale: New urbanists prepare to tackle Gulf Coast reconstruction plan – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

La devastazione inflitta dall’uragano Katrina alla Louisiana, Mississippi, e Alabama lo scorso agosto ha stimolato il più ampio impegno mai intrapreso dai Nuovi Urbanisti nel campo della pianificazione.

Circa 100 fra architetti, urbanisti, esperti di trasporti e altre competenze, da tutti gli Stati Uniti si incontreranno dall’11 al 18 ottobre per contribuire all’enorme sforzo per la ricostruzione di almeno nove delle città costiere colpite dello stato, tra le quali Gulfport, Biloxi, e Pascagoula. Gli studi coinvolti lavoreranno per una quota ridotta della tariffa professionale abituale, e collaboreranno con architetti e urbanisti locali, come ha dichiarato l’architetto-urbanista di Miami Andres Duany, che coordina il programma per conto del Congress for the New Urbanism.

Il Governatore Haley Barbour ha incontrato Duany il 12 settembre, e il 20 dello stesso mese ha autorizzato i gruppi di lavoro a collaborare con le città maggiormente colpite lungo i quasi 200 chilometri di costa del Golfo in Mississippi. “È importante sottolineare che metodi di lavoro e progetto verranno resi disponibili agli interessati, ma non imposti”, ha dichiarato il presidente del CNU John Norquist in una lettera al governatore. “Sta a ciascuna comunità decidere cosa fare”. Norquist affiancherà Duany nella guida della iniziativa del CNU.

Indipendentemente dall’impegno del Congress for the New Urbanism, lo studio Dover, Kohl & Partners ha rapidamente completato i progetti per un nuovo insediamento di tipo new urbanist su 800 ettari vicino a Bay St. Louis, Mississippi, appena a est del confine con la Louisiana. In giugno, Dover Kohl, insieme a Zimmerman/Volk Associates, Gibbs Planning Group, e Hall Planning & Engineering, aveva sviluppato una charrette di nove giorni per il progetto di “un technology village, un centro urbano, e nove quartieri” nell’insediamento ancora senza nome, dice Milt Rhodes, direttore per il progetto di Dover Kohl. Dopo l’uragano, è diventato presto chiaro che il piano della Dover Kohl – il primo intervento a est dello Stennis Space Center della NASA – avrebbe dovuto essere incrementato, e i ritmi di realizzazione accelerati.

Con circa 7.000 alloggi danneggiati nell’area regionale di Bay St. Louis, di cui forse 3.000 impossibili da recuperare, il nuovo centro dovrà probabilmente trovare posto per un rapido accesso di sfollati. Alcune famiglie troveranno residenza permanente, altre probabilmente occuperanno alloggi temporanei offerti dalla Federal Emergency Management Agency (FEMA). Le abitazioni provvisorie potranno anche essere camper o roulottes.

I costruttori, un’impresa familiare chiamata Stennis Technology Park Inc., hanno chiesto alla Dover Kohl di terminare il piano generale e un documento di norme form-based [ le linee guida alla progettazione new urbanism n.d.T.] il più rapidamente possibile. “Il nostro codice si basa su tipi edilizi che dervano da uno studio compiuto nel mese di giugno su Biloxi, Gulfport, Pass Christian, e New Orleans” dice Rhodes. Localizzato in un’area della Hancock County non inclusa in alcuna circoscrizione municipale, il progetto può ospitare 3.500 o più case, oltre ad un contingente molto superiore di alloggi aggregati: townhouse, duplex, triplex, ecc.: più di quanti anticipati prima dell’uragano Katrina. “Abbiamo fatto ripetutamente presente al costruttore che non esiste un numero massimo di lotti” che debba essere specificato nel piano. Agiunge poi “Mi aspetto che [la preparazione dell’area, strade e servizi] parta molto rapidamente”.

A New Orleans, che ha subito il peggiore disastro che mai abbia colpito una città USA, le zone alluvionate comprendono anche New Desire HOPE VI, un nuovo quartiere a nord est del French Quarter. La Urban Design Associates ha redatto il piano generale di New Desire, e per più di tre anni lo studio Torti Gallas & Partners ha progettato gli edifici e diretto i lavori di costruzione. Torti Gallas si è sforzata di progettare gli alloggi – in massima parte case abbinate a coppie – secondo modi tradizionali, e il risultato ora è che alcune di esse ricordano gli stretti edifici detti “ shotgun” per cui New Orleans è famosa. “Stiamo ancora aspettando di conoscere il destino di quella parte di città” dice Loreen Arnold, architetto responsabile del progetto per la Torti Gallas.

Gli argini hanno ceduto su due lati dell’insediamento, e l’acqua è salita di due metri e mezzo sopra le fondamenta dei 107 che erano stati completati e occupati. L’alluvione ha anche inondato il lotto finale del progetto, 318 abitazioni terminate al 40%. “È desolante vedere il lavoro di tre anni disfatto in un giorno, specialmente alla luce di quanto sia difficile riuscire e costruire case economiche in genere” si lamenta Arnold.

Mentre New Urban News andava in stampa, alcune parti di New Orleans erano ancora sommerse, e alcune persone apparentemente informate temevano che i suoli della città fossero tanto contaminati dalle fognature, prodotti chimici e metalli pesanti che sarebbe stato difficile rendere sicura la residenza umana stabile per un certo periodo di tempo. Si è anche detto che, visto l’alto costo di bonifica dei suoli, poteva anche aver senso realizzare una città nuova fuori da New Orleans e lasciare che molti evacuati vivessero lì: anche se molte più persone insistevano che una città tanto amata come New Orleans dovesse essere recuperata. Al momento della stampa, New Urban News non era a conoscenza di alcun impegno concreto, e sicuramente non di new urbanists, per la ricostruzione di New Orleans

LA “MEGA-CHARRETTE” IN MISSISSIPPI

Se paragonato alle altre regioni degli USA, il Sud è particolarmente ricettivo rispetto al New Urbanism. Di conseguenza, dopo pochi giorni dal colpo di Katrina, nuovi urbanisti come Nathan Norris in Alabama hanno iniziato a proporre di costruire un impegno del movimento, perché le competenze urbanistiche fossero massicciamente orientate alla sfida della ricostruzione. Sulla lista di discussione NewUrb, Norris, collaboratore di PlaceMakers, ha scritto, “Capiamo le correlazioni fra trasporti, pianificazione regionale, quartieri, politiche energetiche ... abbiamo tra noi gente che può mettere in collegamento i singoli aspetti”. Ha concluso “Qui, nella terra degli uragani, è difficile trovare oppositori alle nostre idee”.

Duany è diventato il leader naturale di questo impegno, assistito da Steve Mouzon di PlaceMaker, che ha già collaborato a parecchie charrettes [ laboratorio collettivo di progettazione n.d.T.] tenute dallo studio Duany Plater-Zyberk & Co. (DPZ), come quella per il progetto di Lost Rabbit nella Madison County, Mississippi. “Il governatore Barbour ha visto i progetti di DPZ [per Lost Rabbit] ed è rimasto colpito” dice Mouzon. “A quanto pare Barbour apprezza ciò che ha visto del New Urbanism, e ha fiducia nel lavoro che si potrebbe fare lungo tutta la costa dello stato”. La DPZ ha anche lavorato su due progetti in Louisiana, il complesso residenziale Naval a Belle Chasse, e un piano per il centro di Baton Rouge, oltre a cinque insediamenti a Greenfield in Alabama. Anche con tempi limitati, Duany aveva il vantaggio di poter scegliere in fretta i partecipanti, cosa che sarebbe stata difficile per una organizzazione come il Congress for the New Urbanism. È stato stabilito che nessuno studio avrebbe potuto mandare più di tre rappresentanti, a quella che è stata chiamata la “ mega-charrette” del Mississippi.

I nuovi urbanisti sembrano aver sostenitori in entrambi i partiti. Ann Daigle, urbanista originaria della Louisiana, dice che il senatore democratico Mary Landrieu della Louisiana “è una fervente sostenitrice della Smart Growth e del movimento nuovi urbanisti”. Barbour è ex presidente del Comitato Nazionale repubblicano. Ma parecchie delle decisioni verranno prese a livello di città e contea, dove sono stati consentiti nel passato parecchi insediamenti convenzionali di tipo diffuso.

Norquist coordinerà i rapporti con le varie amministrazioni, Duany con gli studi professionali per il CNU, e Michael Barranco con quelli locali del Mississippi. Un gruppo coordinato da Mouzon rivolgterà l’attenzione a problemi architettonici come l’altezza degli edifici da terra (tre metri o più, come sarà necessario in alcune zone), o sulla necessità di evitare ambienti urbani ostili ai pedoni. Agli architetti sarà anche chiesto di riprogettare le case mobili, quelle componibili della FEMA, e di scegliere prodotti fra quelli offerti a livello nazionale. Ci saranno gruppi di lavoro sui trasporti, le infrastrutture, il verde, questioni sociali e ambientali, e altri aspetti della ricostruzione.

“La costa del Mississippi è stata completamente devastata” ha scritto Duany in una e-mail ai partecipanti. “Gli edifici non ci sono più, ma il terreno è asciutto e le infrastrutture a posto”. La regione costiera, ha aggiunto, “quindi sarà la prima su cui intervenire”. “Ci saranno poi altre charrettes per i centri dell’interno del Mississippi, forse anche Baton Rouge, e magari pure New Orleans”.

LAVORARE PER IL FUTURO

A ciascuno dei centri verrà assegnato un gruppo di lavoro di esperti new urbanists e altrettanti professionisti locali. Duany dice che i nuovi urbanisti “lavoreranno a tariffa ridotta”, una piccola parte di quella abituale degli studi. “È necessario distinguersi dai soliti arraffoni, che poi danneggiano se stessi” ha aggiunto. La charrette avrà luogo in una struttura centrale, probabilmente il Casino Hotel di Biloxi. I partecipanti alterneranno giornate di incontri centralizzati ad altre di visita ai centri colpiti, dove si incontreranno gli abitanti e si osserverà la situazione. Duany ha posto l’accento sul fatto che oltre a coinvolgere le amministrazioni locali, si dovrà far partecipare alla charrette anche “ogni tipo di interesse”, dai poveri ai proprietari di casino.

Dopo che i partecipanti esterni alla charrette saranno ripartiti, il 18 ottobre, uno studio assumerà la guida per il completamento del lavoro, entro tre settimane. Tutte le operazioni successive saranno svolte dai gruppi locali che hanno lavorato coi new urbanists. Se alcuni tra questi ultimi desiderano continuare la collaborazione, possono stipulare contratti di collaborazione con le amministrazioni locali. “Non c’è il rischio di produrre qualcosa di standardizzato” nota Duany. Presumibilmente, i piano saranno parecchio diversi da una città all’altra. Jim Barksdale, uomo d’affari e filantropo nominato dal governatore Barbour a capo della commissione statale per la ripresa, e Leland Speed, direttore della Mississippi Development Authority, rappresenteranno il governo. Hank Dittmar rappresenterà la Foundation for the Built Environment del Principe di Galles.

Oltre alla charrette del Congress for the New Urbanism, la Knight Foundation di Miami si è rivolta a Charles Bohl, direttore dello Knight Program in Community Building all’Università di Miami, per un progetto di aiuto alla ricostruzione a Biloxi. Inoltre, Norquist ha dichiarato che ci sarebbero risorse per tenere un Consiglio del CNU e New Orleans, forse addirittura entro ottobre. Una iniziativa del genere senza dubbio porterebbe un numero consistente di new urbanists in città, e potrebbe influenzare i modi in cui New Orleans prepara la propria rinascita, ha concluso il presidente CNU.

Nota: il testo originale di questo articolo (certamente “lobbistico” per quanto animato da lodevoli intenzioni) al sito di New Urban News; oltre all'assalto dei professionisti ce ne sono anche altri, meno virtuosi, come riferisce anche Mike Davis in un articolo da il manifesto riportato qui su Eddyburg (f.b.)

Titolo originale: A Phoenix from the Mud – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

La cosa giusta sostenuta da David Brooks nel suo commento sul New York Times, Katrina’s Silver Lining” è che la devastazione di New Orleans offre un’occasione unica – a dire il vero, l’obbligo – di ricostruire questa città americana in modi che riducano la povertà urbana endemica.

Ma, quando descrive come ciò debba essere fatto, Brooks rivela il suo vero scopo. Questo rappresentante dell’American Enterprise Institute non è tanto interessato a cambiare la vita della povera gente, quanto lo è a consolidare quei miasmi suburbani essenziali al potere politico conservatore in America. Come? Brooks vuole inserire le persone residenti a New Orleans colpite dalla povertà, e ora sfollate, in vari suburbi middle-class sparsi per il paese:

“Nel mondo del post-Katrina, ciò significa dare alle persone che non desiderano tornare a New Orleans il modo di disperdersi in varie zone a ceto medio della nazione”.

Ovviamente, questo vuol dire collocarli nei suburbi, dove il loro costo della vita schizzerà alle stelle. In primo luogo, avranno bisogno di automobili. Per comprarsele, e comprare la benzina, avranno bisogno di lavori che offrano di più di quelli per cui sono, presumibilmente, qualificati ora. Se trovano lavoro, magari da Wal-Mart, avranno bisogno di assistenza familiare perché i parenti non abitano più nello stesso quartiere, e magari nemmeno nello stato. Naturalmente saliranno anche i costi per la casa, a meno che queste persone vengano ricollocate dentro a ghetti urbani: vanificando così l’intero programma.

Il fatto è, che la povera gente si muove verso i suburbi middle-class in tutti gli Stati Uniti, e la cosa non funziona. Man mano le giovani coppie agiate e i baby-boomers verso la pensione riscoprono la qualità dei quartieri ben progettati ad alta densità nei nostri centri urbani serviti da trasporti pubblici, essi spingono la popolazione più povera verso i suburbi di prima fascia. (Questo, a sua volta, spinge fuori la gente del cento medio, verso sobborghi più esterni, spesso nuovi, aumentando le distanze di pendolarismo, le tensioni nelle famiglie, quelle nei bilanci statali e negli ecosistemi locali). Questa dinamica, talvolta definita gentrification, altre volte rinnovo urbano, in effetti significa spostare povertà e criminalità verso i sobborghi, dove l’assenza di senso comunitario, di parentele, di connessione sociale, rende anche più difficile fronteggiarle. E, chiamatemi cinico, ma dubito fortemente che un programma di migrazione forzata imposto dal governo federale possa offrire occasioni e spazi tali da garantire il successo di questo esperimento.

C’è un metodo migliore, e più semplice da mettere in pratica. Invece di consolidare una sperimentazione che dura da cinquant’anni ed è fallita, col sobborgo a bassa densità, la ricostruzione della New Orleans metropolitana dovrebbe essere vista come l’occasione non solo per correggere i problemi causati dalla povertà umana e dalla vulnerabilità fisica della città, ma anche per segnare la strada a tutte le altre realtà metropolitane d’America.

Ciò comporta integrare tre concetti all’interno di un piano di riorganizzazione regionale negoziato coi residenti di New Orleans. Il primo concetto è la smart growth. Il secondo è un tipo di insediamento basato sul trasporto collettivo. Il terzo è una produzione di energia diffusa nel territorio. Smart growth significa progettare insediamenti a densità più elevate, per abitanti a redditi misti in modo da rafforzare le famiglie, costruire un senso comunitario e collocare i servizi di necessità quotidiana ad una distanza da casa facilmente percorribile a piedi. Sta accadendo in tutti gli Stati Uniti. L’insediamento pensato per il trasporto collettivo si basa sull’idea che le nuove costruzioni, o le ricostruzioni, si debbano organizzare attorno a trasporti di massa energeticamente efficienti, che aumentano la mobilità metropolitana, riducendo il tempo trascorso in auto (e la correlata dipendenza dal petrolio). Integrare questi due concetti significa una rete di comunità sane, legate da reti di trasporto efficiente e a prezzi ragionevoli, incrementare l’attività commerciale, le possibilità e le scelte in tutta l’area metropolitana.

L’ultima idea, della produzione energetica distribuita, è la più innovativa, ma al tempo stesso la più importante dal punto di vista strategico. La produzione energetica diffusa, l’uso di generatori locali più piccoli ad alta efficienza, è in contrasto con l’uso tradizionale di grossi generatori centralizzati, spesso inefficienti e inquinanti. Le tecnologie esistono, e molti edifici terziari nelle zone urbane, o fabbriche high-tech che hanno bisogno di energia altamente affidabile, li utilizzano. Addirittura, New York City ha deliberato che una certa percentuale dei nuovi impianti energetici debba essere distribuita, per ridurre il carico sui sistemi centralizzati man mano aumenta il consumo. L’effetto è di creare un sistema energetico metropolitano più solido, in grado di sostenere cadute locali in modo più efficiente, eliminando al contempo circa un terzo dell’inefficienza dovuta alle perdite durante la trasmissione. Coi prezzi energetici in salita e la minaccia certa di nuovi uragani, efficienza e affidabilità diventano essenziali.

La partecipazione locale, sino al livello di quartiere, sarà un fattore critico di questo processo. La ricostruzione post-bellica nei Balcani (in gran parte ignorata nel caso dell’Iraq) ha insegnato nel modo più tragico che senza partecipazione sociale gli sforzi per la ripresa possono prendere direzioni orribilmente sbagliate. Fra le cosiddette “ charrette” sviluppate nei processi di smart growth, e le metodologie di coinvolgimento comunitario delle agenzie umanitarie, i tre elementi per una New Orleans sostenibile possono essere plasmati su misura secondo bisogni, speranze e valori degli abitanti. All’interno di questo processo, il ruolo della politica locale, ora piuttosto scosso, si rafforzerebbe, e l’economia subirebbe un vero boom a causa del lavoro di ricostruzione.

Tutto sommato, abbiamo le conoscenze, capacità e tecnologie per collaborare con gli abitanti di New Orleans a trasformare la città, da simbolo dell’America peggiore, a quanto l’America potrebbe diventare. O meglio, avrebbe bisogno di diventare. Quello che non possiamo fare, è di ricostruire semplicemente l’ingiustizia urbana, e il disagio suburbano.

Nota: il testo originale al sito TomPaine Common Sense; su Eddyburg sono numerosissimi i contributi sul "caso" New Orleans dopo le distruzioni dell'agosto 2005, si veda almeno per confronto sui temi della ricostruzione, questo articolo di Drake Bennet dal Boston Globe (f.b.)

Premessa

La città è sottoposta alle sole regole di mercato. Il soggetto pubblico (lo Stato) ha ridotto sensibilmente il suo ruolo e si preoccupa solo di rendere più agevole le iniziative dei privati. Investitori con capitali ingenti si costruiscono le regole e determinano l’assetto della città. E’ così che la città cresce secondo una logica tutta privata e in ossequio alle sole regole di mercato. La città è oggetto stesso dello scambio (del negozio). Così non esiste più la città pubblica perché il mercato non produce beni pubblici. Esiste la città privata, quella dei ricchi con quartieri di lusso e dotati di tutti i servizi, una città chiusa e segregata abitata da una popolazione che ha una forte capacità di consumo. Esiste la città dei poveri, anch’essa privata, costruita per soddisfare direttamente le necessità e il bisogno di abitare. Lottizazioni abusive, occupazione dei suoli e autocostruzione definiscono gli insediamenti miserabili dove si insedia la popolazione povera. I servizi, spesso anche quelli essenziali, scarseggiano ma ci si arrangia e se qualcosa non te la danno te la prendi. Due città entrambe con la stessa logica tutta privata che si localizzano vicine perché ci sono sempre delle relazioni tra i ricchi e i poveri, non ultima la possibilità, per i poveri, di “prendersi” quello che non ti danno. Il resto della città, quello che c’è in mezzo è un limbo e non interessa a nessuno. Sparisce la città pubblica quella che con le sue contraddizioni e differenze era la base per l’integrazione sociale. Ognuno vive nel suo mondo e se può si costruisce la propria campana di vetro e la difende con la vigilanza, in mezzo è il territorio di nessuno.

Questa città esiste e sta ormai corrodendo una città che all’inizio del Novecento si era costruita con un lungimirante progetto pubblico: una griglia e i parchi che costituivano la regola per l’edificazione privata: Buenos Aires. La prima città dotata di una rete metropolitana in tutta l’America Latina. A partire dalla politica economica avviata dalla dittatura nella seconda metà degli anni Settanta per concludersi con le sciagurate riforme economiche di Menem è possibile ripercorrere un lucido progetto di privatizzazione del processo di costruzione della città. Il prof. Pedro Pírez dell’Università di San Martín di Buenos Aires, nell’articolo che abbiamo tradotto, e che trovate in fondo a queste righe, ripercorre con estrema sintesi questo processo e ci chiarisce il modo in cui oggi si sta costruendo la città Metropolitana di Buenos Aires.

Nell’articolo “Politiche pubbliche e sviluppo economico: le Green Belt Towns di Rexford G. Tugwell” (pubblicato su Eddyburg il 13 Luglio 2005) avevamo ricostruito l’importanza del soggetto pubblico nel determinare le politiche di sviluppo di un Paese. Il carattere integrato delle decisioni pubbliche era già allora la condizione essenziale per lo sviluppo. La politica agricola non poteva essere disgiunta dalla politica sulla migrazione dalla campagna verso le città.

L’articolo che segue ci mette davanti agli occhi un caso opposto, in cui il soggetto pubblico diventa uno dei soggetti coinvolti nella costruzione della città, riduce così il suo ruolo che diventa marginale sia nell’indirizzare le scelte urbane sia nella distribuzione della ricchezza.

L’Italia non è l’Argentina ma ci somiglia. Per questo leggendo l’articolo si ha come la sensazione di guardare il futuro, di vedere quello che ci aspetta e che oggi stiamo preparando.

Comprendiamo perché molti di noi sono titubanti di fronte alla retorica del mercato che per alcuni è la panacea di tutti i mali, del privato efficiente e innovatore contrapposto ad un pubblico che per principio non funziona, spreca risorse ed è antiquato. Comprendiamo perché vogliamo restare, nonostante tutto, a chiedere più mercato ma anche un nuovo ruolo del soggetto pubblico. Nuovo nel senso di più forte, con più capacità di comprendere i fenomeni, di interpretarne la complessità e di tracciare linee di indirizzo forti che aiutino anche i privati a sviluppare le loro potenzialità di crescita e ad affermare anche l’animal spirits necessario ad ogni imprenditore. Nuovo ruolo vuol dire più capacità di negoziare su posizioni forti e trasparenti per l’affermazione quanto più ampia possibile di principi generali e di benefici collettivi. Vuol dire anche capacità di prefigurare scenari futuri per mitigarne i rischi e cogliere le opportunità, tutto il contrario del giorno per giorno dove ci si limita a misurare gli ettari di verde ottenuti in cambio del prodotto immobiliare imposto dal promotore. Nuovo vuol dire anche saper dire di no. (g.c.)

(*) Pedro Pírez: Investigador del Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (CONICET) en el Centro de Estudios Desarrollo y Territorio (CEDeT) de la Escuela de Política y Gobierno de la Universidad Nacional de San Martín, Buenos Aires; Profesor Titular en la Facultad de Ciencias Sociales de la Universidad de Buenos Aires; Profesor de posgrado en la Universidad Torcuato Di Tella (Traduzione per Eddyburg di Giovanni Caudo]

Di che tipo di privatizzazione parliamo?

E’ ormai un luogo comune riferirsi alla privatizzazione delle nostre città a partire dai cambiamenti che negli ultimi dieci anni hanno interessato sia l’ambito internazionale (ristrutturazione economica e globalizzazione) sia ognuno dei paesi dell’America Latina.

Per comprendere di cosa si tratta è utile però ricordare che queste città, in generale, sono state già costruite in prevalenza da logiche private. Queste città sono state costruite fondamentalmente per mezzo di un processo guidato ed attuato da attori privati che l’hanno orientato, da un lato, verso interessi particolari, così da ricavare dei benefici da ogni fase dell’operazione (il suolo, la costruzione di alloggi, la costruzione di terziario o delle infrastrutture e servizi), e dall’altro lato, per perseguire degli interessi generali, dove questo termine è utilizzato per assicurare il funzionamento delle attività economiche e la crescita dell’occupazione.

Lo Stato è intervenuto introducendo tre condizioni allo sviluppo privato: evitare di subordinare la produzione della città agli interessi particolari del singolo imprenditore, in modo da non contraddire quello che chiamiamo interesse generale (la città come oggetto della negoziazione contro la città come ambito della negoziazione). Limitazioni per garantire l’occupazione e la capacità di accesso ai servizi. Limitazioni per affermare il principio di legittimità in senso ampio.

L’intervento statale dipende in ogni caso dagli attori coinvolti, dalle loro relazioni e contraddizioni. Il risultato è una produzione privata che è orientata all’integrazione sociale e territoriale sia delle attività economiche che della popolazione. Quando ci riferiamo alla privatizzazione possiamo riferirci al processo della produzione urbana (trasformazione del suolo e costruzione) e ai prodotti che sono il risultato di questa produzione.

La privatizzazione della produzione urbana comporta la subordinazione di questa alle decisioni degli attori che si muovono in ragione di una logica di accumulazione del capitale e che sono interessati ad ottenere in prima istanza il guadagno, e poi, in un secondo tempo e se ce ne sono le condizioni, legare la propria azione agli interessi generali, come ad esempio, l’interesse verso altri operatori economici o alla forza lavoro o alla popolazione in senso più generale.

La privatizzazione dei prodotti si riferisce alla capacità di perseguire l’inclusione territoriale e sociale e alla tendenza a lasciare fuori dalla possibilità di consumo segmenti importanti della popolazione. Questo effetto si lega, senza dubbio, con i processi di produzione, però è anche legato con le condizioni più generali della popolazione e di alcuni gruppi in particolare. I cambiamenti nella condizione sociale della popolazione dipendono dalle modificazioni nel mercato del lavoro e nella distribuzione sociale che lasciano fuori dalla possibilità di accesso al consumo dei beni urbani settori importanti della popolazione (disoccupati, precari, poveri, ecc…); cambiamenti che dipendono però anche dalle politiche statali che non si sono fatte carico di queste trasformazioni come anche dalla riduzione delle politiche di sostegno alla popolazione.

Tutto questo è parte di una particolare relazione mercato-Stato, dove il crescente predominio privato è associato a tre diverse situazioni:

a) lo stato riduce o indebolisce il suo intervento favorendo la produzione privata dello spazio urbano; b) lo stato modifica il senso del suo intervento che non è più orientato in ragione dell’ ”interesse generale” ma in favore di interessi economici particolari; c) l’emergere di uno squilibrio nella relazione mercato-Stato per la trasformazione degli investitori, come nel caso dei processi economici globali, in soggetti in grado di alterare il peso negoziale sia nei confronti dello Stato sia del resto degli attori sociali interessati.

2- L’espansione metropolitana di Buenos Aires.

2.1 I precedenti

Dall’inizio dell’espansione metropolitana di Buenos Aires, all’inizio del secolo XX, la costruzione della città si è differenziata in modo significativo tra centro e periferia (Pirez, 1994).

Nella capitale federale, Buenos Aires [i], la produzione della città ha seguito alcune politiche definite dal governo municipale [ii], fondamentalmente si trattava di un disegno di piano che stabilì una griglia estesa per tutta la città (1889-1904) e indirizzò, dall’inizio del secolo, una occupazione relativamente omogenea del territorio (Gorelik, 1984:24). Da questa dipendevano anche la localizzazione delle opere pubbliche che determinarono delle forti centralità [iii] e la costruzione da parte dei privati, sulla base dei regolamenti municipali, delle urbanizzazioni, in particolare energia elettrica e trasporti (ferrovie, tramvie e autobus) così come la produzione e la gestione da parte dello Stato della rete idrica e di quella fognaria. Su questa base la città è cresciuta integrando le parti di città prodotte dai privati, lasciando a carico degli occupanti il compito di completare lo spazio urbano tra il costruito (Dupuy, 1987; Pírez, 1994; Pírez, 1999a). Il centro della città ha una qualità urbana relativamente elevata: dotazione di servizi e norme sull’uso del suolo, che, nonostante talune limitazioni, realizzano la base essenziale per una città capace di integrazione sociale.

Dall’altra parte, la periferia metropolitana [iv] che, nella prima metà del secolo XX, è cresciuta a con l’espansione della classe media [v] e, che a partire dagli anni quaranta, cresce grazie ai settori popolari (in gran parte operai dell’industria). Una crescita senza infrastrutture che restano indietro rispetto all’espansione e, quasi, senza norme che ne regolino l’uso del suolo. In tutti i modi, il mercato del suolo, attraverso il cosiddetto “loteo popular” (Clichevsky, 1990) consentì una sistemazione legale alla popolazione che arrivava in città. Negli anni Quaranta, con la statalizzazione del servizio di trasporto pubblico, anche se le aree servite restavano ancora limitate, ma grazie alle tariffe basse e soprattutto al “permissivismo” nei confronti dei viaggiatori senza biglietto, si favorì una relativa integrazione, anche se con una bassa qualità urbana.

Il risultato fu una città che integrava, in modo legale, ma segregato e in modo molto diseguale, la popolazione di basso reddito.

Questo processo negli ultimi anni si è modificato.

La struttura metropolitana negli anni novanta.

In Argentina la politica economica coerente con il processo di ristrutturazione economica [vi] si è avviata con il governo militare che prese il potere con il golpe del 1976. Il modello industriale subì dei profondi cambiamenti che provocarono disoccupazione, e una forte accentuazione delle disparità economiche. Il Governo centrale ridusse il suo ruolo nelle politiche infrastrutturali di base (acqua e fognature, distribuzione elettrica), in quelle sociali come la salute e l’educazione, decentrandole in primo luogo ai governi provinciali e poi ai comuni. Si avviò così un processo generale di riduzione dello Stato [vii] con il conseguente abbassamento della protezione sociale.

Una politica che si è consolidata e ampliata durante il governo del presidente Menem negli anni Novanta, in un processo di ulteriore deregulation e di apertura all’economia globale.

Passiamo ad evidenziare ora l’aspetto più rilevante del nostro ragionamento. In un contesto di riforma e di riduzione dell’apparato statale, con riduzione delle funzioni e di risorse, avviene il trasferimento, decentramento, agli altri livelli dello Stato e verso le imprese private (privatizzazione).

Si è modificata la forma costitutiva dello Stato, con un peso molto minore nelle politiche pubbliche a favore della popolazione a basso reddito e, per contro, un crescente orientamento verso politiche di tipo finanziario in differenti campi (tra questi quello immobiliare). In quegli anni il capitale finanziario internazionale aumentò il proprio peso nell’economia del paese in modo consistente. Così come il predominio economico nel settore terziario (finanza e servizi) e l’aumento delle attività destinate all’esportazione (prodotti agricoli e energia). Le conseguenze sul mercato del lavoro furono: il consolidamento di una piccola quota di posti di lavoro altamente qualificati e con alta remunerazione (generalmente nel settore terziario); la riduzione dell’occupazione industriale; l’aumento delle disoccupazione e delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito con una conseguente polarizzazione sociale.

Si ebbe così l’emergere di una classe sociale medio-alta con alti redditi e una forte capacità di consumo e, come controparte, l’aumento di una popolazione a basso reddito sotto la linea della povertà e dell’indigenza. Aumentò il divario tra queste due classi e pian piano sparì la classe media tradizionale [viii].

Nel contesto metropolitano tutto questo comportò dei cambiamenti importanti. I soggetti che costruivano la città cambiarono radicalmente. Da un lato fecero la comparsa nuovi attori economicamente forti e con un vero potere di decisione sull’assetto della metropoli, soggetti con un diritto di “cittadinanza” di tipo speciale che potevano fare a meno di rispettare le regole e di subire il controllo sia dell’utente che dello Stato (Pírez, 2004a), in particolare nei servizi urbani (Pírez, 1994 y 1999a; Pírez et al., 2003) e nella trasformazione del suolo. Lo Stato pertanto si fece promotore degli interessi privati nella costruzione della città [ix]. Dall’altro lato, la popolazione di reddito più basso vide ridotta la capacità di promozione sociale a causa della riduzione dell’intervento dello Stato nella produzione di beni pubblici (case, servizi, aree pubbliche) [x]. La disoccupazione e la povertà spinsero questa parte della popolazione a realizzare direttamente i beni di cui aveva bisogno a testimonianza di una condizione di cittadinanza limitata “subciudadanía” (Kovarik, 2000). Si realizzò anche una trasformazione nella realizzazione di residenze per la classe media e medio-alta con l’avvio di un processo di suburbanizzazione attraverso la realizzazione di residence privati (“urbanizaciones cerradas”).

Nel complesso l’esito di queste trasformazioni fu la privatizzazione della città sia a seguito dell’azione dei ricchi ma anche di quella dei poveri. Per meglio comprendere questo processo possiamo ripercorrere quello che è successo nell’espansione metropolitana.

La privatizzazione dell’espansione metropolitana

In questa analisi ci occuperemo della trasformazione del suolo e della realizzazione delle infrastrutture urbane nelle aree della periferia, senza fare riferimento a quanto è avvenuto nella città centrale.

3.1 La privatizzazione del suolo

Differenzieremo due situazioni: il suolo per le case delle famiglie a basso reddito e quello per le residenze dell’elite.

Il suolo dei poveri.

Nel corso degli anni Quaranta la popolazione con basso reddito si sistemava nei “lotti popolari” e nelle “città d’emergenza” o “ città della miseria” (villas miseria).

Queste ultime erano realizzate con l’occupazione illegale del suolo e con la costruzione di abitazioni precarie senza nessun tipo di urbanizzazione. Si formarono per la prima volta negli anni Trenta ed erano abitate dagli immigranti disoccupati (de la Torre, 1983), già nel 1956 vi abitavano 112.350 persone che rappresentevano l’1,9% della popolazione metropolitana (Yujnovsky, 1984). I “lotti popolari” permisero alla popolazione povera di accedere legalmente [xi] al suolo edificabile nella periferia messo a disposizione da promotori privati. Un suolo generalmente senza infrastrutture, spesso a rischio di inondazione, ma che si poteva pagare con quote mensili e che veniva occupato lentamente attraverso l’autocostruzione (Clichevsky, 1990:5; Prévot y Schneier, 1990:131).

Tutto questo fu possibile per la mancanza di regole e grazie ad un contesto sociale e del mercato del lavoro basato sulla redistribuzione economica.

Con il governo militare del 1976, queste condizioni mutarono. Da lì cominciarono i provvedimenti che diminuirono progressivamente la capacità del pubblico di orientare la costruzione della città. [xii]

Nel 1976 venne sospesa la suddivisione dei lotti e nel 1977 si promulgarono le regole per l’uso, la lottizzazione e l’urbanizzazione del suolo. Furono rese obbligatorie una dimensione minima dei lotti, una dotazione di base delle urbanizzazioni (Decreto legge 8912). L’effetto più importante fu la riduzione dei lotti e, pertanto, un forte incremento del costo del suolo (Clichevsky, 1999).

Queste norme si aggiunsero all’impatto delle politiche economiche che portarono ad un incremento della disoccupazione e ad una riduzione dei salari. La conseguenza fu la crisi e la scomparsa del submercato legale dei lotti popolari. La città cessò di offrisre suolo legale ai poveri e questi furono lasciati soli a risolverel le loro necessità e i loro bisogni. Negli anni Ottanta iniziò l’occupazione illegale del suolo pubblico e privato e la formazione degli “asentamientos” [xiii] (Izaguirre y Aristazabal, 1988; Merklen, 1991 y 2000). La popolazione esclusa dall’accesso alla terra si organizzò per occupare (illegalmente) la terra e lottizzarla in base ad una pianificazione preliminare che definiva le aree private e pubbliche. L’azione statale venne sostituita da una pianificazione popolare orientata al soddisfacimento diretto delle necessità e dei bisogni di chi si organizza, pianifica e costruisce.

Tutto questo incrementò il degrado delle zone popolari sia in termini formali (localizzazione illegale della terra, edifici privati e pubblici, lotti clandestini, …), sia in termini ambientali (aree soggette a inondazione e contaminate, senza infrastrutture e servizi, pessima accessibilità e senza alcuna connessione con le aree centrali, ecc…).

Nel decennio degli anni Ottanta si avviarono alcune politiche orientate fondamentalmente alla regolarizzazione del possesso (Clichevsky, 1999) che diedero delle risposte molto limitate e che non si fecero carico delle condizioni economiche della popolazione che vedeva aumentare i costi a suo carico: costo del suolo, imposte e tasse municipali, costo dei servizi urbani privatizzati.

L’assenza di procedure legali per risolvere il bisogno di suolo favorì il consolidamento di un mondo illegale che promosse l’espansione metropolitana attraverso la ricerca di terre da occupare o a prezzi accessibili alle basse disponibilità pubbliche. Alla fine degli anni Novanta oltre un milione di persone vivevano in condizioni di irregolarità e di precarietà ambientale [xiv] mentre continuava l’invasione di nuovi migranti (Clichevsky, 1999).

La residenza dei ricchi

Negli anni Novanta si è avviato un processo di sub-urbanizzazione della classe medio alta e media, che in un contesto di forte disoccupazione, povertà ed esclusione sociale, si è concretizzata in quelle che sono chiamate le “urbanizaciones cerradas” (urbanizzazione chiuse). In questo testo le analizziamo in quanto parte di una pianificazione privata nella produzione del suolo metropolitano associata con:

Cambiamenti nelle condizioni della domanda.

A seguito delle modifiche economiche e del mercato del lavoro è cresciuta e si è rafforzata una classe medio alta con una forte capacità di consumo [xv]. Un gruppo sociale inserito a più stretto contatto con le attività legate al mercato internazionale (finanza, servizio all’impresa, ecc…) che ha sviluppato uno stile di vita in cui l’ostentazione del consumo si è tradotta in un elemento di identità. Due beni erano essenziali: l’automobile e la residenza. Allo stesso tempo la produzione pubblica della città, ulteriormente ridotta, si è allontanata sempre più dal soddisfare i bisogni.

Cambiamenti nella produzione della città.

Con la fine dei lotti popolari restavano delle riserve di suolo che in un primo momento furono destinati a “countries club”, ai cimiteri giardino (Prévot y Schneier, 1990:124) e a luoghi per la produzione di quartieri chiusi . Tutto questo in assenza di norme di carattere metropolitano e con i municipi che avevano delle limitazioni nell’applicare le poche norme esistenti come quelle della legge 8912 prima richiamata. Cambiano gli attori che producono il suolo, si professionalizzano e si concentrano, intervengono capitali e tecnologie straniere (Mignaqui y Szajnberg, 2003). Si sviluppa una grande campagna di marketing [xvi] che rafforza il prestigio della residenza suburbana chiusa come parte di uno stile accessibile solo a chi possiede un reddito alto. Le trasformazioni della rete viaria di accesso alla città di Buenos Aires, privatizzata agli inizi degli anni novanta, consentirono di collegare rapidamente il centro della città con la periferia più lontana, con il conseguente incremento dell’uso dell’automobile [xvii]. Il risultato sono stati dei quartieri chiusi e sottoposti a vigilanza che introducono una discontinuità nel tessuto urbano, frammentano lo spazio metropolitano, con confini che non possono essere attraversati salvo da chi è autorizzato (i proprietari e i suoi invitati). Questo territorio chiuso offre infrastrutture, servizi urbani (rete di elettricità, gas, telefono, internet, marciapiedi, illuminazione, manutenzione, aree verdi, vigilanza), aree commerciali e ricreative, uffici, scuole, centri di assistenza medica e per attività culturali. Si produce un frammento di città privata di alta qualità con un carattere esclusivo. Alla fine del secolo c’erano tra 300.000 e 500.000 persone che risiedevano in circa 400 interventi di questo tipo, più di 130 solo nel municipio di Pilar, dove ormai il 30% della superficie è ad accesso ristretto (Janoschka, 2003). Sono urbanizzazioni estese tra i 400 e i 1600 ettari che includono molti quartieri, con oltre 2.000 alloggi e con una popolazione potenziale, in quella più grande, di circa 200 mila persone (Janoschka, 2002 y Vidal-Koppmann, 2004) [xviii]. A guardare bene le modalità di produzione di questo territorio si percepisce un processo privato di pianificazione che introduce una razionalità forte all’interno dell’intervento, ma dimentica il resto della città nella quale si inserisce. Bisogna ricordare che manca una pianificazione territoriale di livello metropolitano che riconosca l’unità metropolitana come area unitaria. Si può supporre che la legge provinciale 8912 contenga questo carattere, ma si tratta in verità di una norma astratta fatta per la totalità dei Municipi della provincia per di più, nel corso di quest’anno, la si sta riformando per favorire ulteriormente questi processi (Mignaqui y Szajnberg, 2003). Di conseguenza, i municipi tendono a sciogliere i problemi in relazione ai loro interessi particolari, economici e politici. I municipi metropolitani periferici (come Pilar e Tigre), con una bassa occupazione del suolo, valutano come vantaggiose le proposte degli investitori privati e agevolano la realizzazione di questi progetti. Il risultato è l’allontanamento del ruolo del soggetto pubblico a favore del soggetto privato nella decisione della produzione immobiliare (Janoschka, 2004; Núñez et. al, 1998). Come dice uno di questi “… oggi il capitale privato ti permette di determinare regole e norme” (citato da Jacky e Triegerman, 2000).

Così l’urbanizzazione è il risultato di una pianificazione privata che si sostituisce alla inesistente o molto debole pianificazione pubblica. La città si produce attraverso una razionalizzazione tutta dentro alle regole di mercato e alle azioni dell’individuo. Questo implica una forte pianificazione interna alle singole componenti di ciascun intervento e del sistema di controllo per la sua realizzazione, allo scopo di aumentare la qualità del prodotto e la redditività.

Questa operazione si limita ai territori privati e quindi “… si tratta di pianficare accuratamente una città da zero” (Clarín 30/10/99). Come fa notare il titolare dell’impresa che sta realizzando Nordelta [xix], “la città si disegna tenendo in conto l’equilibrio tra spazio verde, acqua e aree urbane; il paesaggio, la forma delle strade, la localizzazione dei quartieri, delle scuole, delle università, dei club e delle zone commerciali…. Si da a tutto un’armonia estetica e urbanistica, con diverse densità di popolazione e una adeguata distribuzione del traffico”. In questo modo, continua il giornalista che lo intervista, si evitano i problemi della città e quindi le cause di uno sviluppo disordinato, l’aumento della popolazione a livelli impensati che produce inconvenienti come la congestione del traffico (Clarín 30/10/99).

Questo processo mostra un orientamento culturale che produce due discontinuità rispetto alla città tradizionale: a) la produzione di una parte della città è “la città”. Una parte si presenta come il tutto, nascondendo che è solo dentro una città reale che queste parti possono trovare le condizioni (lavoro, infrastrutture, servizi generali) per la loro esistenza, anche se in modo “autonomo”; b) il disordine urbano prodotto dalla produzione pubblica della città, si riduce solo per la vita dei gruppi a più alto reddito. Spariscono ad esempio gli abusi della popolazione di basso reddito per trovare una sistemazione.

Di conseguenza il resto della città, la città reale che sostiene queste forme di urbanizzazione chiusa, può essere ridotta ad una specie di limbo.

Siamo all’inizio di una pianificazione che nega la pianificazione urbana pubblica, che disconosce la possibilità di introdurre una razionalità globale, differente da quella del mercato. La città è pensata sempre più come risultato della somma di operazioni private e degli interstizi tra queste. Le operazioni private che si realizzano in un ambiente “caotico” pieno di contraddizioni e di “svantaggi”. Un ambiente che non si percepisce come luogo di un azione di miglioramento.

Se procediamo un po’ oltre possiamo descrivere le componenti essenziali di questa pianificazione:

un sistema di norme che scaturisce da un documento privato (contratto di compra-vendita) e che si impone come clausola di adesione. Una rigorosa norma urbana: di zonizzazione, uso del suolo e norme di edificazione. Luoghi per la residenza e per le attività. I primi differenziati a seconda delle possibilità economiche hanno differenti dotazioni di terra e, quindi, di prezzo [xx]; i secondi invece differiscono per tipo di attività e di uso. Norme di comportamento sociale, ai quali devono aderire chi accetta di stare in queste urbanizzazioni. Regolamento etico e di convivenza che funziona come una sorta di diritto di ammissione (o di esclusione). Le conseguenze dell’uso di uno strumento di mercato che produce però configuraioni sociali e che tende a consolidare l’identità del progetto.

Ampia offerta di infrastrutture e servizi di alta qualità rapportati alla popolazione che soddisfano tutto il necessario senza bisogno di uscire fuori dal confine, tranne che per andare a lavorare.

Subordinare alla rendita la crescita della città, tanto per l’espansione metropolitana con l’uso sconsiderato del suolo, come anche per l’urbanizzazione arbitraria del suolo occupato a seguito della lottizzazione delle aree senza alcun controllo pubblico né uno studio sugli impatti che si realizzano sulla città esistente.

Incremento della tassazione a carico dei residenti per poter sostenere la realizzazione e la manutenzione delle infrastrutture e dei servizi. Una sorta di imposta privata che funziona anche come strumento per differenziare economicamente il territorio, in prima istanza con il fuori e dopo per realizzare delle differenze anche all’interno.

Le sanzioni per il mancato rispetto delle norme con multe decise dall’amministrazione privata che gestisce l’insediamento.

Un sistema decisionale che suddivide la popolazione e ne configura (amministrativamente) un ruolo marginale mentre favorisce il ruolo del proprietario dell’investimento (governo privato-di impresa).

Insomma si riproduce nella produzione della città la logica del mercato globale: concorrenza disordinata a fronte di una forte razionalità (pianificazione) in ogni singola unità individuale, orientata a raggiungere le migliori condizioni di commercializzazione e la qualità solo per alcuni.

3.2 La privatizzazione delle infrastrutture della città

Fin dagli anni Quaranta i servizi urbani dell’Area metropolitana di Buenos Aires sono a carico di imprese pubbliche del Governo Federale (Pírez, 1999a). Dalla fine degli anni Ottanta, il degrado di queste imprese era tale (in gran parte dovuto alla cattiva gestione del periodo della dittatura) che mostrava una basso livello di servizio, problemi finanziari e impossibilità ad investire, cattiva qualità e, in alcuni casi, corruzione nelle relazioni con i sindacati. Ricordiamo che questa gestione, permissiva con il consumo clandestino della popolazione a basso reddito, evitò in molti casi l’esclusione di questa popolazione dall’accesso ai servizi.

La crisi delle imprese in associazione con il deficit dei conti statali e con l’inflazione furono le cause per l’avvio della privatizzazione. Una privatizzazione realizzata velocemente all’inizio degli anni Novanta, trasferendo [xxi] alle imprese private la gestione del servizio delle infrastrutture (telefono, elettricità e gas naturale, acqua e fogne), i trasporti ferroviari di superficie e la metropolitana (gli autobus già lo erano) e la infrastruttura viaria di accesso alla città. La privatizzazione modificò gli attori e le relazioni, lo Stato si escluse come soggetto redistributore, ridotto ad assicurare il compimento delle relazioni di mercato e delle sue conseguenze inique. Il cittadino diventò un cliente di fronte all’azienda. I diritti del consumatore si ridussero: solo il cliente ha il diritto di usare il prodotto in base al prezzo che paga.

Le conseguenze. I servizi finirono si essere pubblici e di essere considerati dei diritti per diventare delle attività economiche regolate solo sulla base di principi concorrenziali. Si sono trasformati in una relazione commerciale di tipo privato. E’ migliorata la qualità, l’efficienza, ma con l’incremento delle tariffe si è esclusa dall’accesso ai servizi la popolazione di reddito più basso [xxii]. Le imprese di servizi, nella maggior parte di origine internazionale, sono diventati degli attori con un forte peso economico e politico. La carenza di un quadro di regole e di sistemi di controllo ha contribuito a tutto questo. In alcuni casi si sono anche sommate le pressioni dei paesi di origine delle imprese.

I principali effetti di questo processo. L’accentuazione del processo di concentrazione e di esclusione economica e sociale.

Le norme hanno prodotto condizioni di rischio basso o nullo per le imprese e gli hanno consentito di realizzare tassi di redditività esorbitanti (Aspiazu y Schorr, 2003:21). L’indicizzazione basata sull’inflazione degli Stati Uniti, proibita dalla legge di convertibilità, la dollarizzazione e le successive rinegoziazioni hanno reso possibile l’aumento delle tariffe molto al di sopra dell’inflazione [xxiii]. In alcuni servizi, come il gas e l’elettricità, le tariffe residenziali per i singoli proprietari sono uamentate molto di più di quelle dei grandi consumatori industriali (Aspiazu y Schorr, 2003:19). L’incremento delle tariffe, la cancellazione del sussidio, e l’aumento dei controlli sempre più restrittivi rispetto alla gestione statale, sono le concause che hanno messo la popolazione di basso reddito sempre più in difficoltà nell’accesso a questi servizi (Pírez, 2000). Questa condizione non ha riguardato solo gli utenti privati ma ha alterato le condizioni per lo sviluppo delle attività produttive “condizionando negativamente la competitività di numerose imprese –in particolare le piccole e medie imprese impegnate nella elaborazione di beni commerciabili- e la distribuzione del reddito” (Aspiazu y Schorr, 2003:38).

Per le aziende tutto questo si è tradotto in guadagni spropositati [xxiv].

Aspetti importanti della pianificazione urbana diventarono di competenze delle aziende. Si trasferì alle imprese la capacità di definire la politica e soprattutto la pianificazione dei servizi, assumendo un ruolo chiave nella configurazione urbana (Pírez, Gitelman y Bonnafé, 1999). Ogni impresa prende decisioni sulla base delle necessità di mercato: quale territorio occupare, quale processo sviluppare e in che ordine farlo. Si servono popolazione e territorio e si realizzano le operazioni che possono dare una più alta e veloce redditività (per esempio si realizza l’espansione della rete dell’acqua ma non delle fogne o il trattamento dell’acqua sporca). Lo Stato non assolve più il ruolo di pianificatore. La possibilità di ampliare il servizio è data solo dal mercato, dalla relazione tra le imprese concessionarie e l’utente, tutto questo presuppone un potere di decisione tutto privato. La conseguenza è che dipendono da queste decisioni delle imprese tanto il mercato del suolo come la qualità della vita urbana.

La privatizzazione della relazione con l’utente.

Questo processo è evidente nel rapporto negoziale che si stabilisce tra le imprese e l’utente clandestino. Un rapporto che si sviluppa senza alcun intervento da parte dell’autorità di governo e in modo discrezionale potendo convenire soluzioni differenti per situazioni che sono simili (Martínez, Navarro y Pírez, 1998). L’intervento del governo si ha solamente quando emerge un conflitto politico (Pírez, 2002). Questo è il nuovo ruolo dello Stato regolatore: esercitare il potere di polizia sull’impresa aggiudicataria del servizio, realizzando uno scenario in cui il cittadino è diventato cliente ed è sottomesso al potere dell’impresa in una relazione di tipo asimmetrico.

Asimmetria che risulta molto chiara osservando la politica della distribuzione dell’elettricità nella popolazione a basso reddito che non riesce a fare fronte ai costi. Le imprese preferiscono non tagliare il servizio a causa dei costi e poi perchè si suppone che il servizio sarebbe comunque sostituito da una connessione clandestina. Di conseguenza negoziano con l’utente, individuale o collettivo, differenti forme di pagamento, senza l’intervento di nessuna autorità statale. Così le aziende coprono nell’immediato parte del fatturato ma indebitano l’utente che mese dopo mese incrementa il proprio debito, senza che si sappia né come né quando potrà farsi carico di questo debito [xxv].

Qualche conclusione

Il processo di costruzione della periferia metropolitana di Buenos Aires si è modificato a causa delle politiche collegate alla ristrutturazione economica, e a seguito dell’incremento della privatizzazione nel doppio senso che abbiamo sopra richiamato.

Da un lato, come condizione generale, si è ampliata la disuguaglianza economica con un forte aumento della concentrazione del reddito e l’incremento della povertà.

In modo più specifico è aumentata la partecipazione del capitale privato. Questo ampliamento è stato prodotto dalla partecipazione di grandi attori economici con relazioni internazionali (capitale, management, tecnologia, finanziamento) che organizza operazioni ad alta redditività. La produzione urbana (suolo, edifici e servizi) tende ad organizzarsi in modo da favorire il processo economico di ciascuna operazione, contribuendo al processo di concentrazione economica sopra richiamato. La sistemazione della città si è liberata dallo sforzo di ogni famiglia o dei gruppi sociali. Non ci sono più spazi per i poveri. La periferia metropolitana si è segmentata ed è sempre più segregata. Aumentano le differenze tra i diversi ambienti costruiti e si approfondiscono le distanze sociali.

Lo spazio dell’espansione metropolitana risulta segnato dalla presenza dominate di due logiche “non statali”: quella dei settori sociali esclusi dal mercato formale e che si orientano alla soddisfazione diretta dei bisogni; e la produzione privata capitalista per i gruppi di reddito più alto. La conseguenza è una chiara differenziazione in particolare con il resto della periferia. Il territorio prodotto con la logica della necessità, nonostante gli intenti di una organizzazione formale e di una urbanizzazione regolare (lotti, strade, zone per uso pubblico, ecc…) ha una bassa qualità, e si inserisce spesso in contesti residuali dove è anche difficile portare le infrastrutture e i servizi necessari per il suo funzionamento.

Gli ambiti più propri della produzione capitalista, le “urbanizzazioni chiuse” sembrano riprodurre quello che Fishman (1987) chiamò “bourgeois utopias”: alta qualità dell’habitat, segregazione basata sull’identità sociale per proteggere la famiglia separandola dai pericoli della vita urbana e dagli altri, particolarmente dai poveri, e vivendo a contatto con la natura. Della città resta la percezione di una condizione che consente a queste urbanizzazioni di funzionare. Il suo funzionamento si concretizza nelle connessioni per l’accesso ai luoghi del lavoro e di consumo qualificato, connesisoni garantite dalle aziende privatizzate (strade di accesso, ferrovie in particolare). Per il resto la città sembra non esistere. Questa qualificazione implicita di una terra di nessuno è, paradossalmente, coerente con l’occupazione (illegale) del suolo per le famiglie di basso reddito che si costruiscono lì la loro sistemazione di infima qualità.

In entrambe le situazioni il resto della città sembra essere lasciato libero alle conseguenze di uno o dell’altro degli attori sociali ed economici che lo occupano (riproducendo le relazioni del mercato). Le aziende che forniscono i servizi operano e consolidano così la loro capacità di decidere la configurazione metropolitana, rafforzando il loro orientamento privato alla ricerca di sempre maggiori redditività. I settori popolari, tentando di vincere queste ostilità e per superare il loro isolamento, si comportano seguendo la stessa logica della necessità realizzando i servizi in quello che è il “resto” della città. [xxvi]

Tutto questo produce un effetto che è paradossale. Il risultato è un’espansione metropolitana che tende a localizzare in prossimità l’uno con l’altro gli insediamenti precari e quelli chiusi delle classi più agiate. La periferia metropolitana sembra conformarsi come un insieme di insediamenti decentralizzati omogenei al loro interno ed eterogenei all’esterno. Questo presuppone un duplice movimento: perdita dell’eterogeneità della città tradizionale che rendeva possibile il contatto tra gruppi differenti (come conseguenza della segregazione e della chiusura), e l’emergenza di una nuova eterogeneità (forti differenze da un punto di vista sociale ed economico) in una sorta di articolazione per frammenti, quello che possiamo chiamare “microframmentazione” (Pírez, 2004b:123). I due estremi della piramide sociale che occupano la periferia si collocano molto vicini nello spazio. Questo consente che si stabiliscano delle relazioni tra queste: servizi senza qualità, trattamento dei residui solidi e altro, come, perché no, i delitti. Non è l’eterogeneità dell’integrazione, è il contrario, l’eterogeneità dell’esclusione.

Un’ultima riflessione. La capacità di consumo della popolazione dipende dal mercato del lavoro e dalla relazione della distribuzione economica, sono elementi fondamentali per definire il senso dell’inclusione o dell’esclusione del prodotto urbano. L’esclusione presuppone una società che non dà garanzia a nessuno dei suoi membri un equilibrio tra reddito e costo della sua riproduzione. Da qui, ad esempio, l’incremento delle tariffe del servizio privatizzato non ha lo stesso effetto su una città dove tutti hanno un mercato del lavoro che gli assicura un reddito sufficiente, rispetto ad una città (come è il caso di Buenso Aires) dove invece la maggior parte della popolazione non ha queste condizioni. E’ anche per questo che l’obbligo di migliorare la qualità del suolo imposta nel 1977, quando non c’erano le condizioni per affrontare la maggiorazione dei costi, ha avuto come risultato, paradossale, di eliminare il mercato formale del suolo per la popolazione più povera.

Insomma le trasformazioni che hanno interessato la società argentina nell’Area Metropolitana di Buenos Aires, dalla metà degli anni Settanta, hanno incrementato il ruolo del privato, sia nella produzione sia nel prodotto, dando luogo ad una città diseguale, accentratrice e segregata.

Nota: in allegato un file PDF scaricabile con la traduzione completa di note e Bibliografia (g.c.)

Titolo originale: Density is hot, freeways are not, in the new Los Angeles Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Ho ripescato la mia copia del classico Los Angeles: The Architecture of Four Ecologies di Reyner Banham, 1971, l’altro giorno, con l’intenzione di verificare se Banham – straordinario storico dell’architettura, anche se talvolta discutibile – era così ardentemente filo-autostrada come lo ricordavo. Lo era. Banham, morto nel 1988, era una delle personalità più autorevoli riguardo a Los Angeles, e aveva descritto il suo sistema di freeways come la cosa più vicina alla perfezione motoristica a cui la civiltà fosse mai arrivata. Imperturbabile di fronte alle lamentele sulle freeways, insisteva sul fatto che per i pendolari su lunghe distanze “l’autostrada non è un limbo di angst esistenziale, ma il luogo dove si trascorrono le due ore più calme e appaganti della vita quotidiana”.

L’appoggio di Banham al freeway lifestyle ora sembra un reperto storico, simile alla propaganda stradale per la Fiera Mondiale del 1939. Anche se due ore di guida al giorno potevano essere tranquille nel 1971 – cosa che trovo difficile da immaginare – non sono certamente calme e appaganti oggi, con la Los Angeles County stipata da più di tre milioni di abitanti. Dopo essere diventata famosa per le freeways, la California meridionale ha imparato che pianificare una regione esclusivamente attorno all’automobile è la ricetta per la frustrazione.

E così oggi i pedoni della seconda metropoli del paese stanno gradualmente iniziando a ricevere l’attenzione che meritano. L’amministrazione di West Hollywood si è ripresa un tratto di 4 chilometri del Santa Monica Boulevard dal Department of Transportation, e l’ha convertito in una via più orientata a pedoni e ciclisti, con ampi marciapiedi punteggiati da olmi. Pasadena, città di strade spaventosamente larghe, ha fatto grandi cose coi suoi vicoli del centro: costruendo passaggi adatti, talvolta con alberature, dove le persone possono passeggiare fra negozi, punti ristoro e intrattenimenti.

Il trasporto su rotaia – l’equivalente odierno dei tram rossi che attraversavano la regione negli anni ’20 – sta diventando sempre più un’alternativa all’auto privata. Come molte delle altre 1.200 persone che andavano al XIII Congresso del CNU di giugno a Pasadena, ho camminato dal Civic Center fino alla stazione Del Mar a sud di Colorado Boulevard, per salire su un comodo e tranquillo treno della Gold Line. Pochi minuti dopo, scendevo a Mission Street nella zona sud di Pasadena – un nodo commerciale del XIX secolo. Da un tavolino in un curioso locale chiamato Coffee by the Tracks, potevo vedere il Mission Meridian Village, un bell’insieme di lofts, appartamenti affacciati su un cortile, case di città e unifamiliari, con spazi per negozi in parte del pianterreno.

In futuro sta nella densità e nel mixed-use

Il futuro della California meridionale sta, almeno in parte, negli insediamenti densi come il Mission Meridian Village, da cui si possono raggiungere a piedi negozi, mezzi pubblici e altri servizi. La nuova Metro Rail ora ha quattro linee: Blu, Verde, Rossa e Oro, e continua ad espandersi. Anche se non è particolarmente veloce (mi ci è voluta un’ora e tre quarti per andare da Pasadena al Los Angeles International Airport, lungo tratti di tutte e quattro le linee più un bus navetta), il trasporto su rotaia rende possibile per una parte della popolazione spostarsi senza intasare le strade.

“Non esiste centro urbano della Los Angeles County che non stia attraversando qualche processo di rigenerazione” ha raccontato al Congresso Stefanos Polyzoides. Polyzoides vede nel 1990 l’inizio di un “momento di speranza”, un periodo in cui “si possono vedere le forze del cambiamento dappertutto”.

La grande popolazione latino-americana di LA potrebbe giocare un ruolo importante, secondo alcuni leaders locali come James Rojas, tra i fondatori del Latino Urban Forum. I latini vengono da una cultura che tende a usare gli spazi pubblici, dunque esiste il potenziale per quello che Rojas chiama Latino New Urbanism, ovvero strade animate, spazi sul fronte degli edifici, e altri spazi pubblici o semi-pubblici. Quasi a confermare il punto di vista di Rojas, il nuovo sindaco di Los Angeles, Antonio Villaraigosa, ha dichiarato al Congresso che intende nominare nuovo responsabile per l’urbanistica qualcuno che “possa capire e sostenere i tipi di idee di cui parla il New Urbanism”.

Sono tempi di speranze per LA. La regione si sta liberando della propria fissazione per le freeways, alla fine.

Nota: questo e altri articoli al sito di New Urban News (f.b.)

Titolo originale: Los deseos imaginarios del comprador de Torre Country - Traduzione per Eddyburg di Giovanni Caudo

Ho fotografato i cartelloni pubblicitari di un edificio per abitazioni, a torre, attualmente in costruzione nel corridoio nord di Buenos Aires.

L’ideologia e il desiderio che questi annunci trasmettono sono condizionati dalla strategia pubblicitaria, ma in ogni caso rivelano il contenuto edonistico che l’acquirente di questo prodotto pone a base della sua scelta e, conseguentemente, della decisione di trascorrere buona parte della sua vita da adulto in quel tipo di residenza. I lettori del Café de la ciudades sono persone colte e non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni sugli stereotipi etnici e classiste utilizzate dalla pubblicità, o anche sull’uso delle parole inglesi per indicare concetti che il castigliano potrebbe definire con altrettanta o maggiore precisione, ecc… Il nostro obiettivo non è l’analisi della strategia pubblicitaria, ma descrivere attraverso la strategia di promozione pubblicitaria, il tipo di benessere che si cerca di comprare attraverso questo tipo di prodotti immobiliari.

L’edificio di cui parliamo appartiene a quel genere di edifici che chiamiamo “torres country”: un oggetto isolato al suo intorno, collocato nel tessuto urbano, ma chiuso da recinti e da muri, sviluppato in altezza per conquistare la vista sul rio e sul parco, con una bassa percentuale di superficie coperta rispetto al lotto (il regolamento urbano vigente a Buenos Aires premia una bassa occupazione del suolo) così da realizzare un parco interno che assieme alla dotazione dei servizi comuni, realizzano una alternativa “urbana” al modello del country club o al quartiere chiuso (sicurezza, confort, contatto con la natura, esclusività).

[ “anosa arboleda”]

In questo caso non si fa riferimento al fiume (per onestà intellettuale, la torre è contornata da edifici alti che intercettano la vista della costa), però si fa cenno all’ “ anosa arboleda” [le antiche alberature]. Dati evidenti, come la densa e compatta urbanizzazione circostante, non formano parte della promozione, così come non si parla di vicinanza di stazioni ferroviaria o di quelle della metropolitana.

Per i familiari

Gli acquirenti, una famiglia composita, con qualche tocco di modernità, Famiglia che è solita ricevere i genitori, che ad esempio vivono fuori Buenos Aires (magari degli agricoltori facoltosi, o che gli hanno prestato il denaro per fare l’acquisto…).

La bionda del solarium

Non si capisce bene come si potrà mantenere unita la famiglia, descritta prima, con queste minacce in vista: il giovane muscoloso, la vicina single che passa il tempo in piscina con un minuscolo bikini (a meno che non si tratti di una signora moderna, anche sposata e con figli che però si mantiene sexy e piacevole grazie alla ginnastica e alla chirurgia). Daniel Bell spiegherebbe con facilità questa contraddizione del desiderio.

Si alla natura, no alla città

Distensione, rilassatezza, trasparenza, isolamento, apertura. Sono i valori della Torre Country.

Comportamenti saggi

O, ancora meglio, come contenere la ribellione e l’esplosione ormonale del ragazzo allontanandolo dai pericoli della strada (di passaggio, l’idea che la musica è cosa per adolescenti…).

Per servire e proteggere

Nella realtà, il custode non avrà il glamour di questo poliziotto che sembra Clarke Gable, però non sarebbe commerciale esporre la foto di un ufficiale in pensione della polizia federale o della Bonaerense. Al suo posto il ghigno di un agente cool, di baffi fini e con un atteggiamento di rimprovero.

Non avrà nessuno uguale, non avrà nessuno

La torre country si isola nello spazio del suo intorno urbano, in questo caso anche si isola nel tempo. La frase, riportata contro uno sfondo da cielo pubblicitario, dispiega l’edificio nel passato e nel futuro. Un presente perpetuo, una eternità asettica, una discreta assenza che vuole negare la città.

Nota: qui il sito del Cafè de las Ciudades (f.b.)

Jeremy Rifkin ha intitolato la sua ultima fatica editoriale “Il sogno europeo” [1]. Si tratta di una riflessione rivolta ad un pubblico ampio (che fa seguito ad altre due opere di grande successo “L’era dell’accesso” ed “Economia dell’idrogeno) con la quale l’economista americano si propone di evidenziare i tratti significativi dell’inesorabile declino del “sogno americano”, strettamente associato all’individualismo e al benessere materiale; e i vantaggi competitivi di quello che egli considera il sogno emergente contemporaneo, quello europeo.. Del modello culturale e sociale europeo Rifkin sottolinea gli elementi vincenti: fra gli altri, l’aspirazione all’integrazione sociale e alla pacifica convivenza con il resto del mondo, la più elevata qualità della vita (ad esempio in termini di tempo libero e di aspettativa di vita, minore violenza e criminalità) e dei servizi (soprattutto in campo sanitario e sociale), l’impegno in tema di sostenibilità urbana ed ambientale. Il confronto viene corroborato da una talvolta ridondante elencazione di dati quantitativi comparativi, chiaramente dedicati a convincere il lettore americano.

Ma nel contesto statunitense l’Europa sta facendo scuola anche su temi più puntuali ed operativi: ad esempio nel campo delle politiche urbane e, in particolare, delle strategie di pianificazione e progettazione urbana; più recentemente anche le politiche spaziali del governo europeo sono diventate oggetto di attenta considerazione.

Sul primo tema è già maturata una significativa convergenza (come già in questa rubrica abbiamo sottolineato). Accomunati dalla parola d’ordine dello Smart Growth, in alcune città e aree metropolitane si stanno perseguendo obiettivi, praticando strategie e sperimentando azioni e progetti del tutto simili a quelli introdotti nelle città europee in epoca di sostenibilità: definizione di limiti di crescita urbana (urban growth boundary); priorità alla ricostruzione della città su sè stessa (infilling e brownfield regeneration); densificazione insediativa in corrispondenza dei nodi e corridoi del trasporto pubblico (transit oriented development); limitata espansione, delle infrastrutture stradali e autostradali; “città di brevi percorsi” (pedestrian pocket); realizzazione di un’offerta commerciale meno orientata all’automobile.

Naturalmente, nel contesto americano la sfida si presenta ancora più ardua e i problemi da governare ancora più complessi: il modello insediativo “spontaneo” e per sua natura “insostenibile” che si vorrebbe governare è quello della estesissima suburbanizzazione a bassissima densità, divoratrice di risorse territoriali e associata all’incessante incremento della mobilità su gomma. A differenza del contesto europeo, dove ha cominciato a manifestarsi da pochi decenni, si tratta di un modello all’opera da più di un secolo in un paese in cui una componente fondamentale del “sogno americano” è stata l’accesso alla casa individuale in proprietà dispersa nel verde.

Il sogno suburbano americano è in realtà stato in buona misura “imposto” dall’alto: dal governo federale che, a partire dalla metà degli anni ’30 dello scorso secolo, per superare la grande crisi economica cominciò a finanziare l’accesso al credito per la realizzazione di case monofamiliari applicando il criterio del red lining: vietando cioè il sussidio nelle aree dense (e quindi urbane) e in sobborghi etnicamente misti (forzando di conseguenza i ceti medi a stanziarsi nel suburbio monoclasse).Negli anni ’50, sotto la presidenza di Eisenhower fu presa un’altra decisione strategica destinata ad influenzare profondamente la dispersione insediativa: quella di finanziare (e rendere gratuito) il sistema autostradale anziché il trasporto pubblico urbano di massa. Alla base di tali scelte vi fu (e continua ad esservi) un formidabile intreccio di interessi con le lobby del petrolio, del settore delle costruzioni, dell’automobile [2].

Ma la riflessione autocritica sul modello insediativo americano e l’apprezzamento dei vantaggi competitivi offerti dal modello della città europea stanno estendendosi anche a temi più ambiziosi e di scala territoriale complessiva.

Ne costituisce un interessante esempio la proposta avanzata nel 2004 da tre istituzioni culturali prestigiose [3]nel documento dal titolo “Toward an American Spatial Development Perspective”: un titolo dichiaratamente ripreso dallo “Schema di sviluppo dello spazio europeo”, il documento in materia di strategie territoriali ed infrastrutturali di lungo periodo scaturito dalla cooperazione e dall’accordo informali di tutti i paesi membri dell’Unione Europea.

La parte più interessante di questo documento, e che più dovrebbe far riflettere noi europei, è quella dedicata alle prospezioni di lungo periodo: la proiezione al 2025 di alcune variabili significative per l’impatto che eserciteranno sugli assetti territoriali futuri prefigura uno scenario inquietante e chiaramente insostenibile di consumo esasperato di risorse scarse o finite.Al 2025 la popolazione americana dovrebbe aumentare del 40%, determinando una ulteriore dilatazione formidabile dei territori del suburbio: la tendenza alla riduzione dei nuclei familiari comporterà infatti un aumento ancora più elevato della domanda di abitazioni e più lunghe distanze pendolari quotidiane. I consumi di suolo per urbanizzazione sono destinati a crescere in maniera esponenziale: se in tre secoli l’America urbana ha consumato 46 milioni di acri di territorio naturale, si calcola che alla soglia temporale individuata questo valore dovrebbe più che raddoppiarsi (112 milioni di acri), intaccando imponenti risorse ambientali. L’altra problematica cruciale strettamente connessa al modello di dispersione insediativa sarà quella della congestione trasportistica, se si considera che già nel 1999 le 68 maggiori aree metropolitane americane presentavano elevatissimi sintomi di congestione (in termini di tempo medio di viaggio, ore di lavoro perdute, consumi di carburante, caduta di efficienza del sistema autostradale e del trasporto aereo).

La strategia proposta dal documento è dichiaratamente di “imitare l’Europa”, prendendo esempio dalle relazioni policentriche in rete all’opera fra le grandi città europee: una rete che funziona in maniera efficiente grazie anche ai cospicui investimenti destinati dal governo europeo e dai singoli governi nazionali al potenziamento dell’accessibilità sulle lunghe distanze e, in particolare, dell’alta velocità ferroviaria.

La American Spatial Development Perspective individua le principali “città globali” americane: si tratta di metropoli che ospitano importanti hub aeroportuali, spesso localizzati a poche miglia dalle stazioni di un sistema ferroviario ormai ampiamente sottoutilizzato. La proposta, indirizzata in primis al governo federale, è di trasformare tali stazioni nei nodi di una rete ferroviaria ad alta velocità che potrebbe sostituirsi in maniera efficiente ai collegamenti aerei su tratte inferiori alle 500 miglia (così come sta avvenendo in Europa), realizzando altresì un modello di mobilità più sostenibile e facendo recuperare efficienza al trasporto aereo su lunga distanza.

La strategia individuata milita a favore non soltanto di una più ampia ed articolata integrazione territoriale nazionale affidata ad un sistema di trasporto integrato e multimodale (aereo/ferro/gomma), ma anche alla realizzazione di accordi di cooperazione innovativi fra le grandi città che costituiscono i poli di inquadramento economico e direzionale delle 6 macroregioni statunitensi (Northeast, Mid-Atlantic, South, Midwest, Southwest, West). Si immagina la costituzione di 6 Supercity (una rivisitazione del gotmanniano concetto di megalopoli ibridato con le riflessioni della Sassen sulle global cities) attraverso la cooperazione a rete dal basso dei principali poli urbani, e la realizzazione di strategie e progetti condivisi supportati dai finanziamenti del governo federale. Il valore aggiunto consisterebbe non soltanto nell’avvio di un progetto ambizioso di intermodalità trasportistica “all’Europea”, ma anche in un miglioramento del posizionamento competitivo delle città americane nell’economia globale, in una più attenta salvaguardia delle risorse territoriali ed energetiche e in una maggiore equità. Infatti, riprendendo il discorso di Michael Porter sui vantaggi competitivi delle città, si sottolinea che le Supercittà potrebbero diventare l’occasione per estendere i vantaggi della città a una scala territoriale più ampia attraverso strategie, estese alle macroaree, di controllo dei costi delle abitazioni, di salvaguardia ambientale, di riduzione dei costi di trasporto e del consumo di energia.

Nella parte conclusiva del documento si avanzano suggerimenti sulle modalità possibili di attuazione della strategia, in termini di attori da coinvolgere, governance del processo decisionale, risorse finanziarie mobilitabili anche attraverso politiche di “mercato corretto” e di internalizzazione delle esternalità.

Il documento è manifestamente provocatorio, visionario e irealistico, ma al lettore europeo segnala la crescente attenzione attribuita, nella riflessione migliore in ambito di politiche di pianificazione urbana e territoriale sviluppata oltre oceano, alle idee e ai modelli insediativi proposti nel “Vecchio Continente”.

Sulle sue ricadute future nel dibattito nordamericano, nulla è possibile allo stato attuale ipotizzare. Alcuni segnali contradditori marcano oggi la scena per quanto riguarda le politiche trasportistiche: da un lato infatti l’attuale presidenza ha ridotto la quota di risorse finanziarie (peraltro già modeste) messe a disposizione del programma ISTEA dedicato a finanziare nelle grandi città la realizzazione di infrastrutture di trasporto pubblico su ferro [4]; dall’altro, per la prima volta alcuni governi statali sono attualmente in accesa competizione per ottenere finanziamenti federali per la realizzazione di progetti di linee ferroviarie ad alta velocità (ad esempio il Maryland, la Pennsylvania e il Nevada).

La sfida è dunque aperta, ma il sogno delle città europee influenza sempre più le riflessioni critiche e propositive di molti ricercatori, planner ed amministratori pubblici nordamericani.

[1] Rifkin J. (2004), Il sogno europeo. Come l’Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano, Mondadori, Milano.

[2] Molti ricercatori americani leggono nella suburbanizzazione un disegno politico ancora più perentorio e ideologicamente connotato: l’attuazione di un vero e proprio progetto di ingegneria sociale volto alla suburbanizzazione dei ceti medi bianchi e alla segregazione spaziale per gruppi etnici a garanzia della pace sociale e del conformismo La caduta dell’interazione e del senso di comunità, caratteristici invece del modello di città densa europea, la banalizzazione e l’omologazione sociale del suburbio sarebbero state le conseguenze inevitabili di questo disegno (si vedano ad esempio: Gutfreund O. D. (2004), 20th Century Sprawl. Highways and the Reshaping of the American Landscape, New York, Oxford University Press, Hayden D. (2003), Building Suburbia. Green Fields and Urban Growth: 1820-2000, New York, Pantheon Books).

[3] Si tratta del Lincoln Institute of Land Policy, una istituzione privata che conduce ricerche nel campo della pianificazione e della land economics and taxation, della Regional Planning Association, una associazione non profit che dal 1922 si occupa delle linee strategiche della pianificazione della regione metropolitana di New York e della Scuola di Architettura dell’Università di Pennsylvania.

[4] ISTEA (IntermodalSurface Transportation Efficiency Act) è un programma federale promosso dal 1991 che prevede nuove modalità per la allocazione di parte dei fondi erogati dal governo per le infrastrutture di trasporto. Mentre normalmente i fondi erano attribuiti esclusivamente agli State Highway Department, ISTEA prevede che, nel caso le municipalità di una agglomerazione metropolitana di più di 200.000 abitanti si associno nella elaborazione di una piano di scala vasta che integri direttive relative alla pianificazione degli usi del suolo e delle infrastrutture di trasporto, alcuni fondi federali possano essere attribuiti direttamente alla coalizione metropolitana che potrà destinarli alla realizzazione di infrastrutture alternative alle autostrade (metropolitane leggere e altre modalità di trasporto ecocompatibile).

Titolo originale: Sinister Paradise. Does the Road to the Future End at Dubai? – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Inizia il racconto: il jet comincia la sua discesa, e si resta incollati al finestrino. La scena sotto è incredibile: più di cinquanta chilometri quadrati di isole color del corallo, a forma di puzzle del mondo quasi terminato. Nelle verdi acque basse tra i continenti, sono chiaramente visibili le forme affondate delle Piramidi di Giza e del Colosseo.

Al largo ci sono tre grandi gruppi di isole a formare una palma entro una serie di mezzelune, popolate di alberghi sviluppati in altezza, parchi tematici, e mille case di lusso costruite su palafitte sopra l’acqua. Le “Palme” sono collegate tramite moli a una spiaggia tipo Miami stipata di mega-hotel, torri ad appartamenti e approdi per yacht.

Mentre l’aereo lentamente plana verso il deserto nell’entroterra, manca il fiato per l’ancora più improbabile veduta che si para davanti. Da una foresta cromata di grattacieli (quasi una dozzina alti più di 300 metri) spunta la nuova Torre di Babele. È impossibilmente alta un miglio e mezzo: l’equivalente di due Empire State Building messi uno sopra l’altro.

Vi state ancora stropicciando gli occhi dalla meraviglia e incredulità quando l’aereo atterra, e vi da il benvenuto un emporio-aeroporto, dove vi seducono centinaia di negozi pieni di borse Gucci, orologi Cartier, lingotti d’oro massiccio da un chilo. Prendete nota mentalmente di fare qualche acquisto d’oro duty-free sulla via del ritorno.

L’autista dell’albergo aspetta in una Rolls Royce Silver Seraph. Gli amici hanno raccomandato l’Armani Hotel nella torre da 160 piani, o l’albergo a sette stelle con un atrio così gigantesco da contenere la Statua della Libertà, ma voi invece avete optato per realizzare una fantasia infantile. Avreste sempre voluto essere il Capitano Nemo delle Ventimila Leghe Sotto i Mari.

Il vostro albergo a forma di medusa, a dire il vero, sta esattamente trenta metri sotto il livello del mare. Ciascuna delle sue 220 suites di lusso è dotata di pareti di plexiglas che offrono vedute spettacolari di sirene che passano, oltre ai famosi “fuochi d’artificio subacquei”: una allucinante esibizione di “bolle d’acqua, sabbia turbinante, e illuminazione accuratamente studiata”. L’ansia iniziale per la sicurezza di un alloggio sul fondo del mare è dissolta da un sorridente responsabile. L’intera struttura è dotata si un sistema di sicurezza multilivello, vi rassicura, che comprende anche la protezione contro i sommergibili terroristi, i missili e gli attacchi aerei.

Anche se avete un importante incontro d’affari nell’area di libero scambio di Internet City, con clienti da Hyderabad e Taipei, siete arrivati con un giorno di anticipo per concedervi una delle rinomate attrazioni del parco a tema di dinosauri Restless Planet. E dopo una notte di sonno ristoratore sotto il mare, salite sulla monorotaia diretti alla giungla giurassica. La vostra spedizione incontra alcuni Apatosauri che pascolano tranquilli, ma venite immediatamente attaccati da una feroce banda di Velociraptor. Le belve animatroniche sono così impeccabilmente verosimili – sono state progettate da esperti di storia naturale del British Museum – da farvi strillare di paura ed eccitazione.

Con l’adrenalina ben pompata da questo incontro ravvicinato, rifinite il pomeriggio con un’emozionante corsa in snowboard sulla locale pista black diamond. Giusto di fianco c’è il Mall of Arabia, il più grande centro commerciale del mondo – altare dove si celebra il rinomato Shopping Festival che attira 5 milioni di frenetici consumatori ogni gennaio – ma decidete di rimandare a dopo la tentazione.

Invece, vi concedete una costosa esperienza di cucina thailandese fusion in un ristorante vicino alla Elite Towers che vi ha raccomandato l’autista dell’albergo. Una splendida bionda russa continua a fissarvi con sguardo da vampira assetata, e cominciate a chiedervi se il panorama locale del peccato sia stravagante quanto quello dello shopping…..

È il seguito di Blade Runner?

Benvenuti in paradiso. Ma dove siamo? É il nuovo romanzo di fantascienza di Margaret Atwood, il seguito di Blade Runner, o Donald Trump che si è fatto un acido?

No, siamo nella città-stato di Dubai, nel 2010.

Dopo Shanghai (popolazione attuale: 15 milioni), Dubai (popolazione attuale: 1,5 milioni) è il più grosso cantiere del mondo: un emergente mondo dei sogni del consumo opulento, di quanto qui si è soprannominato “stile di vita supremo”.

Dozzine di bizzarri megaprogetti – come “ The World” (arcipelago artificiale), Burj Dubai (l’edificio più alto della Terra), Hydropolis (quell’albergo di lusso sott’acqua), il parco tematico Restless Planet, un impianto sciistico sotto una cupola mantenuto costantemente in un ambiente che all’esterno è di 40°, e il super-centro commerciale The Mall of Arabia – sono attualmente in corso di realizzazione, o lasceranno presto i tavoli dei progettisti.

Sotto il dispotismo illuminato del Principe della Corona e Chief Executive Officer, il cinquantaseienne sceicco Mohammed bin Rashid al-Maktoum, l’Emirato di Dubai – che ha le dimensioni del Rhode-Island – è diventato la nuova icona globale dell’urbanistica immaginata. Anche se spesso viene paragonato a Las Vegas, Orlando, Hong Kong o Singapore, il regno dello sceicco assomiglia più a una loro sommatoria collettiva: un pastiche di grosso, brutto e cattivo. Non è solo un ibrido, ma una chimera: frutto del lascivo accoppiamento delle fantasie ciclopiche di Barnum, Eiffel, Disney, Spielberg, Jerde, Wynn, e Skidmore, Owings & Merrill.

Il multimiliardario Sheik Mo – come affezionatamente chiamato dagli espatriati di Dubai – non solo colleziona purosangue (la stalla più grossa del mondo) e super- yacht (il Project Platinum di 160 metri, dotato di sottomarino e ponte d’atterraggio), ma sembra anche avere impressa l’opera di culto di Robert Venturi, Learning from Las Vegas, nello stesso modo in cui i musulmani più pii mandano a memoria il Corano (una delle cose di cui lo Sceicco va più fiero, per inciso, è di aver introdotto in Arabia le gated communities).

Sotto la sua guida, la costa del deserto è diventata un enorme circuito stampato su cui l’ élite delle imprese transnazionali engineering è invitata a inserire grumi di alta tecnologia, zone per il divertimento, isole artificiali, “città nella città”: qualunque ultimo grido del capitalismo urbano. Si può trovare, naturalmente, l’identica fantasmagorica quanto generica composizione di blocchi Lego in dozzine di aspiranti città di questi tempi, ma Sheik Mo ha un suo criterio distintivo invariabile: tutto deve essere “ world class”, ovvero essere il numero uno nel Guinness dei Primati. E così Dubai sta costruendo il più grosso parco a tema del mondo, il più grosso centro commerciale, l’edificio più alto, il primo hotel subacqueo, solo per citarne alcuni.

La megalomania architettonica di Sheikh Mo, anche se ricorda Albert Speer e il suo mecenate, non è irrazionale. Avendo “ Imparato da Las Vegas” capisce che se Dubai vuole diventare il paradiso dei consumi di lusso di Medio Oriente e Asia Meridionale (l’ufficialmente definito “mercato interno” da 1,6 miliardi), deve incessantemente cercare l’eccesso.

Da questo punto di vista, la mostruosa caricatura di futurismo della città è semplicemente un’abile strategia di marketing. I proprietari adorano architetti e urbanisti che la consacrano come punta di diamante. L’architetto George Katodrytis scrive: “Dubai può essere considerata il prototipo emergente del 21° secolo: oasi protesiche e nomadi proposte come città isolate distese su terra e mare”.

In mpiù, Dubai può contare sul periodo di massime quotazioni del petrolio per coprire i costi di queste iperboli. Ogni volta che spendiamo 40 dollari per riempire il serbatoio, stiamo aiutando a irrigare l’oasi di Sheik Mo.

Ed è esattamente perchè sta rapidamente pompando le sue ultime modeste risorse di petrolio, che Dubai ha optato di diventare una post moderna “città di netti” – come Bertolt Brecht definiva la sua immaginaria città del boom economico di Mahagonny – dove i super-profitti del petrolio devono essere reinvestiti nell’unica vera risorsa inesauribile d’Arabia: la sabbia. (E a dire il vero i mega-progetti a Dubai di solito vengono calcolati secondo il volume della sabbia spostata: 500 milioni di metri cubi nel caso di The World).

Al-Qaeda e la guerra al terrotismo possono vantare qualche merito, per questo boom. Dopo l’11 settembre, molti investitori mediorientali, temendo possibili cause o sanzioni, hanno ritirato le proprie quote in Occidente. Secondo Salman bin Dasmal della Dubai Holdings, solo i sauditi hanno riportato in patria un terzo del proprio portafoglio di un trilione di dollari in investimenti esteri. Gli sceicchi li stanno riportando a casa, e lo scorso anno si calcola che i sauditi abbiano sepolto almeno 7 miliardi di dollari sotto i castelli di sabbia di Dubai.

Un altro flusso di ricchezza da petrolio scorre dal vicino Emirato di Abu Dhabi. I due staterelli dominano gli Emirati Arabi Uniti: una quasi-nazione messa insieme dal padre di Sheik Mo e governante di Abu Dhabi nel 1971 per allontanare la minaccia dei marxisti in Oman e, più tardi, degli islamisti in Iran.

Oggi, la sicurezza di Dubai è garantita dalle portaerei americane abitualmente ormeggiate nel porto di Jebel Ali. A dire il vero, la città-stato si propone aggressivamente come avamposto, “Zona Verde”, in un’area sempre più pericolosa e turbolenta.

Ne frattempo, mentre un numero crescente di esperti avverte che l’epoca del petrolio a buon mercato sta finendo, il clan di al-Maktoum può contare su un nervoso torrente di profitti da petrolio in cerca di una collocazione tranquilla e stabile. Quando i forestieri mettono in discussione la sostenibilità dell’attuale boom, i responsabili di Dubai sottolineano che la loro nuova Mecca si costruisce sui dividendi, non sui debiti.

A partire dalla decisione spartiacque del 2003, di aprire senza limiti la proprietà agli stranieri, ricchi europei e asiatici sono corsi a diventare parte della bolla di Dubai. Un affaccio su spiaggia in una delle “Palme” o, ancora meglio, un’isola privata nel “Mondo”, ora ha le quotazioni di St. Tropez o di Grand Cayman. I vecchi padroni coloniali hanno guidato il branco, con espatriati e investitori britannici divenuti la miglior pubblicità per il mondo dei sogni di Sheikh Mo: David Beckham è porprietario di una spiaggia e Rod Stewart di un’isola (si mormora sia stata battezzata Gran Bretagna).

Una maggioranza invisibile di non garantiti

Il carattere utopico di Dubai, va sottolineato, non è un miraggio. Anche più di Singapore o del Texas, la città-stato è davvero un’apoteosi di valori neo-liberali.

D’altra parte, offre agli investitori un comodo sistema, in stile occidentale, di diritti proprietari, inclusa la freehold ownership, caso unico nella regione. Compresa nel prezzo un’ampia tolleranza al consumo di alcol, droghe leggere, agli abiti scollati, e ad altri vizi d’importazione formalmente prescritti dal diritto islamico. (Quando gli espatriati di Dubai ne decantano l’inimitabile “apertura” stanno decantando questa libertà di gozzovigliare: non quella di organizzare sindacati o pubblicare opinioni critiche).

D’altra parte, Dubai insieme ai suoi vicini emirati ha raggiunto il massimo in fatto di annullamento delle garanzie sul lavoro. Sindacati, scioperi, militanti, sono illegali, e il 99% della manodopera del settore privato è costituita da non-cittadini, facilmente deportabili. Davvero, i grandi pensatori di istituti come lo American Enterprise o Cato devono sbavare contemplando il sistema di classi e diritti di Dubai.

In cima alla piramide sociale, naturalmente, c’è la famiglia al-Maktoum e i suoi cugini, che possiedono ogni profittevole granello di sabbia dello sceiccato. Poi, il 15% della popolazione nativa – con la caratteristica uniforme del privilegio rappresentata dal tradizionale dishdash bianco – a costituire una leisure class la cui obbedienza alla dinastia è sostenuta da trasferimenti di reddito, scuole gratuite, posti di lavoro governativi. Un gradino sotto, i coccolati mercenari: 150.000 più o meno, ex paracadutisti britannici, insieme a altri europei, libanesi, indiani, managers e professionisti, che traggono il massimo vantaggio dalla propria agiatezza ad aria condizionata, con due mesi di ferie all’estero ogni anno.

Ma sono i lavoratori a contratto dal Sud Asia, legati a una singola impresa e soggetti ad un controllo sociale totale, a costituire la gran massa della popolazione. Lo stile di vita del Dubai è sostenuto da grandi numeri di cameriere dalle Filippine, Sri Lanka, India, e il boom edilizio poggia sulle spalle di un esercito di malpagati pakistani e indiani, che lavorano su turni di dodici ore, sei giorni e mezzo la settimana, nel forno arroventato del deserto.

Dubai, come i suoi vicini, si fa gioco delle regole dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e rifiuta di adottare la Convenzione dei Lavoratori Migranti. Human Rights Watch nel 2003 ha accusato gli Emirati di costruire la propria ricchezza sul “lavoro forzato”. E davvero, cme ha sottolineato di recente il britannico Independent in un servizio su Dubai, “Il mercato del lavoro assomiglia da vicino al vecchio sistema senza garanzie esportato a Dubai dagli antichi padroni coloniali: i britannici”.

”Come i loro impoveriti antenati” continua il giornale, “gli attuali lavoratori asiatici sono obbligati a firmare un contratto di virtuale schiavitù per anni, quando arrivano negli Emirati Arabi Uniti. I loro diritti scompaiono all’aeroporto, dove i funzionari delle assunzioni confiscano passaporti e visti, per controllarli”.

Oltre ad essere supersfruttati, i servi del Dubai devono anche diventare invisibili. I desolati campi da lavoro nelle periferie della città, dove gli operai si affollano in sei, otto, anche dodici in una stanza, non fanno parte dell’immagine ufficiale turistica di una città del lusso, priva di quartieri popolari e povertà. In una visita recente, si racconta che anche il Ministro del lavoro degli emirati Arabi Uniti sia rimasto profondamente scioccato dalle condizioni squallide, quasi insopportabili di un campo di lavoro molto lontano tenuto da un grande appaltatore delle costruzioni. Ma quando i lavoratori tentano di formare un sindacato per migliorare le paghe o le condizioni di vita, vengono immediatamente arrestati.

Il Paradiso, comunque, ha anche angoli più oscuri dei campi di lavoratori senza diritti. Le ragazze russe nell’elegante bar dell’albergo sono solo la fascinosa facciata di un sinistro mercato del sesso costruito sui rapimenti, la schiavitù, la violenza sadica. Dubai – lo dice qualunque guida di tendenza – è la “Bangkok del Medio Oriente” popolata da migliaia di prostitute russe, armene, indiane, iraniane, controllate da varie bande e mafie internazionali. (La città, comodamente, è anche centro mondiale per il riciclaggio di denaro, con uno stimato 10% degli affari immobiliari che avviene in transazioni solo in contanti).

Sheikh Mo e il suo regime profondamente moderno, naturalmente negano qualunque collegamento con questa fiorente industria delle luci rosse, anche se chi ne capisce sa che le puttane sono essenziali per tenere pieni di uomini d’affari europei e arabi tutti quegli alberghi a cinque stelle. Ma anche lo Sceicco in persona è stato direttamente toccato dal più scandaloso vizio di Dubai: la schiavitù di bambini.

Le corse dei cammelli sono una grande passione negli Emirati, e nel giugno del 2004 la Anti-Slavery International ha pubblicato fotografie di bambini in età prescolare che facevano i fantini a Dubai. HBO Real Sports contemporaneamente riferiva che tra questi fantini “alcuni hanno solo tre anni: vengono rapiti, o venduti schiavi, affamati, picchiati, violentati”. Alcuni dei piccoli fantini erano ritratti al circuito di proprietà della famiglia al-Maktoum.

Il Lexington Herald-Leader – un giornale del Kentucky, dove Sheikh Mo possiede due grossi allevamenti di purosangue – ha confermato in parte la storia di HBO in un’intervista a un maniscalco locale che aveva lavorato per il principe della corona in Dubai. Raccontava di aver visto “bambini molto piccoli”, anche di quattro anni, in groppa a cammelli da corsa. Gli allenatori affermano che le grida di terrore dei bambini spingono gli animali a correre più forte.

Sheikh Mo, che si definisce un profeta della modernizzazione, ama impressionare i visitatori con antichi proverbi e acuti aforismi. Uno dei preferiti: “Chiunque non tenta di cambiare il futuro resterà prigioniero del passato”.

Ma il futuro che sta costruendo a Dubai – tra gli applausi dei miliardari e delle imprese transnazionali da tutto il mondo – non sembra altro che un incubo dal passato: Walt Disney incontra Albert Speer sulle coste della penisola arabica.

Nota: il testo originale di Mike Davis al sito TomDispatch; di seguito, alcuni links ai fantasioni progetti descritti nella prima parte dell’articolo (f.b.)

Burj Dubai

Restless Planet

Dolores Hayden, Builiding Suburbia. Green Fields and Urban Growth: 1820-2000, Pantheon Books, New York 2003

”Questi posti non attirano gli storici dell’architettura, perché ci sono coinvolti assai pochi architetti conosciuti, né gli storici dell’urbanistica, perché non sono stati pianificati da professionisti noti. Gli storici delle politiche pubbliche tendono a ricostruire i percorsi delle leggi, più che i loro risultati pratici, e quindi manca ancora uno sguardo critico su come la legge si stata tradotta in spazi di vita tridimensionali”. Con questo sconsolato panorama sullo stato dell’arte, Dolores Hayden introduce, a pagina 129, il tema del sobborgo sit-com. Il nomignolo sta a indicare anche l’unica forma di conoscenza davvero diffusa di questi spazi, ovvero il film o telefilm che tutti abbiamo visto fino alla noia: steccati bianchi, prati verdi fra l’ingresso e la strada, automobili parcheggiate, pettegolezzi tra i vicini maschi (sulla qualità delle falciatrici) e femmine (sul fidanzamento dei rampolli). Per il resto, il silenzio o quasi, salvo le critiche frontali e le proposte di modelli radicalmente alternativi: dai progetti della Regional Plannig Association of America o della Resettlement Administration negli anni Trenta, attraverso i grandi quartieri pubblici “corbusieriani” degli anni Cinquanta e Sessanta, fino al contemporaneo e molto in voga neo-tradizionalismo dei cosiddetti new urbanists. E tutti questi, hanno al massimo realizzato qualche progetto di pura testimonianza, una goccia nel mare del suburbio corrente, che cresce e cresce, fino ad ingoiare all’alba del terzo millennio la gran parte della residenza e delle attività produttive nazionali, con i centri città in declino e sempre più terre estensivamente urbanizzate e sottratte all’agricoltura, ai parchi, agli spazi per flora e fauna.

Ma come dicevo all’inizio, lo sconsolato panorama sullo stato dell’arte sta a pagina 129, su un totale di 250 escluse note e bibliografia. Il resto del libro, sottotraccia molto propositivo, è dedicato a un percorso critico in sette tappe, che corrispondono ad altrettante forme spaziali, sociali, e di rapporti di forza economici, intrecciati nella produzione di suburbio. Vale la pena di elencarli:

Le ultime reazioni a questo stato delle cose, come si sa, sono nel segno della smart growth, o in termini di progettazione spaziale fisica di new urbanism. Ma la smart growth rappresenta anche in gran parte la reazione delle forze conservatrici alle spinte del mondo ambientalista, in prima fila gli interessi immobiliari con lo Urban Land Institute e altri, o addirittura i centri culturali dichiaratamente di destra come la Heritage Foundation. E il new urbanism spesso, pur nelle ottime intenzioni e nella sostanziale positività di alcuni risultati, rischia di essere a-storico anche nel suo voler recuperare elementi storici neo-tradizionali nella progettazione spaziale. Valga per tutti il caso di Seaside, il pluripremiato villaggio sulle coste nord-occidentali della Florida che recupera il senso del vicinato negli spazi, nelle regole urbanistiche e in quelle di gestione dell’ambito collettivo. Questo villaggio, che pur voleva esprimere l’esatto contrario del sit-com suburb, è stato scelto come sfondo per il notissimo The Truman Show, con Jim Carrey, che presenta una realtà artificiosa a dir poco paranoica. Forse questo ha portato grande popolarità ai progettisti, Andrés Duany e la moglie Elizabeth Plater-Zyberk, ma dimostra la grande capacità di metabolizzazione della “macchina di crescita”, che tutto divora.

La soluzione, indicata sottotraccia per tutto il libro da Dolores Hayden, è quella di utilizzare gli strumenti della storia per ricostruire i punti di forza della varie forme suburbane, e riproporli secondo forme nuove. Non solo forme spaziali, ma miscela non artificiosa di relazioni sociali, anche in senso ampio, come ad esempio quelle dei mutui per la casa in proprietà, o gli investimenti infrastrutturali, che sono questioni prettamente politiche. Perché la questione centrale sono i modi di sfruttamento capitalistico del territorio. Come avremmo detto noi, qualche lustro fa. Chissà se si può ancora dire.

Nota: qui i brani dall’altro libro di Dolores Hayden proposto da Eddyburg, A Field Guide to Sprawl. Per uno (uno solo) dei temi proposti sopra, ovvero il rapporto fra deprezzamento degli edifici non residenziali e sprawl, si veda il testo di Malcolm Gladwell sulla carriera di Victor Gruen pure proposto tempo fa da Eddyburg (fb)

Titolo originale: Urban Archipelago – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Sta succedendo qualcosa in Kansas: il 5 aprile i cittadini dello Stato del Girasole hanno sostenuto massicciamente la meschina proibizione dei matrimoni fra cittadini dello stesso, e stipato i consigli scolastici con altri personaggi che vogliono insegnare il creazionismo. Me lo stesso giorno i progressisti hanno spazzato via tutti i posti disponibili a Lawrence, una delle città in più rapida crescita dello stato, in base a una piattaforma che prometteva di combattere la discriminazione, proteggere l’ambiente, aumentare le case popolari. Il nuovo sindaco di questa città di 80.000 abitanti, Dennis “ Boog” Highberger, si è insediato dichiarando che “non ci sono molti posti dove un disabile ex hippie con un nome ridicolo può diventare sindaco”. Il giorno dopo ha inaugurato una chat line coi cittadini di Lawrence col messaggio: “Salve, cittadini! Che inizi la bolgia!”.

Lawrence, oasi di istruzione superiore e di economia high-tech in quello che grazie al libro del 2004 di Thomas Frank è lo stato conservatore più famoso della nazione, non è esattamente uscita di senno. Highberger e gli altri eletti sostenuti da Progressive Lawrence - un gruppo locale che due anni fa ha strappato il governo a forze più conservatrici favorevoli allo sviluppo edilizio – si sono concentrati fondamentalmente su strategie di “ smart growth” contro l’insediamento disperso, collaborando con le forze locali per migliorare l’erogazione di servizi e promuovere la tolleranza in uno stato dove questo può generare discussioni. “Non abbiamo esattamente ribaltato del tutto il “ Cosa succede in Kansas?”, ma ci stiamo lavorando” scherza Highberger, un avvocato che ha convinto Lawrence a condannare ufficialmente il Patriot Act, ma che passa la maggior parte del suo tempo in impegni municipali come finanziare i servizi di biblioteca o acquisire nuovi terreni a parco. “Le cose che succedono a Washington e Topeka sono piuttosto astratte, e di solito frustranti. Quando prendiamo una decisione in commissione municipale – sulla tutela dell’ambiente, o sul trattare bene le persone – la gente avverte che qualcosa è cambiato nel proprio cortile, il giorno dopo. È la politica locale il posto per i progressisti”.

Varianti del caso di Lawrence si rappresentano in tutto il paese, con leaders locali e coalizioni che danno forma e nuove e più aggressive politiche in quello che si sta iniziando a chiamare un “arcipelago urbano” di grandi centri metropolitani, vecchie città industriali e centri universitari che rappresentano isole blu progressiste su una mappa elettorale che sembra un mare rosso di convervatorismo. Si tratta di isole piuttosto affollate, con voti a sufficienza per influenzare la politica ben oltre i propri confini, e restano i bastioni del liberalismo americano: tutte le città con più di 500.000 abitanti hanno votato per John Kerry nel 2004, così come circa la metà di quelle fra 50.000 e 500.000. Praticamente in tutti glia stati che hanno sostenuto il candidato democratico alla presidenza lo scorso anno – anche nei tradizionali capisaldi democratici come Illinois, New Jersey e Michigan – è stato solo grazie alle forti maggioranze nelle aree urbane che ha prevalso Kerry. In un’epoca in cui il governo federale è dominato da repubblicani di destra, e i governi statali liberali sono rari, le città eleggono una nuova generazione di progressisti: una tendenza ben evidenziata il 17 maggio, quando la seconda città del paese, Los Angeles, ha sostituito un cauto e curiale sindaco democratico col progressista Antonio Villaraigosa.

Non sorprende, che la politica delle città tenda a sinistra. Le città, più dei sobborghi o delle zone rurali, tendono ad essere la casa di chi sta meno a suo agio nell’America di George W. Bush: minoranze razziali, gay e lesbiche, immigrati, sindacalisti, lavoratori a bassissimo reddito e i giovani professionisti i cui quartieri “ new urbanist” hanno rinnovato i centri città da Providence a San Diego. Le città, anche, hanno problemi che non si risolvono col libero mercato in cui i conservatori ripongono la propria cieca fede: povertà, violenza, scuole degradate e industrie sfasciate dal NAFTA. E in un’epoca in cui sempre più spese federali si orientano verso il settore militare e i tagli alle tasse per i ricchi, le vecchie sfide diventano nuove crisi. Il 78% dei sindaci intervistati dalla US Conference of Mayors hanno rilevato aumenti nel numero delle domande di alloggi d’emergenza nel 2004, e più dell’80% affermava che mancavano fondi adeguati alla domanda. L’assalto dell’amministrazione Bush ai finanziamenti per lo sviluppo delle città blocca i prestiti per le iniziative di trasporto pubblico e la casa, e i carichi aggiunti per le scuole urbane dal No Child Left Behind Act, rendono le prospettive di soluzione dei problemi urbani più fosche che mai.

Nonostante queste sfide, e in alcuni casi grazie ad esse, un numero crescente di progressisti si sta imponendo a livello municipale. “I governi locali sono l’unico posto dove le idee progressiste possono entrare in azione” dice il sindaco di Madison, Wisconsin, Dave Cieslewicz, quarantaseienne, ex coordinatore di un ufficio si gabinetto al Senato e leader ambientalista, che è stato eletto nel 2003. “È nelle città, che si può aprire un varco fra i grandi interessi, i grandi mezzi di comunicazione – insomma le cose sbagliate della nostra politica – e catturare l’immaginazione del pubblico”. Purtroppo, dice, le organizzazioni tradizionali degli amministratori locali sono state lente a cogliere l’onda della resistenza municipale al movimento conservatore nazionale. “Dopo essere stato eletto, sono andato alla mia prima conferenza USA dei sindaci, ed era orribile. L’influenza delle imprese era ovunque” dice Cieslewicz, ricordando una cena dove camioncini giocattolo con il logo della Waste Management, Inc. servivano da segnaposto. “Eravamo lì, con davanti tutti i tagli possibili ai programmi per l’istruzione, i trasporti e la casa, cose essenziali per le città, e non avvertivo alcun senso di urgenza”.

Cieslewicz iniziò a lavorare per costituire un gruppo che aiutasse i sindaci progressisti ad affrontare la politica in modo serio. Alla prima riunione del gruppo “ New Cities” organization, a febbraio, arrivarono i sindaci di Milwaukee, Salt Lake City, Berkeley e nove altri. Alla seconda, che si terrà il 9 giugno a Chicago, alla vigilia della Conference of Mayors di quest’anno, potrebbero partecipare un paio di dozzine di sindaci per discutere come “cogliere l’attimo” determinato dalla salita dei costi energetici. Si vuole accogliere la proposta del Progetto Apollo, iniziativa sostenuta da gruppi sindacali e ambientalisti per ottenere indipendenza energetica, applicandola a livello locale. Un altro gruppo, ispirato a valori simili ma con strategie differenti, vuole lanciare dal primo giugno la campagna “Riprendiamoci l’America” alla conferenza di Washington, DC, sostenuta dalla Campaign for America’s Future.

Cities for Progress ( www.citiesforprogress.org), una emanazione del movimento Cities for Peace del 2003 – che aveva visto 140 comunità, dai villaggi dell’Alaska a New York City, esprimere opposizione alla corsa di Bush all’invasione dell’Iraq- lancerà una campagna per far cooperare gli eletti e le comunità che rappresentano, a influenzare le politiche nazionali. “È più chiaro che mai che le decisioni prese a Washington influenzano la mia possibilità di svolgere il mio lavoro” dice il consigliere di Chicago Joe Moore, che ha collaborato con lo Institute for Policy Studies a sviluppare la rete di Cities for Progress. “Non posso sistemare le cose nei quartieri di Chicago se non faccio la mia parte per assicurarmi che Washington faccia la cosa giusta”.

L’idea delle città generatrici di politiche progressiste non è nuova. A cavallo dell’inizio del secolo scorso, sindaci come quello di Cleveland Tom Johnson, di Toledo Samuel “ Regola d’Oro” Jones, o di New York City Seth Low, erano conosciuti come leaders progressisti a livello nazionale. Negli anni ’60 a New York John Lindsay, a Boston Kevin White e a Cleveland Carl Stokes erano indicati come potenziali Presidenti o Vice Presidenti. Con l’ottimismo degli anni ’60 che si offuscava insieme alle sue città modello e ai programmi di rinnovo urbano, le città scomparvero dalle notizie, tranne quando si trattava di violenza, corruzione, bancarotta. I sostegni federali si prosciugarono. Il suburbio si espandeva all’esterno. Gli stati presero possesso dei distretti scolastici urbani, togliendo il potere dalle mani degli eletti in sede locale. Se le cariche di sindaco erano state piattaforme di lancio per carriere politiche (l’ex Vicepresidente Hubert Humphrey era diventato famoso a livello nazionale come sindaco riformista di Minneapolis; Moon Landrieu saltò dalla politica municipale a New Orleans alla carica di ministro per Housing e Urban Development con Jimmy Carter) quel lavoro iniziò ad essere visto sempre più come un vicolo cieco, evitato dai politici più ambiziosi.

Ma negli anni recenti, le cose hanno cominciato a cambiare. Dopo tre tentativi falliti alle presidenziali, l’ex governatore della California Jerry Brown è andato a Oakland, dove ha rinnovato la propria carriera politica e la città, come discusso ma sempre presente sindaco. L’ex deputato Tom Barrett del Wisconsin è diventato sindaco Democratico di Milwaukee lo scorso anno. “Essere un Democratico al livello statale o nel Congresso di questi tempi, significa avere solo la possibilità di rosicchiare i margini” spiega il sindaco di West Palm Beach, Florida, Lois Frankel, che è stato portavoce dell’opposizione al parlamento statale della Florida prima di fare il salto verso la politica municipale. “Essere un sindaco forte è il miglior ruolo politico al momento. È più vicino alla realtà. Si possono fare le cose in fretta, si può davvero influenzare la qualità della vita”.

L’ex sindaco di Irvine, California, Larry Agran, ora consigliere municipale nela stessa città di 175.000 abitanti della Orange County, conferma questo punto di vista. In una contea che ha votato per Bush con un margine 60-39 nel 2004, Agran e i suoi alleati progressisti hanno sviluppato programmi innovativi per gli asili, le case popolari, il riciclaggio e la conservazione degli spazi aperti, e soprattutto sconfitto i piani dei costruttori di trasformare una ex base dei Marines in un aeroporto internazionale. Quest’estate, lo spazio aperto recuperato di 2.500 ettari sarà ribattezzato Orange County Great Park. In quanto parco metropolitano più vasto del paese, consentirà agli abitanti della quinta contea più densamente popolata d’America di camminare dall’Oceano Pacifico alle montagne, attraverso un corridoio continuo di spazi verdi. Il progetto è stato reso possibile da battaglie legali, referendum, e dalla determinazione di Agran e altri a usare le risorse e i poteri della città per acquisire l’ex base militare al territorio comunale, negoziare col governo federale, e letteralmente estirpare le vecchie piste di atterraggio. È costato a Irvine circa 25 milioni di dollari, ma la città ne uscirà in attivo finanziariamente, dicono i consiglieri, grazie alla vendita di terreni adiacenti per insediamenti compatibili al parco.

L’elemento critico, sostiene Agran, è che “non abbiamo esitato a utilizzare gli strumenti di governo per realizzare politiche urbane. Questo è quello che possono fare i progressisti: utilizzare il governo locale per realizzare trasformazioni nel pubblico interesse”. Ma non pensate che sia facile. Agran ha dovuto affrontare ripetute sfide elettorali da parte di forze conservatrici che superavano drasticamente quelle progressiste come disponibilità di risorse. Ma a differenza di quanto accade nelle competizioni a livello statale e federale, i grandi interessi a livello locale si possono battere, dice. “In una città con una popolazione inferiore a un milione di abitanti, è possibile creare una rete di persone nei quartieri che contrasti calunnie e attacchi. “Un gruppo di dieci o venti persone impegnate può far molto; un gruppo di 300-400, come nel nostro caso, può vincere”.

Irvine non è l’unico posto dove i progressisti stanno realizzando trasformazioni fondamentali. Più di 120 città a livello nazionale, da Ashland, Oregon, a Camden, New Jersey, hanno approvato norme sui sostegni al reddito, aumentato i compensi orari sino a 12 dollari per i dipendenti delle imprese che lavorano con la municipalità. A Chicago, Moore sostiene un’ordinanza “Big Box Living Wage” che richiede alle catene come Wal-Mart di pagare i propri dipendenti dieci dollari l’ora più benefits. “È un’idea che non potrebbe prendere quota ora nel Congresso, ma che credo avrebbe parecchio seguito nelle città del paese” dice Moore, che progetta di diffondere l’idea dell’iniziativa attraverso la rete Cities for Progress. Le città non agiscono soltanto sul piano economico. Anche se i tentativi di finanziare pubblicamente alcune campagne sono frustrati a livello federale e statale, sono riusciti in alcuni diversi casi come Fort Collins, Colorado, o New York City. E 134 sindaci di 35 stati – compresi Repubblicani come Mike Bloomberg a New York o Alan Arakawa di Maui County, Hawaii – hanno fatto a livello locale quello che George W. Bush si rifiuta di fare a livello nazionale: hanno accettato gli obiettivi del Protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni di gas serra.

Come previsto, le forze conservatrici e di impresa che hanno rafforzato la propria presa su tanta parte degli apparati di governo, stanno cercando di impedire agli amministratori locali di impostare un ciclo progressista. Nel caso di più alto profilo di interferenza dall’alto, quando il sindaco di San Francisco Gavin Newsom e quello di New Paltz, New York, Jason West hanno cominciato a celebrare matrimoni per coppie di gay e lesbiche, a livello statale sono stati annullati, e il Presidente ha sostenuto un emendamento costituzionale per proibire i matrimoni fra cittadini dello stesso sesso. “I conservatori e lobbisti delle corporations si dichiarano tutti in favore dell’autonomia locale, ma la verità è che un autentico controllo in sede locale li terrorizza” dice Cieslewicz di Madison. “A livello municipale possiamo aprire nuovi fronti, mostrare cosa può essere fatto, impostare tendenze che poi crescono”. Cieslewicz usa l’esempio della decisione di Madison di fissare un compenso minimo in sede locale, che raggiungerà i 7,75 dollari l’ora nel 2008. Altre città del Wisconsin hanno seguito rapidamente l’esempio, facendo pressioni sullo stato per aumentare le paghe minime. “Così le città cominciano, lo stato raccoglie, e quando abbastanza stati approvano gli aumenti dei minimi, la pressione si fa sentire sul governo federale” dice Cieslewicz.

I responsabili del movimento Cities for Progress vogliono istituzionalizzare questo tipo di pressione facendo in modo che le città approvino risoluzioni per porre fine alla guerra, o per lo sviluppo di un sistema sanitario nazionale universale. Offrendo assistenza organizzata a politici locali progressisti e collegando le iniziative l’una all’altra, Cities for Progress spera di creare una crescita dell’attivismo urbano. “Vogliamo che la gente si tolga dalla testa l’idea che lavorare a livello locale o a livello nazionale siano due cose diverse” dice Malia Lazu, direttore operativo nazionale.

Stimolare il cambiamento non è solo un problema di politiche; può anche significare la trasformazione di immagine del potere politico. “Il modo migliore per il Partito Democratico di rinnovare se stesso è di riconoscere che la prossima prospettiva di Great Society [ slogan anni ’60 del presidente Lyndon Johnson, n.d.T.] verrà dalle città, e verranno da lì anche i leaders della nuova generazione di Great Society “ dice il consigliere di New York City Bill Perkins. Il gruppo progressista nazionale Progressive Majority collabora ad eleggere rappresentanti locali che vogliano salire i gradini della politica. “È un modo di costruire una solida base” afferma il coordinatore di Progressive Majority del Colorado, Joe Miklosi, che ha lavorato con candidati locali nelle città di tutto lo stato. “Una volta vinto nella tua città, la gente impara a conoscerti, si fidano di te. Quando ti presenti per il parlamento statale o il Congresso, è più probabile che votino per te”.

L’idea di costituirsi una solida base, non è andata persa coi sostenitori del nuovo sindaco di Los Angeles. La vittoria di Villaraigosa il 17 maggio l’ha trasformato nella più brillante stella nascente latinoamericana della politica, stimolando un dibattito sul fatto che, entro il 2008, il suo nome apparirà nella lista ristretta dei candidati Democratici alla Vice Presidenza. Per gli americani che ancora sognano di poter portare politici progressisti ai livelli più alti, è logico iniziare a cercare candidati dove i progressisti sono già al governo. “Se ci si pensa, l’argomento a favore dei candidati governatori alle presidenziali è il fatto che hanno già governato”, dice Larry Agran di Irvine. “Beh, un sacco di sindaci governano città con popolazione superiore a quella di alcuni stati. Allora, perché non guardiamo alle città, per cercare candidati con idee progressiste? Non si guarda a Washington di questi tempi per trovare esempi di realizzazioni progressiste. Ma nelle città, è una faccenda diversa”.

Nota: il testo originale al sito di The Nation (f.b.)

Titolo originale: Dream machines – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

“La Cina ha inziato ad entrare nell’epoca dell’auto come bene di consumo di massa. Si tratta di un grande e storico passo in avanti”. Così dichiarava l’agenzia di informazioni statale Xinhua lo scorso anno. Gli ambientalisti possono avvertire un brivido di paura, per questa sbocciante storia d’amore coi motori. Ma in Cina è in corso una rapida trasformazione economica e sociale, e l’automobile la sta guidando.

Nel 2002 la domanda di auto è cresciuta del 56%, molto più che nelle più rosee previsioni. L’anno successivo c’è stata un’accelerazione sino al 75%, prima di rallentare nel 2004 (quando il governo ha reso più rigide le norme per il credito agli acquirenti di automobili) a circa il 15%. Ma in un mercato globale a passo di lumaca, la domanda cinese resta ipnotizzante. Pochi credono che quest’anno scenda sotto il 10%. Sin quando l’economia continuerà a galoppare all’attuale passo, molti ritengono che le vendite di automobili si incrementeranno del 10-20% annualmente, per parecchi anni a venire.

Cifre mastodontiche rotolano allegramente giù dalle lingue dei produttori di auto. Con 5 milioni di vendite lo scorso anno, la Cina è già il terzo mercato mondiale, dopo l’America (17 milioni) e il Giappone (5,9 milioni). “La Cina è destinata a diventare il secondo mercato mondiale prima o poi nei prossimi due o tre anni” dice David Thomas, a capo della distribuzione Ford per la Cine. Fra il 2010 e il 2015, ritiene, ci sarà il grosso. “La Cina si sta sviluppando in modi molto simili (ai mercati dei paesi sviluppati), ma lo fa in modo molto più veloce” aggiunge Mr. Thomas. “ Parecchio molto più veloce,” ribadisce.

Allo stesso tempo, la Cina sta riversando miliardi nell’espansione della propria rete stradale. Alla fine del 2004, aveva 34.000 km di autostrade, più del doppio del 2000 (17 anni fa, non ne aveva nessuna). Solo gli Stati Uniti ne hanno di più. La rete stradale totale cinese per lunghezza è la terza del mondo: 1,8 milioni di chilometri, di cui il 44% costruiti negli ultimi 15 anni. E non ci si ferma qui. Per il 2020 la Cina prevede di raddoppiare ancora la lunghezza delle autostrade.

Questa combinazione di crescita rapida dell’auto privata, di frenetica costruzione autostradale, e di boom economico, evoca immagini dell’Amerca negli anni ’20, quando l’automobile trasformò le aspirazioni della middle class, e degli anni ‘50, quando il governo federale realizzò il sistema delle autostrade Interstate. Ma nel caso della Cina questo sviluppo è stato compresso in soli pochi anni. È la volontà del governo ad averlo reso possibile. La strategia della Cina, ispirato non ultimo da quella dell’America, è di far diventare l’industria automobilistica un pilastro dell’economia. Ha dato il benvenuto ai costruttori stranieri, purché formassero delle joint ventures con una quota non superiore al 50%. E con le banche sotto il proprio controllo, ha spinto investimenti nel settore e sostenuto prestiti ai privati cittadini per alimentare la domanda.

Queste grandiose speranze sono evidenti in mostra nel Distretto di Jading, a Shanghai, una spianata semirurale punteggiata da fabbriche a circa 30 km dal centro città. Due anni fa era una terra desolata infestata dalle zanzare.Oggi ospita una struttura futuristica in acciaio e cemento, il primo circuito di Formula Uno della Cina. Non importa se pochi cinesi avessero sentito nominare le gare di Formula Uno, o che qualcuno se ne interessasse, prima che avesse inizio la costruzione. La struttura all’ultimo grido da 320 milioni di dollari, completata lo scorso anno, vanta un anello da 5,4 km sagomato sulla forma del carattere cinese “ shang”. Che rappresenta non solo la prima sillaba del nome della città, ma più coerentemente significa “in alto”, o andare avanti.

La gara inaugurale lo scorso ottobre ha attirato una folla di 150.000 persone, e molti hanno pagato almeno 1.800 yuan ($ 215): un mese di stipendio, per la media degli operai. Per il resto del tempo, è rimasto spettralmente vuoto. Fare soldi non è una priorità. È considerato il simbolo di una nuova “città dell’automobile” che Shanghai sta cercando di creare a Jiading, sede di una joint venture fra la Volkswagen e la Shanghai Automotive Industry Corp (SAIC), compagnia statale le cui auto a marchio Volkswagen godono della principale quota di mercato in Cina. Il piano, sostengono i funzionari, è di trasformare l’area in un centro ricerche e sviluppo sull’automobile, un luogo dove auto e componenti sono costruiti, e dove le attività di tempo libero ci girano attorno. Come successo per il circuito di gara, l’anno prossimo aprirà un museo dell’auto da 50 milioni di dollari.

Zhu Ningning, vicedirettore del gruppo di lavoro municipale per la città dell’auto, pensa che questa strategia del governo pagherà. “Abbiamo costruito quello che c’è ora in tre anni. A Detroit ce ne sono voluti cento” dice. La metà dei 2,4 miliardi di dollari investiti nella città dell’auto sinora vengono dal governo. Nei prossimi tre anni, Mr. Zhu dice che verranno spesi altri 3,6 miliardi, con il governo a contribuire per un terzo. “Questa auto city è unica al mondo” si entusiasma Zhu. “Detroit ha una concentrazione industriale, e musei, ma non ha la Formula Uno”. E per essere sicuri che questo non diventi il tipo di sprawl industriale tanto comune altrove in Cina, il gruppo di Zhu ha commissionato a Albert Speer, architetto tedesco figlio dell’omonimo favorito di Hitler, una collaborazione al progetto.

La nascita della domanda

Nelle grandi città della Cina, il fiume di biciclette – un tempo l’immagine più viva della Cina urbana – è stato sostituito da strade intasate di auto, la maggior parte delle quali, terribile, nelle mani di guidatori in erba. Proibendo o limitando fortemente l’uso delle motociclette in queste città, la Cina ha scavalcato in un salto una fase di sviluppo tipica dei vicini asiatici, dove la moto ha abitualmente fornito ai nuovi ricchi il primo assaggio di mobilità senza fatica. Shanghai, che ospita 9 milioni di normali biciclette, ha sollevato una ridda di critiche sui media lo scorso anno proibendole nelle principali strade del centro. Ma oggi vengono usate sempre di meno.

In qualche misura l’abbraccio all’auto della Cina era un risultato prevedibile della ricchezza urbana crescente. Ma ci sono parecchi altri fattori a determinare la domanda cinese, che almeno sino a un anno fa è lievitata oltre ogni aspettativa. Un’enorme spinta è venuto quando la Cina è entrata nella World Trade Organisation nel 2001, con un considerevole allentamento delle barriere alle importazioni di auto. I prezzi delle automobili prodotte internamente sono caduti in modo rapido, anticipando le riduzioni tariffarie, e hanno continuato a farlo per un 10% o più all’anno.

Il taglio dei prezzi, e l’introduzione da parte delle compagnie straniere di modelli più economici (costruiti dalle loro fabbriche in Cina), hanno aiutato pure a mettere la proprietà dell’auto improvvisamente alla portata di una middle class in rapida crescita. “Esiste qualche somiglianza fra l’approccio americano e quello cinese” dice Jean-Claude Germain, a capo della rappresentanza Peugeot Citroën per la Cina. “Quando qualcuno non ha i contanti per comprare una macchina, la sogna e farà qualunque cosa per essere un giorno nella posizione di comprare questo prodotto”. Germain valuta che ora circa 50-60 milioni di cinesi possano permettersi di comprarne una. Se avevano qualche dubbio, un credito agevolato dalle banche statali (come fino all’anno scorso) li ha aiutati a superarlo.

Un altro motore chiave di domanda è la drammatica trasformazione nella struttura economica e sociale delle città cinesi. Dieci anni fa, la maggior parte dei residenti urbani erano impiegati da fabbriche di proprietà statale o in altri enti legati al governo. Vivevano in case assegnate dai datori di lavoro, virtualmente senza pagare l’affitto, e vicine al posto di lavoro. Una bicicletta, o il trasporto pubblico, erano di solito adeguati per muoversi. Le banche, inoltre, non prestavano ai singoli.

A partire dalla fine degli anni ’90, però, le abitazioni sono state ampiamente privatizzate. Molte fabbriche di proprietà statale hanno chiuso o si sono trasferite nelle zone suburbane per ridurre l’inquinamento delle città e far spazio a nuova edilizia. Il boom economico è stato pungolato da una frenesia costruttiva, la quale a sua volta era alimentata da continui prestiti delle banche e dalla disponibilità del governo a consentire che i costruttori radessero al suolo o vecchi quartieri centrali. Comunità consolidate sono state sparpagliate, spesso verso il suburbio, in luoghi mal serviti dal trasporto pubblico e lontani dai posti di lavoro.

La maggioranza dei residenti in campagna - dove vive il 60% della popolazione con un reddito medio di meno di un dollaro al giorno al cambio ufficiale – non andrà mai oltre il sogno di possedere un’auto. Ma l’impatto psicologico su molti residenti urbani dell’improvvisa disponibilità dell’auto è stato considerevole. Fino agli anni ’90 i viaggi in Cina erano regolamentati. Veniva richiesta una lettera da un datore di lavoro statale per comprare un biglietto d’aereo, un comodo posto a sedere in treno, o una stanza in un albergo decente. La vita del cittadino era sorvegliata da vicino, a casa e al lavoro. Le decisioni del governo di incoraggiare l’impresa privata hanno significato allentare la presa. A questo punto entra in scena l’automobile, simbolo di libertà e status sociale. Non c’è da sorprendersi che i cittadino non vedessero l’ora di comprarne una.

“Nuovo guidatore, fate attenzione”

Prendere la patente non è difficile. Anche se un allievo deve far pratica per 70 ore in due mesi, è difficile essere bocciati all’esame. Gli esaminatori malpagati sono facili da corrompere, e gli istruttori fungono da intermediari e si ritagliano la propria quota. Molte auto nelle strade della città esibiscono il cartello “Nuovo guidatore, fate attenzione”. È un appello inutile. Il tasso di mortalità sulle strade della Cina è il più alto del mondo: 680 morti e 45.000 feriti al giorno, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, contro i 115 morti al giorno nella di gran lunga più motorizzata America.

La proprietà è ancora poca cosa in termini percentuali: 7 o 8 ogni mille persone, contro una media mondiale di 120 e le più di 600 in America. Il numero delle auto private in Cina – circa 10 milioni – è solo ancora la metà di quelle americane all’inizio della Grande Depressione. Ma a Pechino, città di 12 milioni di persone (contando solo i residenti registrati) ci sono 2 milioni di auto, l’80% delle quali di proprietà privata. Di queste, un quarto di milione sono state acquistate negli scorsi due anni. Nonostante l’allargamento delle strade principali (buttando giù altri edifici residenziali), la realizzazione della metropolitana leggera suburbana, l’inaugurazione della nuova strada anulare negli ultimi anni, le infrastrutture della città non riescono a tenere il passo.

Le preoccupazione per la congestione, il parcheggio, l’aumento dei prezzi del carburante e la possibilità di una nuova tassa sulla benzina iniziano a rallentare la domanda in città, dice Qie Xiaogang, analista di mercato del punto vendita auto principale della città. Anche la decisione governativa dell’anno scorso, di irrigidire i prestiti per l’acquisto di automobili, ha avuto grossi effetti. Nuovi alla cultura del credito, e con poca paura delle timide banche di proprietà statale, molti cinesi hanno fatto debiti oltre le proprie possibilità, utilizzando certificati falsi del proprio reddito. Ciò ha creato un “grosso buco finanziario” nel sistema bancario cinese, dice Mr. Qie. Ma anche con gli acquisti a credito scesi al 10% delle transazioni contro il 30% del 2003, le vendite conoscono un boom. Molti acquirenti si presentano con borse di contanti.

Ma, curiosamente, l’automobile rimane uno strumento per spostamenti su piccole distanze, di soli da e per l’ufficio. La rete autostradale sinora ha mancato di trasformare le abitudini di viaggio e tempo libero. Steve Bale di BatesAsia, impresa di pubblicità, dice che lo scorso anno meno del 20% dei proprietari di auto hanno usato i propri veicoli per spostarsi fuori città nei fine settimana. Imboccare la strada aperta e seguirla ovunque vada non è, a quanto pare, un’idea particolarmente ispirante per l’automobilista cinese. Jin Jianjun, quarantaseienne impiegato di Pechino che ha trascorso le vacanze di quest’anno lunare guidando per 6.000 chilometri attraverso la Cina con moglie e figlia, è una rara eccezione. Dice che è adesso, il momento migliore per possedere un’auto in Cina, perché le autostrade veloci inter-city sono ancora senza traffico.

Lo scarso fascino della strada aperta

Uno dei motivi per cui gli automobilisti su lunghe distanze scarseggiano, è che gli spostamenti in aereo sono diventati convenienti per molti abitanti delle città prima che iniziasse a crescere l’auto in proprietà. Per chi si sposta da solo, e spesso anche per due insieme, volare resta di solito l’opzione più economica: meno cara anche di un viaggio in treno negli scompartimenti “a sedili morbidi”. Il viaggio da Pechino a Shanghai, una distanza di circa 1.120 km, costa molto più via strada che in aereo. Percorrere la expressway Pechino-Shanghai vuol dire fermarsi a più di dieci barriere che richiedono un pedaggio, pagando un totale di 500 yuan ($ 60), senza contare il carburante. Un biglietto aereo scontato costa meno dei soli pedaggi.

La costruzione delle autostrade è stata usata dal governo come strumento per stimolare la crescita economica. La maggior parte sono finanziate dalle banche statali, e i gestori hanno poche probabilità di ripagare il debito in tempo. Su alcuni tratti il gettito dei pedaggi copre a malapena il costo degli stipendi del casellanti, figuriamoci gli interessi dei prestiti. I camionisti spesso preferiscono usare le vecchie strade che corrono parallele alla expressways, per risparmiare soldi.

Un anno fa, l’amministrazione municipale di Pechino decise di togliere i pedaggi alla nuova autostrada da 1,6 miliardi di dollari attorno alla città, solo pochi mesi dopo l’apertura. Le tariffe erano state pensate per coprire il prestito in 30 anni. Ma il numero di utenti dei primi tempi aveva fatto calcolare che ci sarebbero voluti più di due secoli. A Shanghai, recentemente hanno aperto alcuni autodefiniti “ motels”, ma è difficile distinguerli dai comuni alberghi. Sun Fei, direttore di una filiale da 230 stanze di Motel 168, una catena privata, dice di avere solo 60 posti a parcheggio. Ma anche questi, sono “sufficienti a soddisfare la domanda”.

I media cinesi amano parlare di una emergente “cultura dell’automobile”. Ma nell’immaginario popolare non c’è ancora un equivalente della Route 66. La lettura delle carte stradali è un’abilità che pochi padroneggiano (quelle topografiche dettagliate sono ancora considerate segreto di stato). Si preferisce il viaggio di gruppo, in una nazione dove un’incredibile varietà di cucine, dialetti e culture può rendere il viaggiare indipendente un incubo. Il settore dell’auto a noleggio è all’infanzia, anche se gli ottimisti credono che le cose cambieranno. Nigel White, direttore generale della Avis in Cina, dice che il mercato del noleggio, che ha impiegato circa 40 anni a maturare in Europa, in Cina ne impiegherà 10 o 15. Ma i grandi piani di crescita dalla Avis (dalle attuali dieci agenzie di noleggio alle 70 entro il 2008) sono basati in gran parte sulla domanda d’affari con grandi quote di investimento straniero.

La proliferazione di giornali patinati dedicati all’auto sugli scaffali dei negozi suggerisce l’emergere di una cultura che adora l’automobile in modi simili a quelli dei mercati sviluppati. Ma i consumatori di auto cinesi hanno gusti e motivi propri per acquistare i propri veicoli. In particolare, le prestazioni contano meno di accessori e finiture interne. “Quella è la parte che vedono familiari e amici”, dice Daphne Zheng, portavoce a Shanghai per la General Motors. Schermi video sui sedili posteriori, finiture in legno, sedili in cuoio, sono grandi attrazioni.

Quando ha aperto un cinema drive-in di stile americano alla periferia nord-est di Pechino nel 1988, era allettante immaginare i giovani cinesi urbani usare le proprie macchine per gli appuntamenti con la ragazza. “I cinema drive-in stanno diventando di moda” annunciava Xinhua giusto l’anno scorso. Non esattamente. Quel cinema resta l’unico della capitale, anche se ne ha aperto un altro l’anno scorso in uno dei centri satellite. Con la sua capacità di 500 auto e i sei schermi, in media attira meno di 100 macchine al giorno. Wang Qishun, il direttore, dice che gran parte degli introiti vengono da altre attrazioni del complesso, come il ristorante da 200 posti, o il laghetto per pescare.

Anche se i cinesi non stanno diventando americani nelle loro abitudini automobilistiche, il nuovo amore per i motori ha implicazioni preoccupanti per l’ambiente. La maggior parte dell’inquinamento di Pechino è causato dalle automobili. La città spesso è avvolta da una nebbiolina sporca, nonostante le norme richiedano che le auto si adeguino agli standard di emissioni UE III entro il 2008, in tempo per le Olimpiadi.

Nebbia inquinata

Il governo, ben consapevole di tutto questo, sta spendendo miliardi per migliorare il trasporti pubblici delle grandi città. Entro il 2008 Pechino avrà 200 chilometri di ferrovia sotterranea, raddoppiando la lunghezza attuale. La metropolitana di Shanghai si deve ampliare da 80 chilometri a 200 entro il 2010, quando la città ospiterà l’Esposizione Mondiale; entro il 2020, il piano prevede 810 km di linea, il doppio del sistema sotterraneo di Londra.

La rapida crescita della dipendenza cinese dalle importazioni di petrolio – di cui un terzo, ora, per usi automobilistici – sta causando grandi ansie riguardo alla sicurezza energetica nazionale. Il consumo di petrolio sarà senza dubbio contenuto dalle tasse, da migliori tecnologie o dall’uso di carburanti alternativi. Ma la domanda di automobili continuerà a crescere. David Thomas della Ford stima che ci siano 450 milioni di persone nella Cina orientale con un potere d’acquisto di oltre 7.000 dollari l’anno; 6.000 dollari è la soglia abituale da cui inizia a crescere la proprietà privata dell’auto.

Le perdite crescenti dell’industria, con la feroce concorrenza che rosicchia i margini di profitto, non stanno scoraggiando i produttori. Come sottolinea Mr. Thomas, “I desideri della gente, la loro capacità di comprare, i fondamentali economici del paese, non sono cambiati di molto”. La Cina si è innamorata delle macchine; e nonostante gli sforzi del governo per raffreddare gli animi, la passione brucia (e inquina) più forte che mai.

Nota: qui il testo originale al sito dell’Economist (f.b.)

Titolo originale: Government hits back at green belt “threats” – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il governo ha riaffermato il proprio impegno a conservare e estendere le greenbelts in tutte le regioni, dopo che le associazioni per la tutela della campagna hanno lanciato un appello a rafforzare le politiche in questo senso.

Lo stimolo giunge dalla Campaign to Protect Rural England, che ha pubblicato un rapporto che elenca le minacce attuali alle greenbelts. Riguardano progetti di nuovi impianti sportivi, piani di ampliamento universitario, nuovi insediamenti residenziali e proposte per estendere aeroporti.

Ma il governo afferma che le statistiche diffuse oggi (giovedì 26 maggio) illustrano chiaramente come l’impegno a riusare terreni già edificati, e a far migliore uso dei terreni edificabili, ha aiutato a proteggere la campagna e le greenbelts per le generazioni future.

Le ultime cifre rivelano che la quota di nuove abitazioni realizzate su aree già edificate si fissa allo storico livello del 67 per cento, mentre la densità media delle nuove case è aumentata a livello nazionale a 39 alloggi ettaro, dai 34 del 2003.

Un portavoce della Vicepresidenza del Consiglio ha dichiarato: “Si tratta della politica di riuso più avanzata: la nostra politica di riuso dei suoli aiuterà alla protezione delle greenbelts anziché creare sprawl urbano. È una colonna portante nei nostri programmi per le città sostenibili”.

”Abbiamo fissato chiari obiettivi per ciascuna regione britannica, per mantenere o aumentare le attuali superfici destinate a greenbelt nei piani regolatori locali, comprese le regioni che includono zone di sviluppo.

”Dal 1997 la superficie totale delle aree a greenbelt in Inghilterra è aumentata di circa 19.000 ettari – approssimativamente la dimensione di Liverpool – con un potenziale di altri 12.000 ettari nei piani regolatori locali in corso di approvazione”.

Shaun Spiers, responsabile della Campaign to Protect Rural England, afferma: “Un elemento cruciale per le greenbelts la permanenza dei margini. La politica delle cinture verdi è uno degli strumenti più efficaci a disposizione del pianificatore. Ma può diminuire di efficacia per l’imposizione dall’alto di revisioni di confine, dal parlare sconsiderato di “spostare” altrove gli spazi persi”.

Secondo la CPRE, le greenbelts “hanno dato un grosso contributo alla qualità della vita stimolando la rigenerazione, combattendo lo sprawl urbano, proteggendo le campagne”.

La CPRE ritiene urgente la creazione di nuove cinture verdi, e cita Ashford, Lincoln, Milton Keynes, Northampton, North Kent, South Essex, Teesside e Warrington come località minacciate dall’edificazion, che trarrà vantaggio dalle nuove destinazioni di zona.

Nota: qui il testo originale del comunicato, al sito ufficiale Planning Portal; ulteriori dettagli della campagna (e un interessante file PDF scaricabile, ma ahimé non editabile) al sito della Campaign to Protect Rural England (f.b.)

[Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini]

La diffusione urbana è un tema importante. Nonostante sia studiato dagli anni ’50, solo di recente è balzato all’attenzione dell’opinione pubblica. Il numero del dicembre 2000 di Scientific American ha pubblicato una ricerca sul problema. Un recente sondaggio rileva che gli americani sono più preoccupati per lo sprawl urbano e per il traffico che per la criminalità, la disoccupazione o l’istruzione: il che non è una sorpresa, per chiunque sia mai stato bloccato nel mare di traffico di un’autostrada a sei corsie.

Ma l’inarrestabile diffusione di case, centri commerciali, strade e parcheggi, ha effetti più dannosi dei ritardi dovuti al traffico. L’impatto ambientale è catastrofico. Gli habitat naturali, le zone umide e ambienti acquatici, sono stati spazzati via dappertutto. L’inquinamento idrico, e di un bisogno primario come la stessa aria, sono diventati tanto gravi da porre un concreto problema per la salute. Anche l’ispirazione delle notti stellate è andata persa in molti luoghi, a causa dello “inquinamento luminoso”.

La cosa più strabiliante è che ci sia voluto tanto tempo per svegliarci. Sono passati anni prima che le persone iniziassero anche lontanamente a diventare consapevoli del problema, e decenni per costruire un sistema di leggi e fare qualcosa di concreto riguardo ad esso. A quanto pare, l’uomo è lento a capire, e anche più lento a reagire.

Esiste una varietà di modi per risolvere il problema. Ma probabilmente uno dei principali sta nella legge da più di 3.300 anni. In una norma straordinariamente attenta, la Torah (Numeri 35:2) prescrive che le città dei Leviti debbano avere una fascia verde larga 1.000 cubiti attorno ad esse, ed altri 2.000 cubiti per l’agricoltura. Maimone spiega che queste norme si applicano per estensione a tutte le città di Israele.

In un colpo solo, questo ferma lo sprawl urbano e risolve la maggior parte dei suoi rischi ambientali. La città non può più diffondersi in modo incontrollato, il che significa che esiste un limite all’accumulazione di traffico e inquinamento. Alberi, vegetazione ed erba possono crescere, purificare l’aria, costruire un ambiente migliore per i nostri figli.

Campi aperti

Ma le norme ambientali non dovrebbero riguardare solo il lavoro degli urbanisti, Sono qualcosa che deve interessare ciascuno di noi. Questo è il motivo per cui la Torah fissa i modi che governano come ogni Ebreo deve rapportarsi a ciò che lo circonda. Secondo la tradizione, anche strappare una foglia da un albero senza motivo è proibito.

Un’altra regola della Torah, forse la più importante di tutte, stabilisce che un soldato che va alla guerra debba mettere una piccola vanga nel suo bagaglio. E no: questa piccola pala non gli serve a piantare un alberello per il Jewish National Fund. Né per scavare un canale, o migliorare il panorama. A dire il vero, non serve ad uno scopo chiaramente spirituale, o di moda ambientalista. È per scavarsi una latrina, così che le sue cose vengano sepolte e non rimangano sul terreno.

Incredibile! La Torah è un libro di religione, saggezza e spiritualità. E buttata lì in mezzo a una dissertazione sulla guerra – problema di grave significato nazionale – la Torah tratta la più bassa delle funzioni umane!

Perché? Perché la Torah insiste sul fare ogni cosa – si: ogni cosa – nel modo adeguato.

La nostra Torah è detta Torat Chaim: “istruzioni per la vita”. Ci da’ indicazioni pratiche per tutti gli aspetti dell’esistenza: dall’urbanistica alla latrina personale del soldato. Con squisita sensibilità e preveggenza, la Torah vuole farci agire in modo responsabile.

È un bene, che il mondo stia diventando più attento su questi problemi. Ma è una vera vergogna che ci sia voluto tanto tempo. Prima di sbandare fuori controllo, con le nostre capacità tecnologiche e i successi industriali, dovremmo mangiare un boccone di umiltà, e guardare alla saggezza che ci viene impartita dalla tradizione ebraica.

Nota: qui il testo originale al sito di Aish (f.b.)

Titolo originale: Renaissance of the traditional city – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Sprawl” è un termine di origine americana, che riassume un problema complesso, una minaccia per la vivibilità a lungo termine delle città in tutto il mondo. Lo sprawl è indotto dall’ubiquità del trasporto a base di petrolio, ma è anche il risultato di un secolo di pensiero sconnesso, cartesiano, sulle città: il pensiero modernista, sempre più screditato. Negli ultimi cinquant’anni, i complessi autonomi per uffici e commercio, i sistemi residenziali a culs-de-sac, i grandi magazzini, ipermercati, superstrade, hanno ricoperto la maggior parte d’Europa, diventando un’esperienza di vita quotidiana.

Gli urbanisti e studiosi europei hanno riconosciuto da lungo tempo nello sprawl una questione difficile, ma sinora è stato fatto poco, e il problema non è ai primi posti nella coscienza collettiva. Al contrario, negli Stati Uniti, commentatori e organizzazioni conducono continui attacchi allo sprawl, portandolo alla ribalta del dibattito pubblico. Un gruppo a larga base che comprende urbanisti, architetti, costruttori, ambientalisti, cittadini dietro la bandiera del “ new urbanism” lavora con impegno per sviluppare soluzioni pratiche a questo problema. Il movimento si concentra sulla progettazione fisica e l’azione pratica sostenuta dall’impegno pubblico, e ha fatto rapidi progressi, conquistandosi quasi il 5% del mercato, molto vasto, delle costruzioni in USA nel suo primo decennio. Obiettivo del movimento è quello di ridurre la dipendenza dal petrolio nel settore dei trasporti. Non è nostalgico, né romantico, ma basato su una posizione teorica di principio. Esaminiamo per prima cosa quanto stanno realizzando ora.

Nel mondo specializzato dell’urbanistica modernista, le zone commerciali sono separate da quelle residenziali, queste dagli uffici, questi dalle industrie, e via di seguito. Le regole dell’ingegneria del traffico proibiscono di creare reti stradali interconnesse. Questo tipo di insediamento è sostenuto da uno zoning dove i “baccelli” industriali – le zones industrielles di Francia o gli industrial estates di Gran Bretagna – sono fisicamente separati dai luoghi dove vivono le persone. L’effetto complessivo di queste decisioni – una per una difendibili in base a criteri internamente coerenti – è di incrementare notevolmente la quantità e distanza degli spostamenti richiesti per la vita quotidiana, sia a piedi che in macchina.

L’origine di questa continua separazione tra funzioni può essere rintracciata, credo, nei successi del XIX secolo coi miglioramenti della salute pubblica attraverso nuove tecnologie, a partire dalla separazione delle reti idriche dalle fogne. Ciò alimenta la paranoia sulla pulizia – “vicina alla divinità” in un aforisma britannico – sul lindore e l’ordine.

L’urbanistica adotta subito l’autorità insita nell’approccio razionalista e “scientifico”. Gli esperti cominciano a definire le proprie aree di competenza, e l’approccio generalista si restringe. Si fanno analisi della densità residenziale, dei flussi di traffico, sulla salute e l’occupazione, prima in forma di studi, poi di norme. I vari esperi iniziano a tentare di razionalizzare la forma urbana – l’espressione più alta della diversità e complessità della vita umana – nei termini semplicistici possibili in presenza di strutture concettuali limitate e controlli rudimentali.

La diffusione di un gran numero di automobili porta alle discipline dell’ingegneria del traffico, dapprima negli USA e in Germania, poi altrove. Gli ingegneri del traffico applicano un pensiero cartesiano semplificato a problemi di flusso di traffico entro sistemi complessi come intere città. Coi limiti della matematica classica, ciò significa equazioni di base. Non era possibile quantificare i flussi in una rete sofisticata, e così il sistema fu immaginato come una serie di baccelli autosufficienti. Dall’analisi, il passo fu breve verso una progettazione stradale molto semplificata e diagrammatica. I flussi di traffico potevano essere quantificati, e ciò significava certezze in un mondo litigioso.

LA PIANIFICAZIONE AUTO-DIPENDENTE si basa sull’assunto di un uso del petrolio chiaramente insostenibile nel lungo periodo. La produzione di petrolio ha ora raggiunto un picco, e ci si aspetta una graduale diminuzione nel XXI secolo. Chiaramente, le città e regioni che dipendono dall’automobile privata probabilmente ne soffriranno, man mano i trasporti diverranno più costosi. Molte famiglie a basso reddito nelle periferie urbane – al di fuori del raggio di accessibilità pedonale ai servizi – che devono possedere e mantenere una o più auto per gestire la propria vita quotidiana, verranno ridotte in povertà.

Il dominio di una pianificazione auto-dipendente si rivela attraverso le attuali statistiche degli spostamenti, che mostrano come l’automobile privata sia il principale mezzo di trasporto nelle aree urbane d’Europa, nonostante venga compiuta una molto più alta percentuali di movimenti a piedi e in bicicletta che negli USA. Non esiste una sola spiegazione, per questo, ma si deve presumere che il motivo principale sia la sopravvivenza delle rete di strade a percorribilità pedonale nei centri delle città tradizionali europee. A differenza delle degradate inner cities degli USA, i centri città d’Europa sono in gran parte ben popolati, anche se soprattutto da ceti ad alto reddito.

La maggior parte delle urbanizzazioni nel mondo d’oggi consiste in sprawl suburbano, o in quanto è conosciuto negli USA come conventional suburban development (CSD). Non si tratta della risposta naturale ad una libertà di scelta – come sostengono alcuni critici, come l’ubiquo Randall O’Toole del Thoreau Institute – ma piuttosto il risultato di una pianificazione frammentata e irregimentata, e di un processo di costruzione edilizia dominato dalla cultura tecnocratica degli specialismi.

Il CSD si afferma in assenza di un chiaro consenso sui modi futuri dello sviluppo. Il processo parte con costruttori che acquistano terreni agricoli in una zona accessibile, anche se non è destinata all’edificazione. Negli USA, abitualmente vengono ricercati siti nei pressi delle strade di comunicazione, anche quando non contigui ai confini urbani. La pianificazione inizia caratteristicamente con uno studioso di scienze ambientali che individua quali zone naturali debbano essere conservate per la tutela delle specie rare e degli habitat. Poi arrivano gli ingegneri del traffico, che seguono criteri quasi-scientifici per i flussi e le necessità di parcheggio, sulla base degli scenari peggiori possibili fissati per legge, sulla base di ricerche limitate e datate. Seguono poi i geometri, che definiscono il numero massimo di lotti di dimensione minima consentiti dalle norme residenziali del piano regolatore. Infine, vengono i costruttori dei volumi edificati, coi loro progetti da collocare nei vari lotti seguendo alcune regole per gli arretramenti sul fronte e sui lati fissate dalle norme urbanistiche, e realizzando parcheggi nelle quantità richieste dalle norme, o dal mercato. Negli USA ciò significa un’auto per abitante, e le abitazioni col fronte interamente occupato dalle aperture per le automobili – le cosiddette “ snout-houses” [case a grugno n.d.T.] sono la norma. Chi costruisce uffici realizza lo office park, ad una certa distanza dalle residenze, e altri costruttori commerciali la zona industriale, separata in modo simile. L’intero sistema di solito è finanziato dai gestori dei fondi pensione, che hanno poco interesse per il prodotto realizzato.

Nel sistema CSD le case, gli uffici, i negozi, le fabbriche e le scuole, sono tutti rigidamente segregati, col proprio sistema stradale che si collega soltanto alla viabilità principale. La rigida separazione delle funzioni e il sistema stradale chiuso così prodotti, significano percorrere lunghe distanze per le necessità della vita quotidiana. La maggior parte degli spostamenti sono in automobile, dato che poche persone si prendono la briga di camminare sulle lunghe distanze determinate dai culs-de-sac e dal sistema stradale gerarchico, o attraverso gli squallidi ambienti pedonali caratteristici del CSD. I genitori (di solito le madri) diventano taxisti dei figli.

COME POSSIAMO RIVOLTARE questo sistema tanto massicciamente consolidato? È inevitabile, che le nostre città e cittadine diventino sprawl? Alcuni architetti e urbanisti pensano di no, e stanno traendo insegnamento della struttura delle città tradizionali.

Molto di questo discende, credo, dal movimento per la conservazione urbana. La conservazione è un concetto che ha le proprie origini nelle prime manifestazioni del pluralismo illuminista. Gli architetti del Rinascimento italiano erano certi che i propri edifici fossero superiori a quelli del Gotico. Ma già gli osservatori Tories del diciassettesimo secolo spesso lamentavano la modernizzazione delle case medievali, e nel XVIII secolo era in corso di diffuso ripensamento il valore degli antichi monumenti. In questo periodo, chiudendo un ciclo iniziato col Rinascimento, si cominciano talvolta a restaurare e mantenere le cattedrali Gotiche secondo uno stile attento anziché contrastante.

Il ritmo avanzante delle nuove costruzioni e ricostruzioni negli anni di boom dopo il 1840 spinge altri a riconsiderare il senso degli interventi nelle città storiche. William Morris sosteneva come: “ È stato detto molto giustamente che ... questi vecchi edifici non appartengono solo a noi; che essi sono appartenuti ai nostri antenati e che apparterranno ai nostri discendenti, a meno che non li tradiamo. Non sono in alcun modo una nostra proprietà, di cui fare ciò che volgiamo. Siamo solo custodi, per quelli che verranno dopo di noi”.

È un passo concettuale importante, di grande influenza sugli atteggiamenti della conservazione. Ma si tratta essenzialmente di un punto di vista modernista, che suggerisce un solco insuperabile fra “allora” e “oggi”.

Dal 1882 viene conferito status legale a individuati monumenti antichi in Gran Bretagna, secondo una procedura gradualmente emulata in altri paesi, all’inizio solo per edifici di notevole antichità. Gli edifici danneggiati dalla guerra vengono restaurati anziché ricostruiti nella maggior parte delle città europee nel dopoguerra: conservazione e ricostruzione sono una cosa sola. Anche quando si intraprendono ampi processi di demolizione e ricostruzione, i monumenti importanti vengono conservati. La chiesa di St Giles è conservata a rappresentare il centro del Barbican nella Londra 1959-79 e la Marienkirche è abbandonata al centro della Alexanderplatz nella Berlino del 1965. Ma si nota da subito come il valore di questi edifici isolati sia molto diminuito dalla rimozione del loro contesto storico.

La Carta di Venezia del 1964, redatta dalla International Conference on Monuments and Sites (ICOMOS), fu rivoluzionaria per il proprio tempo, in quanto impegno alla conservazione da parte della maggioranza delle nazioni. In Francia, André Malraux iniziò a dichiarare intere città zone di conservazione. Ma le proposte della Carta contenevano la richiesta di una soluzione di continuità, fra gli elementi storici di un edificio e le parti nuove. Era una clausola scritta con buone intenzioni, ma ebbe conseguenze inattese e su scala enorme. Fu immediatamente interpretata dagli architetti modernisti a significare che i nuovi edifici, e le addizioni a quelli tutelati, non dovessero armonizzarsi o fondersi con l’esistente, ma dovessero essere progettati in deliberato contrasto.

Alla fine del XX secolo, l’attivismo dei cittadini contro la demolizione e ricostruzione su larga scala, porta alla richiesta generale di sostituire il sistema della tutela isolata con un approccio più ampio, che sottolinei la continuità dei quartieri storici. È una significativa rottura con il concetto moderno dell’edificio come affermazione individuale: ora è il “tessuto” urbano ad essere visto come composto da molte parti contribuenti. La forza dell’opposizione alla pianificazione modernista porta in qualche modo ad una crisi il mondo degli architetti. Nel corso degli anni ’70, la realizzazione di gruppi di edifici vagamente tradizionali attorno a monumenti tutelati – come nel caso di Nikolaiviertel 1977-87 a Berlino – può essere una risposta a tale crisi.

Nel frattempo, alcune linee guida per la progettazione di quelli che saranno poi conosciuti come edifici “ infill” nelle aree di conservazione orientano gli architetti a adottare determinati allineamenti, altezze, sistemi di finestre, colori, materiali, forme delle coperture negli edifici adiacenti. In molte città, norme dettagliate chiedono che questi edifici interstiziali siano deliberatamente non invasivi, in modo da enfatizzare gli edifici storici “autentici”.

QUANDO LAVORAVO COME consulente del governo per la tutela storica nei primi anni ’90, mi venne chiesto di applicare la Carta di Venezia. Molti richiedenti autorizzazioni edilizie, dopo aver letto le linee guida, presentavano entusiasti un progetto che era una ragionevole parafrasi di un edificio tradizionale. Dovevamo risponder loro che non era consentito imitare i particolari storici, tranne che in modo semplificato. Non sorprese, la reazione perplessa dei richiedenti, che trovavano difficile capire come mai, se gli edifici esistenti erano tanto belli da essere tutelati, non fosse una buona cosa aggiungerne dei simili.

Per molti architetti lo infill building era la prima occasione in cui veniva loro richiesto di seguire norme di progettazione urbana, e di costruire entro un determinato ambito. Molti trovarono in quell’esperienza un momento di crisi, perché diventava chiaro come i loro sforzi si confrontassero ad un livello inferiore rispetto alle preesistenze storiche. Alcuni si ribellarono contro quelle che vedevano come le pastoie della progettazione entro un contesto sensibile. Altri presero il contesto come uno stimolo, dedicando più tempo allo studio dell’architettura tradizionale regionale. Molti, in questo secondo gruppo, iniziarono a mettere in discussione il livello della propria modesta formazione, e a diventare architetti tradizionali a tempo pieno.

Per altri architetti e urbanisti, queste norme rappresentavano un affronto. Per l’architettura modernista è centrale credere in una autentica affermazione di contemporaneità. Baudelaire definiva la condizione essenziale della modernità – il modernismo – come risposta consapevole all’effimero, al fugace, al contingente: quello che più tardi Foucault chiamerà “l’aspetto eroico del momento presente”. Per Bauldelaide, ha scritto Foucault, la modernità “non è un fenomeno di sensibilità al presente fugace; è la volontà di eroizzare il presente”. Questa convinzione presuppone che l’architettura tradizionale non sia uno stile contemporaneo valido, una posizione che, credo, rifletta un’immagine naïve e teleologica della storia dell’arte e dell’architettura. Quello che è certo è che la domanda di novità diventa un peso per l’architettura moderna, quando le possibilità di nuovo si esauriscono nel manierismo degli anni ’70.

IL POST-MODERNISMO PONE una critica epistemologica al modernismo che si colloca esternamente a questa triangolazione. Per un post-moderno, l’architettura moderna in sé è soltanto un altro stile storico, e non una inevitabile risposta alla domanda di contemporaneità. Nell’architettura dei tardi anni ’70 sono visibili i primi elementi architettonici deliberatamente presi a prestito da classico e da altre tradizioni. Inizialmente, i vari elementi sono utilizzati con atteggiamento manierista rispetto alle regole compositive, come nell’opera di Venturi & Rauch, Rossi, Tigerman, Stirling o Farrell. Più tardi insieme all’evidente entusiasmo per un linguaggio riscoperto vengono lavori più impegnati, del tipo descritto dall’architetto britannico Robert Adam come “continuità educata”. Questo mette in discussione l’idea della Carta di Venezia, del contrasto nelle città tradizionali.

L’atteggiamento del “ perché no?” che imbeve l’architettura dei tardi anni ’80 fa sembrare l’implicito “ perché?” del modernismo fuori moda e senza speranza. Allo stesso tempo, il riduzionismo cartesiano e le matematiche newtoniane che avevano sostenuto il modernismo si trovano sotto attacco da parte della nuova matematica della complessità, che rende possibile compiere analisi di reti altamente complesse sino alla scala della città tradizionale. La nuova matematica offre una comprensione teorica all’emergere di strutture molto complesse ma ordinate, costruite a partire da un numero molto limitato di semplici “cellule” o elementi. Ciò può spiegare la natura frattale della città tradizionale, con le sue riproduzioni dei medesimi elementi lungo una gamma di dimensioni, e il suo paesaggio complesso costituito dalle repliche non-identiche degli elementi semplici. La città tradizionale, in quanto governata da queste strutture semplici ma complesse, è vista dal matematico e filosofo Nikos Salingaros come un fenomeno profondamente “naturale”, formato attraverso processi quasi-biologici. Al contrario, l’ordine gigante della città modernista è essenzialmente non-vivo, ciò che Salingaros chiama “la geometria della morte”.

L’interesse per la ricostruzione della città europea inizia con una serie di progetti teorici pubblicati dai fratelli Krier nei tardi anni ’70. Contemporaneamente, il lavoro di Christopher Alexander, A Pattern Language del 1977 – un’approfondita riflessione sulla progettazione tradizionale – trae spunto dagli studi sull’architettura vernacolare, e si dimostra di grande influenza. Il movimento trova sostegno nel maggio 1984 col discorso del Principe di Galles al 150° anniversario del Royal Institute of British Architects. L’aspra critica all’architettura modernista che costituisce il cuore della relazione è ampiamente riferita in tutto il pianeta. Ma il discorso è pronunciato nel contesto di un dibattito molto più ampio sul futuro delle città. No sembra una coincidenza, che si tratti anche dell’anno in cui Duany e Plater-Zyberk (DPZ, pronuncia: DeePeeZee) iniziano a lavorare sul nuovo centro vacanze di Seaside in Florida.

Andres Duany ha spiegato di recente che la sua comprensione del valore dell’urbanistica tradizionale segue un discorso di Léon Krier. Duany all’epoca lavorava per Arquitectonica, uno studio di Miami noto negli anni ’80 per i suoi enormi edifici ad appartamenti a colori vivaci, che mostravano una varietà di decorazioni flamboyant derivate dall’opera dei costruttivisti russi.

Duany ricorda di essere stato offeso, all’inizio, dall’insistenza di Krier sullo scarso valore del modernismo, e poi di aver sofferto gli spasimi del dubbio mentre si rendeva conto che il suo lavoro sino ad allora era stato, per usare le parole di Krier, una perdita di tempo. Poco dopo, Duany abbandona lo studio e con la moglie Elizabeth Plater-Zyberk fonda DPZ, uno studio di architettura e urbanistica di grande influenza.

Nei primi anni ’80, a DPZ si rivolge Robert Davis, un costruttore della Florida la cui famiglia è proprietaria di un tratto di costa nella zona della panhandle [ il “manico di padella”, dove la penisola della Florida si unisce al continente, ai confini con l’Alabama n.d.T.], per realizzare un complesso tradizionale per le vacanze. DPZ propone di trarre spunto dai villaggi della regione, dove gli abitanti utilizzano verande aperte sul fronte come sollievo dal caldo della sera, e camminano a piedi nudi sino alla spiaggia lungo sentieri di sabbia che scorrono tra le case. La realizzazione che ne deriva, è organizzata su un sistema radiale di strade attorno a una piazza centrale ottagonale, percorsi pedonali sabbiosi fra le case che conducono alla spiaggia, e con una serie di rigide norme a regolamentare le costruzioni e a incoraggiare tipi di abitazioni più aperti.

Il piano DPZ comprende una miscela densa di case singole tradizionali e piccoli edifici ad appartamenti su singoli lotti. A controllare l’insediamento, una serie di norme progettuali che coprono vari elementi, dalla copertura del suolo alle proporzioni delle finestre. I passaggi carrabili e i garages vengono tolti dal fronte stradale, introducendo un sistema di corsie d’accesso sul retro. Non ci sono ristrettezze riguardo agli stili, e le norme del villaggio consentono sia edifici modernisti che tradizionali, posto che si adeguino alle dettagliate linee progettuali. Alcuni edifici chiave, ad ogni modo, sono organizzati secondo una gamma di stili eclettici più controllata. Nel corso della realizzazione, il progetto genera parecchie imitazioni, compresa una a Coolum in Australia che copia anche il nome. Al momento, è in corso di costruzione il complesso adiacente di “Watercolour”. Duany è filosofico, e ha osservato di recente che spesso le località di vacanza di successo hanno costituito storicamente il nucleo di una città.

L’idea di Duany è quella di codificare le basi dei progetti di Krier per la città europea entro una serie di norme, che possano essere utilizzate dal progettista o burocrate medio, e influenzare così la gran massa della produzione edilizia, con cui gli architetti hanno poco a che fare. I documenti urbanistici che ne risultano comprendono un piano regolatore generale tipo, norme di progettazione edilizia, e abachi di schemi progettuali. Questo tipo di approccio si è dimostrato un successo, e il metodo è in corso di veloce perfezionamento e sviluppo.

Sulla costa occidentale USA, il lavoro di Peter Calthorpe su quelli che chiamerà “ transit-oriented developments” (TOD) fissa un paradigma di centri urbani compatti organizzati attorno a fermate di trasporto pubblico (treno o tram), che sarà egualmente influente. Alcuni di questi modelli fanno rivivere le grandi geometrie urbane del movimento “ city beautiful” animato dall’urbanista di Chicago Daniel Burnham, mentre altri hanno un’atmosfera più vernacolare. Le ricerche effettuate negli insediamenti realizzati sinora indicano che gli abitanti dei TOD, anche se continuano a tenere le automobili, si spostano molto di più a piedi.

Nel Regno Unito, il Duca di Cornovaglia si sta realizzando dal 1990 Poundbury, un significativo ampliamento della città di Dorchester, progettato da Léon Krier e Alan Baxter Associates. Poundbury attinge dall’architettura vernacolare del Dorset per produrre un paesaggio urbano altamente scenografico ad una densità almeno doppia del sobborgo britannico. Più del 20% delle abitazioni a Poundbury sono per famiglie a basso reddito, affittate dal Guinness Trust, e distribuite in modo indistinguibile fra le altre abitazioni in vendita o in affitto a contratto di mercato. Le nuove abitazioni a Poundbury sono vendute a prezzi medi se paragonati a complessi simili in Dorchester. Come a Seaside, i parcheggi sono collocati sul retro degli alloggi, accessibili da un cortile secondario. L’insediamento utilizza in sistema intelligente di strade per limitare la velocità dei veicoli a 20 km l’ora, senza l’uso di ingombranti segnalazioni.

Quando Poundbury fu presentato per la prima volta nel 1992, fu ridicolizzato dalla stampa specializzata in architettura del Regno Unito, a causa dello stile tradizionale degli edifici. Fu utilizzato qualunque insulto potesse adattarsi all’architettura tradizionale, mentre il progetto arrancava nelle paludi a metà anni ’90. Da allora, in un mercato migliore, il complesso si è dimostrato decisamente un successo. Ha avuto una critica favorevole nel “ rinascimento urbano” di Richard Rogersdel 1999 – anche se non ne sono state inserite illustrazioni – e da allora è citato come progetto modello dall’istituzione britannica responsabile per l’urbanistica, l’ufficio del vicepresidente del consiglio (ODPM).

Un elemento chiave di tutta l’urbanistica tradizionale è il coinvolgimento pubblico, attraverso un percorso di pianificazione partecipata conosciuto col termine “ charrette”. In una charrette, un gruppo di architetti e urbanisti lavora direttamente insieme a rappresentanti dei residenti, a politici e burocrati. Chi partecipa è incoraggiato a mettere le cose nero su bianco, con l’obiettivo di sviluppare un piano di massima vincolante. La tecnica si è dimostrata di grande successo per risolvere conflitti complessi e inaffrontabili fra costruttori e residenti. È anche un modo utile per sollecitare il sostegno pubblico alle proposte di piano. Nel Regno Unito, lo ODPM ha di recente raccomandato che tutti i principali progetti prevedano una charrette, o “ enquiry by design” come viene chiamata qui. Le norme progettuali prodotte da queste consultazioni sono molto popolari fra gli abitanti, dato che costituiscono un modo efficace per controllare e verificare via via lo sviluppo del quartiere. Ma spesso non sono altrettanto popolari fra i proprietari immobiliari, che le vedono come un’interferenza nei diritti privati.

NEI PRIMI ANNI ‘90, in collaborazione con un piccolo gruppo di colleghi, DPZ inizia a tenere conferenze di urbanistica. Questa nuova enfasi sulla costruzione della città viene presto denominata“ new urbanism”. Nel 1994, DPZ fa parte del gruppo fondatore del Congress for the New Urbanism (CNU). Il CNU si organizza attorno a una Carta della nuova urbanistica, un programma in dodici punti per la rifondazione dell’urbanistica negli Stati Uniti.

In Europa, il movimento inizia a formarsi nella carica emozionale del mondo delle costruzioni a metà del XX secolo, quando l’insoddisfazione per i distruttivi interventi modernisti nelle città storiche si cristallizzano nella protesta pubblica. A Bruxelles a partire dal 1959, il costruttore Charles Depauw e il politico locale Paul Vanden Boeynants cominciano un processo di grandi demolizioni nello storico Quartier Nord, con l’intenzione di sostituire al quartiere tradizionale isolati di torri corbusieriane e superstrade. Il piano è ampiamente condannato e il termine “ Bruxellizzazione” diventa il simbolo del movimento per la conservazione urbana. Una proposta simile, per radere al suolo l’amato Covent Garden di Londra, viene sconfitta nel 1968. Parigi non è altrettanto fortunata, e i soixante-huitards non riescono a salvare Les Halles (demolite nell’agosto 1970) o a impedire la costruzione dell’odiata superstrada est-ovest sulle rive della Senna.

NEGLI INSEDIAMENTI TRADIZIONALI, sono gli stessi edifici a definire la strada. Il motivo di questo insediamento compatto è chiaramente l’alto prezzo dei suoli a breve distanza dal centro città. Oltre questa distanza, i valori dei suoli cadono sino ad un livello al di sotto del quale i terreni vengono raramente utilizzati in pieno. Questa è una caratteristica di tutta l’urbanizzazione umana, definita dalla distanza che si è disponibili a percorrere a piedi in modo regolare, circa 400 metri, o cinque minuti di passeggiata. Le città tendono a svilupparsi secondo una serie di vicinati o “quartieri urbani” di circa 800 metri di diametro, o 40 ettari. Gli studi sulle città tradizionali in tutto il mondo dimostrano l’ubiquità di questo schema. I confini dei quartieri di solito non sono definiti fisicamente, ma i loro centri – che caratteristicamente contengono una chiesa, una sala comune, un mercato, una scuola e altri spazi pubblici- si trovano l’uno a circa 800 metri dall’altro. Questo sembra essere un fattore relativamente costante dell’urbanizzazione umana, definito dai limiti stessi del nostro corpo.

La nuova urbanistica tradizionale cerca un ritorno ad una forma urbana in cui le necessità quotidiane trovino risposta ad una distanza pedonale dalle case, dagli uffici, seguendo questo principio elementare. In modo simile, è necessario un sistema interconnesso di strade a ridurre al minimo le distanze pedonali fra tutti i punti del quartiere urbano, dato che non possiamo pensare di prevedere dove tutta questa gente vorrà andare. Sembra un aspetto ovvio, ma è quello che manca nel sistema neuronico di circolazione del Conventional Suburban Development CSD. I due elementi – il quartiere di 40 ettari e il sistema stradale interconnesso – sono caratteristiche fondamentali di tutta l’urbanistica neo-tradizionale. La “ walking city” del nuovo urbanesimo non è una fantasia modernista di controllo, ma un principio che conferisce dignità e mobilità a persone giovani e vecchie, ricche e povere.

LE CITTÀ DIFFUSE DIPENDENTI DALL’AUTO sviluppate nel periodo del dopoguerra possono già essere viste come fallimenti dal punto di vista economico, nelle zone periferiche dell’Europa. La conurbazione di Glasgow, per esempio, un luccicante paradigma di pianificazione modernista – alte torri dentro a parchi verdi, l’ultimo piano autostradale urbano europeo, se non del mondo – ha perso un terzo della sua popolazione negli ultimi trent’anni. La non percorribilità a piedi e l’assenza di luoghi nelle città diffuse dipendenti dall’auto le rende incapaci di attirare i giovani professionisti considerati importanti in quanto generatori di nuove attività economiche. Per contro, le zone dove le reti di strade pedonali sono state conservate, sono sopravvissute per migliaia di anni. I principi dei nuovi urbanisti tradizionali sul sistema permeabile di reti stradali a base di quartiere di dimensioni percorribili a piedi può essere applicato con risultai positivi a risolvere molti dei problemi introdotti nella città europea dall’ingegneria del traffico e dall’urbanistica dello zoning.

LA SOLUZIONE DEL PROBLEMA DELLO SPRAWL– che ha impiegato la maggio parte del secolo scorso a costruirsi – sarà una questione fondamentale per i governi locali e nazionali del secolo entrante. Non abbiamo scelta, visto che il petrolio sta finendo, e alternative come l’idrogeno o le celle solari sembrano in grado di prolungare il sistema solo per un periodo limitato, e ad alti costi. Il principio di connettività implicito nelle reti pedonali, sostenuto da una chiara definizione degli ambiti pubblico e privato, offre la massima opportunità per la realizzazione di una serie di singoli percorsi, e collegamenti, necessari allo sviluppo delle vite individuali.

I problemi a cui si trovano di fronte le città del mondo sono, abbastanza ovviamente, diversi, ma la loro sostenibilità è minacciata in tutti i casi dall’ubiquità dell’insediamento dipendente dell’automobile. Le regioni europee con forti economie industriali sono diventate quelle con i peggiori paesaggi di sprawl auto-dipendente. Economie regionali basate sugli stretti rapporti fra gruppi di piccole imprese, che possono contare quasi senza eccezione sul trasporto stradale per il movimento di materie prime e prodotti. La loro localizzazione nello sprawl monofunzionale obbliga la maggior parte dei loro dipendenti a spostarsi in automobile da e verso il posto di lavoro.

Ma l’epoca industriale in Europa si sta già avvicinando alla fine. Il nord dell’Inghilterra, il nord della Francia, la gran parte del Belgio, la Ruhr in Germania ele zone industriali dell’Europa dell’Est sono già in serie difficoltà. In Veneto, nella valle del Po, nel bacino di Parigi, in Olanda, nel Sud-Est di Inghilterra, nelle valli alpine della Svizzera, in Austria, in Francia e in Italia, e intorno e innumerevoli altre città europee, sono in attiva costruzione i paesaggi dello sprawl. Le città che perdono popolazione stanno al contempo espandendosi in dimensione fisica.

Il futuro dell’Europa dello sprawl, con le sue reti stradali scollegate, gli spazi auto-dipendenti e poco attraenti, appare poco credibile sui tempi lunghi. I centri storici delle città europee sono robusti e sostenibili, come appare chiaro dalla loro grande longevità, ma i danni del XX secolo alle loro reti stradali pedonali richiedono un attento ripristino per sopravvivere. Per contro, i paesaggi delle periferie e zone ad economia debole – la Francia centrale, parte della Spagna, l’ovest di Inghilterra e Galles, le aree agricole dell’Europa dell’Est – mantengono insediamenti compatti, reti stradali coerenti, uno sprawl urbano minimo, e hanno un grande potenziale per uno sviluppo urbano sostenibile nel futuro.

L’URBANISTICA TRADIZIONALE è un sistema complesso di parti semplici, che possono essere combinate per produrre un’infinita varietà di spazi urbani – che può essere facilmente riprodotto. È così resistente e adattabile che le città tradizionali sono state più o meno continuamente abitate per circa 2 millenni. È abbastanza lineare da poter essere insegnata facilmente, e abbastanza semplice da essere compresa e adattata da generazioni successive. In più, i singoli elementi dell’urbanistica tradizionale – abitazioni e altri edifici – sono costruiti con materiali semplici che, anche se non sono particolarmente duraturi, possono essere prontamente sostituiti con materiali facili da trovare o da produrre, utilizzati da migliaia di anni. Modificazioni progressive di piccoli elementi non hanno danneggiato la vitalità del tutto.

Ci sono segnali incoraggianti riguardo alla ripresa delle vita urbana come aspirazione ideale fra i giovani di tutto il mondo. Questa generazione deve a quelle future il dovere di costruire città che siano sostenibili quanto quelle che abbiamo ereditato dal passato.

Nota: qui il link al testo originale (e con le note bio-bibliografiche) al sito della rivista Axes (f.b.)

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