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Novant’anni compiuti pochi mesi fa; una vita vissuta certo «pericolosamente» (sempre all’opposizione di ogni potere costituito), ma anche piena di grandi soddisfazioni, perfino quelle planetarie come il premio Nobel; sempre impegnato a intrecciare l’arte con la politica in modo che si rafforzassero e motivassero l’una con l’altra, per generazioni sempre nuove di spettatori.

Un impegno che, come la padronanza di linguaggi artistici diversi (dalla recitazione alla scrittura al disegno, con studi originari di architettura e di belle arti a Brera) era a tutto campo. E il fatto non marginale di essere l’autore italiano contemporaneo più rappresentato al mondo. È stato davvero un uomo da record Dario Fo, morto ieri a Milano. Aveva appunto 90 anni (nato il 24 marzo del 1926 in provincia di Varese) che certo potevano trasparire a vederlo fuori dal palcoscenico, mentre scomparivano del tutto nella grinta che lo possedeva quando era in scena, ancora pochissimi mesi fa sotto il cielo dell’Auditorium romano per migliaia di spettatori. O negli interventi appassionati e virulenti, anche recentissimi, contro chi attaccava i 5 Stelle per i quali si era schierato.

Il suo sodalizio con Franca Rame (figlia d’arte, bellezza strepitosa e vamp del teatro brillante), nato nei primi anni ’50, ha costituito un unicum nella storia culturale del nostro paese. Ne ha attraversato tutti i settori, sempre con una maestria (e un affiatamento tra loro) che faceva stupire solo chi li invidiava, in un orizzonte sempre più vasto, che dal teatro comico si è allargato alla musica e alle canzoni con Jannacci o Fiorenzo Carpi (entrate nei modi di dire del linguaggio comune), alla commedia musicale e al kolossal (i titoli apparentemente astrusi che riempivano l’Odeon a Milano e il Sistina a Roma), e ancora l’affondo nella canzone popolare naturalmente schierata, con il pubblico tradizionale prima sconcertato e poi affascinato dalle melodie di Ci ragiono e canto, che raccoglieva le meglio voci da piazza e da cortile di tutta Italia. Fino alla grande svolta degli anni attorno al ’68, se svolta si può dire.

Perché già tutta la loro storia era stata «schierata» e manifesta: dal Dito nell’occhio che lui con Franco Parenti e Giustino Durano infilava nelle visioni credulone che immaginavano facile la rinascita del dopoguerra, alle commedie brillanti che già dal titolo non la contavano giusta: Settimo ruba un po’ meno, Chi ruba un piede è fortunato in amore, Isabella tre caravelle e un cacciaballe ovvero Cristoforo Colombo a rapporto col potere, La signora è da buttare, che alludeva neanche a dirlo alla strapotenza americana.

In compenso ebbero una sorta di proscrizione nazionale, sul palcoscenico già molto politicizzato della Rai. Chiamati a condurre la Canzonissima del 1962, furono cacciati e radiati per molti anni dalle trasmissioni televisive: si erano ostinati a voler parlare di morti sul lavoro. E ottennero di essere censurati per motivi squisitamente politici (fino a quel momento era successo solo per motivi «morali», se non letteralmente sacramentali, da Mina a Pani, da Volonté alla Gravina). Dario e Franca torneranno sul piccolo schermo soltanto a Rai riformata, nel 1977, quando sul secondo canale andò in onda Mistero buffo, con un boom di ascolti.

Poi sono stati protagonisti di molte serate importanti: ancora in queste settimane su Rai5 Fo legge le grandi opere d’arte, prima tra tutte la pittura rinascimentale, dando inusitate chiavi di lettura, e aprendo scenari e intrecci davvero affascinanti. Un episodio che forse qualcuno non ricorda, a fine anni ’80 nel remake dei Promessi sposi sceneggiati, è il suo azzeccatissimo Azzeccagarbugli, in un cast stellare che andava da Burt Lancaster a Helmut Berger.

Si era aperta alla fine degli anni ’60 la fase del loro teatro che li ha portati nella storia civile del nostro paese, e nei botteghini di tutte le sale del mondo. Con tutto il loro bagaglio di tecniche artistiche (tempi, canto, mimica, commedia dell’arte), scelsero di farlo ardere assieme alla loro coscienza civile. Lo facevano da sempre, ma c’era necessità di trovare nuove forme e nuovi spazi dove quella scintilla scoccasse contemporaneamente anche nel pubblico. Fuori quindi dai teatri e dai circuiti ufficiali, con la loro gloriosa Comune teatrale disegnarono una vera mappa altra dei luoghi di spettacolo nelle città. Ancora adesso, chi allora c’era, può continuare a ripercorrere quelle serate eroiche in cui ci si ritrovava in migliaia: cinema di periferia, capannoni abbandonati, strutture che andavano in degrado.

E si imparava a ridere anche dentro i ragionamenti più maledettamente seri. L’ironia e la satira di Fo e Rame non avevano limiti, ma neanche la loro umanità. Solo con i loro spettacoli era possibile capire, davanti ai muri e ai depistaggi alzati dalla magistratura e dai servizi, quello che poteva esserci dietro a la strage di piazza Fontana, o gli attentati sanguinari ai treni e alle stazioni. Quegli spettacoli così «teatrali» eppure così civili quanto a impegno, hanno costituito un fenomeno unico nel 900 italiano, e non solo, in un insuperato mix di farsa e Brecht, di surrealismo e tradizione medievale. Tanto da arrivare al verdetto della giuria di Stoccolma, nel 1997, che in una stringata sintesi racchiudeva per il Nobel il segreto di quella sterminata profusione artistica: «Nella tradizione dei giullari medievali, fustiga i potenti e ridà dignità agli oppressi».

E non c’è stato campo cui quella artistica magia non si sia applicata. E ogni titolo può evocare tanti sorrisi quanto altrettanti pensieri e ragionamenti: Mistero buffo innanzitutto, nelle sue innumerevoli riscritture; il programmatico L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone; il sempre attuale Morte accidentale di un anarchico ovvero Giuseppe Pinelli; Fedayn; Pum pum chi è? La polizia; Non si paga non si paga; Il Fanfani rapito, irresistibile; L’opera dello sghignazzo; Tutta casa letto e chiesa, nato dal dolore e dalla violenza, veri, subiti da Franca e divenuti manifesto di tutte le donne. Tanti titoli (e ce ne sarebbero tanti altri), che alleviano la commozione per la sua scomparsa. Perché ci garantiscono che la sua lezione teatrale e politica resterà sempre ben presente.

«». il manifesto, 13 ottobre 2016 (c.m.c.)

Si avvertì d’improvviso uno scoppio tanto potente da far tremare i vetri delle finestre. In pochi minuti sapemmo che a Piazza Venezia era esplosa una bomba. Franca prese il telefono e chiamò la polizia:«Sono stati i fascisti?» – chiese. «Macché fascisti e fascisti, signora»- fu la risposta sprezzante della Questura. Telefonò a Dario, che era a Milano. E così sapemmo della contemporanea bomba di Piazza Fontana, alla Banca dell’Agricoltura. Da allora, e per molti anni, il 12 dicembre divenne la scadenza principale di tutto il movimento: a ricordare la data dell’inizio della strategia del terrore.

Per anni, prima di allora, ci eravamo incontrati nei teatrini dei circoli dell’Arci dove era emigrato quando aveva abbandonato i teatri che lui chiamava «borghesi». Perché, diceva, «non voglio essere l’alcaselzer della borghesia che ride un po’ su se stessa per autoassolversi». In realtà il successo della sua straordinaria invenzione teatrale fu n crescendo, non importa dove lui e Franca andavano a recitare.

Sì, all’inizio dell’avventura del Dario e Franca ci erano stati subito compagni. Un incontro naturale per chi, come loro, e al massimo dell’espressione artistica, si era proposto «di prendere per i fondelli il potere», di «dargli fastidio». Proprio per questo, dopo il travolgente successo di Canzonissima, la Rai emise il bando che li allontanò da tutti i programmi dell’emittente pubblica per ben 15 anni, dal 1962 al 1977!

Fummo proprio noi del manifesto a riportarlo su quegli schermi, surrettiziamente, almeno per mezz’ora: non come regista e/o attore, bensì come partecipe della breve trasmissione televisiva che fu concessa alla nostra lista nelle elezioni del 1972. Parlò, assieme a Rossana e a Lucio, di quanto ci proponevamo con quella (non fortunata) partecipazione alla campagna elettorale – rimettere al centro dell’attenzione politica i contratti operai – e però soprattutto di Valpreda, nostro capolista arbitrariamente imprigionato dagli insabbiatori per deviare l’inchiesta sui responsabili dell’eccidio della banca dell’Agricoltura. Dario aveva peraltro portato in scena la vicenda strettamente correlata: «Morte accidentale di un anarchico».

Non fu la sola partecipazione televisivo-elettorale di Dario con le nostre liste: tornò, come mattatore, a quella per le elezioni del 1976 cui concorremmo come Democrazia Proletaria, e una bellissima immagine la trovate anche su Internet: Dario al centro assieme a Rossana, e accanto una folla di candidati che non tutti riesco più a riconoscere perché sembrano tutti teenager.

Poi ci fu «Soccorso Rosso», la palazzina Liberty a Milano occupata e usata come quartier generale della controinformazione, e tante altre vicende, tutta la storia della nuova sinistra.

Infine il più sovversivo riconoscimento mai concesso dal consiglio che aggiudica il Nobel della letteratura: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi».

L’ho visto per l’ultima volta solo pochi mesi fa, in occasione di «Terra madre giovani», a Milano al termine dell’Expo. Non dentro l’Expo, ma fuori, al nuovo mercato di Porta Genova dove si tenne l’inaugurazione del grande raduno che Slowfood aveva voluto con la nuova generazione di agricoltori di tutto il mondo – molti contadini «di ritorno» – per parlare finalmente come si deve del cibo. Eravamo seduti vicini e dopo aver parlato un po’ di quanto era bravo il nostro comune compagno e amico Carlin Petrini (al quale lui era legatissimo), abbiamo anche scambiato qualche battuta sui suoi grillini.

L’avevo trovato un po’ invecchiato, ma sempre militante: e infatti era lì, a testimoniare con la sua autorevolissima presenza, dell’importanza di battersi contro i big dell’alimentazione. Come sempre: dare fastidio al potere.

Adall'archivio di

eddyburgarticoli che ci sembra meritino oggi di essere riproposti. Questo episodio , raccontato da Lello Parise su laRepubblica del 29 settembre 2007, non ha bisogno di commento.

«Voglio assolutamente avere una copia di quella lettera». Baldina Di Vittorio è emozionata, felice. Suona orgogliosa al telefono da Roma la voce della figlia del mitico "Peppino", l’ immarcescibile leader dalla Cgil: «Quel manoscritto rivela più di qualsiasi altra cosa il carattere di mio padre, onesto e coraggioso». Di Vittorio che gentilmente rifiuta un pacco-dono del conte Giuseppe Pavoncelli, proprietario terriero di Cerignola e che su un paio di fogli di carta intestata della cooperativa " Lafalce" spiega le ragioni di quel rifiuto: «Io e lei siamo convinti della nostra personale onestà, ma per la mia immagine politica non basta l’intima coscienza della propria onestà. E’ necessaria anche l’ onestà esteriore». Ecco perché «a preventiva tutela della mia dignità politica e del buon nome di Giuseppe Pavoncelli che stimo moltissimo, sono costretto a non accettare il regalo. Perciò la prego di mandarmi qualcuno, possibilmente la stessa persona, a ritirare gli oggetti portati». Eppure era un cadeau goloso: pane, formaggio, taralli, olio. «Quella, per la mia famiglia, era l’epoca della povertà assoluta. Sì, insomma, non era facile rifiutare quel po’ di ben di Dio, come scrive papà. Alla vigilia di Natale, poi...».

La data della missiva, che era rimasta inedita fino all’altro giorno, è quella del 24 dicembre 1920. Racconta la signora Baldina: «E’ l’anno in cui io sono nata e per me questo documento acquista un valore particolare. Ne avevo sentito parlare in famiglia, di quelle poche righe indirizzate al conte Pavoncelli, titolare di un’azienda che continua ad essere viva e vegeta e che produce olive la cui qualità è famosa in tutto il mondo: la "Bella di Cerignola", così si chiamano. In fondo è grazie al nipote Stefano che salta fuori questo biglietto da cui emerge la generosità e la correttezza di Giuseppe Di Vittorio». Altri tempi? «No, un uomo diverso rispetto a quelli dei giorni nostri. I tempi, inevitabilmente, cambiano. Non voglio fare paragoni, per carità, con gli uomini politici e i sindacalisti di questo nuovo secolo. Però sono convinta che mio padre avrebbe seguito le stesse regole, soprattutto morali, rispettate scrupolosamente quando era in vita». "Peppino" muore esattamente cinquant’ anni fa. La Rai gli dedicherà un film, che in parte sarà girato proprio a Cerignola. Fa sapere l’ indomabile Baldina, che indossa i suoi 87 anni con la leggerezza di un’adolescente: «Proporrò agli sceneggiatori d’inserire questo episodio nella pellicola. Sì, loro già lo conoscono perché durante i sopralluoghi nella città natale di papà prima di cominciare le riprese hanno incontrato Stefano Pavoncelli, che gli ha fatto vedere l’epistola. Sì, sarebbe bello se fosse immortalata in questo lavoro cinematografico. Perché è istruttiva e mette in risalto comportamenti che devono essere validi perfino nel terzo millennio».

Baldina Di Vittorio è un fiume in piena e l’età non tradisce la freschezza delle sue parole. Insiste: «Comportamenti, visti a distanza di quasi novant’anni, che non sono quelli di un marziano. Piuttosto, sono naturali. Mio padre predicava l’opportunità di avere rapporti con tutti, ma non tollerava l’ incoerenza. Negli altri e meno che mai da parte sua». L’essere e l’apparire, insomma, dovevano rappresentare il "lato A" e il "lato B" della stessa medaglia. Come la moglie di Cesare, bisognava essere al di sopra di ogni sospetto. «è un insegnamento che io stessa non dimentico, ma che tutti dovrebbero ricordare. Più degli altri, quelli che rappresentano il popolo. O la gente, come si dice adesso».

«"». Il manifesto,

Si potrebbe rileggere buona parte della teoria politica del secondo Novecento, non solo marxista, attraverso le interpretazioni di quello straordinario intellettuale e militante che è Antonio Gramsci. Tra gli studiosi italiani più attenti ai mille volti della sua fortuna, Michele Filippini ha recentemente pubblicato il volume Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione della società (Carocci, pp. 264, euro 26,50).

Uno studio tanto accorto nel ricostruire le diverse tappe teoriche dell’intellettuale comunista, quanto consapevole che l’opera interpretativa è sempre anche una traduzione politica. Filippini analizza i passi dell’opera gramsciana dedicati all’analisi dei mutamenti nel sistema produttivo capitalistico, collocandoli nel contesto della crisi dell’ordine liberale europeo e del progressivo imporsi di una società di massa.

Due sono i temi al centro di questa indagine. Il primo è la scoperta della politicità della sociologia e delle nuove scienze sociali, e quindi il confronto che Gramsci istruisce con autori come Durkheim o Weber. Infatti, pur svolgendo essenzialmente la funzione di consolidare e sostenere la nuova disciplina sociale borghese, questi nuovi saperi gli rivelano le dinamiche specifiche della società di massa e i mutamenti indotti dal nuovo sistema sociale fordista.

Il secondo è l’emergere nel «fordismo» di un nuovo tipo-umano che non è solo il prodotto delle nuove dinamiche produttive, ma è anche il punto di partenza di una nuova teoria marxista della rivoluzione. In questa duplicità di sguardo, Filippini si sofferma quindi sui rapporti di continuità e di opposizione tra le forme del disciplinamento capitalistico e le istanze di autodisciplina operaia.

Gramsci è consapevole che lo studio dei mutamenti indotti dall’irruzione delle masse sulla scena politica mondiale richiede strumenti analitici nuovi. Questo perché l’adesione organica dei partiti di massa alla vita delle masse necessita di «filologia vivente», ossia della capacità di compartecipare attivamente e consapevolmente ai nuovi «sentimenti popolari». Per dotarsi di questa filologia vivente, Gramsci fa propria un’idea di equilibrio proveniente dal confronto teorico tra Bucharin e Bogdanov.

Nell’assumere questo tema, egli però sostituisce al lessico meccanicista di un certo marxismo sovietico alcune suggestioni che gli provenivano dall’organicismo di una parte rilevante della sociologia francese del tempo. In tal modo, egli può studiare la società borghese sia dal punto di vista delle «regolarità», sia da quello delle sue intrinseche divisioni. Gramsci coglie così due grandi processi storici: il prevalere delle politiche di piano sull’iniziativa individuale ed il ruolo crescente degli organismi direttivi collettivi (in particolare i partiti) nella vita politica e sociale. Il futuro del movimento comunista è nella capacità di far convergere l’uso della forza soggettiva-collettiva (il partito) e di quella oggettiva (le nuove forme sociali della produzione e della riproduzione fordista) intorno al tema, per noi ancora decisivo, del «soggetto produttivo».

Gramsci è anche impegnato a contrastare le tesi «elitiste» di Mosca, Pareto e Michels per rivendicare una classe politica, e un partito, che non siano separati ma «organici» al proletariato. Il concetto di organicità è decisivo per comprendere l’insieme delle riflessioni gramsciane sulla società di massa, nonché le relazioni tra le idee di blocco storico, di ideologia e di egemonia. Infatti, l’ideologia intesa come «unità di fede tra una concezione del mondo e una norma di condotta conforme (Q. p.1378)», non deve essere ridotta alla rappresentazione mistificata dei rapporti di potere, ma costituisce una rete di idee e di comportamenti che dà ordine al sociale.

Al blocco storico borghese è allora necessario opporre un più organico rapporto tra partito e masse costruendo e affermando un orizzonte ideologico alternativo. Determinante in tal senso è la funzione di connessione tra Stato e società esercitata dagli intellettuali. Altrettanto lo è, però, la capacità di conformazione delle società di massa che si fonda sul nuovo tipo umano «fordista» subentrato all’individuo liberale.

Le trasformazioni nel processo sociale di produzione impongono una diversa disciplina del lavoro che comporta un più complessivo disciplinamento della società (l’americanismo, in tal senso, altro non è che una declinazione specifica del fordismo). Filippini sottolinea che Gramsci è però attento a segnalare come quest’opera trovi un limite nell’impossibilità dei lavoratori di modellarsi fino in fondo a questo nuovo tipo umano. Nella società capitalistica il nuovo homo oeconomicus non ha, e non potrà mai avere, un carattere definitivo e pacificato. Le spinte a favore di un pieno disciplinamento della società di massa si scontrano quindi con l’ingovernabilità di una forza lavoro che vive questa spinta alla conformità come un’imposizione.

Compito del movimento comunista è allora quello di dare corpo ad una nuova e più effettiva «disciplina interiorizzata» che vive della partecipazione volontaria di ognuno a un nuovo ordine da costruire collettivamente. Un’esperienza di libertà che deve però saper assumere le forme collettive e organizzate della produzione di un «ordine nuovo».

Questo studio ci mostra un Gramsci che dialoga con le scienze sociali borghesi, interessato ad assumerne alcuni snodi problematici per renderli parte di una nuova scienza socialista. Ricordandoci come molte delle questioni che attraversano il nostro confronto quotidiano – l’homo oeconomicus come soggetto produttivo, la produzione capitalistica come produzione sociale, le forme dell’organizzazione politica di massa – attraversano tutta l’opera gramsciana. Un’opera che resta tra i più importanti strumenti di interpretazione e di cambiamento del mondo a nostra disposizione.

Un recente articolo di Stefano Settis sull'importanza della conoscenza del latino ci ha ricordato questo scritto di Antonio Gramsci. Lo pubblichiamo sottolineando l'ampiezza della visione del pensatore comunista, e la sua capacità di comprendere il ruolo della conoscenza in una società caratterizzata, come quella di oggi, dalla dialettica della lotta di classe. Antonio Gramsci,

Quadernidal Carcere, 4 [XIII], 55]

Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno.

Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.

Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale.

Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della tendenza democratica. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare.

Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perchè sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi.

Ecco perchè molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite.

[Quaderni dal Carcere, 4 [XIII], 55]

Il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2016 (p.d.)

“E' morto un ragazzo in corteo”. È la sera del 20 luglio 2001. Le foto di Carlo Giuliani steso a terra mentre una ragazza della Croce Rossa tenta disperatamente di rianimarlo hanno fatto il giro del mondo. E un uomo prende la sua agenda di pelle scura, consumata. Scrive poche parole – non c’è altro da dire di fronte alla morte di un ventenne – ma con una calligrafia che rivela la passione e l’energia. Perché l’autore di quel diario è don Andrea Gallo. E rileggendo i suoi appunti ti sembra di vederlo nel suo studio, quella stanza affacciata sul porto di Genova con la luce accesa fino all’alba che i genovesi passando avevano imparato a cercare. Come una piccola Lanterna che indicava la rotta. Sì, il Gallo era sveglio, era alla scrivania con il sigaro in bocca.

C’era anche in quei giorni del G8 che hanno cambiato la storia della sua città e dell’Italia. Era lì, e sulle pagine dell’agenda ha lasciato appunti essenziali come un libro di storia. Scritti per se stesso, ma soprattutto forse nella speranza che un giorno qualcuno li trovasse. Non dimenticasse.

E oggi è successo. L’agenda del 2001 è soltanto uno tra le migliaia di documenti che stanno riemergendo dallo scaffale dello studio. Una raccolta sterminata, perché don Gallo non buttava via niente: agende, migliaia di fogli sparsi con gli appunti per le prediche, i discorsi, i funerali di amici scomparsi, da Fabrizio De André a Fernanda Pivano. Non andranno persi: Domenico Chionetti – per tutti Megu – che era sempre a fianco del Gallo ha raccolto tutto. Con l’aiuto dell’archivista Carlo Stiaccini, dell’amico Alessandro Lombardo e della fondazione Ansaldo ha cercato di riordinare quel magma uscito per cinquant’anni dalla penna di don Andrea. E infine eccolo, il grande archivio di don Gallo. L’Archivio di Stato lo ha dichiarato “bene di notevole interesse storico”. Sarà conservato.

“È come rileggere le parole di un padre”, racconta Megu indicando i faldoni dove sono raccolte le carte. Davvero il diario della vita di un uomo, dai primi anni del sacerdozio fino alla nascita della Comunità, per arrivare a quella ribalta che Gallo accoglieva con divertita ironia. Calcandosi appena un po’di più il cappellaccio sugli occhi. Ma insieme il racconto dei grandi avvenimenti del mondo visti da quella piccola stanza. Finché la storia, nei giorni del G8, gli bussò alla porta.

Ecco l’appunto della mattina del 18 luglio, quando i grandi della terra cominciano ad arrivare a Genova: “Città blindata, militarizzata!!!”, scrive don Gallo. Con i punti esclamativi cui la sua voce dava vigore. Poi la speranza che la protesta resti pacifica. Il concerto di Manu Chao, i ragazzi che sfilano per le strade. Fino alla sera del 20 luglio. “Ho tanti amici nelle Forze dell’ordine. Quanti “servitori” dello Stato di Diritto ho stimato e apprezzato in questi ultimi anni! Abnegazione, sacrificio, senso del dovere. Quanti hanno pagato con la vita, lasciando famiglie nel dolore”. Scrivendo il diario di quel venerdì 20 luglio, però, aggiunge: “Cittadini in divisa hanno sperimentato il potere puro, l’arbitrio assoluto”.

Ma è lungo il cammino di un uomo, ci ricordano i diari di Andrea Gallo. A cominciare dalle lettere del giovane sacerdote che scrive ai genitori e al fratello Dino. Parlando di sé e del mondo. Dell’invasione dell’Ungheria del 1956: “Non posso fare a meno di parlare del massacro della gloriosa nazione ungherese!! Avrete sentito dai giornali, dalle radio, quali orrendi crimini sono stati commessi contro una popolazione inerme che chiede siano rispettati i sacrosanti diritti concessi da Dio a tutti gli uomini: libertà, pace, lavoro. Che dobbiamo fare noi cattolici in questa occasione? Seguiamo le direttive illuminate e sagge del nostro Sommo Pontefice…non facciamo tante chiacchiere inutili e soprattutto non provochiamo altro odio nelle nostre contrade!!!”. Non è ancora il sacerdote “angelicamente anarchico”della maturità. Ma c’è già la sua energia. E quel tentativo faticoso, a volte doloroso, durato una vita di mettere insieme l’obbedienza alla Chiesa con la libertà.

Davvero quante cose racconta la scrittura. Proprio la calligrafia. Addio alla macchina da scrivere, addio ai filtri. Gallo ora scrive di proprio pugno, con le linee delle parole che si fanno più morbide pagina dopo pagina. Come se arrivassero la tranquillità della notte o la stanchezza. Scriveva, scriveva, mentre accanto a lui dormivano i “tossici”della Comunità San Benedetto con cui condivideva la stanza. Basta una riga per raccontare chi era don Andrea: “Diecimila lire a una madre musulmana per il latte dei bambini”. Ancora: “Dieci euro a un egiziano. Povero, povero, povero”. Ripetuto tre volte, per far risuonare la rabbia. E l’amore. In tanti hanno lasciato un messaggio nel diario della Comunità (anche questo nell’archivio): “La Ester adesso va a battere”, scrive un ragazzo. “Adesso andiamo a puttanazze!”, aggiunge un altro. Non c’è censura. “Questo era il segreto del Gallo: non giudicare, far sentire tutti amati”. È una galleria di decine di personaggi: tossici – alcuni non ci sono più, altri ne sono usciti, c’è chi addirittura è diventato manager di successo – prostitute, transessuali, immigrati. Ma anche gli amici importanti. Tutti sullo stesso piano. Tutti uguali. Ecco gli appunti per l’addio a De André: “Non voglio dire che Fabrizio abbia indicato una strada per coniugare il proprio riscatto e quello di tutti gli oppressi. Perché Faber riconosce sempre agli altri la libertà della scelta”. Poi Fernanda Pivano: “La Fernanda! Una di quelle persone che ci regala il cielo ogni tanto. Ci ha insegnato un linguaggio universale. Dialogare, ascoltare tutti”.

Poi le fotografie. Centinaia. Dalle immagini di Gallo giovane. Un uomo bello, vigoroso, perché – questo sembra dirci – non c’è proprio contraddizione tra corpo e spirito. Anzi. E gli scatti con gli amici: con un viado brasiliano o Vasco Rossi. Non fa differenza. Nessuna lezione. Forse soltanto qualche consiglio su come “sentire” la vita con i cinque sensi: “Vista: vedere i colori della terra. Olfatto: annusare i profumi del vento. Udito: sentire l’armonia di tante voci. Gusto: assaporare gli aromi del mondo. Tatto: sentire tante dita”. E poi appunti civili, sacerdote e cittadino. Nemmeno questa è contraddizione in don Andrea: “La legge elettorale definita da tutti una porcata… ha prodotto una semplificazione consentendo alla coalizione vincente la tanto auspicata governabilità. Ma l’ultimo governo Berlusconi di quale maggioranza dispone? Altro che semplificazione, è l’inizio della demolizione della Democrazia”.

Ci sono tutti. Non ci sono, o non sono ancora emersi, messaggi scambiati con i suoi cardinali, da Giuseppe Siri ad Angelo Bagnasco, con cui Gallo ha avuto un rapporto molto “dialettico”: obbedienza e libertà, appunto. Ma forse quelle parole schiette don Andrea non ha voluto scriverle. Le ha pronunciate soltanto a voce.

Manca soltanto una persona: lui, don Andrea, che non parla quasi mai in prima persona. Che cerca di scomparire e si definisce soltanto attraverso gli altri. Fino a quell’ultimo messaggio: “Gesù disse…Vi ho tenuta nascosta una cosa che ora non posso più nascondervi: devo proprio partire. Addio”.

. Il manifesto, 1° giugno 2016 (c.m.c.)
New York, South Bronx, Forest Houses, 1010 Tinton Avenue, tra la 163rd e la 165th. Tanti grattacieli squadrati di mattoni rossi, vecchi e perciò tozzi, non più di quindici piani, come tutte le abitazioni popolari della città dove resistono ancora un milione di fitti bloccati e perciò sono abitati da poveri ma privilegiati. Qui quasi tutti neri. Il quartiere è molto periferico ma è verde. E nel bel mezzo del piccolo parco fra le case c’è nientedimeno che un monumento a Gramsci. Sì, proprio Antonio, il nostro. Si tratta di una scultura e di tre piccoli edifici di legno in cui ha sede una sorta di circolo politico-culturale – molto recenti, del 2013 – costruiti da Thomas Hirschhorn.

Ho traversato mezza New York per trovare il luogo, di cui nessuno dei miei amici del Left Forum cui nei giorni scorsi ( come da quasi trent’anni) sono stata ospite sapeva nemmeno l’esistenza. Ma ho insistito, perché ne avevo vista tempo fa l’immagine sul New York Times, accompagnata da un lungo articolo un po’ scettico che spiegava la genesi: un artista assai conosciuto che aveva deciso di erigere monumenti simili in quartieri popolari di altre città, ciascuno dedicato a un filosofo da lui ritenuto molto importante: oltre Gramsci anche Baruch Spinoza, George Bataille, Gilles Deleuze. Qualcuno, non ricordo in quale paese del mondo, mi aveva confermato che la statua esisteva davvero, e che attorno alla costruzione si era creato un centro di iniziativa ispirato a Gramsci stesso.

Il militante «smarrito»

È inutile che dia altri dettagli, perché, finalmente arrivata sul luogo, dopo molto vagare fra alberi e edifici, ho dovuto rassegnarmi: il monumento è stato recentemente rimosso. Non per ragioni politiche, semplicemente perché l’esposizione al maltempo l’aveva deteriorato e nessuno se ne prendeva più cura. Come potete immaginare, ci sono rimasta molto male.

La sorte di Antonio Gramsci in America non è comunque così triste come questa del suo monumento. Nelle accademie, anzi, c’è da diversi anni una incoraggiante e intelligente ricerca sul «pensatore» italiano. «Pensatore», lo chiamano, come del resto in molti all’estero: pochissimi sembrano sapere che Gramsci non è stato solo un grande intellettuale ma anche un militante politico, e anzi il leader del più grosso partito comunista d’occidente.

E così si capisce perché possa capitare di sentirlo citato nelle università, praticamente mai nei panels del Left Forum, affollati di attivisti di base; o in raduni analoghi. E come mai nei tanti banchetti allestiti per l’occasione, dove viene offerta tutta la possibile mercanzia dell’editoria marxista, i suoi libri siano una rarità.

Eppure il Forum, che fino a non molti anni fa si chiamava Socialist Scholars Conference, ed era dunque promossa proprio dai docenti di sinistra delle università della west e della east coast, di intellettuali partecipanti ne ha sempre avuti, e continua ad averne, moltissimi, nonostante i più celebri – Sweezy, Baran, Mgdoff, Singer e molti altri – siano ormai deceduti. Ma anche quando c’erano loro fra gli attivi partecipanti di questa assise annuale – articolata in centinaia di workshop, cui si affluisce pagando non pochi dollari – di Gramsci si è sempre fatto a meno.

Perché la sinistra-sinistra americana è fatta così: salvo i vecchi – ce ne sono parecchi – che indossano ancora il basco in onore della guerra civile spagnola e continuano a litigare su Trotsky e Rosa – per i militanti delle tante combattive aggregazioni comunitarie, la politica è una cosa, la cultura un’altra.

Ho fatto questa lunga premessa per spiegare perché in questi tre affrettati giorni trascorsi a New York, nel pieno di una campagna elettorale animata da uno scontro di massa senza precedenti, oltre a non aver trovato il monumento di Gramsci non ho trovato neppure una seria riflessione «gramsciana» sul fenomeno Bernie Sanders che, se del nostro «pensatore» si facesse buon uso, sarebbe apparsa indispensabile premessa di ogni dibattito.

Sanders, per altro, qui è stato sempre di casa e qui infatti l’ho incontrato io stessa quando ancora era sindaco di Burlington, la cittadina dello sperduto Vermont, e poi senatore socialista di quello stato, alieno al resto del paese quanto, e anzi di più, la provincia di Bolzano rispetto alla Calabria.

Elezioni nei workshop

Di primarie se ne è parlato in molti workshop, per carità, ma più per misurare le distanze di ciascuno dallo sfidante di Hillary Clinton (c’era persino qualche cartello che lo dichiarava troppo poco di sinistra per l’America) o per chiedersi cosa fare ove in pista contro Trump dovesse rimanere Clinton; o, ancora, cosa in questo caso si proporrà di fare Bernie. Il timore è che possa esser risucchiato dall’establishment, che potrebbe dargli qualche contentino inserendolo nella squadra del prossimo presidente, sì da ottenere per la candidata democratica i voti per niente sicuri di chi fino ad ora si batte per il candidato socialista.

È per questo, del resto, che molti fra i più autorevoli commentatori insistono nel dire che forse Sanders avrebbe più chances di battere Trump di quante ne avrebbe Clinton: porterebbe alle urne un popolo di teenagers che altrimenti a votare neppure ci andrebbe. Gli ultimi sondaggi confermano: Sanders supera Trump di 10,8 punti, mentre Clinton è testa a testa col rivale repubblicano. E poi è decisamente più simpatico: lui piace al 41 % degli interrogati da un sondaggio Cbs-New York Times, mentre Clinton solo al 31 e Trump al 26 %.

Orientamenti giovanili

L’interrogativo più importante, tuttavia, che pone questa mobilitazione così massiccia e così radicalizzata, che le primarie hanno suscitato in un paese dove lo scontro elettorale non è mai stato molto partecipato, riguarda capire chi sono questi giovani, da dove vengono, quali esperienze hanno vissuto, quali letture li hanno orientati, quale sia la loro visione del mondo. E, ancora: rappresentano un episodio o un mutamento duraturo? Al di là delle sorti di Bernie questo è il vero quesito: reggerà, e in quali forme, anche dopo il voto, il movimento che sta animando la campagna elettorale , o verrà riassorbito come è accaduto otto anni fa con la mobilitazione, sia pure infinitamente minore e comunque assai meno radicalizzata, che si ebbe per Obama?

I più accorti si rendono conto che la cosa più importante da fare sia proprio preservare e far crescere questo patrimonio, non disperderlo. È quello, innanzitutto, di cui dovrà occuparsi in futuro Bernie Sanders. E loro stessi, gruppi di base della sinistra radicale, superando il dilemma che da sempre li affligge: operare dall’interno del Partito democratico finendo per essere cooptati dalla sua macchina di potere, oppure restarne fuori rischiando l’invisibilità e l’irrilevanza.

Il merito di Sanders è, in realtà, stato proprio quello di non essersi fatto schiacciare da un sistema politico così rigidamente bipartitico da rendere impensabile la creazione di una terza forza politica, sempre fallita, sia a destra che a sinistra. Il candidato che tutti definiscono socialista ha, infatti, scelto di correre nelle primarie – al di fuori delle quali non sarebbe esistito – ma è rimasto lontanissimo e indipendente dalle potenti strutture del partito.

Proprio per questo ha ottenuto consensi impensabili fra i giovani e persino fra le donne (fra quelle al di sotto dei trent’anni l’80% nello Yova e l’82% nel New Hampshire; 73 % fra quelle di meno di quarantacinque anni nel Nevada, tanto per fare un esempio)fra cui si anima un crescente numero di gruppi femministi anti Hillary Cliton, proprio perché simbolo del detestato ideale emancipatorio dell’establishment: la donna in carriera.

Sanders ha potuto fare oggi ciò che altri nel passato non hanno potuto perché in questi anni il dilemma Partito democratico/invisibilità ha perduto peso. Qualcosa di profondo si è spezzato nel sistema americano, come del resto anche in Europa: il tradizionale modello di democrazia rappresentativa non funziona più, e tutti se ne rendono conto. I più giovani vogliono prendere la parola, direttamente. Se a questo si aggiunge l’inuguaglianza senza precedenti prodotta dal sistema, si capisce perchè la rivolta contro l’establishment sia a tal punto dilagata (esprimendosi a destra così come a sinistra).

Giustamente, mi diceva Angela Davis in occasione del suo recente viaggio a Roma, il movimento Occupy è sembrato svanire perché le piazze stracolme del 2011 si sono svuotate. Ma quella presa di coscienza, quella scossa, hanno continuato a smuovere lo stagno. Questo – aggiungeva Angela – è stato in fondo il merito di Obama: aver lasciato che quel movimento si estendesse, senza reprimerlo come avrebbe probabilmente fatto qualsiasi altro presidente.

Meno appariscente, Occupy ha infatti seminato, producendo una miriade di movimenti di lotta che coinvolgono il frantumato mondo del lavoro precario che esiste anche qui: dei lavoratori dei fast food per un minimo di paga di quindici dollari l’ora; degli studenti – un milione – che lavorano nei servizi delle università per pagarsi gli studi e reclamano il diritto ad avere un sindacato e persino quello che noi chiamiamo l’art.18, per loro la giusta causa nel licenziamento; anche loro, come da noi, contro l’ulteriore salto della globalizzazione selvaggia, i Trattati su commercio e investimenti nell’area atlantica e del Pacifico; e così via.

Soggetti politici da costruire

Predire cosa accadrà è difficile anche per chi in America ci sta e ne sa ben più di me. Certo, il rigido e antidemocratico sistema elettorale del Partito democratico, che affida le sorti delle primarie ben più che all’elettorato al disciplinato drappello dei c.d «superdelegati» alla Convention, 540 dei quali già si sono pronunciati per Hillary Clinton conto solo 42 per Bernie, dicono che i giochi sono già fatti; e che, anzi, sono stati decisi già prima di cominciare la gara. Ma vincere e diventare presidente degli Stati uniti non è il solo obiettivo di Sanders (anche con in mano la Casa Bianca che potrebbe del resto mai fare se la società americana resta quella che è?).

L’obiettivo reale è la costruzione di un diverso soggetto politico collettivo, che nel lungo periodo potrebbe davvero cambiar e le cose. Se ci riuscirà lo potremo verificare già a metà giugno quando, a Chicago, molti dei gruppi «pro Sanders» si riuniranno in quello che hanno chiamato «summit del popolo». In questa occasione, si potrà valutare meglio la consistenza del nuovo movimento e la possibilità che emerga dalla nuova generazione di militanti di sinistra una leadership credibile.

È comunque già un fatto che quanto stia accadendo negli Stati Uniti – per via della mobilitazione di quella che è stata chiamata «l’ala sinistra del possibile» – sembra essere una sinistra che fino a ieri non avremmo ritenuto possibile nemmeno sognare.

«il manifesto e Corriere della Sera

Il manifesto
IL COMPAGNO CHE ERA LIBERALE

di Andrea Colombo

Marco, che se ne è andato ieri stroncato non da uno ma da due cancri, perché l’uomo era così, eccessivo in tutto, suppliva da solo a un vuoto che ha segnato, sempre e solo nel male, la storia italiana: la mancanza di una destra liberale con la quale per la sinistra fosse possibile confrontarsi con reciproco vantaggio. Si parla di destra politica, perché l’albero genealogico della cultura nazionale invece qualche frutto d’oro su quel versante può vantarlo, e quei nomi che tornavano continuamente in ballo nei monologhi fluviali che Pannella aveva l’ardire di spacciare per interviste: da Benedetto Croce al tanto citato quanto disatteso Mario Pannunzio.

A lui, forse, la definizione sarebbe andata stretta, come qualsiasi etichetta avesse preteso di definire la sua personalità straripante. Pannella non si sentiva un uomo di destra e certo con la destra italiana aveva ben poco a che spartire. I radicali non hanno smesso di chiamarsi, tra loro, «compagni». E il «suo» Partito radicale discendeva direttamente dall’ala sinistra del partito originario, quello nato nel 1955 e che contava tra i suoi fondatori l’intera aristocrazia intellettuale del liberalesimo italiano. Pur diviso, quel gruppo di grandi intellettuali concordava nel vedere i «rossi» solo come un pericolo. Non la «Sinistra radicale» di Giacinto detto Marco, che al contrario spingeva per un’unione laica di tutte le forze di sinistra, comuniste, socialiste e liberali. Quando i fondatori abbandonarono il partito, a ereditarlo rimase solo la corrente di sinistra e il suo capo, dal 1963 segretario e padre padrone a vita dell’intero partito.

Nelle sue campagne Pannella era ossessivo e martellante, da giovane così come in tarda età. Ma c’era del metodo, e dell’intelligenza politica raffinata, nella sua ossessione. Per tutti gli anni ’60 caricò a testa bassa sul divorzio senza concedere un attimo di tregua, inventandosi espedienti comunicativi uno via l’altro, adoperando a man bassa l’alleanza con un giornale, Abc, dal quale ogni politico comme il faut si sarebbe tenuto lontanissimo per la tendenza a sciorinare tette abbondanti e mutandine succinte, ma che era in compenso popolarissimo.

Non si trattava però di un caso maniacale. Nell’Italia codina e baciapile di quegli anni, quando persino un galantuomo come il futuro presidente Scalfaro sbottava in pubblico a fronte di una scollatura esagerata e le Kessler rappresentavano la frontiera del proibito, Pannella aveva individuato nel divorzio la leva capace di forzare i limiti culturali di un Paese che di laico non aveva ancora nulla. Il seguito provò che aveva ragione.

Pannella era laico e a tratti, soprattutto a cavallo tra i ’60 e i ’70, anche «laicista», se non proprio mangiapreti. Quel lusso la cultura comunista, che le «masse cattoliche» le aveva ben presenti da molto prima che Berlinguer scrivesse su Rinascita di «compromesso storico», non poteva permetterselo. Il compito spettava a una destra liberale, democratica, laica, e in Italia a rappresentarla c’era quasi esclusivamente la torreggiante figura di Pannella. Ma senza quella spinta, la sua e spesso solo la sua, sarebbe stato impossibile arginare la tendenza del Pci a svendere il divorzio pur di non entrare in rotta di collisione con le masse cattoliche e con il partitone che le rappresentava.

Anche nella battaglia strenua, a volte epica, ingaggiata tra la seconda metà dei ’70 e l’intero decennio successivo, quella per i diritti e le garanzie contro le emergenze e le ingiustizie che venivano quotidianamente perpetrate in nome della giustizia, è tangibile, inconfondibile, un’impronta che risale più alla grande destra liberale che non alla sinistra. Non c’erano solo interessi di bottega dietro lo schieramento del Pci a favore dell’emergenza, allora. C’era anche un intero pensiero che, al fondo, considerava l’interesse di Stato infinitamente superiore alla difesa dei diritti, e che in nome di quell’interesse era pronto a violentare il diritto come avvenne il 7 aprile, o a far passare per matto un leader sequestrato pur sapendo di condannarlo così a morte.

Non è un caso che Pannella sia stato tra i pochissimi a opporsi a quella cultura guidata solo dalla miopia della ragion di Stato, di fronte alla quale capitolarono con scomposto entusiasmo anche tanti sedicenti liberali, Repubblica in testa. Per chi veniva dalla cultura crociana, inutile negarlo, stare dalla parte di Antigone era più facile che per chi arrivava da quella marxista, che si trattasse del terrorismo e Toni Negri o della camorra e di Enzo Tortora, vittima di un «effetto collaterale» della campagna contro le mafie fondata sui pentiti.

Per indole e carattere, per il suo istrionismo innato, Marco Pannella spettacolarizzava al massimo ogni campagna, e nell’uso della comunicazione era anche più astuto ed esperto di quanto apparisse. Così, le sue battaglie potevano sembrare, in superficie, venate da infatuazioni un po’ donchisciottesche per questa o quella causa. Invece erano sorrette da un impianto coerente e rigoroso. Quando muoveva contro la magistratura, il suo non era semplice garantismo: era la consapevolezza che negli ’80 un potere dello Stato aveva preso a invadere aree di altrui competenza, e che i risultati sarebbero stati comunque esiziali. Quando offriva spinelli in giro per le strade, non si trattava solo di una trovata libertaria, ma della coscienza di quanto l’intero impianto costituzionale fosse minato dal disattenderne i princìpi in materia di libertà individuali.

Nell’ultimo scorcio della prima Repubblica nessuno aveva denunciato l’occupazione dello Stato da parte dei partiti più del Partito radicale. Però, quando quel castello venne giù in pochi mesi come una torre di fiammiferi, Pannella non fu tra quelli che brindarono ebbri, a differenza di tanti che quel sistema lo avevano sin lì coperto e supportato senza vergogna. Marco credeva nella Costituzione come pochi. In nome della Costituzione aveva ingaggiato un duello durato 15 anni con l’amico Cossiga. Per difendere la Costituzione era stato il vero regista dell’elezione di Oscar Scalfaro. In quel tripudio che tintinnava di manette, nei giorni di tangentopoli, avvertiva un lezzo che con la Costituzione repubblicana aveva poco a che spartire.

Per noi di sinistra Marco Pannella è un caso unico. Siamo stati al suo fianco e lo abbiamo applaudito tante volte. Ce lo siamo trovati di fronte e ci ha fatto digrignare i denti in altrettante occasioni. E’ quello che capita con la miglior destra, anzi che capiterebbe se ci fosse: ringrazi il cielo perché esistono quando si tratta di diritti e libertà, ti tirano pazzo quando difendono il liberismo. Però sai che se in Italia ci fossero stati più uomini come Marco Pannella, oggi sarebbe un Paese migliore.


Il manifesto
CON PANNELLA UN INCONTRO-SCONTRO DURATO TUTTA LA VITA

di Luciana Castellina

Marco Pannella 1930-2016. Una vita politica insieme, ma io comunista, lui liberal democratico. La sua onestà, la sua cocciuta ostinazione nelle battaglie a favore di cause sacrosante sono una ricchezza politica del nostro tempo

Credo di essere la persona ancora vivente che ha conosciuto da più tempo Marco Pannella, molti dei nostri amici coetanei essendo già passati altrove (sicuramente in paradiso), i più giovani non avendo avuto l’aspro privilegio di una amicizia/inimicizia lunga come la nostra, cominciata addirittura nell’anno accademico 1947/’48.

Ci siamo incontrati al primo anno della facoltà di giurisprudenza di quella che oggi viene chiamata La Sapienza, ma allora semplicemente Università di Roma, perchè a quei tempi ce n’era una sola e non occorreva specificare.

Era ancora piena di fascisti, anche piuttosto picchiatori, riuniti nel gruppo “Caravella”, e un bel po’ di cattolici molto moderati, capeggiati da Raniero La Valle (ora, più a sinistra di me, per fortuna).

Sia io che Marco eravamo dall’altra parte, laici e antifascisti: ma io ero già comunista, lui liberal-democratico.

Siamo restati così per tutta la vita.

Cominciammo subito come avversari: c’erano le prime elezioni per l’Interfacoltà, il parlamentino studentesco, e io concorrevo candidata insieme ad Enrico Manca, socialista (poi dirigente di primo piano del Psi e anche presidente della Rai), per la lista Cudi (centro universitario democratico italiano, in cui si identificava tutta la sinistra), lui per la lista cui aveva dato, come abitudine, un nome stravagante: “Il Ciuccio”. Che era però emanazione della già assai famosa Unione Goliardica, l’Ugi.

Di questa organizzazione Marco fu presidente per un decennio ed ebbe il merito di politicizzarla, sicché è proprio dalle sue fila che uscì negli anni ’60 quasi tutto il ceto dirigente laico della prima Repubblica (per il bene e per il male del paese). Anche noi comunisti finimmo per confluire nell’Ugi a metà degli anni ’50, quando la divisione del mondo, che dopo il 18 aprile ’48 ci aveva confinato nella parte esclusa, si frantumò e anche nelle Università diventammo normali. Vi entrai anche io, superando con qualche difficoltà l’odio che l’Ugi mi aveva lasciato al suo primo incontro importante: al primo congresso nazionale dell’Unuri (il parlamentino nazionale studentesco), quando osai prendere la parola e fui accolta da un coro maschile (di femmine non ce n’erano quasi) che mi gridò «passerella passerella». Intervenire per una donna era come fare lo streap tease, per fortuna avevo la pelle dura altrimenti non avrei più parlato per tutta la vita. Marco, comunque – sebbene presidente – con quelle schiamazzate non solo non c’entrava, ma fu proprio lui a redimere l’organizzazione e gliene rendiamo tutti merito.

Della questione femminile anzi si è per tutta la vita occupato molto, soprattutto da quando nacque il Partito radicale e all’orizzonte comparve Emma.

Proprio per via di divorzio e poi aborto ci siamo ritrovati con Marco, con cui posso dire di aver trascorso quasi l’intera vita fianco a fianco. Prima nelle battaglie universitarie, cui sia io che lui abbiamo partecipato in prima persona fino in tarda età, lui perché insostituibile leader dell’Ugi, io perché direttore di “Nuova Generazione”, cui, essendo il settimanale della federazione giovanile comunista, correva l’obbligo di seguire da vicino le vicende studentesche. In seguito, salvo una breve “vacanza” a cavallo fra i ’50 e i ’60 (quando Marco si trasferì a Parigi e molto e proficuamente si occupò di Algeria) per via, dell’esplodere della questione divorzio, quando i radicali furono la punta di diamante della battaglia a favore del primo progetto di legge firmato dall’onorevole socialista Loris Fortuna.

Combattemmo ancora una volta sullo stesso fronte, ma ancora una volta litigando. Io lavoravo a Botteghe Oscure nella sezione femminile con Nilde Jotti, impegnate a convincere un assai conservatore Pci che la questione era matura, e però ben convinte che se il diritto a rompere il matrimonio non fosse stato accompagnato da una riforma del codice familiare che riconoscesse alla donna qualche diritto (alla casa, al riconoscimento monetario del suo apporto all’economia domestica anche quando casalinga, ecc.) la eventuale vittoria sarebbe stata un disastro per la grande maggioranza.

Non fummo d’accordo neppure sull’aborto, per il quale, tuttavia, ci battemmo di nuovo insieme: i radicali volevano di più, noi del Manifesto-Pdup considerammo la legge ottenuta – la più avanzata di tutta Europa perché l’interruzione di maternità veniva mutualizzata e dunque garantiva le donne prive di mezzi finanziari – come qualcosa da difendere; e infatti così ci schierammo quando poi i clericali promossero il referendum per la sua abolizione.

Nel frattempo, nel 1976, eravamo entrati alla Camera dei Deputati: i radicali con 4 deputati, noi, con la lista di sinistra chiamata Democrazia Proletaria, con 6. Gruppi così minuscoli in parlamento non si erano ancora visti mai e non c’erano nemmeno i locali per alloggiarli. A lungo i funzionari cercarono di convincerci a stare tutti e 10 assieme: rifiutammo con decisione da ambo le parti e l’amministrazione di Montecitorio fu costretta ad erigere un muro divisorio in un ampio ambiente, sfrattando fra l’altro il povero Bozzi, a capo di uno storicissimo partito, quello Liberale, che però, in quella tornata di deputati ne aveva avuto solo 2.

(Battuta, credevamo definitivamente, la Legge Truffa del 1953, eravamo anni luce dall’ipotizzare che sarebbe un giorno arrivato l’Italicum a privare il paese dell’apporto di gente come noi).

Il periodo più aspro del mio rapporto con Marco Pannella ebbe inizio qualche anno più tardi, nel 1979, quando tutti e due ci ritrovammo nel primo Parlamento europeo eletto direttamente.

Anche se per cinque anni, per la prima volta, restammo nel medesimo gruppo. Che tuttavia, per prudenza e ben consapevoli delle nostre differenziate visioni del mondo, decidemmo di chiamare “Gruppo di coordinamento tecnico”. Per sottolineare che quanto ci univa era solo il bisogno, nel senso che il regolamento di Strasburgo non consentiva mini aggregazioni. Insieme anche ai nazionalisti fiamminghi, a Antoinette Spaak dissidente socialista belga e a un deputato irlandese vicino all’Ira, abbiamo attraversato la prima legislatura della nuova istituzione dividendoci su un sacco di cose: su Arafat, contro cui i radicali organizzarono picchetti quando per la prima volta venne al Parlamento europeo ospite del gruppo socialista; e poi sul voto per il riconoscimento dell’African National Congress di Nelson Mandela ( ancora in carcere). Ambedue le volte perché guerriglieri, in paesi – Israele e Africa del sud – dove c’era un bel parlamento.

Sono stati scontri aspri, così come quello sul finanziamento dei partiti e in contrasto con i sindacati, definiti “Trimurti”. Insomma, come avete capito da questo racconto: una vita assieme e però mai d’accordo. Eppure mai nemici davvero, anzi, umanamente amici: con Emma in particolare, ma anche con l’impossibile Marco. Io gli ho voluto bene, e credo anche lui me ne volesse. Eravamo sempre contenti quando ci capitava di incontrarci.

Riconosco i suoi meriti per aver reso popolari, di pubblico dominio, problemi su cui nessuna forza politica si è mai impegnata a sufficienza, la questione carceraria innanzitutto. La sua onestà e la sua cocciuta ostinazione nelle battaglie a favore di cause sacrosante sono una ricchezza politica del nostro tempo.

Se abbiamo molto litigato è perché ci ha diviso una cultura politica che per ognuno di noi era irrinunciabile e l’una dall’altra per molti aspetti distante, ma mai tanto da non vederci, alla fin fine, dalla stessa parte della società. Diversa, per via di una visione della democrazia: come libertà individuale assoluta per lui, il primato del “noi” sull'”io”per me.

Ma santiddio: si è trattato sempre di un confronto politico serio; ed è per questo che ora che è scomparso provo non solo dolore personale, ma anche tristezza politica: per la nostalgia di un tempo in cui noi quasi novantenni abbiamo vissuto, che è stato un tempo bellissimo, perché bellissima è la politica. Quando è veramente politica. Lo è quando ognuno avverte il dovere, la responsabilità, di impegnarsi a rendere il mondo migliore.

Marco Pannella va ricordato per questo; ed è molto.

Il manifesto
«PANNELLA, LO SCOMODO NECESSARIO»
intervista di Daniela Preziosi a Andrea Orlando

Il ministro della Giustizia: sembrava una provocazione e invece la sua intransigenza è stata sempre utile a non accontentarsi prima dell'obiettivo. Per i detenuti è stato un idolo: perché in questi anni, insieme a papa Francesco, è stato l’unico a tenere accesi i riflettori su un mondo su cui la società preferisce spegnerli. Perché le carceri sono un luogo in cui si realizza un esorcismo: segregati i pericolosi, l’ordine è ristabilito. Come se la società fosse una cosa totalmente diversa, e i suoi problemi fossero diversi da quelli che si riversano sul carcere: un’altra delle cose che ci ha insegnato

L’ultima volta che si sono visti è stato lo scorso 26 marzo. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando era andato a trovare Marco Pannella da giorni «ristretto» per la malattia nella sua casa-studio di Roma. Era d’accordo con chi lo accudiva, ma all’insaputa del leone malato. La sorpresa, oltre alla visita del Guardasigilli, era la compagnia: Orlando era accompagnato da quattro detenuti del penitenziario romano di Rebibbia, due ragazze e due uomini, dal vicedirettore del carcere e dalla vicedirettrice del femminile.

C’è una bella foto che testimonia l’allegria di Pannella per quella visita «dei detenuti e dei detenenti, così aveva detto», ricorda Orlando, «me l’aveva proposta Rita Bernardini. Mancava poco a Pasqua, per la prima volta dopo molti anni Pannella non riusciva ad andare a visitare i detenuti durante le feste. E allora gliene abbiamo portato alcuni a casa. Lui parlava a fatica ma era stato illuminato da questa “splendida riunione”, così l’aveva chiamata. Aveva parlato di speranza in quel suo modo torrenziale, e in stretto dialetto abruzzese».

Ministro, chi era Pannella per lei quand’era un giovane militante della sinistra?
Vengo da una famiglia di comunisti che ha vissuto gli anni 70, quelli del terrorismo, della vicenda di Toni Negri (allora leader di Autonomia operaia, condannato per complicità con le Br, poi eletto con i radicali e rifugiato in Francia grazie all’immunità, ndr), che guardava i radicali magari come compagni di strada nelle battaglie per i diritti civili, ma per tutto il resto con enorme diffidenza, conseguenza anche delle loro provocazioni. Una diffidenza che spingeva a contrapporre in modo talvolta frontale diritti civili e sociali. Ho capito fino in fondo l’insufficienza di questa lettura quando ho cominciato a occuparmi di giustizia. Non solo perché il superamento di questa contrapposizione ha segnato tuta la sinistra storica, superando retaggi ideologici, ma anche perché abbiamo capito che il tema dei diritti è un tutt’uno nella trama della società.

Invece, da ministro, chi è stato per lei Pannella?
Prima da responsabile giustizia del Pd e poi da ministro ho apprezzato che i radicali, e Pannella innanzitutto, si sono seduti qualche volta dalla parte del torto, altre dalla parte della ragione, ma comunque non hanno mai scelto dove sedersi per ragioni di opportunismo. Perché ritengono che la loro missione sia rivendicare uno spazio di libertà anche dove si registrano alti tassi di conformismo, soprattutto nei tornanti importanti della nostra storia. Soprattutto dove ci sono quelli più difficili da difendere, le persone oggetto dello stigma sociale. Ho capito l’importanza del loro controcanto che si basa sul riconoscimento della dignità delle persone a prescindere dalla condizione e dal loro vissuto.

Da ministro ha avuto rapporti complicati con Pannella?
Quello che rende difficile il rapporto con i radicali, è il fatto che Pannella ha insegnato loro di rifiutare l’idea gradualistica. Ha sempre posto le questioni con intransigenza. Per me, che concepisco la politica invece come riforme e magari anche come piccoli passi successivi, avere a che fare con loro è sempre complicato: perché è difficile tenerli in squadra. Ma ho capito che segnare la posizione estrema è un modo per ricordare la direzione di marcia, per evitare che ci si accontenti del compromesso. Che è sempre necessario, ne sono convinto, ma non può mai essere considerato un punto di arrivo.

Poi però l’anno scorso lei fece un discorso inedito per un Guardasigilli, a proposito delle carceri che rischiano «di produrre crimine più che ridurlo». E lì Pannella le fece grandi complimenti.

Naturalmente poi i radicali mi hanno contestato per non aver tratto tutte le conseguenze della mia affermazione. Ma per me quella è stata una medaglia, tanto quanto gli obiettivi quantitativi raggiunti e i riconoscimenti internazionali del lavoro che abbiamo fatto. Vede, io vengo descritto come un politico prudente, cauto; e invece in quell’occasione aver incrociato il suo punto di vista è stata la conferma di aver posto una verità scomoda. Cosa che poi ho verificato concretamente nei mesi successivi.

Perché?
Perché parlare di carcere non porta consenso, non è glam, non dà ritorni di immagine in una società, la nostra, profondamente spaventata ed esposta agli imprenditori della paura. Senza nessuna ambizione eroica ho capito che quel riconoscimento era il segno che stavo provando a fare cose giuste. Governare non può essere solo ricerca di consenso facile ma anche farsi carico di persone che non hanno voce, possibilità di incidere, né forse rilevanza politica.

Subito dopo sono arrivate le critiche dei radicali, anche nel corso degli Stati generali dell’esecuzione penale.
(Sorride) È l’ineluttabile condizione di chi interloquisce con i radicali. All’inizio pensavo che non si facevano carico delle compatibilità, dei punti di partenza. Ma ora penso che la loro forza è quella di non farsi imprigionare dalle condizioni date, dal senso comune, dagli elementi di inerzia del sistema. Le loro polemiche, per quanto provocatorie, non sono mai fini a se stesse. Quel po’ che siamo riusciti a fare, che per me è molto, è anche frutto del loro stimolo.

Su alcuni aspetti della società italiana i radicali hanno ’fatto egemonia’, hanno vinto anzi convinto, come diceva Pannella: su aborto, divorzio, diritti civili. Sulla giustizia invece no: oggi il dibattito pubblico è spesso segnato da un profondo giustizialismo. Quella del garantismo è una battaglia che non hanno vinto, o ancora vinto?
È la battaglia più difficile in questo momento. La nostra è una società che resiste a riconoscere diritti che hanno un carattere così lontano dal senso comune. Ma il valore e la credibilità dei radicali sta proprio nel fatto che hanno saputo fare battaglie nella direzione dei tempi ma anche battaglie controvento con la stessa determinazione.

Anche lei frequenta spesso le carceri. Cos’era Pannella per i detenuti?
Un idolo. I quattro che gli ho portato a casa, in quella visita di marzo, erano emozionatissimi. Per venire hanno rinunciato al giorno di permesso. Ma Pannella è un idolo per tutto il mondo del carcere, la polizia penitenziaria, dottori, psicologi. Tutti, diceva lui, «condividono una comunità di destino». Ed è un idolo perché in questi anni, insieme a papa Francesco, è stato l’unico a tenere accesi i riflettori su un mondo su cui la società preferisce spegnerli. Perché le carceri sono un luogo in cui si realizza un esorcismo: segregati i pericolosi, l’ordine è ristabilito. Come se la società fosse una cosa totalmente diversa, e i suoi problemi fossero diversi da quelli che si riversano sul carcere. Un’altra delle cose che ci ha insegnato.

Marco Pannella lascia un’eredità, oppure un vuoto?
Entrambe le cose, perché mentre il riconoscimento di alcuni diritti, spinti dalla trasformazione della società, è un campo arato che continuerà a dare frutti, penso alla recente legge sulle unioni civili, sui diritti più scomodi, sulle battaglie meno corrispondenti al senso comune, quelle in contrasto con ogni demagogia, non vedo molte figure in grado di colmare quel vuoto e di portare le denunce e la testimonianza sino al punto in cui ha saputo portarle Marco Pannella

I CARTELLI E I DIGIUNI COSÌ USAVA IL CORPO
di Pierluigi Battista


Pannella sulla scena italiana era diverso da tutti gli altri. La sua irruenza ha demolito muri di diffidenza e imposto i diritti degli individui a Dc e Pci che li ignoravano

Il nome di Marco Pannella evoca tante conquiste, tante battaglie, tanti eccessi. Tante immagini, soprattutto, legate indissolubilmente a un leader politico che ha combattuto con il corpo, con l’immagine e la materialità del corpo, in quell’agone politico italiano che ai tempi della fragorosa irruzione pannelliana trattava il corpo come un fastidioso impaccio, qualcosa di cui diffidare nel dominio incontrastato del concettismo ideologico. Pannella entrò invece anima e corpo, letteralmente, nella scena politica italiana. Com’era diverso da tutti gli altri, quell’oratore sottile e allampanato, la chioma ancora più arruffata e candida nel contrasto con il maglione nero indossato alla maniera dell’esistenzialismo francese. Diverso con il cartello perennemente attaccato al collo nelle manifestazioni a favore del divorzio. Diverso nella sua scheletrica magrezza nel corso di qualche sciopero della fame e della sete. Diverso quando si faceva immortalare imbavagliato alle telecamere. Con la sigaretta sempre accesa, anche dopo l’operazione al cuore, già avanti con l’età. O quando si concedeva all’arresto della polizia durante qualche manifestazione di disobbedienza civile. Diverso quando passava il Natale e il Capodanno a battagliare per l’amnistia o in compagnia dei detenuti, per rivendicare il rispetto costituzionale della dignità degli individui, anche, anzi soprattutto di quelli che scontano la pena in carcere per i loro errori: «Nessuno tocchi Caino».

Marco Pannella ha commesso moltissimi errori, dettati da quella che con la terminologia cristiana si chiamerebbe superbia e da incontenibile autostima: se ne accorgeva anche lui, anche se non lo avrebbe mai ammesso, orgoglioso com’era. Ma nel computo delle ragioni e dei torti, i primi hanno decisamente surclassato i secondi. Un eccesso di sospettosità lo portava a diffidare delle figure forti che dentro e fuori il Partito radicale, nella nuova guardia o tra gli amici fiancheggiatori, avrebbero potuto offuscarne la splendida solitudine. Si innamorava troppo spesso delle sue stesse parole, senza accorgersi delle modalità vagamente castriste verso cui lo portava la sua oratoria torrentizia. Talvolta non sapeva resistere al suo lato fortemente profetico ed ecumenico, piegando il Partito radicale a un ruolo di testimonianza un po’ sterile nella battaglia, in sé meritoria, contro la fame nel mondo. E non si accorse, attorno agli anni Novanta, del logoramento dell’istituto referendario, schiacciato da una proliferazione di quesiti non sempre sentiti dall’opinione pubblica, stressato da un abuso che alla fine ha portato allo svilimento del referendum stesso.

Ma gli errori costellano inevitabilmente ogni impresa politica che abbia il respiro e le ambizioni delle trasformazioni storiche. E nessun errore potrà offuscare la semplice, elementare constatazione: Pannella ha portato nel cuore della battaglia politica una bandiera sconosciuta prima, o silenziata, o messa ai margini, il vessillo dei diritti civili. Una dimensione estranea alla maggioranza delle culture politiche che si erano cimentate negli anni dell’allora giovane Italia repubblicana, in gran parte insensibili alle tematiche dell’individuo moderno, dell’individualismo, delle libertà individuali, ispirate a forme più o meno intransigenti di collettivismo, di comunitarismo, in cui il primato dello Stato, del pubblico, del partito, della storia, della classe, della chiesa erano dogmi di larghissimo uso.

Con la battaglia per il divorzio, Pannella contribuì a scardinare questo ordine di priorità. I «diritti» degli individui non erano contemplati dalla cultura di matrice cattolica che pure aveva una visione della «persona» che voleva sottrarla dalle spire soffocanti dello Stato. Non erano considerati dalla sinistra di cultura comunista, che li liquidava come superflui, emanazione di una sensibilità borghese estranea ai bisogni «popolari» (mica si divorziava, nelle famiglie della classe operaia!). E non avevano molto spazio nella sinistra di cultura socialista e laica, anche se i firmatari della legge sul divorzio erano in fondo un socialista, Fortuna, e un liberale, Baslini.

Ma Marco Pannella agitò le acque della politica italiana facendo dei diritti civili l’ariete che avrebbe demolito il muro di diffidenza nei confronti degli individui che di quei diritti erano i legittimi portatori. E fece irruzione nella politica italiana con un’irruenza che metteva in gioco ogni frammento della propria presenza pubblica. La sua battaglia per la «giustizia giusta», qualche anno dopo quella sul divorzio e sull’aborto, nel decennio degli Ottanta, quando l’Italia conobbe la mostruosa manipolazione giudiziaria ai danni di Enzo Tortora, fisicamente massacrato da un uso abnorme dei poteri di una magistratura appoggiata dal coro dei media, sfidò il conformismo, il quieto vivere, l’assuefazione di molti italiani alle iniquità di un sistema che non conosceva i contrappesi liberali del diritto e dell’equilibrio. E per fortuna Pannella e i Radicali trovarono in questa battaglia garantista e di civiltà l’appoggio incondizionato di una figura inquieta e irregolare come Leonardo Sciascia, che per questo subì il rito della scomunica da parte di una sinistra prigioniera delle sue ossessioni illiberali.

Anche per questo Marco Pannella fu molto diffamato dal coro dei conformisti e dei pasdaran dei poteri costituiti e delle ortodossie ideologiche che salutarono con entusiasmo l’incidente del Toni Negri che fuggì all’estero dopo essersi munito dell’immunità parlamentare con l’elezione nelle liste dei Radicali. Che si scandalizzarono quando Pannella, con un gusto del gesto imprudente che però faceva parte del suo bagaglio esistenziale e culturale, promosse l’ingresso della pornodiva Cicciolina nelle ingessatissime e perbeniste aule parlamentari. E che non capirono il Pannella che si rifiutava di adeguarsi al furore giustizialista che stava accompagnando la tempesta di Manipulite, quando il leader radicale prese provocatoriamente sotto la sua protezione il «Parlamento degli inquisiti» e si avvicinò al Bettino Craxi, suo vecchio compagno di battaglie universitarie, che in quegli anni stava conoscendo l’onta del linciaggio o dell’abbandono di chi era stato illuminato di luce riflessa all’epoca dei trionfi del Garofano craxiano.

Il Pannella che nella battaglia politica aveva messo tutto se stesso, a cominciare dal corpo continuamente traumatizzato dagli scioperi della fame, può essere ricordato come il campione dei diritti civili e del garantismo nell’Italia che si vorrebbe culla del diritto ma che invece dello Stato di diritto ha voluto scavare la tomba. Un leader ancorato nella sinistra ma che non ha mai sottaciuto i limiti e le meschinità della sinistra storica maggioritaria. Che ha intrattenuto rapporti tempestosi con i suoi stessi compagni, a cominciare da Emma Bonino al suo fianco da decenni, fino a essere accusato di essere un Crono avvezzo a divorare i suoi figli, uno dietro l’altro. Un leader che ha messo in gioco tutto, anche i rapporti personali, anche tutt’intera la sua umanità, il suo corpo, la sua icona, carnale e ascetica insieme. Fuori dagli schemi consolidati, sempre .

«TRA NOI NESSUNA CORSA A CONVERTIRCI MA VOLEVA TENERSI LA CROCE DI ROMERO»
intervista di Gian Guido Vecchi a Vincenzo Paglia

Città del Vaticano «Quando ha visto la mia croce pettorale, mi ha chiesto da dove veniva. Ho spiegato a Marco che era la croce dell’arcivescovo Óscar Romero, del quale avevo seguito come postulatore la causa di beatificazione. Gli raccontavo che Romero era stato ucciso perché si scagliava contro un’oligarchia oppressiva, per difendere i poveri, forte solo della sua parola e della radio che diffondeva i suoi messaggi, tanto che a volte gliela facevano saltare. E questa cosa lo entusiasmava, mi ha preso la croce, se la rigirava fra le mani, se l’è pure messa, non voleva più ridarmela...». L’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente del pontificio Consiglio per la famiglia, sorride con un velo di mestizia. Con Pannella si sono parlati ancora la settimana scorsa, l’ultima volta che l’ha visto è stato mercoledì, in ospedale, «ma non ho potuto salutarlo ancora, era già sedato, ho detto una preghiera per lui».

Chissà che avrebbe detto...
«Ah, ma lui lo sapeva! Gliel’avevo detto: ti seguo con la preghiera, eh? E lui mi abbracciava. Eravamo amici. Non c’era, tra noi, una corsa a convertirci, ma ad approfondire la nostra amicizia rispettosa e fraterna. Noi siamo uno, mi ha detto, “siamo ecclesia!”. Ha voluto bere dal mio stesso bicchiere».

È vero che gli ha portato un messaggio del Papa?
«Aveva scritto una lettera a Francesco, mi ha chiesto di fargliela avere e l’ho portata al Santo Padre. Voleva sapesse che lo stimava molto: capisco e ammiro quello che Francesco sta facendo, diceva. Ne parlava spesso, come pure di Wojtyla. Nel giorno del compleanno di Marco, il Papa come risposta ha voluto mandargli in dono il suo libro sulla Misericordia e una medaglia che raffigurava la Madonna con Bambino. Li ho portati a casa sua, riferendogli le parole di Francesco: anche lui gli ha fatto sapere che lo apprezzava».

La sintonia sul tema delle carceri, l’impegno contro la fame o la pena di morte. Ma c’erano anche motivi di forte divisione, con la Chiesa, dall’aborto all’eutanasia, no?

«Certo, e ci siamo anche contrastati con franchezza, senza che questo incrinasse il nostro rapporto. Però, ultimamente, parlavamo d’altro. Mi aveva chiamato all’inizio di marzo, quando non poteva più uscire di casa: voglio parlare con te, mi ha detto. Da allora andavo a trovarlo più o meno ogni dieci giorni».

E di che parlavate?
«Ci sono cose tra amici che restano nella coscienza. Era interessato soprattutto ai temi spirituali. Ricordo quando il vento muoveva i rami, fuori dalla finestra, e lui esclamò: quello è lo spirito che agisce e muove la storia, è più forte di tutto!, e dobbiamo lasciarci guidare da questo soffio: vedi i gabbiani che volano? E continuava: se penso alla mia vita, ho lottato; la testimonianza è la nostra vera forza. Ecco, gli piaceva riflettere per ore di tutto questo... Con me amava parlare del Vangelo, delle parole di Gesù, della speranza».

Si definì «diversamente credente». Lei che ne dice?
«Talvolta mi diceva: credo sia il Vangelo la fonte che mi ispira e mi guida, del resto era un pilastro anche per Gandhi! Amava una frase di San Paolo, “spes contra spem”: di fronte alle manifestazioni di violenza e di crudeltà di questo mondo, ripeteva, credo che dobbiamo continuare a opporci anche contro ogni speranza, anzi dobbiamo essere speranza».

Personalità complessa...
«Su questo non c’è dubbio. Una volta, scherzando, gli ho detto: il tuo angelo è un po’ come San Marco, un leone! E lui: vero, io mi sento un leone! Non si rassegnava, non era rassegnato».

Poche settimane fa aveva detto: «Non ho paura di morire. E poi altri vent’anni così, sai che palle!». Avete parlato della morte?

«Non in astratto, ma rispetto all’amicizia. Noi siamo anziani, gli dicevo, ma io spero di restare tuo amico per sempre, anche se ci tocca morire ci dobbiamo ritrovare; e sono sicuro, caro Marco, che quando staremo davanti a Chi ci giudica, dalla folla si alzerà qualcuno di quei milioni di affamati che dicono: Marco ha lottato per noi! E questo ti varrà tanto. Lui mi abbracciava, a volte non finivamo di abbracciarci».

Pur nelle ovvie differenze, che cosa ha trovato di ammirevole nella vicenda politica di Marco Pannella?
«Lo spendere la vita negli ideali in cui ha creduto, senza fare di questi ideali un piedistallo per arricchirsi o avere un potere che non fosse quello della sua parola e delle sue idee. Credo sia questo che in lui ha apprezzato anche Francesco. Un uomo che è sempre stato ricco delle sue idee».

«Repubblica e un testo inedito che spiega come l’uscita dall’Euro possa essere una scelta progressista e non populista». La Repubblica

Uscire dall’euro per abbandonare le ricette neoliberiste che lo hanno governato negli ultimi anni. Uscire dall’euro ma non rinunciare all’idea di Europa. Dunque rimanere nella Ue riprendendo la nostra moneta nazionale per tornare ad essere liberi nelle scelte politiche ed economiche.

Il saggio di Luciano Gallino che conclude la raccolta dei suoi articoli comparsi su Repubblica è un testo inedito, scritto un mese prima della scomparsa del professore. Una sorta di testamento intellettuale dunque, il tentativo di ragionare con lucida e spietata semplicità su quello che a sinistra è rimasto un tabù per molti anni prima che la crisi greca mescolasse definitivamene le carte in tavola. L’idea cioè che si potesse uscire dalla moneta unica in nome di una posizione né nazionalista né populista ma anzi progressista, per essere più aderenti all’idea orginaria dei padri fondatori dell’Europa, non certo per rifiutarla. Una posizione che si porta implicitamente dietro l’affermazione del tradimento dello spirito originario della costruzione europea.

Negli articoli che precedono l’inedito e che sono già stati pubblicati, Gallino ricostruisce la genesi di quel tradimento. Che non deriva solo dal pervasivo diffondersi dell’ideologia neoliberista di quà e di là dell’Atlantico ma anche dalla scelta di trasferire il debito dai privati e dalle banche agli Stati e dalla folgorante vittoria tedesca nelle trattative per stabilire il valore dell’euro, una moneta, sostiene Gallino, «costruita a misura di marco». Premesse che non facevano prevedere nulla di buono.

Gallino arriva addirittura a citare la fosca e purtroppo azzeccata previsione del giovane Keynes sulle conseguenze disastrose per l’intera Europa del trattato di pace vessatorio per i tedeschi che concluse la prima guerra mondiale. Se quel giudizio valeva allora per la Germania perché non avrebbe dovuto valere nel 2013 per la Grecia prona di fronte ai dettami della Troika?

Oggi, a pochi mesi di distanza dal saggio di Gallino, l’idea che si possa tornare indietro nella costruzione progressiva dell’Europa sta diventando di stringente attualità. In Gran Bretagna, dove l’adesione all’eurozona non è mai stata accettata, un referendum propone ora di uscire addirittura dall’Unione. Così, ancora una volta, le proposte di Gallino che a prima vista apparivano non di rado radicali, si dimostrano in realtà animate da un insospettato riformismo di fondo.

Solo chi ha seguito negli anni il professore sa che quella del riformismo radicale non è una scoperta tardiva ma è stata la cifra della sua attività di studioso. Il saggio di Gallino si presenta come un vero e proprio manuale giuridico per capire quali sono le leggi e gli articoli che possono consentire il recesso dall’euro. Questione che non basta il ritorno alla normalità dello spread a considerare definitivamente archiviata.

. Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2016

Viva Gramsci, in questi tempi cupi e senza bussola. Una stanza buia o quasi e solo le pareti illuminate, con la luce a illuminare quella grafia minuta, priva di sbavature. E poi le copertine. Le copertine di trentatré Quaderni che hanno fatto la storia del pensiero politico e filosofico.

Al prossimo Salone del Libro di Torino, dal 12 al 16 maggio, uno degli eventi clou sarà la mostra dedicata ai Quaderni gramsciani dal carcere, cominciati nel 1929 nella casa penale di Turi di Bari e terminati a Roma nell’estate del 1935. La mostra è organizzata dalla Fondazione Istituto Gramsci ed è l’inizio di una sorta di grand tour del pensatore italiano più studiato all’estero nonché fondatore, segretario e deputato del partito comunista. I Quaderni, infatti, dal 20 maggio saranno a Milano, alle Gallerie d’Italia in piazza Scala, fino al 17 luglio e infine torneranno a Roma per un’altra mostra a novembre.

A Milano, si aggiungerà il sostegno significativo dell’Associazione Enrico Berlinguer, che gestisce il patrimonio del Pci-Psd-Ds ed è presieduta da Ugo Sposetti, senatore del Pd non propriamente renziano. L’associazione per l’occasione metterà a disposizione due celebri dipinti di Renato Guttuso: La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio (1955) e I funerali di Togliatti (1972). È come se quel pezzo grande e consistente di sinistra che non si riconosce nel conformismo del Pd odierno ripartisse dalle origini. Sostiene Francesco Giasi, vicedirettore dell’Istituto Gramsci: “I Quaderni, al completo, furono esposti per la prima volta a Roma nel 2011 e rimanemmo colpiti dall’affluenza. Il pubblico manifestava allo stesso tempo sorpresa e voglia di vederli”. Nel 2017, poi, saranno ottant’anni della morte di Gramsci e i Quaderni faranno un ulteriore giro per l’Italia. In essi c’è tutto quello che costituisce il gramscismo.

Era un Politico con la maiuscola, Gramsci, che con gli occhiali del materialismo [storico] analizzava e studiava la molteplicità del reale. Dalla filosofia di Benedetto Croce al Risorgimento, da Machiavelli al fordismo. Nel quaderno numero 4, per esempio, i paragrafi sul Canto decimo dell’Inferno incrociano la svolta stalinista del Pcd’I nel 1930. Storia, letteratura e filosofia e un’elaborazione densa che, come osserva giustamente Giasi, “non ha bisogno di alcuna forzatura per essere attualizzata”. I Quaderni parlano ancora da soli, come dimostrano alcuni concetti rimasti nel nostro lessico, dall’egemonia culturale all’ampia categoria del nazionalpopolare, talune volte travisata se non deformata. Ed è per questo che nessun autore italiano ha mai avuto, come lui, ben tre edizioni complete delle sue opere. Non solo: l’intera bibliografia gramsciana vanta 20 mila titoli in ben 41 lingue diverse. Oggi i Paesi in cui il suo pensiero viene studiato di più sono Gran Bretagna, Francia, Messico, Argentina e Brasile. Il gramscismo è noto anche tra gli arabi, in primis Libano ed Egitto.

Gramsci era segretario del partito comunista quando venne arrestato a Roma l’8 novembre 1926. Il regime fascista lo condannò e incarcerò nonostante l’immunità parlamentare. Il permesso di scrivere gli fu accordato solo nel 1929, quando si trovava in Puglia. Nel 1933, per motivi di salute, fu trasferito a Formia, in clinica, e di qui a Roma, nella clinica Quisisana. Morì a 46 anni il 27 aprile 1937, pochi giorni dopo essere tornato libero. I 33 Quaderni (altri due rimasero bianchi) furono presi in consegna dalla cognata Tatiana Schucht e spediti a Mosca dove vivevano la moglie e i figli di Gramsci. La cognata li numerò senza alcun criterio scientifico coi numeri romani e questo, qualche anno fa, ha generato un giallo storico su un presunto diario mancante in cui Gramsci si sarebbe convertito al liberalismo.

Dice Giasi, sorridendo: “Abbiamo fatto tutte le indagini possibili e sotto le etichette non c’è nulla, nessun sbaglio o errore o quaderno-bis che manca. Per come lavorava Gramsci c’è tutto”. Oggi i Quaderni sono numerati da 1 a 29 e i restanti quattro, costituiti da traduzioni, sono indicati con A, B, C e D. Preziosi e fragili, sarà possibile sfogliarli e consultarli in edizione digitale. Il grand tour gramsciano va a cominciare.

Riferimenti

Numerosi scritti su Antonio Gramsci sono raccolti negli archivi di eddyburg, sia qui nel nuovo sia (e in maggior numero) qui nel vecchio

« .»Tiscali.it, 26aprile 2016 (c.m.c.)

Antonio Gramsci senza pace. Dopo la polemica parlamentare che ha accompagnato il riconoscimento di "Casa Gramsci" di Ghilarza, in Sardegna, quale "monumento nazionale", ecco che un altro motivo di discussione intorno alla figura del grande pensatore sorge a Torino. Il filosofo e politico sardo - tra i più studiati al mondo - nella città piemontese risiedette per i suoi studi superiori e universitari e lì ebbe inizio la sua importante esperienza politica. La casa dove visse per lungo tempo, in ristrettezze economiche ben descritte nelle sue biografie, potrebbe diventare una casa museo. Ma nelle camere dove il giovane pensatore alloggiò, studiò, elaborando teorie rivoluzionarie, e patì il freddo sono oggi adibite ad albergo. "Solo la deriva culturale e politica", scrive Massimo Novelli sul Fatto Quotidiano, "ha fatto sì che un'istituzione della sinistra come la Fondazione piemontese Antonio Gramsci, possa considerare un 'nuovo luogo della cultura' una sorta di negozietto neppure troppo visibile, come luogo Gramsciano".
Un hotel dove Gramsci si formò
La futura sede della Fondazione si trova tra via Maria Vittoria e via San Massimo, nel retro dell'hotel di proprietà della NH spagnola. Che per gentile concessione permette ai promotori, che ben si accontentano loro malgrado di santificare all'illustre ex inquilino niente meno che un sottoscala.
La "casa gramsciana"
Lo spazio angusto e nascosto rispetto ai flussi culturali cittadini verrà inaugurato domani, giorno in cui ricorre la morte dell'autore dei "Quaderni dal carcere" (1891-1937). In uno spazio ristretto Gramsci e la sua rivoluzione passata per la fondazione del Partito comunista italiano e pubblicazioni quale L'Ordine Nuovo, L'Unità e i già citati "Quaderni", per citarne alcuni, appare oggi relegato negli scaffali polverosi del piccolo locale come pezzo d'antiquariato, scrive ancora il Fatto. Ciò che uno dei più grandi intellettuali italiani produsse, anche a costo del terribile carcere fascista - il confino a Ustica, la prigione di San Vittore, di Regina Coeli e infine di Turi - che gli costò la salute e poi la vita, sembra non trovino pace nemmeno oggi.
Gramsci tra i più studiati al mondo
E, oltre al danno la beffa: fu solo per la sollevazione popolare che lo stesso hotel non prese il nome di "Gramsci", semmai oltraggio peggiore si potesse pensare. Ma la memoria si sa è labile, quella italiana lo è ancora di più: Gramsci con tutte le sue lucide e rivoluzionarie intuizioni resta tra i più studiati intellettuali del mondo, del quale non fa parte con ogni evidenza l'Italia.
Il 27 aprile del 1937, 79 anni fa, si spense Antonio Gramsci. Il padre della sinistra anticapitalista italiana ancor oggi ritenuto uno dei più importanti prodotti della cultura italiana. È più rispettato, studiato e utilizzato all'estero che nella nostra provincia da chiunque voglia conoscere il mondo per cambiarlo.

Il manifesto, 28aprile 2016

Una piccola folla, molti giovani universitari e qualche anziano leone, si è radunata mercoledì 27 aprile al cimitero acattolico di Roma per rendere omaggio a Antonio Gramsci nel giorno del 79esimo anniversario dalla sua morte avvenuta nel 37 dopo lunghi e fatali anni di prigionia nelle carceri fasciste.

Ciascuno aveva portato un fiore rosso, in prevalenza garofani, simbolo del socialismo delle origini. La cerimonia si ripete ormai da qualche anno convocata dall’International Gramsci society su ispirazione di quanto succede a Berlino alla ricorrenza della morte di Rosa Luxemburg.

In mattinata all’università Roma 3 era stato proiettato il docufilm "Gramsci 44", di Emiliano Berbucci, sui 44 giorni di confino trascorsi da Gramsci a Ustica.

Nel pomeriggio invece alla Biblioteca di storia moderna e contemporanea è stato presentato il volume di Michele Prospero "La scienza politica di Gramsci "(Bordeaux edizioni) da Alfredo D’Attorre e dal professor Guido Liguori, presidente della Igs.

Riferimenti
Eddyburg ha dedicato ad Antonio Gramsci una cartella nel vecchio archivio e una nel nuovo archivio. Raccolgono numerosi scritti di Gramsci e sulla sua opera.

In ricordo di Umberto Eco. Articoli di Claudio Magris, Fabio Mussi, Ezio Mauro e l'intervista di Benedetto Vecchi ad Alberto Asor Rosa.

Corriere della Sera il manifesto, la Repubblica, 21 febbraio 2016 (m.p.r.)

Corriere della Sera
IL MIO OMAGGIO AL GENIO DI ECO
CHE SAPEVA CAMBIARE (E RIDERE)

di Claudio Magris

In questo momento non penso solo alla poliedrica genialità di Umberto Eco, ai suoi libri famosi in tutto il mondo, alla sua rara combinazione di creatività letteraria e acutezza analitica. Penso ai nostri incontri, soprattutto anche se non solo agli indimenticabili giorni passati insieme tanti anni fa nella devastata Romania di Ceausescu, alla nostra complicità affettuosamente gaglioffa, alla sua capacità di ricominciare, come stava accadendo con il suo impegno per la fondazione di una nuova casa editrice. Dei suoi libri vorrei ricordare uno che non è il più grande né il più famoso ma che mi ha segnato, Apocalittici e integrati – un libro scritto molti anni fa ma oggi più che mai attuale per affrontare le incredibili, sconvolgenti trasformazioni del mondo e della vita con libero spirito critico, senza ansiosi e ossessivi rifiuti, e senza servile e passiva acquiescenza. E penso a tante fraterne risate che aiutano a vivere meglio.

Il manifesto
RIDERE PER CONOSCERE:
LA RIVOLUZIONE DI ECO

di Fabio Mussi

L'eredità. L’ultima lezione: per una sinistra di alternativa e di governo, sapere è l’indispensabile

«E l’infame sorrise». È Franti, il cattivo di Cuore. Tra le figure della scuola lacrimosa, pia e bigotta del De Amicis a Umberto Eco piaceva Franti. Ha scritto un Elogio di Franti. Perché? Perché rideva. Eco sapeva ridere, Eco rideva. Se volessimo usare il suo fondamentale «Trattato di semiotica generale», e dare una «interpretazione» del «segno» di Eco, eccola: il riso. Nel Nome della rosa - ricorderete - Guglielmo di Baskerville indaga su una catena di delitti consumati in abbazia. I delitti servono a nascondere un documento su un indicibile segreto: Cristo aveva riso. Atto sovversivo, apocalittico, cioè rivelatore. Primo insegnamento da mandare a mente: si è seri solo se si è capaci di ridere, anche di noi stessi.

Ho avuto il piacere e l’onore di incontrarlo più volte. È impressionante quel che sapeva, i collegamenti e i nessi che era in grado di intrecciare. Un aggettivo per la sua cultura? Sterminata. Secondo insegnamento: studiate. Senza studiare la politica non può essere né buona né nuova. Si rafforza per esempio in me l’impressione che noi non sappiamo quasi nulla della ipertrofica macchina economica mondiale che governa gli umani. Esoterica, come la storia del Pendolo di Foucault. Eco si è letteralmente tuffato nel Medioevo. La sua non è stata una ricerca erudita su tempi lontani. Ha fatto scoccare piuttosto la scintilla tra Medioevo ed Evo moderno, nei labirinti di simboli, enigmi, mostruosità, occultismi. Gioco di ombre e di luci.

«Secoli bui» sono stati chiamati quelli antichi. Ma non c’è tanto buio anche nel Moderno? Forse che l’assolutismo del capitale finanziario non sta spingendo la società umana verso un medioevo a più alto livello tecnologico? Non c’è tribalismo, razzismo, antisemitismo, fondamentalismo religioso, fanatismo, pensiero magico, banalità e piacere dello strazio dei corpi che non trovi facile cittadinanza nel mondo globalizzato? Sapete che cosa mi meraviglia, mi sorprende, e mi convince, delle parole lette ed ascoltate da Eco? Il considerare la storia del mondo, almeno dalla scrittura in poi (e non dimenticate che tutto è cominciato in quelle terre che oggi chiamiamo Siria e Iraq), come contemporanea. Si può parlare con il vicino di casa come con Guglielmo di Occam. Lo cito perché è uno degli autori più amati da Eco, ed è noto per il famoso «rasoio».

Una teoria razionalista che qualcuno pone tra i fondamenti della scienza moderna. Dice in sostanza il «rasoio»: non bisogna formulare più ipotesi di quelle necessarie, non bisogna dire più del necessario. Il resto, si direbbe con la moderna teoria dell’informazione, è «rumore», che confonde e maschera l’informazione. Parlo con Guglielmo, e mi chiedo assai spesso quanto devo «tagliare» – faccio un esempio a caso - del diluvio di parole del Presidente del consiglio in carica in Italia per capire esattamente che cosa vuole dire e fare.

Ecco ancora Umberto Eco: Occam e Mike Buongiorno, il basso e l’alto, le profondità della grande cultura e la fenomenologia della vita quotidiana. Egli è stato tra i grandi studiosi della società di massa, e della comunicazione nella società di massa. Il suo Apocalittici ed Integrati è un pilastro. Da cui trarrei per farla breve la terza raccomandazione: se si vuol fare una sinistra che si rispetti non bisogna essere apocalittici. Ma non si può nemmeno essere integrati. E nella comunicazione, se il mezzo non è esattamente il messaggio, tuttavia lo influenza. Sono noti gli scritti di Eco sull’ambivalenza del Web. Ha detto: se un cretino va al bar e spara fesserie, gli astanti lo sfottono. Se va su Facebook, trova legioni di seguaci. Come il leone e la gazzella, intelligenza e stupidità ogni mattina si alzano e si mettono a correre.

Sulla rete circolano entrambe. Ma la stupidità parte con un vantaggio: la velocità. La verità è che l’intelligenza ha bisogno del dubbio, dell’approfondimento, del ripensamento: dell’esitazione. E c’è un Eco politico, impegnato e battagliero. Egli è stato fieramente antiberlusconiano, fino a rifiutare la collaborazione con l’oligopolio editoriale di «Mondazzoli», e aderire al progetto della neonata «nave di Teseo», per la quale - ahimé! - non ha avuto il tempo di scrivere nulla. E voglio dire che, nonostante tante chiacchiere, se nel ventennio di Benito non si poteva dirsi democratici senza essere antifascisti, nel ventennio di Silvio non ci si è potuti chiamare democratici senza essere antiberlusconiani. Sperando naturalmente anche che la serie dei ventenni sia esaurita.

E voglio ricordarlo anche in una particolare occasione: Castello di Gargonza, 1997, governo Prodi da poco costituito. Mi capitò di essere tra i relatori. A favore della coalizione di centrosinistra chiamata «Ulivo». Trovai Eco tra i più convinti sostenitori. Prevalsero i tagliatori d’alberi. Resta il ricordo di ore indimenticabili passate con lui. E il rammarico per una delle molte occasioni gettate al vento. Vediamo di non buttarle tutte al vento. Dipende dalla sinistra che saremo. Una sinistra di alternativa e di governo. Ricordando che, e per l’alternativa e per il governo - traggo quest’ultima raccomandazione dalla vita e dall’opera di Umberto Eco - una cosa è indispensabile: sapere.


La Repubblica

LO STUDIOSO
CHE VOLEVA DIVERTIRE

di Ezio Mauro

Era «una bella mattina di fine novembre, nella notte aveva nevicato un poco» quando frate Guglielmo da Baskerville allo spuntar del sole venne avanti nell’Italia confusa del 1980. Il Paese aveva appena vissuto lo shock del delitto Moro, il punto più temerario della sfida terroristica alla democrazia, e l’inizio della sua caduta. Come su un terreno prosciugato, ripiegavano le Brigate Rosse e si ritiravano le ideologie, e noi entravamo senza bussola in un territorio sconosciuto. Ed ecco quel frate, amico di Occam e di Marsilio da Padova, che si mette in cammino sette secoli fa, procede per sette giorni e 576 pagine insieme al novizio Adso da Melk, viaggia verso settentrione ma senza seguire una linea retta, tocca città famose e abbazie antichissime che incutono paura come fortezze di Dio inaccessibili, masticando le erbe misteriose che raccoglie nei boschi e scrutando di notte, dopo vespro e compieta, le magie stregonesche dell’orologio, dell’astrolabio e addirittura del magnete.

Davanti al successo mondiale del Nome della rosa, tradotto in quarantacinque lingue, Umberto Eco ebbe prima la ritrosia prudente dello studioso di fronte alla contaminazione mondana della scienza, poi seguì divertito il gioco delle sovra-interpretazioni, infine si dedicò alla teorizzazione a posteriori, smontando e rimontando sapere e consumo, letteratura e storia, il caso e il calcolo. Rivelò che tutto era nato da un’idea seminale, perché gli era venuta la strana voglia di avvelenare un monaco. Poi spiegò che scriveva con la pianta dell’abbazia sotto gli occhi, dando ai dialoghi il tempo necessario dei passi per andare dal refettorio al chiostro, perché occorre crearsi delle costrizioni per poter inventare liberamente. Quindi aggiunse che poiché scrivere un romanzo è una faccenda cosmogonica, il suo mondo naturale era la storia e il Medioevo, e questo ricreò nelle pagine. E infine disse l’ultima verità, intima come una confessione: volevo che il lettore si divertisse.
C’è quasi tutto Eco in questa spiegazione di un successo che è una mappa delle intenzioni, perché prima del successo c’è la sfida della grande divulgazione, la scommessa di non cedere alla banalizzazione del sapere ma nello stesso tempo la capacità di costruirsi lettori, accendendo una passione, portandosela dietro fino a scoprire l’eresia estrema, una risata come movente di un delitto. Eco c’è riuscito perché questo percorso rigorosamente controllato nella formazione del romanzo corrisponde perfettamente alla costruzione intellettuale di sé: dunque suona autentico, senza forzature.
Studioso fino alla fine, Eco infatti ha sovvertito l’ordine classico delle strutture accademiche con la nascita del Dams a Bologna, sperimentando sempre ma rimanendo in fondo fedele alla lezione di Pareyson, come se fosse giusto avere un solo maestro. Ma nel 1954 quella generazione un po’ speciale (pensiamo a lui, con Gianni Vattimo e Furio Colombo) ebbe la fortuna di incrociare la Rai nascente, per concorso e non per raccomandazione del sottobosco democristiano: fu naturale prolungare la propria analisi scientifica universitaria con la comunicazione di massa che si affacciava all’Italia, con i nuovi linguaggi, col visivo accanto al letterario, con il divismo sconosciuto del piccolo schermo, con la nuova tecnica che scusava l’ignoranza e la bypassava, fino a fare di Mike Bongiorno il modello perfetto dell’uomo televisivo, che creava per la prima volta un pubblico costituito, la grande tribù italiana del giovedì sera.
Era incominciato il grande incrocio che avrebbe fatto di Eco un personaggio unico, il primo scienziato capace di chinarsi sulla semiologia del quotidiano, curioso di tic e tabù individuali moltiplicati a fenomeni di massa dai nuovi strumenti di comunicazione, linguaggi e modi di dire, attraversati dal gioco di un calembour, riscattati da un paragone letterario sproporzionato perché ironico ma perfettamente coerente, come quando legava Franti con Bresci o portava Mickey Mouse a dormire a Mirafiori, parlando a Minnie in piemontese.
L’alto e il basso del post-moderno trovarono in lui non il primo interprete, ma il nucleo forte, che teneva insieme perfettamente i due registri e li legittimava a vicenda. Quel nucleo centrale, credo si possa nel suo caso riassumere in tre parole: cultura come passione. E il “libro” come strumento universale, il libro capace secondo lui di sfidare anche internet, perché il web in fondo - diceva - è un ritorno dalla civiltà delle immagini all’era alfabetica, alla galassia Gutenberg, all’obbligo di leggere, e non importa quale forma prenderà il supporto che continuiamo a chiamare “libro”.
Leggere «per il gusto di leggere» e non solo per sapere, come Eco scoprirà da bambino. E dietro i libri, borgesianamente e naturalmente, la biblioteca. Cinquantamila libri “moderni”, milleduecento volumi antichi di cui lo scrittore parlava con la passione di una scoperta continua. Senza un catalogo, mossi continuamente dalle emergenze del conoscere, dalla curiosità di un lavoro, dalla memoria che cerca conferma, sapendo che una biblioteca raccoglie i libri che possiamo leggere, e non solo che abbiamo letto, perché è la garanzia di un sapere. Col terrore antico degli organismi che divorano le pagine dei libri, e la vecchia ricetta che consisteva nel piazzare una sveglia negli scaffali, confidando nel rumore regolare e nelle vibrazioni per bloccare il pasto insano dei libri.
L’altro strumento indispensabile alla costruzione del fenomeno Eco sono i giornali, quotidiani e settimanali, mensili, riviste. Li ha criticati duramente, fino al suo ultimo romanzo, ma li ha sempre usati per indagare il quotidiano, per collegare gli scarti di costume della vicenda di ogni giorno con le categorie del suo sapere, capace di ordinare e battezzare i gesti minimi, inserendoli in una sorta di catalogo universale.
Si comincia dal 1959 con quei brevi saggi di costume parodistici pubblicati sul Verri che raccolti in volume daranno poi vita al famosissimo Diario minimo per arrivare finalmente alla Bustina di Minerva dell’Espresso. È come se il registro dell’attualità, grazie ai giornali, desse a Eco la possibilità di un controcanto, un suono appartato ma rivelatore, che scorre a fianco della grande vicenda nazionale ma la sa interpretare rovesciandola spesso nei suoi paradossi, svelandola nell’intimo dei suoi vizi o delle sue verità travestite da miserie del quotidiano.
Pastiches e parodie sono la recitazione in pubblico, ordinata letterariamente, del calembour privato, del motto di spirito che Eco ti diceva per prima cosa incontrandoti, sempre alla ricerca della rivelazione anagrammatica, della saggezza popolare che diventa enigmatica nel nonsense di un proverbio stravolto nel suo contrario, che continua beffardo a dirti qualcosa. Contraffazioni meravigliose, come i falsi rapporti di lettura dei redattori di un’immaginaria casa editrice che bocciano la lettura della Bibbia («un omnibus mostruoso, che rischia di non piacere a nessuno perché c’è di tutto»), di Torquato Tasso («mi chiedo come verranno accolte certe scene erotiche un po’ lascive») e dei Promessi sposi: «tant’è, non tutti hanno il dono di raccontare, e meno ancora hanno quello di scrivere in buon italiano».
Fuori dalla parodia, il sentimento dei giornali ha in realtà consentito a Eco di incrociare l’attualità e di decifrarla coi suoi strumenti, arrivando a un giudizio politico partendo da una notazione estetica, culturale, da un segnale del linguaggio individuale e collettivo. Gli ha consentito, a ben vedere, di prendere parte alla vicenda italiana negli anni più travagliati del Paese. Lo ha fatto senza badare al rischio (ben presente in molti altri intellettuali) di dividere con una presa di posizione politica il grande «fascio indistinto» dei suoi lettori, la somma trasversale della sua popolarità internazionale. Anche qui (e ricordo certe discussioni negli ultimi vent’anni) era come se fosse mosso semplicemente da un obbligo culturale, da un dovere intellettuale, perché la cultura, diceva Bobbio, «obbliga terribilmente ».
Naturalmente quando usò il paradosso, dicendo che la notte prima di addormentarsi preferiva Kafka piuttosto che rincretinirsi davanti alla tv, la muta dei critici di destra gli saltò al collo credendo di inchiodarlo alla sua caricatura. Ci vedemmo in quei giorni, ed era totalmente indifferente agli attacchi perché non lo toccavano, ma credo soprattutto perché quel che aveva detto come battuta, era in realtà profondamente vero. Era vero che i libri lo dominavano come «un vizio solitario». Ed era certo che anche Eco, come i suoi personaggi, diventava in Italia collettivamente “vero” perché la comunità dei lettori aveva fatto su di lui negli anni un investimento culturale e passionale, trasformandolo nell’Intellettuale italiano degli ultimi trent’anni.
Tutto questo lo ha portato all’ultimo atto, il riscatto di una parte del patrimonio di autori Bompiani - partendo da se stesso - dal gigante Mondazzoli per fondare con Elisabetta Sgarbi “La nave di Teseo”. Ne discutemmo a fine novembre, in un salone dell’Accademia dei Lincei. Umberto chiuse la porta e parlò sottovoce, perché confidava uno dei grandi segreti della sua vita, l’ultimo approdo della sua passione, o ancora una volta del suo “obbligo” culturale trasformato in avventura finale, a ottantaquattro anni.
Adesso la nave dovrà salpare da sola, senza il Capitano, ma con il suo nuovo libro Pape Satan Aleppe, di cui proprio negli ultimi giorni aveva preso in mano la copertina, toccandola e accarezzandola come fa chi ama i libri. Gli avevamo chiesto in tanti che destino voleva avesse la sua biblioteca un giorno, dopo di lui. Adesso che il giorno è venuto, bisogna ricordare cosa rispondeva: non era sicuro che la sua biblioteca gli assomigliasse, perché la passione per i libri ti porta a conservare anche ciò in cui non credi. Tuttavia, non avrebbe voluto che i suoi libri fossero dispersi.
Forse, diceva, verranno comprati dai cinesi: se vorranno, dai miei libri «potranno capire tutte le follie dell’Occidente ».


Il manifesto
QUEL DISINCANTO IRONICO
IN DIFESA DELLA DEMOCRAZIA
intervista di Benedetto Vecchi ad Alberto Asor Rosa

Alberto Asor Rosa non nasconde l’emozione. «Ci ha unito la passione per la parola. Ognuno di noi, a proprio modo, ha cercato nella letteratura e nella comunicazione la chiave per accedere alla comprensione della realtà italiana. Abbiamo seguito sentieri diversi, ma ci siamo molte volte incontrati con la curiosità di capire a che punto eravamo giunti nei nostri percorsi di ricerca».

Raggiunto telefonicamente a Milano, Asor Rosa non si sottrae alle domande. Racconta di discussioni, di pagine scritte, di romanzi letti, di un clima culturale che sembra ormai appartenere a un passato remoto, anche se sono passati solo due, tre decenni. «Scrissi una recensione per la Repubblica a Il nome della rosa. Il libro mi piacque e ne scrissi un elogio. Molti, invece, puntarono l’indice contro il romanzo e Umberto Eco. Operazione decisa a tavolino, pianificata per avere il consenso del pubblico: erano queste le critiche frequenti. Il libro invece a me piacque molto. Ne scrissi citando anche un altro grande scrittore, Italo Calvino. Anche verso Calvino le critiche, siamo agli inizi degli anni Ottanta, non erano tenere. Per entrambi sostenni che si erano molto divertiti a scrivere quei romanzi indicati come mera operazione editoriale».
Già, gli anni Ottanta, il decennio degli integrati, dopo che i vent’anni precedenti avevano vissuto il conflitto con gli apocalittici. Sono gli anni che vedono giungere a maturazione quello che Umberto Eco aveva ipotizzato proprio in Apocalittici e integrati, dove analizzava attentamente il ruolo degli allora nuovi media - la televisione soprattutto - nella formazione dell’opinione pubblica. La pubblicazione de Il nome della rosa diede infatti il via a una polemica che ha visto impegnati lo stesso Eco, Franco Fortini, Asor Rosa, Gian Carlo Ferretti (a quest’ultimo si deve l’espressione di «best seller di qualità» per qualificare proprio libri come Il nome della rosa) e molti altri intellettuali. E come spesso accade, le recensioni furono l’occasione per fare il punto del rapporto tra «letteratura e vita nazionale» e sul ruolo dell’intellettuale in una realtà caratterizzata appunto da un ruolo preponderante della televisione, che dagli inizi degli anni Ottanta in poi, sarà il medium che plasmerà l’opinione pubblica, rispecchiandone e amplificandone i sentimenti più profondi e oscuri. Ed è dalla figura e del lascito intellettuale di Umberto Eco che prende il via l’intervista a Asor Rosa.
Qual è l’eredità intellettuale di Umberto Eco?
Difficile dare una risposta semplice, lineare. Eco è stata una personalità intellettuale complessa. Semiologo, filosofo, letterato, giornalista, appassionato docente. Se si guarda alla sua vita intellettuale e la si confronta con l’attuale povertà della ricerca italiana è difficile fare una sintesi. In lui hanno convissuto una dimensione creativa - i suoi romanzi - e una dimensione scientifica (il semiologo, il filosofo). È stata una personalità fuori dal comune. È il primo intellettuale, in Italia, che ha infranto il confine del consumo di massa. Sapeva produrre romanzi e saggi salutati sempre da alti numeri di vendite. Ed è stato uno dei pochi intellettuali italiani molto letto oltre i nostri confini nazionali. Un personaggio autorevole, dalla Francia agli Stati Uniti, per la sua indubbia capacità di dare voce a un «sentire» diffuso e mai acquiescente verso lo la realtà delle cose. Era già accaduto ad altri intellettuali italiani ma Eco è riuscito a essere intellettuale pubblico internazionale in un’epoca caratterizzata da media sempre più globali.
L’espressione presente in alcuni scritti di Eco è proprio intellettuale pubblico. Non intellettuale organico e neppure intellettuale militante. Ma non è mai stato un uomo di cultura che si è rifugiato dentro le stanze rassicuranti dell’Accademia....
È stato un intellettuale pubblico mai compiaciuto di se stesso e del suo ruolo. L’ho letto sin dai suoi esordi. Il libro che però mi ha colpito profondamente è stato Opera aperta, dove Eco affronta il complesso rapporto tra lettore e pubblico e dove si confronta con il nodo delle ricezioni molteplici dei lettori, che possono rendere un romanzo o un saggio cosa diversa da quella pensata dall’autore. Opera aperta è il libro che manifesta una capacità di innovazione unita a una erudizione massima e un distacco ironico dai cliché accademici dello studioso chiuso in una stanza che tiene fuori quanto accade nel mondo. Questo ironico distacco ha permesso a Umberto Eco di avere un pubblico di massa, facendo sbriciolare il muro dell’insofferenza e dell’indifferenza del pubblico verso temi e argomenti da sempre prerogativa dell’Accademia.
Umberto Eco commentava sempre divertito il fatto che i suoi romanzi fossero best seller. Che ne pensa di questa sua capacità di conquistare l’attenzione del pubblico?
Voglio ricordare un episodio del legame intellettuale che mi univa a lui. Quando uscì Il nome della rosa, le reazioni dei critici non furono generose. Scrissi per Repubblica una recensione dove elogiavo la sua capacità di tessere la trama di un romanzo che catturava l’attenzione senza mai essere banale nella definizione dei personaggi, nella ricostruzione storica del periodo e dei temi che affrontava, come la libertà di ricerca in un clima segnato da dogmatismo. Molti lo criticarono anche aspramente per come era stato prodotto e per l’implicita idea della necessaria indipendenza del letterato dalla contingenza politica. Replicai a molte delle critiche con un altro scritto. Erano due gli autori che erano criticati in quel periodo: Umberto Eco e Italo Calvino. Io sostenni che nello scrivere i loro romanzi si erano divertiti. Questo del divertimento non è una faccenda secondaria, perché denota passione, intenzionalità anche politica. Poi, certo, il divertimento può diventare un limite, diventando anch’esso un vincolo troppo forte, minando la qualità del lavoro di scrittura. Umberto Eco può essere stato discontinuo, ma sarebbe improvvido considerare negativamente i suoi romanzi. Come ho detto è stato una personalità complessa, difficile da definire in maniera tranchant.
Eppure la voce di Umberto Eco è stata meno presente nel corso degli anni. Non crede?
Non sono d’accordo. Ha sempre preso posizione per una difesa delle istituzioni democratiche. Senza nessuna indulgenza per il potere e senza derive populiste. Possiamo dire che è stato meno efficace, ma la perdita di efficacia riguarda tutti gli intellettuali di questo paese. Come non ricordare le settimanali «Bustine di Minerva» apparse su l’Espresso. Sono una vera e propria storia del presente dove non ha fatto sconti a nessuno. Potevi dissentire o esprimere consenso, ma sono comunque esempi di una sua presenza vitale nella vita culturale e politica italiana. L’ultima presa di posizione di Eco ha riguardato il processo di concentrazione editoriale che ha avuto nell’acquisto della divisione libri della Rcs da parte di Mondadori..... Mi sembra che la sua presa di posizione sia stata ammirevole. Si è impegnato in una avventura editoriale dagli esiti incerti quando era già ammalato. Mi sembra che questo riveli la sua coerenza di intellettuale libero, quale è stato per tutta la vita.

Con Luciano Gallino, a cui oggi Torino darà l’ultimo saluto, se ne va via la dimostrazione più evidente di quanto la retorica della gioventù sia farlocca e demagogica. L’anagrafe non è garante di nulla, se non di una, peraltro solo statistica, salute migliore. L’essere giovani non è una patente di intelligenza.

La giovinezza, sbandierata come un programma politico, non produce in automatico né elasticità mentale, né progressismo, né pensieri illuminati, etici o lungimiranti. Non è un dispositivo per la generazione automatica di rivoluzionari, la giovane età. È un tempo, e il tempo è un organismo delicato: se mal trattato si ammala, e se si ammala il tempo si ammala il mondo.

Questa mattina verrà cremato un uomo di 88 anni, un intellettuale non incline al compromesso, lucido nel suo pensiero, visionario di quello che c’era – ovvero refrattario a ogni propaganda – insubordinato, impavido, osteggiatore di ogni status quo imposto come tale, disinnescatore di tutti gli ordigni ideologici. Questa mattina passerà attraverso il fuoco un gran lettore, ovvero, per definizione, qualcuno che non si accontenta del mondo che ha, qualcuno che quel mondo vuole interrogarlo, metterlo alla prova di una domanda.

Ha guardato in faccia il mondo della finanza e ha visto che non era un destino ma una scelta degli uomini, e quella scelta aveva un prezzo che solo alcuni avrebbero pagato. Ha guardato frontalmente le promesse e si è accorto, dati alla mano, che le parole posso ingannare, e che le promesse possono essere bugie vestite bene. Ha pensato che essere vecchi non fosse un valore ma una responsabilità, quella di mettere a disposizione di chi arriva una lettura aggiuntiva del mondo.

Per questo amava la letteratura, e per questo andava orgoglioso di avere tradotto quel romanzo immenso che è L’uomo invisibile di Ralph Ellison. Perché con la letteratura condivideva l’impertinenza, ovvero il sabotaggio costante di ogni forma prestabilita: l’ostilità a ogni accettazione acritica non come atto di protesta ma di cittadinanza, e in qualche modo di piacere.

Luciano Gallino era tutto questo, e naturalmente molto di più. E a metterle in fila, tutte queste che ho elencato sembrerebbero prerogative dell’età giovane. Della sua età aveva la compostezza, le abitudini estetiche, il rispetto di codici comportamentali che vorremmo non desueti ma assodati una volta per tutte.

Dall’altra parte, a Palazzo Chigi, abbiamo un Presidente del Consiglio di 40 anni. Stando all’anagrafe e al contesto in cui opera, quello della politica, si potrebbe persino definire giovane.

L’essere giovani è stato un programma elettorale, e grazie alla retorica del largo-ai-giovani si è fatto largo anche lui. Poi ha imposto politiche conformi ai diktat della finanza mondiale, chino ai voleri dei poteri forti, nell’applicazione più prevedibile di ricette già consolidate, in una postura politica già rodata in decenni di politiche italiane deleterie. L’ha fatto, però, trasformando la gioventù in una bandiera, devitalizzandola, degiovanizzandola. Ha trasformato la gioventù in propaganda.

L’ha fatto con la modalità, questa sì, di un uomo giovane, con tutta l’energia raddoppiata dall’età. Ha messo la gioventù in gabbia, ci si è fatto un selfie insieme, e poi ha lasciato che altri lanciassero qualche nocciolina di sostegno. Tutto questo oggi brucerà di più, quando, dopo il fuoco, Luciano Gallino sarà cenere.

Luciano Gallino ha scritto fino all’ultimo, fino a pochi giorni fa, quando le forze sono venute meno.

Perché sentiva l’importanza - forse anche l’angoscia - di ciò che aveva da dire. E cioè che il mondo non è «come ce lo raccontano». Che il meccanismo che le oligarchie finanziarie e politiche dominanti stanno costruendo e difendendo con ogni mezzo - quello che in un suo celebre libro ha definito il Finanz-capitalismo - è una follia, «insostenibile» dal punto di vista economico e da quello sociale. Che l’Europa stessa - l’Unione Europea, con la sua architettura arrogantemente imposta - è segnata da un’insostenibilità strutturale. E che il dovere di chi sa e vede - e lui sapeva e vedeva, per il culto dei dati e dell’analisi dei fatti e dei numeri che l’ha sempre caratterizzato -, è di dirlo. A tutti, ma in particolare ai giovani. A quelli che di quella rovina pagheranno il prezzo più amaro.

Non per niente il suo ultimo volume (Il denaro, il debito e la doppia crisi) è dedicato «ai nostri nipoti». E reca come exergo una frase di Rosa Luxemburg: «Dire ciò che è rimane l’atto più rivoluzionario».

Eppure Gallino non era stato, nella sua lunga vita di studio e di impegno, un rivoluzionario. E neppure quello che gramscianamente si potrebbe definire un «intellettuale organico».

La sua formazione primaria era avvenuta in quella Camelot moderna che era l’Ivrea di Adriano Olivetti, all’insegna di un «umanesimo industriale» che ovunque avrebbe costituito un ossimoro tranne che lì, dove in una finestra temporale eccezionale dovuta agli enormi vantaggi competitivi di quel prodotto e di quel modello produttivo, fu possibile sperimentare una sorta di «fordismo smart», intelligente e comunitario, in cui si provò a coniugare industria e cultura, produzione e arte, con l’obiettivo, neppur tanto utopico, di suturare la frattura tra persona e lavoro. E in cui poteva capitare che il capo del personale fosse il Paolo Volponi che poi scriverà Le mosche del capitale, e che alla pubblicità lavorasse uno come Franco Fortini, mentre a pensare la «città dell’uomo» c’erano uomini come Gallino, appunto, e Pizzorno, Rozzi, Novara… il fior fiore di una sociologia critica e di una psicologia del lavoro dal volto umano.

Intellettuale di fabbrica, dunque. E poi grande sociologo, uno dei «padri» della nostra sociologia, a cui si deve, fra l’altro, il fondamentale Dizionario di sociologia Utet. Straordinario studioso della società italiana, nella sua parabola dall’esplosione industrialista fino al declino attuale. E infine intellettuale impegnato - potremmo dire «intellettuale militante» - quando il degrado dei tempi l’ha costretto a un ruolo più diretto, e più esposto.

Gallino in realtà, negli ultimi decenni, ci ha camminato costantemente accanto, anzi davanti, anticipando di volta in volta, con i suoi libri, quello che poi avremmo dovuto constatare. È lui che ci ha ricordato, alla fine degli anni ’90, quando ancora frizzavano nell’aria le bollicine della Milano da bere, il dramma della disoccupazione con Se tre milioni vi sembran pochi, segnalandolo come la vera emergenza nazionale; e poco dopo, nel 2003 - cinque anni prima dell’esplodere della crisi! - ci ha aperto gli occhi sulla dissoluzione del nostro tessuto produttivo, con La scomparsa dell’Italia industriale, quando ancora si celebravano le magnifiche sorti e progressive della new economy e del «piccolo è bello».

È toccato ancora a lui, con un libro folgorante, ammonirci che Il lavoro non è una merce, per il semplice fatto che non è separabile dal corpo e dalla vita degli uomini e delle donne che lavorano, proprio mentre tra gli ex cultori delle teorie marxiane dell’alienazione faceva a gara per mettere a punto quelle riforme del mercato del lavoro che poi sarebbero sboccate nell’orrore del Jobs act, vero e proprio trionfo della mercificazione del lavoro.

Poi, la grande trilogia - Con i soldi degli altri, Finanzcapitalismo, Il colpo di Stato di banche e governi -, in cui Gallino ci ha spiegato, praticamente in tempo reale, con la sua argomentazione razionale e lineare, le ragioni e le dimensioni della crisi attuale: la doppia voragine della crisi economica e della crisi ecologica che affondano entrambi le radici nella smisurata dilatazione della ricchezza finanziaria da parte di banche e di privati, al di fuori di ogni limite o controllo, senza riguardo per le condizioni del lavoro, anzi «a prescindere» dal lavoro: produzione di denaro per mezzo di denaro, incuranti del paradosso che l’esigenza di crescita illimitata dei consumi da parte di questo capitalismo predatorio urta contro la riduzione del potere d’acquisto delle masse lavoratrici, mentre la spogliazione del pianeta da parte di una massa di capitale alla perenne ricerca d’impiego distrugge l’ambiente e le condizioni stesse della sopravvivenza.

E intanto, nelle stanze del potere, si mettono a punto «terapie» che sono veleno per le società malate, cancellando anche la traccia di quelle ricette che permisero l’uscita dalla Grande crisi del ’29. È per questo che l’ultimo Gallino, quello del suo libro più recente, aggiunge ai caratteri più noti della crisi, anche un altro aspetto, persino più profondo, e «finale».

Rivolgendosi ai nipoti, accennando alla storia che vorrebbe «provare a raccontarvi», parla di una sconfitta, personale e collettiva. Una sconfitta - così scrive - «politica, sociale, morale». E aggiunge, poco oltre, che la misura di quella sconfitta sta nella scomparsa di due «idee» - e relative «pratiche» - che «ritenevamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella di pensiero critico».

Con un’ultima parola, in più. Imprevista: «Stupidità». La denuncia della «vittoria della stupidità» - scrive proprio così - delle attuali classi dominanti.

Credo che sia questo scenario di estrema inquietudine scientifica e umana, il fattore nuovo che ha spinto Luciano Gallino a quella forma di militanza intellettuale (e anche politica) che ha segnato i suoi ultimi anni.

Lo ricordiamo come il più autorevole dei «garanti» della lista L’Altra Europa con Tsipras, presente agli appuntamenti più importanti, sempre rigoroso e insieme intransigente, darci lezione di fermezza e combattività. E ancora a luglio, e poi a settembre, continuammo a discutere - e lui a scrivere un testo - per un seminario, da tenere in autunno, o in inverno, sull’Europa e le sue contraddizioni, per dare battaglia. E non arrendersi a un esistente insostenibile…

Nel rimpiangere il maestro che ci ha lasciati l'autore ce ne ricorda una pagina, che anche per noi è fondamentale. La Repubblica, blog "Articolo 9", 9 novembre 2015
Senza Luciano Gallino siamo più soli, più disarmati, meno capaci di capire il presente e di costruire un futuro diverso: uso il plurale, parlo di tutti coloro che credono che un altro mondo sia possibile.

In queste ore tristissime possiamo fare solo una cosa: rileggerlo, con animo profondamente grato.

«Se si guarda alla sua irresistibile ascesa come ideologia dominante dell'ultimo terzo del Novecento e del primo decennio Duemila, bisogna partire dalla constatazione che il neoliberalismo è una dottrina totalitaria che si applica alla società intera e non ammette critiche. In forza del suo dominio tale dottrina ha profondamente corrotto la vita sociale, il tessuto delle relazioni tra le persone, su cui le società si reggono; con i suoi errori ha condotto l'economia occidentale ad una delle peggiori recessioni della storia; ha straordinariamente favorito la crescita delle disuguaglianze di reddito, di ricchezza di potere. ...

«È la più grande forma di pandemia del XXI secolo. È anche un grande pericolo per la democrazia. Per cui sarebbe necessario combatterla ogni giorno mediante rinnovate dosi di pensiero critico in ogni singolo luogo in cui si riproduce: nella scuola, negli atenei, nei manuali, nei quotidiani, in tv. Allo sguardo del pensiero critico, il neo liberalismo è nudo. L'ermellino che vanta è in realtà un panno di poco prezzo.
«Bisogna puntare a moltiplicare il numero di persone che così lo vedono. E, perché no, dare retta a Keynes, là dove dice (alla fine della Teoria generale) che prima o poi sono le idee, più ancora che gli interessi costituiti, a essere davvero pericolose, per il meglio e per il peggio. Che è uno dei pensieri utilizzati con maggior destrezza dal neoliberalismo, insieme con il concetto di egemonia, al fine di costruire un mondo dove il peggio tocca solo ai deboli, e il meglio ai più forti. Bisognerebbe tentare di rovesciare tale principio, allo scopo di costruire qualcosa di meglio a favore dei più deboli»
(L. Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi. L'attacco alla democrazia in Europa, Torino, Einaudi, 2013, pp. 251, 268)

Parole alle quali viene da rispondere con il Max Weber della Scienza come professione (1917): «Ne vogliamo trarre l’insegnamento che anelare e attendere non basta, e faremo altrimenti: ci metteremo al nostro lavoro, e adempiremo “alla richiesta di ogni giorno” come uomini, e nel nostro lavoro».

Grazie, professor Gallino: che la terra le sia lieve.

Il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2015

Quando ho sentito a Bruxelles la notizia della morte di Luciano Gallino mi è tornata in mente un’immagine della più bella autobiografia mai scritta, Dei miei sospiri estremi, di Luis Bunuel. Verso la fine del libro e della vita, ormai ottuagenario, il grande maestro surrealista, “ateo per grazia di Dio”, racconta un sogno, quello di uscire qualche volta dal cimitero per andare soltanto fino all’edicola, comprare l’ultima edizione e vedere a che punto sia giunta la follia del mondo. Fino agli ultimi mesi, ormai provato dalla malattia, dalle operazioni e dai ricoveri, Luciano Gallino è rimasto un uomo profondamente appassionato al futuro del nostro Paese, dell’Europa, del mondo.

Uno sguardo lungo che ha ispirato le sue ultime opere, per così dire pedagogiche, dove ha cercato di spiegare con parole semplici alle generazioni più giovani quanto stava accadendo nelle società occidentali, in gran parte alle loro spalle. Da molto tempo i fatti si erano incaricati di dare ragione alle sue lucide, chiarissime analisi s ul l’evoluzione del capitalismo globalizzato e sulle conseguenze catastrofiche di una sballatissima costruzione dell’Unione europea.

Nessuno come Gallino, neppure il giustamente celebrato Piketty, ha saputo raccontare in anticipo la follia delle oligarchie dominanti conservatrici, l’utopia negativa di voler rispondere alla crisi più potente degli ultimi ottant’anni, dalla Grande Depressione, con una ricetta ideologicamente opposta a quella del ’29, distruggendo lo stato sociale, imponendo assurde politiche di austerità e svalutando il lavoro e i diritti.

Nei suoi saggi e articoli erano annunciati già gli effetti catastrofici che si sarebbero materializzati negli anni, dal declino dei ceti medi alla ricomparsa di masse di poveri nel ricco Occidente, fino al furto di vita e futuro ai danni delle nuove generazioni e al pericolo di veder risorgere un nuovo fascismo in tutta Europa. Si può dire che l’avventura della Lista Tsipras, con tutti i suoi limiti certo, ma anche col merito di aver dato rappresentanza a una cultura di sinistra minacciata di estinzione dal trasformismo renziano, sia nata tutta attorno al pensiero di Luciano Gallino. Nel panorama conformista e provinciale della vita intellettuale italiana, le idee di Gallino erano un’oasi d’intelligenza e coraggio. In un Paese che ama gli anticonformisti soltanto in occasione degli anniversari della morte, si può soltanto sperare che questi meriti non gli vengano riconosciuti fra quar ant’anni, come per Pasolini.

ALa Repubblica, 9 novembre 2015




UN INTELLETTUALE RARO CHE ALLA PURA ANALISI
UNIVA SEMPRE L’EMPATIA PER I “VINTI”
di Guido Crainz
Un intellettuale raro, Luciano Gallino. Raro per l’arco complessivo del suo percorso, da quel luogo magico che è stata la Olivetti degli anni Cinquanta e Sessanta sino al ruolo svolto nei grandi campi del sapere sociologico; dall’Università di una città- simbolo dell’Italia industriale come Torino alle esperienze internazionali, e sino ai puntuali interventi connessi all’attualità. Un intellettuale raro per l’intreccio stretto fra ricerca scientifica e impegno civile, nel suo rigoroso seguire il delinearsi di un mondo e il suo dissolversi: con un’attenzione costante sia alle nervature interne di esso che alle ricadute umane dei processi che lo attraversavano.

Si riflette infatti nelle sue ricerche il definirsi del mondo industriale in Italia, il suo tardivo ed intenso espandersi, il suo specifico profilo; e poi il suo progressivo rimodellarsi ( Il lavoro e il suo doppio) e incrinarsi ( La scomparsa dell’Italia industriale) sino al suo radicale trasformarsi nell’era della globalizzazione. Senza rimuovere i drammi umani e le lacerazioni che quella dissoluzione ha provocato e provoca; con un’intensa attenzione ai nessi fra Globalizzazione e diseguaglianze, a Il costo umano della flessibilità o ai profili de L’impresa irresponsabile. Con l’analisi attenta delle forme e delle modalità complesse del lavoro, delle trasformazioni tecniche e al tempo stesso delle dimensioni umane che entravano in gioco.

È sufficiente scorrere alcuni titoli dei suoi libri per cogliere la ricchezza di un percorso e questo rinvia ad un altro suo tratto: alieno dalle più rigide ideologie del marxismo di scuola quando esso sembrava imperante, e alieno dalle liquidazioni altrettanto ideologiche di patrimoni conoscitivi quando quelle liquidazioni sono dilagate. Si legge con passione un libro-intervista di tre anni fa, La lotta di classe dopo la lotta di classe. Con la riflessione sull’attuale ridefinirsi delle classi sociali, in una puntuale contestazione di chi ne nega l’esistenza; e con la delineazione di una lotta di classe (economica, sociale, culturale) condotta oggi dalle classi dominanti contro le classi lavoratrici e le classi medie. Con l’analisi non dello scomparire ma del progressivo estendersi - oltre la fabbrica e anche oltre il lavoro - di forme molteplici di dominio quotidiano.

Con l’analisi delle tragedie indotte non solo dai processi economici ma anche dal Dramma di una società disgregata, per citare un articolo pubblicato nel marzo del 2010 su questo giornale: una riflessione su quelle lacerazioni indotte dalla crisi di cui testimoniavano i drammi, e i suicidi, di imprenditori e di operai del Nord-Est. «Per resistere a un simile carico di rabbie e scoramento», scriveva, sarebbero necessarie coesioni sociali oggi quasi dissolte. Sarebbero necessari “gruppi di sostegno” che un tempo esistevano: «Certamente ne esistono ancora, ma forse non abbastanza». Era un’analisi e al tempo stesso un richiamo a responsabilità collettive: come tutti i suoi scritti.


IL RIFORMISTARIGOROSO CHE CI HA RACCONTATO
LE METAMORFOSI D’ITALIA
di Paolo Griseri

Di Luciano Gallino, scomparso ieri all’età di 88 anni, mancherà la testimonianza rigorosa e appassionata, la serietà d’analisi che consentiva a tutti coloro che si occupano della società italiana di avere uno sguardo non preconfezionato sui mutamenti dell’ultimo mezzo secolo. Soprattutto mancherà il suo essere punto di riferimento, quasi una cartina di tornasole del mutare delle posizioni altrui: il suo mite radicalismo d’indagine aveva finito per farlo passare, negli ultimi anni, come un intellettuale no global mentre era semplicemente il coerente sostenitore di un riformismo rigoroso e non cortigiano. Dunque un riformismo autentico.

Dal capitalismo dal volto umano di Adriano Olivetti alla girandola impazzita della crisi dei mutui subprime, Luciano Gallino ha conosciuto e analizzato l’intera parabola del rapporto capitale-lavoro nella seconda parte del Novecento. Utilizzando come metro di valutazione le persone che in quei processi venivano rese protagoniste o schiacciate.

Non avrebbe potuto essere diversamente. Ivrea, negli anni Cinquanta e Sessanta, è stata uno dei principali laboratori di analisi sociale e anche scuola di formazione per intellettuali e futuri esponenti della classe dirigente italiana. Lo ha raccontato nell’intervista su Adriano Olivetti riproposta lo scorso anno da Einaudi con il titolo L’impresa responsabile. Quasi una provocazione se si pensa a certe società quotate in Borsa. Ma, all’epoca, una specie di parola d’ordine per gli intellettuali riuniti intorno dall’azienda di Ivrea. La Olivetti di Adriano e la Torino di Gianni Agnelli erano, all’epoca, i due poli possibili della via italiana al capitalismo. Olivetti chiama Gallino nel 1956 a fare da consulente e sembrava una bestemmia, una stravaganza per un capitano d’industria. Le due one company town sistemate a soli 40 chilometri di distanza, rivaleggiavano sul modello di capitalismo che proponevano.

Una competizione vera, a colpi di marketing sociale: ancora alla fine degli anni Settanta ci fu chi osservò che sull’autostrada i cartelli chilometrici verso Torino erano sponsorizzati dalla Fiat e quelli sulla carreggiata opposta, verso Ivrea, dalla Olivetti. Industria di massa che aveva sconvolto la geografia sociale di Torino quella degli Agnelli, città-comunità che realizzava prodotti d’avanguardia quella degli Olivetti. È in questo secondo campo che il giovane Gallino aveva cominciato a studiare il lavoro e le sue conseguenze sulla società, all’ufficio “Studi relazioni sociali”.

È all’Università di Torino che negli anni Settanta inizia il suo percorso di docente e di ricercatore. Arriva in un momento particolare per la storia sociale ma anche per gli studi sociologici. A Torino il punto di riferimento era per tutti Filippo Barbano, uno dei pionieri della sociologia italiana. Erano anni in cui era diventata una scelta quasi obbligata per un intellettuale coniugare studio e verifica sul campo in una città che era diventata inevitabilmente un gigantesco laboratorio sociale. Approfondire i saggi teorici e distribuire questionari davanti ai cancelli delle fabbriche erano le due principali attività dei sociologi.

Gallino non amava le mode intellettuali. Alle narrazioni preferiva i numeri, l’analisi scientifica dei dati, e questo gli ha reso la vita non semplicissima sia negli anni Settanta del Novecento sia in questo primo scorcio del nuovo millennio. Non aveva nemmeno timore di schierarsi. La sua adesione al comitato promotore della lista Tsipras alle elezioni europee è la dimostrazione che il riformista Gallino non era un intellettuale timoroso di sporcarsi le mani. Era invece convinto della necessità di un cambio radicale di sistema, non solo economico ma anche culturale. E per arrivarci non vedeva altra strada se non quella dello studio e della comprensione dei meccanismi sociali. Non amava scorciatoie populiste: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tantivo di salvarsi — scriveva — ogni speranza di realizzare una società migliore dell’attuale può essere abbandonata».

Lo studio ma anche la proposta. Il suo piano per creare lavoro e uscire dalla crisi negli anni difficili dello spread alle stelle è stata una delle rare proposte concrete. Quell’idea di prender- si cura dell’Italia, utilizzare gli investimenti pubblici per creare lavoro, ristrutturare scuole e riparare strade è forse il vero testamento del sociologo che sapeva guardare oltre lo stato di cose esistente.


Nel 40° anniversario dell'assassinio di Pierpaolo Pasolini. «Pensatore pessimista e profetico, volle mostrare il vero volto, feroce e repressivo, dell’autorità.,nascosto sotto le spoglie dell’edonismo»

LaRepubblica, 28 ottobre 2015

L’Italia di oggi nacque con il boom economico, la grande trasformazione che ne riplasmò sentimenti, mode, abitudini, comportamenti politici, scelte di vita. Pier Paolo Pasolini ne fu protagonista e testimone e il suo lavoro si propone allo storico come una fonte indispensabile per avvicinarsi al senso profondo di quegli anni. Ma Pasolini ha anche egli stesso uno sguardo da storico, interessato al mutamento,alle brusche impennate della grande storia che rompono la crosta dell’immobilismo,

spezzano equilibri plurisecolari. Così, quando riflette sulla società italiana, lo fa con consapevolezza di chi si misura con una questione — quella della continuità/ rottura tra il fascismo e l’Italia repubblicana — che è tipicamente storiografica. Schierandosi decisamente per la “continuità”, il suo riferimento è a una Democrazia Cristiana che «sotto lo schermo di una democrazia formale e di un antifascismo verbale, ha perpetuato la stessa politica del fascismo», dando vita a un «regime poliziesco parlamentare ». Il blocco sociale su cui si fondava il consenso democristiano era lo stesso del fascismo mussoliniano: la piccola borghesia e i contadini uniti al grande capitale. Identico era anche il cemento ideologico fondato sul cattolicesimo e su valori quali la moralità, l’obbedienza, la disciplina, l’ordine, la patria, la famiglia.

La tesi della “continuità” era in gran parte condivisa dagli storici di allora. A marcarne l’originalità fu piuttosto il film su Salò o le 120 giornate di Sodoma , del 1975. In quel caso davvero si spinse in territori che la stessa storiografia ufficiale aveva fino ad allora complessivamente ignorato, restituendo al fascismo la sua essenza biopolitica, attribuendogli un Potere in cui si incarnava il Male assoluto. In quella Salò, il Potere consumava la sua ultima, parossistica orgia e lasciava affiorare, senza più mediazioni ed orpelli istituzionali, la volontà di impadronirsi — attraverso il sesso — dei corpi dei propri sudditi; una volontà di dominio che era la diretta conseguenza di quella “politicizzazione della vita” attraverso la quale, come avrebbe sottolineato Agamben, nelle esperienze del totalitarismo novecentesco il corpo dell’individuo diventava la posta in gioco delle strategie politiche, la politica si trasformava in biopolitica: la nuda vita, l’esistenza biologica degli individui, fino ad allora confinata in una terra di nessuno, veniva inserita nel circuito della statualità, con la vita e la morte che non erano più concetti scientifici ma politici, occasione per l’esercizio di un potere che si saziava umiliando e profanando i corpi delle vittime.

Ma Pasolini “storico” fu originale anche per altri aspetti. Fu tra i pochi, infatti, ad accorgersi di una “rottura” ben più profonda, avvenuta nell’inconsapevolezza di molti. «La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa — scriveva, nel 1974 — Non c’è più dunque differenza apprezzabile… tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente, e quel che più impressiona, fisicamente, interscambiabili... I giovani neofascisti che con le loro bombe hanno insanguinato l’Italia, non sono più fascisti... Se per un caso impossibile essi ripristinassero a suon di bombe il fascismo, non accetterebbero mai di ritornare ad una Italia scomoda e rustica, l’Italia senza televisione e senza benessere, l’Italia senza motociclette e giubbotti di cuoio, l’Italia con le donne chiuse in casa e semivelate. Essi sono pervasi come tutti gli altri dagli effetti del nuovo potere che li rende simili tra loro e profondamente diversi rispetto ai loro predecessori». Con le piazze arroventate da uno scontro ideologico ancora tutto novecentesco, queste considerazioni suscitarono un inevitabile scalpore. Pasolini argomentava il suo pessimismo segnalando due “rivoluzioni”, quella delle infrastrutture e quella del sistema di informazione, avvenute proprio negli anni del boom. Le distanze tra centro e periferia si erano notevolmente ridotte grazie alle nuove reti viarie e alla motorizzazione; ma era stata soprattutto la televisione a determinare in modo costrittivo e violento una forzata omologazione nazionale. Il nuovo Potere, nonostante le sue parvenze di tolleranza, di edonismo perfettamente autosufficiente, di modernità, nascondeva un volto feroce e repressivo. «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili ad uniformasi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole... Ora, invece, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata ». Certo, erano giudizi eccessivi, disperati quasi. Pure oggi, alla luce di tutto quello che è successo dagli anni Ottanta, il pessimismo pasoliniano assume i tratti di una lucida profezia.

Uno dice: Antonio Gramsci. E quel nome gli apre agli occhi della mente un grande paesaggio, come accade con pochi altri nomi dell’intera storia civile e vita intellettuale italiana. Di Gramsci si legge e su Gramsci si riflette nel mondo intero. E c’è almeno una cosa che tutti sanno di lui: che, chiuso in una prigione fascista e impedito di agire nella lotta politica e nei conflitti sociali del ‘900 europeo di cui era uno dei protagonisti, si dedicò a un’opera di pensiero

destinata al futuro: fece insomma, si direbbe coi versi di Dante che Benedetto Croce dedicò a Palmiro Togliatti, «come quei che va di notte che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte». Di quell’opera si impadronì un esecutore testamentario, il Partito comunista di Togliatti, che ebbe il merito di conservarla ma ne fece un uso strumentale più o meno simile a quello che fece della figura dell’autore. C’è un rivolo di devozione che ha veicolato l’immagine di quel giovane uomo occhialuto con la grande testa incassata nelle spalle aureolandola della corona del martirio. Immagine adatta a un «santo leader morto in carcere», come scrive con amara ironia Giorgio Fabre nel suo nuovo e densissim libro Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato (Sellerio editore); un’opera importante che affronta con decisione e con robusta ricerca un tema da tempo presente nelle discussioni intorno alla vita e all’opera di Gramsci: i tentativi di liberarlo dal carcere.

La vicenda fece la sua comparsa notevolmente tardi arrivando non proprio dal centro degli studi gramsciani legati al Pci: fu nel 1966 che un bel libro di Giuseppe Fiori raccontò del tentativo di Gramsci di ottenere la liberazione elaborando il piano di uno scambio di prigionieri e affidandolo alla mediazione della Chiesa cattolica. Ci vollero altri undici anni perché una storiografia di partito in cauteloso avvicinamento alle regole della pratica storiografica accademica e agli angoli oscuri del proprio passato partorisse il libro di Paolo Spriano su Gramsci in carcere e il partito . Da allora si è aperta una discussione spesso vivacemente polemica che ha investito in modo speciale il nodo dei rapporti tra il partito comunista e il suo leader. Allora non si diceva “leader” ma “capo”: una parola molto più forte, osserva giustamente Giorgio Fabre. È una precisazione che nasce dallo scrupolo di aderire alla verità delle fonti frenando quel «furibondo cavallo ideologico» (come diceva Delio Cantimori) che nel campo degli studi su Gramsci e il Partito comunista ha avuto molte occasioni per far avvertire il suo furioso scalpitio.

Giorgio Fabre dichiara subito in apertura di libro la passione che lo lega al suo tema. Il suo è un forte sentimento d’ammirazione per l’uomo Gramsci, per il modo in cui riuscì a «bucare le pareti del suo carcere» e a guardare a ciò che si faceva e si pensava nel mondo intorno allo scontro politico in atto in Europa, col risultato di dare ai suoi Quaderni quel respiro di straordinaria curiosità e libertà intellettuale che tutti conoscono. Ma chi fu che gli permise di conoscere e di sapere? Forse non ne sappiamo abbastanza: e Giorgio Fabre suggerisce piste e nomi per altre ricerche segnalando ad esempio il rapporto che si instaurò a un certo punto tra Gramsci e il presidente della Cassazione Mariano D’Amelio.
Dunque questo libro non intende chiudere la ricerca, semmai per certi aspetti la riapre. Forse la più importante novità sulla questione dello scambio riguarda il rapporto tra Gramsci e la Chiesa. Questa pista si apre con una esplorazione tra le carte dell’archivio Andreotti. Qui si conservano le copie di documenti provenienti da due diversissime direzioni e relativi alla questione della proposta di scambio tra Gramsci ed ecclesiastici cattolici prigionieri in Unione Sovietica: ci sono quelli tratti dagli archivi russi che Alessandro Natta, segretario del Pci, riportò dalla sua visita a Mosca del 1988 e quelli di origine vaticana che Andreotti, dietro richiesta di Paolo Spriano, si fece riprodurre pubblicandone poi una parte.

La proposta dello scambio era stata avanzata dall’incaricato d’affari sovietico a Berlino Stefan Bratman-Brodowski al nunzio vaticano a Berlino Eugenio Pacelli il 1° ottobre 1927. Giorgio Fabre ha approfondito questa pista con ottimi frutti e ha potuto raccontare per intero l’andamento e l’esito fallimentare di quel tentativo. Si approfondisce così come nel gioco della trattativa intervenissero diversi personaggi: tra gli altri il gesuita Pietro Tacchi Venturi, allora il tramite del papato con Mussolini. E si capisce come e perché la trattativa si chiudesse in maniera doppiamente negativa per Gramsci. Di fatto il Vaticano decise di lasciar cadere l’offerta in ragione di un diverso orientamento della sua politica verso l’Unione Sovietica. Ma intanto l’occhio attento del carceriere di Gramsci, Benito Mussolini, colse l’occasione per imprimere una svolta al processo in corso che aggravò le imputazioni a carico di Gramsci e ne chiuse a doppia mandata le porte del carcere.

Il giudizio di Fabre è che qui si coglie un primo errore di Gramsci: un errore legato in qualche modo a quella sua speciale considerazione della Chiesa di Roma che ha lasciato tracce anche nei Quaderni . Altri errori sono rilevati nella sua strategia successiva, soprattutto nel tentativo “grande”, quello del 1933 per ottenere la libertà condizionale. E ci furono anche le iniziative — non richieste né desiderate — del gruppo dirigente del Pci che mandarono a vuoto i progetti di un Gramsci sempre più sospettoso dopo la celebre vicenda della lettera di Ruggero Grieco, fino a fargli nascere il dubbio che i compagni avessero deciso di sacrificarlo. Molte le verità amare che Giorgio Fabre racconta in questo libro, molti e tenaci i silenzi, le mezze verità e le deformazioni del gruppo dirigente del Partito comunista.

Va detto tuttavia, a scanso di equivoci, che questa non è la rancorosa revisione di una vicenda interna a un partito. Le limpide e robuste pagine di Fabre non mandano mai i rancidi sapori del reducismo. La storia che qui emerge ha le robuste fondamenta di nuove conoscenze documentarie ma anche l’ampiezza di respiro che si conviene a una vicenda di dimensioni pienamente europee. Un solo esempio: per capire quello che avvenne col primo tentativo di scambio del 1927 Fabre ricostruisce l’intero quadro della situazione religiosa della Russia sovietica e della conseguente strategia vaticana in materia: il che ci permette di situare nel contesto grande la strategia di Gramsci e di capire quante e quali contraddizioni ne ostacolassero il successo. È una bella lezione di quale dovrebbe essere la pratica della ricerca storica sull’età contemporanea.

Al centro del libro resta lui, l’uomo Gramsci, il suo stile intellettuale e politico. L’indagine sui pensieri e comportamenti suoi in questi tentativi ne rivela le doti straordinarie: di pazienza, di lettura del mondo, di conoscenza degli uomini. E da parte dello storico c’è anche, inutile dirlo, un sentimento di perdita, un rimpianto di quello che la storia avrebbe potuto essere e non è stata: la possibile storia di un Gramsci che lascia l’Italia da uomo libero e in Italia torna con la Liberazione da grande e riconosciuto capo della sinistra comunista per agire nella nuova realtà del nostro paese. Una storia che non c’è stata, una perdita di cui noi italiani siamo stati tutti vittime.

La voce limpida di un economista che non ha smesso di pensare alle persone, e ai fini umani dell'economia. «Il neoliberismo ha reso la scienza economica qualcosa di enormemente pericoloso: un virus invisibile che può fare, anzi ha fatto, danni enormi al nostro organismo».

La Repubblica, 26 aprile 2015

Di Ruffolo ricordo le apparizioni pubbliche. Rare e forbite. I suoi interventi dotti da keynesiano convinto. Ora è un’altra persona. «Il neoliberismo ha reso la scienza economica qualcosa di enormemente pericoloso: un virus invisibile che può fare, anzi ha fatto, danni enormi al nostro organismo». Il volto che mi guarda e mi parla, in un pomeriggio di sabato, dentro una Roma pressoché deserta, mostra un’ansia particolare. Ruffolo vive in una grande casa. Molto borghese. A ridosso di via Veneto. Ma tutto lo spazio ornato di quadri, di libri, di oggetti è come se non lo interessasse. Le tende semichiuse lasciano filtrare una luce fioca. Un uomo in penombra mi è di fronte: «Ora che la parte biologica sta prendendo il sopravvento su quella sociale mi pare di essermi incamminato su un’altra strada, meno certa, meno luminosa, dove tutto ciò che si è amato e sognato resta prigioniero nella mente, non è più condivisibile con gli altri».

Perché non dovrebbe continuare a esserlo?
«Non c’è una ragione precisa. Si entra, dopo una certa età, in una zona in cui il disinteresse assume una sua purezza infantile. E lì accade che i vecchi amano e sognano molto meno. Quei pochi sogni che faccio mi sembrano cani da guardia. Abbaiano, ringhiano, mi lasciano solo. Con i miei dubbi e le mie assenze».

Quanto l’aiuta pensare di essere stato un economista, uno studioso riconosciuto e apprezzato?
«Conta poco o niente. Oddio, se hai fatto poche corbellerie magari ti verrà riconosciuto da qualcuno che ti dirà anche bravo. Ma se getto lo sguardo a cosa è diventata l’economia, la strada che ha intrapreso negli ultimi decenni, non posso non pensare che le nostre voci inascoltate hanno fallito. O meglio sono risultate troppo deboli di fronte all’avanzata impetuosa del capitalismo».

È la parola “capitalismo” che sembra svuotata di senso.
«Forse. Quando mi occupavo di economia la prima cosa che pensavo era: come riusciremo a far star meglio le persone? L’economia che ci ha travolto non ha dato risposte. Come si può pensare che sia equo un sistema in cui per uno che sta bene dieci o cento soffrono?».

C’entra qualcosa questo discorso con la felicità e l’infelicità?
«No, non lo penso. È stato detto che l’economia è una scienza triste. Ma è una tristezza che non c’entra nulla con l’infelicità. Mio padre diceva spesso: se discuti di economia non dimenticare il problema della fame. L’economia non parla di individui, di storie private. Si aggrappa alle statistiche, al calcolo, alla razionalità. La tristezza è nel cercare a tutti i costi di ridurre l’uomo a un numero. Ma la fame, in qualunque forma si presenti, è di nuovo qui, tra noi. I bisogni primari tornano a essere minacciati».

Cosa faceva suo padre?
«Era capo di gabinetto dell’Istituto Internazionale dell’Agricoltura. Questo prima che arrivasse la Fao. Si occupava, insomma, dei problemi legati allo sviluppo e alla fame. Anch’io volevo fare l’economista. Seguire le orme paterne. Mi laureai in Giurisprudenza nel 1947. Ricordo Roma liberata. Sulle facce delle persone c’erano ancora i segni della guerra ».

Come furono per lei quegli anni?
«Avevo 13 anni quando scoppiò la guerra. Due fra- telli più grandi che combatterono. La mamma piena di apprensioni. Ma non ci fu mai pericolo per me. Vivevamo nel quartiere di San Giovanni. Ho un ricordo del bombardamento di San Lorenzo. I morti allineati per strada. La paura che potesse toccare a qualche caro. La ferocia dei tedeschi e dei fascisti dopo il 1943. I miei fratelli Nicola e Sergio, diventati partigiani, furono arrestati. Entrambi furono presi la notte dell’8 maggio dal famigerato Giuseppe Bernasconi ».

Chi era?
«Uno dei capi della Banda Koch. Li bendarono, li fecero salire su una macchina e li portarono alla pensione Jaccarino. Un luogo ribattezzato il “buco” dove si usciva solo per essere fucilati o torturati in via Tasso. Prendevano chiunque fosse sospettato di attività antifascista. Nell’aprile del 1944 la Banda Koch aveva arrestato Luchino Visconti. Riuscì a salvarsi, nonostante fosse stata emanata sentenza di morte nei suoi riguardi, grazie all’intervento di Maria Denis, un’attrice dei telefoni bianchi che si diceva fosse l’amante di Pietro Koch».

Come si salvarono i suoi fratelli?
«Nicola riuscì a fuggire da un camion, che lo trasportava in una località a Nord di Roma, insieme ad altri condannati, per essere fucilato. Rocambolescamente fece perdere le sue tracce nella campagna romana. Sergio sarebbe stato liberato solo con la liberazione. Ricordo i bombardamenti di San Lorenzo, i morti, la paura che potesse toccare ai miei fratelli partigiani. Quando tutto rinacque la città sembrò piena di speranza

Per ricordare la Resistenza, molla della la Liberazione e radice della Costituzione, ripresentiamo uno scritto chi, dal passato, ci riconduce all'oggi anche per evitare che l'indifferenza all'oggi possa farci perdere che settant'anni fa abbiamo conquistato

. La città futura, febbraio 2017

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?

Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

11 febbraio 1917

Festa della Liberazione: in ricordo di Claudio Cianca, antifascista contro la speculazione edilizia.

Ilfattoquotidiano.it, 24 aprile 2015

Se ne è andato il 22 febbraio di quest’anno Claudio Cianca, con i suoi 101 anni di vita da antifascista, ribelle, protagonista della Resistenza romana, presente e partecipe della vita dei più deboli.

L’ordigno bellico che fece esplodere, nel giugno del 1933, nel pronao della Basilica di San Pietro, quando non era che un giovane di vent’anni, è stato un gesto simbolico che ricorderanno in molti e compiuto perché calasse l’attenzione proprio su quell’Italia oppressa dal regime fascista, l’Italia che voleva difendere. Dirigente della Cgil, parlamentare con il Pci, consigliere comunale in Campidoglio, Cianca è stato in primo piano anche nelle battaglie contro laspeculazione edilizia. Battaglie che a ripercorrerle ricordano molto quelle dei nostri giorni.

Nel 1956 con Aldo Natoli e Leone Cattani si è battuto contro la costruzione dell’Hotel Hilton. Costruirlo significava abbattere i due terzi di una zona di verde pubblico situata sulle pendici di Monte Mario e perché avvenisse occorreva la modifica del piano regolatore con l’approvazione del consiglio comunale. Il giorno della seduta è stata la Società Generale a mandare un gruppo di lavoratori con l’obiettivo di convincere Cianca a non partecipare con interventi contro la delibera. Eppure i lavoratori, dalla sua parte, lo fecero parlare. Volevano ascoltare il discorso che Cianca poi concluse con fermezza: “La società generale immobiliare paga bene l’approvazione di queste deliberazioni”.

E’ storia vecchia, dunque, molto vecchia, la complicità tra amministrazioni e gruppi privati disinteressati al bene pubblico per favorire logiche private. Roma era già infognata nella speculazione edilizia che si andava a intrecciare con la speculazione fondiaria. “Da mille lire – ha raccontato Cianca in Il mio viaggio fortunoso, a Giuseppe Sircana – terreni agricoli o destinati al pascolo da mille lire potevano arrivare fino a trentamila lire al metro quadro…”

Negli anni in cui è stato alla Camera Cianca si è battuto contro le leggi approvate per gli interessi privati. E’ con l’aiuto di Fiorentino Sullo che nel 1962 è stata varata la Legge 167, perché i comuni potessero acquisire aree demaniali per costruire case economiche e popolari. Una legge che, tuttavia, ha trovato numerose difficoltà di applicazione.

Claudio Cianca è stato anche membro della presidenza dell’Anppia, l’Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti. Ha sempre cercato di tenere vivi e trasmettere ai giovani i valori che hanno guidato la sua stessa vita ricordando che “la libertà non si perde tutta insieme un brutto giorno, ma poco a poco giorno per giorno”.

E dalla sua vita, dal modo in cui scelse di condurla dedicandosi a quella dei più deboli, oggi di lui è viva e ricca di sfumature colorate, la fotografia di un uomo, un cittadino, un lavoratore che con gli altri, per usare le sue stesse parole, finalmente, dopo il congresso di Napoli della Cgil nel 1945 si sentiva “cittadino partecipe alla costruzione di una democrazia”. Anche per questo dovere e piacere si mischiano nel ricordare Claudio Cianca nel giorno della Liberazione.

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