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Intervista al sociologo francese Alain Touraine: “siamo tutti soli come attori in un teatro vuoto”con il tramonto del capitalismo industriale cadono anche le sue istituzioni: Stato, classe, famiglia Intervista al sociologo francese.

La Repubblica, 31 ottobre 2013

Da molti anni Alain Touraine si è imposto come uno dei più attenti e fini osservatori del divenire della nostra società. Di libro in libro, con paziente determinazione, il sociologo francese scruta e analizza i caratteri e le trasformazioni di un mondo che, da postindustriale, è ormai diventato «post-sociale ». Un’evoluzione che è al centro anche del suo ultimo denso saggio, La fin des sociétés (Seuil, pag.657, euro 28), summa teorica di mezzo secolo di ricerche e analisi, nella quale spiega come il dominio del capitalismo finanziario abbia ormai rimesso in discussione e reso inservibili tutte le costruzioni sociali del passato. Di fronte a questa vera e propria «fine delle società», dove anche i movimenti sociali sembrano non avere più presa sul reale, per lo studioso, che ha da poco compiuto ottantotto anni, non resta che affidarsi alla resistenza etica, unica capace di ridare un senso al vivere e all’agire collettivo.

«Una società è sempre determinata da un insieme di pratiche ma anche da un sistema di costruzione della realtà», spiega Touraine, tra i cui saggi più recenti figurano La globalizzazione e la fine del sociale (Il Saggiatore) e Dopo la crisi (Armando). «In passato, le società si sono pensate e costruite in modo religioso, poi, a partire dal Rinascimento, si sono costruite attraverso il pensiero politico. In seguito, negli ultimi due o tre secoli, la società industriale si è pensata in termini socio-economici, tanto che alla fine società e economia hanno finito per identificarsi».

Negli ultimi decenni cosa è cambiato?
«A partire dagli anni Sessanta abbiamo assistito al progressivo declino del capitalismo industriale, dato che una parte sempre più importante dei capitali disponibili hanno smesso di avere una funzione economica. Ha prevalso il capitalismo finanziario e speculativo, che sottrae capitali agli investimenti produttivi. Questa trasformazione del capitalismo ha progressivamente svuotato di senso tutte le categorie politico-sociali con cui eravamo abituati a pensare la società contemporanea. Siamo entrati così in un’epoca post-sociale».

Cosa significa?
«La società si forma nel momento in cui le risorse economiche acquistano una forma sociale attraverso le istituzioni. Quando una parte delle risorse non entra più in circolo nella società, le costruzioni sociali si svuotano di contenuto. Oggi tutte le categorie e le istituzioni sociali che ci aiutavano a pensare e costruire la società - Stato, nazione, democrazia, classe, famiglia - sono diventate inutilizzabili. Erano figlie del capitalismo industriale. All’epoca del capitalismo finanziario non corrispondono più a niente. Non ci aiutano più a pensare le pratiche sociali contemporanee e a governare il mondo in cui viviamo. In questo modo, il sociale viene meno».

Da qui l’idea della fine delle società?
«Il trionfo della finanza speculativa disarma la politica e l’economia, disarticolando le società così come le abbiamo conosciute e pensate finora. Di fronte a questa situazione, alcuni pensano che la società contemporanea sia capace di trasformarsi da sola. Immaginano una società tecnico-operativa, figlia di un capitalismo tecnologico selvaggio, che non ha più bisogno di sistemi concettuali e di categorie sociali. Ma quando si fa a meno dei sistemi di costruzione della realtà, si lascia spazio alla regressione attraverso le pseudo- religioni e le pseudo-politiche, il comunitarismo e l’ossessione dell’identità,
l’edonismo individualista sfrenato che alimenta la psicosi e la violenza su se stessi e sugli altri».

Esiste un’alternativa?
«Visto che le vecchie categorie sono inutilizzabili, occorre trovarne di nuove. In particolare, interessandosi alle categorie del soggetto autocosciente. Nella società della riflessività il soggetto occupa una posizione centrale. In passato, il sociale era fondato sull’idea della relazione all’altro, oggi occorre riconoscere la priorità della relazione a se stessi. Essa è fondamentale, creativa e dà un senso alla realtà. Per questa strada, l’individuo può ridiventare un attore sociale. Non più passando dal sociale, dalla politica o dalla religione, ma passando da se stesso, in quanto soggetto».

Sul piano individuale contano la coscienza e la responsabilità...
«Naturalmente. E quando si parla di oggetto si parla di diritti. La fine delle vecchie categorie ha lasciato il vuoto. Siamo come in un teatro dove il pubblico osserva una scena senza attori. Occorre che ogni singolo spettatore si faccia carico della scena, rivolgendosi a se stesso e egli altri spettatori. E al centro della sua riflessione devono esserci i diritti fondamentali, perché i diritti costituiscono il sociale. Rispetto Stéphane Hessel, ma l’indignazione non basta. Oggi occorre ripartire dai diritti e dalla loro difesa, come già avviene in molte parti del mondo. E come fa anche il nuovo Papa, che sembra adottare volentieri il vocabolario dell’etica. Hannah Arendt ha sottolineato il diritto di avere dei diritti. Io aggiungo che i diritti stanno al di sopra delle leggi».

Attraverso il soggetto è possibile resistere alla fine delle società?
«La questione dei diritti è fondamentale per ripensare la società. La libertà, l’uguaglianza, ma anche il diritto alla dignità, che impedisce che il corpo umano possa essere venduto come una merce. La loro difesa ricrea dei legami sociali. Queste preoccupazioni etiche non sono aspirazioni astratte, dato che sono già presenti nella società civile molto di più di quanto non si possa immaginare».

Promuovendo la resistenza etica alla decomposizione del sociale, non si rischia di contrapporre l’etica alla politica?
«La contrapposizione oggi è necessaria, dato che quella che chiamiamo “politica” è ormai una realtà molto degradata e travisata. Il carattere nobile dell’azione politica può rinascere solo dall’etica. Non da una politica di classe, non da una politica della nazione, non da una politica degli interessi o da una politica del sacro. Utilizzando queste categorie del passato, la politica non sa e non riesce più a parlare alla gente. Diventa afasica».

Come fare allora per reinvestire il sociale e prendere delle decisioni che riguardano tutti?

«L’idea della politica che prende delle decisioni in nome dell’interesse comune non funziona più. Oggi occorre partire da un’esigenza etica che si trasforma in azioni concrete e in istituzioni. Si pensi ai diritti delle donne. La condizione femminile è diventata uno degli elementi determinanti per valutare il grado si sviluppo di una società. Secondo me, il solo scopo importante e nobile e della politica è quello di favorire la nascita di nuovi attori sociali. E ciò non è possibile senza passare attraverso il soggetto e i suoi diritti. Solo così si ricrea il sociale».

In questo modo sarà anche possibile restituire vitalità alle nostre democrazie in crisi?«La democrazia, che oggi appare svuotata di senso, potrà ritrovare un significato solo se sapremo creare dei soggetti democratici. Non c’è democrazia se non ci sono convinzioni democratiche. Le istituzioni da sole, senza gli attori che le animano, non possono funzionare. Per questo occorre trasformare gli individui in soggetti capaci di essere degli attori postsociali. È un compito urgente, perché oggi le convinzioni democratiche mi sembrano sempre meno diffuse».

Il recente saggio dell'economista francese, "Il teorema del lampione" getta una vivida luce sul carattere prettamente politico del predominio dell'economia neoliberista e dei suoi mantra, ma trascura il carattere classista di cui la "triste scienza" è portatrice. Il manifesto, 31 ottobre 2013
L'ultimo saggio di Jean-Paul Fitoussi, Teorema del lampione (Einaudi) si scaglia contro l'ideologia neoliberista che presiede la gestione della crisi Proposte convincenti, ma collocate nel solco delle compatibilità di sistema L'impasse europeo spiegato dall'economista legittima la gerarchia di potere a livello continentale
È un atteggiamento usuale e sempre più frequente tra i seguaci di una dottrina economica spiegare i guasti evidenti scaturiti dalle proprie ricette con l'argomento che queste ultime non sono state applicate fino in fondo o con il dovuto zelo: non è stato privatizzato a sufficienza; il lavoro non è stato reso abbastanza flessibile; la spesa sociale non è stata ridotta quanto necessario per abbattere la pressione fiscale sulla libera impresa, e così via. Non c'è da sorprendersene. Quando si fa poggiare la dottrina su una assiomatica, sulla pretesa di agire secondo la razionalità indiscutibile di una tecnica matematica, che sbaraglia il vacuo accapigliarsi delle opinioni, l'errore non può risiedere nei postulati, ma solo nella loro negligente applicazione, nella debolezza degli agenti. Del resto è fin dalle sue origini che la «triste scienza» si propone come indagine e illustrazione di quelle «leggi di natura» che guidano in ogni suo aspetto la vita dell'homo oeconomicus e cioè dell'essere umano tout court. La promessa di benessere dell'economia liberista non teme smentite, non si lascia turbare dai capricci della contingenza, l'esperienza empirica, la contraddizione patente tra previsioni e risultati, le sono del tutto indifferenti.
Il buio dell'inconoscibile
Jean Paul Fitoussi, nel volume Il teorema del lampione (Einaudi, pp. 218, euro 18), riassume questa presunzione dottrinaria con la nota storiella dell'uomo che cerca un oggetto perduto sotto la luce di un lampione, non perché l'abbia perduto in quel luogo, ma perché è l'unico ad essere illuminato. Non è però tanto ingenuo quanto sembra, il nostro uomo. Il buio, in fondo, è l'inconoscibile dove risulterebbe vano intraprendere una qualunque ricerca. Nulla vi si potrebbe comunque trovare. La luce del lampione è la sfera del conoscibile, rappresenta le sole categorie attraverso cui si possa attingere a una realtà intellegibile. Il nostro matto nottambulo è, né più né meno, che la caricatura di un filosofo trascendentale. La scienza economica, a sua volta, non intende brancolare nelle tenebre e perdere la presa su quel mondo che è in grado di conoscere condizionandolo. Per questa precisa ragione seleziona i soli fattori che è in grado di dominare.
Ma non è nelle alte sfere della filosofia teoretica che Fitoussi intende condurci, bensì attraverso il disastro della crisi economica che stiamo vivendo e la caparbia applicazione di terapie che accelerano il deperimento del malato, devastando il presente e ipotecando il futuro. Lo fa ripercorrendo con precisione e chiarezza le diverse tappe della crisi, dalla bolla immobiliare statunitense e il sovraindebitamento privato alla crisi dei debiti sovrani, dalla recessione alimentata dalle politiche di stabilità ai livelli di vita declinanti nei paesi industrializzati. Passaggi catastrofici dominati, scrive Fitoussi, da quella irrazionalità dei mercati «che porta a pensare che il futuro assomigli necessariamente al presente» e dunque a escludere le possibilità alternative che nel presente possono annidarsi, le scelte eterodosse che forse potrebbero condurci fuori dall'impasse. Il fatto è che non si tratta di «pensare» che il futuro debba riprodurre il presente, ma di volerlo e di agire in conseguenza, di difendere cioè «lo stato di cose esistente». Non si intende «interpretare il mondo», ma impedire che esso cambi. Non si tratta, detto in altre parole, di mancanza di fantasia ma di politica di conservazione.
Conservazione dell'oligarchia
Conservazione di che cosa? Di un rapporto di forze tra dominanti e dominati infinitamente favorevole ai primi, di un potere oligarchico fuoriuscito da qualsiasi forma di contratto sociale, di una enorme capacità di controllo e di ricatto sulle popolazioni. Il famoso «non ci sono alternative» non è presunzione teoretica ma volontà politica, imposizione di una gerarchia sociale che non ammette più intrusioni. L'insieme delle argomentazioni che l'economista francese mette in campo sono assai efficaci nell'illustrare come la crisi si avviti su se stessa moltiplicando i guasti che presume di riparare, e come il crescente divario tra i pochi ricchi e la massa crescente degli impoveriti non alimenti alcuna dinamica espansiva presente o futura, ma distribuisca sulla maggioranza della popolazione i rischi e gli «effetti collaterali» dell'azzardo sempre più spinto di cui l'accumulazione capitalistica ha bisogno per seguire il suo corso.
La «società del rischio» non è solo una condizione sociale o un esito storico della modernità, ma un efficace strumento di sfruttamento e valorizzazione del capitale. Ha però il difetto, l'impostazione adottata da Fitoussi, di imputare questo processo a una cecità dottrinaria convinta dell'efficienza e della razionalità dei mercati i quali sarebbero in grado, alla fine, se non ostacolati dall'intervento pubblico o da politiche di diverso orientamento sociale, di ristabilire l'equilibrio migliore. Si tratterebbe dunque di smontare il dogma della razionalità dei mercati per aprire la strada a politiche in grado di correggerne le «storture».
Ripetutamente, Fitoussi evoca l'avidità degli operatori finanziari attribuendole, almeno in parte, l'attivazione di quei dispositivi di moltiplicazione della ricchezza che in realtà la concentrano nelle mani di pochi e la distruggono nel più vasto contesto della società. Arroganza concettuale e avidità, due disvalori morali, due peccati capitali, sarebbero dunque i temibili demoni che reggono il timone della crisi facendo rotta verso tempeste sempre più rovinose.
Non vi è dubbio che queste passioni negative esistano e giochino la loro parte. Ma interpretare l'accumulazione del capitale, la sua irrinunciabile vocazione a crescere e a colonizzare sempre nuove sfere, in termini di avidità è un bel salto all'indietro nell'analisi del capitalismo. Un rinchiudersi nell'orizzonte invalicabile del sistema, nella sottointesa convinzione che esso possa infine trovare un equilibrio. Che si possa giungere, insomma, a un «capitalismo sostenibile». Che la diseguaglianza radicale e lo squilibrio non ne costituiscano irrimediabilmente l'essere.

Alla prova dei fatti le cose non sembrano stare così: quando fattori storici, politici, sistemici bloccano il processo di accumulazione la violenza della crisi si incarica di aprirgli nuove strade. E quanto più questo blocco è ingombrante e persistente tanto più la gestione della crisi assume i tratti di una forma di governo di lunga durata. Nei paesi dell'Europa meridionale, in diverse gradazioni, si è visto con chiarezza come la «terapia della crisi» si sia trasformata nell'elemento che caratterizza stabilmente il rapporto tra governanti e governati. Non nel senso di un vincolo esterno, ma in quello di una riconfigurazione restrittiva della democrazia, che si estenderà ben oltre la contingenza economica.

Una viziosa leggerezza

Insomma, per volerci esporre a nostra volta all'accusa di affezioni dottrinarie, potremmo dire che la critica dell'economista francese non può spiegare del tutto ciò che giustamente denuncia perché omette l'elemento della lotta di classe, del rapporto di forza, delle linee di frattura che attraversano le formazioni sociali della modernità. Lotta condotta con una determinazione strabiliante e un formidabile dispiegamento di mezzi a partire dagli anni Settanta contro l'insieme delle classi subalterne ed estesa poi a quella loro parte riuscita a trasformarsi nel cosiddetto «ceto medio». Quando si lamenta lo spazio sottratto dall'economia alla politica si trascura quasi sempre di sottolineare l'estrema «politicità» della ratio economica che quello spazio ha occupato. L'enorme polarizzazione della ricchezza non è l'opera di nessuna «mano invisibile», né l'effetto di un mercato «distorto», ma un obiettivo politico perseguito e raggiunto con grande dispiego di violenza. Nonché l'obiezione più forte contro la tesi di quanti sostengono, in particolare per quanto riguarda i paesi mediterranei, che la crisi del debito sia il frutto di una viziosa leggerezza interclassista, una colpa collettiva avulsa dai rapporti di classe nazionali e internazionali.

Alternative senza gambe

Volendo tornare all'aneddoto che da il titolo al libro, ci sono precise ragioni per le quali il lampione è stato piantato esattamente in quel posto e perché tutti gli oggetti che si trovano al di fuori dal suo cono di luce non interessano o debbano essere cancellati. Se l'unità di misura universalmente utilizzata è quella del Pil, non è certo perché gli economisti ignorino che aspetti decisivi della vita umana, della vita sociale e dello stesso benessere materiale, non possono esserne misurati, ma perché il ricorso a quella unità di misura corrisponde a una gerarchia, a una precisa geografia del potere, a uno schema di azione politica. E quando la scienza economica si ingegna a correggere la misura del Pil affiancandogli altri indicatori è solo perché nuove sfere vitali sono entrate a far parte del processo di valorizzazione del capitale e devono dunque essere incluse nella sua «contabilità» e ricondotte alla sua assiomatica.

Così, anche l'analisi della crisi europea che Fitoussi ci sottopone, non senza centrarne aspetti decisivi, come gli effetti deleteri indotti da una pretesa di competizione tra le economie dell'eurozona (destinata a riprodurre e inasprire gli squilibri) e dall'assenza programmatica di una politica economica continentale, risente della medesima accentuazione sull'«errore» dottrinario e sulla limitatezza dell'orizzonte tecnocratico a scapito di una analisi del ruolo politico svolto dalle élite, nei singoli stati e nello spazio complessivo dell'Unione, volto a perseguire una drastica riduzione della complessità democratica.

La formula che individua il male dell'Europa nel dualismo di una governance europea dotata di strumenti ma priva di legittimità, e di sovranità nazionali dotate di legittimità ma prive di strumenti, finisce col celare il dissolversi, nella rude evoluzione dei fatti, dell'idea stessa di legittimità, col nascondere quella rottura unilaterale del patto sociale da parte dei poteri dominanti che si è già ampiamente consumata nei singoli stati non meno che in quegli organismi di governo europei che dei rapporti di forza esistenti tra quegli stati restano l'espressione. Cosicché gli stessi rimedi, le alternative, l'esame razionale dei fattori di crisi non è chiaro su quali gambe possano marciare. A meno che il lampione non si trasformi in un sole che illumina l'insieme della realtà. Ma questo è improbabile e certamente gli interessi messi a fuoco dalla sua luce non intendono consentirlo.

Uno stralcio del libro postumo «Italia sì Italia no» di Margherita Hack che esce martedì in libreria, a testimonianza dell'impegno civile della scienziata recentemente scomparsa.

L'Unità, 19 ottobre 2013

Vorrei un’Italia moderna

Chi ama l'Italia dovrebbe essere obiettivo e critico, riconoscerne i difetti ma anche i pregi. Cerchiamo perciò di passare in rassegna cosa funziona in questa nostra azienda Italia e cosa no, e come si potrebbe intervenire per renderla più vivibile e accogliente per tutti. E il modo più giusto e più chiaro per iniziare a parlare di questa nostra Italia è riferirsi alla Costituzione che continua a indicarci la via da percorrere. Passeremo in rassegna i principali articoli della prima parte della Costituzione, ossia i princìpi fondamentali. Si discute da tempo della necessità di riforme che la rendano più agile. È irritante leggere sui giornali dell’urgente necessità di queste riforme, senza che mai o quasi mai si spieghi in cosa consistano e il perché della loro urgenza. Esse riguarderebbero l’ordinamento della Repubblica e il suo funzionamento. Per esempio, le leggi le fa il Parlamento, devono essere approvate da Camera e Senato in forma identica.

Questo per evitare colpi da mano dall’una o dall’altra parte, a cui poteva essere particolarmente sensibile un paese appena uscito da una dittatura, ma in pratica oggi può avere anche l’effetto di rallentare e persino impedire l’approvazione di una legge, apportando piccole insignificanti modifiche, così da rimandarla avanti e indietro, da una Camera all’altra per la difesa di piccoli particolari interessi. Nient’altro che una gran perdita di tempo. È necessaria una migliore preparazione scientifica delle classi dirigenti: consideriamo l’assurdo della condanna a 6 anni dei geologi che non hanno previsto, e non potevano prevederlo, il terremoto dell’Aquila.

Casomai erano da condannare gli architetti che potevano costruire tenendo conto del rischio di terremoti, soprattutto in una zona tanto soggetta a eventi sismici. La scarsa importanza data alla ricerca dipende anche dalla scarsa cultura di chi ci governa. Tagli alle università, agli enti di ricerca, stipendi vergognosamente bassi dei docenti di scuola elementare e media e dei ricercatori se si confrontano con i guadagni astronomici di politici, giocatori di calcio, cantanti, presentatori televisivi. Tutti fatti che stanno ad indicare in quanta poca considerazione è tenuta la cultura dalla maggioranza degli italiani.

Non vorrei le panchine negate
Mancanza di cultura vuol dire anche paura e rifiuto del diverso, non capire quanto invece possa arricchirci la conoscenza di abitudini e costumi diversi, come maggiore cultura vuol dire anche maggiore apertura e solidarietà verso l’altro. Uno splendido esempio d’inciviltà ce lo ha dato la Lega. Durante la permanenza al governo, la Lega con il sentimento di fratellanza verso gli immigrati che la contraddistingue ha fatto togliere – dove ha potuto – le panchine dalle stazioni ferroviarie, dai giardini pubblici ecc. perché non possano sdraiarsi per dormire i senza tetto.

Vorrei una vera democrazia
L’Italia che vorrei? Quella disegnata dalla nostra Costituzione, in parte attuata quasi subito, in parte dopo molti anni e in parte non ancora. Il significato della nostra Costituzione fu illustrato da Piero Calamandrei in un discorso rivolto agli studenti nel 1955 e riportato qui sotto perché altri studenti e tutti i cittadini di oggi ne comprendano la profonda moralità. Ma la madre della nostra Costituzione è nata ad Atene più di 25 secoli fa e da Pericle fu illustrata ai cittadini (...)

Vorrei più fervore
Sono novantenne, ho avuto la fortuna di nascere e traversare quasi un intero secolo. Un secolo speciale in cui si sono avuti più cambiamenti che nei cinquanta secoli in cui sono cresciute e si sono sviluppate le civiltà cinesi, fenice, egizie, fino alla grande civiltà greca, radice della moderna Europa. Ancora all’inizio dell’Ottocento il mezzo di trasporto era il carro o la carrozza trainati da animali. Le prime ferrovie risalgono al 1830, e in Italia le prime sono state a Napoli, che ha anche avuto la prima metropolitana. Infatti, contrariamente a quanto si pensa, il governo dei Borboni fu moderno e innovativo. Ai primi del Novecento Giosuè Carducci nella poesia Davanti San Guido scrive «ansimando fuggía la vaporiera» e ripenso ai fochisti tutti neri di carbone e seminudi davanti alla fornace della locomotiva che alimentavano continuamente. Mi viene il dubbio: ma li ho visti davvero da bambina o me lo immagino? E intanto la Freccia Rossa scivola silenziosa sui binari paralleli all’autostrada, appare e scompare in un attimo lasciandosi indietro le macchine che viaggiano a 150 km/ora.

Non vorrei Berlusconi
Abbiamo avuto «mani pulite» a cancellare il binomio Dc-Pci poi sostituito con il peggior periodo dal punto di vista della moralità pubblica, del rispetto delle leggi, del senso dello stato che ha fatto dell’Italia un paese da operetta e riempito il parlamento d’indagati e incompetenti, scodinzolanti davanti a quel fenomeno da avanspettacolo che è stato (e che è ancora oggi) Berlusconi.

Non vorrei tanti sprechi
È opportuno ricordare i disastri e lo sperpero di denaro pubblico per puri fini propagandistici. Per esempio, i costi per attrezzare il convegno del G8 alla Maddalena e poi decidere di trasferirlo invece all’Aquila, appena uscita da un devastante terremoto, e assegnare in pompa magna ai terremotati casette di compensato, tralasciando invece la ricostruzione, che è ancora lontana. Altro bell’affare è stata la proposta del ponte sullo stretto di Messina, che probabilmente non si farà mai, non solo per i costi ma per la pericolosità, poggiato com’è su una zona altamente sismica. Però studi e progetti sono stati fatti e bisogna pagarli. (...) Oggi, che una profonda crisi economica ha colpito il mondo occidentale, e al governo dell’Italia, dopo che erano state provvisoriamente chiamate in aiuto persone serie (il solito governo tecnico), ora c’è una «strana» coalizione, cosa possiamo aspettarci? Anche se senza la bacchetta magica, e con una colorazione piuttosto destrorsa, com’è oggi l’Italia? È vero che c’è una miseria crescente? O forse ci eravamo abituati a vivere al di sopra delle nostre possibilità.

«Sudici. Oziosi. Lenti. In un saggio di Vito Teti, Maledetto Sud (Einaudi) gli stereotipi attribuiti ai meridionali. I quali spesso li adottano a modelli».

La Repubblica, 14 ottobre 2013
Non è semplice districarsi nell’ingorgo di parole rovesciate sul Mezzogiorno d’Italia e su chi vi abita. Si rincorrono denigrazioni e autocompiacimento. Fioccano stereotipi e antistereotipi che rumorosamente e poi stancamente si aggrovigliano. Ma il risultato paradossale è che questo vociare produce una forma di afasia: sullo stato delle regioni meridionali, salvo eccezioni (Gianfranco Viesti, Carlo Trigilia e Giovanni Valentini, autori rispettivamente di Il Sud vive sulle spalle del Nord che produce. Falso, Laterza, Non c’è Nord senza Sud, Il Mulino, e Brutti, sporchi e cattivi, Longanesi), negli ultimi tempi si ragiona e si indaga poco.

Vito Teti, antropologo dell’Università della Calabria, prova a rompere il cortocircuito e in (Einaudi, pagg. 131, euro 10) mette in fila i più diffusi fra quegli stereotipi, ne legge la storia e ne ribalta la scontata interpretazione. Prendiamo il sudiciume. L’immagine dei meridionali sporchi, che, giocando sull’ambivalenza del termine, vengono altrimenti detti “sudici”, risale all’immediato periodo postunitario. Una caratteristica che studiosi attenti come Napoleone Colajanni alla fine dell’Ottocento attribuivano alle condizioni di vita misere e alla malaria, in molta pubblicistica di matrice positivista diventa un’etichetta razziale, il sintomo di una inferiorità di tipo morale. Ma con l’emigrazione, annota Teti, cresce il rilievo attribuito alle condizioni igieniche. All’inizio del Novecento, chi torna dal Belgio, dalla Svizzera e dalla Germania costruisce quelli che chiamano “rioni degli americani”: casette intonacate di bianco, con i bagni e le fogne, costruzioni che si affiancano ai tuguri nei quali si vive a contatto con le mucche e i maiali. Sono «mutamenti di costume e di mentalità, prima che di ordine pratico, che comunque sfatano il luogo comune della sporcizia e del sudiciume delle popolazioni», annota Teti. Nel secondo dopoguerra verranno gli acquedotti costruiti dalla Cassa per il Mezzogiorno. Ma che nel Sud Italia abitino esseri umani luridi per destino naturale lo ribadisce il deputato leghista Matteo Salvini in un video che ha furoreggiato in rete: «Senti che puzza, scappano anche i cani. Sono arrivati i napoletani. Son colerosi e terremotati. Con il sapone non si sono mai lavati».

Il lavoro di Teti non si esaurisce nello smontaggio di un odioso stereotipo a carico dei meridionali, operazione condotta con il racconto, con la memoria, con esperienze di studioso e di camminatore e poi attingendo a una corposa letteratura (Corrado Alvaro ha un posto di rilievo). La decostruzione prosegue interrogandosi su come i meridionali fronteggino questi modelli che si vorrebbe applicare loro quasi fossero un marchio a fuoco. E la risposta è analitica e per niente assolutoria. Le montagne di rifiuti che hanno insozzato le strade di Napoli e del napoletano, per esempio, «hanno finito con il conferire verità a uno dei più noti stereotipi antimeridionali ». Una maledizione che si nutre di «una sporcizia da elevare a emblema di una psicologia primitiva». Come se al Sud si fosse deciso che lo stereotipo negativo andasse interiorizzato e ad esso ci si dovesse uniformare. Ci volete così? Eccoci qui, eccovi serviti.

La vicenda dei rifiuti è un dramma. La maledizione è dilunga durata. E ne sono responsabili gruppi dirigenti nazionali e locali. Le immondizie accatastate e bruciate a Napoli alimentano il furore leghista e però nascondono il traffico di rifiuti tossici che per anni dalle industrie del Nord sono stati sversati nel casertano ad opera della camorra. «L’incontro tra il peggiore Sud e il peggiore Nord», chiosa Teti. Il Sud e il Nord condannati a riconoscersi nel loro conflitto.

Accanto al sudiciume ecco l’ozio: ai meridionali non piace lavorare, si sente dire. Teti ritorna con la memoria al suo paese in Calabria, dove tutti i suoi compagni di classe appena potevano emigravano a Toronto (a Toronto c’era anche suo padre) e dove «le persone, condannate alla fatica e alla sobrietà, solo in occasioni eccezionali, per qualche ora, potevano abbandonarsi ai bagordi». Inoltre la critica dell’ozio figura fra i capisaldi polemici dell’illuminismo napoletano (Ferdinando Galiani, Giuseppe Maria Galanti...). E semmai oziosi lo diventavano quei meridionali affranti dalla disoccupazione. A un certo punto, però, per un complesso intreccio di politica e clientele, si è andata affermando «l’idea che convenisse oziare o fuggire e che il fare, in quelle situazioni, diventasse più improduttivo nel non fare». Tanto ci avrebbe pensato l’assistenzialismo. Anche in questo caso, fra falsi invalidi, eserciti di forestali e di dipendenti regionali, «lo stereotipo del meridionale ozioso diventa quasi una maledizione che si avvera».

Lo stereotipo genera in molti di coloro che lo subiscono «una psicologia da assediati». Si accentuano i localismi, i risentimenti, con tutti e due i piedi si finisce nelle trappole identitarie. Anche la malinconia diventa vizio rancoroso. Matura «un razzismo di rimessa». Tanta saggistica e tanto cattivo giornalismo, denuncia Teti, invece di rovesciare i luoghi comuni, creano pretesti per la formazione di autostereotipi. E così «il Sud e il Nord vengono privati della loro normalità e anche della loro vocazione all’apertura e alla complessità».

Una complessità che Teti rivendica anche quando decodifica gli stereotipi edulcorati, pittoreschi, folklorici. Il Mezzogiorno come luogo dell’esotismo opposto alla praticità del Settentrione. Il Mezzogiorno genuino, incontaminato, isola scampata alla modernità, spazio del mangiar sano. Il Mezzogiorno come deposito storico di quelle virtù dalla lentezza alla dieta mediterranea - che non si vuole celebrare solo come alternative a certa attualissima ingordigia consumista, ma che si immagina eredità di un passato del tutto fantasioso. In ogni caso, spiega Teti, quando si costruisce un’immagine del Mezzogiorno senza sfumature, senza contrasti, senza differenze al suo interno - una cosa sono i caotici agglomerati urbani della costa, un’altra i lindi paesi dell’interno appeninico -, un Mezzogiorno da scoprire come un atollo del Pacifico, si dà vita a un’architettura leggendaria, «quasi sempre incapace di fornire un’elaborazione che non sia di reazione allo sguardo esterno». Il tutto come se non ci fossero state, tanto per indicarne una, le indagini di un Ernesto De Martino.

La conclusione di Teti è altrettanto argomentata quanto la diagnosi. La denigrazione incrementata dal razzismo si può arginare raccontando a se stessi «le verità scomode, anziché negarle o farcele rinfacciare con cattiveria dagli altri». E assumendo un lucido abito intellettuale, come insegnano Dante e Machiavelli, Guicciardini e Leopardi. A quel punto si possono anche ribaltare gli stereotipi in positivo. Compresa la malinconia e persino l’ozio.

PSulle orme del gambero Ragioni e passioni della sinistra (Donzelli). «La sinistra poteva cambiare il paese e non c’è riuscita. Abbiamo avuto la grande occasione della nostra vita politica e l’abbiamo mancata. Bisogna raccontare la storia a ritroso per capire le cause vicine e lontane dell’insuccesso della nostra generazione»

Premessa generazionale

Se avessi vent’anni, oggi, andrei in piazza. Passerei le mie giornate a organizzare le lotte popolari. Così facevo del resto all’epoca dei miei vent’anni. Poi, insieme a tanti della mia generazione, ci siamo imborghesiti e oggi ci sembrerebbe demodé ripercorrere le gesta giovanili. Eppure non mancherebbero i motivi e le necessità. Il modo in cui il mondo si è trasformato non piace a molti di noi, di certo a chi non ha venduto l’anima; eppure non possiamo dirlo con certezza perché in parte ne portiamo la responsabilità. E lo vediamo negli occhi dei giovani di oggi, in modo ancora più lancinante in quelli dei nostri figli, quando ci guardano con l’animo sospeso di chi vorrebbe almeno una spiegazione dell’insuccesso. Ma spiegarlo è quasi più difficile che viverlo.

Appartengo a una generazione fortunata. Abbiamo fatto in tempo a conoscere la grande politica, e anzi a succhiarne la linfa vitale proprio nel momento della formazione, traendone l’insegnamento che si potesse plasmare contemporaneamente la nostra vita e l’organizzazione sociale. Non è andata proprio così, ma quella volontà di potenza ci è rimasta dentro per sempre. E intorno ai quarant’anni abbiamo avuto la grande occasione per esercitarla. Siamo entrati nella maturità proprio in quel passaggio d’epoca segnato dal crollo del muro di Berlino e dalla promessa di un mondo nuovo. Quelli impegnati nella politica di sinistra hanno avuto la possibilità di cambiare il paese e le sue città. Ancora di più, quelli che erano stati comunisti – da sempre all’opposizione – hanno avuto la fortuna di poter dimostrare, prima di tutto a loro stessi e poi agli altri, che avevano le capacità di governare meglio delle vecchie classi dirigenti. È stata la grande occasione della nostra vita politica e l’abbiamo mancata. Non solo non siamo riusciti a indirizzare il paese in un tornante nuovo della sua storia, ma non abbiamo saputo impedire che un personaggio inaudito ne prendesse la guida e lo portasse fuori strada. A me è toccato il privilegio di contribuire al governo della capitale, ed è stata l’impresa più appassionante della mia vita, a cui ho dedicato ogni energia. Abbiamo tentato davvero di cambiare Roma, ma non possiamo dire di esserci riusciti. Avremmo dovuto introdurre dei cambiamenti impossibili da cancellare per qualsiasi malgoverno successivo. Le vere riforme sono irreversibili.

La mia generazione ha dunque l’obbligo di stilare un bilancio. Finora lo ha sempre evitato, senza mai spiegare a se stessa e alle generazioni successive le ragioni dell’insuccesso. Non lo ha fatto perché avrebbe voluto dire mettere in discussione quella funzione di comando che ancora presidia, seppure in modo traballante. Una generazione che è stata capace a suo tempo di conquistare il potere sa bene anche come conservarlo.

Con il Sessantotto abbiamo fatto la rivoluzione dei costumi. Per la verità volevamo fare anche la rivoluzione sociale, ma non essendoci riusciti ci siamo accontentati di gestire il potere senza modificarne gli assetti. E abbiamo avuto modo di prolungare il nostro primato anche a causa della debolezza delle generazioni successive. Quella degli anni ottanta persa dietro ai miti del rampantismo; quella degli anni novanta illusa dalla globalizzazione irenica, e quella degli anni duemila, presto intimidita dalla repressione e dai silenzi di Genova. Ma i ventenni di oggi sono la prima forte generazione politica davvero simile a noi. Non nei contenuti, ma nella forma. Non nel modo di pensare, forse ancor più lontano di quanto dica l’anagrafe, ma nella forte condivisione di esperienze collettive. Noi figli del miracolo economico e loro figli della crisi, ci siamo formati durante fasi di transizione, quando viene meno il vecchio mondo e il nuovo non si sa come sarà.

Mi incuriosiscono questi ventenni e cerco di capirli. Esprimono una forte intensità generazionale poiché si trovano a vivere cambiamenti quasi antropologici. Intanto sono i primi autentici nativi digitali che hanno conosciuto la rete quasi mentre apprendevano il linguaggio verbale. E poi sono cresciuti in un mondo già pienamente globalizzato. Ma ne hanno conosciuto subito il lato oscuro appena si sono affacciati al mondo del lavoro, senza diritti e spesso senza qualità. Non sono novità: anche i fratelli maggiori, quelli di trenta o quarant’anni che ancora vengono chiamati giovani, hanno vissuto queste esperienze, ma indorate dall’ideologia liberista che le rendeva affascinanti o perlomeno inevitabili. I ventenni sono più disincantati e non credono agli annunciatori di magnifiche sorti. Proprio l’esperienza dei fratelli maggiori li rende più consapevoli che non vale la pena aspettare lo schiudersi del guscio, sono più determinati nel romperlo. Sono una generazione più combattiva, non in forza di un’ideologia, ma proprio perché privi di un’ideologia. In questa carenza c’è il realismo che li salva dalle bugie raccontate dall’establishment.

Spero ardentemente che tra questi ventenni sorga anche una nuova leva di militanti politici. Non so se è una speranza fondata o se è solo un’illusoria proiezione a conclusione della mia lunga esperienza. In ogni caso, in politica la volontà deve essere sempre un passo avanti alla certezza.

La nostra è una generazione fortunata, ma - qui bisogna aggiungere - anche massimamente ingenerosa. Molto abbiamo ricevuto dalla generazione precedente, e ben poco abbiamo consegnato a quella successiva. Ci siamo nutriti in gioventù degli insegnamenti di grandi personalità incontrate nei partiti, nei sindacati, nelle organizzazioni culturali. Quando ripenso alla mia esperienza, alla fortuna di aver conosciuto uomini come Berlinguer, Ingrao, Petroselli, Trentin, alle riflessioni provocate dai loro discorsi e alla scuola di rigore che veniva dalla loro autorità, provo un senso di colpa per la sterilità educativa della mia generazione. Ben poco abbiamo saputo restituire del privilegio ricevuto. Certo, si possono addurre molte attenuanti, essendo venuti a mancare i luoghi e le culture adatte ad alimentare una paideia politica, ma c’è stata anche una deliberata rinuncia da parte della mia generazione. La comunicazione ha sopraffatto la formazione. Non c’è da stupirsi, poi, se i criteri di valutazione di un giovane politico che si affaccia al mestiere diventano la bella presenza e la battuta facile. IlBeruf weberiano è stato scarnificato, immiserito e tecnicizzato fino a ridursi a un mero prolungamento della comunicazione con altri mezzi. Se l’obiettivo è il titolo sul giornale di domani, non rimane tempo per formare i giovani.

Non pretendo certo di risolvere il problema con le mie forze, ma sento almeno come obbligo di risarcimento quello di dedicare tutto il mio impegno al dialogo con i giovani militanti di sinistra. Penso oltretutto di aver molto da imparare dai ventenni, e anzi proprio dal confronto tra noi e loro possono venire non solo rielaborazioni del passato ma soprattutto invenzioni per il futuro. A questo dialogo immaginario con un giovane militante sono dedicate le pagine che seguono.

Esse evitano accuratamente i temi d’attualità. La concretezza degli argomenti viene dall’esperienza militante – sia nei ricordi di ieri sia nei dilemmi di oggi – e si cerca di metterla a confronto diretto con la ricerca teorica. Sono pensieri militanti, ma solo nella postfazione vengono confessati rivelandone l'intima tensione tra la civetta hegeliana che si alza in volo per comprendere ciò che è stato e la sentinella di Isaia che deve ancora annunciare la fine della notte. Sono pensieri che cercano una relazione inattuale tra teoria e pratica. Qui se ne discute, ma le soluzioni si trovano solo nell’esperienza collettiva. Il Politico è il proprio tempo appreso nell’azione. Chi meglio di un militante può saperlo?

Nel torrente della storia bisogna andare indietro sulle orme del gambero per scovare sotto le pietre le cause delle sconfitte. Solo così si prendono le decisioni che ribaltano le pietre, che lasciano nella sabbia il lato inciso dalle delusioni e che portano alla luce invece il lato delle ambizioni, perché possano farsi accarezzare dal flusso del cambiamento. C’è un riconoscimento da elaborare, prima di tornare a vincere.

Avendo assunto questa postura, l’andamento del testo è risultato anomalo. Comincia con una storia a ritroso per capire le cause vicine e lontane dell’insuccesso della nostra generazione. Per poi mettere sotto osservazione il suo contributo a quel ciclo politico italiano che ha deluso le aspettative di una seconda Repubblica. E tuttavia non sono stati solo limiti soggettivi, ci si è messo contro un ciclo più ampio della storia mondiale che è generoso chiamare liberista, poiché la crisi lo svela come grande Inganno. Per ripartire bisogna provare a vedere il mondo a rovescio, esercitandosi a ribaltare le politiche dominanti, ad esempio per i paesaggi, i lavori e i saperi. Ma tutto ciò sarà possibile solo riscoprendo la dignità della politica, afferrando le occasioni che il tempo attuale ci offre, con la speranza di superare la penuria di una sinistra senza popolo.

Nell'ultimo libro del filosofo Pierre Macherey,

La parola universitaria un''analisi dell'ineguale distribuzione dell'accesso ai saperi provocato dalle politiche neoliberiste nelle università francesi, causa primordiale del decadimento della democrazia. Il manifesto, 11 settembre 2013

Il teorico francese analizza le conseguenze delle politiche neoliberiste negli atenei. Con altrettanto rigore propone un ripensamento nella trasmissione della conoscenza a partire dalle relazioni tra i diversi campi disciplinari
Cosa hanno in comune un film come Rope (Nodo alla gola, 1948) di Alfred Hitchcock e lo scandalo che coinvolse nel 1954 in America lo scienziato Robert Oppenheimer, direttore del Progetto Manhattan nonché padre della bomba A scagliata su Hiroshima e Nagasaki nel 1945? E soprattutto, questi due episodi, diversi per natura e funzione, come possono riguardare un'analisi sulle attuali condizioni del sistema universitario?

Ce lo spiega Pierre Macherey in La parola universitaria (traduzione e cura di Antonio Stefano Caridi, Orthotes, pp. 259, euro 17). Il libro, uscito in Francia nel 2011, fu segnalato da Roberto Ciccarelli sulle pagine de il manifesto il 29 ottobre dello stesso anno in un articolo pensato nella contingenza degli effetti, oggi più che mai disastrosi, prodotti dall'entrata in vigore della legge Gelmini alla fine del gennaio 2011.

Lo stesso testo di Macherey, d'altronde, è il frutto di una riflessione nata dalla sofferenza per lo stato di decadimento dell'università francese e per gli ancora più deleteri rimedi - di matrice neoliberista - usati per cercare di sanarla. Nell'introduzione al libro, L'Università in questioni, l'autore fa il punto della situazione rispetto al sistema universitario vigente in Francia caratterizzato dalla divisione tra Università e Grandi Scuole e constata che la visione ideale di una comunità di saperi democraticamente accessibile a tutti in realtà è contraddetta «nei fatti dal risorgere di una divisione diseguale, "aristocratica" che obbedisce ad una logica di verticalità, con differenti percorsi, gli uni consentiti alle "masse" cui sono offerte solo delle forme di competenze non sfruttabili direttamente, e gli altri riservati a delle "élites", accuratamente selezionate, che si vedono promettere delle funzioni dirigenti nella società».

Ora, Macherey conosce troppo bene la lezione di Pierre Bourdieu, per non sospettare che un modello di analisi ben definito, anche lì dove si riferisce ad un contesto locale come quello francese, presenta un grado di universalità tale da poter essere applicato anche in contesti differenti da quelli rispetto ai quali è stato formulato. La situazione universitaria italiana si presta, purtroppo, a questo esercizio epistemologico: realizzata fino in fondo, la riforma Gelmini configurerà sul piano nazionale una netta divisone tra atenei del Sud, i quali, poco meritevoli per non riuscire a collocare i propri studenti sul mercato del lavoro, quindi poco «premeabili» dal punto di vista dei finanziamenti pubblici e di conseguenza poveri, saranno ridotti a mega-licei di massa buoni, tutt'al più, a fornire una didattica non professionalizzante e gli atenei del Nord che, ricchi di fondi per la ricerca grazie alla loro ricettività nei confronti delle esigenze del libero mercato e della grande imprenditoria, diverranno la palestra di formazione per le nuove classi dirigenti della borghesia italiana. Seguendo lo schema di Macherey si ritrovano, nella divisione francese tra Università e Grandi Scuole, non solo la finalità geopolitica della riforma Gelmini, ma le condizioni per la riproposizione di una nuova «questione meridionale» giocata al livello della formazione culturale superiore.

Non tutto il libro di Macherey, però, ha questo andamento, solo nell'introduzione il rigore argomentativo si concentra sullo stato attuale dell'Università (attualità che in tutti i suoi nodi problematici, in particolare quello relativo all'«ideologia della valutazione», è analizzata da Caridi nella sua presentazione del testo). I tre capitoli che lo costituiscono seguono un percorso sempre coerente rispetto al problema dell'Università, ma vanno in una direzione differente. Se l'introduzione si fa carico di problematizzare il presente universitario, gli altri capitoli si assumono il compito di tracciarne il passato a partire da diversi campi del sapere: filosofia, psicanalisi, sociologia e letteratura.

In questo modo, al primo capitolo spetta di presentare la situazione dell'Università tedesca attraverso lo scritto di Kant Il conflitto delle Facoltà del 1798, i due discorsi inaugurali tenuti da Hegel il 28 ottobre 1816 e il 22 ottobre 1818 per i rispettivi insediamenti nelle cattedre di filosofia delle Università di Heidelberg e Berlino, e il famigerato Discorso di rettorato tenuto da Heidegger il 27 maggio 1933 per la guida dell'Università di Friburgo. Nel secondo capitolo Macherey presenta l'Università francese degli anni Sessanta del Novecento facendo lavorare assieme le riflessioni che su di essa furono svolte da Jacques Lacan nel seminario Il rovescio della psicanalisi e da Bourdieu e Jean Claude Passeron in La riproduzione, e questo con buona pace di quella filosofia politica che, impunemente, crede di poter applicare le categorie psicoanalitiche alla comprensione del mondo sociale facendo a meno della mediazione della sociologia empirica. Infine, nel terzo capitolo, sono presentate le università immaginarie di scrittori come Rabelais (Gargantua), Hermann Hesse (Il gioco delle perle di vetro), Thomas Hardy (Jude l'oscuro) e Vladimir Nabokov (Pnin).

Ora, per quanto Macherey affermi, nelle conclusioni del libro, di essersi limitato a proporre una rilettura - «e niente di più» - di questi testi facendoli «dialogare fra di loro», in realtà, essi sono articolati da una logica stringente: se nel primo capitolo viene posta la tesi di un'università ideale (Kant, Hegel e Heidegger), nel secondo la si nega attraverso la verifica empirica di tutte le menzogne che si annidano nel discorso universitario reale (Lacan, Bourdieu e Passerron), nel terzo si riconfigurano, su di un piano simbolico, la dimensione utopica di un'università ideale (Babelais e Hesse) e quella fallimentare delle tante università reali (Hardy e Nabokov). Una ferrea logica dialettica.

Detto questo, al lettore rimane solo da scoprire quale legame potrà mai esserci tra un film, la bomba atomica e l'Università.

In due libri, le ambigue complicità del soggetto nei confronti dei meccanismi che favoriscono la sottomissione. Un percorso filosofico di Judith Butler che parte dalla riedizione di

La vita psichica del potere e arriva al recente pamphlet A chi spetta una buona vita?Il manifesto, 5 settembre 2013
L'assoggettamento, suggerisce Foucault, appare come una forma di dipendenza originaria che non abbiamo la possibilità di stabilire in anticipo ma che ci fonda, certo paradossalmente ma - a quanto pare - inesorabilmente. Così quel potere che sentiamo schiacciante fuori di noi è certamente un'esperienza tra le più dolorose. Tuttavia è importante essere consapevoli che la costituzione stessa del soggetto conversa proprio con (e di) quel potere. Lungo questo crinale si inserisce The Psychic Life of Power: Theories in Subjection (1997, Stanford University Press), una delle riflessioni più dense e interessanti di Judith Butler intorno al potere. Tradotto per la prima volta in Italia nel 2005 da Meltemi, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto (Mimesis, pp. 248, euro 20) esce ora in un'edizione completamente rinnovata a cura di Federico Zappino.

La tesi principale di Butler è piuttosto disturbante giacché rimanda ad una complicità ambigua che il soggetto intrattiene con il potere e che difficilmente si può estirpare. Una doppia traiettoria fa del soggetto un paradosso temporale: se da una parte il potere indica la qualità di sottomissione del soggetto, dall'altra ne connota lo stesso divenire. Benché Foucault abbia intrapreso la strada del riconoscimento della relazione tra soggetto e potere, è pur vero - secondo Butler - che non ne ha saputo scandagliare interamente le forme così come i domini psichici.

Torsioni e ripiegamenti

Per indagare una teoria del potere insieme ad una teoria psichica, Butler problematizza l'ortodossia filosofica e psicoanalitica, proponendo un interrogativo politico e sociale che ragioni intorno alla soggettivazione critica. Occorre però discutere di un punto centrale: nelle due posture che il potere assume in capo al soggetto (nel suo fondarlo, e dunque precederlo, e nel suo essere agito) non vi è alcuna necessità teleologica. Né ontologica. Ciò con cui ci si scontra è piuttosto un'ambiguità e una plasticità del soggetto stesso che - da subito competente del potere - è già in colloquio con esso.

Se infatti la soggettivazione è sottomissione e insieme costituzione del soggetto, esiste una possibilità attraverso cui il soggetto stesso può emergere. Spesso, ricorda Butler, si fa riferimento ad un attaccamento appassionato nei confronti della propria sottomissione ma l'argomento andrebbe indagato con cura perché viene invocato proprio da coloro che vorrebbero minimizzare e depotenziare la rivendicazione degli oppressi. Secondo la filosofa, l'attaccamento è prodotto dallo stesso potere, adducendo e figurando una torsione del soggetto stesso che si manifesta come ripiegamento.

In queste maglie fittissime, quell'attaccamento diventa una possibilità di emersione dello stesso soggetto se - da un piano puramente filosofico - ci si sposta a «socializzare» il piano psicanalitico. Riconoscere l'attaccamento determina infatti la consapevolezza che nell'alveo di quella soggettivazione esiste qualcosa che sfugge alla definizione netta e rassicurante che da Hegel arriva a Foucault passando per Nietzsche e Freud. C'è infatti un amore smisurato che mostra la nostra stessa vulnerabilità e che si prostra e si rivolta conducendoci in una melanconia che è poi prodotta dalla perdita; nel domandarsi le responsabilità del soggetto che si lascia sottomettere non si tiene conto della forma psichica che quel potere assume. La coazione a ripetere dell'attaccamento si comporta come una nevrosi, il rifiuto (o forse sarebbe meglio dire: quel che ne resta) invece - dopo la consapevolezza - scompagina lo scenario repressivo del regime regolatore nell'impossibilità ad approfittarsi di noi. L'esistenza di un soggetto anteriore allo sfacelo è paventabile? Cioè l'interruzione di questo circuito che soggioga è pensabile? Butler risponde così: «sono orientata a sostenere che il soggetto che si oppone alla violenza morale, anche a quella contro se stesso, sia il prodotto di una violenza già consumatasi, senza la quale egli non sarebbe potuto emergere». E in effetti, dalla dialettica servo-padrone passando per la coscienza infelice proposte da Hegel, si introduce il prodromo di ciò che inchioderà Foucault e il dibattito a lui coevo. Cioè quel soggetto non è analizzabile solo come produzione ma anche come forma di interiorizzazione.

L'Io in perdita

Nella torsione che segna l'illuminarsi della coscienza, si deve poter distinguere la volontà dal desiderio. È in fondo la prima che configura ciò che Nietzsche individua come «cattiva coscienza» e che va a puntellare l'auto-rimprovero della norma di cui discetta Althusser. Seppure nell'irrinunciabile dettato teorico, la filosofa - anche qui come in molto suoi libri - sembra andare in cerca della debolezza di ogni fonte da lei scandagliata per trovare, infine, un inedito punto di avvistamento.

All'altezza de La vita psichica del potere tuttavia non ve n'è uno che possa dirsi più saldo degli altri; sarebbe meglio parlare di crocicchio, apparentemente senza via di uscita, entro cui il soggetto affiora, nello sfondo di una violenza già consumata, insieme all'ambiguità di una perdita che non si sa nominare e che, proprio per questo, inchioda l'io in uno stato di perenne melanconia. È quest'ultima a possedere un nome prestabilito e una sua utilità nell'economia butleriana; serve infatti per indicare lo statuto frastagliato del soggetto che diventa Io nel suo ripiegarsi.

Escrescenze «logiche»

Nella prefazione, Zappino spiega bene in che termini la melanconia si possa ricondurre al genere in una prospettiva della critica queer. E spiega anche come l'intero testo conservi esso stesso una tonalità affettiva melanconica. Più che soluzioni alla morsa del potere, Butler ne fotografa l'esiziale e doppia dislocazione, permanente in una forma psichica che non solo viene interiorizzata ma che sembra guidare lo stesso desiderio e le stesse relazioni.

In questo dramma - catastrofe pervasiva già in atto - non c'è posto per nessuna forma parodica; piuttosto la domanda che ci si potrebbe porre è: davvero il soggetto è solo un prodotto, seppur complesso, del potere? E davvero la melanconia avverte unicamente del mancato attaccamento sessuale? In una prospettiva di plasticità del genere a cui Butler ci ha abituati sembra di poter rispondere di sì (su questo e sul futuro del soggetto queer si interrogano con competenza Federico Zappino e Lorenzo Bernini in appendice al volume). Non c'è naturalità e non c'è determinismo, ciò è pur vero nel discorso della filosofa. Certo che però a pensare lucidamente che anche il dissenso critico, le strategie di liberazione e lo stesso desiderio, sono nient'altro che propaggini di quel soggetto, «escrescenza della logica», che decreta la propria nascita come una voragine della fine, viene quasi da chiedersi se non sia perfettamente inutile continuare a interrogarsi sulla vulnerabilità della condizione umana. Che se allo stringente orizzonte ontologico si sostituisce la relazionalità bisognerà pure sostanziarla affinché non sia una finzione anch'essa, come un atto narcisistico. Si potrà cioè concedere all'alterità tutta la sua incontenibile imprevedibilità nel luogo di quella relazione? Ma Judith Butler questo lo insegna, profondamente. Altrimenti non si chiederebbe, in un suo recente e bellissimo librino, A chi spetta una buona vita? (Nottetempo, pp. 80, euro 7). Pubblicato in collaborazione con il blog «il lavoro culturale», viene curato da Nicola Perugini ed è il discorso della filosofa in occasione dell'attribuzione del Premio Adorno 2012. Si tratta di un piccolo gioiello di chiarezza e sintesi politica che prende avvio da un'affermazione del filosofo tedesco contenuta in Minima Moralia: «Non si dà vita vera nella falsa». Chiedersi cosa sia una vita buona e se la si possa condurre entro il perimetro di una vita cattiva, non ha una mera accezione morale, bensì consiste in un ragionamento più ampio che metta in relazione la moralità e la teoria sociale. Secondo Butler, Adorno si domanda in che modo il dispositivo del potere possa condizionare, fino a sconvolgere, le nostre riflessioni sulla forma di vita migliore. Si potrebbe cominciare dalla propria di vita, ma la questione dirimente per Butler è anzitutto quali siano le vite da considerare tali. In ultima istanza, si gioca una partita più alta e scomoda: quali sono le vite alle quali l'amministrazione della biopolitica non riconosce il lutto? Forse quelle tantissime esistenze che, ancora prima di ulteriori costruzioni, sono già perdute o morte. In questo passaggio umbratile sono numerose le esistenze indegne di lutto che, non trovando spazio nella scena politica, si stringono in «forme di insorgenza pubblica». C'è una noncuranza di fondo che attiene ad una mancata condizione di supporto. Chi non è degno di lutto non è neppure degno di considerazione, e viceversa; non potrà beneficiare di libertà di espressione politica, di alloggio, di sostegno economico né di forme di riconoscimento sociale. Ritornando alla domanda iniziale, come si fa a condurre una vita buona se quella stessa vita è già invisibile, intercambiabile e del tutto dispensabile? Qui rientra la questione della riflessività dell'Io. Anche in un orizzonte neoliberista come quello presente, o in un sistema violento come quello dello Stato di Israele. Cioè, io ho la forza sufficiente per emergere nel campo del possibile? Se sì, devo poter dare seguito a qualunque risposta ne derivi, e poi - si potrebbe aggiungere - decidere come stare in quel campo. Devo soprattutto comprendere che la mia vita si staglia in un tessuto relazionale più vasto che è piagato dal dominio, sì, ma che al contempo può essere la scena di un riconoscimento. Per Butler «anche in condizioni di minaccia estrema, le persone compiono tutti i gesti possibili di supporto reciproco».

Anonimi nel mondo

Così, se l'invivibilità può essere ascritta alla categoria della precarietà, non sembrerà peregrino segnalare desideri che non si fermano alla sopravvivenza ma che tendono alla vita buona: «anche il solo pronunciare un nome può costituire la forma più straordinaria di riconoscimento, specialmente quando si è diventati dei senza-nome, quando il proprio nome è stato sostituito da un numero, o ancora quando non si è degni di essere chiamati in nessun modo». Allora la vita buona solleva le battaglie per la sopravvivenza in un senso più alto, che comprenda quantomeno la vita organica e che attenga ad una visione sociale e di interdipendenza ma soprattutto che consideri la relazione fra me e gli altri. Sempre e in una molteplicità di emersione.

La resistenza alla invivibilità non significa esclusivamente dire di no ad un sistema di vita che non corrisponde, deve essere invece incarnata nei corpi e plurale e poter implicare l'incontro con chi non è degno di lutto. La resistenza in tal senso aspira ad una più ampia narrazione rappresentata dal combattimento della precarietà e della diseguaglianza differenziale. Una forma di scontro in cui non si espunge la vulnerabilità ma anzi se ne fa risorsa perché diventi vivibile, in una condizione critica di democrazia radicale.

Femminismo "della seconda ondata" e società, dal capitalismo del welfare state alla crisi del neoliberalismo. Una recensione dell'ultimo libro della studiosa statunitense.

Il manifesto, 9 agosto 2013
L'ultimo libro della filosofa statunitense è un corpo a corpo con il femminismo della seconda ondata. E una proposta teorica per sviluppare una critica alle «politiche dell'identità» e alle misure redistributive condotte in nome della parità di genere.

Il titolo dell'ultimo libro di Nancy Fraser, pubblicato dalla casa editrice inglese Verso, riassume bene l'intento dell'autrice di ricostruire e discutere criticamente la traiettoria controversa del femminismo della seconda ondata, quello diffusosi a partire dagli anni Sessanta negli Stati Uniti: Fortunes of Feminism. From State-Managed Capitalism to Neoliberal Crisis. «Fortune» è un termine polisemico che indica sia il destino che la buona fortuna o il successo. E in effetti l'obiettivo che si propone l'autrice è per l'appunto quello di analizzare sia la buona sorte del femminismo della seconda ondata, dalla sua affermazione accademica alla sua capacità di trasformare pratiche, discorsi e linguaggi, sia il suo paradossale destino, quello di aver accompagnato e per certi versi involontariamente legittimato il passaggio da un capitalismo regolato dallo stato nazione al capitalismo neoliberista.

Fortunes of Feminism è una raccolta di saggi scritti tra il 1985 e il 2012, che dà il senso non solo della traiettoria storica del femminismo della seconda ondata, ma anche del percorso intellettuale dell'autrice. Nancy Fraser è una delle voci più note e autorevoli della teoria femminista americana. Il suo lavoro teorico è caratterizzato dal tentativo di combinare insieme, in maniera non eclettica, parte della tradizione della teoria critica francofortese, aspetti del post-strutturalismo francese e delle sue intepretazioni in ambito statunitense, e infine elementi derivanti dalla critica marxiana dell'economia politica e dal femminismo marxista. A partire da questa prospettiva, Fraser si è confrontata a più riprese con alcune delle maggiori teoriche femministe americane. Si possono vedere, ad esempio, il volume pubblicato nel 1994 dalla casa editrice Routledge, Feminist Contentions, contenente uno scambio filosofico tra Judith Butler, Nancy Fraser, Seyla Benhabib e Drucilla Cornell sul tema del rapporto tra femminismo e postmodernismo, o il dibattito con Judith Butler sulla relazione tra genere, sessualità e capitalismo, pubblicato sulle pagine della New Left Review a metà degli anni Novanta.

Una giustizia bifocale

La riflessione di Fraser sulle tematiche di genere è stata profondamente influenzata dalle sue elaborazioni sul concetto di giustizia e sulle sue differenti accezioni. In effetti, Fraser è stata una delle maggiori protagoniste del dibattito su ridistribuzione e riconoscimento all'interno della teoria critica. In Justice Interruptus (1997) e in Redistribution or Recognition? (2003), scritto insieme ad Axel Honneth, Fraser ha sviluppato una concezione «bifocale» o «bidimensionale» della giustizia, in risposta al divorzio tra politiche dell'identità di genere e politiche di classe. Giustizia è un concetto complesso e non univoco, che deve contenere almeno due dimensioni principali. Una relativa a quella che Fraser chiama «ridistribuzione», vale a dire la struttura economica di una società, la sua dimensione di classe, le istituzioni che regolano il lavoro e la sua divisione sociale, l'accesso alle risorse, ai servizi e al welfare. Un'altra relativa al «riconoscimento», categoria hegeliana tornata in auge nella teoria critica e femminista degli ultimi decenni, dove viene generalmente adoperata per indicare l'atto del «riconoscere» e dunque rispettare lo status, i diritti, l'identità e la differenza di un'altra persona. La nozione di riconoscimento ha giocato un ruolo fondamentale, ad esempio, all'interno dei movimenti di liberazione Lgbtq, delle teorie della differenza sessuale e dei discorsi sul multiculturalismo.

Nella declinazione data da Fraser del riconoscimento non si tratterebbe tanto di riconoscere una differenza, che rischierebbe in tal modo di essere reificata, quanto di riconoscere uno status sociale. Nel caso della politica di genere, ad esempio, non si tratterebbe di rivendicare il riconoscimento di una differenza sessuale e di una conseguente identità femminile ossificata e destoricizzata, ma piuttosto il riconoscimento dello status sociale delle donne come membri in senso pieno della società, capaci di partecipare alle interazioni sociali su un terreno di parità.

L'arido economicismo

La scommessa di Fraser è che un approccio «bifocale» alla concezione della giustizia permetterebbe di identificare la relativa autonomia di queste due distinte dimensioni, senza pertanto operare delle riduzioni dell'una all'altra o senza considerare l'una un mero epifenomeno dell'altra. Il riconoscimento dell'esistenza e relativa indipendenza di queste due dimensioni della giustizia, infatti, darebbe una risposta al problema irrisolto del superamento del modello caro a parte della tradizione marxista della «struttura» e della «sovrastruttura». Allo stesso tempo, una considerazione della giustizia come pluridimensionale consentirebbe di individuare anche gli intrecci e le interconnessioni tra queste diverse dimensioni. Per quanto le due dimensioni del riconoscimento e della ridistribuzione siano relativamente indipendenti, infatti, esse contribuiscono entrambe alla riproduzione della società capitalistica. Inoltre, fenomeni quali diseguaglianza economica, sessismo e razzismo sono sempre caratterizzati da entrambe le forme di ingiustizia. Per questo motivo, una politica di ridistribuzione separata da quella di riconoscimento e viceversa rappresentano due approcci inadeguati ai fini di una significativa trasformazione sociale. Due approcci che finiscono col riprodurre un economicismo monco e un culturalismo altrettanto monco. Le relazioni causali tra le due dimensioni e la loro relazione con la riproduzione della società capitalista nel suo complesso richiederebbero un supplemento di elaborazione teorica, per evitare di cadere nuovamente precisamente nella teoria dualista che Fraser vuole evitare.

Recentemente, Fraser ha rivisto e integrato la sua precedente concezione «bifocale», al fine di aggiungere un'ulteriore dimensione della giustizia, e dell'ingiustizia: quella della rappresentanza. Per rappresentanza va inteso l'insieme di istituzioni, norme e procedure che stabiliscono a livello politico quali siano i confini dell'agire politico, chi è incluso e chi è escluso da una determinata comunità sociale e politica, e infine quali processi di contestazione pubblica siano accettati e quali no. Si tratta di una dimensione ormai divenuta centrale a seguito della globalizzazione neoliberista e della crisi di quella che Fraser definisce come la cornice «keynesiana-westfaliana», vale a dire della cornice dello stato nazione come ambito privilegiato delle politiche economiche e di riconoscimento e della loro contestazione.

È alla luce di queste elaborazioni che vanno letti i saggi contenuti in Fortunes of Feminism. Per quanto redatti in un arco temporale di più di venti anni, all'interno del volume i saggi sono organizzati in uno schema coerente, definito da Fraser come un «dramma in tre atti». Il dramma è per l'appunto quello del femminismo della seconda ondata. Nel primo atto, scrive Fraser, «le femministe si sono unite ad altre correnti radicali, facendo esplodere un immaginario socialdemocratico che aveva occultato l'ingiustizia di genere e tecnicizzato la politica». Con il declino delle energie utopiche e radicali degli esordi, il femminismo della seconda ondata è stato attratto nell'orbita di una politica centrata sull'identità ed è entrato in una fase caratterizzata dalla svolta dalla «ridistribuzione al riconoscimento», in direzione di un politica culturale basata sulla valorizzazione della «differenza». Il terzo atto del dramma è quello che si sta svolgendo oggi, aperto dalla crisi del neoliberismo, che, facendo esplodere le contraddizioni economiche in tutta la loro asprezza, ha riaperto la possibilità di un ritorno e di un ripensamento di una politica e di una teoria femminista radicali, capaci di combinare le diverse dimensioni della giustizia.

Fallimenti paralleli

Il contenuto dei saggi raccolti nel volume è apparentemente disparato: si spazia dalla critica di genere della teoria sociale critica di Habermas a una genealogia del concetto di dipendenza nel dibattito sul welfare-state statunitense; da un'analisi critica degli usi e abusi di Lacan nella teoria femminista a una discussione su una possibile riformulazione femminista del pensiero di Polanyi. Questa varietà di contenuti, tuttavia, si combina con una coerenza teorica di fondo e con due fili conduttori principali. Il primo, già menzionato, concerne l'elaborazione di un concetto di giustizia di genere, alla luce di una concezione multidimensionale di giustizia più in generale. Differenti teorie femministe e proposte programmatiche (dal salario per le casalinghe al pieno impiego femminile) vengono, dunque, tutte analizzate e sottoposte al test della giustizia: che tipo di giustizia di genere queste teorie e proposte permettono di realizzare? Quali aspetti rimangono insoddisfacenti o del tutto trascurati? Il secondo filo conduttore ha invece a che vedere con la dimensione più propriamente politica dell'agire collettivo. Quali proposte e teorie consentono e facilitano alleanze tra le lotte? Quali contengono in sé elementi trasformativi, contestatori e emancipatori e potenzialità di sovvertire l'ordine sociale mediante l'agire collettivo?

L'austuzia della storia

Da questo punto di vista sia le teorie della differenza che la identity politics falliscono entrambi i test. Entrambe non riescono a dar conto della complessità delle identità sociali, della loro instabilità e soprattutto del modo in cui si trasformano mediante le pratiche, le esperienze e l'agire collettivo. Entrambe, inoltre, hanno contribuito alla svolta in direzione del femminismo culturale. Questo ha agevolato la cooptazione di discorsi provenienti dal femminismo all'interno del nuovo ordine sociale capitalista. Per una sorta di «astuzia della storia», la diffusione di atteggiamenti culturali generatisi all'interno del femminismo della seconda ondata è divenuta parte costitutiva di un'altra trasformazione, che quel femminismo non aveva né anticipato né voluto: la trasformazione dell'organizzazione sociale capitalista postbellica. In altre parole, alcuni degli assi centrali del femminismo della seconda ondata, l'antieconomicismo, l'antiandrocentrismo,l'antistatalismo, per citarne alcuni, sono stati soggetti a un processo di risignificazione che li ha trasformati in elementi di legittimazione ideologica del nuovo ordine neoliberista. Questo, tuttavia, è stato solo il secondo atto del dramma e, come già accennato, il terzo atto è già cominciato e oggi, come scrive Fraser, «è il momento in cui le femministe dovrebbero pensare in grande». Questo è il terzo atto a cui Fortunes of Feminism vuole dare un contributo.

SCAFFALI
Dal riconoscimento
allo status delle donne

Nancy Fraser è docente di filosofia e politica alla New School for Social Research, a New York. Inoltre è Einstein Fellow della città di Berlino e titolare della cattedra «Giustizia globale» al Collège d'études mondiales di Parigi. Esponente di spicco del femminismo americano e della teoria critica a livello internazionale, è autrice di numerosi volumi e articoli. Il primo volume è apparso nel 1989: «Unruly Practices. Power, Discourse and Gender in Contemporary Social Theory». I due volumi «Justice Interruptus. Critical Reflections on the "Postsocialist" Condition» (Routledge) e «Redistribution or Recognition? A Political-Philosophical Exchange» (con Axel Honneth, Verso) hanno riscosso un successo internazionale e sono stati tradotti in otto lingue. Sono apparsi in traduzione italiana rispettivamente per i tipi di PensaMultimedia («La giustizia incompiuta. Sentieri del post-socialismo») e di Meltemi («Redistribuzione o riconoscimento?»). È apparso in traduzione italiana anche il volume «Il danno e la beffa. Un dibattito su ridistribuzione, riconoscimento, partecipazione» (Pensa MultiMedia, 2012). Diversi dei saggi contenuti in «Fortunes of Feminism» sono stati pubblicati in italiano in riviste e volumi collettanei. Il prossimo progetto di Nancy Fraser è il volume «Crisis, Critique, Capitalism: Re-reading Marx, Polanyi, and Habermas in the 21st Century», nel quale l'autrice si propone di reintrodurre il progetto di una critica della crisi della società capitalistica all'interno della teoria critica di origine francofortese.

Se il diritto al lavoro e alla salute fossero stati presi sul serio all’Ilva non ci saremmo trovati nell’attuale situazione disastrosa, da un punto di vista sociale e ambientale, perchè oggi i danni prodotti richiedono costi molto più alti che se si fosse operato diversamente. Pubblichiamo uno stralcio del libro di i, "Ilva connection" (Manni Editore).

www. Sbilanciamoci.info, 26 luglio 2013

Stefano Rodotà, giurista e politico di vaglia, non ha bisogno di presentazioni. Una delle principali fonti, attraverso cui il professore interpreta e commenta i fenomeni e i processi sociali, è la vecchia, cara Costituzione, “un capitale culturale inutilizzato”. Invece di passare il tempo a mitigarne, o peggio snaturarne le caratteristiche rivoluzionarie bisognerebbe impegnarsi ad applicarla, facendola finalmente diventare patrimonio collettivo. Pur nel vortice mediatico dei giorni successivi alla sua candidatura a presidente della Repubblica, a cui il Partito democratico non ha voluto dare il sostegno preferendo la strada dell’abbraccio con Berlusconi, Rodotà è disponibile a esprimere il suo punto di vista sul conflitto che contrappone due diritti fondamentali, al lavoro e alla salute. Ed è un punto di vista netto, di sinistra e, soprattutto, fedele alla Carta costituzionale.

“Ha preso piede una lettura semplificata dei diritti”, dice, “e con essa una considerazione diffusa secondo cui i diritti costano, non ce li possiamo permettere. Di conseguenza viene fatta una selezione per espellere dall’insieme dei diritti quelli sociali. Certo i diritti costano, ma a nessuno viene in mente di eliminare il diritto di voto nonostante abbia il suo costo economico. Invece sui diritti sociali, appunto, si è disposti a soprassedere. A questa logica rispondo proponendone una opposta: i diritti sociali costano, certo, ma il prezzo economico da pagare se non vengono rispettati è ancora maggiore”. E qui il caso dell’Ilva di Taranto diventa illuminante: “Vengono presentati in contrapposizione due diritti fondamentali come quello al lavoro e quello alla salute. Non sono in contrapposizione, piuttosto sono ineliminabili come ci spiega la Costituzione a partire dalle sue prime righe. L’articolo 1 pone addirittura il lavoro a fondamento della Repubblica”. Il lavoro che la Costituzione pone come radice della Repubblica deve inoltre rispettare la dignità di chi lo esegue, dunque la sua sicurezza “che non vuol dire semplicemente indossare il casco”, dignità significa salute, rispetto della vita e dell’ambiente. “Se il diritto al lavoro e alla salute fossero stati presi sul serio, all’Ilva non ci saremmo trovati nell’attuale situazione disastrosa, da un punto di vista sociale e ambientale. Oggi i danni prodotti richiedono costi altissimi, molto più alti che se si fosse operato diversamente”, continua Rodotà, “cioè nel rispetto della Costituzione. Ecco uno dei motivi per cui il ragionamento sui costi dei diritti sociali va rovesciato. È l’insieme dei diritti, fondamentali nel nostro caso, che va reintegrato”.

L’attacco alle basi della Costituzione passa anche attraverso “il tentativo avviato dal governo Berlusconi e proseguito con il governo Monti di ribaltare l’obiettivo insito nell’articolo 41. L’iniziativa privata, si dice, è libera, ma non può essere in contrasto con l’utilità sociale o recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. E pensare che questa scrittura”, sottolinea Rodotà, “è stata fatta insieme ai liberali nella Costituente. E per sicurezza, lo ripeto, si intende la qualità del lavoro. Questa linea politica costituzionale va riaffermata e praticata”. Quale sia lo scopo di questi ripetuti attacchi all’articolo 41 per modificarlo è evidente: “La forzatura si basa sull’idea che la cosiddetta legge naturale del mercato sia al di sopra della Costituzione. Solo il ripristino della linea politica costituzionale, al contrario, ci consente il rispetto dei diritti e favorisce la possibilità di trovare gli equilibri necessari. C’è una sentenza della Corte europea che ha un valore straordinario perché definisce illegittima l’attività economica che contrasta con la dignità delle persone. Come si fa, di fronte a questo pronunciamento, a non riconoscere l’importanza e la lungimiranza della Costituzione italiana?”.

La violazione dello spirito costituzionale viene letta da Stefano Rodotà nelle conseguenze sociali di scelte politiche inique che costringono “un numero crescente di cittadini a rinunciare alle cure, alle analisi, ai farmaci perché non sono in grado di sopportarne il costo. Insomma, c’è chi non può tutelare la propria salute per mancanza di mezzi: così si torna a una cittadinanza censitoria. La seconda considerazione, però, è che quando si determina una situazione di tale ingiustizia invece di risparmiare si è costretti a spendere ancora di più; insomma, intervenire in ritardo e dopo scelte politiche sbagliate aggrava sia i costi sociali, che stanno diventando drammatici, sia i costi economici”. Rodotà ribadisce la natura classista di queste politiche incentrate sulla “legge naturale del mercato” che espelle i diritti sociali dall’insieme dei diritti: “Altro che non ce li possiamo permettere, è la loro violazione che non ci possiamo permettere. Se a determinare le scelte è il mercato e non il mandato costituzionale, automaticamente crescono le ingiustizie”.

L’Ilva, per risparmiare, peggiora le condizioni di lavoro e intossica il territorio determinando una drammatica emergenza sanitaria. E in più, la diossina e i fumi vengono sparati prioritariamente nei quartieri più poveri, vicino ai quali è stata costruita la fabbrica, Tamburi a Taranto come Cornigliano a Genova... “È quel che ti stavo dicendo: c’è un’ingiustizia di censo, per cui chi ha i soldi si cura e si costruisce la casa lontano dalle fonti inquinanti. La qualità dei diritti di cui mi posso avvalere è legata alla mia capacità economica. È una logica eticamente e socialmente inaccettabile e anche, insisto, insostenibile sul piano economico”.

Il terzo volume del collettaneo

L'altro Novecento, a cura di Pier Paolo Poggi e Fondazione Micheletti: «Il capitalismo americano e i suoi critici». Miti che hanno orientato le scelte di milioni di individui, il comunismo referente-nemico dalla politica a stelle e strisce. Il manifesto, 16 luglio 2013

E tre! Il progetto di Pier Paolo Poggio e della Fondazione Micheletti de L'altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico in tre anni ha superato la metà del percorso. Il terzo dei cinque volumi previsti dall'opera è appena arrivato in libreria, non meno voluminoso dei precedenti (Il capitalismo americano e i suoi critici, Milano, Jaca Book-Fondazione Luigi Micheletti, 2013, pp. 719). Eppure, come e più di quelli, si presta a esplorazioni libere e plurime, con i suoi trentacinque agili contributi, opera di studiosi perlopiù italiani e statunitensi, che mai superano le venti pagine l'uno, corredati di note non maniacali e di una utile bibliografia. Lasciata l'Europa, il «comunismo eretico» prende il largo. In quattro sezioni dedicate a movimenti e conflitti sociali, razza e genere, correnti ideologiche e pensiero politico e teorie e critiche sociali, affronta il laboratorio-labirinto statunitense. Senza lasciarsi intimidire dalla traversata atlantica, nella sua bella Presentazione Poggio non rinuncia a respirare profondo. Colloca nel quadro internazionale novecentesco, cioè nel «secolo americano», la storia dei radicals di vario orientamento che - assieme, a lato e contro a frange progressiste e liberal - hanno criticato e combattuto un capitalismo con «un dinamismo senza pari», la cui «spinta espansiva...non si è ancora esaurita».

Conflitti epocali

Se è vero che «il comunismo ortodosso o eretico, inteso in una accezione storicamente determinata facente perno sulla rivoluzione russa e sviluppi successivi, non è stato un fenomeno rilevante nella storia politica e sociale nordamericana del Novecento, dove si è manifestata una pluralità di movimenti, lotte, ideologie e teorie politiche», è anche vero, dice Poggio, che «il comunismo è stato innegabilmente il referente principale della politica americana, il polo opposto che durante tutto il Novecento ne ha indirizzato scelte e strategie».

Di qui, il «rapporto americanismo-comunismo...per un verso di opposizione assoluta, per l'altro di mimetismo e concorrenza». Di qui, «il successo impressionante dei due miti contrapposti, capaci di orientare le scelte di vita e le passioni di milioni e milioni di individui» in una lotta «epocale» che, però, si rivela in realtà «scontro fra due realtà asimmetriche». Perché «mentre gli ideali americani, sia sotto forma di consumismo di massa che come patria della libertà e della democrazia, riuscivano a penetrare nel mondo comunista nonostante la 'cortina di ferro'...il comunismo russo-sovietico non riesce a prendere piede con forza nella società americana».

Di qui, infine, la sostanziale egemonia interna dell'American way of life («il grosso della società condivideva l'American way of life senza significative critiche o atteggiamenti antagonisti»), ma anche il fatto che «le critiche più efficaci e puntuali al capitalismo americano provengono dall'interno della società e cultura americana e solo eccezionalmente e marginalmente si pongono come obiettivo la negazione totale dell'America, dei suoi valori e ideali. Molto più frequentemente la loro riautentificazione, lo smascheramento del tradimento che hanno subito, l'attuazione delle promesse non mantenute».

Torneremo brevemente alla fine sul rapporto con la tradizione politica autoctona statunitense. Qui preme sottolineare come la scelta di una chiave interpretativa aperta sul mondo, inevitabile parlando di «imperi» e di un paese popolato di schiavi, servi a contratto e immigrati, dia i suoi frutti perché scivola nel libro, ne pervade molti dei contributi facendosi dimensione transnazionale, scenario variegato di influenze che entrano ed escono dall'universo Usa e disegnano, in maniera fluida e mossa, i contorni mutevoli della protesta, della presa di parola comunitaria, della critica, individuale e collettiva.

Così è per gli Industrial Workers of the World, il celebre piccolo-grande movimento sindacale d'inizio Novecento di cui Salvatore Salerno ricostruisce la matrice anarchica e soprattutto transnazionale e internazionalista, con soci fondatori di spicco nati negli Stati Uniti come Big Bill Haywood, ma anche, come nel caso di Daniel De Leon (su cui il libro ospita anche un contributo di Lorenzo Costaguta), alle Antille, o in quello di William Trautman, in Nuova Zelanda.

Così è per il pacifismo radicale e femminista della Women's International League for Peace and Freedom, una storia lunga un secolo tratteggiata da Maria Susanna Garroni. Così è per l'arcipelago di attivisti e organismi dei movimenti di liberazione afroamericani esaminato da Ferruccio Gambino, che colloca la battaglia antisegregazionista o l'incessante ridefinizione della vocazione politica di Malcolm X «contro l'esclusione» entro l'onda lunga dei movimenti anticoloniali e della decolonizzazione, da Alessandra Lorini, che getta uno sguardo globale sul pensiero antirazzista di W.E.B. Du Bois e Franz Boas, da Valter Zanin, che esamina un altro gigante del panafricanismo come C.L.R. James e il suo progetto di «rivoluzione come realizzazione dell'individuo sociale». O, ancora, per gli scienziati sociali fuoriusciti di lingua tedesca fra le due guerre mondiali studiati da Mariuccia Salvati.

Oltre alla dimensione transnazionale, un secondo elemento che emerge con forza dal libro è come tante delle voci qui presenti abbiano ingaggiato una complessa partita, di critica, lotta, rifiuto e sofferta convivenza, con le condizioni, materiali e culturali, della vita quotidiana, lavorativa e non.

Laboratori «radical»

È il caso naturalmente prima di tutto del movimento delle donne e del «personale è politico» indagato da Alexander Bloom a partire dall'omonima formula introdotta da Carol Hanisch nel 1969. O de La mistica della femminilità di Betty Friedan, di cui Elisabetta Bini insegue le radici di sinistra comunista, in seguito «mitigate» dalla stessa Friedan nella sua autobiografia. Ma è anche il caso della riflessione di Paul Buhle sui rapporti fra radicalismo e cultura popolare e di massa, che restituisce il ruolo politico svolto da cantanti come Harry Belafonte, Jimmy Cliff e Bob Marley nei movimenti per l'emancipazione razziale, oppure scrosta Bruce Springsteen e ci trova dietro come manager Jon Landau, il figlio di un insegnante di sinistra vittima delle «liste nere» maccartiste, o scopre che il manager del rocker di sinistra Tom Morello proviene dallo stesso ambiente radicale di Landau.

È il caso del rapporto fra musica popolare e movimenti esplorato da Alessandro Portelli. Certamente, questa nozione della «vita quotidiana» è molto vaga e magari bisognerebbe scomodare categorie come «biopolitica» e ingaggiare un'analisi comparata col pensiero radicale, marxista e non, europeo e mondiale. Ma si ha la netta impressione che, per quanto minoritario e incapace di «unificarsi attorno a una prospettiva condivisa», come dice Poggio, questo laboratorio radical d'oltre Atlantico meriti ulteriori perlustrazioni proprio su questo terreno, così come sul suo rapporto, di tensione e convergenza, con le tradizioni politiche autoctone.

Ad esempio, non è proprio così appropriato, definire - come fa Poggio - la proposta populista tardo-ottocentesca come «un capitalismo popolare facente perno sull'individualismo proprietario», specie se si intreccia quella proposta con il progetto cooperativista e collettivo dei Knights of Labor nelle loro mille anime. Né va da sé che, se misurato sulle enormi poste sulle quali si è impegnato, il composito laboratorio radicale Usa meriti una valutazione pessimistica e negativa, come quella che, in fondo, le assegna Poggio quando conclude che «né il sistema economico-finanziario né il complesso militare-industriale sono stati seriamente messi in difficoltà» dalle lotte degli anni sessanta e settanta.

È stato comunque bello leggere questo importante libro e alzare la testa dall'album di figurine scompagnate della vita e della politica nostre di tutti i giorni.

riferimenti
Vedi anche, su eddyburg, la recensione di un altro volume, La crisi del capitalismo americano, , scritta per il manifesto da Giorgio Nebbia

«il manifesto, 5 luglio 2013
Un presente da capire e da cambiare. Sette tappe di un percorso di autoformazione

«Genealogia significa sviluppare l'analisi a partire da un problema che si pone nel presente». Così, in un'intervista rilasciata nel 1984, Foucault tornava a chiarire l'intento, eminentemente politico, del proprio modo di lavorare in totale immersione nel tormentato mare della storia. Nessun interesse intrinsecamente filologico. Nessuna sorta di manierismo storiografico. Una genealogia non serve a riavvolgere il filo continuo delle identità nel fluire del tempo; sovvertire il presente è la sua vocazione politica. Letto in quest'ottica, il titolo dell'ultimo libro edito per la collana di UniNomade di ombre corte - Genealogie del futuro, a cura di Gigi Roggero e Adelino Zanini, euro 14 - getta luce immediatamente sul terreno strategico del suo scopo, proiettando, tuttavia, un cono d'ombra che soltanto la lettura del testo analiticamente dissipa. Cosa significa sovvertire il presente ricostruendo genealogie del futuro?

Autoformazione militante

È stentorea la formula con cui i curatori aprono l'introduzione al volume. Essa dischiude lo spazio al cui interno la soluzione di un simile nodo acquista, pagina dopo pagina, la propria fisionomia: «formazione militante». Posta in gioco alta, complessa, necessaria. Soprattutto se si considera il suo essere situata, al tempo stesso, come orizzonte tendenziale cui il libro mira e come ciò che, preziosamente, esso realizza. Il gioco di temporalità che già nel titolo del volume spiazza e tiene in sospeso, stabilisce le coordinate del programma politico che sostiene l'impianto del testo: conoscere il passato per comprendere l'oggi; sovvertire l'oggi per rendere possibile il domani. Occorre, in altre parole, divenire consapevoli dei luoghi, delle narrazioni, delle storie di soggettività e conflitto di un passato recente che, ancora, organizza le forme concettuali del nostro pensare la militanza comunista. Genealogie del futuro è questo fondamentale esercizio critico del pensiero. Vi si raccolgono le sette lezioni che lo scorso anno hanno dato vita alla prima esperienza del progetto Commonware. Si tratta di un corso di autoformazione, il cui nome rappresenta la trasfigurazione ironica dei pacchetti didattici delle aziende universitarie, i cosiddetti courseware. Una formazione militante che, tuttavia, non si rivolge solamente ad un pubblico di studenti, ma che apre le porte a tutte le realtà di movimento e a tutte le figure che oggi costellano il variegato panorama del lavoro vivo, nelle contemporanee trasformazioni dello sfruttamento capitalistico.

Nell'introduzione al volume i curatori fissano un punto di fondamentale rilevanza: il sapere è oggi in crisi perché ad essere in crisi è il rapporto sociale al cui interno esso si produce. Tale è il motivo per cui a dover essere riattivata è in primo luogo la funzione critica di un sapere in grado di mobilitare processi conflittuali, dentro e contro la crisi dei rapporti di produzione capitalistici. Il primo ciclo delle lezioni di Commoware - denominato Da Marx all'operaismo - intende riflettere precisamente tale specifica esigenza che si riassume nella volontà di interpretare la critica dei saperi, innanzitutto, come una critica dell'economia politica della conoscenza. Obiettivo che, tuttavia, non si persegue schiacciando la portata di tutta la lezione marxiana sull'interpretazione operaista, quanto piuttosto mettendo entrambe alla prova di un presente che richiede l'attivazione di dispositivi teorici in grado di intersecarlo all'altezza delle sue problematicità. Ecco allora che, attraversando i temi posti dalle più fertili riflessioni dell'operaismo italiano, gli autori delle lezioni riattivano alcuni fondamentali concetti del pensiero di Marx, declinandone il potenziale critico dentro alle metamorfosi del contemporaneo.

Come illustrato lucidamente dalla relazione di Sandro Chignola, tali trasformazioni congiunturali fanno capo principalmente a processi di ridefinizione e riarticolazione dello Stato, inteso, al tempo stesso, come quadro organizzativo dei rapporti produttivi e delle filiere del comando capitalistici. Utilizzando la formula foucaultiana di «governamentalizzazione» dello Stato, Chignola non elabora soltanto la mappatura puntuale di una nuova geografia del potere - in cui lo Stato si trova persistentemente ecceduto da sistemi di governance e da flussi di capitale deterritorializzati -, ma mostra come siano le insorgenze dei governati, collocandosi sempre al di là della capacità di captazione del potere, a costringerlo a riconfigurarsi, nell'incessante tentativo di governare l'ingovernabile.

Il confronto con il presente

In un simile contesto, un programma di formazione militante non può evitare di tornare a confrontarsi produttivamente con le categorie di composizione tecnica e politica di classe (se ne occupano le lezioni di Toni Negri e Sergio Bologna). È infatti di fondamentale importanza riconcettualizzare oggi quello che una celebre formula di Negri definiva, sul finire degli anni Settanta, come il passaggio dall'operaio massa all'operaio sociale. Comprendere come i meccanismi di sussunzione reale della cooperazione sociale estendano le proprie ramificazioni ben oltre il sistema della fabbrica, ben oltre il luogo di lavoro, nelle sfere della riproduzione, nel tempo libero e negli affetti, diviene fondamentale per organizzare, in forme militanti, una politica dei governati.

Genealogie del futuro ci spinge dunque ad analizzare in profondità la stretta connessione che coniuga le nuove forme di valorizzazione del capitale - dallo sfruttamento del lavoro cognitivo a quello del lavoro femminile nell'ambito della riproduzione (versante, quest'ultimo efficacemente sviluppato da Alisa Del Re) - con l'imbrigliamento materiale della soggettività politica delle moltitudini sfruttate. Come spiega Christian Marazzi nella sua relazione su Moneta e capitale finanziario, la nostra contemporaneità è sempre più caratterizzata dalla capacità strategica del capitale di captare il valore fuori dai processi direttamente produttivi. Cooperazione, linguaggio, sapere, relazione, divengono, pertanto, i pozzi senza fondo di una nuova accumulazione che segnala il progressivo divenire rendita del profitto, la realizzazione, cioè, di un plusvalore assoluto, ricavato dallo sfruttamento di un lavoro non pagato.

Lo sforzo di penetrare sempre più a fondo nell'ordine di tali meccanismi sussuntivi necessita quindi di essere accompagnato da un movimento ricompositivo su scala politica. Non a caso la lezione di Federico Chicchi e Salvatore Cominu che chiude il volume è dedicata alla descrizione degli strumenti, valorizzati dall'esperienza operaista, dell'inchiesta e della conricerca. In essi infatti si legano, in un'unica pratica militante, il momento conoscitivo e quello dell'intervento politico. Sovvertire la nostra attualità significa allora sottrarre la cooperazione del lavoro vivo ai meccanismi del proprio assoggettamento, al fine di giocarla creativamente in una nuova conflittualità, teorica e pratica, in grado di leggere ed interpretare solidamente le trasformazioni del capitalismo contemporaneo.

«

La natura umana è polimorfa, non si esaurisce in una dimensione utilitaristica: individualismo e socialità si coniugano». Insomma, l'"uomo a una dimensione" è un errore storico. L'ultimo libro del filosofo e psicoanalista Sergio Caruso.

Il manifesto, 26 giugno 2013

Il fatto che alla recente scomparsa di Margaret Thatcher non abbia fatto seguito un'apologia corale del suo operato si deve probabilmente agli effetti della crisi economica nella quale siamo tuttora immersi. La recessione di questi anni, infatti, sta contribuendo a ridimensionare l'egemonia esercitata dall'impostazione politico-ideologica dell'ex-premier britannico nel corso dell'ultimo «inglorioso» trentennio, dimostrando ogni giorno di più, anche ai più scettici, l'inadeguatezza del neoliberismo e della teoria economica mainstream. Di quest'ultima appaiono oggi inadeguate non solo le prescrizioni di politica economica (liberalizzazioni e privatizzazioni), ma anche gli stessi presupposti antropologici, a cominciare dal principio della razionalità utilitaria ed egoistica dell'individuo, ovvero il modello dell'homo oeconomicus.

L'idea, cara alla Lady di ferro, secondo la quale il solo protagonista dell'agire sociale sarebbe l'individuo razionale ed egoista, in grado, con il suo operato, di garantire prosperità e benessere per tutti, non soltanto esce malconcia da un confronto con la realtà sociale ed economica, ma risulta inoltre sempre più insostenibile alla luce delle recenti acquisizioni delle scienze umane. Lo mostra bene nel suo ultimo libro Sergio Caruso, filosofo, psicologo e psicoanalista fiorentino, già fra i traduttori e curatori, nel 1973, de La ricchezza delle nazioni di Adam Smith (Homo oeconomicus. Paradigma, critiche, revisioni, Firenze University Press, 194 pp., euro 16,90).

L'homo oeconomicus è un modello interpretativo che può avere (e storicamente ha avuto) diverse possibili declinazioni e varianti; è un «labirinto concettuale», per addentrarsi nel quale il lavoro di Caruso offre utili criteri di orientamento. Muovendosi all'interno di molti ambiti disciplinari (dalla psicologia sociale all'antropologia filosofica, dalla filosofia politica alle neuroscienze), Caruso fornisce al lettore una tipologia e una storia del concetto, soffermandosi anche sulle principali obiezioni ad esso mosse. Così facendo egli offre gli strumenti per una critica (in senso kantiano) dell'homo oeconomicus, ovverosia per una disamina delle sue (circoscritte) potenzialità e dei suoi (molti) limiti; particolarmente evidenti, questi ultimi, nelle semplificazioni operate da politici, giornalisti e docenti delle business schools.

La diffusione e la ricezione della categoria di homo oeconomicus si sono sempre accompagnate a malintesi e luoghi comuni, a cominciare dalla presunta paternità smithiana del concetto. Ne La ricchezza delle nazioni, una simile categoria interpretativa non compare, ed è solo con l'affermazione della teoria economia marginalista, fondata sull'utilitarismo di Jeremy Bentham e John Stuart Mill, che si consolida l'astratto modello dell'uomo egoista e razionale. Il primo economista a fare uso dell'espressione homo oeconomicus sembra sia stato Alfred Marshall; la sua diffusione fra Otto e Novecento si deve invece agli economisti neoclassici italiani, Maffeo Pantaleoni e Vilfredo Pareto, i quali ne fecero un asse portante del proprio edificio teorico.

Un altro fraintendimento deriva dalla sovrapposizione del paradigma dell'homo oeconomicus al (presunto) economicismo di Marx. Ne è un esempio la posizione assunta dal teorico della decrescita Serge Latouche (autore da cui Caruso prende le distanze sin dalla premessa), il quale accusa Marx e il marxismo di universalizzare la categoria dell'economico, vera e propria «invenzione» del mondo capitalistico. A una simile tesi basterebbe obiettare che fu proprio un marxista fra i più raffinati, Antonio Gramsci, a proporre una critica serrata del concetto di homo oeconomicus in quanto astrazione astorica. Secondo il comunista sardo, infatti, non avrebbe senso usare tale categoria al singolare (come fa l'economia politica neoclassica), ma andrebbe semmai ipotizzata l'esistenza di differenti homines oeconomici, riferibili ai diversi agenti economici tipici dei vari modi di produzione succedutisi nella storia: il feudatario, il servo della gleba, il capitalista, il salariato, e via di seguito. Astrazioni, certo, ma valide solo in quanto storicamente determinate.

Cosa resta da salvare, dunque, dell'homo oeconomicus? Da un confronto con le scienze umane emerge che di tale concetto possono essere ammesse solo le versioni più «moderate», ossia quelle meno impegnative dal punto di vista antropologico, da intendere sempre come finzioni metodologiche valide in riferimento a determinati contesti storici. Risultano invece insostenibili le varianti sostantive, ovvero quelle che pretendono di individuare nell'egoismo razionale l'essenza dell'umano. Queste versioni dell'homo oeconomicus hanno avuto tanto successo fra i teorici dell'economia (e non solo) in quanto hanno svolto la funzione di surrogati di una teoria psicologica quasi sempre assente all'interno del discorso degli economisti, offrendo per di più una comoda ideologia passepartout, funzionale al mantenimento del sistema capitalistico.

La ricerca psicologica e le neuroscienze confermano che la natura dell'uomo è polimorfa, e che pertanto l'homo oeconomicus convive con l'homo reciprocans, l'homo loquens, l'homo curans, l'homo ludens, l'homo faber e via di seguito. La dimensione economico-utilitaria non esaurisce mai, in altri termini, lo spettro delle tante componenti del comportamento umano. È ormai ampiamente dimostrato che il cervello dell'homo sapiens è «programmato» per essere (anche) empatico con i propri simili, e che nell'animale-uomo le pulsioni individualistiche convivono, da sempre, con le tendenze prosociali.

Il problema, a questo punto, sembra essere quello, classicamente marxiano, di come creare le condizioni storiche affinché le potenzialità prosociali dell'uomo possano liberamente esplicarsi al di là di una società fondata sulle classi e lo sfruttamento. Un problema, come si vede, non da poco.

Recensione a Guido Viale,

Virtù che cambiano il mondo (Feltrinelli), che "nasce nell' humus dei conflitti sociali e ad essi ritorna, come al proprio committente, per orientarli con una superiore strumentazione teorica". In corso di pubblicazione su il manifesto (f.b.)

L'ultimo libro di Guido Viale, Virtù che cambiano il mondo. Partecipazione e conflitto per i beni comuni, Feltrinelli Milano, pp.154, euro 12 viene innanzi tutto a rendere più netta la singolarità del profilo di questo intellettuale nel panorama culturale italiano. Viale non ha una collocazione accademica e dunque non possiede un definito profilo professionale e disciplinare. In senso stretto, non è un economista, né un politologo, né un filosofo. Non è neppure un ideologo – nel senso che in Francia si dà a questo termine – una figura che anche da noi ha talora un retroterra universitario e più spesso si ritrova fra gli intellettuali militanti ai margini estremi dei partiti politici. Lo potrei definire più precisamente un ricercatore, il quale sceglie ambiti rilevanti dell'universo sociale del nostro tempo per esplorarne i meccanismi, tentando di estrarre e di elaborare, dal nodo dei problemi che li caratterizza, soluzioni possibili a favore dell'interesse generale. E in tale operazione, come un onesto artigiano, va a cercarsi gli utensili che gli servono, vale a dire la molteplicità degli specialismi offerti dal sapere scientifico che quei problemi lumeggiano in ordine sparso.
Per questo nei suoi scritti ritroviamo, fuse in una argomentazione unitaria, le più varie discipline: dall'economia alla filosofia, dalla storia alla sociologia, dalla politologia alle scienze ecologiche. E naturalmente tali ricerche pluridisciplinari non sono finalizzate a una verifica accademica, ma si misurano con una loro possibile traducibilità operativa e politica in contesti territoriali determinati. Con piena coerenza, l'ideazione originaria della ricerca di Viale nasce nell' humus dei conflitti sociali, si nutre anche culturalmente dei saperi di cui questi sono portatori, e ad essi ritorna, come al proprio committente, per orientarli con una superiore strumentazione teorica. E' questa la modalità dei percorsi che io intravedo, ad esempio, nei suoi numerosi saggi sui rifiuti - a partire da Un mondo usa e getta del 1994 – agli studi sull'automobile e sul traffico – sin da Tutti in taxi, del 1996 – ai più recenti saggi sul riciclo e sulla conversione ecologica. Significativamente, in queste Virtù che cambiano il mondo, Viale registra tale modalità come una caratteristica diffusa dell'oggi:« La novità maggiore di questa nuova stagione sta qui: cultura, democrazia e partecipazione coincidono.»

Il libro appena uscito sistema e approfondisce il vasto campionario di temi che l'autore è andato affrontando in questi ultimi anni, scandendolo per capitoli che esaltano ben 14 virtù: dalla Dignità all'Empatia, dalla Conoscenza alla Trasparenza, dalla Condivisione alla Cura. Capitoli e temi che non sono monadi chiuse, ma larghi contenitori in cui confluisce una argomentazione tematicamente assai varia e densa, che non consente fruizioni veloci e costringe il lettore a fermarsi e a pensare. Di questa ampia platea di temi credo sia utile privilegiare un nodo strategico di grande rilevanza, che offre oggi alla sinistra un orizzonte di indubbia potenzialità egemonica. Mi riferisco al tema della conversione ecologica: una via alternativa all'attuale modello di accumulazione capitalistica, indicata anni fa da Alexander Langer – come ricorda l'autore anche in questo volume - ma su cui poi Viale ha costruito una strumentazione analitica e teorica più sistematica. I lettori del Manifesto hanno sicuramente familiarità con il tema su cui non è il caso di tornare in maniera specifica. Se non per dire che nelle riflessioni di Viale, alla base della prospettiva della riconversione ecologica, compare una visione della natura che impedisce di esaurire e di immiserire l'alternativa in un mero progetto di ristrutturazione industriale.

Non si tratta semplicemente di convertire la sfera della produzione di merci ad altri beni e altri fini, ma di ripensare innanzi tutto il nostro rapporto col mondo fisico. « La Terra - scrive Viale – è fatta di mille e mille cose particolari:” naturali” - boschi, fiumi, mari, monti, laghi, piante e animali – e di mille e mille cose “artificiali”, costruite e trasformate dall'uomo nel corso della sua storia – campi, case, città, strade, impianti, attrezzature, beni mobili e immobili – e la manutenzione e riparazione di ciascuna di esse, per farle durare nella loro forma e nel loro uso originario, finché ci possono essere utili o indispensabili, è il modo principale in cui ciascuno di noi, o ciascuna delle organizzazioni, delle istituzioni, delle associazioni di cui facciamo parte, può “prendersi cura” della salute della Terra nel suo complesso.» Questa visione olistica del mondo naturale, che oggi legge la storia e le società umane fortemente intrecciate con esso, costituisce una delle conquiste più fertili di implicazioni politiche della scienza contemporanea. Una dimensione del reale che la sinistra, in generale troppo lontana, per formazione , dalla sfera delle scienze naturali, non ha ancora saputo scorgere come un proprio terreno di egemonia.
E per la verità, leggendo Viale – uno degli autori più avvertiti e aperti a questa dimensione del sapere – mi sono stupito nel non trovare nella sua bibliografia di riferimento il nome di Edgar Morin. Lo studioso che con maggiore ampiezza e sistematicità ha criticato il riduzionismo della scienza moderna, offrendoci una immagine ormai imprescindibile di natura come rete di connessioni complesse di cui gli uomini sono parte, anche vittime , e non solo “esterne” figure dominatrici. Viale ha il merito, tuttavia, di trarre da questa visione avanzata della natura le conseguenze necessarie per interpretare più profondamente un altro grande tema elaborato dalla sinistra italiana ( e non solo ) negli ultimi anni: quella dei beni comuni. Un tema circolante nel libro insieme a un Leitmotiv in sottofondo che va segnalato: l'idea che possiamo cambiare il mondo anche con il nostro comportamento, con l'azione molecolare della nostra soggettività cooperativa, impegnata quotidianamente anche in territori delimitati.
L'autore, che ha dunque uno sguardo ecologico più ampio di tanti propugnatori dei beni comuni, ricorda che « Le lotte per i beni comuni.... hanno esiti tutt'altro che certi e meno che mai predeterminati: anzi il rischio a cui sono esposte – e, insieme ad esse coloro che se ne fanno protagonisti e l'umanità tutta - è di giorno in giorno maggiore e ha ormai assunto la forma di una minaccia ambientale planetaria». Da ciò la critica ad una delle elaborazione teoriche più rilevanti sul “comune”, diffusesi negli ultimi anni, quelle di Toni Negri e Michael Hardt, « Una minaccia – continua Viale – che il “comune” nella versione di Negri e dei suoi adepti non contempla, e per questo è totalmente estraneo alle due dimensioni che contraddistinguono la conversione ecologica come viene proposta qui: da un lato, infatti, il percorso faticoso e accidentato verso un cambiamento dei propri stili di vita in direzione di una maggiore sobrietà e di una minore aggressività reciproca è reso superfluo da un antagonismo nei confronti del potere già sempre in atto in seno alla moltitudine ».In questa visione, insomma, non c'è posto per la “riconversione” della nostra soggettività, per la nuova responsabilità verso la natura che dovrebbe animare la nostra conflittualità.
Dall'altro lato,viene meno il problema fondamentale degli attori e delle sedi per progettare il “che cosa”, il “come” e il “per chi” produrre. « In gioco - osserva Viale, in questa come in altre posizioni – c'è solo la riappropriazione, ma non la produzione di ciò che c'è da riappropriare, che in questo approccio non fa mai problema.» Prima della produzione, infatti, viene la natura che non è la cava infinita da cui estrarre materia ed energia, ma la trama complessa in cui sono impigliati i destini vitali di tutti noi.
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«Ogni volta che una idea, giusta e generosa, si fa potere, genera violenza che, a sua volta, genera dissenso fra coloro che si erano fidati dei valori di tale idea e che si sono sentiti traditi». Una recensione della recente opera di Pier Paolo Poggio per Jacabook, 26 giugno 2013

Ogni volta che una idea, giusta e generosa, si fa potere, genera violenza che, a sua volta, genera dissenso fra coloro che si erano fidati dei valori di tale idea e che si sono sentiti traditi. Ad esempio, il comunismo è nato come aspirazione ad una società di uguali, con uguali diritti, con una giusta condivisione dei beni disponibili. Milioni di persone nel mondo hanno rincorso nell'ultimo secolo e mezzo, questo ideale, con sacrifici anche personali, contrastando i governi dominati dall'egoismo, dal successo privato, dalla sopraffazione. Tale generosa aspirazione ha trovato il terreno fertile nella Russia zarista con una rivoluzione che ha portato i comunisti al governo. A questo punto, quasi come punizione per l'arditezza del sogno, i governi hanno creato burocrazie, privilegi, discriminazioni e sono diventati fonte di violenza, non solo verso gli oppositori, ma, a poco a poco, verso gli stessi comunisti in Russia e nel mondo.

Due recenti volumi sul "comunismo critico" sono stati curati dallo storico Pier Paolo Poggio della Fondazione Micheletti di Brescia e pubblicati dall'editore milanese Jacabook. Essi contengono numerosi saggi che esaminano le storie politiche ed umane dei comunisti che sono stati critici verso il comunismo sovietico e quello dei paesi del "socialismo reale" in cui il potere è stato assunto da governi ispirati al modello sovietico, con alcuni degli stessi vizi e violenza. I comunisti critici sono vissuti sia nei paesi comunisti, sia in Occidente e ciascuno ha una storia personale dolorosa e drammatica. I due volumi fanno parte di un grande affresco, che comprenderà altri tre volumi sui critici di altri "regimi", fonti di violenza e di ingiustizia, come quello capitalistico in America e quelli dei paesi europei, africani e asiatici nel corso del Novecento.

Il grande impero americano è cresciuto grazie all'immigrazione dall'Europa e dall'Asia, di persone che fuggivano dalla violenza della miseria, delle discriminazioni etniche e religiose, di governi tiranni, alla ricerca di uguaglianza e libertà. Si sono trovati davanti a terre ricche di pascoli, animali allo stato naturale, foreste, acque, abitati da nativi (quelli che sono stati chiamati "pellerossi") abituati ad una vita nomade, in equilibrio con le risorse disponibili, con abitudini e costumi del tutto diversi da quelli degli immigrati. I quali, hanno cominciato il viaggio nella nuova grande terra, sgombrando con violenza i nativi per realizzare le attività agricole, minerarie e commerciali, esercitando nei confronti dei nativi le stesse violenze da cui erano fuggiti.

Nella conquista delle nuove terre e delle loro risorse naturali ed economiche si sono subito formate stratificazioni di classe, in genere di immigrati poveri intraprendenti, premiati dal successo economico, ben presto divenuti violenti verso sempre nuove ondate di immigrati bianchi europei, neri africani, "gialli" asiatici, più poveri e ignoranti, non degni di accedere alle grandi ricchezze di terre fertili, pascoli, foreste, oro e argento, adatti solo a servire i premiati dal successo. Si sono così riprodotte le condizioni di un capitalismo selvaggio, sotto molti aspetti ancora più violento di quello dei paesi da cui erano fuggit. Gli immigrati poveri hanno portato in America le stesse aspirazioni di giustizia e di ribellione, anche violenta: con loro sono sbarcate parole come anarchia, socialismo, comunismo.

Ma con gli immigrati più colti sono arrivate anche aspirazioni di giustizia e di diritti che erano state respirate in Europa e che si sono concretizzate, dalla metà dell'Ottocento in avanti, nei movimenti per l'abolizione della schiavitù, e, più tardi per i diritti dei nativi, per il rispetto delle risorse naturali assaltate durante la conquista dell'Ovest: pascoli per l'allevamento del bestiame, foreste per trarne i materiali da costruzione

La voce delle aspirazioni di giustizia in America sono raccolte in numerosi saggi nel volume: "Il capitalismo americano e i suoi critici", curato anch'esso da Pier Paolo Poggio (Jacabook),: 740 pagine ricche di riferimenti bibliografici e biografici. Biografici, soprattutto, perché i critici sono stati persone di straordinario interesse umano, che spesso hanno pagato di persona il coraggio del loro dissenso. Si pensi al movimento di liberazione degli schiavi che ha contrapposto gli stati industriali del Nord a quelli agricoli e schiavisti del Sud e che è stato conosciuto in Europa attraverso opere letterarie e, più tardi, nel Novecento, attraverso molti film, una lunga battaglia che non è finita perché la discriminazione esiste ancora in molti stati e, quel che è peggio, "nel cuore" di molti americani bianchi, anche poveri (si pensi al film "Mississippi burning"). Attraverso il libro si trovano le figure di leader del popolo nero come W.E.B. Du Bois e Malcolm X, ma anche di coraggiose donne nere come Esther Cooper Jackson e Rosa Parks.

Molte pagine sono dedicate alle donne e uomini che si sono battuti per i diritti dei lavoratori a migliori salari e migliori condizioni di lavoro (si pensi al libro "La giungla" di Upton Sinclair sui lavoratori dei macelli di Chicago). In America sono nati i movimenti di contestazione ecologica, cominciati nell'Ottocento per la difesa delle foreste californiane e contro l'erosione del suolo provocato dallo sfruttamento delle terre agricole.

Anzi la lettura dei vari saggi mostra che il movimento "ecologico" è arrivato in Europa negli anni sessanta del Novecento dalla diffusione di scrittori americani come Lewis Mumford e, più tardi, Rachel Carson e Barry Commoner, ma, ancora prima di Rachel Carson, dagli scritti del troppo poco noto anarchico Murray Bookchin. La contestazione ecologica si intreccia con la contestazione, tutta americana, "della bomba". La corsa alla costruzione delle bombe atomiche, destinate ad assicurare il predominio americano in una gara tecnico-scientifica con l'Unione Sovietica, ha indotto gli studiosi a denunciare i danni ecologici derivanti dalla diffusione nel pianeta degli isotopi radioattivi liberati durante gli esperimenti nucleari nell'atmosfera, il pericolo di annichilazione planetaria in seguito ad un possibile conflitto militare con l'uso di bombe atomiche (si pensi al film "L'ultima spiaggia").

Contro i critici "della bomba" il capitalismo americano ha scatenato la drammatica "caccia alle streghe" contro i possibili "comunisti" esistenti fra scrittori, attori, registi e perfino contro il grande fisico Oppenheimer, l'uomo che aveva dato la bomba atomica all'America durante la II guerra mondiale. In America nasce la contestazione dell'altro veleno diffuso dal capitalismo, il consumismo che ha spinto a sfruttare le risorse naturali, ad avvelenare con i rifiuti l'aria e le acque, a fabbricare merci sofisticate e pericolose: la base dei movimenti in difesa dei consumatori.

Fra i critici del capitalismo troviamo anche rispettati studiosi come Thorstein Veblen e, più tardi, gli economisti radicali Sweezy, Galbraith e Boulding e poi l'immigrato rumeno Georgescu-Roegen. Per farla breve, il libro sui critici del capitalismo americano permette di trovare le radici di molti movimenti di contestazione europei attuali, ma permette anche di ricordare che i diritti, ad un mondo meno violento, più giusto e ad un ambiente più pulito, si conquistano con lotte e fatiche, esposti ad incomprensioni e ostilità, ma che, alla fine, si vince.

“Costituzione incompiuta”, un libro di Alice Leone, Paolo Maddalena, Tomaso Montanari e Salvatore Settis nel segno della denuncia. Sarebbe bello se i legislatori trovassero il tempo per leggerlo, tra un Renzi e un Grillo.

La Repubblica, 17 giugno 2013

Perché la Costituzione sia davvero attuata e non resti la “grande incompiuta”, come temeva già sessant’anni fa Piero Calamandrei, ci sono tanti passaggi da compiere. Uno riguarda il paesaggio, il patrimonio culturale e l’ambiente. E s’intitola il volume che raccoglie i saggi di Alice Leone, Paolo Maddalena, Tomaso Montanari e Salvatore Settis, in uscita domani da Einaudi (pagg. 185, euro 16,50).

Una storica, un giurista, ex vicepresidente della Corte Costituzionale, uno storico dell’arte, un archeologo e storico dell’archeologia: le loro riflessioni convergono sulla convinzione, segnalata nella premessa da Montanari, che l’arte, il paesaggio e l’ambiente non di un paese in generale, ma dell’Italia con la sua storia, politica e culturale, la sua struttura fisica, i rapporti di forza fra poteri pubblici e potentati privati, siano elemento costitutivo della comunità nazionale, fattore di cittadinanza e di conoscenza, fonte di benessere, bene comune di cui tutti sono custodi affinché anche le generazioni future possano goderne.

La Costituzione distilla questi concetti nell’articolo 9 («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») e altrove. Ma quel testo non è il prodotto estemporaneo di un compromesso pur molto altolocato. Montanari evidenzia quanto la Carta sviluppi una relazione antica fra arte e architettura, da una parte, e identità nazionale italiana dall’altra, sostituendo però la sovranità del principe con quella espressa da tutti i cittadini. Dall’analisi di Settis emerge come la Costituzione, elaborando questi principi, si muova in un contesto di riflessioni culturali ad essa contemporanee. La lettera, solo per citare un esempio, che Ranuccio Bianchi Bandinelli, grande archeologo e direttore generale delle Antichità e Belle Arti al ministero della Pubblica istruzione, scrive a Ruggero Grieco, comunista, membro dell’Assemblea costituente, è esemplare di questa circolarità fra cultura e politica. Non lasciamo, scrive Bianchi Bandinelli, che la potestà di tutela, di interesse nazionale, scivoli dallo Stato centrale alle Regioni.

Le zone d’ombra non mancano nella Costituzione. Settis ne indica una in particolare: il mancato raccordo fra la tutela del paesaggio e le norme urbanistiche. Quasi che il paesaggio debba arrestarsi alle soglie della città, la quale invece può espandersi senza attenersi alla tutela di esso. E il risultato sono i modi della ricostruzione urbana postbellica attestati dalla corona di periferie, sorte in larghissima parte assecondando spinte speculative. E tuttora quel mancato raccordo produce espansioni controllate solo dalla rendita fondiaria. Ma le contraddizioni, insiste Settis, possono essere superate se non si considera la Costituzione come una «litania di principi staccati l’uno dall’altro ». E seguendo, invece, le interpretazioni che la Corte costituzionale detta nelle sue sentenze. Come quella in cui si sostiene che la tutela del paesaggio non può essere «subordinata ad altri valori, ivi compresi quelli economici » e anzi dev’essere «capacedi influire profondamente sull’ordine politico-sociale».

Questo concentrato di norme viene nei fatti ignorato. E la Costituzione lasciata non solo incompiuta, ma tradita. La storia dell’arte, che rende i cittadini consapevoli custodi, è mortificata nelle scuole e ridotta a insegnamento marginale (di poco più importante solo rispetto all’insegnamento della musica, anch’esso svilito nel paese di Palestrina, Rossini e Verdi). Inoltre è programmaticamente smantellata la struttura pubblica di tutela, con le soprintendenze immiserite.

Alice Leone ricostruisce la faticosa elaborazione dell’articolo 9, nella cui versioni è rintracciabile una densità politica e culturale che si è smarrita. E tocca a Maddalena, fra i principali giuristi impegnati su queste materie, con una militanza di lunga data approdata alla Corte costituzionale, toccare il tasto rovente dei beni ambientali come beni superiori, quanto a salvaguardia, rispetto agli interessi privati, che invece la Carta sottopone a limiti. E fra i beni ambientali c’è la terra, che anche quando di proprietà privata contiene una porzione di pubblica utilità che non può essere sottratta solo perché «si è padroni in casa propria ».

Le riflessioni di Maddalena tornano utilissime in queste settimane di discussione sulle proposte di legge per limitare il consumo di suolo. Costruire un edificio o una strada comporta la distruzione delle funzioni ambientali che un terreno possiede e che riguardano tutti (lo smaltimento delle acque piovane e la ricarica delle falde, la rigenerazione della vita vegetale, lo stoccaggio del carbonio, la produzione agricola…). Ed è evidente, scrive Maddalena, «che il potere di far questo non può assolutamente essere compreso nel cosiddetto ius edificandi, considerato come una delle facoltà del proprietario privato, ma rientra nelle facoltà comprese nella proprietà comune o collettiva del popolo». Per cui, aggiunge il giurista, solo «un atto sovrano», preso da un’autorità che rappresenta gli interessi di tutti può stabilire se un terreno diventa suolo edificabile (e non una procedura negoziale, fra pubblico e privato, e neanche un presunto diritto edificatorio concesso una volta per sempre). Se una norma così trovasse spazio, in maniera chiara nell’ordinamento italiano, forse la Costituzione farebbe un passo verso la sua compiutezza.

Nel libro «Carte come armi» di Edoardo Boria s'indaga la storia delle mappe ufficiali e il loro ruolo formativo (e arbitrario) riguardo la nascita del concetto di «nazione».

Il manifesto, 6 giugno 2013

La geografia rappresenta l'impalcatura archetipica del sapere. In principio, sotto forma di cosmologia, educava la memoria dell'uomo. Prima dello sviluppo della filosofia, fu il mito a spiegare quel mondo, Ghé, che i greci avrebbero imparato a disegnare, gráphein, per affermare il controllo sulla realtà. Strumento principe della disciplina è, da allora, la cartografia. Una carta, tuttavia, non può essere uno specchio del territorio: è per definizione una raffigurazione approssimata, ridotta e simbolica che implica una fisiologica arbitrarietà da parte dell'autore. Di qui l'uso strategico oggetto di indagine del libro (Edizioni Nuova Cultura, pp. 174, euro 24) di Edoardo Boria, docente presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'università di Roma La Sapienza e collaboratore di Limes, la rivista di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo.
Il saggio, appena pubblicato, mostra quanto le mappe ufficiali siano cartine al tornasole per monitorare gli obiettivi che gli stati moderni hanno individuato come prioritari e presenta una ragionata panoramica dei più significativi esempi della cartografia politica, nata con la Rivoluzione francese e divenuta adulta in Germania con la fine della Grande Guerra.
Diverse le curiosità. Dalla satira geografica di René Magritte in occasione delle elezioni in Belgio del 1937 ai francobolli argentini dedicati alle isole Falkland nel 1982, anno del conflitto con la Gran Bretagna, passando per i fotogrammi cartografici della Disney inseriti nei documentari di propaganda realizzati tra il 1942 e il 1945 da Frank Capra. Pagine inconsuete sono dedicate anche a Hitler e Mussolini, Mao e Stalin. Senza dimenticare il sogno americano di Roosevelt e Kennedy.
La carta tradizionale, della quale lei traccia la storia contemporanea, riesce ancora a raccontare con efficacia la politica del XXI secolo?
I fenomeni sociali tendono oggi a despazializzarsi. Di conseguenza, rappresentarli graficamente secondo le regole della cartografia geometrica è diventato difficile. Una modalità che punta a raffigurare dati materiali, in una società in cui contano sempre di più quelli immateriali, va necessariamente in crisi: per questo fatichiamo a decriptare la realtà.
Nemmeno il potere è ormai precisamente localizzato, perché nasce dalla relazione: dunque, non solo le sedi di potere, ma le reti di potere diventano oggetti fondamentali per comprendere lo spazio politico. A partire dagli anni Novanta, sperimentazioni per adeguare sotto questa prospettiva la cartografia alla contemporaneità sono comparse sulle riviste Limes e Le Monde diplomatique. La carta sembra invitare a considerare il mondo come depositario, a priori, di un ordine razionale e immutabile. Ci sono stati tentativi di cambiare questo paradigma?
La volontà di rifondare su basi nuove le relazioni nord-sud spinse l'Unicef a promuovere, nel 1980, la diffusione di carte nella proiezione di Arno Peters, che riportando le aree geografiche secondo la loro dimensione reale veniva considerata più rispettosa dei paesi del sud del mondo. Ancora prima, nell'Ottocento, una timida produzione di cartografia anarchica era stata tentata da Élisée Reclus. Si trattava, tuttavia, solo di piccole fiammate.
Oggi la situazione sta invece cambiando molto rapidamente. Internet ha introdotto la partecipazione degli utenti finali nella stessa fase di produzione: un sapere inedito è sfuggito al controllo delle autorità, prefigurando decisive novità dal punto di vista scientifico.
Con il romanticismo ottocentesco, il territorio diventa il corpo di una nazione e il paesaggio il suo carattere. Il polipo, russo, prussiano o austriaco, rappresenta il fortunato topos cartografico di un impero che con i suoi tentacoli stritola le nazionalità assoggettate. L'Italia è uno stivale.
Ogni progetto politico ha una sua specifica concezione del territorio. Una delle espressioni più inflazionate nella pubblicistica post-risorgimentale era «Italia irredenta», per indicare i territori sotto il dominio asburgico, Trentino, Trieste, Istria e Dalmazia, dei quali si reclamava l'annessione. Soprattutto dopo la caduta del governo Crispi, nel 1896, in Italia si assistette al boom, anche nelle pubblicazioni scolastiche, delle carte etnografiche.
Bisognava far conoscere quei territori agli italiani: per spingerli a rischiare la vita in guerra, al servizio della patria, occorreva che l'obiettivo fosse da loro condiviso. La carta, di conseguenza, ha finito per rappresentare uno strumento politico naturale nel caso dell'irredentismo, il cui contagio avrebbe colpito ovunque in Europa, con particolare virulenza nei paesi balcanici e orientali.
La cartografia scientifica nasce, quindi, insieme al concetto di nazione? Nasce per soddisfare i bisogni dello stato: fare guerre, riscuotere imposte, controllare lo spazio. Nel momento in cui lo stato diventa nazionale, la cartografia si trasforma nello strumento più idoneo a rappresentare il territorio. Ne è un effetto l'enfasi nuova assegnata al confine, segno ben marcato su tutti gli atlanti. Il confine mostra il contenitore spaziale della nazione e ne definisce l'ambito di sovranità, compiendo un'operazione funzionale alla sua stessa esistenza. Una nazione per esistere ha bisogno della sovranità su un territorio, altrimenti è costretta a rivendicarlo.
Nel libro, discorsi epocali di Roosevelt e Kennedy sono evidenziati per sottolineare due tappe progressive nell'evoluzione della comunicazione politica, contestualmente alla diffusione della radio e della televisione.
Il 20 febbraio 1942, a due mesi dall'ingresso nella guerra, durante il tradizionale discorso radiofonico alla nazione, Franklin Delano Roosevelt chiese ai concittadini di comprare una carta geografica del mondo, in modo tale che fossero attrezzati per seguirlo nell'appuntamento successivo. In tre giorni, le vendite di carte geografiche schizzarono alle stelle. Il 23 febbraio, l'atteso discorso iniziò con la richiesta agli ascoltatori di «distendere davanti a sé una carta dell'intero globo». Seguì, pragmatica, la spiegazione della strategia bellica del presidente. Kennedy, in una conferenza stampa trasmessa in diretta televisiva, non ebbe invece problemi a mostrare le sue, di carte geografiche. Così, il 23 marzo 1961, gli americani videro con i loro occhi i tre grandi pannelli cartografici allestiti affinché meditassero sull'urgenza di impegnarsi militarmente nel lontano Vietnam.
E l'Unione Sovietica? Per l'Urss si può parlare di una vera e propria cartografia della paranoia. Diffusa era la tendenza a omettere nelle carte i luoghi delle basi strategiche o a non riferire informazioni, anche banali, da una parte per paura che il nemico esterno potesse attaccare, dall'altra per nascondere al pubblico interno informazioni considerate riservate, rinfocolando il principio d'autorità nel mantenimento del segreto. Per esempio, la medesima località siberiana di Logashkino viene deliberatamente riportata in sei modi diversi su sei atlanti ufficiali, dal 1939 al 1969. Del resto, la disponibilità di cartografia adeguata è sempre stata alla base dei successi militari. L'esempio più emblematico, nella Seconda Guerra Mondiale, è la dettagliatissima tavola del luogo dello sbarco in Normandia: Omaha Beach, con il profilo altimetrico della costa visto dal mare e la visuale zenitale dal cielo per i paracadutisti e i piloti. Oggi la centralità della cartografia nelle operazioni militari è palese. Nel momento in cui una battaglia si conduce con un drone, i militari devono conoscere esattamente il territorio nemico per dare indicazioni precise, sapendo che non potranno essere modificate da ulteriori interventi.

«il manifesto, 6 giugno 2013

Comprendere le cause di questa crisi economica è premessa indispensabile per avanzare soluzioni all'altezza della situazione e che abbiano, quindi, la possibilità di apparire credibili agli occhi di chi ne sta subendo le peggiori conseguenze. Per farlo bisogna analizzare la crisi nel profondo e con una capacità di proiezione storica, non fermandosi alle apparenze e non facendosi distrarre dalle molte sfortunate specificità nazionali che aggravano in special modo le sofferenze sociali nell'area mediterranea europea.

Quella che il capitalismo sta conoscendo non è una delle ricorrenti crisi congiunturali, fisiologiche che accompagnano l'alternanza di cicli espansivi e depressivi del processo economico. Ci troviamo di fronte, quantomeno, ad una «tempesta perfetta», ad un intreccio e ad una sovrapposizione di tante diverse crisi. Una crisi multidimensionale e polisistemica che potrebbe preludere al cedimento strutturale delle istituzioni socioeconomiche e politiche esistenti. Non si tratta di un'ipotesi accademica. È già accaduto molte volte nella storia dell'umanità. Facendo attenzione che il «collasso - come scrive lo storico Niall Ferguson, Complexity and Collapse. Empires on the Edge of Chaos - arriva come un lampo nella notte». Gli imperi impiegano molti secoli a crescere e ad imporsi, ma pochi anni a scomparire.

Una sovrapposizione letale

Sono proprio gli studi di Joseph Tainer (The Collapse of Ccomplex Societies, Cambrige Univertity Press, 1988) e di Jared Diamond (Collasso, Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi) la base delle riflessioni di Mauro Bonaiuti (La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, con prefazione di Serge Latouche, Bollati Boringhieri, pp. 188, euro 15), l'economista che ha fatto conoscere in Italia Nicholas Georgescu-Roegen, padre delle teorie bioeconomiche (quelle che collocano l'economia all'interno della biosfera) e che da tempo sostiene la necessità di una trasformazione della società attraverso una decrescita conviviale, scelta, selettiva, serena.

Sappiamo già che quella che stiamo vivendo non è (solo) una crisi di solvibilità dei debiti «sovrani» e di quelli delle famiglie e delle imprese. Non è nemmeno (solo) una crisi da domanda e quindi di sovrapproduzione. Tantomeno una crisi finanziaria, visto che siamo letteralmente sommersi dalla liquidità che indossa le divise del dollaro, dello yen o dell'euro. È certo (anche) una crisi dovuta alla rarefazione delle risorse naturali, che si rendono quindi sempre meno accessibili e più costose.

È certamente una crisi ecosistemica planetaria con effetti «controproduttivi» devastanti, basti pensare agli sconvolgimenti climatici. È una crisi geopolitica dovuta allo spostamento del baricentro del sistema delle relazioni economiche da un oceano all'altro che muta consolidate «ragioni di scambio» tra ex primo mondo ed ex terzo mondo e, conseguentemente, fa saltare le bilance commerciali di molti stati. C'è sicuramente (anche) una crisi occupazionale dovuta all'innovazione tecnologiche che ha aumentato esponenzialmente la produttività industriale, i profitti delle (poche) companies multinazionali e i fallimenti a grappolo delle piccole e medie imprese, poiché sappiamo che i comportamenti competitivi non sono mai a somma positiva. C'è (anche) una crisi di profittabilità di quelle imprese (compreso il settore dei servizi) che non sono riuscite ad internazionalizzarsi. L'elenco potrebbe continuare a lungo mischiando tipologie di crisi che gli economisti solitamente attribuivano a fasi storiche distinte e a aree geografiche separate e che invece ora precipitano tutte assieme. Forza della globalizzazione. Non deve stupire quindi che medici di scuole e specialità diverse somministrano contemporaneamente al malato medicine contraddittorie: eccitanti e calmanti, antivirus e antibattericidi. Ma una pillola per ogni sintomo con cura il male.

Che il malato (il capitalismo occidentale) muoia non sarebbe una grande tragedia, avendo conosciuto quante nefandezze ha combinato durante la sua vita. Il guaio è che sta trascinando nella disperazione i ceti sociali più deboli, gli individui che nel corso della sua marcia trionfale ha reso totalmente dipendenti dalla produzione di reddito attraverso il lavoro subordinato. Quando crolla un impero, a farne le spese non sono solo i cortigiani. E ciò ci obbliga a preparare vie di fuga e alternative di vita.

Da tutte le manifestazioni della crisi in atto, Bonaiuti ne conclude che sia giunta a termine la fase economicamente espansiva dei paesi a capitalismo maturo. La riprova è la progressiva caduta dei rendimenti di tutti i fattori produttivi, da non confondersi con la sola caduta del saggio di profitto, né con l'idea ricardiana della produttività marginale decrescente. Secondo l'autore il sistema socioeconomico globale avrebbe già oggi raggiunto i limiti esterni (energetici e di sfruttamento delle risorse naturali in generale) della sostenibilità ambientale e quelli interni della tollerabilità sociale (disuguaglianze, frustrazioni consumistiche, dissoluzione dei legami comunitari), gli uni e gli altri legati alla natura entropica del processo economico capitalistico, fondato su una logica «autoaccrescitiva», predatoria ed estrattivista. Siamo dunque giunti al «crepuscolo dell'età della crescita».

La ricerca di alternative

Il libro di Bonaiuti si svolge a partire dalla riscoperta delle «scienze della complessità» nei sistemi fisici, biologici e sociali. Descrive poi l'«età della crescita» come prodotto della spirale accumulazione-innovazione. Spiega il declino dei paesi del capitalismo maturo con il fenomeno dei «rendimenti decrescenti» . Infine prospetta possibili punti di caduta della tarda modernità («scenari») ricavati dalla storia che comprendono orribili «derive autoritarie». A meno che le nostre società non scelgano di imboccare la via della resilienza e riescano ad utilizzare ragionevolmente le risorse del proprio ambiente.

Al lettore «di sinistra» il saggio di Bonaiuti provoca qualche angoscia per la mancanza dell'individuazione e della nominazione di un qualche soggetto capace di intraprendere la via di una nuova «Grande Trasformazione» polanyiana. Penso infatti che a motivare uomini e donne non sia sufficiente la ragione astratta e nemmeno la necessità imposta dal pericolo di una imminente catastrofe. Per rimuovere il «teorema dell'impossibilità» (There Is No Alternative) serve un «immaginario sociale» non certo nostalgico, ma pur sempre fondato su una libera scelta etica di valori e di interessi riconoscibili.

Da nazione a vocazione europeista dopo la catastrofe nazionalsocialista all'egemonia esercitata sugli altri paesi dell'Europa per allontanare dal paese gli effetti della crisi. L'ultimo libro di Ulrich Beck per Laterza.

Il manifesto, 31 maggio 2013

«Oggi il Bundestag tedesco decide sul destino della Grecia», annuncia un notiziario della radio nel febbraio del 2012. È da questo annuncio, inquietante nella sua ostentata naturalezza, che Ulrich Beck prende le mosse per affrontare in un piccolo volume edito da Laterza (Europa tedesca, pp. 96, Euro 12) il tema, spinosissimo, dell'egemonia germanica nell'Europa della crisi. Che il parlamento di uno stato membro possa dettare legge a quello di un altro, non legittimato naturalmente da alcun ordinamento, ma in base a un potere di ricatto che le circostanze gli conferiscono, è un paradosso al quale ci siamo ormai quasi assuefatti. E il fatto che questo potere di decisione passi attraverso i trattati e le istituzioni dell'Unione europea, la valutazione e il giudizio di commissioni e commissari comunitari e transnazionali, perfino attraverso il simulacro di un negoziato, cambia poco alla sostanza e, soprattutto, alla percezione di una profondissima asimmetria, di una dipendenza a senso unico. L'annuncio ci rivela essenzialmente una cosa: la politica europea, in conseguenza dell'architettura comunitaria e delle sue lacune, è ostaggio delle politiche interne dei diversi stati e in particolare di quello economicamente più potente. Dalla Germania europea, quella che abbiamo conosciuto dal 1945 al 1989, saremmo passati, in un breve volgere di anni, - come sostiene Beck - all'Europa tedesca.

La macchina del consenso
Nel clima della guerra fredda e con alle spalle la catastrofe nazionalsocialista, la Repubblica federale non avrebbe potuto respirare altra aria che quella di un europeismo deciso, rispettoso e rigorosamente atlantico. Ma dopo la riunificazione le cose cambiano. Non che la Germania unita potesse fare a meno dell'Europa, ma poteva guardarvi con altri occhi e adottare un diverso linguaggio. L'intero spazio dell'est europeo si apriva alla sua influenza e penetrazione economica. Ma, soprattutto, la riunificazione stessa avrebbe finito col fare da modello al rapporto tra la Germania, forte dei suoi successi economici, e i paesi più fragili dell'eurozona. Beck lo scrive senza mezzi termini: «il modello della politica tedesca di crisi in Europa è dato dalla unificazione con la Rdt in bancarotta. Ma con la differenza sostanziale che nell'Europa della crisi la parola solidarietà è diventata una parola senza senso».

La riunificazione della Germania fu condotta in stile coloniale, con piglio severamente pedagogico e con l'idea che i tedeschi orientali dovessero scontare, in termini di sicurezza sociale e di livelli salariali, le colpe accumulate in più di mezzo secolo di economia pianificata. Non senza suscitare una buona dose di risentimento nella popolazione della ex-Rdt e perfino nostalgie del passato regime. In quel frangente l'accusa non fu di «aver vissuto al di sopra dei propri mezzi», ma di aver lavorato al di sotto delle proprie possibilità in ossequio a un sistema sociale aberrante e soprattutto inefficiente. I professorini occidentali avrebbero dunque assegnato i compiti da svolgere ai somari prodotti dallo «stato degli operai e dei contadini» e sorvegliato che venissero eseguiti a puntino. Tuttavia, poiché gli Ossis, i cittadini dell'Est, erano pur sempre tedeschi e si erano liberati da un regime di oppressione, meritavano anche un po' di solidarietà. Merito che non spetta invece ai governi dei paesi indebitati dell'area mediterranea che, pur godendo di tutti i vantaggi della democrazia parlamentare e dell'economia di mercato, ne avrebbero dissipato le potenzialità non essendo stati capaci di tenere a freno gli appetiti dei governati nel timore di perderne il consenso. Ciò che nell'un caso come nell'altro non è in discussione è il valore esemplare del modello tedesco. Certificato dal successo economico della Germania. Il cui governo fa del paragone stesso tra la solidità economica della Germania e la fragilità (relativa) di altre economie europee un motivo di autocelebrazione e una poderosa macchina di cattura del consenso. La quale, stando ai sondaggi e alla voce dei media, sembra funzionare egregiamente. Tutto questo produce qualcosa di assai simile a una forma di nazionalismo che consiste nel difendere a oltranza e rafforzare quelle regole e forme dell'Unione europea che consacrano l'ossessione dei tedeschi per la stabilità monetaria e la competitività, conquistate a scapito dei salari e dei sistemi di Welfare state. Ma tutto questo non è a costo zero e anche nella Bundesrepublik in molti cominciano ad accorgersene. Mentre in molti paesi europei crescono rapidamente le forze euroscettiche, quando non schiettamente nazionaliste, e sentimenti antitedeschi si diffondono con toni sempre più aspri, in Germania comincia a svilupparsi e ad assumere dimensioni rilevanti un fronte antieuropeo che considera l'Unione più una zavorra che una opportunità, un peso indebitamente caricato sulle spalle dei virtuosi lavoratori tedeschi.

Tuttavia resta una incognita, sia sul piano economico che, soprattutto, su quello politico, se e fino a che punto la Germania possa trarre vantaggio dalla fine dell'euro, da un suo eventuale distacco dalla moneta unica o dall'implosione generale dell'Unione europea. Gli industriali non nascondono crescenti preoccupazioni per la contrazione dei mercati europei. Per questa ragione, ci spiega Beck, la cancelliera Angela Merkel avrebbe messo a punto una strategia dell'esitazione e del rinvio, che colloca la Germania non al centro ma sulla soglia di una Unione che potrebbe anche essere abbandonata repentinamente e comunque costantemente ricattata.

Il ricatto di Berlino

Una strategia che centellina la disponibilità di Berlino a mettere in gioco il suo peso e le sue risorse nel tentativo di superare in avanti e più o meno unitariamente la crisi europea. Questo gioco che fa pendere l'intero continente dalle labbra del governo berlinese, da quelle del Bundestag e della corte costituzionale di Karlsruhe, ha una forte presa sull'opinione pubblica tedesca e rafforza il consenso interno al governo di Berlino. Nonostante il fatto che sul piano continentale le ricette made in Germany non producano altro che un drammatico aggravamento della crisi e una minaccia sempre più incombente di instabilità sociale. È sotto gli occhi di tutti il fatto che la recessione prodotta dalle politiche europee di stabilità e di austerità aggravi l'indebitamento pubblico in un circolo vizioso senza fine, che l'abbassamento degli spread nei paesi mediterranei si accompagni alla crescita della disoccupazione (anche per quanto riguarda il lavoro intermittente e precario), alla perdita di innovazione e capacità produttiva. Detto in forma sintetica, la politica interna tedesca ha un riverbero europeo che ostacola la politica interna e la ripresa economica di altri paesi membri e dell'unione in generale. È il brodo di coltura più propizio per il ritorno nefasto dei nazionalismi. A testimonianza del fatto che l'Europa politica è, in larghissima misura, ostaggio delle sovranità nazionali che si affrontano, si dividono e si accordano secondo gli schemi più classici della diplomazia. Dall'interpretazione dei trattati internazionali alle alleanze tattiche tra stati, dal ricatto alla concessione di condizioni di favore. E la diplomazia è notoriamente una sfera al riparo da ogni «interferenza democratica» e interamente condizionata dai rapporti di forza internazionali e dalla loro asimmetria. Il punto di vista tedesco dimostra, aldilà dalla pretesa di rappresentare un modello continentale, come la politica europea degli stati membri dell'Unione si dia oggi nelle forme di una «politica estera». Aspetto che l'inasprimento della crisi non ha fatto che accentuare sempre di più, accrescendo lo squilibrio tra i paesi più forti e quelli più deboli.

Beck fa ricorso, come è noto, al paradigma della «società del rischio». Una condizione nella quale la modernità è chiamata a confrontarsi con le criticità che essa stessa ha prodotto e di cui finisce col perdere il controllo. La crisi consisterebbe insomma in un esempio di quelle catastrofi sistemiche, di quelle minacce incombenti, che, contrariamente allo scontro amico-nemico, solo la cooperazione tra stati e istituzioni è in grado di fronteggiare. Ricondotto alle politiche interne dei singoli stati - e il caso italiano ne costituisce un esempio tra i più chiari - questo punto di vista condurrebbe a privilegiare le grandi coalizioni e le «larghe intese». Ciò che il paradigma del «rischio» mette in ombra è il fatto che la crisi globale, diversamente dalle catastrofi naturali, è attraversata da linee di divisione e di conflitto non ricomponibili. Il processo di accumulazione del capitale finanziario non può scendere a patti, almeno fino a quando i rapporti di forze glielo consentiranno, con il livello di vita e le libertà dei cittadini europei. E questo accade anche in Germania dove il segno più (ma fino a quando?) degli indicatori economici si accompagna a un workfare severo per non dire spietato e a un enorme potere di ricatto sul lavoro vivo che si traduce nel potere di ricatto esercitato dal governo di Berlino sull'intero continente. Che a sua volta funziona, in chiave nazionalista, come principio di legittimazione dello sfruttamento interno e conferma del modello tedesco. Queste linee di conflitto non passano solo tra europeisti e difensori delle sovranità nazionali, ma le attraversano e le confondono. Nei secondi la strada non conduce altro che verso destra in una velenosa combinazione di protezionismo (più o meno finto) e di autoritarismo (decisamente vero) o nel perseguimento di una egemonia nazionale sul processo di integrazione europea, l'«Europa tedesca» appunto. Nel campo dei primi la partita è difficile, ma aperta.

Ostaggio delle oligarchie

Ci troviamo di fronte una unione sempre più ostaggio di un negoziato tra governi delegittimati dall'implosione dei dispositivi della rappresentanza e accomunati da una indiscussa fede neoliberista, comunque logorati dalla stretta di una crisi di cui non riescono a venire a capo. La costruzione dell'Europa politica non può essere lasciata nelle mani di questi attori, affiancati da una burocrazia imperscrutabile e compromessa. Ma faticano ancora a prendere forma soggetti transnazionali capaci di contrastarli e di affermare una propria politica europea, nei singoli paesi e nelle istituzioni comunitarie, che muova verso una radicale redistribuzione del reddito e delle risorse e sappia aggredire efficacemente il potere delle oligarchie. Senza sottovalutare i rischi del caso forse dovremo passare attraverso una fase di «ingovernabilità» dell'Europa che imponga l'affermarsi di una nuova «agenda» le cui voci, disperse e ancora troppo flebili, si fanno comunque sentire in varie parti del continente. Le uniche voci possibili di quella lingua comune di cui abbiamo massimamente bisogno.

Un'anticipazione dal libro dell'economista indiano, di prossima uscita. «La sfida oggi è affrontare la crisi umana: diseguaglianza, deprivazione e insicurezza economica e ambientale. La riflessione del Nobel da "Sull’ingiustizia" edito da Erikson».

L’Unità, 26 maggio 2013

Possiamo comprendere la gravità della crisi globale in corso solo se esaminiamo quel che sta accadendo alla vita reale degli esseri umani, specialmente alle persone meno privilegiate, al loro benessere e alla loro libertà di vivere vite umane dignitose. Non possiamo cogliere la gravità dei problemi che si trovano ad affrontare limitandoci a considerare il Pil e altri indicatori che descrivono le condizioni economiche della libertà umana invece della libertà umana in se stessa: la sua portata e tangibilità, e naturalmente la sua deprivazione e il suo declino. E sarebbe opportuno preoccuparsi dei guai e delle tribolazioni delle persone del mondo intero invece di restare confinati con lo sguardo ai nostri più prossimi vicini. Per riuscirvi, il perseguimento della giustizia globale è di una importanza ineludibile. (...)

Difformemente dall’approccio del contratto sociale che, costitutivamente, deve essere limitato alle persone di un particolare Stato sovrano, l’approccio alternativo può coinvolgere persone di qualunque parte del mondo, poiché l’enfasi in questo caso è sull’accordo ragionato invece che sul contratto sociale basato sullo Stato. Questa differenza rende possibile discutere della «giustizia globale», che è essenziale per affrontare problemi come le crisi economiche globali, il riscaldamento globale o la prevenzione e la gestione delle pandemie globali (come l’epidemia dell’Aids).

In contrasto con il vecchio approccio del contratto sociale alla giustizia che ha finora dominato l’indagine filosofica e professionale della giustizia, troviamo in questo approccio alternativo una focalizzazione sulla vita delle persone invece che soltanto sulle istituzioni, e una concentrazione di accordo ragionato rispetto a come far progredire la giustizia invece di cercare un ipotetico contratto capace di stabilire una serie di istituzioni perfettamente giuste. Ciò può costituire la base di un ragionamento globale invece del perseguimento della giustizia in nazioni separate con modi circoscritti. (...)

Per comprendere il contrasto fra una visione della giustizia focalizzata sull’accordo e una focalizzata sulla realizzazione, può essere utile fare riferimento a una vecchia distinzione tratta dalla letteratura sanscrita sull’etica e la giurisprudenza. Consideriamo due parole diverse niti e nyayaciascuna delle quali significa giustizia nel sanscrito classico. Fra gli usi principali del termine niti vi sono la proprietà organizzativa e la correttezza della condotta. A differenza di niti la parola nyaya fornisce un concetto esauriente di giustizia realizzata. In questa prospettiva, i ruoli delle istituzioni, delle leggi e dell’organizzazione, per quanto siano importanti, devono essere valutati nella prospettiva più vasta e inclusiva del nyaya che è ineludibilmente legata al mondo così come si manifesta realmente, e non solo alle istituzioni o alle leggi che ci capita di avere.

ASTRATTA O CONCRETA

Per considerare una particolare applicazione di quanto stiamo dicendo, i primi teorici legali indiani parlavano con disprezzo di ciò che chiamavano matsyanyaya, «la giustizia nel mondo dei pesci», dove il pesce grosso può impune-

mente divorare il pesce piccolo. Ci ammoniscono che evitare il matsyanyaya è parte essenziale della giustizia e che è cruciale assicurarsi che la giustizia dei pesci non possa invadere il mondo degli esseri umani. Il riconoscimento centrale qui è che la realizzazione della giustizia nel senso del nyaya non riguarda solo la valutazione delle istituzioni e delle leggi, bensì la valutazione delle società medesime. Indipendentemente dal grado di appropriatezza delle organizzazioni stabilite, se un pesce grosso può ancora divorare un pesce piccolo a suo piacimento, deve esserci una palese violazione della giustizia umana in quanto nyaya. (...)

Il mercato è un’istituzione tra le tante. A parte la necessità di politiche pubbliche a favore dei poveri nella cornice economica (politiche legate all’educazione di base e alla salute, alla creazione di posti di lavoro, alle riforme terriere, all’accesso al credito, alle protezioni legali, all’aumento delle possibilità e del potere delle donne, ecc.), la distribuzione dei benefici delle interazioni internazionali dipende anche da una varietà di accordi globali (fra cui accordi commerciali, leggi chiare, iniziative mediche, scambi educativi, risorse per la divulgazione tecnologica, politiche ecologiche e ambientali, ecc.). Sono tutte questioni suscettibili di discussione e costituirebbero argomenti importantissimi per il dialogo globale, accogliendo critiche provenienti da vicino e da lontano. Fra i modi in cui la democrazia globale può essere perseguita vi sono il fermento pubblico attivo, il commento delle notizie e la discussione critica, e tutto questo può essere esercitato senza attendere che vi sia uno Stato globale. La sfida oggi è il rafforzamento di questo processo di partecipazione già attivo, da cui dipenderà largamente il perseguimento della giustizia globale. È chiaro che sarebbe necessario risolvere oggi la crisi finanziaria ed economica, ma oltre a questo vi è la sfida della crisi umana connessa alla diseguaglianza, alla deprivazione e all’insicurezza economica e politica oltreché ambientale. Riuscire a pensare travalicando i confini nazionali e porsi coscientemente problemi sulla giustizia globale può rafforzare i canali che già esistono per migliorare la libertà umana e la giustizia sociale e può aprirne di nuovi al servizio di questa causa così importante. I problemi che dobbiamo affrontare oggi possono essere cospicui e difficili, ma la sfida di superare queste avversità globali non è solo un impegno necessario, può anche essere un’entusiasmante impresa globale.

La disperazione è una caratteristica soggettiva delle menti prigioniere, non una caratteristica oggettiva del mondo in cui viviamo. Le nostre menti hanno la capacità di una prospettiva e di una comprensione molto vaste, e le nostre riflessioni possono essere ulteriormente allargate dall’uso della nostra capacità di riflettere valendoci anche dei ragionamenti che sanno trascendere i confini nazionali. Non vi è alcuna reale necessità di rinchiudere le nostre fervide menti in scatolette di provincialismo. «Dovunque vi sia un’ingiustizia, c’è una minaccia alla giustizia in ogni altro luogo del mondo», disse Martin Luther King, Jr., in una lettera dal carcere di Birmingham, mezzo secolo fa, nell’aprile del 1963. Sarebbe difficile oggigiorno trovare un programma più urgente del perseguimento delle istanze di giustizia globale.

CIl manifesto, 8 maggio 2013

Nella mucillagine cui è stata ridotta la società italiana da un ventennio di egemonia neoliberista in salsa berlusconiana e da una decrescita infelice che distrugge certezze e fiacca resistenze, per vedere all'orizzonte il soggetto di una possibile trasformazione bisogna abbandonare gli schemi novecenteschi. Il lavoro salariato non costituisce più un'identità di massa, i partiti politici sono ridotti da tempo a scatole vuote e le identità illusorie costruite dal neoliberismo non perdono la loro egemonia sulla società. La situazione in cui ci troviamo è il punto di arrivo di una deriva cominciata con il boom economico del dopoguerra, lucidamente denunciata da Pier Paolo Pasolini fin dagli esordi, quando l'ideologia dell'individualismo proprietario e dell'edonismo consumista, in buona sostanza l'americanizzazione della società, andava modellando un blocco sociale che sostituiva nuovi valori, legati al mercato, a quelli vecchi, sanfedisti e clericali.

Produrre analisi e contenuti utili a cementare un blocco sociale alternativo a quello denunciato da Pasolini e a costruirne una narrazione potenzialmente egemonica è l'obiettivo dichiarato di Giulio Marcon e Mario Pianta, che hanno riassunto in un libro un lavoro pluriennale di analisi e proposte per uscire "da sinistra" dalla crisi: Sbilanciamo l'economia (Laterza, pagg. 188, euro 12). I due autori affrontano questioni politiche decisive: la crisi degli Stati e l'Europa, la democrazia ridotta a tecnicismo e populismo, la profonda recessione economica, i movimenti sociali e la loro difficoltà di andare oltre l'indignazione.

I numeri rendono esplicita l'entità del disastro: l'Italia ha perso in cinque anni il 25% della sua produzione industriale, la disoccupazione reale si aggira attorno al 18% e, se a questa si aggiungono il precariato diffuso, il crollo del reddito medio, la sempre maggiore finanziarizzazione dell'economia, i tagli alla ricerca che si riverberano nell'assenza di innovazione e producono una nuova emigrazione intellettuale il cui saldo è addirittura in attivo rispetto all'immigrazione, si capisce quanto drammatica sia la crisi sociale che sta spingendo l'Italia verso la periferia dell'Europa. Una catastrofe che non ha impedito al 10% della popolazione di arricchirsi ulteriormente, attraverso la speculazione finanziaria, il circuito dell'illegalità, l'evasione fiscale oppure approfittando delle politiche "di classe" dei governi.

Eppure, ogni scorciatoia antieuropeista è impensabile, nonostante il deficit di democrazia nell'Unione e le politiche di rigore economico. È a quel livello che bisogna agire, pur se, ammettono Marcon e Pianta, perfino i movimenti sociali altermondialisti, molto attenti a coniugare la dimensione locale con quella globale, scontano un deficit di elaborazione. Il problema è l'assenza, ab origine, di uno spazio pubblico continentale. Quella sfera pubblica allargata che, per dirla con il filosofo francese Jacques Rancière, permette di «riconoscere l'uguaglianza e la qualità di soggetto politico a coloro che la legge dello Stato respingeva verso la vita privata di esseri inferiori, riconoscere il carattere pubblico di spazi e relazioni che erano lasciati alla discrezione del potere e della ricchezza». Per Marcon e Pianta «la posta in gioco è la realizzazione di quella democrazia sostanziale che è stata ridimensionata in questi trent'anni di liberismo». Su questo progetto di rovesciamento della piramide che vuole la politica calata dall'alto hanno un ruolo fondamentale i cosiddetti "corpi intermedi": movimenti, comitati, campagne, associazioni, reti di esperti, capaci di tenere insieme rappresentanza, deliberazione e partecipazione nonché di arrivare, tessendo reti e alleanze transnazionali, a quelle alte sfere della decisione politica che, come bunker inaccessibili, la cosiddetta governance del capitalismo mondiale fa in modo che siano irraggiungibili. Dall'esplosione della crisi globale, i movimenti sociali post-novecenteschi sono però riusciti a esprimere soltanto quella che Pierre Rosanvallon definisce «democrazia del rifiuto»: gli Indignados e gli Occupy hanno svolto un importante ruolo di «contro-democrazia», basata però su un potere di interdizione piuttosto che di costruzione di alternative.

La questione che si pongono Marcon e Pianta è come scendere dalle barricate del rifiuto e proporre un progetto politico gramscianamente egemonico. Le condizioni oggettive, per i due autori, ci sono tutte: il fallimento palese del neoliberismo spalanca praterie per un ordine del discorso antagonista. Anche quelle soggettive non mancano: produttori "verdi" e consumatori responsabili, terzo settore, altra economia, la galassia della solidarietà sociale, comunità locali attente al territorio sono realtà già ben presenti, pur se focalizzate sulle loro battaglie e incapaci di elaborare un progetto complessivo di società. È sui beni comuni che è nato il movimento più interessante degli ultimi anni. A proposito di quest'ultimo, Marcon e Pianta rispolverano un articolo comparso nel 1842 sulla Gazzetta Renana. L'autore è un ventiquattrenne Karl Marx, che prendeva le parti dei contadini tedeschi contro i proprietari terrieri che li accusavano di furto perché utilizzavano la legna secca per riscaldarsi, come avevano fatto per secoli: «Noi rivendichiamo alla povera gente il diritto consuetudinario, e non un diritto consuetudinario locale, ma tale da costruire il diritto della povera gente».

Individuato il "soggetto" della trasformazione, il terreno di scontro è l'egemonia nella società. Marcon e Pianta non si arrendono all'evidenza di un Paese in cui la frammentazione sociale, aggravata dallo smantellamento del welfare e dalla cancellazione di ogni residuo di collettivismo, potrà produrre solo ribellioni individuali e nichiliste. Per sventare ulteriori pericolose derive, sostengono, bisogna far propria la lezione degli anni '30, quando - come ha scritto Karl Polanyi in La grande trasformazione - «proprio perché il mercato minacciava non gli interessi economici ma gli interessi sociali di diverse sezioni trasversali della popolazione, persone appartenenti a vari strati economici univano inconsapevolmente le loro forze per affrontare il pericolo». Gli sbocchi politici dell'«autodifesa della società» nei confronti dell'economia sono stati il nazismo da una parte e il new deal rooseveltiano dall'altra. Oggi, in presenza di un'analoga Grande Depressione, ci troviamo di fronte al riemergere di populismi e, viceversa, alla possibilità di ripartire dal crescente rifiuto del dominio del mercato sulla società, dell'individualismo esasperato e del profitto a tutti i costi. È su questa base, per Marcon e Pianta, che bisogna lavorare per costruire la prospettiva di uno «sviluppo nuovo» che aggreghi un blocco sociale post-liberista, appunto, e faccia sbocciare, dal declino italiano, nuove culture e comportamenti.

Come e perché la responsabilità dell’assassinio viene spostata dal carnefice alla vittima L’inchiesta-denuncia e una proposta di soluzione di Loredana Lipperini e Michela Murgia nel libro "L'ho uccisa perchè l'amavo (Falso)". La Repubblica, 3 maggio 2013

Quando un uomo uccide una donna compie un femminicidio. Abbiamo battezzato questo crimine con una parola goffa. Lo sappiamo: pazienza. Serviva un termine esatto, per dare specificità a un crimine che si stava nascondendo tra gli altri. Esistono i morti per mafia, le vittime della strada, gli infanticidi... Da adesso chi scanna la moglie, la compagna, la fidanzata è un femminicida. Un nome è una cornice, chiama attenzione. L’attenzione è il tema del pamphlet scritto da Loredana Lipperini e Michela Murgia, pubblicato da Laterza nella collana Idòla. Un energico pamphlet che fin dal titolo — iconico e irrituale: Ho ucciso perché l’amavo. (Falso!)— svela il suo carattere intemperante, verso la volgarità ideologica, verso la disattenzione colpevole, soprattutto dei giornali. «L’ex confessa: l’amavo più della mia vita», «pronuncia il nome dell’ex fidanzato: strangolata per gelosia», «L’ho uccisa durante un lungo abbraccio» «Lo tradiva, perde la testa e le dà fuoco» e ultimo e sublime per la sua ossimorica insensatezza: «L’ha uccisa perché non voleva perderla». Sono titoli apparsi in questi anni, soprattutto negli ultimi due, da quando il femminicidio ha assunto proporzioni che chiamano allarme. Le due scrittrici, con voce limpida e un’oratoria inoppugnabile, per un centinaio di pagine smontano teoremi, svelano schemi mentali ammuffiti, ribadiscono cifre. Nel 2012 sono state ammazzate cento donne. È un numero che conosciamo, l’abbiamo scritto, gridato per strada, l’abbiamo recitato e ballato perché fosse chiaro a tutti. Una donna uccisa ogni tre giorni. Per dare un’idea della progressione, Murgia e Lipperini scrivono che, nel 1991, l’11 per cento delle persone uccise in Italia era donna, mentre adesso siamo intorno al 25. Una vittima su quattro. Una donna che muore «in famiglia », colpita da chi aveva amato, da chi dichiarava e dichiarerà inseguito di amarla perdutamente.

La prima cosa da fare, spiegano le due scrittrici, è eliminare dal contesto dell’omicidio la parola amore. Nei titoli dei giornali, ma anche nella nostra testa, perché un reato è anche l’humus culturale nel quale cresce. Amore, gelosia, abbandono. Ogni volta che scriviamo di un uomo che non ha retto alla separazione, i cui nervi hanno ceduto all’idea di non poter star più con quella donna e quindi l’ha ammazzata, compiamo a nostra volta un crimine: spostiamo la responsabilità dal carnefice alla vittima. L’azione è il coltello, la corda, la pistola. È lui che ammazza, non lei che se ne va. Nelle nostre società — dal punto di vista legale e anche morale — non ci sono circostanze che consentono l’omicidio. Da quando, nel 1981, è stato abolito il delitto d’onore rimane soltanto la legittima difesa. Soltanto se si tratta di decidere tra la tua vita e quella di chi ti sta attaccando, nella nostra civiltà è lecito uccidere. Niente pena di morte, prese di distanza dai poliziotti violenti, una scarsa seduzione nei confronti delle armi. Eppure, quando si tratta si donne, la reprimenda sociale sfuma leggermente. Secondo Murgia e Lipperini questo avviene, soprattutto, per una distorta e impresentabile idea di possesso: tu sei mia, e come tale dispongo di te. Se scappi, ti uccido. Neanche le bestie, neanche i cani.

Per smontare questo schifoso teorema occorre un tempo, lo sappiamo. Ma è necessario che in questo tempo non si pensino le cose sbagliate. Sono le donne, di nuovo, è il femminismo ad aver colpa, qualcuno dice e scrive. Quella smania di libertà e indipendenza che umilia i maschi. Costa a me, deve essere costato a Murgia e Lipperini riportare un ragionamento così rozzo, prendere atto di una inerzia terribile che, innestandosi su una generale crisi, genera mostri. Uomini che non ci aspetteremmo più di incontrare, pensieri che speravamo dissolti. Invece no, e quindi con pazienza torniamo a spiegare che le società si muovono, gli esseri umani progrediscono, le donne aspettano ancora diritti. Che non esiste, non è mai esistito, quel luogo edenico di armonia tra i sessi, dove ognuno compiva il suo dovere in letizia. Quella famiglia, quei ruoli erano il frutto di una sottomissione da una parte e di un comando dall’altra. Che ogni convivenza è un accordo tra le parti, e qualsiasi conflitto, chiunque riguardi e di qualsiasi natura, non è di per sé un abominio. Dovrebbe anzi essere un laboratorio, un modo per capire e crescere. Se questo diventerà impossibile, se i maschi non sapranno reggere lo scontro con le femmine per spartirsi compiti e premi, vorrà dire che nasceranno società separate, comunità omosessuali, come in alcune specie animali. I cinghiali, per esempio, vivono così. Se non riusciremo più a convivere ci separeremo, andando a vivere in due territori diversi, che varcheremo soltanto per procreare, come fanno i cinghiali. I quali, come è noto, non praticano l’omicidio su base sessuale, come del resto la maggior parte degli animali.

. Il manifesto, 18 aprile 2013

Da oggi è in libreria «Sbilanciamo l'economia. Una via d'uscita dalla crisi», di Giulio Marcon e Mario Pianta (Laterza, 2013, 190 pp., 12 euro). Presentiamo qui un'anticipazione dall'Introduzione al volume.

Riequilibrare i poteri, colpire i privilegi. Una via d'uscita dalla recessione esiste, ma non può essere affidata al mercato. È necessario cambiare le politiche. Ripartendo dal basso per recuperare la democrazia

L'Italia del 2013 non è in buone condizioni. L'economia è in recessione, la crisi è con noi da cinque anni e segna profondamente il paese. Le politiche europee e italiane - dei governi di Silvio Berlusconi e Mario Monti - hanno protetto la finanza e imposto l'austerità ai cittadini, hanno tagliato la spesa pubblica e riportato i redditi indietro di dieci anni; il peso del debito pubblico è aumentato ancora. L'industria italiana oggi produce il 25% in meno di prima della crisi, un italiano su sei vorrebbe un'occupazione ma è senza lavoro, quasi il 40% dei giovani non lavora, un lavoratore dipendente su quattro è precario. Le disuguaglianze tra gli italiani sono diventate fortissime, la povertà si estende. L'Italia sta scivolando nella "periferia" dell'Europa e non trova la strada per riprendersi.

La via d'uscita c'è. È in un cambio di rotta che si lasci alle spalle l'ideologia del liberismo e le illusioni del potere dei "tecnici", che metta al primo posto la ripresa dell'economia e il lavoro, sulla strada di uno sviluppo diverso, giusto e sostenibile. L'Europa ha sbagliato strada e fatica a correggere gli errori: occorre ridimensionare la finanza, fermare la speculazione, rilanciare la domanda, democratizzare le decisioni dell'Unione. L'Italia deve premere per questi cambiamenti, che l'aiuterebbero a uscire dalla crisi.

Un cambio di rotta a Bruxelles e Berlino è indispensabile per superare la depressione europea, introducendo politiche più espansive. Tuttavia, anche in assenza di modifiche degli attuali vincoli europei, qualche cosa di nuovo potrebbe essere realizzato dal governo italiano. La priorità assoluta per l'Italia è uscire dalla recessione. Si può allungare il periodo previsto per l'aggiustamento dei conti pubblici, si possono trovare nuove risorse per sostenere la spesa, si può così aumentare la quantità della spesa pubblica e si può migliorarne la qualità sociale - con meno cacciabombardieri F35 e più scuole, meno "grandi opere" e più "piccole opere" di tutela del territorio. Si può tassare la ricchezza e un po' meno il lavoro, aumentare la progressività delle imposte e sostenere i redditi di tutti: sarebbe una "grande redistribuzione" che darebbe al paese un po' di giustizia sociale e rimetterebbe in moto una società irrigidita e frammentata.

L'economia che uscirà dalla crisi non può essere la stessa che vi è entrata: il che cosa e come si produce deve tener conto di nuovi vincoli - il risparmio di risorse ed energia, la riduzione delle emissioni - e delle opportunità che si aprono in un'economia verde: la riconversione di tecnologie e produzioni, l'uso dei saperi, le risposte a bisogni più sobrii e diversificati. L'economia italiana può uscire dal lungo declino con un nuovo sviluppo, fatto di qualità anziché quantità, con il lavoro al primo posto e la sostenibilità come orizzonte. La mappa per l'uscita dalla crisi è in sette strade che, insieme, indicano un cambiamento possibile, fatto di proposte concrete. Tutto quello che è necessario per sbilanciare l'economia: riequilibrare i poteri, colpire i privilegi che la bloccano, farla muovere nella direzione giusta.

Questa via d'uscita non la può trovare il "mercato", quello che, "lasciando fare" a imprese e finanza, ha portato il paese al crollo del 2008 e alla depressione di oggi. La via d'uscita la può trovare la società e la politica. Nove italiani su dieci stanno peggio di 10 anni fa; gli interessi materiali dei "perdenti" nella crisi possono intrecciarsi all'affermazione di valori diversi da quelli del "mercato" - l'uguaglianza, la sostenibilità, la democrazia - e condurre a nuove identità che possono ricomporsi in un blocco sociale portatore di cambiamento. Sono moltissime le esperienze che vanno in questa direzione: movimenti, campagne, associazioni che lavorano per un'economia diversa e chiedono alla politica di cambiare.

La politica è il terreno in cui questo cambiamento deve affermarsi. Meno strapotere dei partiti e più partecipazione, meno collusione coi poteri economici e più apertura alla società civile. È questa la politica che ci vorrebbe: capace di intrecciare rappresentanza, deliberazione e partecipazione, capace di far spazio alla "politica dal basso", capace di recuperare l'arretramento della democrazia che si è realizzato in questi anni.

Sono molte le proposte concrete, realizzabili, per riavvicinare la politica alla società. Proposte venute dalle iniziative dal basso, capaci di rinnovare anche la politica dei "palazzi". Ritrovare la democrazia, come valore e come pratica concreta, come fine e mezzo al tempo stesso, è la stella polare di questo percorso.

Per uscire dalla crisi serve un cambio di rotta. Per "sbilanciare l'economia" è necessario cambiare le politiche. Per questo cambiamento serve un blocco sociale nuovo, capace di "sbilanciare" anche la politica e ritrovare la democrazia (www.giuliomarcon.it, www.novesudieci.org).

Una discussione tra storici: quali sono i fatti, quali invece i giudizi e quali infine le strumentalizzazioni? Distinguere è indispensabile.

La Repubblica, 17 aprile 2013

«SU PRIMO LEVI SOLO SCANDALISMO»
di Massimo Novelli

Studiosi e ricercatori contro “Partigia”, che racconta un episodio controverso ma già noto della Resistenza in cui fu coinvolto l’autore di “Se questo è un uomo”

«Il mio periodo partigiano in Valle d’Aosta è stato senza dubbio il più opaco della mia carriera, e non lo racconterei volentieri: è una storia di giovani ben intenzionati ma sciocchi, e sta bene fra le cose dimenticate. Bastano e avanzano i cenni contenuti nel Sistema periodico». Così Primo Levi scriveva nel 1980 in una lettera a Paolo Momigliano, presidente dell’Istituto storico della Resistenza di Aosta. Da quei «cenni» è partito lo storico Sergio Luzzatto per costruire il suo libro Partigia. Una storia della Resistenza,subito al centro di polemiche. Nel saggio, pubblicato da Mondadori e non da Einaudi, la casa editrice di molte opere di Luzzatto, si sottolinea soprattutto l’«ossessione» che lo scrittore torinese avrebbe avuto per un episodio avvenuto in quelle settimane di vita partigiana.
Rifugiatosi in Valle d’Aosta, Levi si era unito a una banda composta da comunisti legati al Partito comunista internazionalista e da anarchici. Oltretutto, dopo pochi giorni, la formazione fu infiltrata da ufficiali fascisti inviati dai caporioni aostani della Repubblica di Salò. Le spie, addirittura, ben presto assunsero il comando della banda, fino a consegnare quei ragazzi nelle mani dei loro camerati nazifascisti. La presunta «ossessione » dell’allora giovane dottore in chimica, com’era Primo Levi, sarebbe stata originata dall’avere appreso della fucilazione da parte dei partigiani di due compagni, Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano, accusati di furto. Avvenne quando nella formazione si erano già insediati i fascisti

La vicenda rievocata da Luzzatto, così come le circostanze che il 13 dicembre del 1943 portarono all’arresto e quindi alla deportazione dell’autore di Se questo è un uomo, sono state presentate da Paolo Mieli sul Corriere della Sera come verità nascoste per anni da una certa «retorica della Resistenza». A onor del vero, però, nel 2008 il ricercatore piemontese Roberto Gremmo ne aveva dato un ampio resoconto sulla rivista Storia ribelle. E, qualche mese fa, lo scrittore Frediano Sessi le ha raccontate diffusamente nel libro Il lungo viaggio di Primo Levi (Marsilio), senza prestarsi peraltro a operazioni in odore di “revisionismo storico”.
Già: perché proprio il “revisionismo”, per giunta esercitato su Levi, morto nel 1987, sembra essere l’elemento principale colto da quanti, tra storici e studiosi, hanno seguito il dibattito che ha preceduto l’uscita del volume di Luzzatto. Marco Revelli, figlio del partigiano Nuto, e autore dell’Einaudi al pari di Luzzatto, non esita a parlare di «uso scandalistico della storia». E aggiunge: «Non ho letto il libro. Nell’operazione mediatica per presentare il libro di Luzzatto, comunque, colpisce la sproporzione fra gli eventi, minimi, e il rilievo dato a questi. Mi sembra un’operazione dettata dal bisogno ossessivo di sensazionalismo, che è altra cosa dalla pratica storiografica. Detto questo, c’è poi un uso disumano di Primo Levi, un indagare in modo indiziario nelle pieghe della sua coscienza». È questo «uso» di Levi, in definitiva, che avrebbe indotto alcuni vecchi einaudiani a sconsigliare la pubblicazione del volume di Luzzatto, lasciandolo alla Mondadori? La casa dello Struzzo nega, ma il dubbio rimane.

Come restano i dubbi sull’interpretazione delle parole di Levi sulla fucilazione di Oppezzo e Zabaldano. Frediano Sessi ritiene che «negli accenni contenuti nel Sistema periodico, oltre a non esserci alcun suo giudizio negativo sulla Resistenza, esprime invece il dolore per la morte dei due ragazzi, probabilmente autori di furti, perché facevano parte della stessa comunità umana in cui era entrato lui. Ecco perché se ne sentì coinvolto, quasi corresponsabile ». Oppezzo e Zabaldano, a ogni modo, dopo la Liberazione furono fatti passare per martiri della Resistenza. Sessi lo spiega col fatto che «nessuno aveva più saputo niente di loro: si credette, pertanto, che fossero caduti in combattimento». ùAnche lo storico Giovanni De Luna è molto critico: «Non accetto nel revisionismo questa continua enfasi sulla rottura della cosiddetta “vulgata resistenziale”, sulle scoperte di “verità tenute nascoste”. Sono argomenti privi di fondamento. Tutto ciò era emerso da tempo, fin dal dibattito degli anni Settanta sulla Resistenza. Ad alcuni che oggi scrivono di Resistenza, gente che si è formata nel dibattito degli anni Novanta, rimprovero la mancanza di consapevolezza dei contesti storici». Ernesto Ferrero, a lungo dirigente dell’Einaudi e che a Levi ha dedicato vari studi, è altrettanto severo: «Capisco che una vicenda così intimamente dostoevskiana possa appassionare il narratore che sonnecchia in ogni storico. Ma mi pare di ravvedere nello sviluppo anche mediatico che se ne è fatto, una specie di uso improprio di estrogeni storiografici ». Conclude Ferrero: «Proprio perché Levi non ha creduto alla retorica della Resistenza, era profondamente amareggiato dalle furbizie del revisionismo. Antropologo scrupoloso e geniale, sulle scelte etiche non transigeva. E anche da questo episodio esce più grande che mai».


QUELLE POLEMICHE FUORI DAL TEMPO CONTRO LA SINISTRA
di Guido Crainz

Leggerò d’un fiato il libro di Sergio Luzzatto, e non solo perché il suo Il corpo del duce è
uno dei libri più importanti che io abbia letto sul rapporto fra la storia e la memoria del fascismo. Lo leggerò d’un fiato soprattutto perché rinvia a più di una questione storiografica ed etica. Leggendo il libro, naturalmente, capirò come lo fa, in che modo dialoghi con riflessioni avviate sin da allora su questi temi o prenda altre vie. Nel 1945, nell’ultima pagina di Un uomo, un partigiano,
Roberto Battaglia ci consegnava per intero il dramma vero che stava sullo sfondo della “giustizia partigiana”: «Nel giudicare i condannati — scriveva — si soffriva alle volte quanto essi, si era presi dalla loro stessa angoscia». In quelle pagine — ha osservato Ugo Berti introducendo per “il Mulino” la ristampa di quel bellissimo libro — «la condizione di fuorilegge-legislatore è esposta
e interrogata nell’argomento cruciale, la legittimità del dare la morte».
A questo nodo, a questo tragico nodo di fondo rinviano anche episodi marginali o feroci, “atipici” eppur impastati della “normalità” della “guerra civile”. È merito di Claudio Pavone aver aperto più di vent’anni fa la riflessione su questi temi (più di vent’anni fa, si badi bene) sfidando duri fuochi di sbarramento e offrendo però strumenti preziosi ad una stagione di studi che ha rimosso tabù e reticenze. E non ha caso il sottotitolo del suo libro, Una guerra civileSaggio storico sulla moralità nella Resistenza.
Quella stagione di studi, che ancora continua, ha affrontato ampiamente le pagine più aspre e dure del ’43-45 e poi il protrarsi della violenza armata contro i fascisti ben oltre il 25 aprile (il lungo protrarsi cioè dell’“ombra della guerra”). Si è interrogata non solo sulle “vul-
gate” ma anche su talune ipocrisie e falsificazioni della memoria pubblica Qualche anno fa un bel libro di Spartaco Capogreco, Il piombo e l’argento (Donzelli), ha illuminato di luce cruda la storia del “partigiano Facio”, combattente nell’appennino tosco-emiliano sin dalla prima fase della Resistenza (e in relazione anche con i fratelli Cervi). Insignito di medaglia d’argento nei primi anni Sessanta e un vero simbolo, in quella zona, ma ucciso in realtà da altri partigiani: non per ragioni di antifascismo ma di sopraffazione (il controllo e il comando di un’area). Un caso di ingiustizia partigiana e al tempo stesso di falsificazione di memoria: e anche qui la specifica, e feroce, “ingiustizia partigiana” rinvia — è merito di Capogreco averlo sottolineato in modo partecipe — a quel più generale nodo della “giustizia partigiana” su cui Battaglia si arrovellava con passione e tensione etica.
Per molti versi, dunque, abbiamo accumulato sufficiente maturità culturale e storiografica per misurarci in modo pacato con i nodi drammatici di una guerra civile, in tutto il loro amplissimo spettro: e i ricorrenti lamenti sulle “rimozioni della storiografia” (della storiografia di sinistra, naturalmente) appaiono pateticamente fuori stagione. Forse non è ad esse che si deve se alcune grossolane letture hanno trovato ampio spazio, se troppo spesso singoli episodi sono stati ingigantiti e assunti a rovesciato simbolo, gli alberi malati sono stati utilizzati per nascondere la foresta, il dito per occultare la luna (e, soprattutto, la riflessione su di essa). Ha una data d’avvio, questa falsificazione: è a partire dagli anni Ottanta che la “riconciliazione morbida” con il passato, in primo luogo con il passato fascista, si è accompagnata alla sostanziale deformazione del dramma e delle scelte di campo del 1943-45.Già molti anni fa Nicola Gallerano ha scritto su questo pagine illuminanti, e alla “vulgata antiantifascista” Luzzatto stesso ha dedicato di recente le acute pagine di un agile libro, La crisi dell’antifascismo. Una ragione in più, per quel che mi riguarda, per leggere il suo ultimo lavoro, anche per gli stimoli critici della recensione di ieri di Gad Lerner. Per il resto, da accanito lettore di quotidiani non mi stupisco certo se qualcuno non perde occasione per suonare stanche canzoni.

La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, un saggio del filosofo Domenico Losurdo per Laterza. «Un ambizioso e documentato tentativo di ricostruire genesi e sviluppo di un concetto che corre il rischio di perdere di vista la storicità del capitalismo e le trasformazioni imposte proprio dai movimenti "antisistema" tanto nel Nord che nel Sud del pianeta». il manifesto, 16 aprile 2013
«Il sociologo comincia a leggere il Capitale dalla fine del III libro e interrompe la lettura quando si interrompe il capitolo sulle classi. Poi, da Renner a Dahrendorf, ogni tanto qualcuno si diverte a completare ciò che è rimasto incompiuto: ne viene fuori una diffamazione di Marx, che andrebbe come minimo perseguita con la violenza fisica». Non è dato sapere se a Domenico Losurdo questa citazione tratta da Operai e capitale di Mario Tronti faccia piacere, ma sono parole che rendono ragione alla scelta di iniziare il suo La lotta di classe. Una storia politica e filosofica (Laterza, pp. 387, euro 24), laddove l'autore individua nei tanti Dahrendorf esistenti il bersaglio polemico. I ricorrenti profeti della fine della lotta di classe si trovano infatti puntualmente di fronte al suo insorgere, oltre che a quelle condizioni di impoverimento e polarizzazione che Losurdo mette subito in evidenza. Rispondendo alla domanda retorica dell'introduzione del volume, si potrebbe dire che la lotta di classe non deve ritornare per il semplice fatto che non è mai andata via.

Ha poi ragione l'autore quando afferma che essa «non si presenta quasi mai allo stato puro». Il punto è però individuare la sua specificità. Losurdo la pluralizza: lo scontro tra operai e capitale è solo una delle forme che la lotta di classe assume, insieme ai movimenti di liberazione nazionale, anti-coloniali, delle donne o dei neri. Anzi, proprio «in virtù della sua ambizione di abbracciare la totalità del processo storico, la teoria della lotta di classe si configura come una teoria generale del conflitto sociale». E qui iniziano i problemi. L'autore rischia infatti di sottendere un'interpretazione economicista dei rapporti di produzione. O di interpretare la lotta dentro e contro i rapporti di produzione come questione meramente economica. Le lotte per il salario o la riduzione dell'orario di lavoro vengono quindi rubricate nella tipologia dei conflitto per la redistribuzione, inferiori alle questioni che toccano le corde della coscienza, come l'indipendenza nazionale o l'abolizione della schiavitù. È noto che con le citazioni si possono dimostrare tante cose e il loro contrario, ma visto che nel testo sono sovrabbondanti vale la pena ricordare il famoso passaggio de La guerra civile in Francia in cui Marx afferma che «il proletariato non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società di cui è gravida la vecchia e cadente società borghese». Nella sua ansia di controbattere al riduzionismo economicista operato dal pensiero liberale, Losurdo finisce per incappare nello stesso errore: come se la lotta per il salario non fosse lotta per la libertà.

Il laboratorio coloniale

Ha ragione Losurdo quando individua nelle colonie il laboratorio di quello che sarebbe stato il nazismo nel Novecento: qui risuonano le famose considerazioni del poeta martinicano Aimé Cèsaire sull'Hitler nascosto che porta dentro di sé il borghese distinto e umanista. L'autore ha inoltre il merito di evidenziare quanto le questioni coloniale e razziale fossero tutt'altro che marginali nella riflessione politica di Marx sulla vocazione mondiale dello sviluppo capitalistico e sulla divisione internazionale del lavoro. E scuserà l'autore chi scrive se non riesce a considerare il Moro di Treviri un sol uomo e sol corpo con Engels, certo suo impagabile compagno, ma anche portatore di molte responsabilità nel costruire dogmi ed equivoci di quel marxismo da cui Marx aveva giustamente preso le distanze.

Invece, utilizzando il Marx della questione irlandese e in particolare Engels, Losurdo sostiene che un internazionalismo che ignori la questione nazionale si rovescia nel suo contrario, cioè nello sciovinismo di una nazione che si pretende universale. Questione complessa e storicamente densa, com'è noto. Basta ricordare, a mo' di esempio, il dibattito tra Rosa Luxemburg e Lenin, quando il secondo critica la prima per la semplicistica condanna dei movimenti nazionali. Lo fa, tuttavia, perché in quella specifica contingenza storica i movimenti nazionali sono un dato di realtà ambivalente, uno spazio di politicizzazione dentro cui il proletariato si può formare per dare un «colore comunista» alle lotte anti-coloniali a partire dall'irriducibile eccedenza del movimento rivoluzionario rispetto alle semplici rivendicazioni democratiche.

Tralasciamo le molte pagine in cui Marx prima e Lenin dopo affermano senza possibilità di equivoco come le «rivoluzioni nazionali» siano comunque sempre subordinate alle rivoluzioni proletarie. Il punto interessante da evidenziare è che tra quel dibattito e oggi sono successe tante cose: differenti cicli internazionali di lotta di classe, due guerre mondiali, la globalizzazione e la riconfigurazione del ruolo dello Stato. A mutare sono state anche le discussioni e i punti di vista dentro quei movimenti che dovrebbero essere i referenti ideali del discorso di Losurdo: l'esaurimento del carattere «progressivo» (per usare una brutta parola) della questione nazionale è stato da tempo messo in evidenza dai militanti anti-coloniali di fronte al fallimento degli stati postcoloniali: questa è d'altronde la discussione contemporanea nel contraddittorio laboratorio latinoamericano e perfino in un'organizzazione come il Pkk.

Maschere fuorvianti

L'impressione è che da queste molteplici forme di lotte di classe citate dall'autore a sparire siano proprio i soggetti concreti per essere sostituiti e rappresentati dalle astrazioni del popolo e della nazione. O meglio, in un quadro in cui la lotta di classe è in ultima analisi combattuta dagli Stati o per lo Stato, i soggetti diventano gli statisti: a Lenin viene appiccicata la maschera del Napoleone III del proletariato, l'Ottobre si trasfigura nel 18 brumaio e - con buona pace delle aspre battaglie dentro la Prima Internazionale - Marx rischia di essere confuso con Mazzini.

Marx, è noto, non perdeva occasione per sottolineare il carattere rivoluzionario del rapporto sociale capitalistico. Intorno al '17 Lenin sferzava i vecchi bolscevichi rimasti attaccati a principi e interpretazioni che, seppur corrette qualche anno prima, a quel punto si dimostravano superate o addirittura nocive. Si ha invece l'impressione, leggendo questo libro che non nasconde le ambizioni di diventare una contestazione esaustiva del pensiero unico dominante, che con Marx e Lenin la storia finisca: la storia della teoria della lotta di classe, bloccata in una pluralità di opposizioni oggettivate e immobili. Non sono certo il Moro di Treviri e il dirigente bolscevico ad essere responsabili, né che sarebbero molto d'accordo di questo estremo «oggettivismo». Non solo: con il trascorrere delle pagine si ha sempre più chiara la certezza che l'autore voglia dimostrare che l'oggetto del suo studio rappresenta solo una delle contraddizioni del capitalismo, tutte considerate nella loro fissità astorica. Anzi, sarebbe stata l'idealistica insistenza sulla «droga» della lotta di classe a condurre alla rovina il socialismo reale. Per la soddisfazione di Losurdo qualcuno se ne è accorto per tempo e, come Deng Xiao Ping, ha voltato pagina, correggendo le cadute «populiste» di Mao. E pazienza per l'«incidente» di piazza Tienanmen - causato secondo l'autore dagli avamposti occidentali del neoliberismo, e addio alla premessa sul carattere spurio dell'antagonismo, sacrificata alla logica dei processi di Mosca. Il socialismo si rivela così per quello che è: lineare continuità ed efficiente gestione del capitalismo, senza salti e cesure. Per questo la lotta di classe ne ha preso definitivamente congedo.

Losurdo critica perciò quella che definisce la «logica binaria»: classe contro classe. Insiste invece sulle divisioni all'interno dell'una e dell'altra. Quelle divisioni esistono certamente, ma non possono essere superate in modo dialettico, cioè assumendo in modo speculare e oppositivo l'identità che il nemico ci impone. Quei dispositivi vanno distrutti, essendo a loro volta il prodotto sempre mutevole della lotta di classe. Quella che Losurdo chiama «logica binaria» è così confermata. Sempre che si consideri la classe un concetto politico e non economico, cioè come il provvisorio risultato di un processo antagonista. Prima la lotta di classe, poi la classe. E sempre che si consideri la specificità dello sfruttamento capitalistico: qui la linea dell'antagonismo non passa genericamente tra oppressori e oppressi (il populismo che all'autore non piace) o nella guerra dei popoli che si fanno Stato attraverso la guida del partito (quello che apprezza), ma tra lavoro vivo e capitale.

Conflitto di forza

Ancora una volta, non è un problema di aderenza filologica ai «sacri testi». La lotta di classe condotta dal proletariato non è mai «dall'alto» o «dal basso», nella morsa tra autonomia del politico e tradeunionismo, perché la sua caratteristica è di creare un campo di battaglia tendenzialmente orizzontale: non più i subalterni contro i dominanti, ma forza contro forza. Il suo obiettivo non è il riconoscimento nella «famiglia umana», perché quell'umanità viene spaccata e ricreata dalla lotta di classe. Nella prassi e nell'orizzonte di questo scontro «binario» non c'è aufhebung (la sintesi dello Stato): c'è invece autonomia, rottura e separazione.

Ciò vuol forse dire ritornare a una marginalizzazione della molteplicità delle forme di lotta di classe? Al contrario, significa situarle e specificarle. Genere e razza, ad esempio, sono processi che si collocano non a fianco, ma pienamente dentro i rapporti di produzione, se di questi appunto non diamo una lettura economicista. Se cioè consideriamo il lavoro vivo nella sua totalità, fatta di soggettività e sfruttamento, potenza e povertà. Recentemente, i lavoratori della logistica in sciopero hanno nuovamente segnalato che è nella mobilitazione che il razzismo e le divisioni nazionali sono messe in discussione. Perché una lotta diviene di classe. Il movimento No Tav, ad esempio, non è «oggettivamente» lotta di classe: lo è diventato nella misura in cui ha saputo porre al centro il conflitto sui rapporti di produzione che passano per la messa a valore del territorio, la crisi, l'impoverimento, lo smantellamento del welfare. Non è una questione di coscienza, ma di materialità di condizioni di vita e processi di soggettivazione. A mobilitare non è l'interesse generale, ma l'irriducibile parzialità. Per Marx, per Lenin e per noi dentro queste coordinate si pone la questione dell'organizzazione: il nodo è lo stesso, però le forme di quelle coordinate sono cambiate in profondità. E a farle cambiare è stata, inutile ripeterlo, proprio la lotta di classe.

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