loader
menu
© 2025 Eddyburg

In molte regioni per concorrere all’assegnazione di una casa popolare è necessaria un’anzianità di residenza. Non è un criterio efficace per riequilibrare il rapporto fra italiani ed extracomunitari assegnatari. Ma potrebbe essere usato come premio, rivedendo il sistema di punteggi e graduatorie». Lavoce.info, 21 luglio 2015 (m.p.r.)

Case popolari: se l’anzianità di residenza vale un premio

D’ora in avanti per concorrere all’assegnazione di una casa popolare in Emilia-Romagna sarà necessaria un’anzianità di residenza nella regione di almeno tre anni. È una condizione già introdotta (anche con un numero di anni maggiore) in altre regioni, nel tentativo di contenere lo squilibrio, a favore degli immigrati extracomunitari, nella concessione degli alloggi pubblici in affitto.

È probabile che gli italiani percepiscano come più immediata la concorrenza degli extracomunitari sul fronte della casa che non su quello del mercato del lavoro: molti immigrati svolgono attività non più gradite ai nostri concittadini, mentre sono pochi gli italiani che rifiuterebbero un aiuto per la soluzione del problema della casa, soprattutto se consistesse nell’assegnazione di un’abitazione popolare a canone molto basso. Per questo i politici da diversi anni si propongono di limitare l’accesso degli immigrati extracomunitari alle agevolazioni per la casa. Iniziò il governo Berlusconi (decreto legge 112/2008, primo piano casa) precludendo la possibilità di beneficiare del contributo per il pagamento dell’affitto, ex lege 431/1998, agli inquilini non residenti da almeno dieci anni in Italia o da almeno cinque nella stessa regione.
Le regioni impugnarono presso la Corte costituzionale la quasi totalità delle previsioni di quel piano, ma non quella concernente l’anzianità di residenza che, anzi, applicarono ai soli immigrati extracomunitari. Lo fecero con tempestività anche tre (Toscana, Umbria e Marche) delle quattro regioni “rosse” del Centro-Nord; la quarta, l’Emilia-Romagna, si è adeguata quest’anno, stabilendo che l’anzianità di residenza debba maturare senza interruzioni (una restrizione rispetto alla previsione della norma statale). Indipendentemente da come la si pensi sul piano politico, la misura è di pronta efficacia. La ragione è semplice: poiché il contributo è erogato sulla base del possesso dei soli criteri per accedervi, senza alcuna graduatoria di merito, gli inquilini privi dell’anzianità di residenza richiesta non possono richiederlo e ottenerlo.
Una condizione a efficacia ridotta

Non si può, invece, scommettere sull’efficacia, nel riequilibrare il rapporto extracomunitari/italiani nell’assegnazione delle case popolari, della condizione (che sembra valere per tutti gli immigrati) dei tre anni di residenza introdotta dalla Regione Emilia-Romagna. L’effetto immediato della nuova norma sarà la riduzione del numero di immigrati che potrà concorrere ai bandi. Poiché il numero di alloggi da assegnare è generalmente un piccolo sottomultiplo del fabbisogno, si ridurranno anche le liste di attesa, ma non la tensione abitativa.

La condizione di extracomunitario non ha alcuna influenza nella formazione delle graduatorie, le quali riflettono le situazioni materiali delle famiglie. Su di esse hanno, invece, un peso rilevante la condizione economica, la numerosità e le varie forme di disagio degli aspiranti inquilini. Le condizioni delle famiglie extracomunitarie, anche dopo qualche anno di permanenza in Italia, sono mediamente peggiori di quelle delle famiglie italiane. È questa la ragione per cui il vincolo dell’anzianità di residenza ridurrà il numero di immigrati che ricevono una casa in misura meno che proporzionale rispetto al calo del numero di quanti potranno concorre ai bandi.

Un premio all’anzianità

Anche la riduzione di quest’ultimo numero potrebbe non essere rilevante. In passato, ho svolto delle elaborazioni sulle circa 800 famiglie in lista d’attesa per l’assegnazione delle case popolari in un medio comune emiliano che attribuiva un punteggio all’anzianità di residenza. Gli extracomunitari erano il 40 per cento del totale dei nuclei in graduatoria, mentre quelli residenti nel comune da meno di tre anni erano il 9 per cento; quest’ultima percentuale non arrivava all’1,5 per cento considerando solo le prime trecento posizioni della graduatoria e raddoppiava se l’anzianità di residenza anziché a tre fosse stata portata a cinque anni. Restringendo ulteriormente l’analisi alle prime cento posizioni, che sono quelle che danno a chi le occupa le maggiori probabilità di ottenere una casa, per contare i casi in questioni sarebbero state più che sufficienti le dita di una mano.

Occorre, allora, prendere atto che quello dell’anzianità di residenza è un criterio del tutto sterile rispetto all’obiettivo per il quale è stato pensato? Questa conclusione drastica sarebbe sbagliata, poiché il criterio, anziché come condizione per aver diritto al beneficio, può essere usato in funzione premiale. Alcuni comuni lo fanno già. Per amplificarne gli effetti è, però, necessario attribuire all’anzianità di residenza un peso rilevante nel sistema dei punteggi per la formulazione delle graduatorie e farlo variare, tra un minimo e un massimo, in misura più che proporzionale con gli anni di permanenza nel comune. Si premierebbero il radicamento nel territorio e il contributo, anche fiscale, alla comunità, senza esporsi all’accusa di discriminazioni etniche. In Emilia-Romagna e anche nel resto del paese.

Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2015

I senatori che ci hanno lavorato la descrivono come “uno schiaffo” al governo. Peccato contenga anche diverse carezze ai signori del cemento, soprattutto quelli che si arricchiscono, con pochi rischi, a spese dello Stato.

Ieri il Senato ha dato via libera a larga maggioranza (Sel e M5S si sono astenuti) alla legge delega sul nuovo codice degli appalti (passerà alla Camera). Il testo dovrebbe chiudere una certa stagione, quella degli scandali tipo Mose e delle cricche delle grandi opere, aprendo alla trasparenza, alle gare pubbliche etc. In parte le premesse sono mantenute, in buona parte no. Ieri a Palazzo Madama i senatori esultavano per aver “modificato in toto il testo del governo, che era un obbrobrio”. Poi però è arrivato anche un emendamento a firma dei relatori Stefano Esposito (Pd) e Lionello Marco Pagnoncelli (fittiano ex Fi) che sposta il baricentro a favore dei privati, e nell'iter sono rimaste alcune delle grandi anomalie che in Italia moltiplicano i costi delle grandi opere.

Andiamo con ordine. L’emendamento esclude i titolari di concessioni “in essere e future” affidate con la formula della finanza di progetto (il project financing) dall’obbligo di fare una gara pubblica per affidare “tutti i contratti di lavori, servizi e forniture relativi alle concessioni”, cosa che invece dovrà valere per tutti gli altri.

Ieri, il testo è stato riscritto esonerando anche le concessioni affidate con bandi di gara sul modello europeo, ma solo quelle già “in essere” (e non quelle future): tutto per evitare il ricorso di un colosso come Toto, che ha costruito così la sua Autostrada dei parchi. “Le critiche a questo emendamento non stanno in piedi – spiega Esposito al Fatto – perché a essere escluse dall’obbligo di gara sono solo le manutenzioni, non la costruzione dell'opera: un giro d'affari di soli 1,5 miliardi sugli 8,5 delle concessioni”. “Non è affatto così – spiega invece Ivan Cicconi, direttore dell’Istituto per la trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale, e grande esperto in materia – le manutenzioni rientrano nei ‘contratti di servizi’, mentre quelli dei ‘lavori’ comprendono assolutamente anche la costruzione dell'opera: è incredibile che l'abbiano scritto in questo modo”. Un esempio di come vengono fatte le leggi: toccherà ai decreti delegati – una volta approvata la legge delega – chiarire il pasticcio (o peggiorarlo).

Al project financing si sono appassionati anche Comuni e Regioni e funziona così: lo Stato non ha i soldi per realizzare un'opera, ci pensa allora il privato che verrà poi ripagato con la concessione di sfruttamento (o un canone d'affitto). Fin qui tutto bene. Solo che di norma questo non avviene quasi mai, vuoi perché spesso i prestiti ottenuti dal privato sono garantiti dallo Stato (è il caso dell'autostrada Brebemi, controllata da Intesa, coop rosse e dal costruttore Pizzarotti), vuoi perché al concessionario viene garantita una remunerazione, in caso le cose vadano male, molto generosa. “In questo modo le concessioni affidate con il project financing diventeranno sempre più convenienti – spiega Cicconi – e la beffa è che sono quelle su cui lo Stato ha meno voce in capitolo”. Come si aggiudica un’opera in project financing?

Il privato presenta un progetto, sulla base del quale l'Ente pubblico avvia una gara, e se la vince un altro riceve almeno un indennizzo. Peccato però che nel 90% dei casi chi presenta il progetto vince la procedura. “Una non gara”, per Cicconi: “Se il progetto lo scrive il pubblico, tu privato che vinci l’appalto puoi anche affidare a chi vuoi i lavori. Se invece lo scrivi tu, come nella ‘finanza di progetto’, dovresti essere obbligato a fare lavori con gara. La delega invece stabilisce il contrario”.

In pratica non verrebbe sanato il sistema che solo apparentemente fa finanziare le grandi opere dai privati, ma alla fine paga comunque lo Stato. Il project financing ce lo siamo inventati noi, non esiste nelle direttive europee. Nel ‘94 la legge Merloni, obbedendo alle indicazioni dell’Ue, stabilì che i contratti di concessione andavano remunerati con il “diritto allo sfruttamento”, accompagnato eventualmente da “un prezzo”, cioè un contributo dello Stato, che però non poteva superare il 50% dell'investimento. Nel 2002, la legge obiettivo del governo Berlusconi ha soppresso il limite: il prezzo può arrivare anche al 100%. “Così il rischio di mercato si azzera, quindi avrebbe più senso che ci fosse più attenzione sugli appalti”, continua Cicconi.

La delega abolisce poi l’articolo 5 dello Sblocca Italia, che permetteva la proroga delle concessioni senza gara, e resta anche la figura del general contractor, altra figura tutta italiana illuminata dall’inchiesta grandi opere: una specie di concessionario anomalo, che prende in appalto i lavori ma che viene remunerato non con il diritto di sfruttamento dell’opera ma con denaro, e quindi non ha interesse a contenere i costi. Il neoministro dei Lavori Graziano Delrio aveva invece promesso di abolirlo.

Un grande evento politico e culturale – di quelli che i nostri media normalmente ignorano per incompetenza e superficialità – rischia di passare inosservato ...>>>

Un grande evento politico e culturale – di quelli che i nostri media normalmente ignorano per incompetenza e superficialità – rischia di passare inosservato sotto le convulse vicende dello scontro politico dei nostri giorni. E' l’accordo sottoscritto dal Ministro per i Beni e le Attività culturali, Franceschini e dal Presidente della Regione Puglia, Vendola, che approva il Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (PPTR.). Si tratta del primo piano paesaggistico elaborato in attuazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio e della Convenzione europea del paesaggio, sottoscritta nel 2000, che raggiunge questo importante traguardo. In attesa che anche quello della Toscana, già ultimato, giunga in porto.

La Puglia dunque, una regione del nostro Sud, a livello programmatico, segna una svolta nella storia del rapporto tra la propria popolazione e il loro territorio con un progetto all'altezza di una grande pagina dell'elaborazione culturale europea dell'ultimo quindicennio. Alla costruzione del piano, hanno concorso - con il coordinamento di Alberto Magnaghi- amministratori, tecnici, imprenditori, associazioni culturali, ordini professionali, sindacati, singoli intellettuali. Il testo del Piano accenna, a questo proposito, alle «forti tensioni etiche di un ceto intellettuale cosmopolita» operante nelle città della Puglia, che hanno concorso a tale esito. Dunque, un grande laboratorio. attivo per diversi anni, i cui risultati meriterebbero una conferenza nazionale delle regioni italiane, per avviare una discussione generale, ma anche per innescare un movimento di imitazione e competizione tra i nostri amministratori, volto all'innalzamento degli orizzonti della politica territoriale nel nostro Paese.

Occorre dire, innanzi tutto, che il Piano rovescia la cultura territoriale che dal dopoguerra a oggi ha caratterizzato l'uso degli habitat della Puglia e dell'intero Mezzogiorno. Nel più nobile dei casi l'intervento pianificato ha visto nel territorio il neutro supporto per una industrializzazione importata dall' esterno, attraverso poli e nuclei di sviluppo, ma soprattutto la risorsa da consumare con fameliche e disordinate espansioni urbane. Un esito reso possibile dall'assenza di una cultura storica municipale, dalla pressione di forze economiche esterne, dai caratteri e dalle culture dell'imprenditoria locale ispirate a un «diffuso anarco-abusivismo privato», come si legge nel testo, accompagnato tuttavia anche da un «anarco-governo pubblico». Le istituzione pubbliche non sono state da meno nel rendere il territorio un contenitore vuoto da riempire con qualunque manufatto incarnasse un incremento economico.

Da quasi un decennio le cose sono cambiate in Puglia grazie al prezioso lavoro di Angela Barbanente, vicepresidente della Regione. Ma il Piano rovescia una lunga storia che va al di là del Mezzogiorno. Esso elabora orizzonti progettuali di grande ambizione, senza limitarsi alle aree monumentali e di pregio. Intanto mostrando come la pianificazione territoriale possa fare dell'eredità di bellezza e di lavoro - consegnataci nelle forme del paesaggio da numerose generazioni di contadini, architetti, urbanisti, imprenditori, artisti - non solo un percorso di nuove e sostenibili economie. Esso è certamente legislatore di divieti e di vincoli. Ad esempio, la costa è un bene comune di altissimo valore e non si costruisce più sulle dune e negli spazi agricoli. Le attività edificatorie si indirizzano verso l'interno al fine di rivitalizzare manufatti ed economie svuotate dall'esodo. In campagna si svolgono attività agricole, si fa ospitalità, ma non si deruralizza, né si impiantano capannoni industriali negli uliveti. «Regole certe e dure, ma proposte per creare un processo partecipativo vero, in grado di intercettare in modo coerente i mezzi tecnici, finanziari (ingenti!) e operativi di cui la Regione dispone, per nuove opportunità economiche».
Il piano è tutt'altro che una imbalsamazione dell'esistente. Esso si configura come un processo negoziale fra tutti gli attori in campo, senza centralismi soffocanti, chiama cittadini e imprese a partecipare attivamente realizzando economie compatibili, capaci di accrescere non solo i redditi individuali, ma anche i valori paesistici, il patrimonio comune. Esso si presenta come un vasto campo sperimentale di democrazia rappresentativa. Al suo interno sono previste istituzioni e strumenti di realizzazione, di cui non è possibile dar conto, come ad es. l’Osservatorio regionale per la qualità del paesaggio, l'Atlante del Patrimonio Ambientale, Territoriale e Paesaggistico, la Carta dei Beni Culturali, ecc. Un elemento di sicura originalità del Piano consiste nel fatto che le economie previste e incentivate si svolgono come agenti di potenziamento degli equilibri dell'habitat, di rigenerazione delle risorse, di tutela e restauro dell'esistente, di accrescimento dei valori paesaggistici, di estensione sociale del godimento della bellezza comune impressa nel patrimonio storico. Esso promuove filiere agroalimentari tipiche e di qualità, legate al territorio e ai paesaggi rurali storici, recuperando colture, culture e saperi locali ad essi connessi, «n forma non museale, ma funzionale ad un ripopolamento rurale in grado di promuovere qualità alimentare, ambientale, paesaggistica, urbana». L'accenno è alla produzione vitivinicola, olearia, alla frutticultura,ecc.
Al tempo stesso prevede il recupero delle produzioni artigiane (antica arte lapidea, della lavorazione del ferro, del legno); la riqualificazione degli immobili e delle aree compromesse o degradate, con la valorizzazione del reticolo policentrico di città d’arte piccole e medie che caratterizza i sistemi territoriali delle Puglie; l'incremento dell' autosufficienza energetica locale da fonti rinnovabili, grazie all'uso sostenibile delle energie presenti nel territorio (sole, vento, biomasse ecc); la ripresa dei sistemi tradizionali di conservazione e cura dell’acqua; lo sviluppo del turismo sostenibile come filiera integrata di ospitalità diffusa, culturale e ambientale; la promozione di progetti di cooperazione e scambio solidale “mediterranei”, che potenzi le peculiarità geografiche e storico-culturali della regione; l'incremento delle infrastrutture di mobilità, comunicazione e logistica di terra e di mare per la valorizzazione dei sistemi territoriali locali e la loro fruizione anche paesaggistica e turistica; il riconoscimento e la valorizzazione dell’immenso e pluristratificato patrimonio dei beni culturali; la tendenziale autoriproducibilità dei cicli dell’alimentazione (filiere corte fra produzione e consumo) dei rifiuti (rifiuti zero e riciclo della sostanza organica), dell’energia (produzione diffusa per autoconsumo) dell’acqua (equilibrio del bilancio idrico) e cosi via.
Sfidando la violenza omologante dei processi di globalizzazione, il PPTR ambisce a fondere in processi concorrenti e cooperanti le attività economiche, la salvaguardia dell'ambiente, la rigenerazione delle risorse, il restauro urbano, le culture locali, i monumenti urbani e rurali, la qualità conviviale del vivere insieme, la difesa della bellezza, la creazione di nuovo paseaggio. In una parola, il Piano non ambisce a promuovere sviluppo, come si dice da decenni, con un termine ormai sdrucito che testimonia l'esaurimento storico della cultura capitalistica dell'ultimo cinquantennio. Esso propone un percorso che porta a un nuovo assetto della nostra civiltà, progetta forme superiori di vita collettiva.
Il documento del Piano intanto mostra che cosa significa il termine paesaggio al di là delle retoriche correnti. Esso va «inteso non solo come veduta, “bello sguardo” ma indagato, decifrato si nella sua bellezza, ma soprattutto nelle regole della sua formazione storica, come specchio dell’anima dei luoghi e come teatro in cui va in scena l’autorappresentazione identitaria di una regione, “come parte essenziale dell’ambiente di vita delle popolazioni e fondamento della loro identità“ (art 5 della “Convenzione europea del paesaggio). In questa accezione esso è un giacimento straordinario di saperi e di culture urbane e rurali, a volte sopite, dormienti, soffocate da visioni individualistiche, economicistiche e contingenti dell’uso del territorio; ma che possono tornare a riempirsi di significati collettivi per il futuro. Il paesaggio è il ponte fra conservazione e innovazione, consente alla società locale di “ripensare se stessa”, di ancorare l’innovazione alla propria identità, alla propria cultura, ai propri valori simbolici, sviluppando “coscienza di luogo” per non perdersi inseguendo i miti omologanti della globalizzazione economica»,

Occorre, dunque, protendere uno sguardo lungo verso il futuro. Tutto il presente del capitalismo mostra una incontenibile tendenza: produrre sempre più merci con sempre meno valore. Avanza a scala mondiale una produzione standardizzata di beni sempre più vasta. Non è un caso che scompaiano i lavori e le professioni sostituibili con procedimenti automatizzati. Perciò il valore dei beni tende a rifugiarsi in ciò che non è standardizzabile, industrialmente riproducibile. Il nostro paesaggio, i nostri monumenti, la nostra storia, non sono replicabili, ma custodiscono una fonte inesauribile di valore. E non rappresentano delle nicchie, come amano dire riduttivamente gli sviluppisti: al contrario sono la nostra Arca, beni incontendibili dell'avvenire. Certo la Puglia, come qualsiasi altra realtà regionale e locale è un avamposto limitato. Nessuno può fermare la storia mondiale che avanza. Ma questa si può subirla, accettando gli interessi dominanti, soggiacendo alla sua furia omologatrice, o affrontarla da protagonisti, con progettualità, filtrandola e adattandola alla nostra storia originale, arricchendola dei nostri caratteri, contribuendo a valorizzare e a rafforzare, con una rete mondiale di alleati, gli elementi di emancipazione cosmopolita che essa pur sempre contiene.

L'articolo è stato contemporaneamente inviato al manifesto.

Vandana Shiva e Ilaria Agostini, l’ambientalista e l'urbanista, difendono la nuova legge urbanistica regionale, ferocemente attaccata da quanti, nei vari settori della società, sono interessati alla mercificazione del territorio. La Repubblica, ed. Firenze, 23 gennaio 2015

Sull’esempio della Germania e di altri paesi europei, la nuova legge urbanistica toscana 65/2014 (Norme per il governo del territorio), prima in Italia, impedisce ogni ulteriore consumo di suolo agricolo: è una legge ecologista, informata all’etica della terra, che oppone resistenza all’economia globalizzata delle multinazionali. Oggi, 2015, nell’anno internazionale del Suolo, la legge è bloccata, impugnata dal governo Renzi in nome della libera concorrenza: ostacolando la costruzione di ipermercati fuori dalle aree urbanizzate, contravverrebbe alla libertà di mercato.

Ma bloccare una legge che tutela terra e suolo non è solo una violazione del territorio e dei suoi caratteri peculiari. È una violazione del tessuto democratico: Roma eccede i limiti della sua giurisdizione e sovverte i diritti della Regione garantiti dalla Costituzione. È una violazione dell’economia locale e regionale basata sulla qualità, non sulle “merci-spazzatura” commerciate globalmente che distruggono l’occupazione nelle produzioni locali. È una violazione profonda della bellezza che è stata coltivata per secoli e che continua ad essere coltivata con la 65/2014; il mondo viene in Toscana non per i suoi malls, ma per la cura che è stata dedicata alla terra e al paesaggio.

Il suolo è la vita e ne è alla base, ma la civiltà industriale lo ha seppellito sia nelle menti che nel mondo reale, poiché è basata sull’arroganza dell’indipendenza dalla natura, e sull’illusione che a maggiore conquista, dominio e distruzione della natura corrisponda maggiore “sviluppo”. L’anno del Suolo costituisce, per l’Umanità, l’occasione per correggere i danni di cinque secoli di pensiero coloniale sul suolo extra-europeo come terra nullius, e di un centinaio di anni di agricoltura industriale basata su fertilizzanti chimici che distruggono suolo e società, espellendo le popolazioni rurali dalla terra e deportandole negli slums.

Oggi almeno la metà della popolazione mondiale vive in città e l’inurbamento pare inarrestabile. L’urbanizzazione incontrollata, formidabile dissipatrice di energie, è incapace di far fronte ai cambiamenti climatici e ne è anzi tra le cause. È perciò essenziale un cambio di paradigma economico: l’economia circolare, che chiude i cicli senza produrre rifiuti, deve sostituire l’economia lineare industriale. In quest’ottica, la base agroalimentare urbana è ancorata alla bioregione, e l’autoproduzione si attua negli orti intramuros e nei parchi agricoli sull’esempio di Milano Sud, e del previsto parco della Piana (FI-PO); il ripopolamento e la riconfigurazione dell’habitat rurale garantisce l’accesso delle popolazioni contadine ai servizi e ai vantaggi dell’urbanità, e incrementa la formazione di cultura autonoma. Il modello gandhiano policentrico si profila come soluzione allo sprawl: una costellazione di centri medio-piccoli, autonomi e interdipendenti, riduce i consumi dovuti agli spostamenti metropolitani; la vicinanza dei gangli politici aumenta la partecipazione democratica; la limitatezza del fronte urbanizzato favorisce l’osmosi tra città e campagna.

È necessario un nuovo patto col pianeta e col suolo. Un patto che riconosca che noi siamo il suolo, che proveniamo dal suolo, che da esso siamo nutriti. Questa è la nuova rinascita, è la consapevolezza che il suolo è vivo e che prendersene cura è il lavoro più importante svolto dai contadini. Dalla cura del pianeta, obbiettivo primario, discende il cibo buono e nutriente, da suoli sani. Quando sarà riconosciuto il ruolo fondamentale dei contadini nella salute umana e nella fertilità dei suoli, l’agricoltura cesserà di essere terra di conquista da parte di industrializzazione e urbanizzazione. I contadini, remunerati per il loro ruolo ecologico e sociale, rimarranno sulla terra e non si trasferiranno come profughi nelle aree urbane. Un nuovo equilibrio tra città e campagna scaturirà dal nuovo patto con il suolo.

Vandana Shiva è tra i fondatori dell’Internationale Forum on Globalisation; Ilaria Agostini insegna urbanistica all’Università di Bologna

In contrasto con la politica del territorio del governo Renzi la legge urbanistica toscana. La componente territorialista, il rigore delle prescrizioni, esempio per altre regioni che vogliano combattere il devastante consumo di suolo e restituire visione lungimirante al governo del territorio.
Nel clima di disfacimento dei valori democratici, sociali e ambientali che per più di mezzo secolo hanno sovrainteso all’urbanistica nazionale, la nuova legge urbanistica toscana (n. 65/2014, Norme per il governo del territorio), tenacemente voluta dall’assessore Anna Marson, oppone resistenza.

La legge è impostata sui principi di cura della città e del territorio, di riproduzione dei paesaggi regionali, di incremento delle pratiche partecipative e di interdipendenza delle comunità locali nel quadro della pianificazione sovracomunale. Al centro dell’architettura concettuale della nuova disposizione legislativa è il raggiungimento di un equilibrio stabile tra urbano e rurale, che si realizza a partire dalla presa d’atto del ruolo multifunzionale giocato dall’agricoltura nella salvaguardia idrogeologica, nel mantenimento della qualità paesaggistica e della biodiversità, e nell’incremento del benessere diffuso (anche economico) della popolazione. Il contenimento del consumo delle terre fertili, in quest’ottica, risulta perciò improrogabile.

Il superamento dell’idea di territorio come supporto inerte, o tabula rasa, assunto precipuo dell’urbanistica meccanicista, risulta finalmente compiuto. L’attribuzione di valore culturale all’ambiente rurale, ipotesi che costituisce lo scatto in avanti dell’approccio “territorialista”, è assicurata dalla definizione di «patrimonio territoriale» quale «insieme delle strutture di lunga durata prodotte dalla coevoluzione fra ambiente naturale e insediamenti umani, di cui è riconosciuto il valore per le generazioni presenti e future» (art. 3). Il cambio di paradigma promosso dalla legge è contenuto proprio nel passaggio dai concetti economicisti di “risorsa” e “prestazione territoriale” (impiegati nella passata legislazione) a quello di patrimonio territoriale, di matrice ecologista. Il richiamo alla «promozione» e alla «garanzia di riproduzione del patrimonio», inteso come bene comune territoriale, conferisce un’accezione genetico-evolutiva ai futuri atti di pianificazione.

L’articolato di legge conferma la bipartizione del piano regolatore comunale in parte statutario-strategica e parte operativa, ossia in «piano strutturale» e «piano operativo». Quest’ultimo, in sostituzione del vecchio regolamento urbanistico, disciplina l’attività urbanistica ed edilizia ed ha valenza conformativa dell’uso del suolo. Il piano strutturale contiene invece lo «statuto del territorio» da costruire con la partecipazione dei cittadini in quanto «atto di riconoscimento identitario mediante il quale la comunità locale riconosce il proprio patrimonio territoriale e ne individua le regole di tutela, riproduzione e trasformazione» (art. 6). All’interno del piano strutturale sono individuate quindi le strategie di disciplina e di trasformazione, tra le quali spicca l’innovativa perimetrazione delle aree urbanizzate, che merita di essere qui approfondita.

Si tratta in effetti di una “linea rossa” tracciata tra città e campagna (l’espressione è di Vezio De Lucia), che definisce con perentorietà il territorio urbanizzato, costituito «dai centri storici, le aree edificate con continuità dei lotti a destinazione residenziale, industriale e artigianale, commerciale, direzionale, di servizio, turistico-ricettiva, le attrezzature e i servizi, i parchi urbani, gli impianti tecnologici, i lotti e gli spazi inedificati interclusi dotati di opere di urbanizzazione primaria» (art. 4). A partire dall’entrata in vigore della legge, ogni nuova edificazione residenziale al di là della linea rossa – cioè sui terreni agricoli e fertili – sarà interdetta. Oltre tale linea, nuovi progetti per edifici produttivi e per grandi strutture di vendita costituiranno oggetto di verifica di conformità alle previsioni del PIT (piano di indirizzo territoriale) da parte di una «conferenza di copianificazione» nella quale il parere sfavorevole della Regione è vincolante (art. 25, c. 6). Resta valido comunque il principio che «nuovi impegni di suolo a fini insediativi o infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti».

Tuttavia, questo nuovo capitolo dell’urbanistica regionale toscana è oscurato dall’ombra lunga delle politiche governative e rischia di esserne travolto. Il progetto di legge Lupi (presentato nel luglio scorso) e la riforma, approvata in Senato, dell’art. 117 della Costituzione (che conferisce potestà esclusiva in materia urbanistica allo stato, ora invece concorrente tra stato e regioni) sono indirizzati all’indebolimento degli spazi democratici nel governo del territorio.

Importanti deformazioni della disciplina urbanistica sono in realtà già contenute nel DL 133/2014, detto “Sblocca Italia”, che ha trasformato in senso privatistico l’accordo di programma, attribuendo (con l’art. 26) valore di variante urbanistica a quelle convenzioni tra enti pubblici finalizzate alla realizzazione di progetti di recupero di immobili demaniali, in vista di una loro alienazione; a tali progetti, cui può ora partecipare anche il privato, è attribuito carattere di «pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza», o, per meglio dire, di “privata utilità”, naturalmente in deroga ai piani comunali.
L’art. 33 del decreto prefigura l’inquietante «commissario straordinario per la rigenerazione urbana» nominato dal capo del governo che indicherà anche le aree da rigenerare («sentita la conferenza stato-regioni»): un’anticipazione, «sulla base del principio di sussidiarietà» (sic, comma 2), del trasferimento della titolarità urbanistica dal livello locale a quello statale, previsto nel riformando 117.
La bozza Lupi, dal canto suo, è un provvedimento di taglio squisitamente economico-finanziario – in odor di eversione – completamente astratto dalla realtà strutturale – fisica e sociale – del territorio italiano. Con l’istituzione dei crediti edilizi esso favorisce la consustanzialità di proprietà privata e diritto a edificare; con peculiari meccanismi fiscali indebolisce i consolidati strumenti della pianificazione generale; con la disapplicazione degli standard istituisce una disparità di fatto tra le regioni italiane; con la compensazione economica alle limitazioni poste alla proprietà privata dai piani urbanistici, sottrae legittimità alla pianificazione. In mezzo a questa furia demolitrice, la legge toscana rappresenta un’importante costruzione disciplinare, dall’auspicabile efficacia applicativa. Prendano esempio i governanti di stato.

Finalmente una buona notizia! Grazie all'assessore Anna Marson e al presidente Enrico Rossi la Regione Toscana é la prima regione italiana che ha una buona legge per il governo del territorio. Quando si vuole si può, sebbene si debba remare vigorosamente controcorrente. Adesso é ancora più importante fermare la proposta di legge nazionale di Maurizio Lupi

Una legge di svolta, prima legge urbanistica regionale
che tutela il territorio agricolo contro il consumo di suolo

FIRENZE - «Una legge di profonda svolta, e non scontata, che mette la Toscana all'avanguardia
nelle politiche del governo del territorio. Con questa legge la Toscana potrà andare a testa alta nel
dibattito nazionale e essere di esempio».

Lo ha detto in Consiglio il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, sulla nuova legge -
appena approvata - sul governo del territorio, che riforma le legge urbanistica del 2005, facendo
leva sul freno al consumo di nuovo suolo, sulla riqualificazione dell'esistente nei terreni urbanizzati,
sulla tutela del territorio agricolo da trasformazioni non agricole, e sulla pianificazione di area vasta.
«Con l'approvazione di questa legge lungimirante che consentirà alla Toscana uno sviluppo di
qualità, diamo dignità e forza alle istituzioni. La Toscana ce la fa ad andare oltre gli interessi
particolari e afferma un punto di vista più alto. Nel tutelare il territorio per le prossime generazioni,
sembra quasi ispirarsi a una idea di politica come 'arte del rimedio' secondo la formulazione di
Machiavelli». Rossi ha voluto togliersi anche un sassolino dalle scarpe. «Da oggi i cambiamenti di coltura si potranno fare senza licenza. E lo sottolineo soprattutto ai sindaci del Chianti che tante polemiche hanno fatto sul piano del paesaggio. Non piace a nessuno essere identificato come nemico
dell'agricoltura, tanto più che oggi presentiamo una legge che il territorio agricolo lo tutela».

Anche l'assessore Anna Marson ha insistito sul fatto che «questa nuova legge pone la Toscana come
innovatrice rispetto a un dibattito nazionale che vede più proposte di norme per contrastare il
consumo di suolo. Una innovazione intesa come riforma delle regole che avvicina la Toscana alle
più avanzate normative europee». «Il lavoro che ha portato all'approvazione di questa legge è stato lungo e dialettico – ha detto ancora l'assessore - e ha visto l'impegno di molte persone. In questo percorso ci sono state modifiche che non hanno però inficiato l'impostazione iniziale, e sono orgogliosa che alcuni principi e dispositivi siano divenuti, come è emerso da molti degli interventi in aula, patrimonio comune».

Una argomentata replica di Daniela Poli a un articolo di Saverio Mecca, direttore del dipartimento di Architettura dell'Università di Firenze (riportato in calce), a proposito del piano paesaggistico della Toscana. ancora una difesa del piano sottoposto alle bordate dei neoliberisti pratici della Toscana, cui si aggiunge qualche esponente dell'accademia

Caro direttore,

ti scrivo perché avendo coordinato un gruppo di ricercatori del Centro Interuniversitario di Scienze del Territorio per il piano paesaggistico della Regione Toscana sono rimasta stupita e amareggiata dall'articolo a tuo nome che è apparso il 9 ottobre sul quotidiano Repubblica (in calce), dopo peraltro che si era già sviluppata una feroce campagna stampa di delegittimazione non tanto degli aspetti sostantivi del piano (poco richiamati in tutti gli articoli), ma dell’approccio complessivo che li sostiene.

Non discuto naturalmente della legittimità di comunicare pubblicamente il tuo pensiero personale. Figurando però l’articolo firmato nella tua qualifica di direttore di dipartimento ciò ha coinvolto oggettivamente il lavoro del CIST che ha sede proprio nel dipartimento di Architettura da te diretto e
con cui Regione Toscana ha stipulato un accordo istituzionale che ha previsto più di cinquanta borse (fra assegni, borse di studio, contratti) per un importo che complessivamente supera il milione di euro – compenso peraltro interamente utilizzato per il compenso dei ricercatori, poiché i docenti del CIST hanno tutti collaborato gratuitamente.

Nel tuo articolo indirizzi le tue riflessioni e richieste alla Giunta e al Consiglio regionale, ma nel farlo critichi radicalmente l’impostazione scientifica e culturale del piano che è stata oggetto proprio dell’accordo fra CIST e Regione - pur senza mai citarlo. Quando descrivi la debolezza di “politiche pubbliche solo conservative, sganciate da progetti di futuro condiviso e possibile” che “affidano la tutela solo a normazioni e vincoli ‘statici’ o legati a modelli di riferimento estetici o ecologici da sovraordinare ai processi economici e sociali e alle comunità locali” entri nel merito dell’architettura del piano alla cui definizione ha collaborato il CIST.

Nell’articolo scrivi che il materiale conoscitivo prodotto fino ad oggi è “utile e necessario” e non eccellente, ottimo e nemmeno buono (per riferirci alle valutazioni a noi note delle tesi di dottorato) ma casomai sufficiente. Ma comunque al di là del gradiente dell’apprezzamento non sarà facile far capire alla collettività e allo stesso ente pubblico, con i tagli alle spese sempre più ingenti, che quel lavoro “utile e necessario” non debba concludersi con l’approvazione del Consiglio, dopo essere già stato approvato anche dal Ministero, ma col suo “ritiro” come tu prospetti. Sinceramente dubito che la Regione Toscana continuerà a trovare affidabile per future ricerche un partner universitario come il CIST e lo stesso DIDA che si delegittima da solo. Ciò, al netto del danno rilevante di immagine arrecato a tutti i membri del CIST nonché alle relazioni faticosamente costruite all’interno dell’ateneo fiorentino e con le altre quattro università della Toscana (ateneo di Pisa e Siena; Scuola Superiore Sant'Anna e Scuola Normale di Pisa).

Entrando poi nel merito dell’articolo, come dicevo in apertura, sono rimasta stupita perché non conoscevo la tua attenzione verso le tematiche “partecipative”. Ho avuto modo di vedere in questi anni soprattutto la tua “verve decisionista”, ma certamente sarà una mia mancanza e ben venga questa sensibilità verso argomenti sempre più importanti per la pianificazione e la progettazione architettonica, urbana e territoriale. Il tema della partecipazione alla formazione di uno strumento di piano è tema complesso, ostico e molto dibattuto nella comunità scientifica.

Come sai – se non altro per aver avuto la gentilezza di presentare il testo a mia cura che documenta la prima fase della ricerca nella quale l’approccio culturale e scientifico al piano era ben delineato – si è consolidata fra urbanisti e non solo una corrente di pensiero che ha espresso la necessità di estrarre dal processo di formazione dei piani lo Statuto del Territorio, cioè il luogo dove secondo la legge toscana si devono individuare secondo modalità “partecipative” le invarianti e le risorse che stanno alla base delle identità del territorio: questo proprio per non dover sottostare ai tempi spesso ristretti del piano e per garantire il pieno dispiegamento delle pratiche necessarie alla costruzione di un senso collettivo. La legge urbanistica toscana prevede però adesso che lo Statuto stia dentro i tempi strettissimi del piano e in particolare di questo piano: poco più di un anno di lavoro. Non c’erano alternative, o proseguire con la convenzione alla quale tu stesso avevi dato avvio durante l’assessorato di Riccardo Conti, oppure abbandonare.

Abbiamo deciso di andare avanti cercando di trovare il modo per migliorare quanto di problematico c’era nella prima versione del piano paesaggistico - come a suo tempo evidenziato dallo stesso Ministero che allora non lo approvò. Nelle ristrettezze di tempo il team del piano ha svolto un’intensa
attività di informazione e comunicazione, con diversi tour che hanno toccato tutti gli ambiti territoriali; campagna accompagnata dalla concertazione con gli istituti e gli enti che già la legge toscana prevede.

Una migliore comunicazione della “retorica” del piano sarebbe certo stata utile per la sua miglior comprensione e sicuramente questa mancanza può aver creato danno all’immagine complessiva del lavoro. Ma scientificamente è utile mantenere distinte la “retorica” del piano con i contenuti e con la coerenza metodologica che ha portato alla definizione delle invarianti strutturali, dei valori, delle criticità e degli obiettivi di qualità.

Ma ciò che mi ha più colpito nel tuo articolo non è stata tanto la lunga dissertazione sulla partecipazione, ma la delegittimazione del ruolo della politica da un lato e delle politiche pubbliche dall’altro. Molti dei nostri studenti del Corso di Laurea di Empoli hanno letto nel tuo intervento una marginalizzazione della formazione del loro Piano di Studi con la quale stanno acquisendo competenze innovative e multidisciplinari nel campo della pianificazione e sono rimasti interdetti, non capendo quale sarà il loro futuro all’interno di una società come quella che tu descrivi. Infatti l’articolo fa riferimento a un paesaggio “metastorico” nel quale le decisioni e le trasformazioni sembrano essere avvenute “spontaneamente” in un intreccio di motivazioni sociali, economiche, culturali.

E’ notoriamente risaputo che in contesti ad alta densità legislativa come il nostro la definizione di regole d’uso della città e del territorio erano normate da istituti disparati, complicati e sovrapposti di natura pluriordinamentale per dirla con Paolo Grossi. Non mi posso qui dilungare su un tema centrale che rimette nella giusta prospettiva storica la pianificazione e la progettazione del paesaggio, ma il semplice rimando agli affreschi trecenteschi dell’Ambrogio Lorenzetti con la relazione fra le forme del paesaggio e il buon governo comunale la dice lunga su questo connubio. Gli statuti comunali, gli usi collettivi del bosco, i vari regolamenti minerari o quelli legati al pascolo definivano regole d’uso per garantire la riproduzione delle risorse del territorio.

Alle prime legislazioni di tutela dello stato post-unitario (1905, 1920) si sono affiancati poi i “piani paesaggistici” (1939, 1985) richiesti in primo luogo dai soprintendenti in seria difficoltà rispetto alle autorizzazioni paesaggistiche da concedere a chi ne faceva richiesta. Ma questa è la vecchia pianificazione del paesaggio, quella che dava una cornice alle aree vincolate per decreto o per legge. Nei piani di nuova generazione (dal 2004 in poi in ottemperanza del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) è tutto il territorio che deve essere studiato e valutato per individuare obiettivi di qualità e normative d’uso riferiti agli ambiti di paesaggio.

Se quella che chiami “Carta Europea del paesaggio del 2000” è in realtà la “Convenzione Europea del paesaggio” firmata a Firenze nel 2000 e sottoscritta dagli stati membri nel 2006 è noto che non si parla di generica partecipazione dalla quale discendono “naturalmente” indirizzi, ma si fa riferimento alla necessità di mettere in atto politiche, obiettivi, forme di salvaguardia, di gestione e di pianificazione. In particolare queste ultime sono indicate come “azioni fortemente lungimiranti, volte alla valorizzazione, al ripristino o alla creazione di paesaggi”.

Si tratta di azione pubblica e non di una delega diretta vagamente populista alle forze sociali e ai poteri che dovrebbero essere in grado senza bisogno della “discriminazione positiva” nei confronti di chi ha una voce più debole degli altri di produrre paesaggio come “esito di processi sociali ed economici, culturali e di ‘potere’ che prendono corpo sul territorio e nelle città” come tu scrivi. Senza questa attività di mediazione e ricomposizione, di individuazione dei beni comuni e degli interessi pubblici da parte sia della politica sia delle scienze del territorio e della pianificazione nei fatti sarà chi ha potere economico e disposizione sulla proprietà, cioè rendita immobiliare e grande impresa, a fare paesaggio (come d’altronde rivendicano apertamente portatori di interessi particolari quali le lobbies dell’agroindustria o le imprese dei cavatori apuani).

Ancora più delegittimante appare il modo con cui riferisci il lavoro svolto dal CIST in ordine all’individuazione degli obiettivi di qualità e delle azioni necessarie per implementarli. Parli come, ho già richiamato sopra, di politiche conservative, vincolistiche e estetizzanti, sganciate dai processi economici.

Questa ricostruzione getta discredito sull’attività di tutti gli scienziati del territorio (docenti, ricercatori,contrattisti e tirocinanti) che hanno partecipato con passione e dedizione a questa ricerca intendendo invece superare proprio quella visione vincolistica indirizzandosi verso una cultura statutaria di regole per le trasformazioni future. Immagino avrai letto integralmente i documnti del piano prima di esprime un giudizio così forte e non ti sia limitato alla vulgata che appare sui quotidiani (esaltata in termini diffamatori dal Foglio e dal Giornale) o alle osservazione depositate dagli ordini professionali. Ma evidentemente il messaggio non è arrivato nella maniera corretta.

Ai vari documenti del piano (in cui il CIST ha riunificato competenze diverse che vanno dall’archeologia, alla storia, alla geografia, alla geologia, all’urbanistica, all’architettura, all’ecologia, alla storia dell’arte, all’economia agraria, alla pedologia, ecc.) non ha lavorato una setta o un’accolita minoritaria, ma un gruppo di scienziati che hanno avuto come finalità la comprensione e valutazione delle dinamiche ecologiche, territoriali e paesaggistiche, privilegiando l’intreccio fra dimensione storico-strutturale, ecologica ed estetico percettiva.

Il piano in fondo ha inteso definire una base certa e scientificamente fondata per la futura manutenzione e trasformazione del territorio toscano, partendo dai valori, ma anche dalla tante criticità presenti. Il paesaggio toscano è fortemente a rischio e non solo idrogeomorfologico, ma anche economico, ecologico e paesaggistico. I molti scempi che sono stati realizzati in Toscana (dalle cave che stanno erodendo le Alpi Apuane, all’urbanizzazione lungo gli alvei fluviali, alle urbanizzazioni di bassa qualità, ai paesaggi sempre più banalizzati, ecc.) sono stati perpetrati perché la legislazione lo permetteva, perché non c’erano indirizzi che consentissero di trasformare e di fare attività economica rispettando e valorizzando i fondamenti complessi del paesaggio.

I documenti del piano intendono fornire conoscenze e opportunità per voltare pagina, perché non ci siano città e territori allagati come oggi Genova, ieri la Lunigiana o la Sardegna e l’altro ieri Campi Bisenzio, perché l’agricoltura costruisca nel suo farsi un bel paesaggio utilizzando tutti gli incentivi provenienti dal Programma di Sviluppo Rurale, perché le città possano vedere riqualificati i propri margini e gli water front.

Le tante persone che hanno lavorato assieme non hanno infatti redatto solo belle cartografie (anche se vale la pena ricordare il premio che un’istituzione statunitense ha conferito alle carta dei caratteri del paesaggio della Toscana, che inorgoglisce tutto il gruppo di lavoro), ma hanno costruito un quadro conoscitivo importante imperniato sulla definizione delle quattro invarianti che costituiscono il piano, ossia i caratteri idro-geomorfologici dei sistemi morfogenetici e dei bacini idrografici (la struttura fisica fondativa dei caratteri identitari alla base dell’evoluzione storica dei paesaggi della Toscana), i caratteri ecosistemici del paesaggio (la struttura biotica che supporta le componenti vegetali e animali dei paesaggi toscani), il carattere policentrico e reticolare dei sistemi insediativi, infrastrutturali e urbani (la struttura dominante il paesaggio toscano risultante dalla sua sedimentazione storica dal periodo etrusco fino alla modernità), i caratteri identitari dei paesaggi rurali toscani. Ognuna delle quattro invarianti ha definito indirizzi, che sono una sorta di manuale d’uso del territorio, non “staticità” o “vincoli” ma una gestione consapevole, mediante la quale continuare nella costruzione dei diversi paesaggi toscani mantenendone riconoscibilità e struttura.

Mi dispiace che anche tu pur di formazione urbanistica utilizzi in maniera ambigua il termine “vincolo”. Nel piano regolatore come tu ben sai i “vincoli” sono limitati alle zone da espropriare (ormai praticamente inesistenti e sostituite dalle pratiche perequative) o alle zone o aree notificate o tipologie specifiche per finalità di tutela (servizi e utilità pubbliche, beni culturali, vincolo paesaggistico) questi ultimi necessitanti come noto di una relazione per poter effettuare le trasformazioni richieste. Nel piano paesaggistico ora in approvazione i “vincoli” sono limitati alle aree individuate per decreto o per legge dove vigono prescrizioni: non a tutto il territorio, dove appunto vigono indirizzi e direttive che definiscono regole per la trasformazione. Il poderoso impegno scientifico del gruppo di lavoro è invece stato quello di far scaturire in maniera interdisciplinare dalle quattro invarianti e dalle altre elaborazioni e attività gli obiettivi di qualitàfinalizzati a dare regole d’uso (e quindi di recupero, di salvaguardia, di trasformazione) del territorio.

Naturalmente se per “vincolo” si intende un “indirizzo per le politiche” quale quello presente nell’ormai famoso ambito del Chianti che recita: “Gli obiettivi a livello di ambito per l’invariante ecosistemi sono finalizzati principalmente a mitigare e limitare i processi di perdita degli ambienti agropastorali tradizionali, evitando la diffusione estensiva di nuovi vigneti specializzati in ambito collinare, a ridurre i processi di urbanizzazione nelle aree di fondovalle e quelli di ricolonizzazione arbustiva e arborea negli ex ambienti pascolivi dei crinali montani”, allora è tutto un vincolo: lo è anche il legame sociale che regola l’uso della strada e richiede agli individui di fermarsi col rosso. Lo sono per estensione tutte le norme sociali anche non scritte che consentono la vita associata. Mi chiedo infatti chi potrebbe scrivere che gli obiettivi per il Chianti dovrebbero essere finalizzati “a incentivare i processi di perdita degli ambienti agropastorali tradizionali, a diffondere estensivamente i nuovi vigneti e le urbanizzazioni di fondovalle” e così via.

Credo sinceramente nessuno degli appartenenti alle comunità locali lo farebbe, vista anche la crescente sensibilità ambientale e paesaggistica diffusa nella popolazione. Chi osteggia l’impostazione culturale e scientifica che sorregge il piano non va ricercato fra gli abitanti, gli agricoltori medi e piccoli, la cittadinanza attiva, gli imprenditori consapevoli - che peraltro hanno presentato diverse osservazioni per chiedere maggiore tutela e una normativa più stringente - ma fra i portatori di interessi forti.

La bagarre di questi giorni, nella quale tu sei intervenuto con la tua voce autorevole, cerca semplicemente di discreditare una nuova cultura interdisciplinare della pianificazione del territorio nella quale le ragioni del territorio e del paesaggio sono messe in luce con l’intendo di sostenere forme di governance attente a non lasciare il potere unicamente a quelle lobbies normalmente silenti che cercano di governare senza dare troppo nell’occhio. Il clamore, il discredito, la violenza non fanno altro che convincermi che stiamo percorrendo una strada di rinnovamento importante.

Non so certamente quale sarà la stesura finale del piano e che fine farà il lavoro del CIST, ma rivendico il portato scientifico e la robustezza della metodologia seguita nella collaborazione alla redazione del piano. Rivendico anche lo sforzo che tutti abbiamo compiuto nel consegnare in maniera leggibile alla popolazione toscana le ragioni della bellezza che in molti hanno la fortuna di vivere ogni giorno e le ragioni delle tante criticità che offendono i luoghi e i loro abitanti.

Sono disponibile e ben felice di discutere con te, con tutto il consiglio e con i nostri studenti di questo lavoro bello e faticoso che collettivamente abbiamo svolto per uno sviluppo coerente e consapevole della Toscana e del suo paesaggio.

Amichevolmente

Daniela Poli è docente di Pianificazione e Progettazione del Territorio e del Paesaggio del Dipartimento di Architettura – Università di Firenze. E componente del Comitato Scientifico del CIST


La Repubblica di Firenze, 9 ottobre 2014

Fermate il Piano paesaggistico, la parola ai toscani
di Saverio Mecca

L'ambiente, la città e il territorio sono costruzioni umane, le principali strutture complesse con cui l’uomo trasforma la natura e l'addomestica. Il paesaggio ne è un’espressione, parziale e dinamica, perché al modificarsi dell’economia, della società e delle conoscenze, anche il paesaggio muta e si trasforma in un processo continuo ed incessante, diventando “altro” insieme ai suoi abitanti. Ma cambia nel tempo anche la percezione individuale e collettiva del paesaggio e, con questo, cambia il valore che gli viene assegnato.

Il nodo del paesaggio sta proprio qui: non è, e non può essere, il prodotto cosciente di una deliberata strategia e di azioni conseguenti assunte da un decisore illuminato, ma l’esito di processi sociali ed economici, culturali e di “potere” che prendono corpo sul territorio e nelle città. Il paesaggio è un costrutto sociale e culturale che deve essere riconosciuto, identificato e governato prioritariamente dalle popolazioni che lo vivono, come afferma la Carta Europea del Paesaggio del 2000, che ha ripreso il concetto di “living heritage”, e ha indicato una tutela, una valorizzazione e una partecipazione legate inesorabilmente insieme tra loro.
La Carta, infatti, presupponendo che il paesaggio sia l’esito dell’azione di fattori naturali e umani e della loro interrelazione culturale, individua un ruolo fondamentale negli attori che agiscono sui territori, affidando alla partecipazione degli abitanti, delle istituzioni e delle varie categorie sociali, economiche e culturali dei luoghi l’individuazione e valutazione dei paesaggi e la definizione degli obiettivi di qualità paesaggistica, caratterizzandone la dimensione soggettiva, relazionale, dinamica. In una società in continuo cambiamento le politiche pubbliche solo conservative, sganciate da progetti di futuro condiviso e possibile, sono deboli e, forse, anche effimere, in particolare se affidano la tutela solo a normazioni e vincoli “statici” o legati a modelli di riferimento estetici o ecologici da sovraordinare ai processi economici e sociali e alle comunità locali.
Questo è il nodo del piano paesaggistico che aveva, e continua ad avere, davanti a sé non tanto la Regione Toscana, la sua Giunta e il suo Consiglio, quanto l’intera società toscana. La vera sfida culturale, scientifica e tecnica che abbiamo di fronte è integrare la dimensione del paesaggio nelle politiche di sviluppo economico, di pianificazione del territorio e urbanistiche, fino a quelle del progetto architettonico e delle opere pubbliche in genere, e in quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico, a tutti i livelli del governo locale. Il dibattito che è sorto negli ultimi mesi temo che indichi che questo nodo il Consiglio Regionale non lo ha colto.
Ma il nodo andava affrontato, e dovrà essere risolto, partendo dal basso, dalle comunità degli abitanti, dalle loro rappresentanze ed organizzazioni, dai professionisti e dagli esperti, costruendo un processo di responsabilità e partecipazione, di conoscenza condivisa, di appropriazione dei caratteri e dei valori, nei luoghi e nelle comunità, sostenendone le capacità di progettazione e di governo, anche delle strategie di vincolo e di protezione. Proprio come ci invita a fare la Carta Europea del Paesaggio, sottoscritta a Firenze nel 2000 e recepita nel nostro ordinamento dalla legge n. 14 del 2006.
Il lavoro conoscitivo svolto è utile e necessario, ma ora è doveroso fermarsi, annullando l’adozione del Piano, per dare la parola, l’iniziativa e la responsabilità alle comunità perché il Piano paesaggistico nasca secondo i principi della Carta Europea del paesaggio e ancor più della Convenzione Unesco per la Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, ratificata dall’Italia nel 2007. È utile insomma un giusto coraggio politico, una nuova visione culturale, una determinazione di governo e una disponibilità di risorse perché si avvii una nuova fase centrata sulla partecipazione e progettazione responsabile delle comunità locali.
L’autore è direttore del Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze

E' necessario «superare l’idea che il paesaggio e l’ambiente siano un settore. Con il PIT toscano il paesaggio e l’ambiente diventano elementi con i quali confrontarsi per la definizione di scelte di pianificazione territoriale, degli indirizzi strategici e per lo sviluppo socio economico». Il Corriere fiorentino, 8 ottobre

L’adozione del nuovo Piano di indirizzo territoriale regionale (PIT), chiamato Piano paesaggistico forse per sminuirlo, ha scatenato reazioni da parte di gruppi di interesse, associazioni, Enti locali, sindacati, professionisti più basate su un immaginario piuttosto che sugli effettivi contenuti del piano, tanto da ritenere che vi sia un interesse nel demolirlo, estraneo alla propria funzione. Basti pensare che il Piano si suddivide in due parti: Statuto del territorio e Strategia dello sviluppo delle quali solo la prima è stata modificata, mentre la seconda è rimasta invariata rispetto al PIT del 2007, con tutti i vari porti, approdi turistici, corridoi autostradali, aeroporti, (molti programmati negli anni 80 del secolo scorso), dei quali niente si è sentito dire dai vari critici. La più significativa di queste proteste è stata quella dei viticoltori, un vero e proprio regalo al Piano, in quanto accreditato del potere di condizionare scelte agronomiche che mai uno strumento a carattere territoriale si è sognato o è riuscito a fare. In effetti il Piano non dà nessuna prescrizione, si limita a dire che sarebbe opportuno contenere l’erosione dei suoli limitando le sistemazioni secondo la massima pendenza (il famoso ritto-chino che già il Testaferrata nel periodo della costruzione del bel paesaggio toscano sconsigliava). Avendo imparato a trasformare porcilaie in villette o a sbancare colline per realizzare cantine si sono probabilmente stupiti che qualcuno osasse mettere bocca sulla disposizione dei filari.

La più strana, per lo meno nei modi, è quella dell’ordine dei Geometri di Lucca, i quali si sono affidati ad una lettera-fiume aperta a Renzi in un avviso a pagamento pubblicato su Repubblica. Si capisce da alcune espressioni tipo paesaggi-fossili che ci si riferisce ad un presunto conservatorismo del Piano, ma la lamentela resta sul generico, giustificandosi dietro la scusa della complicazione (concetti difficili) e della mole del piano (3000 pagine). In realtà corposo nel Piano è il Quadro conoscitivo (è stato definito una Treccani), ma la parte effettiva di indirizzi, direttive e prescrizioni è piuttosto scarna e riassunta per schede d’ambito territoriale, per cui basta leggersi quella del proprio contesto territoriale per capirne i contenuti. Nel caso dei geometri di Lucca, la Provincia è stata divisa in tre ambiti per cui è sufficiente la lettura di 6 (sei) paginette, nelle quali viene concentrata la Disciplina d’uso che resta sempre ad un livello di indicazione territoriale (scala 1/50.000) e concettuale di stimolo alla progettazione più attuativa, con larghi margini di adattamento e interpretazione, come sempre quando si passa dalla visione territoriale a quella più minuta delle trasformazioni urbane ed edilizie. Meglio avrebbero fatto i geometri a riflettere sul ruolo che hanno avuto nel qualificare o peggiorare il paesaggio.

Merito del Piano è superare l’idea che il paesaggio e l’ambiente siano un settore, rientrino in valutazioni che interessano ad una porzione limitata della società. Con il piano in discussione il paesaggio e l’ambiente, vale a dire la natura e la storia, le regole profonde che hanno caratterizzato la costruzione delle nostre comunità, diventano elementi con i quali confrontarsi per la definizione di scelte di pianificazione territoriale, degli indirizzi strategici e per lo sviluppo socio economico. Ne dovrebbe conseguire che il territorio non è più tutto trasformabile, non è un’area bianca in attesa di valorizzazione economica tramite le previsioni e le trasformazioni urbanistiche. Diventa invece un palinsensto nel quale è scritto il codice genetico dell’intera comunità, da dove veniamo e dove vogliamo andare. La fine della mezzadria, del lavoro nei campi e l’inurbamento hanno prodotto una crisi culturale: non siamo più capaci, o fra poco non saremo più capaci, di gestire il territorio. Quello che prima era una cultura diffusa, il lavoro nei campi che garantiva il presidio paesaggistico, ora diventa un progetto da studiare, capire e governare. I problemi legati al tempo meteorologico bene evidenziano questi temi. Ogni volta gli eventi sono straordinari, per cui non si è potuto dimensionare o prevedere le contromisure adeguate. In realtà l’esperienza ci dice che non tutto il territorio è trasformabile e soprattutto non è trasformabile seguendo interessi o aspettative di breve respiro.

Finalmente, con il nuovo PIT e con il suo quadro conoscitivo, la Toscana non è più solo la collina delle immagini oleografiche, dei mulini bianchi, quella da vendere, ma è fatta anche di pianure, di coste, di monti che rappresentano storie e società locali varie, da guardare con una visione strategica aggiornata e più approfondita rispetto alle esperienze precedenti. È anche quella delle periferie urbane, di ambienti e paesaggi degradati, delle aree umide distrutte dagli interventi di trasformazione, con i quali è necessario confrontarsi e trovare gli strumenti per la loro rigenerazione. È questa una sfida decisiva sulla quale misurare la capacità di governo e invertire finalmente l’idea che si produca ricchezza solo con il consumo di suolo e di risorse ambientali. Dispiace quindi, ma speriamo che ci sia spazio nella fase di controdeduzione alle osservazioni, la timidezza con la quale vengono affrontati alcuni nodi delicati come il controllo delle trasformazioni d’uso, la riconversione delle aree produttive abbandonate, l’assetto delle coste con il tema dell’erosione, dei porti e degli approdi turistici che la provocano, la questione dei corridoio autostradale tirrenico.

Giovanni Maffei Cardellini, architetto urbanista. Ha progettato diversi piani regolatori e piani di centri storici, il Piano del Parco di Migliarino San Rossore con Pier Luigi Cervellati. Assessore all’urbanistica del Comune di Camaiore dal 1994 al 2002

«E' grave che un’amministrazione di differente cultura da quella che aveva approvato questi articoli, continui ad accettarli». Il governo regionale di centro sinistra convalida illegittimamente le scelte perverse della giunta di destra che l'aveva preceduta. Salviamoilpaesaggio.roma.it , 26 settembre 2014

Nel 2009 quando approvò il Piano casa che diede il via a quelli regionali, Berlusconi affermò che il provvedimento avrebbe fatto aumentare il Pil di 4 o 5 punti. Da allora è iniziata la più grave crisi del settore edilizio e, nonostante tutti gli sforzi di spianare la strada alla speculazione edilizia, la crisi si è ulteriormente aggravata. Molte regioni continuano tuttavia a credere nella capacità salvifica del piano casa. Tra di esse c’è la regione Lazio che vuole addirittura portare in approvazione una proroga dei termini di scadenza del Piano casa approvato sotto le giunte Marrazzo e Polverini.

Insomma, se il piano casa ha fallito i suoi obiettivi – e questa diagnosi vale per tutte le regioni italiane – la ricetta della giunta Zingaretti è quella di prorogare la legge fallita. Il fatto grave è che di fronte ad una crisi occupazionale imponente (l’edilizia italiana ha dimezzato il numero dei lavoratori dal 2008 ad oggi, altro che i quattro conque punti di pil) non si vuole prendere atto che siamo dentro una crisi strutturale. Si continua insomma a far finta di credere che la crisi edilizia sia congiunturale mentre invece siamo nel pieno di un passaggio epocale.

Nomisma ha stimato che esistono 700 mila alloggi nuovi invenduti: siamo evidentemente in una fase di sovraproduzione e di fronte a questo non c’è piano casa che tenga. Per far ripartire gli interventi urbani e l’edilizia occorrono provvedimenti coraggiosi e innovativi, finanziamenti pubblici adeguati e politiche per la realizzazione di alloggi a prezzi calmierati.

Cosa dice su questo tema fondamentale per far ripartire il sistema Italia il piano casa Zingaretti – Civita? Nulla. Afferma in primo luogo –prima tra le regioni italiane- che il piano casa deve restare ancora in vigore. Va sottolineato il fatto che alcune regioni italiane hanno ragionevolmente preso atto del fallimento e hanno rispettato la scadenza prevista lasciando scadere i propri piani casa.

La proposta di legge lascia inalterate le possibilità contenute nei precedenti dispositivi di consentire la variante automatica rispetto ai piani regolatori comunali. Si continua insomma a prevedere la possibilità che un proprietario di un edificio industriale ubicato in qualsiasi parte del territorio, anche quelle isolate dal contesto urbano o vicine a grandi infrastrutture di trasporto – e dunque aree che non dovrebbero essere abitate se vivessimo in un paese civile – possono diventare abitazioni.

Sono norme criminali ed è grave che un’amministrazione di differente cultura da quella che aveva approvato questi articoli, continui ad accettarli. Evidentemente la vita delle persone in carne ed ossa che andranno ad abitare in quei manufatti vale molto meno del guadagno che la speculazione immobiliare si metterà in tasca.

Al riguardo, a ulteriore conferma della insensibilità sociale che accomuna la politica che governa la regione Lazio, nella legge sono state mantenute anche le facilitazioni agli speculatori in materia di attuazione dei servizi pubblici obbligatori.Quando infatti un promotore dell’operazione speculativa non ha la possibilità di realizzare i servizi previsti dalle leggi, viene lasciata la possibilità di monetizzare questo diritto pagando al comune una modesta cifra. Diritti universali barattati con una monetizzazione. Chi ha confermato questa legge dovrebbe conoscere le legislazioni delle nazioni europee che non sono ancora giunte al nostro livello di barbarie culturale.

E così veniamo al punto maggiormente dolente della legge, dopo quello della cultura della deroga urbanistica, e cioè quello di fingere che con gli aumenti di cubatura concessi si possano ottenere case “sociali”. Visto insomma che nessuno può negare che venti anni di deregulation abbiano prodotto una grave crisi abitativa per le famiglie a basso reddito e per i giovani, si continua ad ingannare la popolazione inserendo nella legge che una percentuale delle maggiori volumetrie strappate dalla speculazione edilizia dovranno essere destinate ad alloggi in affitto a importo calmierato.

Sono due le osservazioni che devono essere fatte su questo punto. Ad oggi non c’è nessun esempio di applicazione di questa norma e nessun alloggio a canone calmierato è stato immesso sul mercato. Ma il legislatore regionale non prende atto del fallimento e continua a prevedere questa possibilità. Ma una seconda osservazione è ancora più importante. Ammesso che questa norma funzioni essa metterebbe sul mercato alloggi a canone meno esoso del mercato libero ma pur sempre indirizzati a coloro che possono permettersi di pagare un affitto, e cioè a famiglie che percepiscono almeno un reddito sicuro. Le fasce giovanili e le famiglie più povere sono escluse da questo provvedimento e sono condannate ad una vita di precarietà abitativa, a coabitazioni o a trasferirsi lontano da Roma, dove i valori immobiliari sono più modesti.

La filiera della realizzazione di alloggi pubblici è come noto stato abbandonato da anni. Non vengono previsti finanziamenti o agevolazioni ai comuni per acquistare aree edificabili. Nelle città c’è un unico attore: l’iniziativa privata. Intorno ad essa è stata costruita in questi ultimi due decenni una cortina fumogena di retorica e ideologia. Si era sostenuto infatti che la cancellazione delle regole e dei finanziamenti pubblici avrebbe rimesso in moto le città. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: mancano case per le fasce sociali povere e c’è un mare di abitazioni invendute destinate ad un altro segmento di domanda.

Italo Insolera nel suo ultimo periodo di vita affermava che con la cultura dei piani casa era stata cancellata per sempre la pianificazione urbanistica dal nostro paese. Aveva ragione: nel prorogare il provvedimento, la regione Lazio si assume una enorme responsabilità poiché si pone come la punta d’esempio negativo che verrà imitato da altre regioni. Per qualche speculazione del ristretto circolo dei soliti noti la regione Lazio si colloca dunque come battistrada della cultura delle deroga urbanistica che è la vera ragione della nascita dei piani casa.

Trattandosi della Regione la cui capitale è Roma è proprio il caso di dire:quello che non fecero i barbari lo fecero i Barberini. In termini odierni, ciò che non fece la destra-destra lo sta facendo quello che ancora si definisce ilcentrosinistra. Non solo in Italia, anche nel Lazio.

La prossima settimana al Consiglio Regionale del Lazio entra nel vivo il dibattito sulle modifiche apportate dalla Giunta Zingaretti al famigerato “Piano casa” della ex maggioranza di centrodestra guidata da Renata Polverini e del suo assessore Luciano Ciocchetti, la Proposta di legge 75, che riguarda prevalentemente gli aspetti urbanistico-edilizi del provvedimento, dato che la parte “a rischio incostituzionalità”, che aveva gravi ricadute sull’ambiente (1), è già stata riformata all’inizio di agosto.

L’assessore all’Urbanistica Civita e l’attuale maggioranza regionale di centrosinistra hanno già annunciato l’intenzione di prorogare ulteriormente il “Piano casa” ben oltre la sua naturale scadenza, a oggi il 31 gennaio 2015. Sarà quindi ancora vigente a lungo un provvedimento che sembra un vero e proprio “apripista” della filosofia abbracciata dal governo Renzi (PD) con lo “Sblocca Italia” e con la legge urbanistica a cui sta lavorando il ministro Lupi (NCD): quella dello scardinamento delle regole e del ridimensionamento del ruolo del soggetto pubblico nelle trasformazioni del territorio, lasciando le mani sempre più libere all’iniziativa privata.

Una filosofia, nella teoria e nella pratica, in totale continuità con quella del governo regionale di destra, come le modifiche dell’assessore Civita alle modifiche che l’assessore Ciocchetti aveva introdotto sull’originale “Piano Casa” della precedente giunta di centrosinistra Marrazzo, approvato nel 2009 in seguito all’Intesa Stato - Regioni da cui sono scaturite le diverse versioni regionali.

E cominciamo da qui, da quell’Intesa che non è mai diventata una legge nazionale (nonostante lo prevedesse). Un’Intesa che, «con l’obiettivo di rilanciare l’economia, rispondere ai bisogni abitativi delle famiglie, promuovere la semplificazione procedurale dell’attività edilizia», introduceva la possibilità di un limitato ampliamento di «edifici residenziali uni-bi familiari» o nell’ambito di «interventi straordinari di demolizione e ricostruzione». Indicazioni abbastanza precise (sebbene infarcite di «preferibilmente» e «salvo diverse determinazioni regionali»), che stabilivano anche una durata “comunque non superiore a 18 mesi», a riprova che si trattava di un provvedimento straordinario (infatti è già decaduto in molte Regioni).

Il Lazio di Marrazzo e molte altre Regioni a guida centrosinistra emanano leggi che seguono le indicazioni ell’Intesa, mentre nelle Regioni governate dal centro destra, come il Veneto, si cominciano invece a introdurre forzature che raggiungono l’apice con le modifiche apportate in due riprese (2011 e 2012) dalla giunta Polverini, c corrispondenti a una vera e propria “mutazione genetica” delle intenzioni dell’Intesa. Se siamo ancora qui a parlarne, è perché il centrosinistra, oggi di nuovo al governo del Lazio, ha cancellato dal “piano casa” Polverini solo gli aspetti più madornali, tenendosi stretti molti di quegli articoli contro cui, quando era all’opposizione, aveva fatto barricate e addirittura minacciato referendum popolari.

Vediamo i punti essenziali del salvataggio compiuto dal centrosinistra di Zingaretti delle aberrazioni introdotte dal centrodestra della Polverini.

L’aspetto più grave, che aveva sollevato le critiche più aspre anche da parte di quelli che oggi acconsentono o tacciono, è la possibilità di derogare agli strumenti urbanistici ed edilizi comunali, cancellando ogni possibilità di valutazione da parte delle istituzioni locali, sulla base dell’interesse pubblico e delle ricadute degli interventi sui territori. E questo nonostante l’Intesa dicesse chiaramente che le leggi regionali di applicazione del “Piano Casa” dovevano essere scritte «in coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e della pianificazione comunale» (2).

Ma la norma non consente solo di scavalcare “in automatico” qualsiasi pianificazione pregressa: se sarà prorogata, permetterà di rimettere in discussione, rendendoli di fatto carta straccia, anche i progetti in corso e addirittura appena approvati, che potranno essere rimodulati nella direzione del maggiore profitto del privato anziché della pianificazione e dell’utilità pubblica. Infatti il “Piano casa“Polverini/Zingaretti (chiamiamo così il testo risultante dalle “correzioni” apportate sul testo precedente) prevede aumenti di cubature e cambi di destinazione d’uso anche per edifici « di nuova costruzione», cioè case che non esistono. Una possibilità che non era contemplata dall’Intesa, e che non è prevista in nessun’altra Regione d’Italia. E rientrano nel “pacchetto” anche gli “accordi di programma” la cui contropartita in opere pubbliche, con il “piano casa”, potrà essere più o meno completamente azzerata (3). Un altro articolo, introdotto nel 2012 dall’assessore Ciocchetti e rimasto nella nuova versione Civita, permette addirittura i cambi di destinazione di edifici dismessi, da “uso non residenziale” - ad esempio uffici - ad «altro uso non residenziale» - ad esempio centri commerciali. E naturalmente sempre «in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici ed edilizi comunali vigenti o adottati».

Certo, la proposta di legge 75 qualcosa ha migliorato. Soprattutto è stato cancellato un comma che regalava all’ “ultimo arrivato” una premialità del 10% della somma di tutte le cubature di un piano particolareggiato, anche di quelle non sue. (4)Ma non ci sembra il caso di rendere merito a chi ha cancellato una simile norma, che non ha nessun precedente né giustificazione. Sarebbe stato una follia non cancellarla.

Ci fermiamo qui, anche se l’elenco potrebbe continuare. E concludiamo con due considerazioni generali.

La prima: tira una brutta aria per la tutela del patrimonio collettivo, per il diritto a città vivibili e per un governo democratico e partecipato del territorio. Quando i provvedimenti (e gli slogan) si infarciscono di “deroga”, “semplificazione”, “emergenza”, “urgenza”, “silenzio assenso” e anche “rilancio dell’edilizia” con corredo di “posti di lavoro”, sappiamo mestamente dove si vuole andare a parare.

La seconda: questa vicenda – se mai ce ne fosse stato bisogno – è una efficace cartina di tornasole di quanto possa essere mal riposta la fiducia dei cittadini nella coerenza di chi pretende di rappresentarli. E’ assai lungo l’elenco di quelli che hanno lanciato anatemi contro gli articoli del “Piano casa“Polverini e che oggi non pronunciano verbo contro gli articoli/fotocopia del Piano Zingaretti. A parte il gruppo romano di SEL, che ha preso le distanze in questi ultimi giorni, nessun segnale è giunto da quegli esponenti del Partito Democratico che pure si erano spesi parecchio, a partire dai deputati Meta e Morassut, che nel 2011 annunciavano referendum contro una legge incostituzionale «che stravolge i piani regolatori votati sovranamente dai Comuni» (5). E destano incredulità le affermazioni dello stesso Michele Civita, quando era assessore all’Urbanistica alla Provincia di Roma, riportati dal sito della Provincia, «Il Piano Casa…danneggia sia chi è impegnato a pianificare uno sviluppo sostenibile del territorio, ma anche chi vuole avviare trasformazioni seguendo le regole. Si tratta di una deregulation del mattone…» . E non si è ancora espresso l’Istituto di Urbanistica del Lazio che pure, sempre nel 2011, in un documento approvato all’unanimità, scriveva a proposito del “piano casa” «questa legge costituisce un grave strappo nell’impianto giuridico italiano, comprime l’autonomia decisionale dei Comuni e compromette le loro politiche ordinarie; induce fenomeni incontrollati ed imprevedibili nei loro effetti sul territorio»…

Finora sono stati inutili tutti gli emendamenti, le proposte e gli appelli che abbiamo inviato da un anno a questa parte a chi ha, e aveva, il potere di intervenire. E il tema, a differenza delle polemiche sul Piano Polverini, non ha raggiunto l’opinione pubblica, dato che la maggioranza dei giornali - che a Roma danno voce ai cittadini sui rifiuti e sulle buche stradali, ma quasi mai sulle questioni che incidono profondamente sulla vita della città - non ha ritenuto interessante l’argomento.

E anche se i nostri comitati non sono del tutto soli - con noi la volenterosa opposizione Cinquestelle, di tanti rappresentanti dei Municipi e anche di militanti dei partiti, SEL e PD - è ancora troppo poco per una battaglia che temiamo persa in partenza. Ma la combattiamo lo stesso. Perché se non resistiamo, la strada verso la deregulation diventerà un’autostrada. E soprattutto perché le battaglie si combattono perché sono giuste: se chi ci ha preceduto avesse combattuto solo le battaglie che era sicuro di vincere, oggi ci sarebbe rimasto ben poco…

Note
(1) La legge Polverini è stata impugnata davanti alla Corte Costituzionale da ben due ministri, Galan e Ornaghi. il provvedimento di Zingaretti, che avrebbe dovuto “sanare” le parti a rischio incostituzionalità, con implicazioni devastanti per la tutela dell’ambiente, è stato approvato solo il 6 agosto 2014, dopo un anno e mezzo dall’insediamento della nuova maggioranza, e quasi un anno dopo la richiesta di rinviare “a data da definire” l’esame della Consulta, impedendo così a un’eventuale pronuncia sfavorevole di fermare molti sciagurati interventi grazie alla retroattività della sentenza.
(2) Prendiamo ad esempio la vicenda della cosiddetta “Città del Gusto” nel quartiere Portuense di Roma, un complesso che comprende una multisala cinematografica, la “Città del Gusto” (un centro polifunzionale con scuola di cucina, studi televisivi etc) oltre ad un parcheggio multipiano, un ambulatorio ASL e un supermercato. Grazie al “Piano casa” i proprietari hanno avuto il permesso di demolire e ricostruire la struttura esistente con un cospicuo premio di cubatura, trasformando in appartamenti e negozi le precedenti destinazioni al servizio della collettività. Con la conseguenza che sarà incrementata la densità demografica e saranno ridotti drasticamente gli spazi destinati a pubblica utilità in uno dei quartieri più densamente edificati di Roma, senza che né Comune né Municipio possano eccepire alcunché.
(3) Ne è un esempio il Mercato Appio in costruzione nella zona dell’Alberone a Roma, un accordo di programma, dove il costruttore privato ha già chiesto di avvalersi del Piano per convertire una parte delle previste strutture commerciali, complementari al mercato rionale, in appartamenti. Si tratta di una superficie non enorme (500 mq) ma è comunque un’operazione che contraddice completamente, annullandola, la logica alla base di interventi di questo tipo. Significativo anche l’esempio sollevato dal Presidente dell’XI Municipio Veloccia mesi fa, che riguarda la fabbrica ex Buffetti alla Magliana, dove era previsto un piano con parti residenziali a cui erano affiancate strutture pubbliche – una piazza e un auditorium – in una zona completamente sprovvista di teatri, e povera di spazi pubblici attrezzati – che rischia di trasformarsi in appartamenti e locali commerciali.
(4) In sostanza, il proprietario, o l’acquirente, di un’area oggi inedificata compresa all’interno di un piano particolareggiato, magari ormai decaduto, che prevedeva nel suo complesso una cubatura realizzabile di Xmila mc,poteva costruire nell’area un determinato volume incrementato di una sorta di ‘bonus di ammontare pari al 10% dell’intera cubatura realizzata nell’ambito di quel piano.
(5) Si veda l’articolo di Repubblica del 5 agosto 2011: Morassut: "Il “Piano casa“è una legge-scempio. I cittadini la cancelleranno con un referendum"

L’autrice è portavoce di Carteinregola, che insieme a Cittadinanzattiva Lazio Onlus, Italia Nostra Roma, Legambiente Lazio, Forum Salviamo il Paesaggio Roma e Provincia, Vas Roma, Unione inquilini, organizza un’assemblea cittadina “La città è la nostra casa – no alla proroga del “Piano casa“Polverini/Zingaretti” il 22 settembre alle 17.30 al Cinema Tiziano (Flaminio) e un presidio al Consiglio Regionale il 23 settembre alle 14

Stimolata dall'articolo di Francesca Leder sull'urbanistica vicentina, Chiara Mazzoleni ci segnala questa suo scritto pubblicato sul sito Venetoius, Diritto e Giurispudenza in Veneto, il 9 giugno 2014, relativo ad una ricerca svolta in ambito dell'Università IUAV.

Un bilancio attento degli esiti dei nuovi piani comunali (dai Piani di assetto del territorio ai Piani degli interventi) nel Veneto – che verrà restituito in un volume di prossima pubblicazione – svolto da un gruppo di ricercatori e docenti (coordinato da chi scrive) del Dipartimento di progettazione e pianificazione in ambienti complessi dell’Università IUAV di Venezia, mette in evidenza come tra i nuovi strumenti urbanistici e i vari Piani Casa deliberati dalla regione ci sia una forte sintonia di intenti, relativamente al primato degli interessi proprietari e, più in generale, del mercato. Ancor più, larga parte dei dispositivi di pianificazione adottati a livello locale supera, in “espedienti”, degrado delle regole e comportamento opportunistico delle istituzioni, il contenuto dei Piani Casa.

Il quadro tracciato, a dieci anni dall’approvazione della legge di governo del territorio regionale (Lr n. 11/2004), non sembra affatto coincidere con quello rappresentato dalle dichiarazioni delle principali figure istituzionali – politiche e tecnico-amministrative – della regione. Queste affermano che il dispositivo “Piano Casa” dovrebbe servire a promuovere quel libero dispiegarsi dell’iniziativa privata, che i piani urbanistici ostacolano, con le loro previsioni decennali affidate a “mastodontici” strumenti. I quali, del resto, sono gli stessi che distinguono la nuova stagione urbanistica avviata con la legge regionale del 2004 e sono stati presentati, con grande propaganda, dai responsabili regionali come strumenti innovativi di governo del territorio finalizzati a garantirne “la tutela dell’integrità fisica e ambientale nonché dell’identità culturale e paesaggistica”. Dall’approvazione della legge si è assistito a una proliferazione di procedure, di atti, molti dei quali derogatori, e ai più svariati contenuti dei piani. Dobbiamo aggiungere che il 90% dei nuovi Piani di assetto del territorio (Pat) è stato redatto in regime di co-pianificazione con la struttura urbanistica della regione, i cui funzionari sono co-progettisti degli strumenti e, per questa funzione, hanno percepito uno specifico compenso aggiuntivo. Quindi, la responsabilità di questo stato dell’arte è essenzialmente dell’istituzione regionale e ne evidenzia il livello di incapacità e inefficienza raggiunto.

In assenza di una nuova legge quadro nazionale e di fronte alla frammentazione dei dispositivi regionali, l’unico quadro unitario è attualmente rappresentato dal Piano Casa di stampo “federalista”, promosso dal governo Berlusconi nel 2009, attuato in modo discrezionale da varie regioni e giunto alla terza edizione nel caso del Veneto.

Si tratta, nella sostanza, di un provvedimento straordinario, come i precedenti, “a sostegno del settore edilizio”, in deroga ai regolamenti e ai piani vigenti, che stabilisce misure “premiali” – dal bonus di cubatura, all’esonero dal pagamento degli oneri – per l’ampliamento degli edifici esistenti e per nuove costruzioni. Con il terzo Piano casa (Lr n. 32/2014), la regione Veneto ha introdotto una “innovazione” rispetto alle edizioni precedenti – già commentata da Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera (sabato 25 gennaio 2014) – esautorando di fatto il ruolo dei governi locali nella gestione del territorio. Per rassicurare la sparuta schiera di sindaci che ha impugnato la legge regionale, il Vice Presidente della Regione con delega all’urbanistica, nonché ex-parlamentare di Forza Italia passato al Nuovo Centro Destra – Marino Zorzato – ha precisato che le disposizioni regionali non prevalgono su tutte le disposizioni, bensì solo su quelle che contrastano con i contenuti della legge! Come meglio commentare: oltre al danno, la beffa.

Il terzo Piano Casa intende l’aumento del volume del costruito quale modo più idoneo per contenere il consumo di suolo. Ciò non è una novità. Alcuni comuni del Veneto hanno da decenni praticato la “densificazione” del tessuto edilizio esistente, aumentando significativamente gli indici edificatori in modo indiscriminato e consentendo permute di volume tra lotti attigui. Nessuna valutazione è stata finora svolta sugli esiti perversi di queste trasformazioni del patrimonio edilizio esistente in termini di esternalità negative (tra le quali l’inadeguatezza delle reti infrastrutturali, il peggioramento della qualità urbana, il danneggiamento o il consumo di beni pubblici essenziali) e di conseguenti maggiori costi fatti gravare sulla collettività.

Diversi sono gli esempi che consentono di verificare cosa ha prodotto la densificazione, applicata in modo indiscriminato, e di denunciare lo stato di degrado istituzionale in materia di governo del territorio. Il più emblematico è quello di uno dei capoluoghi provinciali – il comune di Vicenza – che dispone sia di un Piano di assetto del territorio, redatto in co-pianificazione con la Regione, e di un più recente Piano degli interventi, lo strumento operativo, il solo di carattere conformativo, non soggetto a verifiche di istituzioni sovraordinate. Esaminando entrambi gli strumenti e soprattutto le modifiche introdotte nel Piano degli interventi dall’amministrazione comunale, si può a ragione sostenere che ci sia una sostanziale continuità, tra l’amministrazione di centro-destra precedente e quella attuale, nell’uso strumentale dei piani come dispositivi che meglio permettono di mobilitare l’interesse proprietario a fini elettoralistici. È evidente che si sia attuata una metamorfosi profonda dell’interesse generale, del tutto sostituito con l’interesse particolare o proprietario.

Per favorire discrezionalmente gli interessi particolari e aggirare il controllo del consumo di suolo, diversi sono gli “espedienti” utilizzati. Tra questi i più significativi sono i seguenti. In primo luogo la delimitazione disinvolta, nel Piano di assetto del territorio, delle aree di urbanizzazione “consolidata”, comprendente, oltre alle zone residenziali previste dal piano regolatore non ancora attuate, anche ampie aree agricole inedificate che possono così essere interessate da trasformazione edilizia in assenza di piani di lottizzazione. Quindi, la previsione – nel Piano degli interventi – di nuovi volumi edificabili, in gran parte aggiuntivi alle previsioni del Pat, per 470 nuove costruzioni “a volumetria definita” di 600 mc su lotti “virtuali” di 400 mq. Di dubbia legittimità in relazione all’effettivo consumo di suolo, queste nuove cubature sono disseminate nelle aree agricole di frangia e del tessuto disperso nonché in aree previste a standard e in zone di fragilità idraulica. Complessivamente si tratta di una volumetria aggiuntiva di 270.000 mc, che aumenta la dispersione insediativa, corrode in larga parte il territorio agricolo e occulta il consumo di suolo reale.

In sintesi: nessun Piano Casa riuscirebbe a “scardinare il vecchio modo di fare urbanistica” – come auspica il dirigente dell’urbanistica regionale, dimenticando che questo è il modo introdotto dalla legge urbanistica del 2004 – più di quanto dimostra di saperlo fare la “nuova stagione urbanistica” nel Veneto. In questo contesto, i governi locali che vogliono reagire a questa incultura urbanistica e si prefiggono di attuare un governo responsabile del territorio incontrano sempre maggiori difficoltà e sono spesso costretti a ricorrere presso i massimi organi di tutela giuridico-amministrativa per difendersi dai provvedimenti dell’istituzione sovraordinata.

Chiara Mazzoleni è docente di Urbanistica presso l'Università Iuav di Venezia

«La domanda è: cosa c’entra questo Piano casa con l’interesse pubblico? Come si può coniugare una pianificazione attenta ai bisogni della città e dei cittadini e rispettosa dell’ambiente con una legge che permette “in automatico” ai privati di moltiplicare cubature bypassando completamente il parere dei Comuni e i piani regolatori?». Carteinregola, 23 luglio 2014

Alla Regione Lazio riprende al rallentatore l’iter delle modifiche al “Piano Casa Polverini”, che in realtà riguardano solo il minimo indispensabile per non perdere la faccia. Faccia comunque ampiamente persa, se si considera che, quando era all’opposizione, il centrosinistra PD/SEL aveva eretto barricate contro la legge “moltiplicacubature” che oggi, con un piccolo lifting, rimane praticamente tale e quale. Ma i motivi di indignazione di chi ha votato per l’attuale governo regionale aspettandosi un cambio di rotta anche sul Piano Casa sono parecchi…


In un paese normale, quello che stiamo per raccontare sarebbe da tempo sui giornali, e noi potremmo limitarci a pubblicare i link degli articoli. Invece nessun quotidiano se n’ è finora occupato nè – possiamo scommetterci – se ne occuperà, e il nostro grido d’allarme raggiungerà, se va bene, quel migliaio di “soliti ambientalisti” che fanno sempre meno testo, mentre il nostro territorio continua a subire scempi irreversibili.

Questo l’antefatto. IL cosiddetto “Piano Casa” nelle intenzioni iniziali doveva servire a rilanciare l’edilizia offrendo la possibilità ai proprietari di casette uni o bifamiliari di “allargarsi” di qualche metrocubo. E così avviene in tutta Italia, ma in Lazio, quando arriva la Polverini, la legge regionale subisce una “mutazione genetica”, che consente, da un lato, di moltiplicare le cubature di qualunque edificio, compresi quelli non ancora esistenti, dall’altro, di modificare destinazioni d’uso di capannoni industriali ed uffici trasformandoli in appartamenti e persino in centri commerciali, senza più sottostare ad alcuna pianificazione pubblica (1). Le possibilità introdotte sono talmente eccessive che ben due ministri – Galan e Ornaghi – impugnano il “Piano casa Polverini” davanti alla Corte Costituzionale. Anche l’opposizione insorge, formando un fronte di lotta che va da Sinistra Ecologia e Libertà ai Radicali Italiani allo stesso Partito Democratico, cosicchè quando Zingaretti diventa il nuovo Presidente del Lazio, tutti si aspettano che ponga velocemente fine al “vulnus”.

Invece, non solo a un anno e mezzo dall’insediamento del nuovo Consiglio è ancora vigente il Piano Casa Polverini, ma, grazie alla delibera di Giunta approvata a settembre, il governo regionale ha convinto il ministro Bray – erede del ricorso – a chiedere, il 5 novembre scorso, il rinvio dell’udienza davanti alla Consulta. E in questi 9 mesi a nessuno è più venuto in mente di rimettere la questione nel calendario della Corte, nonostante il fatto che, se la legge fosse stata dichiarata incostituzionale, la retroattività della sentenza garantisse la cancellazione di molti efferati interventi in corso, compresi quelli che possono aggirare i vincoli delle aree protette.

Ma le cose sono andate anche peggio: infatti la proposta di legge 76 – quella costruita per “sanare” i rischi incostituzionalità, che avrebbe dovuto avere una corsia preferenziale, si affaccia solo ora al voto del Consiglio, mentre l’altra proposta, la 75, che contiene invece le misure edilizie - il “Piano casa Zingaretti” che ricalca in buona parte quello Polverini - non è stata ancora neanche calendarizzata.

Se poi a tutto ciò si aggiunge che una legge deve restare vigente almeno per un anno dalla sua approvazione e che la scadenza naturale del “Piano casa Polverini” è il 31 dicembre 2014, appare chiaro che le intenzioni di Zingaretti e del suo assessore Civita (e di buona parte del Consiglio, maggioranza e opposizione) sono quelle di prorogare il Piano Casa di un altro bel po’. Il centro destra, dal canto suo, ha già proposto in commissione di rinnovarlo fino al 2018.

Ma che la legge regionale sia prorogata di poco o di tanto, la domanda è: cosa c’entra questo Piano casa con l’interesse pubblico? Come si può coniugare una pianificazione attenta ai bisogni della città e dei cittadini e rispettosa dell’ambiente con una legge che permette “in automatico” ai privati di moltiplicare cubature bypassando completamente il parere dei Comuni e i piani regolatori ? Se il problema era quello di introdurre incentivi per l’housing sociale (la solita striminzita foglia di fico) si potevano trovare molte altre strade da percorrere sotto il controllo di un soggetto pubblico.

Per capire a cosa rischiamo di andare incontro: in questi giorni è esploso il dibattito sul nuovo stadio della Roma, e sullo “studio di fattibilità” del proponente privato che, per garantire “l’equilibrio economico”, chiede di costruire anche due torri di uffici che con lo Stadio non c’entrano niente. Si dice: ma i commi della legge di stabilità sugli stadi (2) se non altro impediscono la speculazione, vietando l’edificazione di residenziale. Forse sarà vero nel resto d’Italia, ma in Lazio il costruttore potrà, grazie al Piano casa Polverini-Zingaretti, chiedere il cambio di destinazione d’uso e trasformando gli uffici in case ancora prima della posa del primo mattone…

Che differenza c’è tra un’amministrazione di centro destra e una di centro sinistra? Se si dovesse giudicare da questa vicenda, praticamente nessuna…

Post scriptum: nei giorni scorsi l’Assemblea Capitolina ha approvato una delibera che concede ad alcuni privati che intendono avvalersi del Piano Casa ma che non hanno abbastanza superfici per gli obbligatori standard urbanistici (verde, servizi, parcheggi) di considerare come standard urbanistici aree appartenenti alla collettività (3). UNA SOLA DOMANDA: DOV’E’ L’INTERESSE PUBBLICO?

(1) La sintesi risponde alla realtà, ma per approfondimenti vedere Piano casa – cronologia materiali
(2) Scarica i commi della legge sugli stadi Legge 27 dicembre 2013 (commi stadi)
(3) vedi nostro post “Accade in Aula” del 9 luglio 2014

Riferimenti
Per approfondire sul sito di Carteinregola il confronto tra le proposte di legge regionale Marrazzo, Polverini, Giunta Zingaretti e numerosi altri documenti
In eddyburg gli articoli raccolti nella cartella Temi e problemi del vecchio archivio

«L’idea niente affatto sottesa è che la rendita immobiliare e fondiaria sia il vero cardine del disegno di legge urbanistica». La Nuova Sardegna 10 giugno 2014

Il Ministro del Governo Renzi, Maurizio Lupi, ha fatto predisporre al suo Gruppo di Lavoro “Rinnovo Urbano” un secondo disegno di legge urbanistica. Il primo lo aveva presentato come ministro di Berlusconi, ritirato grazie alla denuncia di autorevoli studiosi in materia di territorio per la clamorosa sottomissione degli interessi pubblici a quelli privati. Anche il secondo disegno di legge esprime questa sottomissione che è esplicita fin dal titolo: Principi fondamentali in materia di governo del territorio, proprietà immobiliare e accordi pubblico-privato. Come a dire, il “Lupi perde il pelo ma non il vizio”.

Se escludiamo i generici preamboli e i riferimenti alla Costituzione, in nome della sussidiarietà, partecipazione e via discorrendo, l’idea niente affatto sottesa è che la rendita immobiliare e fondiaria sia il vero cardine del disegno di legge urbanistica. Idea che ritroviamo in modo diffuso in tutti i commi dei 21 articoli. A partire dall’art. 1, comma 4, dove si dichiara che: “Ai proprietari degli immobili è riconosciuto, nei procedimenti di pianificazione, il diritto di iniziativa e di partecipazione, anche al fine di garantire il valore della proprietà conformemente ai contenuti della programmazione territoriale. Le procedure di pianificazione assicurano la partecipazione dei privati anche nell’esecuzione dei programmi territoriali senza dar luogo a sperequazioni tra le posizioni proprietarie”. Per proseguire con espressioni quali “leale collaborazione con il privato” (art. 5, comma 6); oppure con la esplicitazione che gli interessi privati “si intendono come preliminari di piani urbanistici attuativi” (comma 7).
Ma il clou di questa sottomissione lo troviamo negli articoli 10 (Perequazione), 11 (Compensazioni) e 12 (Trasferibilità e commercializzazione dei diritti edificatori), nei quali è ben chiaro che il disegno di legge parte dal presupposto che un proprietario di suolo ha automaticamente un diritto di edificazione e che, se non glielo si concede, magari perché l’area è sottoposta a tutela, allora il pubblico (ossia la collettività) lo deve compensare in modo congruo.Orbene, da molti anni studiosi del territorio chiedono che l’Italia si doti di un nuova legge urbanistica nazionale, giacché quella del 1942 con oltre 70 anni di deroghe, ha perso significato e nei fatti ha consentito a troppi speculatori di trasformare gli interessi della rendita fondiaria in quel mostro che divora tutto e che ha potuto agire sulla società in modo corruttivo.
Ma una nuova legge urbanistica dovrebbe essere impostata, anzitutto, alla luce di quel che è successo nei territori italiani in questi decenni, soprattutto a partire dagli anni ’80. Anni di scempio e saccheggio di cui ci scandalizziamo e allarmiamo solo quando si scoprono tangenti e disastri; in secondo luogo, dovrebbe andare di pari passo con un’idea di sviluppo economico e sociale. In ragione di ciò, la legge urbanistica dovrebbe essere un insieme di regole (cornice), a mio avviso essenziali ma chiare e inderogabili, entro cui collocare i piani regionali, di area vasta, comunali.
Regole dettate all’insegna di alcuni principi quali: 1. non consumare altro territorio, non perché si è nemici della proprietà privata, ma perché la cementificazione selvaggia ha impoverito le persone e i territori, in cambio di poco lavoro instabile e, peraltro, non rispondendo alla crescente domanda di case delle popolazioni più svantaggiate; 2. il territorio è una risorsa scarsa e irriproducibile e perciò bisogna averne cura; 3. i processi di risanamento e riqualificazione del patrimonio esistente vanno regolamentati, dove è possibile all’insegna della bioedilizia. L’on. Pigliaru ha dichiarato che entro il 6 luglio presenterà una bozza di legge urbanistica regionale. Spero che la sua direzione sia opposta a quella del ministro Lupi che continua a pensare che il “sostegno all’economia” sia da concentrarsi sull’edilizia espansiva e non su quella finalizzata alla riconversione e contenimento.

Sull'argomento si veda su questo sito lo scritto di Mauro Baioni
Riforma urbanistica: una proposta preoccupante

Come ottenere il consenso dei Comuni e lasciare laRegione libera di trasformare a piacimento il territorio? Ce lo spiega.. .>>>


Come ottenere ilconsenso dei Comuni e lasciare la Regione libera di trasformare apiacimento il territorio? Ce lo spiega la "Proposta di adeguamento dellalegge urbanistica della Liguria" (febbraio 2014), che, con alcune limitatema significative integrazioni alla LR n. 36 del 1997, se approvata, raggiungel' obiettivo.

Vediamo come. Agliartt. 11 e 16 bis viene introdotta una innovazione cruciale: la Regione inambiti o aree o per interventi definiti dal Piano Territoriale Regionale (PTR)può promuovere, adottare e approvare progetti urbanistici o edilizi regionaliimmediatamente prevalenti sulle previsioni degli strumenti di pianificazioneterritoriale di livello metropolitano, provinciale e comunale. I progetti sonodi esclusiva competenza della Giunta, mentre il Consiglio non ha voce incapitolo, né tanto meno gli enti locali e i cittadini di cui non si prevedealcuna forma di partecipazione. La Giunta potrà così decidere in esclusiva su inceneritori,impianti di smaltimenti di rifiuti, centrali di produzione energetica, bretellestradali, ma anche porti, ospedali, carceri: insomma, tutto quello che nonrientra direttamente nelle grandi opere della legge obiettivo.

E i Comuni?Devono subire (ammesso che sia vero) i progetti della Giunta, ma allo stessotempo riacquistano una pressoché totale autonomia nella pianificazione localecon due semplici mosse. La prima: mentre nella legge vigente le prescrizioni delPTR dovevano essere recepite da Province e Comuni, pena l'esercizio di poterisostitutivi, questa fondamentale clausola è scomparsa nella Proposta. Non èchiaro, perciò, cosa avverrà qualora i Comuni non adeguino disciplina oprevisioni del Piano urbanistico comunale (PUC) entro il termine fissato.Qualcosa di simile si è verificato Toscana, dove la Regione può opporsi solodebolmente a un piano comunale in contrasto con il Piano di indirizzoterritoriale ed è impotente se questo viola la legge di governo del territorio:ciò che ha motivato una rabbiosa resistenza dei Comuni alla nuova leggeurbanistica approvata dalla Giunta regionale, che detta loro regole più stringenti.

Altrettantoimportante è la seconda mossa: né Regione né Provincia, né Città metropolitanaeserciteranno più alcuna forma di controllo sul Piano urbanistico operativo(PUO), lo strumento conformativo degli usi del suolo in cui si coagulano gliinteressi privati e le pressioni speculative. Se ora la Provincia può annullareun PUO non conforme alle prescrizioni regionali o provinciali, in futuro leistituzioni sovraordinate si troveranno inermi rispetto a un Piano operativoche ignori le disposizioni del PTR, del Piano provinciale e dello stesso Pianocomunale. L'esperienza toscana - analoga per le condizioni di permissività aiComuni - ha visto Piani strutturali pieni di buone intenzioni e Piani operativi(in Toscana, "Regolamenti urbanistici") che ne raddoppiavano dimensionamentie carichi urbanistici o introducevano varianti contestuali quando nonsurrettizie, senza che la Regione potesse (ammesso che volesse) esercitarealcun intervento di opposizione.

Le strategiedella precedente amministrazione regionale toscana e di quella attuale dellaLiguria si sostanziano in un patto politico in cui alla Regione spettano leiniziative e gli accordi con i poteri forti (con lo Stato, con le banche, conla grande imprenditoria), mentre ai Comuni spetta di gestire e trovare il consensodi un "battaglione edilizio" che, nonostante tutto, vede nellacementificazione del territorio l'unica via di arricchimento. Il fatto che laLiguria crolli sotto il peso delle grandi opere, delle attrezzature impattantie inutili (per la collettività) e per un'imprenditoria di retroguardia cheintende occupare ogni residuo suolo disponibile, evidentemente non turba gliamministratori regionali.

La nuova leggedella Toscana - già commentata su eddyburg - e la nuova legge della Liguria, sonoperciò due maniere radicalmente differenti di intendere il governo delterritorio, la partecipazione dei cittadini, la necessità di contenere ilconsumo di suolo. Due modelli opposti per la nuova legge urbanistica statale.Affidata questa al premier Renzi e al ministro Lupi, vi sono pochi dubbi suiquale modello prevarrà.
Sì al contenimento del consumo di suolo, no al divieto assoluto di costruire in zona agricola. Questa è la posizione dei liberi professionisti, non degli speculatori. La differenza non sembra poi molta. Edilportale, 3 dicembre 2013, con postilla

Una proposta di legge “centralistica e inutilmente complicata”. Così, gli Ordini professionali della Toscana definiscono la riforma della legge urbanistica regionale.
 
Con un documento unitario sottoscritto dai rappresentanti di oltre 40 mila professionisti, gli Ordini degli Architetti, Ingegneri, Geometri, Agronomi e forestali, Periti agrari e Periti industriali e della Toscana hanno duramente criticato la proposta di legge 282/2013 che sostituirà la LR 1/2005 sul governo del territorio. A detta dei tecnici, si tratta di uno strumento non adeguato a sostenere la riqualificazione delle città, la tutela delle aree di pregio paesaggistico, il rafforzamento delle funzioni agricole e la prevenzione dei rischi naturali.

Uno degli obiettivi della legge riguarda il contenimento del consumo di suolo attraverso la riqualificazione delle aree dismesse e il divieto assoluto di nuova edificazione residenziale fuori dai territori urbanizzati (zone agricole).

I tecnici approvano il freno al consumo di suolo, ma sottolineano come occorra evitare di definire il confine tra zone urbanizzate e territorio perché “una legge di sistema non può essere confusa con un piano urbanistico”.

A parere degli Ordini professionali, dividendo esclusivamente l’esistente tra zone urbane e zone agricole la proposta di legge dà un’indicazione semplicistica del territorio che non considera le miriadi di situazioni differenziate come, ad esempio, lo sprawl, la cosiddetta città diffusa, per le quali non vengono messe in campo efficaci strategie di riqualificazione. Secondo i professionisti, l’intero quadro procedimentale è estremamente macchinoso e può creare un’imponente e costosa struttura burocratica penalizzante per i settori imprenditoriali, l’edilizia e l’agricoltura

Oltre a nuovi strumenti di pianificazione più snelli, infatti, i tecnici suggeriscono il ricorso alla rigenerazione urbana attraverso l’abbattimento degli ingenti oneri di urbanizzazione e meccanismi di premialità nei casi di riqualificazione energetica e di adeguamento sismico. Si denota, inoltre, come nella proposta di legge sono poco considerati gli aspetti relativi alla sicurezza statica degli edifici, quelli energetici e di sostenibilità, oltre alla pianificazione di interventi sul patrimonio in ambito di rischio idrogeologico. Ricordiamo che la proposta di riforma della legge urbanistica è già approvata della Giunta e ora all’esame della Commissione consiliare Territorio e Ambiente

Postilla

Da decenni è aperto un dibattito sulla neutralità o meno della scienza e della tecnica rispetto agli interessi economici. La mia posizione è che lascienza debba essere libera di contribuire alla ricerca della verità, e che latecnica, costituendo sostanzialmente un “servizio”, debba, appunto, essere“serva”. Il problema è: serva di chi, di quali interessi? Nel caso degli ordini professionali che si sonoespressi con quel documento (sul quale non so quanti degli «oltre 40mila» abbia partecipato all’analisidella legge e al giudizio su di essa: certamente, a conclusione di un ampiodibattito, ci sarà stato un referendum di cui siamo all’oscuro) non mi pare checi siano dubbi. La morale della favola si comprende a partire dall’invocazione della “premialità”(cioè dellapossibilità di regalare metri cubi indipendentemente dal calcolo dei fabbisognieffettivi), e di alleggerire gli oneri di urbanizzazione (cioè ad accollare alla collettività le spese per l'aumento degli insediamenti) fino alla critica aberrante della definizione di un «confine tra zone urbanizzate e territorio perché «una legge di sistema non può essere confusa con un piano urbanistico».Già, deve spettare a noi “liberi professionisti", nell’interesse dei nostricommittenti, decidere dove si mura e dove non si mura, e quanto, e come. Perché mica siamo al serviziodel popolo e dei suoi rappresentanti

Chi critica giustamente questa legge bestiale dovrebbe ricordare che essa ha la sua radice nell’ideologia della crescita e dello “sviluppo”, che ha nel Pil la sua cifra e nel mercato il suo totem e che domina nella maggioranza delle teste dei governanti e dei governati. Corriere della Sera, 2 dicembre 2013.
Perfino i sindaci leghisti: perfino loro sono saltati su contro il nuovo«Piano Casa» della «loro» Regione Veneto. Che razza di federalismo è se toglie ai sindaci la possibilità di opporsi a eventuali nefandezze e consente a chi vuole non solo di aumentare liberamente la cubatura in deroga ai piani regolatori ma anche di trasferirla, udite udite, in un raggio di 200 metri? Che la crisi pesi sul mattone, per carità, è ovvio. Ma può essere il «vecchio» cemento la soluzione? Per cominciare, un dossier dell’urbanista Tiziano Tempesta dimostra che l’edilizia occupa ancora oggi (dati 2011) l’8,2% degli occupati veneti e cioè un puntoe mezzo più che nell’«Età dell’Oro» degli anni Novanta. Non basta: già oggi il 59,6% dei veneti vivono in ville o villini uni o plurifamiliari contro una media italiana 16 punti più bassa: 42,9%. E abitano per il 64,9% (dati Istat) in case sottoutilizzate: gli altri italiani stanno dieci punti sotto. Di più, dopo la Lombardia il Veneto è la regione più cementificata con l’11,3% del territorio urbanizzato: il triplo della media europea, pari al 4,3%.

Non basta ancora. Quella di Zaia è la prima regione turistica nostrana. E anche nel 2012 ha registrato 15.818.525 arrivi per un totale di 62.351.657 presenze, per quasi il 65% di stranieri. Di fatto, ogni sei pernottamenti in Italia, uno è nel Veneto. Dove i soli stranieri hanno speso l’anno scorso 5 miliardi di euro. Più che in tutto il Sud messo insieme. Vale la pena di mettere a rischio questo patrimonio aggiungendo mattoni, mattoni, mattoni?

No, rispose qualche anno fa l’allora governatore berlusconiano Giancarlo Galan: «Basta col cemento». No, aveva ripetuto un anno fa Luca Zaia: «Nel Veneto si è costruito troppo, non possiamo continuare così. È necessario fermarci. Questo vale per i capannoni industriali, ma a maggior ragione per le abitazioni. È assurdo continuare ad approvare nuove lottizzazioni quando esistono già abbastanza case per tutti».

L’altra sera la maggioranza di destra ha fatto il contrario. Nonostante gli appelli preoccupatissimi dell’Istituto Nazionale di Urbanistica e delle associazioni ambientaliste. Nonostante la contrarietà dei sindaci (destrorsi, leghisti e sinistrorsi) di tutti e sette i capoluoghi, dal veronese Flavio Tosi al padovano Ivo Rossi: «Una cosa da pazzi. Anche nei centri storici magari resta tutelato quello specifico palazzo ma accanto si potrà fare qualunque schifezza. Fatte le somme (un tot per l’adeguamento energetico, un tot per il fotovoltaico, un tot per l’antisismico e così via…) saranno permessi ampliamenti del 140%. Un mucchio di soldi ed energie per fare piani regolatori seri ed ecco una leggina che dice: fate come vi pare».

«Ma non è vero! Al massimo l’ampliamento potrà essere del 80%. Qui si è fatta troppa demagogia — ribatte Zaia —. È una legge che va di pari passo con quella sulla cubatura zero. E non esautora affatto i sindaci. Pone fine a un eccesso di discrezionalità. Quanto allo spostamento di 200 metri, mi dicono fosse un emendamento della sinistra…».

Colpisce, però, che la maggioranza abbia tirato dritto nonostante la rivolta, come dicevamo, di moltissimi sindaci leghisti. «È chiaro l’intento degli alleati di forzare la mano per estromettere dal controllo del territorio i sindaci, da sempre baluardo della politica nazionale della Lega», aveva tuonato giorni fa Ivano Faoro, Responsabile Nazionale Enti Locali. E aveva chiuso invitando i consiglieri regionali leghisti a «votare secondo il chiaro indirizzo espresso dal partito». Macché. Contro il piano ha votato solo Matteo Toscani: «Mi ha convinto l’ostinazione dei miei colleghi nel voler esautorare i Comuni da ogni possibilità di intervento. Il piano casa viene imposto ai 581 comuni veneti d’imperio, senza alcuna possibilità di aggiustamenti locali». Un delitto: «Le amministrazioni comunali avranno buttato alle ortiche milioni di euro di risorse utilizzate per redigere i vari Prg, Pat e Pi. Ora si potrà edificare quasi ovunque cancellando decenni di pianificazione urbanistica».

Ma cosa prevede, questo piano, accolto con entusiasmo dall’Ance che pure ai convegni sostiene la necessità di riconvertire ciò che c’è? Prevede fino al maggio 2017, per tradurlo dal burocratese con le parole del Sole 24 Ore , una «norma che toglie ai Comuni la possibilità di limitare o escludere l’applicazione del piano casa nei centri storici» e «permette di operare in deroga alle norme urbanistiche ordinarie» e «in deroga ai piani urbanistici e ai piani ambientali dei parchi regionali anche se in questo caso», grazie a Dio, «è necessario il parere vincolante della Soprintendenza».

Ma ecco, abracadabra, la regola più stupefacente: «Gli ampliamenti potranno essere realizzati anche su un lotto adiacente, sino a 200 metri di distanza dall’edificio principale e su un diverso corpo di fabbrica». Come cantava Patty Pravo: «Oggi qui, domani là…». Più molti altri incentivi (basterà portare la residenza sul posto per 42 mesi: sai che fatica…) da far accapponare la pelle ai sindaci dei Comuni turistici più esposti. Come quello di Cortina Andrea Franceschi e di Asiago Andrea Gios, che pur essendo di destra avevano già dato battaglia contro il piano precedente portando il caso, ad esempio, di paesi come Roana (79% di seconde case), Gallio (82%) o Tonezza, dove le case abitate tutto l’anno sono solo il 13%. Con enormi problemi di gestione del territorio.

«È una pazzia: il nostro municipio per tagliare dieci metri quadrati di pino mugo deve presentare uno studio di impatto ambientale e invece ora per fare un ampliamento in zona agricola non serve niente di niente — attacca Gios —. È un intervento barbaro di deregulation che va contro ogni strategia organica di sviluppo e che sembra finalizzato solo a spronare meri interventi speculativi. Quella facoltà di spostare la cubatura supplementare nel raggio di 200 metri, poi! Abbiamo fatto una simulazione: ad Asiago potremmo ritrovarci dei villini a ridosso dell’Ossario. Un insulto, alla vigilia del centenario della prima guerra mondiale».

«Non ci volevo credere», confessa Tiziano Tempesta, che già aveva dimostrato come nei dintorni immediati delle meravigliose ville venete sia stato costruito il triplo della media, «è un ulteriore incentivo a favorire l’insediamento sparso». Cioè la sprawltown , quella poltiglia di case, campi, capannoni, sottopassi, villette, condomini che ha assassinato la campagna veneta.

«Non è un piano casa: è un “piano scempi”», accusa Stefano Deliperi, l’anima del Gruppo di intervento giuridico che si è fatto spazio facendo guerra ai nemici dell’ambiente non con gli striscioni ma con le carte da bollo, «un minuto dopo la pubblicazione, impugneremo tutto: qui rischiamo un Far West urbanistico». E se qualcuno esagerasse andando oltre perfino alle già generose concessioni? «Sarà costretto a pagare il 200% degli oneri di urbanizzazione che però non esistono», ride amaro Tempesta. Cioè, secondo gli ambientalisti, il doppio dello zero…

Riferimenti
Vedi su eddyburg "Piani casa" delle regioni: Lotta dura per una maggiore cubatura

Il contrasto al consumo di suolo, il risparmio energetico, la qualità ambientale e l’edilizia sostenibile diventano alibi per derogare agli standard urbanistici e alle tutele della natura e provocare città invivibili. Il grimaldello del decreto Fare.

Avevamo quasi dimenticato il passato nefasto del “piano casa” di Berlusconi. Più precisamente, del progetto di Berlusconi attuato dalle regioni di destra e di sinistra senza che governo e Parlamento deliberassero in materia. Un “piano” che voleva consentire ai piccoli, poveri proprietari di piccole, povere case e villette di ampliarle.

Adesso, grazie al famigerato decreto del Fare - frutto velenoso dell’inquinante albero delle Grandi intese - numerose regioni si stanno muovendo per trasformare le possibilità di deroga consentite dal governo Letta-Alfano, anche al di là delle plateali forzature operate con la legge Polverini nel Lazio e Cappellacci in Sardegna. L’art. 30 della legge 98/2013, “norme sulle semplificazioni in materia edilizia" stabilisce che : «le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali».

Si autorizzano insomma le regioni a cancellare gli standard urbanistici ed edilizi, cioè tutte le prescrizioni riguardanti i rapporti tra spazi pubblici e spazi privati, tra volumi edilizi e spazi aperti. Si dimentica il principio elementare dell’urbanistica secondo il quale ogni metro cubo destinato ad alloggi o a uffici, a fabbriche o a commercio, deve essere accompagnato da un determinato numero di metri quadrati di terreno aperto e destinato all’uso pubblico, e collocato dentro la città, immediatamente e agevolmente accessibile da chi in quella parte di città abita o lavora.

Alla distruzione delle buone regole (quelle che si seguono da decenni negli paesi europei) se ne impone una nuova, riassumibile in uno slogan: “lotta dura per una maggiore cubatura”. Ogni occasione è buona per aumentare la massa di volume edilizio commerciabile. Così, col pretesto della riduzione del consumo di suolo si promuovono i grattacieli, con quello del risparmio energetico si promuove la moltiplicazione dei volumi già costruiti. In tutti i casi in deroga (ecco una parola chiave della malurbanistica italiana) a qualsiasi interesse generale: da quello della tutela del paesaggio a quello della difesa della salute dei cittadini.

Il primato della devastazione del territorio urbano e del suo ordinato funzionamento, una volta vanto del partito di Berlusconi, vuole raggiungerlo ora la Lega Nord. Che giustamente comincia dal Veneto: la regione nella quale decenni di governi DC, PdL e leghisti hanno prodotto il maggiore consumo di suolo. Si leggano le nuove norme, approvate il 18 novembre scorso dalla commissione consiliare della Regione Veneto, (col voto contrario del Pd e SEL).

«Gli interventi di cui al comma 1 finalizzati al perseguimento degli attuali standard qualitativi architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza sono consentiti in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali, comunali, provinciali e regionali, ivi compresi i piani ambientali dei parchi regionali».

«La demolizione e ricostruzione, purché gli edifici siano situati in zona territoriale omogenea propria, può avvenire anche parzialmente e può prevedere incrementi del volume o della superficie:
a) fino al 70 per cento, qualora per la ricostruzione vengano utilizzate tecniche costruttive che portino la prestazione energetica dell'edificio. come definita dal decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192 "Attuazione della direttiva 2002/9 IICE relativa al rendimento energetico nell'edilizia" e dal decreto del Presidente della Repubblica 2 aprile 2009. n. 59 "Regolamento di attuazione dell 'articolo 4 comma l. lettere a) e h). del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, concernente attuazione della direttiva 2002/91 ICE sul rendimento energetico in edilizia, e successive modificazioni. alla corrispondente classe A:
b) fìno all’80 per cento. qualora l'intervento comporti l 'utilizzo delle tecniche costruttive di cui alla legge regionale 9 marzo 2007. n. 4 "Iniziative ed interventi regionali a favore dell'edilizia sostenibile»

Naturalmente, norme analoghe valgono per i territori agricoli. Ma si vada a vedere la legge che il Consiglio regionale approverà fra breve e che, c'è da credere, diventerà un modello per molte altre, che stanno affilando le loro armi.

Più che una legge, quella che la maggioranza dei consiglieri della Regione Veneto sta approvando è un manganello contro la “città dei cittadini”, contro il presente e il futuro di chi abita e lavora nel territorio veneto, in nome del risparmio energetico e della qualità ambientale.

Dopo otto anni di legge urbanistica regionale, con luci ombre e aggiustamenti parziali, finalmente la Regione Toscana si appresta ad approvarne una riforma, promossa con grande impegno dall'assessore Anna Marson. Pubblichiamo per ora il suo comunicato stampa e il link al testo della legge(m.b.)

A più di otto anni dall'entrata in vigore della legge 1/2005 la riforma approvata lunedì scorso dalla Giunta Regionale, dopo oltre due anni di lavoro e diversi mesi di concertazione istituzionale, interviene a modificarne i contenuti alla luce dell'esperienza applicativa, con la finalità di valorizzare il patrimonio territoriale e paesaggistico per uno sviluppo regionale sostenibile e durevole, contrastare il consumo di suolo promuovendo il ruolo multifunzionale del territorio rurale, sviluppare la partecipazione come componente ordinaria delle procedure di formazione dei piani.

Nell'insieme tale riforma è diretta a migliorare l'efficacia della governance interistituzionale in base ai principi della sussidiarietà, e a rendere più chiare e rapide le procedure graduando la complessità degli adempimenti in relazione alla rilevanza delle trasformazioni.

La proposta di modifica ha trattato molteplici aspetti procedurali e sostantivi, e potrà essere apprezzata soltanto attraverso una lettura compiuta dell'articolato di legge, disponibile sul sito della Regione Toscana da lunedì prossimo, quando l'atto sarà trasmesso al Consiglio Regionale per gli adempimenti di competenza. Le principali innovazioni introdotte sono sintetizzate a seguire, in ordine alfabetico, anteponendo una breve descrizione della situazione in essere che ci ha indotto a introdurre le relative modifiche.

Consumo di suolo. Nonostante la legge vigente dichiari che "nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti", dal 2005 a oggi il consumo di suolo è proseguito non solo per effetto delle previsioni già vigenti ma anche in conseguenza dei nuovi impegni di suoli agricoli a fini edificatori, in assenza di verifiche effettive sulla sussistenza di possibili alternative interne alle aree già urbanizzate.
Al fine di contrastare e ridurre al minimo strettamente necessario il consumo di suolo ciò che nel testo vigente e' soltanto un enunciato di principio viene pertanto tradotto in una serie di dispositivi operativi concreti:
- si definisce in modo puntuale il territorio urbanizzato, differenziando le procedure per intervenire all'interno dello stesso da quelle per la trasformazione in aree esterne, con particolare riferimento alla salvaguardia del territorio rurale e al fine di promuovere il riuso e la riqualificazione delle aree urbane degradate o dismesse;
- in aree esterne al territorio urbanizzato non sono consentite nuove edificazioni residenziali. Limitati impegni di suolo per destinazioni diverse da quella residenziale sono in ogni caso assoggettati al parere obbligatorio della conferenza di copianificazione d'area vasta, chiamata a verificare puntualmente, oltre alla conformità al PIT, che non sussistano alternative di riutilizzazione o riorganizzazione di insediamenti e infrastrutture esistenti;
- nel territorio urbanizzato, per promuoverne il riuso e la riqualificazione, ferme restando una serie di condizioni generali sono introdotte alcune semplificazioni.

Correttezza delle procedure ed efficacia delle norme di legge. La forte autonomia assegnata dalla legge vigente a ciascun ente territoriale nel procedimento di formazione degli strumenti della pianificazione ha comportato in questi anni interpretazioni anche piuttosto ampie e divergenti delle norme di riferimento. La conferenza paritetica interistituzionale, unico strumento di trattazione dei conflitti previsto, per riconoscimento unanime di tutte le sue componenti ha funzionato in modo apprezzabile, senza avere tuttavia il potere di rendere cogenti le proprie decisioni e mettendo così a rischio la stessa credibilità dello strumento. In seguito alla valutazione positiva del suo funzionamento si è scelto di mantenere la conferenza paritetica interistituzionale come strumento di riferimento per la regolazione dei conflitti, dotandola tuttavia dei poteri necessari ad assicurare il recepimento delle proprie conclusioni, e richiamando il ruolo di tutti i soggetti istituzionali nel far rispettare le norme di riferimento:
- i soggetti istituzionali possono adire la conferenza paritetica qualora ravvisino contrasti non solo tra gli strumenti della pianificazione ma anche rispetto alle disposizioni della presente legge;
- la conferenza paritetica valuta gli adeguamenti prodotti a seguito delle proprie conclusioni e relative richieste;
- se gli adeguamenti sono valutati negativamente, l'atto, o la parte di esso in questione, non assume efficacia.

Informazione e partecipazione. Nonostante la legge vigente preveda la costruzione partecipata dello statuto dei piani, l'attivazione di processi partecipativi strutturati è stata quasi esclusivamente limitata alle iniziative finanziate dalla legge 69/2007, che peraltro quando non inserite nel procedimento di formazione del piano hanno evidenziato problemi di relazione rispetto al piano stesso. L'accesso all'informazione è inoltre in troppi casi tuttora difficoltoso. In coerenza con la rinnovata legge regionale sulla partecipazione, 46/2013, è previsto che le attività di partecipazione siano inserite a tutti gli effetti nella procedura di formazione degli atti di governo del territorio. Gli articoli dedicati alla partecipazione degli abitanti nei procedimenti di governo del territorio sono stati riordinati, prevedendo linee guida comuni a livello regionale per garantire prestazioni omogenee, tecnicamente adeguate alle diverse tipologie di atti. E' previsto il diritto d'accesso agli atti amministrativi relativi ai procedimenti del governo del territorio senza obbligo di specifica motivazione.

Monitoraggio dell'esperienza applicativa delle legge e valutazione della sua efficacia. Attualmente non è previsto alcun tipo di monitoraggio dell'esperienza applicativa della legge che ne evidenzi eventuali problematiche operative, né di valutazione dell'efficacia della stessa nel raggiungere le finalità enunciate. Si ritiene invece fondamentale che la legge definisca le modalità per poter proporre le correzioni eventualmente necessarie alla luce di evidenze motivate derivanti dalla sua applicazione.
La conferenza paritetica interistituzionale, avvalendosi anche del monitoraggio svolto dalle strutture tecniche, formula annualmente eventuali proposte e rilievi alla Giunta in merito al funzionamento della pianificazione. La Regione al fine di valutare l'efficacia della legge e lo stato della pianificazione promuove il confronto con le rappresentanze istituzionali, le parti sociali, le associazioni ambientaliste, il mondo della cultura e dell'Università.

Patrimonio territoriale. In assenza di una definizione chiara di "statuto" del territorio e delle sue "invarianti strutturali", gran parte dei piani redatti ai sensi della legge 5/95 e 1/05 hanno interpretato lo statuto come elencazione di beni culturali e aree protette, dunque come vincoli anziché regole di corretta trasformazione dell'intero territorio, rendendo inefficace la relazione tra componente statutaria e componente strategica dei piani. L'introduzione del concetto di patrimonio territoriale, quale bene comune costitutivo dell'identità collettiva regionale, costituisce riferimento per contestualizzare le "invarianti strutturali" nello Statuto del territorio, e promuovere una più efficace relazione tra statuto e strategia dei piani. Analogamente a quanto avvenuto con il passaggio dal riconoscimento di singoli edifici di valore al riconoscimento dei centri storici quali organismi complessi caratterizzati dalle relazioni tra edilizia monumentale ed edilizia minore, e tra edifici e abitanti, compiuto tra gli anni '50 e '60 del secolo scorso, con il concetto di patrimonio territoriale esteso all'intero territorio regionale si realizza un avanzamento culturale che sottolinea il passaggio, per la Toscana, da una concezione vincolistica per aree specifiche alla messa in valore progettuale del territorio e del paesaggio nel suo insieme.

Pianificazione d'area vasta. Stante l'attuale frammentazione delle pianificazioni, e la necessità di una scala adeguata ad affrontare le scelte progettuali e pianificatorie che producono effetti al di là dei singoli confini comunali, per ambiti territoriali significativi anche dal punto di vista del raccordo con gli ambiti di paesaggio previsti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, si è ritenuto necessario riconoscere formalmente e promuovere forme di pianificazione intercomunali. E' stato introdotto e valorizzato il piano strutturale intercomunale, che insieme alla conferenza di copianificazione diventa riferimento qualificante per garantire una progettazione unitaria e multisettoriale delle trasformazioni a livello d'area vasta.

Politiche per la casa. Considerata la difficoltà degli enti locali, a fronte di una domanda sociale crescente, a dare attuazione ad adeguate politiche per la casa, anche in conseguenza della difficoltà di ottenere finanziamenti dedicati e ancor più di accedere alla disponibilità di aree a costi sostenibili, ci si è posti il problema di contribuire con le disposizioni della presente legge, per quanto possibile, a sostenere tali politiche. Si dispone che la pianificazione territoriale e urbanistica concorra alla formazione delle politiche per la casa riconoscendo gli alloggi sociali come standard urbanistico, da assicurare mediante cessione di aree, di unità immobiliari o di oneri aggiuntivi a destinazione vincolata.

Prevenzione e mitigazione dei rischi idrogeologico e sismico. I recenti e ripetuti eventi alluvionali e sismici che hanno interessato la regione hanno evidenziato l'importanza strategica di inserire nella pianificazione territoriale e urbanistica regole precauzionali chiare per la prevenzione e mitigazione dei rischi. Viene introdotta una serie di indicazioni specifiche rivolte alla formazione dei piani strutturali e dei piani operativi. Si prevede inoltre che il piano di protezione civile costituisca parte integrante del piano operativo comunale.

Qualità del territorio rurale. Il territorio rurale è tuttora considerato, in troppi casi, come un territorio privo di valore che richiede di essere 'sviluppato' attraverso previsioni di nuova urbanizzazione. Va invece emergendo con sempre maggior evidenza come il mantenimento del territorio rurale e delle sue multifunzionalità sia fondamentale per uno sviluppo sostenibile e durevole, garantendo la qualità alimentare e dell'ambiente, la riproduzione del paesaggio, l'equilibrio idrogeologico, il benessere anche economico della regione. La legge riconosce l'attività agricola come attività economico-produttiva, nel rispetto della valorizzazione dell‘ambiente e del paesaggio cui la stessa attività agricola può contribuire attraverso il suo ruolo multifunzionale, segnando con ciò una importante svolta culturale. Tale riconoscimento porta a individuare innanzitutto il principio di limitare il più possibile la frammentazione del territorio agricolo a opera di interventi non agricoli. Nel territorio rurale si prevede che gli strumenti della pianificazione individuino i "nuclei rurali", le cui trasformazioni devono garantire la coerenza con i caratteri propri degli insediamenti, gli "ambiti di pertinenza di centri e nuclei storici" di cui tutelare la valenza paesaggistica, e gli "ambiti periurbani" in cui promuovere forme di agricoltura utilmente integrabili con gli insediamenti urbani e che ne contribuiscano al miglioramento.Per quanto attiene le trasformazioni richieste dall'imprenditore agricolo vengono semplificate le procedure per una serie di interventi temporanei o di minore entità, specificate le trasformazioni aziendali che comportano la necessità di un piano attuativo, e rafforzati i vincoli e le sanzioni in caso di perdita della destinazione d'uso agricola

Riordino lessicale. Diversi contenuti della legge vigente sono di difficile lettura, né i contenuti presentano sempre una diretta correlazione logica con i titoli. In generale le norme sono state oggetto di una riscrittura attenta a promuoverne la facilità di lettura anche ai non addetti ai lavori, e a chiarire le relazioni fra i diversi dispositivi procedurali e di contenuto. Il vigente "Regolamento urbanistico" è stato ridenominato "Piano operativo" per eliminare la frequente confusione fra regolamento urbanistico e regolamento edilizio.

Tempi della pianificazione. I tempi medi di formazione degli strumenti di pianificazione dei Comuni toscani, come rilevato da una indagine Irpet del 2012, sono di circa sei anni. Tempi così lunghi comportano chiaramente un deficit di efficacia della pianificazione nel trattare le questioni rilevanti che si pongono relativamente alla gestione e trasformazione del territorio, nonché alla possibilità per i diversi soggetti potenzialmente interessati di aver contezza del procedimento e della sua evoluzione. Si è ritenuto di poter individuare in due anni il tempo massimo necessario per la formazione di uno strumento di pianificazione dall'avvio del procedimento all'approvazione. Al fine di scoraggiare tempi che superino questo termine sono state introdotte restrizioni per gli interventi urbanistici ed edilizi nei Comuni che, dall'avvio del procedimento di formazione del piano strutturale o operativo alla sua approvazione, superano i due anni. Laddove vi sia un doppio procedimento, ai fini VAS e ai fini della presente legge, è prevista la non duplicazione degli adempimenti.Sono stati specificati in maniera univoca i contenuti propri di ciascuno strumento della pianificazione, al fine di eliminare ambiguità e duplicazioni.

Tutela paesaggistica. Relativamente alla tutela paesaggistica la legge risente di una stesura precedente il Codice dei beni culturali e del paesaggio attualmente vigente, e dunque non adeguata ai contenuti dello stesso. Sono stati perfezionati i riferimenti alla normativa nazionale vigente in materia di tutela del paesaggio, specificando le valenze del PIT come piano paesaggistico ai sensi del Codice per i Beni culturali e il paesaggio (Piano paesaggistico la cui redazione è attualmente in corso di completamento, e che prevede azioni non solo di tutela ma anche di valorizzazione e riqualificazione dei paesaggi regionali). Sono stati inoltre specificati i compiti dell'osservatorio regionale del paesaggio, che avrà il ruolo, tra l'altro, di promuovere in attuazione della Convenzione europea sul paesaggio la partecipazione delle popolazioni alla tutela e valorizzazione del patrimonio paesaggistico regionale.

Anna Marson è Assessore all'Urbanistica, pianificazione del territorio e paesaggio

Qui potere raggiungere il testo del disegno di legge approvato dalla Giunta regionale

La Repubblica, 20 agosto 2013, con postilla



MENTRE la crisi avanza, crescono disoccupazione e allarme sociale, ma a certe cose non si rinuncia: tatuaggi, cibi esotici, yacht, porti turistici e altri generi di prima necessità. E se qualcosa non funziona nel Bel Paese, non può che essere una fatalità. Che cosa di più “fatale” dell’erosione delle coste?

Guardiamo le coste, distogliamo lo sguardo dalretroterra il cui degrado è concausa dei loro problemi. Già nel 2009 allarmantidati Ispra hanno evidenziato che «in Italia due terzi (oltre il 65%) delterritorio compreso nella fascia di 10 Km dal mare (...) è modellato coninterventi sull’ambiente invasivi e irreversibili ». Questo «uso del territorionon rispettoso delle sue vocazioni naturali» ha provocato il collasso delledifese contro l’azione del mare, accelerato l’estinzione delle specie marineacclimatate, distrutto dune e pinete costiere, scacciato gli aironi dalle focidei fiumi, provocato danni per almeno cinque miliardi.

Erosione e rischio allagamento sono la norma in tuttala Penisola, e il moltiplicarsi dei porti turistici, spacciato per agente delbenessere, non fa che aggravare il problema, con la concomitante invasione dicemento che non è solo quello dei moli, ma delle infrastrutture, strade,parcheggi, centri commerciali, alberghi, zone residenziali. Nella sola Liguria,50 porti turistici con oltre 20.000 posti barca (ma è previsto un incrementodel 50%). In Calabria, secondo uno studio della Regione, 5.210 abusi edilizi in700 chilometri di costa, mediamente uno ogni 135 metri, di cui «54 all’internodi Aree Marine Protette, 421 in Siti d’interesse comunitario e 130 nelle Zone aprotezione speciale», incluse le aree archeologiche.

Ma la vulnerabilità delle coste non può esser isolatadalle altre fragilità del nostro territorio. Mezzo milione le frane censite,che interessano il 10 % del Paese (anche in prossimità delle coste): un degradovelocizzato dall’abbandono degli spazi rurali, da incendi boschivi spessodolosi, dalla cementificazione che sigillando i suoli accresce la probabilitàdi alluvioni e ne rende più gravi gli effetti, dall’incuria per il regime delleacque, che riduce le risorse idriche e contribuisce a generare esondazioni.Alla cementificazione delle coste corrisponde la desertificazione di colline emontagne, l’abbandono di suolo agricolo e di risorse idriche, l’abbattimento diboschi e pinete che fragilizza il territorio alterando gli equilibri tettonici.La famosa definizione della Calabria come «uno sfasciume pendulo sul mare»(Giustino Fortunato, 1904) non solo è ancora attuale, ma a ogni anno che passasi applica a porzioni crescenti dei nostri litorali: e questo in un territoriocome quello italiano, esposto per morfologia anche ad altre calamità, come i terremotie le eruzioni vulcaniche. Eppure chi ci governa si acceca per non vedere.

Massimo esempio, Giampilieri presso Messina: dopo un’alluvione con 38 morti,Bertolaso (sottosegretario con Berlusconi) dichiarò prontamente che eraimpossibile trovare due miliardi per mettere in sicurezza le franose spondedello Stretto, per giunta soggette a sismi di massima violenza (l’ultimo, nel1908, seguito da tsunami: 120.000 morti); due giorni dopo il ministrodell’Ambiente Prestigiacomo dichiarò che il Ponte sullo Stretto andava fatto adogni costo. In nome dello “sviluppo”, inteso come cementificazione a oltranza,la cura del territorio viene archiviata come un optional di lusso.

Un caso recente può simboleggiare quanto staaccadendo, e stavolta in una regione che passa per essere (e forse è) la più“virtuosa”, la Toscana: il fiume Cecina, la sua valle (che è, o era, fra le piùbelle d’Italia) e la sua foce. Il 4 luglio la Procura di Livorno hariconosciuto che almeno fino al 2011 la Solvay (che usa a scopi industrialiquasi il 50% dell’acqua del Cecina) ha riversato in mare fanghi tossici inmisura doppia a quanto consentito: le cosiddette “spiagge bianche” devono illoro colore, a quanto pare, a componenti chimiche dannose. Intanto la foce delfiume viene spostata, annientando spiagge e pinete per costruire l’invaso di unennesimo porto turistico con 800 posti barca, 2000 posti auto, un eliporto,alberghi, appartamenti, centri commerciali, ristoranti, mercati («Arriva ilporto e sparisce mezza spiaggia» titolava il Tirreno l’11 agosto).

Secondo uno studio di Italia Nostra, questa violentatrasformazione dell’area «favorità il deposito di detriti, l’insabbiamentodella foce, l’alluvionamento degli abitati di Marina di Cecina in occasionedelle piene ordinarie, l’impedimento del deflusso a mare delle acquesuperficiali e sotterranee, il rigurgito delle acque e l’impaludamento dellezone interne, la totale alterazione dell’ecosistema di foce».
Davanti a questied altri delitti, si sveglierà il governo Letta? O dovremo continuare a subire,come nella successione indolore da Clini-direttore generale a Clini-ministro,la retorica provinciale che ribattezza il litorale con l’etichetta diwaterfront per potervi meglio infierire al riparo di una parola d’accatto?Quando capiremo che il principale nemico della sicurezza del nostro territorioè il cemento che giorno e notte (feste incluse) divora 8 metri quadrati disuolo al secondo? Quando verrà in mente a chi ci governa che è urgentissimo unpiano nazionale di prevenzione e di messa in sicurezza del territorio? Chequesta, e non i porti turistici né il Tav, è l’unica, la vera “grande opera” dicui l’Italia ha bisogno? Con le parole di Giovanni Urbani, grande direttoredell’Istituto Centrale per il Restauro, «ci vorrebbe assai poco, una voltasaputo che metà della nazione è esposta a gravi rischi, per proiettare suquesta scala le perdite subite a ogni evento, e calcolare il corrispettivodanno economico che incombe sulla penisola ove persistesse, come purtroppocertamente persisterà, l’assenza di ogni politica di difesa del suolo e diconsolidamento preventivo dell’edilizia storica».

Postilla

Tout se tient, tutto si tiene insieme Varrebbe la pena di valutare corrispondenze ancora più dirette da quelle evocate dall’articolo di Settis tra l’erosione delle spiagge e lo “sviluppo” basato sulla continua espansione delle costruzioni e delle infrastrutture. In molte zone dell’Italia l’erosione è direttamente correlata all’asporto dei materiali inerti dai corsi d’acqua, necessaria per la formazione del cemento armato. Le cause del degrado del Belpaese sono certamente molte. Esse hanno un’ampia radice comune; vorrei sottolineare che tra i suoi rami c’è anche l’abbandono del metodo e degli strumenti della pianificazione, sia di quella “generale” (piani urbanistici comunali e piani territoriali regionali e provinciali) sia “specialistica” (piani di bacino e piani paesaggistici ( di competenza regionale e statale)
A proposito di tutela del paesaggio e dell’ambiente voglio sottolineare infine come l’opinione pubblica sia tenuta all’oscuro di un’azione che si sta perpetrando per il degrado di una costa (quella della Sardegna) fino a oggi ancora tutelata dalla saggia ed efficace pianificazione paesaggistica attuata dalla giunta di Renato Soru in accordo con gli organi satali competenti, che l’attuale giunta regionale, con la complicità di altre forze politiche, sta tentando fin dal suo insediamento. Nel silenzio non solo dei media ma, finora, perfino dal competenti organi dello Stato. (si veda in proposito, tra i numerosi materiali pubblicati su eddyburg, il recente intervento di Elio Garzillo, già direttore regionale del Mibac per la Sardegna).

Nel disegno di riforma della legge regionale toscana le modifiche all’impianto procedurale sono integrate con una più estesa revisione dell’orientamento culturale, fondate sulla fertile distinzione tra "risorsa" e "patrimonio", cioè tra valora di scambio e valor d'uso. EyesReg, Vol.3, N.4 – Luglio 2013

Il recente articolo di Ferdinando Semboloni, pubblicato sul numero 3 (Vol.3, Maggio 2013) di EyesReg, affronta in maniera molto opportuna uno dei temi destinati ad incidere fortemente sulla pianificazione della Regione Toscana con prevedibili conseguenze anche sul dibattito nazionale: la riforma della Legge Regionale 1/2005 sul Governo del Territorio, recentemente proposta dall’Assessore Anna Marson. Un disegno di legge che, pur essendo ancora in una fase di definizione e modifica, ha visto fin da subito il netto contrapporsi tra Regione e Associazione dei Comuni, in particolar modo sui temi del controllo sugli strumenti operativi comunali e sulla reintroduzione di un sistema istituzionale-amministrativo accusato di essere eccessivamente piramidale (Semboloni, 2013).

Le preoccupazioni dei Comuni, seppur legittime, rischiano però di sviare l’attenzione dei media e degli amministratori stessi dai contenuti di natura culturale e tecnica introdotti e modificati dalla proposta di legge, ponendo al contrario maggiore attenzione sugli aspetti organizzativi e procedurali. Ferma restando l’impostazione originaria della legge oggi vigente, è possibile infatti leggere all’interno del nuovo articolato alcuni aspetti innovativi di ordine generale volti ad adeguare e risolvere problematiche gestionali e concettuali emerse negli otto anni di efficacia della 1/2005.

Già nei primi articoli del disegno di legge, quelli dedicati alla definizione degli obiettivi e delle finalità, è possibile ravvisare alcune modifiche lessicali interessanti per capire la nuova visione strategica e culturale che si pone alla base dell’azione normativa.
La promozione dello “sviluppo sostenibile delle attività pubbliche e private che incidono sul territorio”, enunciata al primo comma dell’art. 1 e definita appunto quale oggetto e finalità delle successive disposizioni, diventa nella nuova stesura “la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio territoriale inteso come bene comune”; un cambiamento – rilevato da Semboloni – solo apparentemente formale, che tuttavia manifesta una profonda revisione dei modelli socio-economici dai quali la legge trae ispirazione.

Il modello dello sviluppo sostenibile – di un processo cioè che, tenendo conto delle capacità di auto-riproduzione dei sistemi di risorse alle quali attinge, è per definizione orientato ad una progressiva dinamica di crescita – è sostituito e mutuato dalla possibilità che il sistema economico-territoriale permanga in una condizione di equilibrio nel quale le azioni umane divengono tese non tanto ed esclusivamente allo sviluppo quanto alla conservazione e alla manutenzione dei territori.
Il nuovo testo normativo sembra assumere la sempre più diffusa perplessità che possa esistere un modello di sviluppo permanente, ancorché sostenibile, e condividere la tesi che un modello di una crescita infinita in un mondo finito sia contrario alle generali leggi della natura. (Georgescu-Roegen, 1994).

Ne deriva una concezione essenzialmente meno dinamica dell’interazione tra azioni umane e ambiente e sicuramente meno antropocentrica. L’obiettivo della pianificazione è quello della salvaguardia e della valorizzazione agenti, continua il nuovo testo, “in funzione di uno sviluppo locale sostenibile e durevole” che tuttavia diventa una possibilità subordinata e non più un obiettivo.
E’ riscontrabile in questa impostazione la sempre maggiore influenza esercitata in ambito economico-sociale, complice forse anche il particolare momento che l’Europa sta attraversando, dalle teorie della decrescita, riproposte e articolate negli ultimi anni da molti autori fra i quali il più noto è Serge Latouche, sostenitore della necessità di nuovo modello sociale post-sviluppo basato appunto sull’assenza di crescita e di sovra consumo (Latouche, 2008).

Una lettura confermata da un’altra proposta di modifica che riguarda sempre il Titolo I della legge: la modifica dell’art. 3 e la sostituzione del termine “risorse essenziali del territorio” in “patrimonio territoriale”. Anche in questo caso il termine risorsa, che induce a una visione del territorio e dell’ambiente in chiave produttiva, come materia prima, è sostituito da un termine, quello di patrimonio, che rimanda ad una stratificazione di lungo periodo non necessariamente finalizzata allo sviluppo e alla trasformazione.

Una distinzione, quella tra risorsa e patrimonio, più volte sostenuta e approfondita anche da Alberto Magnaghi (2000), fautore di una visione nella quale è “utile distinguere il patrimonio (che … è di lunga durata e in essa si costruisce e si accumula) dal suo uso come risorsa (che è contingente e relativa al ruolo che una specifica civiltà gli attribuisce)”. Una visione nella quale, per usare i termini di Semboloni, l’invarianza è preminente rispetto al cambiamento (Semboloni 2013)
Si delinea quindi, seppur nei limiti di un testo normativo ancora fluido e mutevole, un parziale cambio del paradigma culturale che informa la legge e le conseguenti politiche di governo del territorio. Una modifica degli obiettivi alla luce di una visione post-sviluppo destinata giocoforza a prendere corpo nel dibattito urbanistico.

Un’altra linea di azione del processo di revisione è quelle tesa a precisare e definire alcuni strumenti normativi che rendano conseguenti e coerenti le parti statutarie degli strumenti urbanistici con quelle di natura più marcatamente operativa. E’ indubbio d’altronde come alcuni importanti temi della pianificazione abbiano assunto in questi anni una natura puramente dichiarativa, quasi con valenza di manifesto, per poi avere un’influenza minima nella pratica pianificatoria corrente.
Una volontà, quella di legare in modo più efficace gli elementi generali con quelli operativi, che è leggibile nelle modifiche riguardanti lo statuto del territorio, definito come cardine dell’identità dei luoghi e criterio di individuazione dei percorsi di democrazia partecipata dall’art. 5 del testo vigente e che viene rafforzato nella nuova stesura sottolineandone la valenza di “quadro di riferimento conformativo per le previsioni di trasformazione” da redigere attraverso la partecipazione delle comunità interessate.

La specificazione della natura “conformativa” e partecipata assegna così allo statuto del territorio una valenza che va ben oltre l’esposizione di auspici, indirizzi e generiche strategie andando ad interessare direttamente la disciplina d’uso dei suoli. Anche il tema del consumo di suolo agricolo è approfondito e spostato dalla generale enunciazione, finora limitata alla definizione della priorità del recupero e della riutilizzazione rispetto alla nuova edificazione (comma 4 dell’art.3 del testo vigente), alla precisa, e per certi aspetti radicale, individuazione degli ambiti suscettibili ad essere interessati da nuovi impegni di suolo. Nella proposta di legge, non unica ad avere una tale impostazione, (De Lucia 2013; AA.VV Eddyburg 2007) le previsioni di nuova edificazione potranno interessare solo le aree già urbanizzate e prive di caratteri di ruralità, operando così un sostanziale congelamento dei margini urbani esistenti. Le deroghe previste per gli insediamenti commerciali, produttivi e per le opere infrastrutturali vengono subordinate ad una verifica di sostenibilità nei confronti di una, forse poco precisata, area vasta.

Nell’ambito di una nuova articolazione normativa, rilevando alcune carenze emerse nell’attuazione della legge, è introdotta la proposta che forse più di tutte ha destato le opposizioni dei Comuni, ovvero la competenza della Regione ad esprimersi circa la conformità degli strumenti urbanistici, di qualsiasi livello, alla Legge regionale. Un passo indietro secondo i Comuni che leggono questa nuova impostazione come una negazione del principio di sussidiarietà tra i diversi livelli amministrativi introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della Costituzione, così da prefigurare, secondo l’ANCI, un sostanziale ritorno al sistema normativo del “command and control” . Finora infatti Regione Toscana e Province limitavano il loro ruolo alla verifica di conformità rispetto ai relativi strumenti della pianificazione sovracomunale senza esprimere pareri in merito alla conformità generale nei confronti della legge, e senza esercitare forme di controllo sui contenuti della pianificazione.

Vero è che una tale impostazione ha spesso escluso la verifica dell’attuazione delle politiche strategiche regionali e portato ad una generale disomogeneità di linguaggi e strumenti tra i Comuni toscani. Su questo tema, peraltro, la Regione ha già mostrato una forte attenzione: è in questi giorni al vaglio delle Commissioni del Consiglio un ulteriore disegno di legge, che prevede la modifica dell’articolo 144 della 1/2005 e assegna al legislatore regionale il compito di definire, attraverso uno specifico regolamento, parametri urbanistici e definizioni che siano comuni, omogenei ed uniformi per tutto il territorio regionale.

Nuove procedure interessano anche gli istituti della partecipazione, inseguendo anche in questo caso la necessità di superare procedure formali che poco o nulla incidono sul processo decisionale. L’intenzione appare quella di spostare e garantire l’effettivo coinvolgimento delle comunità nella fase di progetto del piano, in una fase cioè in cui le scelte sono davvero suscettibili di essere modificate e integrate con eventuali soluzioni alternative. A questo scopo è introdotta l’obbligatorietà dell’avvio del procedimento anche per la fase di redazione e di approvazione del piano e il rafforzamento del Garante della Comunicazione come Garante del Partecipazione.

Interessante è infine il ritorno ad alcuni temi della pianificazione intercomunale con l’introduzione della possibilità di redigere un unico Piano Strutturale che interessi più amministrazioni. La pianificazione di area vasta è un tema che, più volte naufragato a livello nazionale, continua ad essere cruciale per la pianificazione strutturale dei comuni toscani, troppo spesso stretti in confini amministrativi che poco rispecchiano le peculiarità dei territori, e che per questo meriterebbe un ben più articolato ed organico momento di riflessione e approfondimento.
Nel disegno di riforma della legge regionale toscana modifiche all’impianto procedurale sembrano quindi convivere, integrate, con una più estesa revisione dell’orientamento culturale. Difficile è oggi stabilire in quale misura questi aggiustamenti normativi possano dare concreta risposta ai complessi problemi emersi negli anni di efficacia della Legge 1/2005; certo rimane indubbia l’opportunità di riaccendere un dibattito e una discussione su tematiche territoriali che vadano oltre la contrapposizione partigiana tra i diversi livelli istituzionali.

Riferimenti bibliografici
AA.VV. Proposta di legge urbanistica, Eddyburg 20/02/2007,
ANCI Toscana, (2013), P.d.L. di modifica della L.R. 1/2005, Sintesi dei contenuti, ANCI Toscana, Working Paper.
ANCI Toscana, (2013), P.d.L. di modifica della L.R. 1/2005, I temi principali, ANCI Toscana, Working Paper.
De Lucia V. (2013), Una proposta di legge per la salvaguardia del territorio non urbanizzato, Eddyburg 03/06/2013
Georgescu Rougen N. (1994), La Décroissance. Entropie, écologie, économie, a cura di Jacques Grinevald e Ivo Rens, Parigi, Sang de la terre.
Latouche S. (2008), Breve trattato sulla decrescita serena, Torino: Bollati Boringhieri.
Magnaghi A. (2000), Il progetto locale, Torino: Bollati Boringhieri.
Marson A. (2006), Dalla città metropolitana alla (bio) regione urbana, in Marson A. (a cura di) Il progetto di territorio nella città metropolitana, Firenze: Alinea.
Semboloni F. (2013), "Le leggi urbanistiche regionali e il governo delle dinamiche territoriali", Eyesreg vol.3 n.3 maggio 2013
Semboloni F., (2013), "La Regione contro tutti. L’assessore riscrive la legge urbanistica regionale", Toscana Oggi, 3/4/2013

Un pessimo piano urbanistico alla luce di un’ottima proposta di modifica d’una pessima legge regionale. Il tutto nella città di Matteo Renzi. Intervento al convegno organizzato dalla "Lista di cittadinanza perUnaltracittà", 22 aprile 2013 Lo pubblichiamo tardivamente, ma in certi casi è meglio tardi che mai.
Firenze: un piano già vecchio.alla luce delle modifiche proposte per la LR 1/2005.
Intervento al convegno “Per una nuova urbanistica regionale. La riscrittura della legge sul governo del territorio”, Firenze, Palazzo Vecchio, 23 aprile 2013

La legge urbanistica regionale (LR 1/2005) è uno dei frutti più maturi dell’«esasperata concezione del pluralismo istituzionale paritario, derivato dalle infelici modifiche al titolo V della Costituzione». L’attuale proposta di modifica mira a contenere il consumo di suolo, incrementando la pianificazione sovracomunale, e a coordinare e omogeneizzare gli atti di governo del territorio al fine di conferire loro la necessaria trasparenza ed efficacia.

Dare trasparenza ed efficacia al piano strutturale fiorentino, approvato con pompa mediatica nel giugno 2012 a cinquant’anni esatti dal piano Detti, è opera ardua. Del piano strutturale è stata criticata l’assenza di un’idea specifica di città, l’esiguità dell’indagine conoscitiva, la non convincente formulazione delle invarianti strutturali e la mancanza di strumenti di tutela specifica del centro storico. Il piano si presenta come mera sommatoria di slogan, tra i quali i “volumi zero”, smentiti, a pochi mesi dalla sua approvazione, dai grandi volumi edilizi già partiti in variante al vigente PRG – dodici in tutto, tra cui la Manifattura Tabacchi. Nelle righe che seguono vedremo come l’applicazione della proposta nuova legge urbanistica contribuirebbe a dare alla città di Firenze un piano e un regolamento urbanistico di effettiva valenza pianificatoria. Ci concentreremo in particolare sugli aspetti inerenti la parte statutaria del piano, sul riconoscimento, interpretazione e rappresentazione dei fenomeni territoriali di lunga durata, sul possibile rapporto città-campagna.

Le modifiche proposte dall’assessore Anna Marson (che per comodità chiameremo “proposta Marson”) danno qualità culturale alla legge vigente. Fondamentale in tal senso il passaggio dal concetto di “risorsa” e “prestazione” territoriale, a “patrimonio territoriale”, ovvero il passaggio dal valore di scambio (risorse), al valore di esistenza e di uso (patrimonio) insito nel paradigma adottato dalla legge. Per patrimonio territoriale, si legge nel proposto art. 3, c. 1, «si intende l’insieme delle strutture di lunga durata prodotte dalla coevoluzione fra ambiente naturale e insediamenti umani, di cui è riconosciuto il valore per le generazioni presenti e future». Si passa così dalla “tutela delle risorse” alla «promozione e garanzia di riproduzione del patrimonio territoriale» attribuendo, positivamente, accezione evolutivo-genetica ai contenuti di legge e dunque ai futuri piani e progetti urbanistico-territoriali.

Gli elementi che costituiscono il patrimonio – «la cui percezione da parte delle popolazioni esprim[e] l’identità paesaggistica della Toscana» (è evidente la citazione della Convenzione europea del paesaggio) – derivano dalla lettura strutturale del territorio e si riferiscono alle quattro voci dei sistemi: idrogeomorfologico; ecosistemico; insediativo; agroforestale. Esse richiamano le invarianti sui cui si fonda il piano paesaggistico, contenuto a sua volta nel piano di indirizzo territoriale e attualmente in fase di revisione.

La proposta Marson rafforza il côté statutario dell’impostazione legislativa che separava, fin dalla sua prima versione (LR 5/1995), il piano urbanistico in: parte statutaria, appunto, e parte operativa. Lo statuto, «atto di riconoscimento identitario mediante il quale la comunità locale riconosce il proprio patrimonio territoriale e ne individua le regole di tutela, riproduzione e trasformazione», sarà costruito con la partecipazione dei cittadini. Le «invarianti strutturali», già previste dalla citata LR 5, vengono ora definite con chiarezza, lasciandosi alle spalle il fumoso articolo 4 della LR1/2005, perla nera di quel pessimo italiano che, lungo tutto l’articolato, si è dimostrato funzionale alla creatività esegetica e, quindi, speculativa (non solo in senso filosofico). Le invarianti strutturali si attengono agli aspetti morfologici del patrimonio territoriale, agli assetti tipologici, alle loro interrelazioni e alle «regole generative, di manutenzione e di trasformazione del patrimonio territoriale che ne assicurano la persistenza» (versione proposta, art. 4, comma 1, lett. c).

Gli atti della pianificazione dovranno adeguarsi al paradigma interpretativo sopra esposto: ne discende che il PS fiorentino, nella sua parte strutturale, sarà totalmente da riscrivere. Basti ricordare in questa sede che le quattro invarianti strutturali riconosciute («nucleo storico»; «tessuti storici e di relazione con il paesaggio aperto»; «i fiumi e le valli»; «il paesaggio aperto» [sic! cfr. la tav. 2 (Invarianti strutturali) facente parte dei documenti del PS] e sommariamente concepite come areali non arrivano a coprire l’intero territorio comunale. La villa medicea di Careggi, la sequenza dei borghi medievali lungo la via Pistoiese, l’area di Castello, Novoli, rientrano senza distinzione nel dominio dell’hic sunt leones. Il travisamento concettuale dello statuto del territorio, strumento fondativo di riconoscimento dei principi della pianificazione comunale, è palesemente dimostrato dall’inserimento dello stesso nelle norme tecniche di attuazione (un po’ come se la carta costituzionale si venisse a trovare inglobata nel novero delle leggi ordinarie).

Per scontentare preventivamente quei comuni che finora hanno flirtato con i poteri forti della speculazione fondiaria, la proposta Marson ristruttura il comma 4 dell’art. 3, attualmente vigente ma mai attuato, il quale sanciva che «nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti» (LR 1/2005). Il comma è approfondito e si trasforma in un articolo autonomo (art. 3 bis, Condizioni per le trasformazioni) che perentoriamente definisce il territorio urbanizzato, tracciando idealmente una linea rossa tra città e campagna. Ne riportiamo la definizione: «Il territorio urbanizzato è costituito da: i centri storici, le aree residenziali edificate con continuità dei lotti, gli insediamenti produttivi, commerciali, direzionali, le attrezzature e i servizi, gli impianti tecnologici, i lotti interclusi dotati di opere di urbanizzazione primaria. Non sono considerate territorio urbanizzato le aree che presentano caratteri riconoscibili di ruralità, ancorché incluse al suo interno, così come i singoli edifici, l’edificato sparso o discontinuo nonchè i borghi presenti nel territorio rurale» (prop. Marson, art. 3 bis, comma 3).

In conformità con il principio espresso al comma 1 del medesimo articolo, per cui «nessun elemento costitutivo del patrimonio territoriale [...] può essere ridotto in modo significativo e irreversibile», fuori dal territorio urbanizzato è impedito qualsiasi nuovo impegno di suolo non edificato. Nel caso in cui invece lo strumento urbanistico comunale proponga nuovo impegno di suolo al di fuori delle aree urbanizzate, «limitatamente a destinazioni produttive, infrastrutturali e di grandi strutture di vendita» (ma non residenziali, che non sono consentite eccetto eventualmente le residenze rurali), le trasformazioni saranno consentite previa verifica di sostenibilità per ambiti di area coincidenti con gli ambiti di paesaggio (ai sensi del CBCP art. 135, c. 2) su cui è impostato l’elaborando piano paesaggistico; procede alla verifica di sostenibilità una “conferenza di pianificazione”, in cui la Regione avrebbe «parere vincolante» (prop. Marson, art. 17 septies).

Torniamo al PS del Comune di Firenze. Malgrado i proclami dei “volumi zero”, affidati dal sindaco all’etere peninsulare, il piano si è guardato dal definire e riconoscere i confini dell’urbanizzato: sappiamo che il PS non è conformativo della proprietà e pertanto siamo in attesa di vedere se un segno di tanto peso sarà tracciato nel regolamento urbanistico. Nelle intenzioni dell’assessorato, per ora, non se ne legge alcun indizio. Come non vi è traccia di una proposta organica a scala urbana del riuso dei contenitori dismessi sui quali dovrebbe concentrarsi il disegno dell’assetto futuro della città che non cresce. Si tratta di un enorme patrimonio pubblico e privato, in dismissione o già vuoto, sul cui destino il documento di avvio del regolamento urbanistico si chiede: «chi è in grado di dire – oggi – quale mix di funzioni potrebbe essere sostenuto da quegli edifici?» Al fine di definire le previsioni del RU, il Comune procede alla consultazione dei proprietari di immobili in trasformazione di superficie maggiore ai 2000 mq, facendo uso del “bando di pubblico avviso” – peraltro emanato dal sindaco con propria “determina”, senza passare dalla discussione in Consiglio. Il “pubblico avviso”, strumento previsto dall’art. 13 del reg. 3/R/2007 alla LR 1/2005 (con criteri più inclusivi rispetto a quelli individuati a Firenze) va nella direzione dell’esproprio della titolarità pubblica della pianificazione: pertanto auspichiamo che, a legge riscritta, si abroghi questo istituto che contribuisce fortemente alla degenerazione in senso privatistico dello strumento urbanistico.

A rafforzare la portata innovativa della linea rossa – invisa all’ANCI, all’INU e all’assessore Meucci di conserva – è la previsione di possibili “ambiti di pertinenza” paesaggistica. Si tratta di una disposizione presente nella letteratura urbanistica: ricordiamo, in Toscana, il PTCP di Siena, arch. Gian Franco Di Pietro (e ora ritoccato dalla matita consenziente di Silvia Viviani), che definiva le aree di pertinenza paesistica di centri urbani, aggregati, ville ed edifici specialistici, eliminate tuttavia in fase di approvazione del piano (che amplificava il malessere dei comuni con la contestuale previsione dell’ “ambito preferenziale di completamento e crescita urbana”). Oppure, nella pianificazione delle regioni a statuto speciale, la cosiddetta Tutela degli insiemi o Ensembleschutz messa in atto dalla legge urbanistica della Provincia di Bolzano che riconosce il valore paesaggistico-memoriale di insiemi formati da manufatti edilizi e rurali, sottoponendoli a specifica normativa relativa alle relazioni intercorrenti tra gli elementi dell’insieme stesso. Anna Marson propone che nei propri piani strutturali i comuni, oltre ad individuare gli ambiti di pertinenza dei centri e nuclei storici, identificandone gli aspetti di valenza paesaggistica da mantenere e riprodurre, definiscano le aree caratterizzate dalla prossimità con il territorio urbanizzato, definite “ambiti periurbani”. In riferimento alle corone dei centri urbani e delle periferie, tema oggi al centro delle riflessioni disciplinari, le proposte per la nuova legge urbanistica raggiungono una lucidità progettuale che chiama in causa l’intersettorialità necessaria alla buona pianificazione territoriale: i piani di settore dovranno promuovere «il sostegno di tutte quelle forme di agricoltura che possano garantire il mantenimento o il recupero delle sistemazioni agrarie tradizionali di valenza anche paesaggistica» (proposta Marson, art. 41, c. 2), nonché, nelle fasce periurbane, «quelle forme di agricoltura utilmente integrabili con gli insediamenti urbani, dagli orti sociali all’agricoltura multifunzionale» (ivi, art. 42, c. 2) salvaguardando gli elementi del paesaggio rurale storico ancora presenti, favorendo il loro incremento, e garantendo le connessione ecologiche e fruitive tra il territorio urbanizzato e quello rurale.

Arriviamo infine alla definizione dei contenuti degli atti di governo del territorio (ivi inclusi anche i piani intercomunali promossi dall’assessorato), limitandoci nella nostra analisi ai piani comunali. La parte statutaria dovrà contenere il quadro conoscitivo redatto ai sensi di quanto già detto sopra in merito a invarianti e riconoscimento del patrimonio territoriale, la perimetrazione dei centri e dei nuclei storici (oltre a quella delle aree di pertinenza) e delle aree urbanizzate, l’individuazione delle invarianti strutturali, nonché le regole di tutela e disciplina del patrimonio territoriale, comprensive dell’adeguamento alla disciplina paesaggistica del PIT (prop. Marson, art. 53). In molti dei passaggi sottolineati in queste pagine, risulta evidente l’interconnessione tra le proposte di legge e la disciplina pasaggistica. Attraverso questi due strumenti, legge regionale riformata e nuovo piano paesaggistico, l’assessorato Marson – senza intaccare l’autonomia – tenta la messa in pratica di politiche locali coordinate e omogenee nel segno dell’innalzamento della qualità degli ambienti di vita, della tutela e della riproducibilità dei paesaggi regionali. Con l’appoggio, per ora, di comitati e movimenti.

Una discussione che riguarda solo la Toscana: vogliamo la sussidierietà alla Jacques Delors o alla Bossi-Bassanini? Un articolo da perunaltracittà, 22 aprile 2013, con postilla

E' interessante il dibattito che si è acceso sulle proposte di revisione della Legge regionale urbanistica presentate dall’assessore Anna Marson. Si tratta di un tentativo di rimettere ordine nei concetti di base del governo del territorio, di sistematizzare definizioni e categorie per meglio individuare le risorse di un territorio di eccezionale valore come quello toscano, ma di cui conosciamo anche la fragilità. Ecco allora i principi di base come riferimento per tutti i livelli della pianificazione: sostenibilità, non riduzione delle risorse, riduzione del consumo di suolo, meglio articolati e definiti rispetto alle precedenti vesti normative. Una operazione culturale prima di tutto, che andrebbe considerata nel suo insieme, prima di vedere le virgole delle procedure.

La proposta ha già sollevato critiche da parte di alcune amministrazioni comunali, tra cui quella fiorentina, per una una presunta perdita di autorità e autonomia del Comune rispetto ad una Regione che tornerebbe ad essere Ente sovraordinato: si è letto di approvazione regionale dei piani, di potere di veto, di modello gerarchico. Eppure se prendiamo il testo della norma si cerca – inutilmente – traccia di tutto questo.

Gli articoli 15 e 17 disciplinano la formazione degli strumenti urbanistici, tutti, da PIT al PTC al Piano strutturale. E per tutti c’è l’adozione e l’approvazione da parte dell’Ente che lo promuove e la presentazione di osservazioni da parte di chiunque. Ma sempre il Comune decide sulle eventuali osservazioni e dà conto delle proprie determinazioni in sede di approvazione.

Quindi nessuna “approvazione“ da parte di un Ente sovraordinato, e nessuna espropriazione delle competenze dei Comuni. Semmai, aggiungiamo, come siano state usate queste competenze e questa libertà da parte di molti comuni dovrebbe essere oggetto di opportune valutazioni. Ma forse quello che suscita scandalo sono i poteri della Commissione paritetica. Vediamo: nel caso la Regione rilevi una violazione delle norme generali, può richiedere la pronuncia della Commissione, che è formata da rappresentanti della Regione, della Provincia e del Comune in pari numero. Qualora la Commissione accerti la sussistenza di tale contrasto, a differenza che nel passato, l’adeguamento è obbligatorio. Ma si tratta, ricordiamolo, di accertati contrasti con norme di legge. Non sarà che una delle critiche mosse (“c’è troppa pianificazione”) rispecchi le opinioni di chi alla chiarezza preferisce la libertà dell’opinabile?

Di tutto questo si parla domani pomeriggio [il 23 aprile]in Palazzo Vecchio alle ore 16.30 (Sala delle Miniature) nell'incontro organizzato da perUnaltracittà “Per una nuova urbanistica regionale”, con interventi di urbanisti, professionisti, docenti universitari e comitati.

Postilla

Non so com'è stato il dibattito né quindi si sia reagito alla preoccupazione dei comuni. La questione sottesa alla citica all'a presunta ingerenza regionale ha una portata vasta. ed è una questione nodale per chiunque creda che la pianificazione del territorio sia necessaria, che essa sia un diritto/dovere delle istituzioni della democrazia e che queste siano oggi ancora quelle stabilite da quel monumento della nostra civiltà che è la Costituzione della Repubblica. La questione è quella del cosiddetto " principio di sussidiarietà. Di questo esistono due versioni: una europea, elaborata da Jaques Delors e iscritta nei codici dell'Unione europea, e una italiota, che è dovuta all'infecondo connubio tra Umberto Bossi e Franco Bassanini: tra laLega Nord el'ex PCI nella fase iniziale del suo disfacimento. Molto sinteticamente (ma rinvio chi voglia comprendere, o ricordare, meglio a un mio scritto nell'archivio di eddyburg (e precisamente qui). Nell'interpretazione italiota la sussidiarietà significa "tutto il potere al basso", secondo quella europea significa invece "ad ogni livello istituzionale del sistema democratica appartenga la responsabilità delle scelte relative agli oggetti e aspetti della vita del territorio che a quel livello si possono governare con migliore efficacia.. Nello scritto cui ho appena rinviato potrete trovare un'argomentazione un po' più ampia e, forse convincente dell'utilità che Stato, Regione, Provincia e Città metropolitana, Comune siano tutti coinvolti nella discussione e valutazione delle opzioni (e magari pure i cittadini), ma che la decisione ultima spetti a chi può farlo meglio. tenendo conto del fatto che, in particolare oggi, se non decidono secondo logiche coerenti i poteri istituzionali della nostra democrazia agiscono altri poteri, mossi da altri interessi e legati tra loro da altre convenienze.



Una valutazione attenta, perciò critica, del documento regionale dell’11 febbraio scorso: positivi le intenzioni e i contenuti, ma debole l’efficacia normativa .

Il fotovoltaico è in continua espansione, nel 2012 la Toscana ha visto 7.381 nuovi impianti, in gran parte piccoli e medi (3 - 20 kw), ma l'interesse per i grandi non va trascurato. Necessario, non proprio tempestivo, quindi l'intervento del Consiglio della Regione Toscana, che ha emanato «Criteri e modalità di installazione degli impianti fotovoltaici a terra ed impianti fotovoltaici posti su frangisole», per gli impianti di potenza superiore a 20 kW e tutti quelli posti nelle aree sottoposte a tutela dei beni culturali e/o paesaggistici.

Le criticità degli impianti a carattere industriale sono evidenti, parti del territorio nazionale soffrono coperture impattanti, che invadono anche zone di notevole pregio agronomico. La Coldiretti stima che in Italia il fotovoltaico a terra copra 3.316 ettari, poco meno della metà in Puglia (1.480), ma superfici ragguardevoli si trovano nel Lazio (380) e in Emilia Romagna (340). La situazione toscana non è tra le peggiori ma non mancano situazioni eclatanti come a Roffia, San Miniato, con 60 ettari concentrati nel 3% del territorio comunale, e progetti devastanti come quello per 97 ettari tra Roccastrada e Civitella Marittima, su un'area di evidente pregio. Ci ha evitato il peggio forse una più diffusa sensibilità per il paesaggio, dato che l'intervento normativo è stato tardivo: CIA e Coldiretti chiedevano con forza l'intervento della Regione per salvaguardare i terreni agricoli, intervento che si è concretizzato solo nel marzo 2011. Determinante, nel limitare fortemente la diffusione, è stata l'abolizione degli incentivi per il fotovoltaico a terra in aree agricole da parte del Governo Monti. Questo è il più efficacie indicatore di quanto sia sconsiderata la conversione alla produzione energetica dei terreni agrari, se valutata con un'ottica diversa dalla speculazione corto-termista.

La neonata delibera toscana è frutto di oltre un anno di consultazioni ed è l'ultimo elemento di una sequenza un po' farraginosa (originata con le leggi regionali del 2005, n. 39 e n. 1 'Legge Urbanistica'), entrata nello specifico del fotovoltaico con la L.R. n. 11 del 2011 (prima individuazione delle aree non idonee all'installazione del fotovoltaico a terra, meglio specificate con la delibera n. 68 del 2011) modificata con due successive leggi nel 2011 e nel 2012. Questo ultimo atto copre i temi riguardanti l'inserimento degli impianti sul territorio, con riferimento agli aspetti idrogeologici, bio-ambientali, agronomici e paesaggistici, favorisce l'innovazione sia per l'inserimento paesaggistico sia per l'efficienza, il riutilizzo di aree degradate e il minor consumo di territorio.

È certamente un buon documento, puntiglioso in alcune parti. Proprio questo dettaglio giustifica un dubbio: se - come è evidente - risulta necessario normare ciò che dovrebbe essere il portato di una governance cosciente è sufficiente un atto che normativo non è? Il corpus è infatti costituito da un allegato alla delibera, un feuilleton che ha una cogenza assai dubbia. La nota diramata dalla Regione informa che «secondo l'assessore al governo del territorio, queste indicazioni nel loro insieme forniscono una sorta di “vademecum” sia per i progettisti che per i funzionari pubblici chiamati a valutare i progetti». L'ombra del Titolo V della Costituzione forse porta che la Regione emani indirizzi e le amministrazioni locali traducano in atti, ma questo avverrà, o accadrà come per gli entusiasmanti ma esanimi enunciati della L.R. n. 1/2005 sullo sviluppo sostenibile, la tutela delle risorse essenziali e la partecipazione ?

Inoltre questo “vademecum” si pone nell'asfittico contenitore del Piano Ambientale ed Energetico Regionale. Anche questo denso di aspirazioni, ma vetusto; per esempio, nella fattispecie, si rileva che le esperienze più avanzate mostrano come le energie da fonti rinnovabili – in particolare se prodotte da impianti piccoli e medi – sono davvero utili se integrate in una rete di distribuzione intelligente (smart grids). Per questa nel Piano vi sono solo accenni e non una convinta e vincolante opzione. Non è poi il caso di entrare nel merito dei piani energetici provinciali (quando ci sono), inadeguati, intrisi di una energetica novecentesca, a copertura di richieste non più prevedibili per la riduzione dei consumi che sarebbe opportuno considerare irreversibile, sia per la mutata struttura economica e sociale sia per la indisponibilità delle risorse a livello locale e globale.

Il Decreto regionale (il suo allegato) è certamente apprezzabile nei contenuti, ma è affidato ad un contesto culturale e burocratico che ne rende dubbia l'efficacia: è concreto il rischio che veda un recepimento variegato, con un arco che va dal funzionario borbonico che ne farà un supplizio da aggiungere alla pesante burocrazia prevista dai registri GSE - forche caudine per gran parte degli impianti fotovoltaici a terra – e quello che lo potrà considerare un trascurabile ammenicolo normativo.

Ancora sul silenzio assenso dello Stato riguardo, stavolta, all’appropriazione della Regione Toscana dei principi fondamentali in materia di governo del territorio (Spunto di riflessione sulla perdurante prassi regionale di non-approvazione degli strumenti urbanistici dei Comuni)

Con questo scritto, al pari di altri, voglio partecipare il mio pensiero sull’esistenza, riguardo alla materia urbanistica, di due Costituzioni: quella formalmente approvata e quella quotidiana “mercanteggiata” con i comportamenti di rappresentati regionali dei cittadini e di coloro – in sede statale – che sono istituzionalmente chiamati a vigilarne il rispetto.

Per comprendere in appieno quanto di seguito esposto, occorre riportare, come premessa, l’incipit della Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici – Divisione Generale dell’Urbanistica – Div. 23^, n. 3210 del 28 ottobre 1967 – “Istruzioni per l’applicazione della legge 6 agosto 1967, n. 765, recante modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150.”.

«La legge 6-8-1967, n.765, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 31-8-1967, n.218, ed entrata in vigore il giorno successivo a tale pubblicazione - cioè l'1 settembre 1967 - è intesa essenzialmente a sollecitare la formazione ed approvazione degli strumenti urbanistici comunali, ad assicurare che tali strumenti siano formati in modo rispondente all'interesse generale ed a garantire il rispetto della normativa urbanistica, che sinora è stata largamente e frequentemente violata.

«Come vedesi, la nuova legge si propone di agire, in maniera determinante, sulle componenti causali del disordine urbanistico, che possono così sintetizzarsi:

- la carenza di regolamentazione urbanistica;

- la frequente non rispondenza degli strumenti ai criteri di una sana e corretta disciplina del territorio, soprattutto per quanto riguarda la densità, gli indici di utilizzazione edilizia e la dotazione di spazi e servizi pubblici;

- e infine la generale inosservanza della normativa esistente.

Per raggiungere le finalità suindicate la legge prevede essenzialmente:

- la fissazione di termini perentori per gli adempimenti di competenza comunale;

- l'esercizio dei poteri sostitutivi degli organi statali nel caso di inadempienza del comune, perdurante anche dopo l'invito a provvedere rivolto dal prefetto al consiglio comunale;

- la disciplina dei poteri dell'amministrazione statale di introdurre modifiche di ufficio nei progetti comunali, con la rigorosa determinazione dei limiti di tali poteri;

- la regolamentazione delle lottizzazioni a scopo edificatorio, che vengono ad assumere il carattere di strumenti di attuazione dei piani regolatori generali;

- la determinazione ope legis di essenziali norme di salvaguardia (limiti di volume, di altezza, di densità fondiaria, ecc.) da osservare fino all'approvazione dei piani regolatori generali o dei programmi di fabbricazione;

- la determinazione di limiti e rapporti - da parte del Ministero dei lavori pubblici di concerto con i Ministeri competenti - per assicurare densità, spazi e servizi pubblici nell'ambito di una razionale sistemazione del territorio comunale, in misura adeguata alle esigenze urbanistiche, igieniche e sociali degli insediamenti umani;

- la limitazione dei poteri comunali di deroga soltanto agli edifici ed impianti pubblici e di pubblico interesse;

- una più efficiente articolazione dei poteri sostitutivi e repressivi dell'autorità statale nei confronti delle costruzioni abusive ed illegittime;

- il potenziamento delle sanzioni penali ed amministrative, nonché la previsione di sanzioni pecuniarie e fiscali a carico dei trasgressori.

«La nuova legge, nota ormai come legge urbanistica-ponte, comporta un notevole impegno di pubblici poteri - soprattutto a livello degli enti locali - al quale occorre far fronte con tutti i mezzi disponibili e con la decisa volontà di superare la situazione di "lassismo" nella formazione degli strumenti urbanistici, che tanti danni di carattere sociale, culturale ed economico ha arrecato finora all'assetto ed allo sviluppo delle nostre città.

«E' importante sottolineare che la legge nelle sue finalità è intesa non ad ostacolare ma ad agevolare lo sviluppo dell'attività edilizia, anche in relazione alle previsioni del programma economico nazionale ed alla necessità di predisporre le condizioni indispensabili per l'attuazione degli obiettivi di sviluppo indicati dal piano, che riguardano tanto la edilizia abitativa quanto quella di carattere sociale e le opere infrastrutturali.

«Pertanto, una corretta applicazione della legge presuppone, soprattutto da parte delle amministrazioni comunali, una interpretazione che, in considerazione degli aspetti sociali ed economici dell'attività costruttiva, ne agevoli lo svolgimento nel rigoroso ambito di una razionale impostazione urbanistica dell'espansione dei centri abitati e, più in generale, dell'assetto del territorio. (…).».

Al fine di superare il disordine urbano, lo Stato adottò il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 rubricato “Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, aisensi dell'art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765.”.

La prescrizione di reperimento di spazi pubblici in relazione agli abitanti insediati o da insediare nonché alle attività produttive fu subito osteggiata (e tale atteggiamento rimane ancor oggi analizzando le proposte di revisione della Legge Urbanistica) da “illuminati” docenti universitari che dall’alto della loro autorevolezza, spesso riconosciuta solo dal mondo accademico o elitario in cui sono soliti operare, criticano la fissazione degli standard poiché impediscono, a detta loro, modelli di città moderni.

A mio sommesso avviso, ben pochi riescono a vedere nel D.M. n. 1444/68 il non plus ultra della coniugazione di interessi – alle varie scale – di perequazione urbanistica e di tutela del paesaggio, senza che venga “espropriata” la funzione pianificatoria riconosciuta ai Comuni fin dall’istituzione del Regno d’Italia.

Una coniugazione che, se effettivamente rispettata, non lascia alcun margine di spazio a fenomeni di corruttela per la trasformazione di terreni in aree edificabili con operazioni spesso finalizzate al riciclaggio di denari di dubbia provenienza.

Il rispetto di tale coniugazione passa obbligatoriamente:

-da una ricognizione oggettiva dei vari tipi di zone territoriali omogenee;

- dal censimento del patrimonio edilizio esistente (compreso quello abusivo, come insegna la sentenza n. 3/2009 del Consiglio di Stato, Ad. Plenaria);

- dalla fissazione obbligatoria degli indici di densità territoriale, quale base della disciplina perequativa per la distribuzione degli effetti benefici della trasformazione territoriale;

- dal censimento degli effettivi spazi pubblici (verde e parcheggi pubblici, attrezzature di urbanizzazione secondaria) costituenti standard;

- dalla previsione e conseguente obbligo di realizzazione degli standard;

- dalla formulazione e rispetto dei programmi pluriennali di attuazione (art. 13 della Legge n. 10/1977).

Per apportare un contributo a distanza all’interrogativo posto dal Prof. Paolo Urbani che recentemente ha aperto il forum “Urbanistica e concussione: una possibile soluzione?” (sul proprio sito www.pausania.it), vengo a dire che sono della convinzione che se tali punti venissero effettivamente rispettati gli strumenti urbanistici non sarebbero più il luogo di azioni criminose.

Da studi conoscitivi della Magistratura inquirente è emerso che il territorio della Toscana è divenuto, negli ultimi dieci anni e forse più, particolarmente attrattivo per gli interessi della criminalità organizzata, sempre più desiderosa di valorizzare i proventi di attività illecite in operazioni immobiliari di trasformazione urbanistica in una cornice paesaggistica universalmente riconosciuta di particolare pregio.

Provo a dare una ipotesi di lettura su alcune concause che possono aver determinato un tale interessamento delle organizzazioni criminali, in particolare sul ruolo (spero inconsapevole) che può aver avuto la legislazione toscana in materia di governo del territorio, o meglio l’applicazione di tale normativa.

Correva l’anno 1995 e la Regione Toscana approvava la Legge 16 gennaio 1995, n. 5 con la quale eliminava l’approvazione del Piano Regolatore Generale comunale da parte della Regione nonché abrogava le vigenti leggi regionali in tema di programma pluriennale di attuazione. Il Governo della Repubblica era presieduto dall’On. Lanfranco Dini, subentrato al 1° governo Berlusconi. Il Presidente del Consiglio dei Ministri non impugnò la legge regionale innanzi alla Corte Costituzionale.

Successivamente, la Regione Toscana ha approvato la Legge 3 gennaio 2005, n. 1 con la quale, in maniera equivoca (tanto che i Comuni continuano a comportarsi come in vigenza della legge n. 5/1995), reintroduce l’obbligo dell’approvazione della sola parte operativa del P.R.G. da parte dei Comuni (combinato disposto degli artt. 7 e 10 della l.r.t. n. 1/2005), senza niente disporre – per legge – in tema di programmi pluriennali di attuazione. Il Governo della Repubblica, all’epoca dell’approvazione, era presieduto dall’On. Silvio Berlusconi.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri non impugnò la legge regionale innanzi alla Corte Costituzionale riguardo all’assenza della previsione legislativa di approvazione della parte strutturale dei P.R.G. da parte della regione nonché riguardo all’assenza di disposizioni in tema di programma pluriennale di attuazione.

Orbene, come gli operatori del settore ben sanno, il potere-dovere di approvazione dei piani regolatori era riservato, inizialmente, allo Stato. Solamente con il D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8, rubricato “Trasferimento alle regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di urbanistica e di viabilità, acquedotti e lavori pubblici (…)” lo Stato ha trasferito alla Regione Toscana il potere-dovere di approvazione (per quanto qui interessa):

- dei piani territoriali di coordinamento previsti dall'art. 5 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni ed integrazioni;

- dei piani regolatori generali; l'autorizzazione e la approvazione delle relative varianti, ivi comprese quelle soggette a procedimento speciale in quanto connesse agli insediamenti scolastici, universitari ed ospedalieri;

- la fissazione dei termini per la formazione dei piani particolareggiati, l'approvazione dei medesimi e delle relative varianti; l'adozione di misure per la compilazione dei piani stessi in sostituzione di quelli rimasti inattuati in tutto o in parte;

- l'approvazione dei regolamenti edilizi comunali e dei programmi di fabbricazione;

- il nulla-osta all'autorizzazione comunale dei piani di lottizzazione.

In base al combinato disposto dell’articolo 10 della Legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii. e dell’articolo 6 del D.M. n. 1444/68, la Regione ha l’obbligo di assicurare il rispetto degli standard minimi di qualità urbana prescritti dal decreto medesimo. Tale funzione propria è garantita dalla Legge Urbanistica con l’atto approvativo.

Così si è espressa recentemente la giurisprudenza amministrativa: La scelta di dimensionare e di allocare i servizi resta una scelta che rientra nella discrezionalità del pianificatore, in quanto tale discrezionalità deve rispettare gli standard minimi che sono previsti dalla normativa di riferimento, ma che – posto che maggiori servizi significano maggiore qualità della vita per i residenti dell’area in cui essi sono allocati – può portare il pianificatore comunale a decidere di garantire alla comunità locale anche una qualità della vita superiore a quella minima che deve essere garantita dal D.M. 2 aprile 1968 (che parla di dotazione “minima” di servizi, ma non prevede limiti massimi).” (TAR Lombardia, Brescia, n. 622/2011).

E’ evidente che il livello minimale di standard previsto dal D.M. n.1444/68 è ascrivibile alla competenza legislativa esclusiva dello Stato non solo riguardo alla formulazione dei principi fondamentali in materia di governo del territorio, ma anche riguardo alla materia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale [art. 117, comma secondo, lettera s) della Costituzione].

Invero, non si comprenderebbe – diversamente – quale sia il giusto motivo per il quale un Cittadino italiano debba vedere mutare il proprio livello di vita qualora decida di spostarsi da una città all’altra del territorio nazionale.

La determinazione degli standard urbanistici, come detto, passa obbligatoriamente da un’anagrafe edilizia del patrimonio esistente (vedasi sentenza n. 3-2009 del Consiglio di Stato, Ad. Plenaria) e pertanto la Regione, per doversi esprimere al fine di assicurare il rispetto degli standard minimali, non può che vagliare anche il censimento del patrimonio immobiliare che deve essere necessariamente contenuto negli strumenti urbanistici generali.

Poiché la Regione Toscana – nonostante le dichiarazioni di principio sbandierate urbi et orbi, ad ogni pié sospinto, di eccellenza della propria azione amministrativa in tema di governo del territorio – non ha mai obbligato i Comuni a istituire una banca dati del patrimonio edilizio esistente, ecco che in occasione del recepimento delle direttive ambientali sullo sviluppo sostenibile ha unilateralmente eliminato dalla propria legislazione l’obbligo dell’approvazione regionale sugli strumenti urbanistici ottenendo l’effetto di non poter essere chiamata in causa per le trasformazioni urbanistiche comunali che non avevano (e continuano a non avere) alcuna dimostrazione in ordine al rispetto del principio della c.d. “opzione zero” nella fase di formazione degli strumenti urbanistici generali e precipuamente nella valutazione ambientale.

In sostanza, abbiamo avuto, dal 1995 ad oggi, piani regolatori informati sul consumo del territorio per fare cassa ed in danno della qualità della vita urbana dei Cittadini, in quanto ai Comuni è sconosciuta – a causa dell’assenza dell’anagrafe edilizia – l’effettiva necessità di utilizzo delle risorse essenziali del territorio.

Una siffatta particolare abilità nel trovare sistemi di far cassa attraverso l’incamerazione degli oneri di urbanizzazione trova, in me, giustificazione solamente nella visione dell’edilizia come “sistema” di finanziamento.

Invero, attraverso una distorta lettura della norma contenuta nell’art. 1, comma 43 della Legge n. 311/2004 (Governo Berlusconi) che “consente” ai Comuni di non destinare più – quale entrata a specifica e vincolata voce di bilancio comunale – l’utilizzazione dei proventi concessori per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, ritengo che gli Enti Locali siano stati utilizzati come strumento per ingrassare i bilanci.

La distorsione è avvenuta – e continua ad avvenire – considerando facoltà quella che, invece, è una mera eventualità consequenziale al presupposto rispetto del limite legale, contenuto nella disciplina urbanistico-edilizia, dell’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria (compreso il verde e i parcheggi pubblici) al momento del rilascio del permesso di costruire (art. 4 della Legge n. 10/1977, oggi art. 12 del D. Lgs. n. 378/2001).

Solamente dopo aver accantonato i denari afferenti ai fabbisogni per l’urbanizzazione primaria comunque da rispettare, i Comuni possono destinare le somme rimanenti ad altri scopi, pur rispettando – comunque – il programma pluriennale di attuazione degli strumenti urbanistici comunali (art. 13 della Legge n. 10/1977) che deve essere redatto in conformità al programma pluriennale delle opere pubbliche (che deve assicurare anche il raggiungimento degli standard di urbanizzazione secondaria nei minimi di legge).

Siccome occorreva la ciliegina sulla torta, ecco che la Regione Toscana – attraverso la circolare approvata con deliberazione di Giunta 10 febbraio 2003, n. 118 – dichiara che «In Toscana l’istituto dei Programmi Pluriennali di Attuazione (PPA) è abrogato …». Come se uno strumento istituto dallo Stato possa essere abrogato con disposizione regionale in assenza di norma delegante. Così non importa più nemmeno programmare le trasformazioni urbanistiche, i cui proventi servono per realizzare le infrastrutture pubbliche.

Che dire! Siamo in una Repubblica federale e non me ne ero accorto! E pensare che la Corte Costituzionale (nella sentenza n. 1033/1988) ebbe a statuire che le disposizioni relative ai P.P.A. di cui all’art. 13 della Legge n. 10/1977 e all’art. 6 della Legge n. 94/1982 sono norme di riforma economico-sociale che introducono questo strumento urbanistico che è diretto a modificare profondamente le tecniche del governo pubblico del territorio, in quanto, affiancando all’ordinaria pianificazione spaziale di vincoli o di scelte conformatrici della proprietà una programmazione temporale di attività, ne ha trasformato radicalmente il senso, convertendole da strumenti essenzialmente negativi e impeditivi a strumenti di impulso, che esigono un’interazione con le attività e i progetti dei privati.

Ebbene, la Toscana – violando palesemente la Costituzione ed appropriandosi anche della funzione legislativa per le riforme economico-sociali – ha stabilito che nel suo territorio non devono essere fatti i Programmi Pluriennali di Attuazione! Così facendo si eliminano alla radice:

- i problemi di utilizzazione degli introiti vincolati nel bilancio comunale (oneri di concessione);

- i problemi di dover far sottostare le iniziative private alla pianificazione pubblica, consentendo direttamente ai privati di poter proporre programmi d’intervento che facendo intravedere chissà cosa di vantaggioso per la collettività “convincono” gli amministratori locali ad abdicare dalla loro propria funzione pianificatoria.

Ecco, in sintesi ed a mio giudizio, quali sono gli inconsapevoli apporti della normativa regionale (manifestamente incostituzionale in parte qua) all’assalto del patrimonio paesaggistico toscano da parte di imprenditori senza scrupoli, spesso sponsorizzati da politici di scala nazionale, nonché da parte di organizzazioni malavitose che reinvestono capitali provenienti – così dicono i report delle indagini conoscitive della magistratura inquirente – anche da paesi esteri.

Oltre, ovviamente, al peggioramento della qualità della vita urbana dei cittadini, attraverso il riempimento di “vuoti urbani” già destinati o destinabili alla realizzazione di quelle opere di urbanizzazione primaria e secondaria che dovevano essere eseguite magari da oltre trent’anni e mai realizzate (nonostante siano milioni e milioni di euro le somme introitate a titolo di oneri di urbanizzazione dalla maggior parte dei comuni toscani) per mancanza di fondi, stante la loro distrazione per altri scopi!

Per questo ritengo sia fondamentale - se si vuol davvero perseguire le finalità indicate nella legge urbanistica – ristabilire il vigente ordine riguardo alla funzione di approvazione degli strumenti urbanistici comunali, affinché gli organi regionali tornino ad essere responsabili (anche sotto il profilo penale che erariale) del disordinato e/o disarmonico utilizzo del territorio.

Occorre iniziare ricordando quanto ha statuito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 26/1996:

«Non fondata è, invece, la censura proposta sotto il profilo che l'art. 6, comma 3 (in base al quale qualora il termine per l'assunzione della deliberazione comunale con le determinazioni sulla richiesta regionale di modifiche al programma integrato in variante agli strumenti urbanistici sia inutilmente decorso, le modifiche stesse sono introdotte d'ufficio dalla Giunta regionale), violerebbe gli artt. 5, 117 e 128 della Costituzione.

«Preliminare - nell'esame di questa censura - è il riferimento ai principi fondamentali della legislazione urbanistica in materia, in particolare all'art. 10, secondo comma, della Legge 17 agosto 1942, n. 1150, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 3 della Legge 6 agosto 1967, n. 765, il quale prevede diverse categorie di modifiche d'ufficio (in sede di approvazione) al piano regolatore.

«Esse, tuttavia, sono ammesse a condizione che rispettino un limite ben preciso: si tratti cioè di modifiche che non comportino sostanziali innovazioni, ovvero che non mutino le caratteristiche essenziali del piano ed i criteri di impostazione dello stesso. A ben vedere si tratta di un limite strutturale che è comune ad ogni tipo di modifiche d'ufficio nell'ambito di atto complesso, soprattutto in sede di pianificazione urbanistica caratterizzata dalla duplice competenza comunale (di iniziativa e adozione) e regionale (di esame, di valutazione e verifica della coerenza degli strumenti urbanistici e l'assetto degli interessi coinvolti). In caso di mancanza delle condizioni per le modifiche di ufficio la regione ha solo il potere di non approvare il piano e di restituirlo al comune ovvero di approvarlo in parte con stralcio e restituzione per le eventuali iniziative del comune.

«Di conseguenza la Legge regionale censurata deve essere interpretata e coordinata con i principi fondamentali della Legge statale vigente in materia di formazione e approvazione di strumenti urbanistici (art. 10, comma secondo, della Legge n. 1150 del 1942, nel testo vigente citato).

«Così precisati il senso e l'ambito di operatività della disposizione denunciata, essa resiste alle censure di illegittimità costituzionale, in particolare a quella - assorbente - relativa all'art. 117 della Costituzione, qualificandosi all'opposto, nel senso sopra specificato, in armonia con i principi posti dalla legislazione statale in materia, nel rispetto altresì dell'autonomia comunale.»

Riassumendo, la Corte Costituzionale ha stabilito che:

L’approvazione regionale dello strumento urbanistico comunale costituisce principio fondamentale della materia urbanistica (oggi governo del territorio).

La competenza nella formazione dello strumento urbanistico comunale è duale (Regione e Comune), con specifici limiti della Regione per quanto concerne poteri di modifica d’ufficio del contenuto del progetto di piano regolatore comunale.

Riguardo all’approvazione degli strumenti urbanistici comunali, lo Stato – mediante l’art. 1, comma 2, lettera d) del D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8 – ha trasferito alle Regioni la funzione amministrativa di approvazione dei piani regolatori generali comunali (art. 10 della Legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii.), ma non l’ha soppressa.

Di conseguenza, persiste l’obbligo dell’approvazione degli strumenti urbanistici comunali da parte della Regione, tenuto conto – peraltro – che, come detto dalla Corte Costituzionale, il P.R.G.C. è atto complesso a competenza duale.

Alcuna influenza sul riparto delle competenze e sul trasferimento delle funzioni amministrative statali può avere la modifica del Titolo V della Costituzione ad opera della Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.

A tal proposito si ricorda che all’indomani della riforma del Titolo V della Costituzione, le Regioni credevano che la materia dell’urbanistica, in quanto non più nominata nell’art. 117 Cost., fosse divenuta – in via residuale – di loro competenza legislativa esclusiva.

Il Giudice delle Leggi, tuttavia, ebbe modo di statuire (cfr. sentenze n. 303/2003; n. 307/2003; n. 362/2003; n. 196/2004; n. 343/2005) che l’urbanistica rientra nella materia denominata “Governo del Territorio” nella quale lo Stato ha la competenza legislativa esclusiva per ciò che concerne i principi fondamentali.

Può essere utile richiamare anche un passaggio della sentenza n. 343/2005 della Corte Costituzionale, che ha carattere più generale: «La materia edilizia rientra nel governo del territorio, come prima rientrava nell'urbanistica, ed è quindi oggetto di legislazione concorrente, per la quale le regioni debbono osservare, ora come allora, i principî fondamentali ricavabili dalla legislazione statale. ».

Inoltre, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 376/2002, riguardo al rapporto tra le competenze legislative tra Stato e Regioni ebbe già modo di statuire che: «Anche tale questione deve essere valutata alla luce delle norme costituzionali, invocate dalla ricorrente, come risultanti dal testo anteriore alla riforma del Titolo V, Parte II, della Costituzione recata dalla Legge costituzionale n. 3 del 2001. L'eventuale incidenza delle nuove norme costituzionali, in termini di modifiche delle competenze rispettive di Stato e regione, sarebbe infatti suscettibile di tradursi solo in nuove e diverse possibilità di intervento legislativo della regione o dello Stato, senza che però venga meno, in forza del principio di continuità, l'efficacia della normativa preesistente conforme al quadro costituzionale in vigore all'epoca della sua emanazione (cfr. sentenza n. 13 del 1974).»

La riconosciuta qualificazione di principio fondamentale all’approvazione – da parte della Regione – degli strumenti urbanistici comunali porta ad affermare, anche in relazione all’obbligo della Regione di osservanza dei suddetti principi (cfr. sentenze già citate n. 343/2005 e n. 376/2002), che in mancanza – come oggi sono assenti – degli specifici atti di approvazione regionale TUTTI i Regolamenti Urbanistici dei comuni della Toscana, di cui viene attualmente data asserita applicazione, non si sono mai formati.

Ciò che è stato approvato dai vari Consigli comunali sono atti giuridicamente inesistenti, in quanto non essendo oggetto del concorso della volontà di entrambi gli Enti (Comune e Regione, che deve assicurare il rispetto degli standard) non sono mai venuti ad esistenza. Atti inesistenti sono improduttivi di effetti giuridici.

A tal proposito si evidenzia come il Consiglio di Stato abbia già affermato che:

1. «Prima dell’approvazione tutoria regionale, nelle forme previste dalla legge urbanistica, il piano regolatore non si può dire ancora perfezionato, perché l’atto di controllo regionale non è condizione di efficacia, ma ha un effetto costitutivo, per cui lo strumento urbanistico è espressione tanto del Comune che l’adotta che dell’ente che lo approva e che, quindi, partecipa alla relativa formazione nell’interesse di un adeguato governo del territorio, onde il piano stesso è un atto complesso.» (Sez. V, 13 dicembre 1999, n. 2106).

2. «Che difetta il presupposto legale sul quale parte appellante poggia la propria rivendicazione di edificabilità dell’area per le ragioni che seguono:

- per un verso, non è neppure controverso tra le parti (come deducibile dalle stesse argomentazioni svolte con i due ultimi profili di contestazione della sentenza impugnata) che la variante urbanistica adottata con la delibera consiliare n. 45 del 7 novembre 2002, che ha attribuito la destinazione di zona S2B all’area in questione, non è mai divenuta definitiva per non essere stata approvata dalla Regione;

- per altro verso, il Collegio non può condividere la tesi che anche la semplice adozione dello strumento urbanistico possa comportare l’applicazione della norma di cui all’invocato comma 1 dell’art. 4 della Legge n. 291 del 1971, avuto presente il principio giurisprudenziale secondo il quale, finché lo strumento urbanistico non abbia favorevolmente superato non soltanto la fase costitutiva, ma anche quella integrativa dell'efficacia, l’area interessata deve ritenersi sprovvista di una disciplina di pianificazione, con l'ovvia conseguenza che, nel frattempo, devono osservarsi le limitazioni all'edificabilità dettate dalla disposizione qui rilevante dell’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001.» (Sez. IV, 29 settembre 2011, n. 5414).

Nemmeno può essere invocato qualsivoglia forma di silenzio assenso della Regione, in quanto il Giudice delle Leggi, con la sentenza n. 408/1995, ebbe a stabilire che:

«In base al sistema – è questo il significato sotteso alla richiamata sentenza n. 393 del 1992 - la previsione del silenzio-assenso può ritenersi ammissibile in riferimento ad attività amministrative nelle quali sia pressoché assente il tasso di discrezionalità, mentre la trasposizione di tale modello nei procedimenti ad elevata discrezionalità, primi tra tutti quelli della pianificazione e programmazione territoriale, finisce per incidere sull'essenza stessa della competenza regionale. Il venir meno nella normativa statale della previsione del silenzio-assenso per effetto di detta sentenza e le implicazioni che possono desumersi da essa denotano attualmente l'esistenza nella Legge statale, specifica per la materia, di un principio fondamentale opposto, che ritiene indispensabile una valutazione esplicita da parte degli organi regionali nei procedimenti che necessitano del "diversificato contributo degli organi e uffici competenti coinvolti nella procedura.» (sent. n. 393 del 1992).

Ecco, quindi, che in Toscana – quella Toscana tanto decantata a modello di buona amministrazione – tutti i Comuni, attualmente, danno attuazione ad inesistenti strumenti urbanistici generali, che ledono – di conseguenza – i diritti civili dei cittadini di poter validamente ottenere dalla loro P.A. quel livello minimo essenziale di qualità urbana previsto dalla legge statale che deve essere assicurato dalla Regione in fase di approvazione dello strumento urbanistico generale, ma da quest’ultima non riconosciuto in nome di una “Costituzione materiale” contrastante con quella formale.

Un federalismo di fatto che rende taluni italiani figli di un Dio minore. Con il silente consenso dello Stato che – inducendo ad ipotizzare l’esistenza di un’interessata intesa politica bipartisan – ha “autorizzato” la modifica extra-parlamentare della Costituzione in parti del territorio nazionale particolarmente vocate per la valorizzazione.

Si consideri, parimenti che l’assicurazione degli standard avrebbe l’effetto collaterale di fermare l’incontrollato consumo di territorio per effetto della necessaria formazione della presupposta anagrafe edilizia che, se formata, sarebbe in grado di svelare – come nella favola de I vestiti nuovi dell’Imperatore – che il Re è nudo: ossia che non vi è più bisogno, ormai da tempo, di costruire ex novo, essendo più che sufficiente, per i fabbisogni prossimi e futuri, recuperare a funzionalità e a sicurezza il patrimonio edilizio esistente.

© 2025 Eddyburg