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"? Il Sole 24 Ore online, 13 luglio 2017 (p.s.)

La mafia dei terreni – boschi e pascoli – colpisce ancora. Dietro i roghi che stanno devastando ettari ed ettari di terreno in Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia c'è quasi sempre la mano criminale dell'uomo. In attesa che la follia autodistruttiva colpisca anche altre regioni che tradizionalmente sono flagellate dal fenomeno – come la Puglia – è bene mettere in fila alcune ragioni per le quali la criminalità organizzata ha interesse ad attizzare gli incendi. Non esiste una classifica di demerito. Anzi, spesso, le ragioni folli viaggiano insieme.
Una ragione è la pervicacia di cosche e clan nel dimostrare che, di qualunque area, sono in grado di indirizzare destini, fortune e sfortune. Dimostrano ai proprietari (siano essi privati o demaniali) che possono fare il bello e il cattivo tempo. A maggior ragione – si badi bene – se i boschi e i pascoli incendiati sono assoggettati a vincolo di inedificabilità quindicennale. E' evidente l'intento del Legislatore di impedire la speculazione edilizia che deriverebbe dal mutamento di destinazione urbanistica dei terreni. Se il proprietario non si piega alle richieste estorsive dei criminali – ma ragionamento per altro verso analogo può essere fatto nei confronti delle amministrazioni che perdono entrate dalla mancata edificazione – ecco che scatta la furia incendiaria.
In Campania, Sicilia – ma anche sempre più in Lombardia – ciò che il fuoco arde può diventare terreno di sversamento illecito di ogni tipo di rifiuto. Se le aree sono impervie (ma non certo per le rodate organizzazioni malavitose) è meglio. Cosa nostra in alcune aree siciliane – recentemente sono saliti alla ribalta i Nebrodi – è talmente ammanicata con i settori deviati delle amministrazioni pubbliche che è in grado di pianificare truffe redditizie ai danni dell'Unione europea o della stessa Regione. Per esempio, nelle assegnazioni di terreni pubblici a prestanome e/o a esponenti delle famiglie locali di mafia, che per quelle terre usufruiscono di finanziamenti per attività mai realizzate, praticando invece abigeato, macellazione di carni clandestine e infette e in varie altre attività economiche in nero. E che dire della Calabria dove spesso operai infedeli appiccano volontariamente il fuoco perché sanno che in quel modo l'anno successivo hanno il posto assicurato nel ripascimento?
Del resto che la mafia dei terreni abbia un business lo dicono anche i numeri. Come quelli messi in fila dall'ultimo rapporto Ecomafia di Legambiente. Lo scorso anno sono stati 4.635 gli incendi boschivi che hanno visto l'intervento dell'ex Corpo forestale dello Stato e dei corpi regionali, numeri ancora in crescita rispetto al 2015. Roghi che hanno mandato in fumo nel 2016 più di 27mila ettari di aree verdi. Esattamente quanto è stato devastato dal fuoco in questo assaggio di estate 2017. Di male in peggio. Le persone denunciate, tra piromani, ecocriminali ed ecomafiosi nel 2016 sono state 322, mentre quelle arrestate sono state 14.
Gli incendi non vengono appiccati solo d'estate. Uno degli ultimi casi di fiamme invernali che, nonostante le temperature basse, in poco tempo divorano pezzi di superficie boschive, risale al mese di febbraio, quando è stato sfigurato un ampio tratto di bosco a Solcio di Lesa (Novara), oltre che in una riserva di caccia tra Oleggio e Gattico. Le stime complessive fatte dall'ex Corpo forestale sui danni ambientali causati nel 2016 dai roghi ruotano intorno ai 14 milioni mentre i soli costi per l'estinzione sono stati quantificati in circa 8 milioni, per un totale di quasi 22 milioni.

«L’architetto Piero Cavalcoli, sentito oggi in commissione Seta, esprime le critiche di Articolo 1 alla legge voluta da Bonaccini». LaPressa, 6 luglio 2017 (m.c.g.)

Si è tenuta oggi l'audizione degli esperti in commissione consiliare Seta del Comune di Modena sulla legge urbanistica in fase di discussione in Regione. Per Articolo UNO-MDP è intervenuto l’architetto Piero Paolo Cavalcoli. Secondo i bersaniani la nuova Legge regionale va cambiata radicalmente a partire dal ripristino della pianificazione e della potestà reale dei Consigli comunali su questa materia.

«Come Articolo UNO-MDP Modena, assieme ai consiglieri presenti nei comuni della Regione, siamo convinti che la nuova Legge urbanistica inciderà e influenzerà parecchio il futuro dello sviluppo del territorio dei comuni emiliano romagnoli e per questo chiediamo con forza che i Consigli comunali possano ricoprire un ruolo determinante nella stesura definitiva e nel potere decisionale sugli Accordi Operativi che giungeranno in discussione nei Consigli comunali. Fra i punti richiesti ci sono: il ripristino di un vero ruolo centrale dei Consigli comunali sulla pianificazione urbanistica e non uno svilimento con inserimento della negoziazione diretta con i privati tramite Accordi Operativi; l’acquisizione preventiva, da parte della Regione, dei pareri di tutti i Consigli comunali della Regione; la riduzione delle troppe deroghe che di fatto concedono altro consumo di suolo ; una rigenerazione urbana meno occasionale e più mirata; limitare gli espropri solo nei casi di aree con progetti di destinazione pubblica; ruolo attivo dei cittadini e dei Consigli comunali sulla pianificazione del territorio, inteso come prezioso bene comune» -ha detto Vincenzo Walter Stella a nome del gruppo.

«Se si è d’accordo sull’individuazione dei problemi, non lo si è affatto sulle proposte di soluzione. Il disegno di legge non mantiene l’equilibrio tra i quattro temi che disciplina: i provvedimenti predisposti per la semplificazione rendono inoperanti quelli della difesa dell’ambiente, mentre quelli dello sviluppo economico e della riqualificazione urbana tendono a comprimere quelli necessari per garantire la legalità e il controllo. In questo senso ci sentiamo di affermare che l’impianto riflette in gran parte il punto di vista dei costruttori» - ha affermato l’architetto Piero Paolo Cavalcoli.

«Il “telaio” a cui riferire gli emendamenti che si vogliono proporre, costruito sui quattro punti citati, rappresenta una soglia “di minima” al di sotto della quale ogni modifica risulterebbe poco significativa ed in definitiva finirebbe col confermare un punto di vista che non può più appartenere alla disciplina e al suo carattere di pubblico interesse». Secondo Cavalcoli, quello proposto è dunque un insieme di modifiche che ha senso se viene discusso ed accettato nel suo insieme:

1. Sul tema dell’ambiente e del consumo del suolo è necessario portare a coerenza la proposta formulata dal progetto di legge innanzitutto cancellando le numerose limitazioni disposte (deroghe riguardanti interventi da sottrarre al calcolo), contrastando la vaghezza degli strumenti di verifica e di controllo ad essa collegati, ed infine, proponendo meccanismi di distribuzione delle quote concesse, sia sotto il profilo delle loro relazioni con le differenti caratteristiche dei luoghi (da disciplinare attraverso un consolidamento della pianificazione territoriale di area vasta) sia sotto il profilo dei tempi della loro attuazione (da programmare in funzione dell’obiettivo 2050), i soli strumenti che possono garantire un’ordinata e documentata applicazione dei dispositivi di limitazione del consumo di suolo. Ulteriori misure vanno poi proposte a rafforzamento delle procedure di verifica della sostenibilità degli interventi di trasformazione territoriale (VALSAT), in particolare riferimento all’esigenza, indispensabile per l’esercizio di questi strumenti di valutazione, di definire quantità e qualità delle previsioni

2. Sul tema della semplificazione e del contenuto dei piani comunali sembra necessario tornare a condizionare l’attività di negoziazione pubblico/privato alla definizione, pubblica e preventiva, del progetto di città che si vuole perseguire, da ottenere mediante definizione inequivoca delle quantità e delle destinazioni d’uso previste sia all’interno che all’esterno del TU. In questo quadro è necessario ripristinare le regole del dovuto rispetto dei centri storici e dei beni da tutelare nell’ambito del costruito e nel contempo eliminare ogni possibile contraddizione con i principi della legge nazionale, sia per quanto riguarda le necessarie dotazioni di spazi pubblici sia per quanto riguarda i parametri minimi di definizione dell’”ingombro” delle previsioni

3. Sul tema della legalità e delle procedure di approvazione e di controllo è necessario affiancare alle misure di adeguamento dei dispositivi di legge ai recenti indirizzi dell’ANAC un robusto rafforzamento del ruolo dei processi partecipativi alle decisioni di pianificazione e di attuazione, anche in attuazione della L.R 9 febbraio 2010, n.3, a partire dalle procedure di accordo previste per la maggioranza delle pratiche di attuazione dei piani, che vanno sottratte alla vaghezza delle prescrizioni dei PUG ed alla contemporanea responsabilità affidata prevalentemente agli organi tecnici comunali. Ulteriori misure vanno peraltro proposte per le procedure di controllo sugli effetti delle decisioni assunte nell’ambito degli accordi, introducendo clausole di dissolvenza in caso di mancato rispetto degli impegni o in caso di effetti negativi sotto il profilo ambientale o sociale valutati dopo l’esecuzione delle opere

4. Sul tema dello sviluppo economico e della rigenerazione urbana va decisamente contrastata la convinzione degli estensori del progetto di legge che la prospettiva di ripresa del settore edilizio sia esclusivamente fondata sugli interventi di“sostituzione e densificazione”, convinzione che esclude dagli incentivi il territorio urbano “consolidato” che è viceversa la parte più bisognosa di alleggerimento sul terreno delle pratiche burocratiche nonché bisognosa di strategie di riqualificazione dotate di qualità sia nella progettazione che nella esecuzione delle opere. Per quanto riguarda la parte “non consolidata” va viceversa riaffermata la necessità che essa sia prevalentemente dedicata al recupero delle dotazioni ambientali e di pubblico servizio della cui carenza soffre la maggioranza dei territori urbanizzati.

«L’informazione e la partecipazione dei cittadini (singoli o associati) vale finché non compromette l’opacità e la discrezionalità dei processi decisionali nei rapporti tra Regioni e amministrazioni comunali». lacittàinvisibile, 31 maggio 2017 (c.m.c.)

«Dalla precedente legge urbanistica, la legge 1 del 2005 la partecipazione non è più un esercizio di stile ma è parte attiva delle procedure già dall’avvio del procedimento. E questo ha un significato preciso: non si tratta solo di una questione culturale e di democrazia ma anche di legittimità. Se non si seguono i dettami della norma si rischia di produrre atti non validi.»

«Uno dei punti cardine della legge regionale 65 del 2014 (Norme per il governo del territorio) è quello del coinvolgimento nei processi urbanistici di tutti i soggetti interessati al governo del territorio. Al Capo V, infatti, si stabilisce che la Regione promuove e sostiene l’informazione e la partecipazione. Non si tratta di pura formalità, ma di un principio che la legge attiva in modo tale che i risultati di queste attività contribuiscano alla definizione dei contenuti degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica.»

Così l’Assessore Vincenzo Ceccarelli, intervenendo il 26 maggio al convegno «La partecipazione nel governo del territorio in Toscana: Il nuovo regolamento regionale» organizzato dalla Regione Toscana, in cui il Garante all’informazione ha presentato il nuovo Regolamento sulla partecipazione del governo del territorio. Peccato che Ceccarelli non si renda conto che le sue affermazioni suonano come l’ennesima controprova di una politica fatta solo di proclami, annunci, dichiarazioni, promesse, contraddette puntualmente dai fatti.

Nella fattispecie, né l’Assessore, né Aldo Ianniello, Dirigente del settore Pianificazione del territorio che fa capo all’Assessore medesimo, si degnano di rispondere a una precisa richiesta, più volte avanzata dalle associazioni ambientaliste: quale sia la prassi seguita dalla Regione Toscana nel valutare i risultati delle Conferenze di copianificazione quando queste non provvedano al dimensionamento delle previsioni di nuovi insediamenti nel territorio extraurbano: è la Domanda cui la Regione Toscana non risponde già pubblicata su eddyburg.

«La Regione promuove e sostiene l’informazione e la partecipazione” afferma Ceccarelli. Evidentemente la sua idea di promozione e sostegno consiste nel rispondere alle domande gradite, magari concordate con il compiacente giornalismo locale, mentre a quelle vere, che vengono dai “cittadini, singoli o associati, nonché di altri soggetti interessati pubblici o privati» (sempre dall’intervista di Ceccarelli) si oppone il silenzio. Evidentemente, l’informazione e la partecipazione dei cittadini (singoli o associati) vale finché non compromette l’opacità e la discrezionalità dei processi decisionali nei rapporti tra Regioni e amministrazioni comunali.

Stando così le cose, la pur volenterosa Garante all’informazione e comunicazione della Regione Toscana che in nove mesi non è riuscita a ottenere uno straccio di risposta dai propri “superiori politici” dovrebbe coerentemente dimettersi; o, per lo meno, risparmiare i soldi dei cittadini piuttosto che spenderli in inutili convegni.

Anche nel Veneto la truffa dei finti "stop al consumo di suolo". Promettono di arrestarlo quando non ci sarà più nulla da consumare. Nell'attesa, le deroghe sono più vaste delle limitazioni. E accrescono il peso delle aree già edificate da "rigenerare" con pingui premi di cubatura. Corriere del Veneto, 30 Maggio 2017

«Da oggi il Veneto entra nel club delle poche Regioni italiane che hanno una legge sul contenimento del consumo di suolo». Il presidente della seconda commissione Francesco Calzavara non nasconde la soddisfazione di aver portato ieri sera all’approvazione del consiglio dopo due anni di limatura e riscrittura, una maratona di tre sedute monotematiche e quasi trecento emendamenti la prima legge che rallenta la velocità con la quale negli ultimi venti anni sono cresciuti capannoni, strade, case, cave. Rallenta, non azzera, con l’obiettivo di arrivare al 2050 al consumo zero in linea con le direttive europee. Passata con 26 voti favorevoli della maggioranza e di Marino Zorzato (Ap), 13 contrari di Pd, Mdp, M5s e Cristina Guarda (lista Moretti), l’astensione di Lista Tosi e Andrea Bassi (Centrodestra Veneto) e Franco Ferrari (Moretti), la norma contingenta il consumo di terra e paesaggio veneti.

«Oggi è una giornata storica per il futuro del territorio veneto. Una legge di quelle che qualificano un’intera legislatura, che ho fortemente voluto - dice soddisfatto il presidente Luca Zaia -. Per primi in Italia abbiamo avuto il coraggio di affrontare una sfida delicata e difficile. Da oggi il Veneto fa da apripista dell’approccio a consumo zero nell’ambito della salvaguardia del territorio».

Il testo finale uscito dalla maratona di emendamenti mantiene fermi i capisaldi elencati all’articolo 3: si favoriscono le politiche agricole sostenibili, le azioni per il ripristino della naturalità, la demolizione degli edifici nelle zone a rischio idraulico, si incentiva il recupero e il riuso del già costruito. Il cuore della norma sta nell’articolo 4 che demanda alla giunta, entro sei mesi dalla pubblicazione della legge (ma l’orologio sarà fermato per acquisire i pareri della commissione), la quantità massima di consumo di suolo ammesso sulla base di indicazioni sul «consolidato» che dovranno fornire i Comuni e individua i criteri e gli obiettivi di recupero degli ambiti urbani di rigenerazione e quelli di individuazione degli interventi pubblici di interesse regionale. E pure, novità di ieri introdotta da un articolo 11 completamente riscritto dal relatore Calzavara, deciderà se i centri commerciali vanno costruiti in deroga o meno.

Le deroghe sono l’altra parte fondante della norma perché il consumo zero è l’orizzonte e invece l’obiettivo attuale è «avviare uno sviluppo edilizio a saldo zero, senza mortificare esigenze insediative legittime», ha spiegato a più riprese Silvia Rizzotto (lista Zaia), al duo Piero Ruzzante (Mdp) e Andrea Zanoni (Pd) che con gli altri dem Bruno Pigozzo e Stefano Fracasso ha sferrato una gragnuola di emendamenti sulle deroghe elencate dagli articoli 11 e 12. «Cave, grandi opere, autostrade, piano casa, capannoni, serre agroindustriali saranno attività in deroga sempre concesse - accusa Zanoni - Cambierei titolo in Legge-scudo per capannoni, autostrade, cave e grandi opere». Non rientrano, infatti negli interventi bloccati per evitare consumo di suolo opere come la Pedemontana. Ma anche nota Fracasso, tutti i project financing non ancora realizzati ma dichiarati di interesse pubblico dalla Regione nelle scorse legislature: Nogara Mare, sistema delle tangenziali venete, la Valsugana. «I grandi consumatori di suolo non dovranno preoccuparsi per questa legge», accusa.
Le deroghe valgono non solo per i piani attuativi, le intese, i permessi già rilasciati e avviati, ma anche per quelli in corso e futuri. «Ieri, oggi, domani», riassume Alessandro Montagnoli (Lega). «Una deroga per sempre, forever - sbotta Ruzzante - Il Veneto è la seconda regione in Italia per consumo di suolo, il 12,5%, e questa legge consentirà di edificare 90 milioni di metri cubi: una colata di cemento». Ha pure aggiunto che in queste settimane c’è la corsa a presentare progetti nei Comuni. La norma prevede che accedano alla deroga però, solo le richieste presentate con tutta la documentazione completa. «Troppa discrezionalità ai tecnici comunali - si rammarica Andrea Bassi, che ha costantemente cercato di orientare il testo a favore dell’edilizia in crisi - Interpreteranno nella maniera più restrittiva e invece di dare più lavoro ai progettisti, daremo lavoro agli avvocati». «Una legge che non raggiunge l’obiettivo e vanifica le premesse con le disposizioni transitorie e finali», conclude Manuel Brusco dal M5s.

«La posta in gioco, a partire dall’esperienza emiliano romagnola è assestare un colpo durissimo alla concezione stessa del pianificare a livello nazionale». ilmanifestobologna.it, 17 maggio 2017 (p.d.)

Se fosse lecito associare sentimenti ed emozioni alla lettura di un arido e lungo articolato di una proposta di legge, nel caso della “tutela e uso del territorio” della Giunta Regionale dell’Emilia-Romagna, parlerei senza mezzi termini di tristezza. Tristezza perché nella regione in cui l’Urbanistica è praticamente nata – ed è nata nei Comuni non nelle Università -, nella regione che ha ‘inventato’ gli Standards (cioè le dotazioni pro-capite di servizi per i cittadini, verde, parcheggi, etc), ben prima del decreto nazionale n.1444/68, nella regione dove il Territorio è sempre stato al centro delle attenzioni pianificatorie e il ‘Pubblico’ l’interesse primario da perseguire nei processi di trasformazione, bene in questa stessa regione un progetto di legge ne decreta la morte.

Anni e anni di esperienze, di battaglie esaltanti, di tutela dei diritti dei cittadini contro lo strapotere dei signori del mattone, persi in un attimo, una rottura definitiva e insanabile con un corpus disciplinare e progettuale che ha risparmiato per anni al nostro territorio regionale, i guasti e gli orrori che la rendita ha prodotto nel resto d’Italia. Si, forse ad un bilancio più attento si potrebbero trovare incrinature, errori, ma nessuno ha fatto un vero rendiconto dell’esperienza urbanistica alla luce dell’ultima legge sfornata 17 anni fa, la legge 20/2000. Che rimane un’ottima legge, innovativa che legava in modo operativo la sostenibilità ambientale alle ragioni di una pianificazione urbanistica nella quale a dettare le regole erano gli enti locali nell’interesse pubblico.
Con un ossessione tutta renziana di togliere ‘lacci e lacciuoli’ a imprenditori che hanno devastato il territorio, lasciando come eredità decine di migliaia di alloggi vuoti e invenduti, decine di migliaia di metri quadri di capannoni industriali vuoti e inutilizzati, si sforna una legge che alla maniera delle finanziarie nazionali mette dentro tutto, dalla tutela del paesaggio allo stop al consumo di suolo.
Ecco, dietro quest’ultimo specchietto per le allodole si cela una grande truffa. In una regione che obiettivamente negli ultimi anni aveva perso un po’ il controllo sul consumo di suolo e che stava cercando con più o meno adeguati strumenti legislativi specifici di mettere un freno al fenomeno, con un colpo di bacchetta ci si inventa una percentuale di suolo comunque utilizzabile (il 3%), una montagna di deroghe per superarlo e una data da calende greche per arrivare al mitico consumo zero, nel 2050.
Tutto qui? E no. Collegato al carro del consumo di suolo c’è il nuovo mantra della rendita urbana: la rigenerazione (con desigillazione). In nome di questa parola e scopiazzando qua e la, si crea un sistema che rende possibile di tutto: dal superamento di vincoli legislativi (deroghe su distanze e altezze, deroghe sugli standards urbanistici), a premialità in termini di volumi in più, che ricordano certe situazioni meridionali, con premi anche per incentivare quello che viene definito uno standard e cioè la realizzazione di Edilizia residenziale sociale (ERS), per la quale non si deve mai superare il 20%.
Si crea un sistema di favoritismo sfacciato nei confronti dei soliti noti e si lascia nel vecchio ingorgo normativo tutta la dimensione diffusa dei piccoli interventi, che continueranno ad essere ‘vessati’, non fosse altro che dalle vecchie distanze, dalle densità edilizie e dagli standard. I comuni vengono letteralmente esautorati dai processi decisionali sul futuro del proprio territorio; saranno i Privati, attraverso strumenti eversivi chiamati Accordi operativi a dettare le regole del gioco fino a decidere indici, ubicazione delle aree edificabili e quant’altro.
Da qualche parte ci sarà una caricatura di piano urbanistico, chiamato Pug (piano urbanistico generale), che la legge si affretta a dire che dovrà essere formulato in modo ‘ideogrammatico’, senza nessun potere conformativo. Un piano a fumetti, insomma che non conterà niente. Quello che conta sono gli interessi privati. In loro nome si potrà fare tutto e di più con una facilità che neanche il più bieco degli imprenditori immobiliari si sarebbe mai immaginato.
Tutto questo in nome di cosa? La posta in gioco, a partire dall’esperienza emiliano romagnola è assestare un colpo durissimo alla concezione stessa del pianificare a livello nazionale, probabilmente si riaprirà la discussione sulla proposta di legge di riforma (e certo!), urbanistica c.d. “Lupi”, della quale spunti sono stati tratti nell’elaborazione del mostro neoliberista regionale chiamato, senza senso dello humor, “Tutela e uso del territorio”.

Un instant book per criticare la minaccia di legge neoliberista della regione ex leader del buongoverno urbanistico. A cura di Ilaria Agostini. Testi di Alleva, Berdini, Bevilacqua, Bonora, Caserta, Cervellati, Dignatici, Foschi, Losavio, Marson, Montanari, Quintavalla, Righi, Rocchi, Salzano.

È uscito Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna, a cura di Ilaria Agostini, prefazione di Tomaso Montanari (Pendragon, 2017, 112 pagine, 8 euro).

Il libro collettivo nasce a seguito della presentazione del progetto di legge Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio (4223) della Regione Emilia-Romagna. Per i suoi contenuti di stampo neoliberista e per il ruolo nazionale che la regione ricopre nella pianificazione, il disegno di legge urbanistica ha suscitato un immediato allarme tra intellettuali e urbanisti critici e, nelle forze politiche di opposizione, L’Altra Emilia Romagna e Movimento 5 Stelle.

Gli autori del libro, le moderne “cassandre” di cui scrive in prefazione Tomaso Montanari, denunciano pubblicamente i rischi di una legge che favorirà un inedito consumo di luoghi – urbani e rurali – e un restringimento degli spazi di democrazia e di autodeterminazione, in nome dell’interesse privato e speculativo.

Dietro gli slogan del risparmio di suolo e della rigenerazione urbana, della semplificazione e della negoziazione, si nasconde il pericolo di un’«eclissi della pianificazione». In particolare, se il DdL si trasformerà in legge: il piano urbanistico sarà sostituito da “accordi operativi”; il consumo di suolo sarà garantito per un altro 3%, pari a centinaia di chilometri quadrati di nuova edificazione; il tessuto delle città storiche potrà essere interessato da demolizioni; la semplificazione riguarderà solo i grandi operatori generando un doppio regime normativo.

Prefazione di Tomaso Montanari. Contributi di: Ilaria Agostini, Piergiovanni Alleva, Paolo Berdini, Piero Bevilacqua, Paola Bonora, Sergio Caserta, Pier Luigi Cervellati, Paolo Dignatici, Anna Marina Foschi, Giovanni Losavio, Anna Marson, Cristina Quintavalla, Ezio Righi, Piergiorgio Rocchi, Edoardo Salzano.

Pubblichiamo l'intervento di Paola Bonora al convegno "Fino alla fine del suolo. La nuova disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio" tenutosi a Bologna, presso la Regione Emilia-Romagna, il 3 febbraio 2017. 5 febbraio 2017 (p.d.)

Non voglio in questa occasione discutere la tesi ecologista (il suolo come sostrato del vivente) o quella storicista (il patrimonio comune da tutelare e conservare), che pure reputo essenziali e a cui va la mia adesione morale prima ancora che culturale, intendo fermare l’attenzione sulle logiche di organizzazione dello spazio che la bozza di legge urbanistica della regione Emilia-Romagna presuppone.
L’avanzata del cemento e dell’asfalto si è scontrata con se stessa. L’eccesso produttivo e di costruito rimasto inutilizzato hanno fatto esplodere la bolla, saltare il mercato, diminuire di un terzo i valori immobiliari e aperto la crisi da cui non riusciamo a emergere. Un percorso di tale fallimentare evidenza che nessuno può più negarlo, non a caso tutti, costruttori in prima fila, si dichiarano ora concordi sulla necessità di limitare il consumo di suolo. Quando però si ragiona sui metodi per raggiungere questo traguardo le opinioni divergono a tal punto che sorgono dubbi persino sulla reale condivisione dell’obiettivo primario della limitazione. La bozza che pure lo dichiara principio di fondo assieme alla rigenerazione, introduce una tale congerie di esclusioni, deroghe, eccezioni da rendere vano l’aver fissato la soglia massima del 3%.
Il nocciolo del problema sta allora non tanto nel soppesare le retoriche adottate e stabilire chi mente di più in questo monòpoli dalle condizioni mutate, ma capire quale sia il contesto entro cui le nuove regole si troveranno ad agire e quali i ruoli e gli obiettivi dei giocatori. Che gli immobiliaristi vogliano far ripartire al più presto la partita è naturale e connaturato al loro negozio. Meno che l’istituzione si faccia paladina di questa parte in maniera privilegiata, ne promuova acriticamente gli investimenti e sottostimi gli interessi pubblici che stanno alla radice della sua rappresentanza. Interessi che, per quanto attiene il versante economico, potrebbero essere almeno in parte compensati da un maggiore equilibrio decisionale e fiscale tra i soggetti in campo, che preveda anche oneri non solamente premi e incentivi; in sostanza una più giusta ripartizione delle plusvalenze generate dalle trasformazioni urbane tra privati investitori e città pubblica. E mantenga a se’ la prerogativa della decisione e della razionalizzazione (se non la vogliono più chiamare pianificazione che fa troppo statalismo d’antan). Facoltà e compiti che si condensano nella potestà di governo, che non può discendere dalle volontà private di investimento, o comunque non solo o non prioritariamente da quelle. E si ponga anzi l’obiettivo di contenere le ingordigie del mercato che se lasciato libero di agire produce crisi devastanti come quella che stiamo patendo.
Peccato che ai comuni, esautorati di ogni potere di piano, sia concesso come unico strumento la negoziazione, che diventa la sede delle scelte urbanistiche su iniziativa unilaterale degli investitori. Con esiti che, nonostante i benauguranti auspici di “valorizzazione della capacità negoziale” espressi nel primo articolo, temibilmente metteranno in evidenza la debolezza degli enti minori nei confronti di apparati ben attrezzati - organizzativi, tecnici, di voice... - dei poteri economici con cui dovranno confrontarsi. Una battaglia decisamente impari, Davide e Golia ma senza la fionda – anche quando associati in Unioni, temo, come le previsioni urbanistiche pregresse (quelle che bisognava “far rientrare nel tubetto”) sono lì a mostrare. Chine invece agli step di partenza per scattare non appena la legge sarà approvata per fruire della liberatoria dei primi 3 anni; che ora sembrano diventati addirittura 5, chissà quanti diventeranno prima che si applichi il famoso 3%. Ma mi chiedo: siamo certi che ci sia domanda? Oppure costruiremo altri edifici destinati all’inutilità e a deprimere ulteriormente il mercato?
L’altro principio su cui la bozza si basa, la rigenerazione, è un lemma che nel linguaggio politico-urbanistico odierno è talmente abusato da aver perso significato preciso, è diventato il contenitore di tutto come del suo contrario. Anch’esso tuttavia, proprio nella sua insistente ricorsività, svela un progetto. I costruttori sono da tempo consapevoli della necessità di cambiare campo di investimento, che quello vecchio dell’espansione nelle aree agricole ha esaurito il proprio appeal e, fattisi accesi sostenitori del riuso, chiedono di rientrare nei nuclei storici, in aree degradate ma centrali da demolire e ricostruire. Operazioni che chiedono all’istituzione di sostenere sottolineando l’onerosità della prima parte del processo - acquisizione e bonifica - mentre dimenticano di segnalare le fruttuose implicazioni della seconda, ossia la forte rivalutazione che scaturisce da interventi di riqualificazione e intensificazione di aree centrali e semicentrali.
La “rigenerazione” rappresenta insomma il core business degli anni futuri. Una svolta che implica l’accorciamento del ciclo edilizio, destinata ad incidere sul piano urbano e territoriale ma che è prima di tutto una svolta culturale. Il bene durevole per eccellenza, che non a caso definiamo e distinguiamo come immobile, entra nel gioco dello spreco consumistico e diventa labile, deperibile, riproducibile. Una sorte che è già capitata ai valori immobiliari, un tempo assunti a garanzia di investimento di lungo periodo e sicura rivalutazione che invece hanno mostrato la stessa volatilità dei prodotti finanziari di cui erano stampella. Una serie di antichi miti sono caduti, ora sta crollando anche quello della durevolezza dei manufatti.
Un cambiamento che sottende inoltre il passaggio dalla rendita marginale, avvantaggiata nei decenni della fuga dalla città e dello sprawl, a quella posizionale, di rivalutazione della centralità allocativa. Una riconfigurazione del modello di organizzazione spaziale dalle conseguenze importanti sia sotto il profilo territoriale che economico e sociale, da cui potranno derivare intense modifiche degli assetti attuali. Evoluzioni e scenari di cui l’istituzione è opportuno sia ben consapevole, le sue politiche svolgono infatti un ruolo performativo determinante.
Sullo scacchiere immobiliare si gioca insomma il destino delle città nei prossimi anni, coinvolte in un intenso processo di “riconversione” (introduco volutamente questo termine di taglio industriale che mi sembra più schietto) di abbattimento e ricostruzione - o comunque, come indica la legge, di densificazione, senza rispetto per distanze, altezze, dotazioni, vecchi orpelli di un’urbanistica garantista demodé. Che cambierà la fisionomia e le modalità di utilizzazione di aree centrali, o potenzialmente tali, ora degradate o anche solo sdrucite. Ci si dovrà intendere sul concetto di degrado, se non vogliamo trovarci i picconatori sotto casa. Torna insomma il piccone risanatore, nelle vesti gioiose e politicamente illuminate della rigenerazione.
Che alcune aree, quelle dell’urbanizzazione frettolosa e caotica dell’immediato dopoguerra, meritino riconversione è innegabile. Si aprirà in ogni modo il problema degli abitanti, spesso soggetti sociali disagiati, anziani, stranieri. Una questione che vedrà necessariamente coinvolte le periferie ai margini dell’urbanizzato, nel fatidico 3% di suolo consumabile (ma in realtà credo prevalentemente in forma di edilizia convenzionata “di pubblica utilità” e dunque esclusa da questo computo), in cui dovranno sorgere nuovi edifici costruiti all’uopo con contributo quantomeno esentivo e premiale pubblico, per ospitare le popolazioni espulse dalle zone gentrificate, diventate troppo onerose.
La dinamica è lineare: riconverto zone centrali demolendo e ricostruendo, in più costruisco in periferia su terreni vergini sotto l’ombrello dell’interesse pubblico, accorcio in questo modo il ciclo di vita dei manufatti e introduco l’idea della loro precarietà così mi garantisco un mercato imperituro. Un dispositivo perfetto. Attenzione alle ruspe!
Ma salvo le aree edificate negli anni ’40-’50, il resto del patrimonio edilizio (quello emiliano in particolare) è di buona qualità, ed è tuttavia responsabile del dispendio energetico, causa principale di inquinamento e sperperi. Si preferisce però enfatizzare la costruzione ex novo di pochi edifici smart, a minimo impatto ambientale e classe energetica massima, il cui contributo al bilancio ecosistemico complessivo è irrisorio, mentre resta indifferenza nei confronti della dispersione, dello spreco e del carico ambientale di tutto il resto della città.
La città energivora dovrebbe invece diventare il principale bersaglio delle politiche urbane, favorendo il restauro, l’ efficienza energetica e la sicurezza antisimica, anche attraverso misure fiscali che invoglino i piccoli proprietari degli immobili a impegnare il tanto risparmio accumulato anziché occultarlo in banche traballanti e partecipazioni azionarie truffaldine.
Alle istituzioni poi spetta il compito di garantire sistemi di seria certificazione in grado di capitalizzare gli investimenti in riqualificazioni dei valori. Un indirizzo, questo, che le grandi imprese – il cui processo produttivo è impostato su operazioni di ampia scala – non riescono neppure a concepire, troppo distante dalla loro mentalità e modalità organizzativa. Rinunciano in questo modo a innescare un circuito di salvataggio e rivitalizzazione delle tante piccole e medie imprese della loro filiera, quelle stesse che la crisi ha falcidiato producendo molta disoccupazione.
Un ruolo di orientamento verso la ecosostenibilità e la creazione di posti di lavoro che dovrebbe appartenere alle politiche delle istituzioni, nazionali e locali, le quali invece preferiscono favorire grandi operazioni finanziario-immobiliari spesso fallimentari e generatrici di corruzione.
L’Emilia-Romagna ha cambiato pelle. Una metamorfosi che la vede in prima linea nella promozione della rendita. Che male c’è, qualcuno potrebbe obiettare, se da questi incrementi derivassero vantaggi universali e maggiore cura della città pubblica. Così purtroppo non è, la corsa iperliberista degli anni scorsi è culminata in una crisi di proporzioni enormi, non è realistico pensare che se ne possa uscire ricalcando le stesse modalità. E poiché credo fermamente nel ruolo delle istituzioni nel modellare il futuro (com’era stato nel nostro glorioso passato), spero che ci si prenda il tempo per immaginare le conseguenze di ciò che si sta per varare.

Potete scaricare qui il testo dal titolo "La città pubblica tradita", scritto da Paola Bonora ed apparso su “il Mulino”, 6/2016, pp. 958-966.

Finalmente, dopo la sezione Emiliana di Italia Nostra ed l'associazione eddyburg una voce nazionale contro la nuova urbanistica emiliana, cavallo di Troia per un ulteriore peggioramento in tutta la penisola. Aspettiamo INU, WWF, Legambiente, LIPU, Forum difesa del paesaggio....

Il Consiglio nazionale di Italia Nostra chiede di bloccare la nuova Legge Urbanistica che la regione Emilia Romagna sta per approvare:

“Il testo presentato tradisce i due principali obiettivi che hanno ispirato la nuova legge, ovvero il contenimento del consumo di suolo e la rigenerazione delle città”. Italia Nostra Emilia Romagna, con l’architetto Pier Luigi Cervellati, Paola Bonora – Università di Bologna, Ezio Righi – responsabile Urbanistica del consiglio regionale Emilia Romagna e i due consiglieri nazionali, Ilaria Agostini e Giovanni Losavio, hanno posto l’accento sulla pericolosità di una legge che esalta il privatismo e il liberismo immobiliare, nega la potestà comunale a pianificare e aumenta, anziché frenarlo, il consumo di territorio.

Il vantato limite del 3% posto all’ulteriore consumo di suolo è già in sé molto elevato: le città di Ferrara, Modena, Parma, Ravenna, Reggio Emilia, ad esempio, si amplierebbero di circa due chilometri quadrati ciascuna. Inoltre, con tutte le eccezioni disposte nelle sue maglie, l’effettiva trasformazione di campagna coltivata in aree urbane, complessi industriali o grandi infrastrutture, che non sono computate nel consumo di suolo, potrà facilmente raddoppiare o triplicare il già eccessivo contingente del 3% di suolo ritenuto urbanizzabile.

Le norme nazionali in materia di densità, altezze, distanze sono rese liberamente derogabili, e la dotazione di verde e servizi, che oggi per la residenza deve essere di almeno trenta metri quadrati per abitante, è azzerata; addirittura possono essere omessi i parcheggi pubblici.

Alla tutela e riqualificazione dei centri storici e del patrimonio edilizio di interesse culturale non è dedicato neppure un articolo, ma solo qualche riga in quello sul territorio urbanizzato.

Scompaiono gli obblighi in materia di edilizia residenziale sociale disposti dalla legge regionale in vigore, che impone a tale scopo la cessione gratuita di un quinto delle nuove aree edificabili per residenza, e sulle altre destinazioni un robusto contributo finanziario.

La proposta di legge vieta poi perentoriamente ai comuni di stabilire la capacità edificatoria e dettagliare i parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili nelle aree urbane da riqualificare e rigenerare, e pertanto di valutarne sistematicamente la sostenibilità nel territorio urbano. Apparentemente svincolati dall’obbligo di pianificare le trasformazioni intensive del loro territorio, i comuni sono in realtà esautorati da ogni potere cogente e asserviti all’iniziativa e alle scelte incontrollabili dei più forti interessi privati immobiliari. Un sovvertimento totale delle politiche urbane e territoriali molto grave che potrebbe costituire un precedente pericoloso: qualora approvata, infatti, questa legge – anche a causa dell’autorità riconosciuta per decenni all’Emilia Romagna nell’ambito urbanistico – potrebbe costituire l’apripista a nuove normative regionali dello stesso conio inaugurando, dunque, una nuova stagione di “mala urbanistica”.

In occasione della giornata di studio "Fino alla fine del suolo, La nuova disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio", indetta dai gruppi consiliari del Movimento 5 Stelle e de L'Altra ER" l'associazione di promozione sociale eddyburg . ribadisce le sue posizioni sulla devastante proposta. Riferimenti in calce


Per molti urbanisti italiani l’esperienza dell’Emilia Romagna, anche prima dell’attuazione dell’ordinamento regionale, ha rappresentato un modello fertile e virtuoso, e senza confronti nel nostro Paese, di buona pianificazione urbanistica e territoriale. Basti ricordare la prestigiosa Consulta urbanistica regionale che contribuì in modo determinante alla formazione del decreto ministeriale sugli standard del 1968. In anni più recenti, in attuazione della cosiddetta legge Galasso, la regione Emilia Romagna (assessore Felicia Bottino) si è dotata di un esemplare piano paesistico che ha tutelato con rigore le risorse storiche e ambientali della regione. Anche i comuni sono stati protagonisti di buone pratiche: in primis Bologna – in particolare al tempo degli assessori Giuseppe Campos Venuti e Pierluigi Cervellati – , ma anche Modena, Reggio Emilia e altre realtà locali che sono state a lungo un riferimento obbligatorio della cultura urbanistica, non solo italiana.

Ma a partire dagli anni Ottanta del Novecento, il primato dell’Emilia Romagna è andato progressivamente in crisi: gli strumenti urbanistici dell’ultima generazione hanno ceduto alla filosofia della globalizzazione, del privatismo, della contrattazione. È stata anche cancellata la tutela integrale dei centri storici che da Bologna era stata esportata in tutto il mondo.

Ed eccoci all’ultimo progetto di legge regionale sulla tutela e l’uso del territorio che compie un irresponsabile svolta deregolativa che, di fatto, delegittima la stessa disciplina urbanistica. Il progetto di legge, che nelle prossime settimane dovrebbe essere approvato dalla Giunta regionale, prevede una strumentazione urbanistica comunale articolata in: piano urbanistico generale (Pug) e accordi operativi. Spetterebbe al Pug stabilire “la disciplina di competenza comunale sull’uso e la trasformazione del territorio” (art. 29, c. 1, lettera a). Ma come? La novità dirompente è che “il Pug “non può [corsivo nostro] stabilire/definire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato e di quelle di nuova urbanizzazione, né dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili, con la sola eccezione degli interventi attuabili per intervento diretto” (art. 32, c. 4 e art. 37, c.1).

Quindi, ed è bene sottolinearlo, secondo il progetto di legge alla “disciplina di competenza comunale sull’uso e la trasformazione del territorio” è addirittura inibito di “stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato e di quello urbanizzabile, né dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili”.

Com’è possibile? A chi spetta allora, se non al piano urbanistico comunale, di definire la capacità edificatoria e i parametri urbanistici? La risposta sta nel testo di legge: spetta agli accordi operativi derivanti dalla negoziazione fra l’amministrazione comunale e gli operatori privati che abbiano presentato al comune un’apposita proposta (art. 37, c. 3), da approvare in 60 giorni: in tempi evidentemente proibitivi per i comuni! E siffatti accordi “sostituiscono ogni piano urbanistico operativo e attuativo, comunque denominato” (art. 29, c. 1, lettera b). La conseguenza è un piano urbanistico comunale privo di contenuti dimensionali e localizzativi: in pratica, non si saprà quante saranno e dove saranno ubicate le nuove residenze, le attività produttive, le attrezzature e i servizi.

Un altro contenuto inaccettabile della nuova legge urbanistica è quello relativo al contenimento del consumo del suolo. Il testo di legge statuisce che ogni comune potrà prevedere un consumo di suolo pari al 3% del territorio urbanizzato. Quest’espansione è destinata a opere d’interesse pubblico e a insediamenti strategici “volti ad aumentare l’attrattività e la competitività del territorio” (art. 5, c. 2). Non sono consentite nuove edificazioni residenziali, a meno che non siano destinate ad attivare interventi di rigenerazione del territorio urbanizzato e per interventi di edilizia residenziale sociale (art. 5 c. 3).

Non sono invece computati ai fini del calcolo del 3%: i suoli per opere d’interesse pubblico per le quali non sussistano ragionevoli alternative; gli ampliamenti di attività produttive; i nuovi insediamenti produttivi d’interesse strategico regionale; nonché gli interventi previsti dai piani urbanistici previgenti autorizzati entro tre anni dall’approvazione della nuova legge (art. 6, c. 5). Si mettono così al sicuro i cosiddetti diritti acquisiti, ed è stato calcolato che, alla fine, tenendo conto anche delle discutibili modalità di individuazione della superficie urbanizzata, il consumo di suolo consentito sarà di gran lunga superiore, fino al doppio o al triplo, del previsto 3% della superficie urbanizzata. Come nei piani urbanistici degli anni della grande espansione.

Trascuriamo altri contenuti del progetto di legge – in particolare quelli relativi al possibile ridimensionamento degli standard e alle complicazioni che il nuovo labilissimo assetto della strumentazione comunale determinerà nei riguardi della pianificazione sovraordinata –. Tornando agli accordi operativi, secondo la proposta di legge potranno essere elaborati e presentati esclusivamente dalla proprietà fondiaria. Al comune spetteranno soltanto l’assurda verifica di conformità nei confronti di una pianificazione di fatto delegittimata in quanto priva di disposizioni cogenti, e la negoziazione con i privati in materia di dotazioni, infrastrutture e servizi. In assenza di proposte private, il comune non potrà dunque decidere alcunché, meno che mai elaborare propri piani urbanistici.

Si tratta di un progetto di legge che renderà leggendaria l’autonoma capacità d’intervento, il talento e l’inventiva dei comuni e degli enti locali dell’Emilia Romagna dei trascorsi decenni.

Di fronte a questo ennesimo tentativo di rottamazione della pianificazione, eddyburg sollecita le associazioni nazionali che hanno tra i loro obiettivi la tutela del territorio in tutte le sue componenti (naturalistche, storiche, paesaggistiche, culturali,) ad attivarsi per evitare che la proposta della RER, diventi il cavallo di Troia per l'ulteriore imbarbarimento della legislazione italiana in materia

Riferimenti

Una puntuale ed ampia analisi critica del progetto di legge è contenuta nel documento della sezione emiliano-romagnola di Italia nostra, che trovate qui in eddyburg. Vi segnaliamo anche, sempre su eddyburg, la lettera aperta ai governanti della Regione E-R, e gli articoli di Enzo Righi, di Ilaria Agostini e di Giovanni Lo Savio., scritti per i nostri frequentatori

In Lombardia, l'amministrazione leghista vuole consentire per legge l'utilizzo dei seminterrati, in deroga ai piani urbanistici, per abitazioni e attività produttive, con postilla (m.c.g.)

Il governo leghista della Regione Lombardia, con il disegno di legge (n. 0258) dedicato alrecupero ad uso abitativo, commerciale o terziario dei piani seminterrati, conferma ancora una volta di non riuscire a segnare una reale discontinuità rispetto al ventennio di Formigoni, nonostante una campagna elettorale, quella del 2013, fatta dall'attuale Governatore con tanto di ramazze e scope di saggina per indicare un cambiamento che, di fatto, non si è verificato.

Nel 1996, all'inizio del primo mandato di Formigoni, c'era stato il tema dei sottotetti che, in deroga alle previsioni dei piani regolatori, potevano essere trasformati in nuove unità immobiliari con funzioni residenziali. Oggi la Giunta leghista ne offre la versione "underground", con il primo comma dell'articolo 1 che é proprio il copia e incolla della L.R. 15/96. La proposta di legge in discussione ha l'obiettivo di consentire l'uso degli attuali seminterrati (sì, proprio quelli che a ogni acquazzone si allagano) per fini abitativi, commerciali e terziari.

È bene ricordare che questi spazi, attualmente, non sono conteggiati nella volumetria che si edifica e infatti non hanno i requisiti minimi di abitabilità previsti dalle norme igienico-sanitarie: hanno soffitti più bassi, hanno meno luce e meno aria, spesso hanno problemi di umidità, tant'è che sono definiti come "locali accessori", cioè senza permanenza fissa di persone. Inoltre sono proprio quei locali che, in occasione di temporali o forti piogge, si allagano, essendo a una quota inferiore rispetto al piano stradale e molte volte anche al sistema fognario.

È da anni che la maggioranza del Pirellone parla di riformare la legge urbanistica, una legge (elaborata alla fine del secondo mandato di Formigoni) che ha generato una iper-produzione di piani urbanistici comunali ognuno dei quali, in modo del tutto autoreferenziale, ha fatto previsioni insediative spesso molto creative, slegate da concrete politiche di sviluppo territoriale e in assoluta assenza di un coordinamento di scala superiore. Il risultato di oltre un decennio di applicazione di quella norma sta nelle migliaia (circa 400.000) di metri quadrati che, oggi, i quasi 1.500 PGT lombardi si portano dietro e la cui realizzazione sembra comunque garantita da una legge sul contrasto del consumo di suolo la cui attuazione rimane molto controversa.

È evidente che all'attuale maggioranza lombarda manchino le idee o la forza politica (o entrambe le cose) per portare avanti un disegno di legge complessivo sul tema del governo del territorio. Basta vedere i provvedimenti parziali che sono stati approvati in questi anni (L.R. 31/2014 per il contrasto al consumo di suolo, L.R. 4/2016 per la mitigazione del rischio idrogeologico, Strategia regionale per l'adattamento climatico del 2014) su iniziativa di Direzioni Organizzative differenti, indicatore di una mancanza di coordinamento interno, tecnico oltre che politico, su questi temi che oggi più che mai richiederebbero invece collaborazione tra chi si occupa di ambiente, di gestione idrica, di agricoltura, di energia, di urbanistica e di sviluppo sostenibile.

Un ultimo punto interrogativo rimane poi riguardo a quale domanda abitativa, commerciale e terziaria sia rivolta questa proposta. Quali bisogni si vogliono soddisfare in un territorio, come quello lombardo, in cui l'offerta immobiliare ha da tempo superato la domanda, tanto che uno dei temi urbanistici più problematici è la gestione di una sovraproduzione edilizia di aree che in molti casi rischiano di diventare abbandonate e degradate senza neppure essere state occupate?

postilla

“Vado a vivere in cantina” potrebbe essere il titolo del disegno di legge (n. 0258) promosso dalla regione Lombardia. Qui potete scaricare il testo, composto da soli tre articoli.

Non si tratta, in effetti, di una novità assoluta. Il recupero dei seminterrati è purtroppo previsto in numerose leggi regionali, come illustra questa rassegna predisposta dall'Ufficio Studi Confappi-Federamministratori, disponibile in rete.

Suggeriamo di rivedere la piece esilarante di Marco Paolini sul Veneto e i tavernicoli.
In quel caso oggetto dell’ironia dissacrante dell’autore/attore erano i ‘nuovi cavernicoli’: gli abitanti della villettopoli diffusa veneta, con le loro ‘tavernette’ dove venivano consumati i riti del familismo trionfante. Nel nuovo scenario, che riguarderà invece anche il tessuto edilizio degli habitat densi, il ‘seminterrato lombardo’ più che scelta abitativa individuale potrà costituire una ulteriore ghiotta occasione di speculazione edilizia: naturalmente, per una nicchia di mercato a basso reddito.
La giustificazione, retorica e quanto mai irritante, è sempre la stessa:contenere il consumo di suolo e il consumo energetico. In realtà, si trattadell’ennesima occasione offerta ai Comuni per fare cassa approfittando delladrammatica emergenza casa. E’ il mercato bellezza! Eccola la sedicente politica abitativa ‘inclusiva’ della regione locomotiva d’Italia: ma sostenibile naturalmente! (m.c.g.)

Appello urgente contro le proroghe del Piano casa della regione Lazio. Carteinregola, online 30 dicembre 2016 (m.c.g.)

Carteinregola ha inviato un appello al Presidente Zingaretti contro proroghe in qualsiasi forma del Piano casa della Regione Lazio introdotte nel bilancio in discussione alla Pisana. Intanto giunge notizia di un maxiemendamento della maggioranza che contiene una proroga di qualche mese, come sembra anche confermare un articolo sul Giornale d’Italia di Francesco Storace, che attacca Sinistra Ecologia e Libertà* rea, secondo il consigliere regionale di La Destra, di costringere «i loro alleati [del PD NDR]a mendicare due mesi in più o in meno sulla poroga del Piano [casa]».

Comprensibile che il centrodestra e la destra, da cui il Piano casa in questione prende le mosse, si batta per la sua proroga. Meno comprensibile che lo faccia un partito – il PD – che nell’era Polverini era schierato con SEL e Radicali italiani contro quegli stessi articoli – Art 3 ter quater etc – che sono rimasti quasi identici nella versione che ora si vorrebbe di nuovo prorogare (AMBM)

L’appello :Basta con il piano casa della Polverini

Il 31 gennaio scadrà la Legge Regionale n. 21/09 – il cosiddetto “Piano Casa” – nella versione della Giunta Zingaretti, la PL 75, approvata e prorogata nella notte tra il 30 e Il 31 ottobre 2014. Un Piano che, per la parte edilizia, ha riproposto con poche modifiche la “mutazione genetica” introdotta dalla Presidente del centro destra Polverini. Basta confrontare i due “Piani Casa” Polverini e Zingaretti – in calce è scaricabile la versione con i due testi a fronte – per toccare con mano che si è continuato a consentire aumenti di cubatura e cambi di destinazione “in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici”, dando ai privati la possibilità di ampliare edifici ancora da costruire, o di cambiarne la destinazione d’uso, permettendo di trasformare capannoni industriali in appartamenti o addirittura in centri commerciali.

E tutto questo estromettendo i Comuni dalle decisioni che riguardavano il governo del loro territorio, quindi senza alcuna valutazione degli impatti degli interventi sull’ambiente, la mobilità, la qualità della vita dei residenti.

A pochi giorni dalla scadenza, apprendiamo che un emendamento del centro destra, facendosi portavoce delle tante sollecitazioni di alcuni ordini e categorie collegate al settore edilizio, ne chiede la proroga, da sei mesi a un anno e mezzo.

Chiediamo fermamente che non sia dato seguito né a tale proposta né ad alcuna analoga modifica che consenta il perpetuarsi di una normativa che privilegia l’interesse privato a scapito del governo pubblico del territorio, che piega la rigenerazione urbana alle esigenze del profitto, che restringe la democrazia e la partecipazione dei cittadini nei processi di trasformazione della città. Non a caso il Piano casa Polverini ha fatto scuola e trovato seguaci in molte Regioni a guida centrodestra.

Chiediamo al Presidente Zingaretti, alla sua Giunta e a tutti i consiglieri regionali che intendono tutelare i diritti della collettività, per uno sviluppo della nostra Regione compatibile con la qualità della vita dei cittadini e la tutela del nostro patrimonio ambientale e paesaggistico, di chiudere per sempre il capitolo del Piano Casa Polverini, senza ulteriori proroghe più o meno mascherate.

È dalla capacità di proposte innovative che i cittadini possono valutare positivamente l’operato dell’amministrazione regionale cui compete la regolamentazione del territorio e non dalla stanca riproposizione di norme pensate da altri e soprattutto un altre epoche.

Associazione Carteinregola, Italia Nostra Roma, VAS Roma…

Edoardo Salzano, Enzo Scandurra, Carlo Cellamare, Elio Rosati (Segretario Cittadinanzattiva Lazio), Emanuele Montini (Segretario generale Italia Nostra), Paola Bonora, Paolo Maddalena…

(L’appello sta raccogliendo varie adesioni di associazioni e urbanisti, giuristi e intellettuali che saranno man mano inserite nella pagina)

NOTA: Per valutare l’opportunità o meno di tale proposta sarebbe stato interessante conoscere l’incremento dei pesi insediativi nell’ambito del territorio comunale che doveva essere monitorato con il “Registro degli interventi”, istituito ai sensi dell’art. 3 c.9 della stessa legge, presso ciascun comune e i cui dati riepilogativi devono essere trasmessi annualmente alla stessa Regione. L’assenza di ogni informazione al riguardo non depone a favore della trasparenza e dell’equilibrio della proposta di proroga.

Scarica il confronto con il testo a fronte tra il paino casa Polverini e il paino casa Zingaretti definitivo.

Che cos’è il Piano casa e come si è trasformato nel Lazio

Il cosiddetto “Piano casa” nasce da un’Intesa Stato-Regioni del 2009, che introduce la possibilità di ampliamento delle cubature per “edifici residenziali uni-bi familiari”, o nell’ambito di “interventi straordinari di demolizione e ricostruzione”, per un periodo che non deve superare i 18 mesi. La Regione Lazio di Piero Marrazzo approva un Piano in linea con l’Intesa, ma con l’arrivo del centrodestra di Renata Polverini, nel marzo 2010, due successive leggi regionali (nel 2011 e nel 2012) modificano il Piano, estendendo a dismisura – allora unica Regione in Italia – le possibilità edificatorie dei privati, perfino in aree protette. Due diversi Ministri ai Beni Culturali impugnano i provvedimenti davanti alla Corte Costituzionale. L’opposizione PD, Radicali italiani, SEL, IDV, FdS, Verdi, insorge e minaccia referendum.

Ma quando torna il centrosinistra, nel febbraio 2013, la giunta Zingaretti, modificati gli articoli a rischio incostituzionalità con la PL 76, il 31 ottobre 2014, con il voto unanime della maggioranza (Pd, Sel, Lista e Listino Civico Zingaretti), approva la PL 75, che mantiene inalterati i capisaldi urbanistici del Piano Polverini.

Infatti, se si esclude l’abolizione della abnorme e ingiustificata premialità dispensata nei piani particolareggiati, e qualche modifica minore, si continuano a prevedere gli ampliamenti per edifici ancora da costruire, si consente il cambio di destinazione d’uso, trasformando ad esempio capannoni industriali in appartamenti o addirittura in centri commerciali, e soprattutto si continuano a estromettere i Comuni dalle decisioni che riguardano il governo del territorio.

La frase “in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici”, introdotta per 6 volte dal Piano Polverini, ricorre nelle stesse 6 occasioni nel Piano Zingaretti. E questo nonostante l’Intesa del 2009 prescrivesse chiaramente che le leggi regionali di applicazione del “Piano Casa” fossero scritte «in coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e della pianificazione comunale”.

Il Piano casa Polverini/Zingaretti è stato prorogato fino al gennaio 2017. Non sappiamo finora quanti interventi siano piovuti sulla città: con la sola eccezione di quelle zone di Roma che sono state escluse dal Piano Casa “in ragione di particolari qualità di carattere storico, artistico, urbanistico ed architettonico” in base a una Delibera approvata dall’Assemblea Capitolina nel gennaio 2012, nè il Comune nè i cittadini hanno potuto opporre alcuna obiezione di merito agli aumenti di cubatura e soprattutto cambi di destinazione d’uso decisi dai privati in possesso dei requisiti previsti.

Piano casa – Legge Polverini testo a fronte pl 75 approvata zingaretti

Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2016 (p.d)

Dal 7 gennaio non possiamo garantire energia, riscaldamenti, ristrutturazioni e riparazioni in almeno 70 scuole. Mancano certificazioni sulla sicurezza e certificati di agibilità”. Caserta, provincia di 104 Comuni e oltre 900 mila abitanti. Il presidente facente funzioni è Silvio Lavornia, che ricopre l’incarico da quando il titolare è stato arrestato per un’inchiesta sul comune che amministrava. Spiega che nel 2017 la maggior parte delle scuole che dipendono dalla Provincia potrebbe essere chiusa. Niente di strano per enti che subiscono tagli pesanti dal 2010 (Berlusconi), pesantissimi dal 2012 (Monti) e parossistici ora (Renzi: 3 miliardi in tre anni dal 2015al 2017).Torniamo a Caserta: in estate era stata diramata una circolare del settore edilizia dell’ente che sottolineava “l’indisponibilità di risorse finanziarie”. Poi, l’urgenza del referendum ha congelato tutto. Ora il problema è lì e sta per esplodere.

“Siamo sul lastrico”. Lavornia racconta che non riuscirà a riequilibrare il bilancio neanche in 30 anni. La Provincia di Caserta è una delle tre ad aver dichiarato il dissesto con Vibo Valentia e Biella. Ha un passivo di 26 milioni di euro e tra il 2015 e il 2016 ha subito tagli per 42 milioni. “Nel 2014 – spiega Lavornia – avevamo 18 milioni di attivo”. Prima del 4 dicembre, i parlamentari campani (dal M5s al Pd) avevano presentato emendamenti alla legge di Bilancio per cercare almeno evitare i tagli nel 2017. La fiducia al Senato, però, li ha fatti cadere.

Questa è la situazione: “I dipendenti costano 18 milioni, altri 15 servono per pagare i mutui: i commissari liquidatori usano le entrate per gestire il dissesto. Dalla vendita degli immobili non ricaviamo più di 3 milioni. Non riusciamo a garantire neanche i servizi essenziali per le scuole: non mi prendo la responsabilità di aprirle nel 2017”.

Vibo Valentia,Calabria. Qui il dissesto finanziario è stato dichiarato dai commissari prefettizi nel 2011. Era una provincia con entrate per oltre 20 milioni di euro, oggi sono 2,8. “Gestiamo anche la viabilità – spiega il presidente Andrea Niglia – e aspettiamo ancora i soldi del Fondo Anas (100 milioni per la manutenzione straordinaria previsti in un decreto di giugno, ndr)”. I debiti ammontano a oltre 50 milioni di euro, le entrate non coprono neanche il costo del personale (500 mila euro al mese). “Il tentativo del governo di cancellare le province è stato un flop e noi abbiamo vissuto per anni in un limbo – dice Niglia – Ora ricominciamo: cercheremo di ripagare il debito, poi passeremo al risanamento. Abbiamo 900 km di strade distrutte e nelle scuole non riusciamo ad accendere i riscaldamenti”.

I tagli. A spiegare cosa è successo negli ultimi due anni è Achille Variati, presidente dell’Unione Province Italiane, che guida quella di Vicenza. Parte dal 2014, quando entra in vigore la cosiddetta Legge Delrio che le riorganizza: le province diventano enti di secondo livello (non elettivi) e ne vengono definite le “funzioni fondamentali” (strade, scuole, trasporti, dissesto idrogeologico più quelle che possono delegare le Regioni). In sostanza, hanno la gestione di oltre 100 mila km di strade e 5mila scuole (un bacino di 2,5 milioni di alunni), più un bel pezzo della manutenzione ordinaria del territorio. Il tutto da fare con il taglio della metà dei dipendenti: nel 2015 vengono messi in mobilità 23 mila lavoratori (circa 500 lo sono ancora). I finanziamenti statali sono passati dagli 11 miliardi del 2011 ai 6,4 miliardi del 2013 e saranno solo 3,4 del 2017: basti dire che le entrate proprie (un ’imposta sulla Rc Auto, un’altra sui passaggi di proprietà, più un tributo sui servizi ambientali) negli ultimi anni sono state sempre tra i 4 e i 5 miliardi. Lo Stato, insomma, sulle province ci guadagna. Come? Tenendosi i soldi, che infatti per strade, scuole e territorio non ci sono.

Molte province stanno resistendo ai tagli solo grazie ad avanzi di amministrazione precedenti. E l’obbligo di redigere bilanci annuali, senza “spalmare” le spese, non consente programmazione: “In legge di Bilancio c’è un fondo di 960 milioni per gli enti locali che si spera venga destinato alle province – dice Variati – Altrimenti l’anno prossima quasi nessuna riuscirà a chiudere un bilancio”. La sua Vicenza è un esempio di virtuosità. È passata da 347 dipendenti a 147, da 100 dirigenti a 3, con tagli per 32 milioni all’anno: “Nel 2017 i risparmi dovrebbero arrivare a 51 milioni: semplicemente non li abbiamo”.

Le previsioni. In realtà, anche se nel 2017 i 960 milioni dovessero andare alle province, ci sarà comunque un disavanzo di 430 milioni. Si legge nelle note metodologiche del Sose (la società pubblica che si occupa di stabilire i criteri di efficienza della spesa dello Stato) che nel 2015 ha fornito al governo i dati su costi e fabbisogni standard delle province: le province delle Regioni a statuto ordinario dovevano tagliare 900 milioni, solo che 215 milioni non erano assorbibili. Peccato che lo studio sia stato commissionato solo dopo la decisione dei tagli.

Paradossi. Anche la provincia di Biella è in dissesto. Emanuele Ramella Pralungo ne è il presidente. “Biella è in dissesto da prima della legge Delrio e abbiamo un piano di rientro”. Il paradosso: se il percorso si potrà concludere entro il 2017 è solo perché Biella, essendo in dissesto, ha evitato i tagli. Il resto delle province piemontesi, spiega Pralungo, “l’anno prossimo rischiano di non chiudere il bilancio”. Novara è in pre-dissesto, il Verbano-Cusio-Ossola in pre-dissesto, la provincia di Vercelli si regge a stento. Quella di Cuneo è l’unica che il prossimo anno riuscirà a chiudere il bilancio, a patto che Roma mandi i soldi per le alluvioni di quest’inverno: “Calcolare i tagli basandosi sulle funzioni fondamentali va bene, ma è assurdo che lo spazzamento delle strade dalla neve non rientri in queste funzioni. Gestisco una provincia con 94 dipendenti contro i 280 degli anni d’oro, quando magari erano troppi. In più sono state prodotte norme deliranti, come l’omicidio stradale”.

In sintesi, i funzionari provinciali non hanno i soldi per la manutenzione delle strade, ma se qualcuno avesse un incidente stradale e dovesse morire su una strada dissestata della provincia, la procura aprirebbe un’indagine per omicidio stradale anche a carico del dirigente provinciale. Sarà pure per questo che le compagnie assicurative si rifiutano di assicurare questi enti.

Continua la denuncia del progetto di legge urbanistica della Regione Emilia Romagna: una mostruosità anche sul piano giuridico; ecco alcuni dei motivi che potrebbero richiedere l'intervento della Corte costituzionale se sciaguratamente la Regione E-R l'approvasse.

Questo progetto di legge è espressione della potestà legislativa della regione, concorrente con quella dello stato, cui l’art.117 cost. riserva la determinazione dei principi fondamentali. E’ vero che specie negli ultimissimi tempi i principi fondamentali nella “materia” del governo del territorio – urbanistica si sono venuti affievolendo sotto l’urgenza del proclamato “rilancio dell’economia” e della perseguita semplificazione in materia edilizia (ricordiamo il dirompente “decreto del fare” del 2013).

Ma almeno due essenziali principi sono rimasti fermi nella legislazione statale, benché rimasta contagiata dalla peggiore produzione normativa delle regioni sull’onda della pianificazione negoziata. Il principio innanzitutto della riserva della potestà urbanistica alle istituzioni pubbliche rappresentative delle comunità; e quello, a ben vedere dipendente, secondo cui i modi dell’edificare debbono corrispondere a regole normativamente predeterminate a fissarne i limiti che non possono essere affidati al libero accordo tra amministrazione comunale e privato costruttore.

Ebbene questo progetto di legge travolge l’uno e l’altro principio del governo del territorio della nostra unitaria repubblica. Al PUG, piano urbanistico generale, strumento unico di livello comunale, si nega (art. 32, comma 4) il compito di regolare la capacità edificatoria delle aree del territorio urbanizzato, la cui “rigenerazione” è indicata come l’obbiettivo primario del governo del territorio. Insomma, l’espresso divieto di pianificazione urbanistica (negata anche la definizione degli altri parametri urbanistici e edilizi degli interventi) sulle più rilevanti trasformazioni del territorio urbanizzato, rimesse al libero accordo operativo con i proprietari-costruttori. E’ la stessa urbanistica che così disponendo si nega.

La Regione ER intende dunque in questo modo profittare del varco aperto dal “decreto legge del fare”(convertito nella legge 98 del 2013) che consente alle regioni di “derogare” - con propria legge o proprio regolamento – alle disposizioni del decreto interministeriale 1444 del 1968 (dato in attuazione della disciplina introdotta dalla legge “ponte” dell’anno prima). Disposizioni che sono espressione di un principio fondamentale vincolante nell’esercizio della potestà legislativa regionale nella materia, anche là dove fissano limiti inderogabili alla densità edilizia, all’altezza degli edifici e alla distanza tra i fabbricati. Ma la facoltà di derogare a quelle specifiche misure non può certo significare, come invece pretende l’art. 9, lettera c) di questo progetto di legge, la liberazione da ogni prescrizione di densità edilizia, altezza degli edifici e distanza tra loro, la soppressione cioè di ogni limite. Si apre la porta agli ecomostri dentro la città esistente, come abbiamo osservato, parossistica realizzazione di quella operazione di “addensamento” cui il progetto di legge affida il compito primario di rigenerazione urbana. E paradossalmente questa disposizione che libera i privati – costruttori da ogni limite, si impone e prevale (art.10, comma 3) sulle diverse previsioni al riguardo nei vigenti strumenti di pianificazione urbanistica comunale.

Una vera e propria sopraffazione, come abbiamo osservato, lesiva della autonomia dei comuni in una materia tradizionalmente – storicamente – assunta nella loro competenza. La titolarità di una essenziale funzione amministrativa propria dei comuni e in concreto esercitata, garantita dall’art.118 della costituzione (“i comuni sono titolari di funzioni amministrative proprie”) che dunque da questa disposizione del progetto di legge è esplicitamente violato.

Se, come non è improbabile, questa proposta di legge sarà, nel testo oggi presentato, approvata dalla assemblea regionale, il governo (cui la nostra regione è politicamente molto vicina) sarà capace, ci domandiamo, del forte risentimento necessario per sollevare conflitto di attribuzione (per violazione di principi fondamentali della materia) davanti alla Corte costituzionale?

Riferimenti

Sul progetto di legge, vedi anche la lettera aperta pubblicata su eddyburg e il documento di analisi di Italia Nostra - Emilia Romagna

Lettera aperta ai governanti della Regione Emilia–Romagnaperché rinuncino ad approvare senza un’ampia discussione una legge sbagliata


Lettera aperta ai governanti della Regione Emilia–Romagna perché rinuncino ad approvare senza un’ampia discussione una legge sbagliata, che rischia di divenire un modello per le altre regioni italiane e per un’eventuale legge nazionale


Per molti urbanisti italiani l’esperienza dell’Emilia Romagna, anche prima dell’attuazione dell’ordinamento regionale, rappresentava un modello senza confronti nel nostro Paese. Ricordiamo la prestigiosa Consulta urbanistica regionale che contribuì in modo determinante alla formazione del decreto ministeriale sugli standard del 1968. In anni più recenti, in attuazione della cosiddetta legge Galasso, la regione Emilia Romagna (assessore Felicia Bottino) si è dotata di un esemplare piano paesistico che ha tutelato con rigore le risorse storiche e ambientali della regione. Senza dimenticare i comuni di Bologna – in particolare al tempo degli assessori Giuseppe Campos Venuti e Pierluigi Cervellati – di Modena, Reggio Emilia e di altre realtà locali che sono stati a lungo un riferimento obbligatorio della cultura urbanistica non solo italiana. Ma a partire dagli anni Ottanta del Novecento, a poco a poco, il primato dell’Emilia Romagna è andato in crisi, gli strumenti urbanistici dell’ultima generazione hanno ceduto alla filosofia della globalizzazione, del privatismo, della contrattazione. È stata anche cancellata la tutela integrale dei centri storici che da Bologna era stata esportata in tutto il mondo.
Ed eccoci all’ultimo progetto di legge regionale sulla tutela e l’uso del territorio che compie un irresponsabile salto di scala fino alla negazione della stessa disciplina urbanistica. Il progetto di legge, che nelle prossime settimane dovrebbe essere approvato dalla Giunta regionale, prevede una strumentazione urbanistica comunale articolata in: piano urbanistico generale (Pug) e accordi operativi. Il Pug dovrebbe stabilire “la disciplina di competenza comunale sull’uso e la trasformazione del territorio” (art. 29, c. 1, lettera a), ma la novità dirompente è che “il Pug “non può [corsivo nostro] stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato e di quelle di nuova urbanizzazione né dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili con la sola eccezione degli interventi attuabili per intervento diretto” (art. 32, c. 4 e art. 37, c.1).
Quindi, secondo il progetto di legge, è bene ripeterlo, alla “disciplina di competenza comunale sull’uso e la trasformazione del territorio” è addirittura inibito di “stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato e di quello urbanizzabile né dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili”. Com’è possibile? A chi spetta allora, se non al piano urbanistico comunale, di definire la capacità edificatoria e i parametri urbanistici? Spetta agli accordi operativi derivanti dalla negoziazione fra l’amministrazione comunale e gli operatori privati che hanno presentato al comune un’apposita proposta (art. 37, c. 3), da approvare in 60 giorni, tempo proibitivo per i comuni. E siffatti accordi “sostituiscono ogni piano urbanistico operativo e attuativo, comunque denominato” (art. 29, c. 1, lettera b). La conseguenza è un piano urbanistico comunale privo di contenuti dimensionali e localizzativi: non si sa quante saranno e dove saranno ubicate le nuove residenze, le attività produttive, le attrezzature e i servizi.

Altro contenuto inaccettabile della nuova legge urbanistica riguarda il contenimento del consumo del suolo. Ogni comune può prevedere un consumo di suolo pari al 3% del territorio urbanizzato. Quest’espansione è destinata a opere d’interesse pubblico e a insediamenti strategici “volti ad aumentare l’attrattività e la competitività del territorio” (art. 5, c. 2). Non sono consentite nuove edificazioni residenziali, a meno che non siano destinate ad attivare interventi di rigenerazione del territorio urbanizzato e per interventi di edilizia residenziale sociale (art. 5 c. 3). Non sono invece computati ai fini del calcolo del 3%: i suoli per opere d’interesse pubblico per le quali non sussistano ragionevoli alternative; gli ampliamenti di attività produttive; i nuovi insediamenti produttivi d’interesse strategico regionale; nonché gli interventi previsti dai piani urbanistici previgenti autorizzati entro tre anni dall’approvazione della nuova legge (art. 6, c. 5). Si mettono così al sicuro i cosiddetti diritti acquisiti, ed è stato calcolato che, alla fine, tenendo conto anche delle discutibili modalità di individuazione della superficie urbanizzata, il consumo di suolo consentito sarà di gran lunga superiore, fino al doppio o al triplo, del previsto 3% della superficie urbanizzata. Come nei piani urbanistici degli anni della grande espansione.

Trascuriamo altri contenuti del progetto di legge – in particolare quelli relativi al possibile ridimensionamento degli standard e alle complicazioni che il nuovo labilissimo assetto della strumentazione comunale determinerà nei riguardi della pianificazione sovraordinata – tornando agli accordi operativi che, secondo la proposta di legge possono essere elaborati e presentati esclusivamente dalla proprietà fondiaria. Al comune rimangono l’assurda verifica di conformità a una pianificazione superflua, priva di disposizioni cogenti, e la negoziazione con i privati in materia di dotazioni, infrastrutture e servizi. In assenza di proposte private il comune non può fare alcunché, meno che mai formare propri piani urbanistici.

Diventa leggendaria l’autonoma capacità d’intervento, il talento e l’inventiva dei comuni e degli enti locali dell’Emilia Romagna dei trascorsi decenni.

Ilaria Agostini
Paolo Baldeschi
Piergorgio Bellagamba
Donato Belloni
Rossana Benevelli
Paolo Berdini
Enrico Bettini
Ivan Blecic
Stefano Boato
Giuseppe Boatti
Paola Bonora
Ilaria Boniburini
Luisa Calimani
Pier Luigi Cervellati
Giancarlo Consonni
Alessandro Dal Piaz
Luigi De Falco
Vezio De Lucia

Marina Foschi
Maria Cristina Gibelli
Sergio Lironi
Giovanni Losavio

Alberto Magnaghi
Lodovico Meneghetti
Guido Montanari
Loredana Mozzilli
Domenico Patassini
Ezio Righi
Piergiorgio Rocchi
Sandro Roggio
Edoardo Salzano
Enzo Scandurra
Giancarlo Storto
Giulio Tamburini
Sauro Turroni
Graziella Tonon


12 dicembre 2016

Una puntuale ed ampia analisi critica del progetto di legge è contenuta nel documento della sezione emiliano-romagnola di Italia nostra, che trovate qui in eddyburg

Un documento di Italia nostra, sezione Emilia-Romagna, che rivela come la Regione che molti decenni fa era all'avanguardia nel buon governo del territorio sia oggi capace di avviare una devastante iniziativa, nella quale felicemente si congiungono le politiche territoriali degli anni di Craxi, Berlusconi, e soprattutto Renzi.


premessa
pubblichiamo l'ampio documento approvato il 26 novembre 2016 dalla Sezione Emilia-Romagna di Italia nostra: una puntuale critica di un testo inaccettabile da chi non sia intimamente legato agli interessi immobiliari, o non trovi comunque il suo tornaconto nell'ulteriore sfacelo delle città, dei territori e delle società che li abitano: la bozza di legge "Disciplina regionale sulla tutela e l'uso del territorio" (scaricabile qui)
Invitiamo i nostri lettori a soffermarsi in particolare sugli ultimi paragrafi, là dove si argomenta questa sintetica definizione della proposta emiliano-romagnola: la "semplificazione" introdotta dalla proposta consiste«semplicemente nell’abolizione della disciplina urbanistica, intesa come determinazione preventiva delle trasformazioni ammissibili sul territorio nel segno dell’interesse pubblico, fondata sull’accertamento sistematico della loro sostenibilità e sul preordinamento delle condizioni di fattibilità e dei requisiti, sia per nuovi insediamenti che per interventi di rigenerazione e qualificazione urbana Sulla proposta pubblicheremo ulteriori scritti.


LA BOZZA DI PROPOSTA
DI NUOVA LEGGE REGIONALE
PRIMECONSIDERAZIONI
L’assessore Donini conclude le sue presentazioni affermandola necessità di grande celerità nel procedimento di esame a approvazione dellanuova legge regionale 20/2000, per la quale esisterebbero in ambito nazionalevaste aspettative. Vorrebbe sottoporre la proposta alla giunta regionale entrol’anno, o nelle prime settimane del prossimo, comprimendo la presentazione inun paio di settimane, e attendo osservazioni e contributi entro novembre.

L’entità del provvedimento, che azzera il sistema didisciplina del territorio e con esso buona parte dei poteri e delle competenzedei comuni, esige un confronto ampio e approfondito, assolutamente nonriducibile a qualche settimana. É indispensabile quindi che la consultazionesia condotta ora, prima dell’approvazione da parte della giunta, dedicando tempoed energie adeguate e grande attenzione a quanto ne risulterà. Va poiconsiderato che oltre al merito del provvedimento, ,anche la sua stessa stesuramerita censure gravi, soffrendo di gravi contraddizioni e lacune, tali daesigere comunque sostanziali rielaborazioni.

L’assessore Donini inizia invece le sue presentazioni con l’immaginedella bussola con i punti cardinali della sua proposta: ambiente, semplificazione, sviluppo economico, legalità. Vediamo comesono interpretati questi riferimenti nei dispositivi della nuova legge.

1. Le disposizioni proposte in materia di ambiente

La politica per l’ambiente coincide interamente con il vantatotaglio del consumo di suolo, che in realtà è più che dubbio. Secondo i dati presentati dall’assessore, gli insediamentiurbani occupano nel territorio regionale 2.280 chilometri quadrati, e i pianiurbanistici consentono un’ulteriore espansione di 250. Limitando a un massimodel 3% la crescita del territorio urbanizzato l’espansione ulteriore sarebbe,secondo l’assessore, contenuta in 70 Kmq.

Questo obiettivo è perseguito nella legge con duedisposizioni:
- riservando il consumo di suolo a opere pubbliche o diinteresse pubblico, a insediamenti strategici per l’attrattività e la competitività del territorio, nonché alleedificazioni residenziali necessarie perattivare interventi di rigenerazione di parti significative del territoriourbanizzato a prevalente destinazione residenziale e per realizzare interventidi edilizia residenziale sociale (articolo 5, commi 2 e 3);
- limitando l’ulteriore consumo di suolo al tre per cento delterritorio urbanizzato esistente (articolo 6, comma1).

La prima di queste disposizioni non è limitativa comeappare. In primo luogo è contraddetta dall’articolo 6, comma 5 che inveceesclude le opere pubbliche o di interesse pubblico e gli insediamentistrategici dal computo del consumo di suolo. E per legittimare il consumo disuolo per nuovi insediamenti residenziali appare sufficiente associarvi unaquota di edilizia residenziale sociale anche modesta, finanziata con lavalorizzazione della restante parte. Visto che opere pubbliche o interessepubblico e insediamenti strategici non sono da computarvisi, il contingente diterritorio consumabile è quindi da intendersi essenzialmente destinato aresidenza e a insediamenti produttivi nonstrategici.

La seconda disposizione, che stabilisce il limite del 3% all’ulterioreconsumo di suolo, non è affatto in sé restrittivo: nel territorio provincialedi Modena i centri abitati perimetrati dall’ISTAT hanno un’estensionecomplessiva di oltre 23mila ettari. Il 3% corrisponde a 630 ettari (6,3 Kmq),sufficienti ad accogliere almeno 70mila abitanti, oppure circa 40mila addetti.La sola città di Modena potrebbe crescere più o meno altri 160 ettari, ovveroottomila abitazioni per ventimila abitanti.
A questo incremento del 3% è inoltre da aggiungersi unabuona parte delle espansioni urbanistiche già disposte dai piani vigenti, chel’assessore quantifica in 250 Kmq. Entro tre anni dall’approvazione della leggeregionale i proprietari possono stipulare con i comuni accordi operativi per la loro utilizzazione edificatoria, anchederogando alle norme della legge regionale che li subordinano al POC (pianooperativo comunale). A norma dell’articolo 6, comma 6 tali aree non sonocomputate nel limite del consumo di suolo: sono così tutelati i sedicenti diritti acquisiti, per i quali l’ANCE rivendica però almeno cinque anni di tempo per provvederne il salvataggio.

Mancano i dati per una valutazione quantitativa della quotadi questi 250 Kmq che risulterà sottratta al limite di consumo di suolo.Considerando tuttavia che una parte consistente è sicuramente già disciplinatada POC o PUA (piani urbanistici attuativi), e che è da attendersi una corsa amettere al sicuro quella che ancora non lo è, non sarebbe sorprendente che i 70Kmq di nuovi insediamenti fattibili nel limite del 3% se ne aggiungessero piùche altrettanti, fatti passare per dirittiacquisiti.

Nelle pieghe della proposta di legge si possono poi scoprirealtre disposizioni che concorrono ad estendere ulteriormente la quantità disuolo consumabile. Ad esempio:
- nella definizione del territoriourbanizzato su cui calcolare il contingente di suolo consumabile (il 3%) rientranoanche i parchi e servizi pubblici esistenti: quelli di nuova realizzazione nonconcorrono però al computo del consumo di suolo; la possibilità di soddisfaregli standard a distanza consentirebbedi delocalizzare le quote di verde di un nuovo insediamento, sottraendole alcomputo del consumo di suolo essere assegnate altrove, e tendenzialmentedestinare l’intero 3% alla sola edificazione e urbanizzazione primaria;
- sono classificati come territoriourbanizzato anche i pezzi di campagna sui quali vigono pianiparticolareggiati o sono convenzionate le opere di urbanizzazione;quindi non sono considerati consumo di suolo, ma anzi concorrono ad accrescerela base su cui è calcolato l’incremento ammissibile del 3%;
- le opere pubbliche, l’ampliamento di stabilimenti sucontiguo territorio agricolo, i nuovi insediamenti produttivi di interessestrategico regionale (come la Philip Morris di Crespellano), le infrastrutturenel territorio rurale (anche la Cispadana) non sono computate come consumo disuolo.
Tenendo conto di tutte le eccezioni e garbugli dellaproposta di legge, non sorprenderebbe affatto se l’effettivo consumo di suoloche ammette (in termini di terreno attualmente agricolo assegnato ad altrefunzioni) risultasse doppio o triplo del proclamato 3%.
In realtà una limitazione seria del consumo di suolo non puòvenire da quantificazioni di legge, apparentemente facili ma difficilissime datradurre in pratica, ma solo da una pianificazione territorialeconsapevole e capace.

Sempre in materia di ambiente la bozza di legge regionale proponeperò con l’articolo 9 anche un’innovazione altamente preoccupante (omessa dall’assessorenella sua presentazione) tesa a differenziare gli standard di verde e servizi da realizzare nel territorio urbanizzatorispetto a quanto richiesto per i nuovi insediamenti, allo scopo di promuoveregli interventi di riuso e rigenerazione urbana.

Gli standard della attuale legge regionale vengono mantenuti solo per le nuove urbanizzazioni, mentre nel territoriourbanizzato gli interventi diristrutturazione urbanistica e di addensamento e sostituzione urbana possonocomportare la cessione al Comune di aree per dotazioni territoriali anche al disotto della quantità minima prevista dal DM 1444/1968, e addirittura dimonetizzarla. Perquesti interventi è addirittura ammessa la derogabilità delle dotazioni diparcheggi, a fronte dell’impegnodell’operatore e dei suoi aventi causa a rispettare le limitazioni al possessoe all’uso di autovetture.

Considerando che in generale sono solo proprio gli interventi di ristrutturazione urbanistica edi sostituzione urbana su complessi edilizi dismessi, pubblici e privati, aconsentire la possibilità di adeguamenti delle dotazioni di verde e servizi afavore del contesto urbano, queste disposizioni favoriscono politiche urbaneopposte a quelle indispensabili a conseguire effettivi guadagni di qualità nelterritorio urbanizzato, in particolare quanto a dotazioni di verde,determinanti sotto il profilo ambientale.

2. Le disposizioni proposte in materia di semplificazione

La bozza di legge propone di porre in atto due ordini principalidi sedicenti semplificazioni:
- nei confronti della disciplina urbanistica, sopprimendo lasua funzione essenziale, ovvero la regolazione preventiva delle trasformazioniintensive della città;
- nei confronti del sistema di disciplina del territorio,soppiantandolo con un altro radicalmente diverso.
Sono poi proposte altre misure, fra cui un allargamentodell’impiego della SCIA a ulteriori tipi di intervento.
2.1 La semplificazione della disciplina del territorio
Questa semplificazioneconsiste semplicemente nell’abolizione della disciplina urbanistica, intesacome determinazione preventiva delle trasformazioni ammissibili sul territorionel segno dell’interesse pubblico, fondata sull’accertamento sistematico dellaloro sostenibilità e sul preordinamento delle condizioni di fattibilità e deirequisiti, sia per nuovi insediamenti che per interventi di rigenerazione equalificazione urbana.

Per le trasformazioni intensive nel territorio urbanizzato(che può includere grandi complessi dismessi, e aree inedificate anche ampie) l’articolo32 comma 4 vieta addirittura la possibilità stessa di disciplina urbanisticagenerale: il PUG non può stabilire lacapacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzatoné dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili.É lasciata la possibilità di regolare gli interventi minori diffusi sulpatrimonio edilizio esistente.

Per le nuove urbanizzazioni la sola disciplina quantitativa appareconsistere nel limite del 3% alla loro estensione complessiva.

In luogo della disciplina urbanistica subentra una Strategia per la qualità urbana ed ecologicoambientale cui, sul riferimento di obiettivi molto generali, spettaindicare i criteri e le condizioni generaliche, specificando le politiche urbane e territoriali perseguite dal piano,costituiscono il quadro di riferimento per gli accordi operativi. E che insostanza sono circoscritti alla formulazione di obiettivi generali in ordine ai sistemi dei servizi pubblici edelle infrastrutture, e a nebulose istanze di riduzione della pressione del sistema insediativo sull’ambientenaturale, di adattamento aicambiamenti climatici e di miglioramentodella salubrità dell’ambiente urbano.

La Strategia può anchecomprendere indicazioni sull’assettospaziale di massima degli interventi e individuare i relativi fabbisogni specifici di servizi einfrastrutture, ma secondo l’articolo 33, comma 2, nel queste indicazioni di massima possono essere modificate in sede di accordooperativo senza che ciò costituisca variante al PUG.

In sostanza ogni determinazione quantitativa e qualitativasu nuovi insediamenti o rigenerazioni urbane è assegnata a valutazioni dasvolgersi caso per caso su proposte avanzate per esclusiva e arbitraria iniziativaprivata, in tempi ristretti e perentori. É preclusa la funzione essenzialedella disciplina urbanistica, cioè la valutazione sistematica preventiva dellasostenibilità e compatibilità delle trasformazioni del territorio,necessariamente da compiersi nell’ambito della pianificazione generale.

É da aggiungere che le valutazioni caso per caso sonoperaltro circoscritte dall’articolo 37 comma 6 alla solo verifica della loroconformità al PUG, comunque certa a priori, considerata la proibizione didisposizioni vincolanti in questo strumento.

In conclusione il comune risulta totalmente subordinatoall’iniziativa privata, e perde ogni potere negoziale nei confronti deiprivati, non avendo controllo sulla graduazione temporale degli interventi nésulla capacità insediativa da assegnare, né sulla loro conformazione.

Altre semplificazioni sonoproposte con la differenziazione e la derogabilità degli standard, già quiconsiderate al punto 1, e con la generale derogabilità nel territoriourbanizzato dei limiti di distanza, altezza, densità disposti dal DM 1444/1968e dalle discipline comunali delle libere visuali, anche in caso di demolizionee costruzione o ampliamento. Anche nel caso di interventi più radicali sarebbecosì interdetta la possibilità di miglioramenti della qualità abitativa efunzionale dell’edificato.

2.2 La semplificazionedel sistema di disciplina del territorio

Tutti i vigenti strumenti urbanistici vengono soppressi.P SC (piano strutturale comunale), RUE (regolamentourbanistico edilizio) e POC (piano operativo comunale) sono sostituiti dal PUG(piano urbanistico generale). Ai piani urbanistici attuativi subentra il solo accordo operativo,che tutti li sostituisce.

La differenziazione fra PSC e RUE aveva il compito primariodi discriminare le discipline da decidere attraverso l’interazione di unapluralità di soggetti portatori di interessi pubblici, da codificarsi stabilmentenel PSC, e quelle da rimettersi all’autonomia decisionale dei comuni definiteda RUE e POC.

L’unificazione nel PUG sopprime la possibilità di netteattribuzioni dell’autonomia comunale, e riconduce ad un unico procedimento diapprovazione. Qualsiasi modificazione o aggiornamento del PUG è soggetto allavalutazione del comitato urbanistico di area vasta (la Provincia), aprescindere dalla sua importanza ed entità, anche quando si tratti dideterminazioni che oggi dovrebbero spettare ad autonome determinazioni deicomuni, se coerenti al PSC. Questo contraddice le esigenze di tempestività eagilità indispensabili per cogliere le opportunità e rispondere alle istanzeche nel corso del tempo emergono nel territorio urbanizzato e nel territoriorurale.

La sostituzione dei piani urbanistici attuativi con l’istituitodell’accordo operativo esautora icomuni dalla capacità di iniziativa per modellare e dirigere qualsiasitrasformazione urbanistica. Nella proposta di legge il diritto di iniziativa èinfatti attribuito in via esclusiva aiprivati proprietari, cui soli spetterebbe la funzione di elaborare e presentareprogetti urbanistici. Al comune rimane solo da verificarne la scontata conformitàa una pianificazione priva di disposizioni cogenti, e negoziare il concorso dei privati alle dotazioni, infrastrutture eservizi correlati all’intervento, nel termine perentorio di sessanta giorni.

Se i privati non avanzano proposte il comune non può avviarealcuna iniziativa, né formare propri piani urbanistici attuativi, nemmeno alloscopo di preservare dalla decadenza quinquennale i vincoli espropriativi;nemmeno può utilizzare i poteri disposti dalla legge urbanistica nazionale per coordinareo imporre l’attuazione di piani particolareggiati.

2.3 Considerazioniconclusive

Concludendo, la proposta semplificazione della disciplinadel territorio consiste sostanzialmente nella sua abolizione. Allapianificazione è addirittura vietato accertarepreventivamente la sostenibilità dei nuovi insediamenti e delleintensificazioni del tessuto urbano, e disporre di conseguenza una disciplinacogente.

Destinazioni residenziali, produttive, per terziario odistribuzione commerciale sul territorio, e il dimensionamento degliinsediamenti sono rimessi all’iniziativa propositiva dei privati, la cuiinerzia non può essere al caso supplita, nonostante le norme nazionali loconsentano: tutto è subordinato al raggiungimento di accordi con le proprietàprivate proponenti, in tempi e a condizioni proibitivi per i comuni. Lacasualità di questo processo preclude in particolare l’opportunità, anzi ildovere, di utilizzare i nuovi insediamenti che concluderanno la fase storicadell’urbanizzazione per condurre a buon compimento la forma delle città esoprattutto conferire qualità ai margini urbani e alla loro relazione con ilpaesaggio agrario.

Per quanto riguarda l’asserita semplificazione deglistrumenti urbanistici è facile prevedere effetti di segno contrario fortementepreoccupanti.

In primo luogo tutto il sistema di pianificazioneterritoriale, sia regionale che provinciale, fa riferimento all’ordinamento eai contenuti degli strumenti comunali disposti dalla legge regionale 20/2000:la loro abrogazione, e i sostanziali cambiamenti nei compiti e contenuti dellapianificazione comunale sconvolgono sia i riferimenti della pianificazionesovraordinata alle funzioni di PSC, RUE e POC, sia il concetto stesso diconformità dei PUG ai piani territoriali. Le medesime considerazioni valgonoper piani e discipline di settore, sia regionali che provinciali, conconseguenti inestricabili complicazioni e confusione.

L’integrazione nel complessivo sistema di governo delterritorio del modello e dei compiti della pianificazione urbanistica proposti esigerebbela sostanziale rielaborazione dei vigenti piani territoriali e discipline disettore appoggiate alla strumentazione urbanistica comunale.
In secondo luogo tutte le modificazioni alla disciplinaurbanistica comunale vengono ricondotte ai due procedimenti di formazione ovariazione del PUG, e di formazione degli accordioperativi (non è contemplato il caso di loro varianti).

Quindi anche le varianti minori al PUG, attualmentesostanzialmente rimesse all’autonoma competenza comunale, risultano soggette almedesimo procedimento Anche la sostituzione di tutti i piani urbanisticiattuativi con il solo istituto dell’accordooperativo, oltre a esautorare i comuni, pone preoccupanti interrogativi, adesempio sulle modalità di modificazione o di rinnovo dei pianiparticolareggiati in corso di attuazione o a scadenza.

3. Le disposizioni proposte in materia di sviluppo economico

Le disposizioni specifiche consistono essenzialmente nellaesenzione dalle limitazioni sul consumo di suolo di molta parte delle esigenzedi ampliamento e sviluppo di impianti produttivi e di nuovi insediamentiproduttivi strategici. Molto appareatteso tuttavia dalla soppressione di larga parte della disciplina urbanistica.
Vale la pena di ricordare che i vertici dello sviluppoeconomico in questa regione sono stati toccati tra gli anni ’70 e ’80 incontesto istituzionale e in un ordinamento che attribuivano massima importanzaalla disciplina del territorio e al pieno utilizzo dei poteri istituzionali deicomuni per governarne e anche attuarne le trasformazioni richieste dalleaccelerate dinamiche sociali ed economiche.

4. Le disposizioni proposte in materia di legalità

Consistono in obblighi di pubblicità e trasparenza suglieffetti economici prodotti dalla conclusione di accordi operativi, in terminidi valorizzazioni e di loro beneficiari.

Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2016 (p.d.)

Ci sono i terremoti, i morti, il dolore dei parenti, la rabbia e poi c’è la giostra delle scuse, sulla quale salgono tutti, politici nazionali e amministratori locali. Il fastidioso refrain è: “I terremoti sono imprevedibili”. Basta questo per scaricarsi di responsabilità evidenti. Dunque, discorso chiuso in attesa della prossima emergenza. Non la pensano così i giudici della Cassazione e non la pensa così l’ex pm Raffaele Guariniello che in un recente ebook dal titolo Terremoti: obblighi e responsabilità, ha messo insieme alcune pronunce della Suprema corte relative a processi sui terremoti, da San Giuliano di Puglia (2002) a quello de L'Aquila (2009). “Il tema delle responsabilità penali – dice al Fatto Guariniello, già Coordinatore del Gruppo Sicurezza del lavoro e Tutela del consumatore alla Procura di Torino – deve essere ben presente. I processi sono stati fatti e sono arrivati alla fine”. Insomma non basta più dire, come ha fatto ieri il premier Renzi, che “quello di domenica mattina è stato un evento straordinario”. Ecco, allora, il facile tema dell’imprevisto e del destino.

La Cassazione sul sisma del Molise, ad esempio, è chiarissima. Per i supremi giudici s’incappa nell’errore “prospettico di scambiare la imprevedibilità delle caratteristiche concrete di uno tra i fattori causali individuati, con la imprevedibilità dell’evento”.

Per parlare ancora più chiaro: “I terremoti di massima intensità sono eventi che, anche ove si propongano con scadenze che eccedono una memoria rapportata alla durata di molte generazioni umane, rientrano nelle normali vicende del suolo, e, certamente, non possono essere qualificati eccezionali o imprevedibili quando si verifichino in zone già qualificate a elevato rischio sismico o in zone formalmente qualificate come sismiche (…). Il giudizio di prevedibilità, in relazione al suo carattere predittivo trova certezza nella previsione di una possibilità innegabile sul piano logico”. Poche parole per spazzare via le scuse. “Il passaggio è decisivo – spiega Guariniello –, in questo modo le responsabilità penali vengono delineate meglio”. Di più: “Se il sisma è prevedibile, è anche prevenibile”.

Un tema, che corre in filigrana per le 35 pagine del testo edito da Wolters Kulwer e disponibile anche online. “Spero – dice Guariniello – che questa sintonia politica sui fondi per la ricostruzione possa continuare anche per la prevenzione”. Il magistrato insiste: “Spesso si parla di rischio zero che non esiste, credo che questa sia una bella scusa solo per non fare prevenzione”. E poi ci sono i “professionisti della sicurezza sismica”. Gli ingegneri, ad esempio e anche i direttori dei lavori. Il caso in questione riguarda il terremoto che colpì Nocera inferiore nel 1980. Dieci anni dopo, la Cassazione esamina un progettista-costruttore condannato “per non avere (come doveva), nel momento in cui superficialmente progettò, ovvero, incautamente e sbadatamente controllò (o non controllò) l’esecuzione dell’opera, tenuto conto della possibilità del verificarsi di un sisma (…). L’ingegnere doveva prevedere e poteva agevolmente farlo”. Nota lo stesso Guariniello: “Come si vede le condanne ci sono state. E oggi, queste linee della Cassazione potranno essere utilizzate nei prossimi processi, penso a quello dell’Emilia o a quelli che arriveranno dopo il terremoto del 24 agosto scorso”.

Per capire, il filo che va tirato è sempre quello della “prevedibilità”. Non solo tecnici, ma anche politici. La Cassazione si è occupata pure di loro. Nello specifico dell’ex sindaco di San Giuliano. Il ragionamento generale è interessante: “Ogni sindaco” deve “conoscere gli obblighi minimi connessi all’esercizio del suo incarico elettivo”. Inoltre vengono posti in rilievo “i comuni oneri di diligenza e prudenza che sono richiesti non a un sindaco in ragione della sua carica, ma che sono richiesti rispetto a qualsiasi condotta umana”. Non mancano, poi, i cortocircuiti. Succede per il crollo del Convitto nazionale de L’Aquila.

Il tema degli istituti scolastici è, per Guariniello, decisivo. “Molte scuole – scrive il magistrato – sono insicure, ma continuano a restare aperte. Perché i dirigenti scolastici e i dirigenti degli enti proprietari si assumono la responsabilità di non chiuderle. Abbiamo esaminato il caso del convitto nazionale de L’Aquila. La fatiscenza era nota da anni. Né la provincia, né la scuola avevano le risorse economiche. Chi è stato condannato per omicidio e per lesione personale colposa? Il dirigente scolastico del convitto e il dirigente del settore edilizia e pubblica istruzione della provincia”. Quale la loro colpa? “Quella – scrive la Cassazione – di non aver segnalato la necessità di inibire l’uso dell’immobile per ragioni di sicurezza”. Tradotto: non hanno chiuso la scuola. Cosa succederebbe se questi dirigenti decidessero di non prendersi più la responsabilità e chiudere i plessi insicuri? Il filo è sempre lo stesso: prevenzione.

Il Fatto Quotidiano, 29 settembre 2016 (p.d)

Di certo il caso e la forza della natura hanno un peso in molti eventi della vita, specie quando un terremoto sporta via 300 vite e una decina tra paesi e frazioni. Il caso e la natura, però, interagiscono sempre col lavoro dell’uomo e le leggi che lo regolano. Ecco, nel caso di Lazio e Marche, le due regioni piùcolpite dal sisma del 24 agosto, le leggi in materia di costruzioni anti-sismiche sono, più che malfatte, palesemente incostituzionali e hanno contribuito a mettere a rischio il diritto di ogni cittadino alla tutela della sua vita e della sua salute.
Andiamo con ordine. Negli ultimi dieci anni la Corte costituzionale ha stabilito più volte – almeno cinque, l’ultima nel 2013 – che la materia degli interventi edilizi in zone a rischio sismico compete allo Stato, che ne deve delineare i principi generali. In particolare, dice la Consulta, la ratio del Testo unico del 2001 – che ha aggiornato le norme degli anni 70 – “è palesemente orientato a esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico” visto che la “tutela dell’incolumità pubblico” è tema di protezione civile e dunque statale. Insomma, il Testo unico del 2001 vale per tutti: eventuali leggi regionali che se ne discostino sono incostituzionali, come la stessa Corte ha certificato in particolare – quanto a quel che ci interessa – per quella della Regione Toscana, bocciata nell’ormai lontano 2006.
E cosa prevede, tra le altre cose, la legge nazionale? Questo: “Nelle località sismiche (…) non si possono iniziare i lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione”, che si aggiunge al titolo a costruire rilasciato dagli uffici comunali secondo il criterio della “doppia conformità” benedetto dalla stessa Consulta. E che succede se qualcuno costruisce senza la “preventiva autorizzazione”? Questo: i pubblici ufficiali “sono tenuti ad accertare che chiunque inizi costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni sia in possesso dell’autorizzazione” e se non ce l’ha devono segnalarlo con apposito verbale all’ufficio tecnico della regione e alla magistratura. Questa particolare attenzione serve – per non fare che un esempio – a evitare che l'aggiunta di un piano a un edificio realizzata grazie ai vari “Piani Casa” dei tempi di Berlusconi poi collassi sulla struttura alla prima scossa sismica di rilievo. Buonsenso.
E qui arriviamo alle leggi regionali di Marche e Lazio: la prima risale agli anni 80, la seconda invece è stata modificata giusto 4 anni fa, nel 2012, ai tempi del Piano Casa dell’ex presidente Renata Polverini. Entrambe, in ogni caso, mantengono lo stesso profilo di incostituzionalità bocciato per la legge regionale toscana nel 2006 ed ereditato dalle norme degli anni 70. In sostanza all’articolo 2 entrambe le leggi regionali prevedono la necessità dell’autorizzazione preventiva, mentre nel successivo articolo 3 introducono una deroga pressoché totale: di fatto per iniziare a costruire basta presentare progetto e allegati in Comune e ricevere poi “l’attestazione di avvenuto deposito” della domanda. A quel punto spetta alla P. A. fare i controlli. Ma mica per tutti: i controlli sono a campione. In sostanza nelle Marche l’ufficio regionale è tenuto a esaminare solo il 10% delle richieste arrivate nel mese precedente. Nel Lazio, invece, il campione è del 15% nelle zone ad alto rischio sismico e del 5% in quelle a rischio medio-basso. Insomma, un progetto malfatto o un intervento che non andava realizzato in zona sismica ha tra l’85 e il 95% di possibilità di sfuggire agli occhi dei controllori. Nelle Marche, che aveva già avuto anche il terremoto del 1997, si provò a cambiare senza successo la legge nel 2011: agli atti resta una lettera di contrarietà dell’ordine degli ingegneri (troppa burocrazia e poi c’è “la crisi del settore edile”).
Come in ogni storia anche questa ha un passato e un presente. Se è difficile a questo punto rintracciare irregolarità almeno formali per il passato, è bizzarro che ad Amatrice, Accumoli o Arquata adesso si comincerà a ricostruire sulla base di norme e procedure già bocciate dalla Corte costituzionale almeno cinque volte. È anche per questo che un’interrogazione a Matteo Renzi a prima firma Patrizia Terzoni (M5S) chiede al governo di adottare in fretta “i provvedimenti necessari, anche normativi, per garantire l’uniforme applicazione sul territorio nazionale” delle norme edilizie in zona sismica. L’idea è che le leggi non debbano dare una mano a caso e natura.

«Nel fascicolo del fabbricato sono riportati dati e informazioni principali su progettazione, struttura e diverse componenti di un immobile. Chi ha provato a introdurlo non ha avuto fortuna, ma ora ci prova Milano. E forse è il momento che il governo proponga uno schema valido per tutto il paese». lavoce.info, 20 settembre 2016 (c.m.c.)

Cos’è il fascicolo del fabbricato

Con i crolli e i morti di Amatrice, e degli altri diciassette comuni, si è ripreso a discutere del fascicolo del fabbricato. Cerchiamo di capire cos’è e perché non è stato finora introdotto.

Il fascicolo del fabbricato è un documento nel quale sono riportati i dati e le informazioni principali relative alla progettazione, alla struttura, alle diverse componenti statiche, funzionali e impiantistiche di un immobile. Serve in sostanza a far conoscere meglio come è fatta una scuola, una palestra, una casa o un capannone.

Vi possono essere riportati i dati amministrativi, relativi per esempio al permesso di costruire, ma anche informazioni più strettamente tecniche. La sua lettura potrebbe consentire a chi acquista una casa, anche in un condominio, di sapere, per esempio se la struttura è in muratura portante o in cemento armato; l’esito delle prove di compressione della malta cementizia con la quale sono stati riempiti i pilastri e fatti i solai; il diametro dei tondini di ferro usati per armare quei pilastri; dove passano i tubi dell’acqua, del gas, del riscaldamento e i fili dell’elettricità; che materiali sono stati usati; qual è la trasmittenza termica dei vetri e il consumo di energia necessario per riscaldare e rinfrescare l’immobile.

Il libretto non garantisce, ovviamente, che le case non crollino se la terra traballa. È un po’ come il libretto di istruzione dell’automobile: averlo non evita di sbattere contro un muro, ma spiega di che manutenzione ha bisogno la macchina, dove mettere l’olio o l’acqua per il tergicristallo e come cambiare una ruota.

Il fascicolo del fabbricato può risultare utile non solo nelle emergenze, ma anche nell’ordinaria gestione dell’immobile e quando vi è necessità di opere di manutenzione e ristrutturazione oppure di riparare qualche guasto.

Le obiezioni

Senza alcuna fortuna, hanno provato a introdurlo alcune regioni. Le loro norme non sono mai entrate in vigore perché sono state annullate dal Tar oppure perché sono state abrogate delle stesse regioni per non affrontare un giudizio di legittimità costituzionale a seguito dell’impugnazione da parte del governo.

Da ultimo è successo, nel 2014, alla legge della Regione Puglia, contro la quale ricorse la presidenza del Consiglio dei ministri. Secondo il governo, la normativa regionale avrebbe aggravato il procedimento per il rilascio del certificato di agibilità per le nuove costruzioni, reso più complessi i procedimenti amministrativi in contrasto con l’esigenza di semplificazione.

Inoltre con il libretto si «impongono ai privati oneri non necessari e comunque sproporzionati ed eccessivamente gravosi (che comportano anche a carico dei proprietari di più modeste condizioni economiche la necessità di ricorrere a una pluralità di professionisti) – si pongono altresì in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, sotto il profilo delle disparità di trattamento e del principio di ragionevolezza, e con l’articolo 42, secondo comma, Costituzione, in quanto impongono limiti alla proprietà privata, che non appaiono necessari ad assicurarne la funzione sociale».

Al di là delle argomentazioni giuridiche, le obiezioni mosse alle leggi regionali, anche dalle associazioni della proprietà immobiliare, riguardano la previsione della necessità del libretto per il patrimonio esistente e la facoltà attribuita ai comuni di renderlo obbligatorio, nei casi in cui ciò non fosse stato già previsto per legge.

La scelta di Milano

I proprietari degli immobili esistenti temono che, oltre a pagare ingegneri e architetti per la redazione del fascicolo, possano essere anche obbligati a realizzare gli interventi edilizi che dovessero risultare necessari dalla ricognizione fatta dai tecnici: non tutti hanno i soldi necessari.
Forse anche per fugare questi timori, il comune di Milano ha previsto l’obbligo del fascicolo solo per gli edifici di nuova costruzione e per quelli oggetto di sostituzione o ristrutturazione edilizia e ampliamento. Contro la norma è stato proposto ricorso al Tar da un’associazione della proprietà immobiliare.

Una sua conferma potrebbe fare da apripista ad altri sindaci, con il rischio di avere migliaia di modelli di fascicolo, salvo poi, tra qualche anno, caricarsi di una fatica di Sisifo per creare un modello unico, come sta succedendo ora per i regolamenti edilizi comunali. Per evitarlo sarebbe meglio che il governo, anche nell’ottica della semplificazione, proponesse uno schema unificato di libretto del fabbricato per le nuove costruzioni.

Un’ipotesi limitata come questa non dovrebbe dispiacere neanche alle imprese di costruzione. In mancanza di un’iniziativa governativa, le loro stesse associazioni di categoria potrebbero promuovere volontariamente l’introduzione del libretto, che diverrebbe un fattore di competitività, perché aiuta a rendere trasparente il livello qualitativo della costruzione.

Come si incentiva l'accoglienza turistica? In deroga ai piani, ovviamente. Così prevede una legge della Basilicata che consentirà a chiunque di aprire un albergo in centro storico, con e senza opere. La Gazzetta del Mezzogiorno, 24 aprile 2016 (m.b.)

Nessun vincolo. Si può mutare la destinazione d’uso di qualsiasi immobile legittimamente edificato. Che sia connesso o meno a alla realizzazione di opere edilizie, qualunque edificio del centro storico può essere trasformato in una struttura turistico-alberghiera. Lo stabilisce una legge della Regione. Spinto ai suoi limiti più estremi, è piuttosto il trionfo della deregulation. In inglese si dice così e da noi si ripete pari pari, forse anche per non farsi capire da tutti. Del resto, la traduzione in italiano non è il massimo. Si parla di deregolazione, oppure di deregolamentazione per indicare un processo vasto. Comporta l’allentamento dei controlli e delle restrizioni in economia come in urbanistica, con l’obiettivo di incoraggiare l’iniziativa, specialmente quella privata, confidando in una sorta di autoregolamentazione interna al sistema che promuove queste pratiche. Il dibattito, in realtà, va avanti da decenni ormai, perché spesso i mercati liberi da controlli hanno finito per rendere subalterno lo stato di diritto al mercato. Poche regole, significa anche far west. Con tanti saluti alla ricchezza del Bel Paese, faro di civiltà e attrattore da secoli dei visitatori del mondo intero, per ragioni storiche ben precise.

Basterebbe citare la prescrizione del poliedrico genio del Rinascimento italiano dal quale tutta la cultura urbanistica occidentale ha tratto nutrimento. Si trova nel De re aedificatoria, opera alla quale Leon Battista Alberti lavorò fino alla morte, nel 1472. Un trattato in cui, già nel Prologo, si sottolinea decisamente il legame tra attività progettuali, costruttive e convivenza civile: "a riunire e mantenere insieme gli esseri umani". Da allora, la ricerca di una finalità sociale e di un giustificazione morale è entrata nel centro dello statuto e della riflessione urbanistica in tutto il mondo.

Quanto però si coniuga a questa esigenza di convivenza civile la legge regionale n. 5 del 4 marzo 2016 - Collegato alla legge di stabilità regionale 2016, non è chiaro. Anzi, è possibile mutare giudizio leggendo attentamente i tre comma dell’articolo 39 della legge. Si occupa di «Norme in funzione di Matera Capitale della cultura 2019. Riuso e recupero del patrimonio edilizio esistente per stimolare l'accoglienza turistica». Ecco, nel dettaglio cosa dice: «1. La Regione, a seguito della designazione di Matera Capitale Europea della Cultura 2019, al fine di stimolare l'accoglienza turistica promuove iniziative di riuso e recupero del patrimonio edilizio esistente. 2. Per le finalità di cui al comma precedente, nei centri storici dei comuni del territorio regionale, è consentito il mutamento di destinazione d'uso di immobili legittimamente edificati, connesso o meno alla realizzazione di opere edilizie, da residenziale, direzionale o commerciale a turistico- alberghiera. 3. I comuni di cui al comma 2, entro il termine perentorio di 120 giorni dall'entrata in vigore dalla presente legge possono, con motivata deliberazione, individuare gli immobili per i quali le disposizioni di cui al presente articolo non trovano applicazione»

Bisogna incrociare le dita e confidare sull’espressione «motivata deliberazione». Gli appetiti, indotti da una falsa rappresentazione della città, purtroppo non mancano. Trascorsi 120 giorni dall'entrata in vigore della legge, quindi, sul patrimonio edilizio esistente nel centro storico si potrà realizzare qualsiasi cosa per l'accoglienza turistica, e non solo a Matera, città patrimonio mondiale dell’Unesco. Ecco perché gli anglofili parlano di deregulation, mentre gli italiani - una minoranza sempre più esigua in verità - continuano a dire, senza esagerare, che spesso dietro quel termine si nascondono barbarie contro la storia e la civiltà. A giusta ragione.

Primato del Consiglio regionale della Campania nella gara per il più coerente distruttore del territorio nelle terre più fertili del mondo comandano i peggiori cementificatori. Poi si vuole affidare alle regioni la lotta al consumo di suolo...
Non conosce pause il processo di peggioramento del “piano casa” in Campania. Con la legge regionale n. 6 del 5 aprile 2016 “Prime misure per la razionalizzazione della spesa e il rilancio dell’economia campana – Legge collegata alla legge regionale di stabilità per l’anno 2016” il consiglio regionale ha approvato le proposte della giunta De Luca in un numero cospicue di materie, fra cui, appunto, quella disciplinata, per dir così, dal “piano casa”.

L'Amministrazione regionale in carica aveva già deciso, a cavallo dello scorso Capodanno, di prorogare quel regime derogatorio alla pianificazione urbanistica ordinaria nella forma fino ad allora determinata dalla serie di modifiche apportate nel tempo all'originario testo del 2009, e da ultime da quelle della giunta di centro-destra presieduta da Caldoro.

Ora la maggioranza “detta di centro-sinistra”, per dirla con Crozza, ha voluto lasciare nell'incessante sequenza una propria impronta, riuscendo nell'impresa di scavalcare la maggioranza precedente nella rincorsa a piegare il governo del territorio agli interessi speculativi.

Due, in particolare, sono le modifiche significative. La prima concerne le modifiche di destinazione nelle zone agricole. Con le Linee guida del paesaggio introdotte anni fa nel piano territoriale regionale, poi approvato con la legge regionale 13/2008, si era riusciti finalmente ad affermare la riserva fondamentale del territori agricoli alle attività coltivatrici e agli interventi edificatori con esse strettamente connessi, sicché per consentirli occorreva che la loro necessità venisse documentata da un piano di sviluppo aziendale asseverato da un agronomo iscritto allo specifico albo professionale.

Come conseguenza sia pure tardiva di tale importante conquista, era avvenuto che la maggioranza a sostegno di Caldoro nel 2014 avesse corretto un suo precedente emendamento al “piano casa” : nell'art. 6 bis introdotto nel 2011 nella LRC 19/2009, venivano infatti limitati «i mutamenti di destinazione d'uso di immobili» nelle zone agricole (per intenderci, da stalle o depositi ad abitazioni) a quelli connessi con l' «uso residenziale del nucleo familiare dell'imprenditore agricolo». Ora, nel 2016, il centro-sinistra sopprime tale limitazione consentendo i mutamenti di destinazione d'uso in deroga ai piani urbanistici per l' «uso residenziale del nucleo familiare del proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederli» ai sensi del DPR 380/2001: si apre in tal modo un varco preoccupante per tornare a perpetuare l'aberrazione delle villette o dei condomini residenziali in campagna, che hanno distrutto in Campania vaste estensioni verdi trasformandole, e non solo nelle pianure conurbate, in tristissime periferie rur-urbane.

La seconda modifica rilevante concerne il “recupero” dei complessi produttivi dismessi. Con l'art. 7 bis il centro-destra nel 2014 aveva consentito, in deroga ai piani urbanistici, di demolire e ricostruire, con incrementi fino al 20 % della volumetria esistente, i complessi ex industriali in applicazione del decreto legge 70/2011, convertito in legge n. 106/2011. Tali interventi «sono autorizzabili anche con eventuale possibilità di delocalizzazione delle nuove strutture edilizie se tale forma di intervento sia prevista nella programmazione urbanistica locale, sia ritenuta utile ed opportuna dal comune, e vi sia la disponibilità dell’area alternativa rispetto a quella dove sussistono le volumetrie preesistenti oggetto dell’intervento». Ma, veniva precisato nel 2014, «sempre con destinazione ad attività produttive». Ora, il centro-sinistra consente invece qualunque destinazione, sopprimendo il vincolo produttivo.

Dato il carattere derogatorio della disposizione e la vaghezza delle formulazioni circa la previsione nella programmazione locale, il giudizio di utilità ed opportunità da parte del comune e la disponibilità di un'area alternativa, è evidente la portata eversiva della modifica ultima, che inevitabilmente si tradurrà in ulteriori aggressioni edilizie ai territori agricoli, in barba ad ogni sforzo per contenere il consumo di suolo.

Indovinate chi, a tanti mesi dal Capodanno, continua a brindare ?

Ci siamo abituati: le "buone intenzioni" delle leggi sono fumo per nascondere misfatti. Cosi in questa legge della Liguria analizzata e denunciata. C'è un modo per resistere: i comuni, se vogliono, possono ancora salvare quel po' di Liguria che sopravvive. Questa denuncia è anche un appello.

La legge regionale 49/2009, nota come “Piano casa”, modificata con L.R. del 22 dicembre 2015 n. 22 in vigore dal 7 gennaio 2016, già dal titolo [1] denota quello che è: un pasticcio di avanzi riscaldati e in parte già avariati. Nata nel 2009 da una intesa [2] ipocrita e incostituzionale, possedeva il solo merito di avere una scadenza. Dopo anni di proroghe e di modifiche, nonostante non abbia sortito il successo promesso e creato solo ulteriori brutture, si ripropone peggiorata e soprattutto perenne.

L'attuale Giunta regionale, seppure mossa da obiettivi condivisibili (Lavoro, riqualificazione del patrimonio edilizio, e tutela del territorio dal rischio idrogeologico) pare non riesca ad esprimere nulla di nuovo e quindi debba riciclare, peggiorandoli, i provvedimenti fallimentari della precedente amministrazione, con l' evidente conseguenza che raggiungerà senza dubbio l'opposto dei nobili scopi esplicitati.

Né casa, né lavoro, né territorio tutelato.

Sappiamo già da tempo che il così detto piano casa non significava dare una casa a chi non ce l'ha. Per rimarcare con maggior coerenza tale impostazione, in questa versione della legge è stata eliminata completamente anche quella piccola quota di edilizia da destinare alla realizzazione di edilizia sociale, compresa la sua eventuale monetizzazione a favore dei Comuni.

Il piano casa consente solo a chi ha già una casa, o più case, o meglio ancora ville, di ampliarle in deroga ai piani regolatori comunali. I poveri continueranno a non aver casa, ma in compenso i ricchi possono aumentare le loro cubature e le loro rendite alla faccia dei regolamenti faticosamente adottati nei vari comuni, pagati e rispettati dagli altri cittadini.

Un'altra novità, carica di apporto “educativo”, introduce la possibilità a chi ha costruito abusivamente e condonato di poter usufruire di ampie premialità volumetriche; si potranno traslocare cubature sulle nostre fragili colline agricole e non contenti si potrà costruire finalmente anche nei parchi.[3]

Qualcuno dei fautori dell'attuale Piano Casa ha mai pensato di fare una valutazione costi/benefici prima di rilanciare il gioco? Mi pare proprio di no. Sul Piano Casa però non sono mancati i pareri degli esperti (dai giuristi ai sociologi ed economisti) e anche degli imprenditori più attenti e lungimiranti, e tutti hanno espresso pareri negativi.

Il territorio ligure, è ormai ciclicamente sempre più spesso devastato da eventi meteorologici violenti e improvvisi, che generano quello che tristemente sappiamo. Ormai basta poco, uno scavo, una villettina innocente, una pertinenzina sopra una linea ferroviaria, una stradina che si arrampica , per rompere il delicato equilibrio di un versante, per sfregiare un paesaggio, per compromettere un parco e un ecosistema, per mettere ancora più a rischio di frane e alluvioni la popolazione del fondo valle.[4]

Aumentare il carico e la volumetria degli insediamenti

non si traduce in un aumento automatico della ricchezza e del benessere per la popolazione e, tanto meno, in aumento di occupazione.[5] Chi invece pagherà i danni prodotti all’ambiente e al territorio da questo Piano Casa? Basta con il gioco delle contrapposizioni ambiente - salute e lavoro, non è più utile a nessuno, nemmeno al ricco che crede di potersi salvare fra le mura della sua villa “che cuba sempre di più”contornata da pertinenze condonate che potranno anche cambiare destinazione d'uso.

Occorre davvero ricordare ancora una volta che il problema casa nel nostro Paese non è affatto dato da un deficit di volumi, ma piuttosto dalla sua scadente qualità, dall'assoluta indifferenza alle sue caratteristiche energivore, dall'inesistenza di una politica di alloggi a basso costo. Non sarebbe più conveniente provare ad orientare e incentivare il lavoro qualitativo delle imprese per avere territori più sicuri, città più giuste e paesaggi più belli?

Non ci vuole molto a capire che questa legge non potrà mai raggiungere gli obiettivi in essa enunciati. Ma la questione più grave, che può passare in un primo tempo inosservata è contenuta nel secondo comma dell'art. 1. [6]

Il piano casa non è più strumento di deroga “temporanea” alla programmazione urbanistica comunale, ma diviene permanente, fino a quando gli strumenti urbanistici comunali non lo recepiranno al proprio interno, copiando le previsioni indicate, con il principio secondo cui o si inserisce com’è oppure si applica lo stesso.

Un ragionamento che rende permanente una deroga, (un controsenso), e nega la potestà al Comune di programmare lo sviluppo edilizio del proprio territorio in maniera diversa da quello che prevede questo provvedimento. Trasforma uno strumento, straordinario e limitato nel tempo, finalizzato ad un incremento dell'attività edilizia, in un nuovo atto perenne, parziale, inidoneo, generico, che prevarica la più specifica e adeguata programmazione comunale; non solo una palese violazione della possibilità dei Comuni di pianificare sul proprio territorio, ma certamente l'imposizione di regole, che per la loro astrazione risultano indifferenti alla conoscenza territoriale e vanificano per sempre gli sforzi degli Enti, compresa la Regione stessa, di pervenire ad una attenta, consapevole, corretta e democratica pianificazione urbanistica.[7]

Perché la pianificazione urbanistica.

Il governo del territorio si attua, di regola, attraverso piani. La collettività locale deve cioè prefigurare le proprie esigenze di tutela, di uso e di trasformazione del territorio attraverso atti giuridici vincolanti con “disegni ordinati di condotte future composte di più elementi combinati ...”(Giannini) che considerino la totalità dell’ambito spaziale di competenza (Corte costituz. n. 378 del 2000, n. 379 del 1994, 327 del 1990).

Ciò è stabilito con chiarezza lapidaria dall’art. 4, l. n. 1150 del 1942: “la disciplina urbanistica si attua a mezzo dei piani regolatori territoriali, dei piani regolatori comunali (…)”. E tutte le leggi regionali – comprese quelle di nuova generazione (approvate dopo la legge costituz. n. 3 del 2001) – sino a oggi hanno confermato, nonostante numerose differenze, la centralità dei piani nel governo del territorio.

La pianificazione costituisce un essenziale strumento per la conoscenza (fisica, culturale, economica ecc.) del territorio e delle sue dinamiche complessive ed è quindi una garanzia di razionalità dell’azione amministrativa. Ma - cosa ancor più importante - essa, dopo la Costituzione, invera il principio democratico, in primo luogo, perché è imputata a organi che rappresentano le collettività interessate (consiglio regionale, provinciale e comunale); in secondo luogo, perché le procedure di adozione e approvazione garantiscono trasparenza delle decisioni e partecipazione dei cittadini all’assunzione; in terzo luogo, perché il piano è lo strumento che assicura una relazione fisiologica tra ciascuna collettività locale (complessivamente considerata) e il territorio sui essa è insediata. Questo principio inoltre consente di governare il pluralismo amministrativo, evitando che si giunga alla frammentazione del territorio. Attraverso le procedure di adozione e l’efficacia differenziata (e reciproca) dei vari livelli di pianificazione (regionale, provinciale e comunale), le esigenze delle diverse collettività si armonizzano, dando vita a un contesto regolativo coerente.

Perché la pianificazione urbanistica comunale

Il piano è quindi il primo principio per una corretta e democratica gestione del territorio; il secondo principio fondamentale riguarda il ruolo centrale del Comune. Se in base al nuovo titolo V, parte II della Costituzione, Comuni, Province e Regioni, in quanto enti autonomi, devono essere titolari di funzioni amministrative relative all’assetto del territorio, in base al principio di sussidiarietà (art. 118, comma 1, Cost.), ai Comuni devono essere assicurate tutte le funzioni di pianificazione e di vigilanza che non necessitino di esercizio sovracomunale. In altri termini, la legislazione regionale deve individuare gli interessi che vanno amministrati nei piani regionali e provinciali, in quanto essenziali per le rispettive comunità; tutti gli altri devono di regola essere attribuiti ai “Comuni, principali titolari dei poteri pianificatori in materia urbanistica nonché dei poteri gestionali” (Corte costituz., n. 196/04).

In questa materia, come noto, l’autonomia comunale è stata ulteriormente rafforzata. Tanto è vero che, per opinione unanime, i compiti comunali di gestione del territorio sono oggi considerati come funzione fondamentale dei Comuni; funzione che, in quanto tale, è oggetto di legislazione esclusiva dello Stato e non può quindi essere oggetto di eccessiva compressione da parte della legislazione regionale (art. 117, 2 c., lett. p, Cost.).

In base a questo principio, quindi, è precluso alle leggi regionali di privare i piani urbanistici comunali di adeguati ed effettivi spazi di manovra, potendo, al più, prevedere la sottrazione di alcune competenze in considerazione di “concorrenti interessi generali, collegati ad una valutazione più ampia delle esigenze diffuse nel territorio” (Corte costituz. n. 378/00 cit.). Le leggi regionali sono tenute cioè a valutare “la maggiore efficienza della gestione a livello sovracomunale degli interessi coinvolti” (Corte costituz. n. 286 del 1997), e non possono in alcun caso rendere inoperanti i piani comunali che – essendo espressione di funzioni fondamentali – sono garantiti direttamente dalla legge statale, in funzione dell’autonomia comunale.

In sintesi, questo principio preclude alle norme regionali di consentire l’autorizzazione di trasformazioni (rilevanti come nella fattispecie) che non siano il frutto di una preventiva, adeguata e specifica ponderazione degli effetti sul territorio e sulla collettività insediata, attraverso un procedimento ispirato a rigidi criteri di pubblicità e imputato a organi che siano espressione diretta della collettività interessata.

Motivi di incostituzionalità

La legge 49/2009 come modificata dalla L.R. del 22 dicembre 2015 n. 22, presenta , quindi, indubbiamente diversi motivi di palese incostituzionalità. In primo luogo si pone in contrasto con l’art. 118 della Costituzione che definisce in linea generale l’attribuzione delle funzioni amministrative ai Comuni in attuazione del principio di sussidiarietà, successivamente con l’art. 117, comma 6 che attribuisce ai Comuni autonomia regolamentare delle funzioni a loro attribuite e con l’art. 117 comma 3 che mette il Governo del territorio tra le materie concorrenti tra Stato e Regioni e non in ultimo con l’art 117, comma 2, lettera S: nella parte in cui, avendo eliminato dalla legge 49/2009 la disposizione che ne escludeva l’applicabilità ai parchi, sembra volere una estensione della efficacia delle previsioni derogatorie anche all’interno degli stessi.

…ADOTTARE SUBITO UNA DELIBERAZIONE DI CONSIGLIO COMUNALE per.....
In attesa che questa legge venga (si spera) fermata per le palesi illegittimità che essa manifesta, i sindaci liguri, se non vogliono dimostrare indifferenza e accidia verso il loro territorio e far perdere al loro comune e ai loro cittadini la potestà di gestirlo divenendo sudditi dell'Amministrazione regionale, devono entro il 7 marzo adottare una delibera ai sensi dell’articolo 12 (Disposizioni transitorie) della L.R. n. 22/2015 per :

a) individuare le parti del proprio territorio nelle quali non trovano applicazione le disposizioni di cui agli articoli 3 e 3 bis della L.R. 49/2009 e successive modificazioni e integrazioni;

b) stabilire la superficie minima delle unità immobiliari derivanti dal frazionamento degli edifici oggetto di ampliamento o di mutamento di destinazione d’uso di cui agli articoli 3 e 3 bis della L.R. 49/2009 e successive modificazioni e integrazioni;

c) individuare le aree del proprio territorio nelle quali non è consentito il frazionamento degli edifici oggetto di ampliamento o di mutamento di destinazione d’uso di cui agli articoli 3 e 3 bis della L.R. 49/2009 e s.m.e i. stabilendo altresì che fino all’assunzione delle determinazioni comunali di cui sopra o fino alla scadenza del termine di sessanta giorni ivi previsto, non trovano applicazione gli articoli 3, 3 bis, 4 e 5 della L.R. 49/2009 come modificati o introdotti dalla L.R. 22/2015, ma continuano a trovare applicazione le previgenti disposizioni degli articoli 3, 4 e 5 della L.R. 49/2009.

Si ribadisce che “il potere dei Comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le Regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica, siano libere di compiere. Si tratta invece di un potere che ha il suo diretto fondamento nell’art. 128 della Costituzione, che garantisce, con previsione di principio, l’autonomia degli enti infraregionali, non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei rapporti con le stesse Regioni, la cui competenza nelle diverse materie elencate nell’art. 117, e segnatamente nella materia urbanistica, non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei Comuni” (Corte Costituzionale - Sentenza n. 83/1997).

…..RENDERE IL PIÙ POSSIBILE INNOCUO QUESTO SCIAGURATO PREVARICANTE ed INIQUO “PIANO CASA”.

NOTE
[1] “Modifiche alla legge regionale 3 novembre 2009, n. 49 (Misure urgenti per il rilancio dell’attività edilizia e per la riqualificazione del patrimonio urbanistico – edilizio)”, pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Liguria, Parte I, Anno XLVI - N. 22 del 23.12.2015 (allegato il testo coordinato)
[2] Il 31 marzo 2009 si è giunti a un’Intesa in sede di Conferenza unificata; intesa ai sensi dell’art. 8, l. n. 131 del 2003, per “favorire l’armonizzazione delle rispettive legislazioni o il raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di obiettivi comuni”. Si è trattato quindi di un accordo politico. In base all’intesa, le Regioni si sono impegnate ad approvare nel termine di 90 giorni leggi che: a) consentano interventi fino al 20% della volumetria di edifici residenziali uni-bi familiari o comunque di volumetria non superiore ai 1000 metri cubi per un massimo di 200 metri cubi, al fine di migliorare anche la qualità architettonica e/o energetica; b) consentano, allo stesso fine, interventi straordinari di demolizione e ricostruzione con ampliamento per edifici a destinazione residenziale entro il limite del 35%; c) semplifichino e accelerino l'attuazione di detti interventi.
Le leggi regionali potevano però individuare ambiti in cui detti interventi fossero esclusi o limitati; tali interventi inoltre, salva diversa decisione, potevano avere validità temporalmente definita, comunque non superiore a 18 mesi. In caso di inerzia o ritardo il Governo e il presidente della Giunta regionale interessata “determinano le modalità procedurali idonee ad attuare compiutamente l'accordo, anche ai sensi dell'art. 8, comma 1, della legge n. 131/2003”.
Il Governo, dal suo canto, si era impegnato a emanare, entro 10 giorni, un decreto legge “i cui contenuti saranno concordati con le Regioni e il sistema delle autonomie” per “semplificare alcune procedure di competenza esclusiva dello Stato” e per “rendere più rapida ed efficace l'azione amministrativa di disciplina dell'attività edilizia”. Il decreto legge non è stato emanato, anche perché non si è trovato un accordo sul suo contenuto con le Regioni e con il sistema delle autonomie. Non di meno ad oggi le Regioni hanno legiferato sul punto, in maniera ovviamente disomogenea. Dal sito di www.eddyburg.it
[3]«Nella lettera inviata da FAI, Italia Nostra, WWF, LIPU e Legambiente ai Presidenti dei Parchi Nazionali e Regionali infatti si chiede con allarme e giusta urgenza che nelle loro aree protette non siano applicate le nuove norme del Piano Casa regionale, che consente anche lì interventi di ampliamento e di mutamento di destinazione d’uso di fabbricati non residenziali. I parchi sono infatti ciò che di più prezioso e tutelato abbiamo in merito ai beni paesaggistici. Se dovesse passare la concezione che perfino queste aree protette, già istituite, possano essere a rischio di interventi invasivi, questo non solo sarebbe in contraddizione con lo spirito e con gli obbiettivi della legge sul consumo di suolo che presto arriverà in Parlamento, ma costituirebbe un precedente pericoloso per tutto il paesaggio italiano».(ANSA).
[4]«Come Presidente dell’Osservatorio Nazionale per la Qualità del Paesaggio non posso che condividere l’allarme lanciato questa mattina da tutte le più rappresentative associazioni ambientaliste italiane sull’impatto che la nuova legge sul Piano Casa della giunta regionale della Liguria potrà avere sulla tutela delle aree protette di quella regione, il cui territorio ha già drammaticamente mostrato la propria fragilità». Così dichiara Ilaria Borletti, sottosegretario Ministero dei Beni Culturali e del Turismo con delega al Paesaggio. «La Liguria – conclude il sottosegretario Borletti — ha nel suo paesaggio una straordinaria ricchezza, che se valorizzata e prima di tutto tutelata può essere volano di turismo e sviluppo per il territorio».(ANSA).
[5]“E’ evidente il fallimento delle prospettive e del modello di sviluppo immaginato nel Piano casa – afferma il presidente di Legambiente Liguria - e non è con una semplificazione delle norme, che valuteremo non si tratti di una vera e propria deregulation cementizia, che si rilancerà l’edilizia. Occorre piuttosto un Piano di adattamento e mitigazione del dissesto idrogeologico per la sicurezza dei centri urbani, che coinvolga pubblico e privato per garantire un rilancio economico della nostra regione.(ANSA).
[6]art.1 comma 2. “Le disposizioni della presente legge operano in deroga alla disciplina dei piani urbanistici comunali vigenti e di quelli operanti in salvaguardia fino all’inserimento nel piano urbanistico comunale vigente o nel piano urbanistico comunale da adottare ed approvare ai sensi della legge regionale 4 settembre 1997, n. 36 (Legge urbanistica regionale) e successive modificazioni e integrazioni della specifica disciplina di agevolazione degli interventi di adeguamento e di rinnovo del patrimonio urbanistico-edilizio esistente con particolare riguardo agli immobili in condizioni di rischio idraulico ed idrogeologico o di incompatibilità paesaggistica e urbanistica in conformità alle regole e alle misure di premialità previste dalla presente legge e tenuto conto dei caratteri ambientali, paesaggistici ed urbanistici del proprio territorio.”
[7]«Il cosiddetto piano casa elaborato dalla Giunta regionale si configura come un vero e proprio superamento dell’ordinaria pianificazione urbanistica in Liguria. Una prospettiva che non può che suscitare preoccupazione». Lo afferma in una nota l’Istituto Nazionale di Urbanistica”.

QUI il pdf del testo della legge regionale 3 novembre 2009, N. 49 coordinato con la legge regionale 22 dicembre 2015, N. 22

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Il bilancio preventivo del presidente De Luca per i prossimi anni è l'occasione per un'analisi dei misfatti compiuti dalla legislazione urbanistica della Campania, di cui l'attuale, discusso Presidente si onora di essere il prosecutore. Lo strumento chiave: il trasversale "piano casa

"Con il comunicato stampa n. 1169 del 23 dicembre la regione Campania ha informato che, nella seduta del consiglio regionale del giorno precedente, «sono stati approvati a maggioranza i due documenti fondamentali e strategici dell’amministrazione regionale: il Documento di Programmazione Economico Finanziario (Defr), che per la prima volta ha dato una idea complessiva delle linee di governo della Giunta negli anni 2016 e seguenti, e la legge di Bilancio composta dalla legge di stabilità e dal Bilancio di previsione 2016-2018». Nell’elenco delle numerose Misure riorganizzative approvate figurano testualmente: «La proroga del Piano casa al 31.12.2017; La proroga della possibilità per i comuni di lavorare le pratiche dei vecchi condoni ancora in istruttoria relativi alle leggi dell’85 e ’94».

La giunta De Luca chiarisce così in modo lampante i propri orientamenti in materia di urbanistica, in continuità con le linee della precedente amministrazione di centro-destra.

Bisogna dire che il cosiddetto “piano casa” ha in Campania una genealogia del tutto trasversale: la sua prima formulazione regionale risale infatti agli ultimi mesi della giunta Bassolino, che macchiava così vistosamente l’apprezzabile lavoro compiuto con i precedenti provvedimenti per l’area a rischio del Vesuvio (2002), con la prima legge organica campana sulla pianificazione urbanistico-territoriale (2004), con la prima definizione (2004) del piano territoriale regionale (PTR) e con le linee guida del paesaggio, inserite nel PTR prima della sua definitiva approvazione (legge 13/2008).

La giunta Caldoro fra il 2010 e il 2015 ha coerentemente lavorato in direzione opposta. Certo, ha fornito qualche utile chiarimento circa l’articolazione del piano urbanistico comunale in componenti, strutturale ed operativa, riducendo le specifiche ambiguità in materia della legge 16/2004. Ma ha preteso di farlo con un semplice regolamento attuativo, il 5/2011, prestando così il fianco ad un contenzioso ora all’esame della Corte Costituzionale che rischia di invalidare anni di amministrazione dell’urbanistica nella regione. Per il resto ha costantemente tentato di smantellare le politiche per il territorio messe a punto dalla giunta precedente, a partire dal sistema integrato di mobilità e trasporti pubblici.

Per quel che concerne in particolare l’urbanistica e il paesaggio, l’amministrazione di centro-destra ha a più riprese mirato a cancellare o stravolgere specifiche disposizioni legislative precedenti inerenti al piano urbanistico-territoriale dell’area sorrentino-amalfitana o alla legge per la riduzione del rischio vesuviano o alle leggi per i condoni edilizi: il tentativo più cospicuo in tale direzione è stato condotto con un truffaldino disegno di legge per la pianificazione paesaggistica, la cui autentica finalità eversiva è stata fortunatamente contenuta dalla resistenza delle opposizioni, grazie anche ad una intensa mobilitazione culturale.

Sul “piano casa”, invece, la giunta Caldoro ha incontrato ostacoli assai minori. Sicché in Campania sono divenuti realizzabili, in deroga alla pianificazione vigente – e perfino negli ambiti disciplinati da piani specialistici con disposizioni diverse dalla assoluta inedificabilità –, interventi più che cospicui sotto il profilo dello sfruttamento delle parassitarie rendite urbano-immobiliari. A titolo esemplificativo, si possono citare esempi illuminanti.

Un edificio per uffici, o anche un albergo, con superficie utile lorda fino a 1.500 mq può essere diversamente destinato, in deroga al piano urbanistico, realizzando sole opere interne che non incidano su prospetti e sagoma e costituendo unità immobiliari non ulteriormente frazionabili: può quindi diventare un condominio residenziale con una trentina di mini-appartamenti.

Un albergo della dimensione di 10.000 mc che non abbia «goduto dei benefici contributivi», ubicato in aree urbanizzate diverse dal centro storico (ma anche in esso se costruito o ristrutturato negli ultimi 50 anni), può diventare, sempre in deroga al piano urbanistico, un condominio residenziale a patto che il 35% della volumetria sia destinato a edilizia residenziale sociale (cioè, in definitiva, riservato all’affitto): dando luogo, quindi, ad una quarantina di mini-alloggi “a mercato libero” e ad una ventina di alloggi vincolati all’affitto.

L’incremento di volume nella misura del 20% può essere realizzato a fini abitativi su edifici residenziali esistenti, ma perfino su edifici non ancora esistenti se realizzabili secondo le vigenti norme urbanistiche. E tale incremento si applica a immobili che appartengano ad una delle seguenti categorie: «a) edifici residenziali uni-bifamiliari; b) edifici di volumetria non superiore ai millecinquecento metri cubi; c) edifici residenziali composti da non più di tre piani fuori terra, oltre all’eventuale piano sottotetto». Dunque non c’è limite volumetrico per le categorie a) e c). E si può incrementare di un appartamento da 300 mc un capannone di 1.500 mc.

Deve poi considerarsi residenziale anche un edificio che abbia destinazione abitativa solo per il 55%. E si ammette il cambio di destinazione del residuo 45% se si tratta di pertinenze agricole di una casa rurale ubicata fuori delle zone agricole.

Quando invece si procede con interventi di demolizione e ricostruzione l’incremento volumetrico in deroga alla normativa urbanistica vigente sale al 35% ed è consentito incrementare anche il numero degli appartamenti «purché le eventuali unità immobiliari aggiuntive abbaino una superficie utile non inferiore a 45 mq».

Nelle zone agricole possono diventare spazi abitativi «del nucleo familiare del proprietario del fondo agricolo» (anche non coltivatore) le precedenti stalle, depositi, fienili e via dicendo e – sempre in deroga ai piani urbanistici – si possono realizzare «nuove costruzioni ad uso produttivo» (artigianale ? commerciale ?) nella misura di 0,03 mc/mq.

Gli edifici industriali dismessi da almeno tre anni possono essere – in deroga al piano urbanistico – integralmente sostituiti secondo due soluzioni: a parità di volume con mutamento di destinazione a residenze, uffici (non più del 10%), esercizi di vicinato o botteghe artigiane, purché riservando non meno del 30% per alloggi sociali; oppure, anche con un incremento di volume del 20%, con destinazioni produttive non meglio specificate (potrebbero essere di tipo terziario ? anche “direzionali” ?), perfino delocalizzando l’intera volumetria assentibile «se tale forma di intervento sia prevista nella programmazione urbanistica locale, sia ritenuta utile ed opportuna dal Comune, e vi sia la disponibilità dell’area alternativa rispetto a quella dove sussistono le volumetrie preesistenti oggetto dell’intervento».

Le esemplificazioni potrebbero continuare, ma è già sufficientemente chiaro che il “piano casa” in Campania fra il 2009 e il 2014 è diventato un carrello di attrezzi idoneo a far saltare qualunque coerenza di governo pianificato del territorio. Ed è l’efficacia di questo carrello che la giunta De Luca ha prorogato fino al 31 dicembre 2017.

Quanto al condono, la proroga riguarda solo le procedure amministrative comunali. Ma testimonia comunque l’attenzione della giunta regionale ai problemi degli abusivisti. Del resto, all’inizio della campagna elettorale il candidato De Luca si era premurato di sostenere che sarebbe stato impossibile abbattere tutta l’edilizia abusiva non condonabile. Il provvedimento del 22 dicembre possiede il sapore inequivoco di un segnale: in attesa di circostanze opportune ….

Chi possiamo ritenere abbia brindato con più entusiasmo al capodanno in Campania ?

Il manifesto, 12 novembre 2015, con postilla

«Una delle cose da cambiare, nel nostro paese, è la pianificazione delle città e del territorio. Il paesaggio delle grandi città, dei centri minori, delle campagne, delle coste, fotografa le storture di questo mezzo secolo di democrazia imperfetta». Così scriveva Leonardo Benevolo in L’Italia da costruire venti anni fa mettendo in esplicita relazione la questione territoriale e la questione politica.
Ambiente e società sono state l’uno il riflesso dell’altro, un negativo e un positivo, un unicum indivisibile e se si guarda al passato è facile vedere le corrispondenze tra la progettualità politica e i cambiamenti territoriali e, di conseguenza, anche gli incastri tra le debolezze culturali e istituzionali di un sistema Paese e il degrado del paesaggio. Una inversione di rotta nel governo del territorio deve partire da una critica delle dinamiche sempre meno democratiche della politica in generale e delle logiche, che entro questa linea, dettano oggi lo sviluppo economico e infrastrutturale dell’Italia e le norme edilizie.
Un determinato territorio è il frutto di un lungo processo di costruzione sociale, politica, culturale, ambientale; è una realtà al contempo umana e naturale complessa e stratificata su cui le piogge torrenziali e quelle figurate dei finanziamenti pubblici possono molto poco, forse nulla. La decostruzione di un equilibrio ambientale ha tempi lunghi e radici profonde, così come un possibile risanamento richiederà decenni ma soprattutto sarà vincolato a un cambiamento della cultura di noi cittadini e delle nostre classi dirigenti.
L’emergenza c’è. Le città di Genova e Benevento, la Calabria ionica e il Cadore, giusto per citare alcuni luoghi, nell’ultimo anno ce la hanno riproposta. Ogni volta sembra che l’emergenza cresca, che si possa avere un’urgenza maggiore nell’emergenza stessa. Ma le alluvioni di Sarno e Quindici del 1998 non bastavano? L’emergenza c’è e alcuni provvedimenti possono rispondere a essa, alcuni passi in avanti possono essere fatti ma annunciare il risanamento territoriale entro il 2020 è demagogico e strumentale. È un annuncio vuoto che sostituisce e allontana gli annunci pieni.
Inizio dall’annuncio vuoto. Il Governo l’11 novembre scorso ha presentato il primo stralcio del Piano nazionale 2015–2020 per la prevenzione strutturale contro il dissesto idrogeologico e per la manutenzione ordinaria del territorio. Oltre un miliardo di euro per 69 interventi per la sicurezza nelle dieci città metropolitane e in altre città delle regioni a statuto speciale. Complessivamente per l’intero territorio nazionale è previsto, nel lustro indicato, un investimento di 9 miliardi di euro: 5 dal Fondo Sviluppo e Coesione, 2 di cofinanziamento delle regioni con fondi europei e altri 2 miliardi provenienti da fondi assegnati e non spesi negli ultimi 15 anni.
La spartizione dei primi fondi rivela una sperequazione tra Nord e Sud sorprendente: 666,31 milioni di euro al Nord, 116,2 al Centro, 280,96 al Sud; nessun intervento previsto in Calabria e circa il 50% delle somma stanziato per le aree metropolitane di Genova e Milano. Al cospetto di questo nuovo – e velleitario nei tempi previsti – grande progetto di risanamento nazionale, le norme veramente efficaci a breve termine che andrebbero approvate per la salvaguardia del territorio vengono procrastinate e neutralizzate.
In primo luogo, una riforma urbanistica, poiché l’ultima risale al 1942. Il Disegno di legge Principi in materia di politiche territoriali e trasformazione urbana proposto dall’ex Ministro Lupi veniva sottoposto a pubblica consultazione proprio la scorsa estate, in coincidenza temporale perfetta con l’elaborazione dell’intervento contro il disordine idrogeologico. L’obiettivo dichiarato della proposta Lupi era di adeguare lo sviluppo urbano e territoriale italiano alle strategie europee, ma di fatto la bozza andava in tutt’altra direzione. Non solo si salvaguardava ancora la rendita fondiaria e la proprietà immobiliare, ma l’ambiente diventava un mero supporto della cementificazione, una Direttiva Quadro Territoriale avrebbe permesso di superare gli intralci possibili dovuti ai piani paesaggistici, variazioni ai piani urbanistici avrebbero ammesso la deroga ai diritti di perequazione e compensazione. Da settembre 2014 della riforma urbanistica del Governo Renzi non si hanno notizie.
In secondo luogo servono delle leggi con applicazione immediata che impongano il consumo di suolo zero. Non c’è un’altra via di uscita e non c’è piano di bonifica, risanamento o rimboschimento che tenga. Il rapporto 2015 dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) denuncia che 55 ettari di Penisola ogni giorno vengono coperti dal cemento, quasi 7 mq al secondo, per costruire infrastrutture e centri commerciali, per il fenomeno dello sprawl urbano. Se Lombardia e Veneto contano la percentuale più alta di suolo consumato, la Liguria ha edificato il 40% del proprio territorio compreso entro i 300 metri della costa. Si noti come proprio Liguria e Lombardia si vedranno destinare la maggior parte dei fondi governativi anti-dissesto il cui investimento verrà senz’altro vanificato da un ritmo di scomparsa di suolo che non ha pari in Europa. Emergenza e urgenza sono ormai parole vuote e demagogiche, in questo come in altri ambiti.
Che cosa è veramente urgente e che cosa si può risolvere con interventi straordinari? Il grande progetto di regimentazione del territorio è figlio di una politica strabica, che fa grandi annunci e trascura il fattibile. E per tornare a Leonardo Benevolo, egli individuava tre specifiche caratteristiche del triste quadro territoriale e urbanistico italiano degli anni Novanta: l’impreparazione della classe politica ad affrontare tale aspetto; la durevolezza dei guasti operati sul territorio, quindi la lentezza e la limitazione degli interventi correttivi; il contrasto tra l’emergenza a cui si deve far fronte e la necessità di tempi lunghi per il recupero territoriale. La sfida che la nostra fragilità ambientale ci pone è una sfida alla società tutta a ridiscutere le proprie direttive economiche, a ritrovare correttezza e onestà amministrativa, a valorizzare la partecipazione popolare. Nella consapevolezza che quanto inflitto finora all’aspetto fisico del territorio lascerà un segno indelebile.

postilla

Peccato che le due proposte di legge citate siano del tutto negative nei confronti dell'auspicata eliminazione del consumo di suolo, e anzi lo favoriscano. Abbiamo promosso e sostenuto una lunga campagna contro la malfamata "legge Lupi" nelle sue varie incarnazioni. Una intera voluminosa cartella si può trovare nel vecchio archivio, col titolo Tutto sulla legge Lupi. Nel nuovo archivio abbiamo ripreso il tema in numerosi articoli per ora raccolti, un po' alla rinfusa, nella cartella Legislazione nazionale. Per quanto riguarda la proposta di legge sul consumo di suolo, oggi all'esame de Parlamento, ci limitiamo a segnalare l'accurata analisi, fortemente critica, di Vezio De Lucia dal titolo Il progetto di legge del governo non ferma il consumo del suolo, rilancia la speculazione, e i numerosi articoli citati nella postilla. Lì troverà anche il collegamento alle proposte avanzate a più riprese da eddyburg. Da questo governo e questo Parlamento è inutile aspettarsi qualcosa che vada nella direzione a suo tempo auspicata da Leonardo Benevolo, e da altri personaggi che oggi sarebbero definiti "gufi".

La Repubblica, 16 ottobre 2015 (m.p.r.)

Vista dal cielo, la spianata dell’antica città greca e poi romana di Apamea, lungo il fiume Oronte, sembra un paesaggio lunare, oltre quattrocento ettari su cui sono disseminati decine di crateri. Gli stessi buchi si vedono nelle immagini satellitari nei pressi di Palmira, Deraa, Mari. L’Is procede ormai a un ritmo forzato. Gli scavi illegali dei siti archeologici sono migliaia secondo l’Unesco. Un saccheggio che ha raggiunto ormai un livello “industriale” come ha sottolineato la direttrice dell’organizzazione, Irina Bokova. La regione della Mezzaluna Fertile, così come l’aveva definita l’archeologo americano James Henry Breasted, è una delle zone più ricche di reperti e di Storia al mondo. Sotto terra ci sono stratificazioni millenarie che custodiscono ancora molti tesori.

La furia integralista non distrugge solo il patrimonio come ha fatto qualche giorno fa con l’Arco di Trionfo di Palmira. L’Is si è organizzato per guadagnare e far fruttare l’immenso patrimonio artistico e archeologico tra Siria e Iraq. I jihadisti controllano ormai decine di siti di cui tra pochi anni rischia di non rimanere più nulla. «Abbiamo persino visto che ci sono delle presunte autorizzazioni per gli scavi rilasciate dai combattenti a gruppi locali » racconta Giovanni Boccardi, responsabile dell’unità di crisi dell’Unesco, mostrando a Repubblica le foto satellitari.
Nulla è più lasciato al caso. L’Is si è professionalizzato e incassa in assoluta impunità le cosiddette “khums”, tasse di sfruttamento per zone archeologiche che possono andare dal 20 al 40% del valore stimato degli oggetti. Il Califfato avrebbe assoldato anche dei restauratori e specialisti per organizzare i saccheggi. I “reperti del sangue”, così come vengono chiamati tra gli esperti, poi viaggiano all’estero in molti modi, anche nascosti nelle carovane di profughi. Solo negli ultimi mesi centinaia di reperti trafugati sono stati sequestrati in Libano, Canada, Svezia, Norvegia, Regno Unito. In Turchia sono stati sequestrati nell’ultimo anno 1448 oggetti e 544 monete. Ma è la punta dell’iceberg. Secondo la Cia, il contrabbando di antichità avrebbe già fatto incassare ai terroristi tra 6 e 8 miliardi di dollari. E’ il terzo mercato illegale più redditizio dopo il contrabbando di droga e armi.
L’Unesco riceve e raccoglie quasi ogni giorno fotografie che documentano i saccheggi. Molte immagini non vengono mostrate per tutelare gli informatori locali. Alcune Ong si sono specializzate nel denunciare gli scavi illegali e il contrabbando di antichità come l’Association for the protection of Syrian Archaeology che ha un sito aggiornato diretto da Ali Cheikhmous, archeologo siriano a Strasburgo.
Il danno degli scavi illegali è molteplice. «Anche quando i reperti vengono ritrovati hanno perduto il loro il loro valore storico e scientifico che si può avere solo in loco, durante gli scavi» spiega Boccardi. In assenza di “caschi blu” che possano proteggere i siti - un appello per la creazione di un’unità simile è stato consegnato ieri all’Unesco da Francesco Rutelli - l’unica soluzione è allertare le autorità dei paesi vicini, da cui transitano i reperti, e i possibili acquirenti. L’International Council of Museum, che raggruppa i più grandi musei del mondo, diffonde periodicamente delle red lists in cui vengono elencati i tipi di oggetti più ricercati sul mercato nero. Per il periodo ottomano, stele in pietra o bronzo, calici e anfore. Risalendo più indietro, mosaici e frammenti di ornamenti in ceramica, fino a pergamene con figure ornamentali, statuine in legno o metallo, gioielli, lampade a olio, sigilli in avorio o terra cotta, monete bizantine, romane, islamiche.
La vendita dei reperti non è così immediata e facile. Per i pezzi più grandi serve una logistica di trasporto e la falsificazione dei documenti ad alto livello se si vuole accedere a collezionisti importanti. I reperti più pregiati non vengono infatti subito venduti. Spariscono, nascosti in qualche magazzino per rispuntare dopo cinque, dieci anni. Il tempo serve non solo per allentare l’attenzione delle autorità ma anche per riuscire a fabbricare una falsa documentazione.
Mentre Matteo Renzi ha proposto durante l’Assemblea generale dell’Onu di organizzare un task force di carabinieri specializzati per tutelare il patrimonio culturale del mondo in situazioni di emergenza, anche la giustizia internazionale si muove. Un leader tuareg di un gruppo islamista maliano legato ad Al Qaeda, sospettato di aver organizzato la distruzione nel 2012 di mausolei a Timbuctù, è apparso di fronte alla Corte penale internazionale. L’uomo è accusato di crimini di guerra. Ma le normative internazionali che regolano il traffico illecito di antichità sono inadeguate davanti alla nuova minaccia in Siria e Iraq.
La convenzione dell’Unesco risale al lontano 1970. Dal febbraio scorso, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione che prevede l’uso della forza per la salvaguardia del patrimonio. E’ la prima volta. L’Unione europea sta invece studiando come intralciare la creazione di falsi documenti. Allo studio un nuovo import certificate, un certificato all’importazione unico tra i paesi membri. «Purtroppo non possiamo agire sul posto, ma almeno cerchiamo di rendere più complicato e meno redditizio questo business» continua Boccardi.
L’Unesco ha organizzato delle campagne di sensibilizzazione con le più importanti case d’aste come Sotheby’s o Christie’s. «I collezionisti devono sapere – spiega Boccardi - che non si tratta solo dell’acquisto illecito di un oggetto ma di una forma di finanziamento del terrorismo internazionale». Il progetto Shirin riunisce archeologi, storici dell’arte che hanno lavorato nella regione. Conoscono ogni pietra, sono in grado di guardare foto satellitari e capire da dove viene un oggetto sequestrato. Il direttore scientifico del progetto è Michel Al Maqdassi che ha lavorato per trent’anni al servizio di Antichità di Damasco e ora è a Parigi. Shirin è un progetto pilota organizzato dal ministero degli Esteri francese e dall’università di Durham per agevolare uno scambio di informazioni tra le varie banche dati e formare un unico inventario, il Sites & Monument Record for Syria (Smrs). Il primo prototipo del Smrs è stato lanciato nel 2014 e raccoglie già oltre 15mila referenze archeologiche. Un inventario gigantesco di tutto ciò che appartiene al popolo siriano e iracheno e non dovrebbe essere mai essere trafugato.
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