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1.La rilevanza della pianificazione di scala intermedia

Il tema della pianificazione d’area vasta è centrale in questo momento in tutta la riflessione europea. Com’è noto però, il grado di coscienza sull’importanza della pianificazione d’area vasta fuori d’Italia, è più forte, anche se, proprio per il fatto che i problemi sono complessi ovunque, il grado di soluzione non è così avanzato.

Tre sono le ragioni fondamentali per la pianificazione di area vasta

In primo luogo, l’intervento su scala vasta è necessario in presenza di un impatto sovralocale di decisioni locali, ed in presenza di spill-over o di esternalità negative e positive. Le esternalità, sono in genere effetti senza contropartita che nascono per esempio quando qualcuno “scarica” su altri dei costi, senza condividerne l’onere (esternalità negative); oppure quando si creano dei vantaggi anche per qualcun altro che, agendo da free rider, si impossessa di questi vantaggi senza riconoscere alcuna partecipazione (esternalità positive).

Una seconda ragione che giustifica l’intervento su scala vasta si ha quando esistono esternalità di rete (una categoria simile alla precedente), e cioè in presenza di reti territoriali la cui logica e la cui giustificazione risultano sistemiche. Possono infatti emergere casi di antidemocraticità, soprattutto nel momento in cui l’interesse locale impatta su una rete che viene costruita in funzione di un vantaggio collettivo sovralocale.

Ma altre ragioni si possono portare sulla necessità di un’ottica non soltanto municipale ma anche di area vasta per la pianificazione spaziale. Per garantire:

- la qualità degli spazi pubblici, spesso sacrificati nel nostro paese alle esigenze di sviluppo, sia nei centri urbani che nelle periferie;

- il governo della forma urbana, attraverso il contenimento dei consumi di suolo, la densificazione e la compattezza dell’edificato, la lotta allo sprawl e alla utilizzazione del suolo per uno sviluppo non necessario,

- una gestione sostenibile dello sviluppo urbano – dal punto di vista ambientale, sociale ed economico – invertendo una tendenza, ormai superata in altri paesi, verso estese pratiche deregolative;

- una responsabilità pubblica affidata una nuova governance multilivello, nella quale la Provincia deve svolgere un ruolo di snodo chiave.

E’ infatti alla Provincia che dovrebbe spettare il compito di costruire quadri di coerenza territoriali per l’intero territorio dell’area vasta, assumendo competenze non solo di indirizzo, ma anche normative (soprattutto in materia di sostenibilità e di solidarietà territoriale e sociale), pur accogliendo nuovi elementi di flessibilità nella gestione urbanistica.

Sembra questa la via seguita da Parigi e dalla regione Ile-de-France con lo SDRIF recentemente approvato: ad esempio per porre sotto controllo i consumi di suolo. La regione nel recente Schéma Directeur ha ridotto la previsione – vincolante – di espansioni insediative dal 2005 al 2030 del 22% rispetto a quelle previste dallo Schéma precedente (che per di più operava su un numero minore di anni, da 1994 al 2015), annullando precedenti previsioni non ancora realizzate che si trovavano al di fuori delle linee di forza del trasporto pubblico.

Un tema cruciale per la pianificazione di livello intermedio: combattere lo sprawl e il consumo di suolo

Pochi mesi fa la European Environment Agency ha pubblicato un rapporto sul consumo di suolo in Europa dal titolo evocativo, “Lo sprawl urbano: la sfida ignorata”, in cui si sottolinea che, se le attuali tendenze continueranno, nei prossimi cent’anni si verificherà un raddoppio del suolo urbanizzato, con un impatto drammatico sui consumi di energia e di risorse territoriali e, di conseguenza, sulle emissioni di gas serra ed i cambiamenti climatici.

Nel Rapporto si evidenzia ripetutamente la stretta correlazione che si è instaurata negli ultimi decenni fra deregolamentazione urbanistica e dispersione insediativa. Una volta di più si auspicano modelli compatti e policentrici di sviluppo urbano, già più volte invocati nei documenti relativi alle politiche di sviluppo territoriale dell’UE e, in particolare, nello Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo. Ma si sottolinea altresì che compattamento e policentrismo potranno essere effettivamente ed efficacemente realizzati soltanto attraversopiani elaborati alla scala pertinente (ovviamente la scala vasta) e con indirizzi forti e condivisi.

Il consumo di risorse territoriali è dunque problema che affligge molti paesi europei. Ma ciò poco ci consola: infatti l’Italia è uno dei paesi più a rischio, perché questa emergenza non ha ricevuto, e continua a non ricevere, una attenzione adeguata, mentre i consumi di suolo proseguono a ritmi elevatissimi.

Anche se non disponiamo, a differenza di molti altri paesi europei, di statistiche ufficiali estese al territorio nazionale (e già questo è un fatto significativo), bastano pochi dati per evidenziare l’entità del problema: fra il 1951 e il 2001 gli italiani sono cresciuti di 10 milioni, ma le stanze sono quasi triplicate (da 36,3 milioni del 1951 ad oltre 130 milioni nel 2001); per quanto riguarda il consumo di territorio aperto, dal 1951 ad oggi si è asfaltato e cementificato oltre un terzo della superficie non urbanizzata (11 milioni di ettari). Nella ben amministrata Emilia Romagna dal 1976 al 2000, a fronte di una popolazione sostanzialmente stabile, l’urbanizzazione si è raddoppiata.

Inoltre si deve riconoscere che, al di là del titolo pessimistico ed esortativo del rapporto dell’EEA, molti paesi europei, a frontedegli inquietanti e ripetuti annunci di collasso ambientale planetario prossimo futuro, si stanno muovendo con più lungimiranza dell’Italia.

Dopo l’infatuazione per la deregolamentazione e la flessibilizzazione urbanistica che ha percorso l’Europa negli anni ‘80/primi anni ’90, stiamo assistendo ad un rilancio della pianificazione urbanistica e territoriale; un rilancio supportato da principi (e quindi da regole) di coesione territoriale e sociale che pongono al centro proprio il controllo del consumo di suolo: in particolare direttive determinatee cogenti di “urban containment” ed un rinnovato impegno per il rilancio di un’offerta abitativa di edilizia sociale e di alloggi a prezzi calmierati che consenta ai gruppi a basso e medio livello di reddito di rimanere in città.

Questa è la direzione che si sta seguendo in Gran Bretagna e in Germania; ma altrettanto si può dire per Francia, Spagna e, naturalmente, per i paesi del Nordeuropea.

In Italia stiamo accumulando un drammatico ritardo e dobbiamo chiederci se il nostro paese riuscirà ad allinearsi rapidamente agli altri paesi avanzati europei. Sicuramente occorrerebbe una più lungimirante pianificazione locale.

2. I nemici della Provincia

In Italia tre sono oggi i nemici di un equilibrato governo del territorio.

A. Coloro che negano ruolo e necessità stessa delle Province, adducendo motivi di risparmio pubblico (che a ben vedere non ci sarebbe, perché i dipendenti pubblici non possono essere licenziati). Si tratta di una posizione assai superficiale, che emerge con sempre maggiore frequenza nel dibattito politico e che incontra sostenitori non solo fra i livelli istituzionali che sarebbero favoriti da questa prospettiva, quello comunale e quello regionale, ma anche fra esponenti del milieu tecnico-culturale.

Al contrario, occorre con forza affermare che la provincia è l’ente appropriato per la pianificazione di area vasta (per “le politiche integrate di sviluppo territoriale”, nell’espressione dell’Unione Europea). La dimensione comunale è inadatta a gestire fenomeni che hanno natura e impatti trans-territoriali; quella regionale è adatta alla legislazione territoriale (all’interno di un forte quadro nazionale), ma non alla gestione.

B. La deregulation urbanistica, o “liberalismo attivo” nella versione colta dei fautori dell’approccio deregolativo. Si afferma al proposito che la pianificazione è strumento vecchio, derivante da una ideologia non liberale che vede il “governo” dettare le regole del “bene” comune. Essa sarebbe per questo nociva, in quanto soffoca il libero gioco del mercato – il solo custode del bene comune- poiché indirettamente costruisce un ordine sulla base delle preferenze individuali e delle conoscenze disperse fra un grande numero di soggetti.

La tesi pecca di una fondamentale sottovalutazione proprio sul terreno della teoria economica. Si può infatti facilmente dimostrare, sulla scorta degli scritti dei grandi economisti liberali-liberisti dell’inizio del novecento, che il libero mercato, insostituibile allorché si tratta di decisioni sulla quantità/ qualità/ prezzo di beni, fallisce come allocatore di risorse in presenza di:

- irreversibilità ( il terreno urbanizzato è irrimediabilmente sottratto alla naturalità),

- esternalità (i vantaggi e gli svantaggi arrecati agli altri soggetti dalle decisioni individuali non generano né costi né ricavi aggiuntivi, e per questo non vengono presi in considerazione in un quadro di decisioni decentrate private),

- beni pubblici (essi non vengono per definizione forniti dal mercato),

- presenza di pochi operatori o di operatori operanti in collusione implicita o esplicita (come è spesso il caso nel mercato immobiliare).

C. La crisi della finanza pubblica, locale in particolare. Infatti, i sindaci fanno quadrare i loro bilanci con gli oneri di urbanizzazione e i contributi di costruzione (ci pagano anche gli stipendi, poiché le ultime leggi finanziarie lo consentono!). Come nel caso dei paesi arretrati, in presenza di una crisi fiscale dello stato delle dimensioni di quella attuale, si è obbligati a vendere il patrimonio di risorse locali (il suolo in questo caso) per generare reddito. Di qui l’attrazione fatale delle amministrazioni locali per lo sviluppo insediativo, al di là delle esigenze della domanda degli utenti potenziali.

Da questo stato di necessità, discendono due processi perversi che occorre al più presto interrompere:

- si capovolge il percorso logico “virtuoso” che procede dalla costruzione di una visione territoriale alla definizione di un piano e alla conseguente concessione di diritti a costruire coerenti con la visione iniziale, in favore di un percorso vizioso: dalla identificazione del budget necessario per equilibrare il bilancio alla matematica definizione dei mq da urbanizzare e al conseguente accordo negoziale col privato, con conseguente casualità e disordine territoriale,

- ci si avvia alla negoziazione col privato in condizioni di debolezza: ogni comune e ogni sindaco da solo, anziché in accordo coi sindaci dell’area vasta e in conformità con i quadri di coerenza definiti dalla pianificazione di livello intermedio; in presenza di forte asimmetria informativa rispetto al privato per quanto concerne condizioni di costo e di ricavo sul mercato immobiliare, anche per l’assenza di precise professionalità all’interno dei comuni.

Dunque, il mercato non garantisce il miglior benessere collettivo; anzi, nel caso della pianificazione, è appunto fuorviante. Occorre integrare il mercato con il “buon governo”: soprattutto, con aggiornate e lungimiranti regole non negoziabili in materia di sostenibilità e di solidarietà sociale.

I rimedi possibili che si potrebbero prendere in considerazione facendo riferimento alle migliori esperienze internazionali sono, a puro titolo di esempio:

- dal Regno Unito: un modello fortemente dirigistico sulle possibilità di espansione degli insediamenti, che da decenni opera con una strategia di urban containment e di costruzione e difesa di green belts attorno alle città,basato su development permits attribuiti con forte selettività. Si tratta del modello più difficilmente importabile nel nostro paese, in quanto implica una planning culture diffusa di alta qualità e responsabilità etica, e regole non scritte di comportamento virtuoso nei confronti del territorio, seguite sia dal settore pubblico che dagli operatori privati, soprattutto con riferimento al territorio non urbano;

- dalla Germania: una pianificazione urbanistica esplicitamente orientata al benessere pubblico (attenzione ai consumi di suolo, al verde e servizi, all’housing sociale) nonché, da una decina d’anni, a una crescente utilizzazione di modalità concertative e negoziali col privato, gestite in modo assai determinato da parte delle pubbliche amministrazioni: un modello molto efficace che sarebbe realizzabile anche in Italia;

- dalla Francia: nuove forme di pianificazione e compensazione intercomunale, attuate attraverso la acquisizione di una parte delle entrate da sviluppo territoriale a livello di agglomération e ripartite quindi anche fra i comuni che non hanno visto crescere le urbanizzazioni sul loro territorio. Questa innovazione ha generato una migliore localizzazione dello sviluppo all’interno dell’area vasta, e soprattutto ha determinato un forte ridimensionamento della attrazione per lo sviluppo da parte dei singoli comuni. In Italia alcune (molto poche) associazioni intercomunali volontarie stanno iniziando a sperimentare questo modello, anche realizzando “piani strutturali” intercomunali compatibili con le linee strategiche e progettuali definite dai PTCP (è ad esempio il caso del territorio della Provincia di Bologna).

E’ chiaro che, nel nostro paese, un nuovo equilibrio fra interessi pubblici e privati, che ponga al centro il bene comune e la sostenibilità delle scelte insediative, al di là di generose buone pratiche locali, potrà realizzarsi soltanto attraverso una nuova legislazione nazionale, che mantenga e rafforzi il ruolo delle province nella pianificazione territoriale e ambientale; e la diffusione di buone pratiche, che naturalmente esistono anche se non nella quantità auspicabile.

Ma purtroppo, a tutt’oggi manca una Legge Nazionale di Principi di governo del territorio che ri-legittimi, in chiave di sussidiarietà e coesione territoriale, la pianificazione di livello intermedio; né l’attuale contesto politico autorizza alcun ottimismo.

3. L’associazionismo volontario intercomunale

In molti paesi europei la pianificazione di area vasta si articola in due principali ambiti, cui corrispondono tipologie differenziate di strumenti di governo e gestione:

- l’ambito territoriale esteso (corrispondente alla regione metropolitana o al sistema urbano policentrico integrato) cui è preposta la pianificazione di inquadramento territoriale affidata ad un ente di governo di livello intermedio. Quest’ultimo ha il compito di definire i grandi indirizzi per lo sviluppo del territorio e di promuoverne la attuazione attraverso la concertazione con gli enti di livello inferiore, esercitando comunque anche competenze normative e di verifica di conformità e compatibilità delle scelte della pianificazione sott’ordinata. Nel caso italiano, il riferimento è alla pianificazione territoriale di inquadramento in capo alle Province, anche se, come è noto, molte leggi urbanistiche regionali di “seconda generazione” hanno di fatto ridimensionato, quando non perentoriamente delegittimato, le competenze attribuite alle Province dalla legge 142/1990 (un caso limite è in questo senso la Regione Lombardia)

- l’ambito dei “territori della prossimità”, in cui la possibilità di realizzare scelte insediative ottimali, attente alla tutela delle risorse territoriali e alla equa ridistribuzione dei vantaggi tra le differenti collettività insediate, non può che essere affidata a una buona cooperazione a rete e su base volontaria fra comuni.

Il rilancio recente in Europa dell’intercomunalità volontaria è il risultato di una acquisita consapevolezza dei rischi associati a politiche urbanistiche comunali autoreferenziali, sganciate da quadri di coerenza sopralocali: questi rischi sono stati ampiamente evidenziati nel dibattito urbanistico e affrontati nelle migliori leggi nazionali e/o pratiche locali sperimentate in ambito internazionale; ma sono altresì ben evidenti ormai anche nel nostro paese, e non soltanto nei contesti dove riforme urbanistiche regionali recenti hanno delegittimato la pianificazione di livello intermedio.

Ma promuovere l’intercomunalità non è comunque un progetto semplice e richiede innovazioni sia dall’alto che dal basso: la prima condizione per la sua efficacia consiste infatti nel rafforzare, attraverso leggi e direttive, nazionali o regionali, i compiti di inquadramento strategico attribuiti alle autorità competenti per la pianificazione di area vasta (nel nostro caso le Province), destinando loro le risorse finanziarie adeguate per incentivare l’associazionismo fra comuni; la seconda, poiché l’intercomunalità si realizza su territori che non sono riconducibili alle partizioni amministrative esistenti, richiede lungimiranza da parte delle amministrazioni comunali e una grande attitudine al cambiamento nelle relazioni intergovernative, poiché i comuni devono accettare di delegare alcune competenze che sono loro attribuite a un ente sopracomunale .

All’opposto, l’intercomunalità avrà modeste opportunità di successo nei contesti dove le riformein materia di pianificazione urbanistica e territoriale, privilegiando in maniera esclusiva l’obiettivo della semplificazione e velocizzazione dei processi decisionali, tendano non soltanto a ridurre il numero degli attori pubblici coinvolti nel processo decisionale (delegando alle amministrazioni comunali poteri crescenti, e quindi legittimando la frammentazione amministrativa e la crescente competizione intercomunale), ma anche a marginalizzare il contributo delle comunità locali e delle reti sociali.

Il caso più interessante in Europa in materia di intercomunalità è rappresentato dalla Francia: un paese che vanta una tradizione legislativa più che secolare in materia di promozione della cooperazione volontaria fra comuni e che ha recentemente varato una legge (si tratta della legge “Simplification et renforcement de la coopération intercommunale” (n. 596/1999)) che persegue accordi duraturi su territori che corrispondono ai reali contesti spaziali in cui si manifestano le problematiche e le sfide contemporanee per le aree urbane: spetta infatti alle associazioni volontarie intercomunali contenere la dispersione insediativa, migliorare l’efficienza economica arginando la competizione atomistica fra comuni per l’attrazione di nuove attività, attenuare la doppia velocità territoriale e sociale. Alle Communautés volontarie, allequali la legge impone la continuità territoriale, sono trasferite dai comuni le competenze di aménagement spaziale e quelle in materia di sviluppo economico. Esse dispongono inoltre di rilevanti risorse fiscali proprie attraverso la perequazione territoriale (Taxe Professionnelle Unique).

Complessivamente le associazioni intercomunali sono oggi in Francia 2.573 (32.913 comuni; 53.334.933 abitanti: l’85% della popolazione totale).

Si tratta di grande successo cha ha fatto parlare di “una rivoluzione silenziosa”: in realtà, più che di una rivoluzione occorre parlare di un processo virtuoso che si nutre di innovazioni dall’alto e dal basso in cui principali ingredienti risiedono nella compensazione statale, che viene garantita ai comuni che hanno aderito alle associazioni volontarie rinunciando a cospicue entrate fiscali, ma anche nella consapevolezza che si è fatta strada a livello locale in merito ai vantaggi della cooperazione: messa in coerenza delle scelte insediative e condivisione dei rischi in epoca di crescente competizione globale e di volatilità delle imprese.

L'auspicio forse più importante è quello che il 12 dicembre il movimento dei lavoratori e l'Onda trovino il loro punto di saldatura. Una congiunzione che sarebbe importante e che potrebbe davvero segnare un nuovo inizio, una nuova stagione di lotte. L'augurio lo ribadisce Oscar Mancini della segreteria regionale della Cgil Veneto a un convegno che è già per volti versi una novità rispetto al modo di porsi tradizionale del sindacato. «Città come bene comune» si intitola. E le parole che compongono quel titolo sono mutuate dal linguaggio nuovo dei nuovi movimenti. Certo il sindacato, o una parte di esso, quei movimenti (o alcuni di quei movimenti) li ha attraversati e insieme ci ha pure lavorato, basti pensare alla Fiom in val Susa nella lotta contro il Tav ma anche alla Cgil (una parte e spesso con più di un mal di pancia) a Vicenza, nel movimento contro il Dal Molin.

Ieri invece a Venezia si parlava di città. Mancini spiega che l'incontro nasce come naturale proseguimento del social forum europeo di Malmo, soltanto un paio di mesi fa. Due mesi in cui però è accaduto di tutto, «dall'irrompere di una inedita crisi finanziaria globale, all'elezione di un afroamericano alla presidenza degli Stati uniti, alla ripresa in Italia di un movimento di lotta contro la politica del governo e della Confindustria». Da Malmo era uscito un documento conclusivo in cui si gettavano le basi di un costituendo forum per il diritto alla città. Ieri la Cgil Veneto ha voluto dare il suo contributo. Eddy Salzano ha declinato le tre parole, città, bene, comune. E lo ha fatto mutuando molte delle considerazioni uscite in questi anni di lavoro nelle assemblee di movimento. Città, ha detto Salzano, come casa di una comunità. «La città è un bene - ha aggiunto Salzano - e non una merce e la distinzione fra questi due termini è essenziale per sopravvivere nella moderna società capitalistica». Infine comune, «che non vuol dire pubblico ma che vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà». Salzano individua tre direttrici per «resistere, reagire e iniziare a preparare una città diversa da quella che il capitalismo dei nostri tempi ci prepara. Lavorare sulle idee, sostenere e incoraggiare azioni dal basso per difendere i beni comuni, individuare e proporre esempi positivo che dimostrino che una città diversa è possibile». Sugli esempi si sofferma Mancini, che ricorda le esperienze dei tanti movimenti di questi ultimi anni. Dal no Tav al no Mose al no Dal Molin. «L'accesso alla casa per tutti - ha detto Mancini - e il diritto alla città per tutti sono temi controcorrente. Dobbiamo riconoscere che a fronte di una capacità dei movimenti di mettersi in rete non corrisponde ancora pienamente una capacità del movimento sindacale territoriale di porsi in una relazione feconda con essi».

Presto in eddyburg i materiali del convegno

qui il testo italiano

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Premessa

Al Forum sociale europeo di Malmö, negli incontri organizzati dal gruppo italiano insieme ad associazioni e gruppi francesi, svedesi, ungheresi e turchi, si è parlato di città. La discussione ha visto la partecipazione di persone anche di altri paesi e ha attraversato il forum dei movimenti di lotta urbana e il forum sociale conclusivo. Non vi è stata solo la presentazione di situazioni di disagio e di esperienze di lotta per una città migliore: è stata anche l’occasione per lanciare una serie di iniziative unitarie che mettano in rete le diverse realtà.

Diritto alla città” e “città come bene comune” sono le due parole d’ordine che sintetizzano gli obiettivi cui finalizzare l’impegno comune. “Zero sfratti” degli abitanti dalle case, dagli spazi pubblici, dai quartieri e dalla città, difesa del ruolo del lavoro e dei suoi diritti, contrasto alle iniziative di privatizzazione degli spazi e dei beni pubblici sono gi impegni di lotta più immediati. Ma è stato considerato altrettanto indispensabile aiutare i movimenti a dirigere la loro attenzione dal locale al nazionale e al globale, dal settoriale al generale: la strategia del neoliberalismo è unitaria e si colloca a differenti scale, bisogna perciò saper costruire una strategia alternativa e utilizzare tutti i livelli in cui si colloca quella che si vuole combattere.

Uno strumento decisivo è stato considerato la messa in comune delle risorse, per sostenere le lotte e per far convergere gli sforzi di elaborazione necessari per dare uno sbocco positivo ai movimenti per una città giusta e solidale. Un manifesto/appello chiede l’adesione a questo progetto comune di tutte le associazioni, strutture, gruppi, esperti e singoli cittadini che ne condividano le finalità e che siano disposti a condividerne gli impegni.

Ne riportiamo di seguito il testo, già condiviso da eddyburg.it, la rete delle Camere del lavoro della Cgil (Bologna, Ferrara, Modna, Reggio Emilia, Venezia, Vicenza), l'associazione Lavoro in cammino, l'International Alliance of Inhabitants (IAI), Initiatives Pour un Autre Monde (IPAM) e Association Internationale de Techniciens, Expert set Chercheurs (AITEC).

Il documento, tradotto in varie lingue, è inviato a tutte le associazioni, gruppi e individui che hanno partecipato - al Forum Sociale - alle iniziative sulla città. Sarà possibile seguire lo svolgimento delle attività inerenti la costituzione di questo nuovo Forum per il diritto alla città sulla pagina dell’'ESF

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IL DOCUMENTO CONCLUSIVO

Verso un forum permanente per il diritto alla città

1. La città nel neoliberalismo

1.1 – L’analisi conferma che in ogni parte d’Europa (dall’Est al Centro e all’Ovest, dal Nord al Sud) il neoliberalismo sta producendo ovunque gli stessi effetti sulla città e sulla condizione urbana. La segregazione, la gentrificazione, la distruzione dei patrimoni comuni e dei quartieri popolari, la privatizzazione degli spazi pubblici, lo sfruttamento economico dei beni culturali crescono di giorno in giorno. Le conquiste del welfare state nelle città è messo in discussione: è il caso del diritto alla casa, della gratuità dei servizi pubblici per l’infanzia e per salute e così via. La condizione delle fasce più deboli è sempre peggiore.

1.2 – Il lavoro è parcellizzato, precarizzato, sradicato. I diritti conquistati in due secoli di lotte operaie sono negati, i salari decrescono: si gioca la concorrenza della mano d’opera dell’Est e del Sud del mondo per ridurre i salari, ma i prezzi delle merci sono ovunque quelli del mondo dei ricchi. Il lavoro diventa sempre più una variabile totalmente subordinata alla produzione di ricchezza per i più ricchi.

1.3 – Per il neoliberalismo la città è una merce, i cittadini sono dei clienti. I diritti politici si affievoliscono, la partecipazione è sostituita dalla propaganda dall’alto. Il diritto di critica è minacciato quanto l’accesso all’informazione. Il destino della città è deciso dai centri di potere della globalizzazione economica. Lo spazio urbano è disseminato da infrastrutture dell’economia globale: sedi delle grandi imprese, complessi alberghieri, centri congressi, banche internazionali; questi feudi dell’economia-mondo formano una città nella città, autonoma e dominatrice.

2. Qualche principio

2.1 – S’impone una visione olistica dei problemi. Il neoliberalismo impone la sua strategia configurando l’insieme della società e della città. Le differenti questioni della condizione urbana (espulsione, segregazione, gentrificazione, privatizzazione ecc.) sono i differenti aspetti d’una medesima strategia. Il campo di riflessione e azione che voglia affrancare la città dal destino che il neoliberalismo gli prepara deve essere la città nel suo insieme.

2.2 – La città non è una merce: la città è un bene comune. La città che vogliamo si fa carico delle esigenze e dei bisogni di tutti gli abitanti, a partire dai più deboli. Dobbiamo poter assicurare a tutti un alloggio ad un prezzo commisurato al loro reddito. Dobbiamo poter garantire a tutti l’accessibilità confortevole ai luoghi di lavoro e ai servizi comuni. Questi sono aperti a tutti gli abitanti quale che sia il loro reddito, l’etnia, la cultura, l’età, la condizione sociale, la religione, l’appartenenza politica.

2.3 – La politica cittadina è responsabilità dei cittadini. La città che vogliamo è il luogo d’una vera democrazia, non solo rappresentativa ma anche associativa. È attorno al potere municipale che s’intessono le reti delle persone e delle associazioni che formano la trama socio-spaziale della città. L’urbanistica e la pianificazione assumono il ruolo principale. Hanno come compito di produrre la città: lo spazio nel quale i cittadini s’identificano e il sistema di distribuzione dei vantaggi a quelli che ne hanno il più evidente bisogno. Quelli che provengono dai quartieri più sfavoriti sono quelli che hanno il diritto all’attrezzatura migliore, agli spazi pubblici più largamente dimensionati, allo sforzo più intenso per il miglioramento degli alloggi. La città deve essere pensata e organizzata per il bene del maggior numero degli abitanti, controcorrente rispetto alla logica urbana che ci viene presentata come naturale: quella dell’accaparramento della città da parte dei più abbienti o dei più intraprendenti.

2.4 – Nella città le esigenze dell’urbanità e quelle del lavoro trovano un terreno di sintesi. La città deve essere il luogo dove si sperimentano e si praticano le possibilità d’una economia alternativa a quella del neoliberalismo,un’economia che abbandoni lo spreco delle risorse, che sappia distinguere tra i consumi necessari al benessere delle persone e quelli imposti dalla produzione, che sappia promuovere l’uso dei prodotti del territorio, che valorizzi le applicazioni del lavoro alle funzioni necessarie allo sviluppo della personalità, all’accrescimento della capacità di comprendere, di partecipare, di godere.

3. Che fare

3.1 - In tutte le città d’Europa agiscono movimenti che lottano contro l’espulsione degli abitanti dalle case e dai quartieri dove vivono, contro la privatizzazione degli spazi e dei servizi pubblici e per il loro accrescimento, contro la distruzione e la commercializzazione del patrimonio urbano. È un punto di partenza: bisogna collegare tra loro questi movimenti, aiutarli a prendere coscienza dello spessore delle questioni e dei legami con tutti gli altri aspetti della strategia neoliberale, nonché di condividere obiettivi e strumenti.

3.2 – Finalità delle azioni concrete alla quale le nostre associazioni s’impegnano e a cui chiediamo alle altre associazioni, strutture, gruppi, esperti e singoli cittadini di associarsi è quella di combattere, nell’immediato, l’espulsione degli abitanti dagli alloggi, dagli spazi pubblici, dai quartieri centrali, dal lavoro, e di conquistare per tutti gli abitanti il diritto di cittadini.

3.3 – Ma al tempo stesso ci proponiamo di lavorare per svelare le connessioni tra le parti e il tutto. La nostra attenzione deve andare dal locale al nazionale e al globale, dal settoriale al generale. La strategia del neoliberalismo si colloca a differenti scale: bisogna perciò divenire capaci di utilizzare tutti i livelli in cui si colloca la strategia che si vuole combattere.

3.4 – Per iniziare, ci impegniamo (e chiamiamo gli altri a farlo):

- a presentare le reti e le organizzazioni esistenti che condividono i nostri obiettivi, stabilendo legami tra loro

- a indicare le risorse che ogni organizzazione può condividere con le altre o può mettere a loro disposizione;

- a sottolineare le azioni locali o nazionali che hanno bisogno di un aiuto internazionale;

- a presentare le diverse forme di azione che possono essere efficaci;

- a organizzare iniziative di rilievo europeo.

4. Come fare

4.0 – Tre direzioni di lavoro possono essere perseguite in parallelo: l’importante è decider chi si fa carico di ciascuna di esse e chi collabora.

4.1 – Costituire un coordinamento efficace per un lavoro che possa continuare nel tempo; abbiamo deciso in proposito di:

- costituire subito un forum permanente, utilizzando il sito web ESF e connettervi tutte le risorse informatiche disponibili; una mailing list, da realizzare nell’immediato, sarà aggiornata sistematicamente;

- organizzare, nel giro di sei mesi, un laboratorio che abbia come obiettivo di fare un bilancio delle attività messe in comune e di definire una strategia più globale (progettare e realizzare la città quale la vogliamo).

4.2 – Ampliare il numero delle persone, delle associazioni, dei gruppi che condividono i nostri obiettivi. Ci impegniamo, a questo proposito, ad organizzare in tutte le città d’Europa in cui sarà possibile farlo una settimana di dibattiti sui nostri temi, in accordo e collegamento con le iniziative già lanciate dalla International Alliance of Inhabitants, con No Vox International e con Habitat International Coalition. Proponiamo anche che il 24, 25 e 26 novembre, giorni dell’incontro informale dei ministri europei per la casa e la città a Marsiglia, sia un giorno di mobilitazione in ogni paese.

4.3 – Organizzare la presenza dei nostri temi, analisi, denunce, iniziative sulla stampa internazionale e negli eventi internazionali.

Malmoe, 20 settembre 2008

CONCLUSIONS

Towards a forum for the right to the city

1. The city in the midst of neoliberalism

1.1 – Analysis confirms that in Europe (from Eastern to Central and in the West, from North to South), neoliberalism is having the same effects on cities and living conditions everywhere. Segregation, gentrification, destruction of common heritage sites and popular quarters, privatization of public land, and economical exploitation of cultural heritage are on the rise daily. The victories of the Welfare State in the city are back in doubt: for example, the right to housing and to free public health and childcare services. The situation of low-income households is getting worse.

1.2 – Work is fragmented, precarious and scarce. Rights won thanks to two centuries’ worth of militating laborers are denied, salaries are going down: laborers in the East and South are being played off against each other while prices are set by the wealthy. Work is becoming more and more of a variable completely subordinate to the production of riches for the richest.

1.3 – For neoliberalism, cities are merchandise; their citizens-users, consumers. Political rights are losing their strength; propaganda from high up has replaced participation. The right to free speech is threatened, as is access to information. The fate of a city is determined by the strength of economical globalization. Urban areas are scattered with implants of global economy: home offices of major companies, hotels, congress centres, international banks; these holdings of the world economy make an autonomous and dominant “city within a city”.

2. A few principles

2.1 An holistic view is essential. Neoliberalism is forcing itself on all of society and the city. The various issues of the urban condition (evictions, segregation, gentrification, privatization, etc.) are different facets of the same strategy. The whole of the city must be involved if it is to escape the fate that neoliberalism seeks to impose upon it.

2.2 – A city is not a consumable good: a city is common property. The city we want takes into consideration the needs and demands of all its citizens, starting with the weakest. We must be able to offer housing at an affordable rent for every income. We must be able to guarantee everyone comfortable access to workplaces and public services. These should be available to every inhabitant, regardless of income, origin, culture, age, social class, religion, or political leanings.

2.3 – The policy of a city is the responsibility of its inhabitants. The city, as we envision it, is a place of true democracy, not only representative but associative. The networks of people and of associations that make up the socio-spatial web of the city must be built around the municipal power. Urban development comes first. It must create the city: a space the citizens can identify with, as well as a sytem of distribution of advantages to those most in need. The residents of disadvantaged neighbourhoods are those who have the most right to the most advanced equipment, the largest public areas, and the greatest effort to improve housing conditions. The city must be conceptualized and thought out with the good of the majority in mind, as opposed to the present urban logic: that by which the city is seized by the wealthiest and most resourceful.

2.4 – In the city, the demands of urban living and work find common ground. The city should be the place where an alternative to neoliberalism can be tested and practiced: an economy which doesn’t waste resources, which can distinguish necessary goods from those imposed by producers, which promotes local produce, which values those applications of work necessary to personal growth, and to increasing the ability to understand, participate, and enjoy.

3. What must be done?

3.1 In all European cities movements are fighting against eviction of inhabitants from their homes and neighborhood against privatization of land and public services and for their further development, as well as against the destruction and commercialization of urban heritage sites. That is the starting point: these organizations should be united and share goals and means, as well as be aware of the difficulty of the issues and links with all facets of the neoliberalstrategy.

3.2 The goal of all concrete actions of our associations is to resist eviction from homes, public spaces, central neighbourhoods, and work, and to win citizens’ rights for all inhabitants.

3.3 However, at the same time, we wish to work to reveal the links between the parts and the whole. Our attention is fixed on the local to the national and the global, from the sectorial to the general. The neoliberal strategy operates on different scales: it is therefore imperative to be able to combat it on all scales.

3.4 To begin with, we plan to (and we invite all others to join in that goal):

- introduce the organizations and networks that share our aims, to each other, to facilitate cooperation and participation between them;

- indicate the resources each can share with the others and make these resources available to all;

- highlight the local or national actions that would be in need of international assistance;

- present different forms of action which could be effective;

- organize pan-European initiatives.

4. How to do it?

4.0 - Three directions can be taken at once: the important thing is to decide who should head each and who should collaborate.

4.1 – Begin an effective effort that can continue indefinitely:

- a permanent forum on the ESF site which will list all available computer resources; a mailing list, to be assembled immediately, will be updated systematically;

- in 6 months, a workshop will take place to evaluate common activities and to decide on a global strategy (conceptualize and create cities as we imagine them).

4.2 – Increase the number of people, associatons, and groups that share our aims. We take it upon ourselves, in that regard, to organize in all European cities where it will prove possible, a week of debates on our themes, in accord and communication with all initatives already started by the IAI, with No Vox International and with HIC. We suggest as well that the 24, 25 or 26 of November be a day of mobilization in every country (these are the days of the informal meeting between the European ministers of housing in Marseilles.

4.4 – Arrange the mention of our themes, analyses, claims, and ventures in the international press and at international events.

Malmoe, September 20th 2008

DOCUMENT CONCLUSIF

Vers un forum pour le droit à la ville

1. La ville dans le néoliberalisme

1.1 - L’analyse confirme qu’en Europe (de l’Est au Centre et à l’Ouest, du Nord au Sud), le néoliberalisme est en train de produire partout les mêmes effets sur la ville et sur les conditions d’habitat. La ségregation, la gentrification, la destruction des patrimoines communs et des quartiers populaires, la privatisation des espaces publics, l’exploitation économique de l’héritage s’accroissent de jour en jour. Les conquêtes de l’Etat providence dans la ville sont mises en doute: c’est le cas du droit au logement, de la gratuité des services publics de la petite enfance et de santé par exemple. La situation des ménages aux plus faibles revenus empire.

1.3 – Le travail est parcellisé, précarisé, déraciné. Les droits conquis au cours des deux siècles de luttes ouvrières sont niés, les salaires baissent: on joue la concurrence de la main d’oeuvre de l’Est et du Sud du monde tandis que les prix des marchandises sont fixés par les riches. Le travail est en train de devenir – et ce, de plus en plus - une variable totalement subordonnée à la production de richesse pour les plus riches.

1.2 - Pour le néoliberalisme, la ville est une marchandise, les citoyens-usagers sont devenus des clients-consommateurs. Les droits politiques s’affaiblissent ; à la place de la participation, c’est la propagande par le haut. Le droit de critique est menacé autant que l’accès à l’information. Le destin de la ville est décidé par le pouvoir de la globalisation économique. L’espace urbain est parsemé d’implantations de l’économie mondiale: sièges de grandes entreprises, complexes hôteliers, centres de congrès, banques internationales; ces fiefs de l’économie-monde forment une ville-dans-la-ville, autonome et dominatrice.

2. Quelques principes

2.1 Une vision holistique des problèmes s’impose. Le néoliberalisme impose sa stratégie à l’ensemble de la société et de la ville. Les différentes questions de la condition urbaine (expulsion, ségrégation, gentrification, privatisation etc.) sont les différents aspects d’une même stratégie. Le champ de réflexion et d’action d’une stratégie voulant affranchir la ville du destin que le néoliberalisme lui prépare doit être l’ensemble de la ville.

2.2 La ville n’est pas une marchandise: la ville est un bien commun. La ville que nous voulons part des exigences et des besoins de tous les habitants, à partir des plus faibles. Nous devons pouvoir assurer à tous un logement à un loyer à la mesure de son revenu. Nous devons pouvoir garantir à tous une accessibilité confortable aux lieux du travail et aux services communs. Ceux-ci sont ouverts à tous les habitants, quels que soient leur revenu, leur origine, leur culture, leur âge, leur condition sociale, leur religion, leur appartenence politique.

2.3 – La politique de la ville relève de la responsabilité des citoyens. La ville, telle que nous la voulons, est le lieu d’une réelle démocratie non seulement représentative mais aussi associative. C’est autour du pouvoir municipal que doivent se tisser les réseaux de personnes et d’associations qui forment la trame socio-spatiale de la cité. L’urbanisme et l’aménagement prennent la première place. Ils sont en charge de produire la ville: l’espace auquel s’identifient les citoyens en même temps que le système d’attribution d’avantages à ceux qui en ont le besoin le plus évident. Les ressortissants des quartiers les plus défavorisés sont ceux qui peuvent prétendre à l’équipement le plus perfectionné, aux espaces publics le plus largement dimensionnés, à l’effort le plus intense en matière d’amélioration des logements. La ville est à penser et à organiser pour le bien du plus grand nombre, à contre courant de la logique urbaine que l’on nous présente comme naturelle: celle de l’accaparement de la ville par les mieux nantis ou les plus débrouillards.

2.4 Dans la ville les exigences de l’urbanité et les exigences du travail trouvent un terrain d’entente. La ville doit être le lieu où l’on expérimente et où l’on pratique les possibilités d’une économie alternative à celle du néolibéralisme: une économie qui abandonne le gaspillage des ressources, qui sache distinguer entre les consommations nécessaires au bien-être des personnes et celles imposées par les producteurs, qui sache promouvoir l’usage des produits du marché local, qui valorise les applications du travail aux fonctions nécessaires à l’épanouissement des personnalités, à l’accroissement de la capacité de comprendre, de participer, de jouir.

3. Que faire ?

3.1 Dans toutes les villes d’Europe agissent des mouvements qui luttent contre l’expulsion des habitants du logement et du quartier où ils vivent, contre la privatisation des espaces et des services publics et pour leur développement, contre la destruction et la commercialisation du patrimoine urbain. C’est là un point de départ: il faut relier ces mouvements, prendre conscience de l’épaisseur des questions et des liaisons avec tous les autre aspects de la stratégie néolibérale, partager objectifs et outils.

3.2 Le but des actions concrètes que nos associations engagent, et auxquelles nous invitons d’autres associations, structures, groupes, experts et citoyens à se joindre, est celui de combattre, dans l’immédiat, les expulsions des logements, des espaces publics, des quartiers centraux, du travail, et de conquérir pour tous les habitants les droits de citoyens.

3.3 Mais en même temps nous nous proposons de travailler pour dévoiler les connections entre les parties et le tout. Notre attention doit aller du local au national et au global, du sectoriel au général. La stratégie du néoliberalisme se situe à différentes échelles: il faut donc se donner les moyes d’utiliser toutes les échelles où se situe la stratégie qu’on veut combattre.

3.4 Pour commencer, nous nous engageons (et nous appelons les autres à le faire):

- à présenter les réseaux et les organisations qui partagent nos objectifs, à faciliter le développement de liens entre eux;

- à indiquer les ressources que chaque organisation peut partager avec les autres et mettre à la disposition de tous;

- à souligner les actions locales ou nationales qui ont besoin d’une aide internationale;

- à presenter les différentes formes d’action qui peuvent être efficaces ;

- à organiser des initiatives d’envergure européenne.

4. Comment faire ?

4.0 – Trois directions de travail peuvent être poursuivies en parallèle: l’important est de décider qui prend en charge chacune d’elles et qui y collabore.

4.1 – Mettre en place un travail efficace qui puisse continuer dans le temps: nous décidons de :

- constituer tout de suite un forum permanent qui utilise le site ESF et y inscrive toutes les ressources informatiques disponibles ; une mailing list, à réaliser dans l’immédiat, sera systématiquement mise à jour;

- organiser, dans six mois, un atelier qui ait pour but de faire le bilan des activités mises en commun et de définir une stratégie plus globale (projeter et réaliser la ville telle que nous la voulons).

4.2 – Elargir le nombre de personnes, d’associations, de groupes qui partagent nos objectifs. Nous nous engageons, à ce propos, à organiser, dans toutes les villes d’Europes où cela sera possible, une semaine de débats sur nos thèmes, en accord et en liaison avec les initiatives déjà lancées par l’Alliance internationale des habitants, avec No Vox International et avec HIC. Nous proposons également que les 24, 25 ou 26 novembre, jours de la rencontre informelle des ministres européens du logement et de la ville à Marseille, soit un jour de mobilisation dans chaque pays.

4.3 – Organiser la présence de nos thèmes, analyses, revendications, initiatives dans la presse internationale et dans les événements internationaux.

Malmoe, 20 septembre 2008

Mi è stato chiesto di riflettere con voi sul difficile rapporto tra i bambini e la città contemporanea; sulle ragioni che la rendono invivibile per loro, come del resto per molte altre categorie sociali ‘deboli’, e su cosa fare per rendere il contesto urbano un luogo del ben-essere per tutti e della con-vivenza.

In effetti, i bambini rappresentano una sintesi sia delle debolezze sociali che toccano in vari modi altre categorie di cittadini sia delle intolleranze che i gruppi dominanti manifestano nei confronti del ‘diverso’ .

Come ampiamente dimostrato dagli studi Piagetiani in avanti, la condizione infantile è caratterizzata da limiti (seppur temporanei) di tipo percettivo, motorio e cognitivo dovuti alla gradualità dello sviluppo di certe facoltà psico-fisiche. Ciò li rende tanto vulnerabili ad una città organizzata intorno al sistema del trasporto automobilistico privato di massa quanto altri soggetti portatori di vari handicap; non controllano per niente, o male, mezzi comunicativi quali il linguaggio, la lettura e la scrittura, come molti soggetti che giungono nel paese/città di immigrazione parlando solo la propria lingua o dialetto e come le persone semi-analfabete di ritorno; sono guardati come ‘diversi’ e considerati ‘indesiderati’ o ‘fuori posto’ in molti spazi pubblici, allo stesso modo dei mendicanti e degli homeless (negli USA ci sono ristoranti che esibiscono il cartello “ingresso vietato ai cani e ai bambini”, mentre i mendicanti sono tenuti alla larga mettendo i lucchetti ai bidoni della spazzatura per evitare ai clienti la ‘disgustosa’ scena del frugale pasto a base di avanzi recuperati); e perfino laddove lo spazio pubblico sembrerebbe orientato ad accoglierli, le recinzioni entro le quali è loro consentito muoversi e giocare fanno più pensare a strategie di contenimento, come quelle riservate ai cani (trovo singolare che nei giardini e parchi urbani ci siano comunque più recinti per bambini che per cani: non dovrebbe essere il contrario?). In effetti, non ha torto la madre di una bambina che ho intervistato, quando afferma indignata che: “sono più considerati i cani dei bambini”. Della recinzione come atto violento, finalizzato al contenimento dei poveri ci parla anche nel suo intervento l’urbanista Paola Somma e tornerò tra breve sul tema.

Nelle nostre città adultocentriche, tutto quello che disturba ciò che è stato definito il “normale ordine del consumo” e che viene percepito come un rischio genera intolleranza e panico. Sui mezzi pubblici, l’arrembaggio di un gruppo di ragazzini un po’ chiassosi è visto con profonda irritazione o timore dai passeggeri adulti, e soprattutto anziani, e in strade pedonali dello shopping quali la storica via Garibaldi a Torino, se i vigili urbani colgono in flagrante due ragazzini a giocare a pallone, gli sequestrano il ‘corpo del reato’, essendo vietato dal regolamento urbano giocare a palla per strada, mentre giocare a spruzzarsi addosso l’acqua della fontana di Piazza Statuto è costato ad un altro bambino che ho intervistato un calcio nel sedere da parte di un passante. Stesso discorso proibizionista vale per i ragazzini che usano gli skate-boards, in una teoricamente felice combinazione di gioco e mezzo di trasporto, e che vengono invece sanzionati dagli agenti del traffico..

Molte delle giustificazioni degli adulti e delle istituzioni alle misure di contenimento sopra esemplificate (così come molte altre, quali l’accompagnamento sistematico, preferibilmente in auto, dei bambini a scuola e alle attività extra-scolastiche sempre sotto il controllo di adulti, oppure la predilezione per la TV e il Videogame ‘baby-sitter’ entro le protettive mura domestiche) suonano poco convincenti se non addirittura false. Tipico esempio di ciò che il sociologo norvegese Johan Galtung, autorevole studioso di conflitti e di non violenza, chiama ‘violenza culturale’. Così come il proibire l’uso della strada ai bambini o il centellinare risorse pubbliche alla riqualificazione dei quartieri degradati rappresentano esempi calzanti di violenza ‘strutturale’

Ritengo che i primi due insiemi di parole-chiave proposti da Ilaria Boniburini come traccia concettuale da seguire per analizzare la invivibilità urbana collimino perfettamente con quanto sto provando ad argomentare attraverso le teorie galtunghiane .

La triade ‘povertà, disagio, degrado’, riassume adeguatamente l’esito della ‘violenza strutturale’ , intesa come quella violenza che non necessariamente è causata dall’azione ‘diretta’ di una persona ma che è invece “insita nella struttura e manifestatesi sotto forma di potere diseguale e, di conseguenza, di disuguali opportunità di vita” (Galtung, 1969, p. 114). E’ quella che fa dire ad una madre nera di un quartiere-ghetto di Chicago: “qui non ci sono bambini. Hanno visto troppo per essere bambini” (Forni, 2002, p.96).

La seconda triade di parole-chiave cui si riferisce Ilaria Boniburini - linguaggio, discorso, potere – introduce alla perfezione il concetto di violenza ‘culturale’, intesa come “quegli aspetti della cultura…che servono a giustificare e legittimare la violenza diretta e la violenza strutturale” (Galtung, 1990, p.291).

La città contemporanea viene insomma associata ad arte al senso di insicurezza e paura provocato dalla microcriminalità presentata come dilagante e spietata, anche quando i dati ufficiali indicano trend decrescenti dei delitti più gravi. Le conseguenti politiche di contenimento, recinzione e repressione vengono giustificate come necessarie ed efficaci, quando invece hanno ben poca forza deterrente e non fanno altro che riempire all’inverosimile le carceri di disgraziati senza speranza di riscatto sociale, una volta scontata la pena.

La ‘cultura della paura’ ha dunque la capacità di dirottare l’attenzione e la preoccupazione dell’opinione pubblica lontano dalle vere cause dell’ insicurezza e della invivibilità urbana, evitando conflitti sociali intollerabili per l’ordine economico dominante e perdita di consenso da parte dei gruppi politici espressi da tali forze economiche.

La società flessibile o ‘liquida’, per usare l’ormai famosa espressione coniata da Zigmunt Bauman, prodotta dalla violenza strutturale di un liberismo senza freni e senso etico, ha infatti tolto a molti la certezza di poter contare sia su un lavoro sicuro e giustamente remunerato sia su una con-vivenza urbana degna di questo nome. Ciò che da sempre ha segnato la superiorità della città rispetto ad altre forme di occupazione territoriale è stato la sua varietà, di persone, attività, luoghi. È il concetto di città ‘open minded’ , che rimanda alla dimensione pubblica dello spazio urbano, al sistema delle piazze e delle vie che tali piazze connettevano, in una trama che includeva tutti e che faceva vivere di profonda umanità e bellezza anche i luoghi più lontani dal centro storico.

La città fordista e poi il suo declino, lo sprawl urbano e la crisi attuale, sono le tappe che hanno segnato il declino di quel modello. Ed è così che oggi i centri urbani , piccoli e grandi, sempre più divisi tra zone affluenti e zone emarginate, svenduti alla speculazione immobiliare in cambio del piatto di lenticchie degli oneri di urbanizzazione e sempre più ossessionati da esagerate paure, stanno svendendo il basilare principio della democrazia: la con-vivenza .

Anche la necessità di cambiare radicalmente modello di sviluppo, o addirittura di adottare i principii della ‘decrescita serena’ proposti da Serge Latouche (2008) per evitare la catastrofe ambientale, viene continuamente affermata senza però che Città, Regioni e Stato prendano misure veramente adeguate all’urgenza del caso.

In compenso, si continua ciclicamente a denunciare la invivibilità delle nostre città prodotta da vecchi e nuovi capri espiatori, facili da additare e demonizzare : prostitute, zingari, homeless, tossicodipendenti e spacciatori, baby-gangs, pedofili, immigrati, etc. E tanto più basso il livello culturale, sociale ed economico di una società che produce crescenti disuguaglianze, nuove povertà e ingiustizie, tanto maggiore sarà l’efficacia della violenza culturale. Quella violenza che viene esercitata quando, ad esempio, si giustifica la schedatura delle impronte digitali dei soli bambini zingari (guarda caso) per, si dice, tutelarli rispetto a violenze ed abusi.

C’è un libro recentemente pubblicato, La città fragile (Rosso e Taricco, 2008), i cui interpreti rientrano tutti senza scampo nella categoria che i sociologi hanno denominato del capro espiatorio, o ‘nemico appropriato’. Nel leggerlo ho pensato a Georges Pelecanos, il famoso giallista, che in una recente intervista ci ammoniva a “non guardare mai dall’alto in basso un uomo, a meno che tu non lo stia aiutando a rialzarsi”.

Ed è esattamente questo che gli autori hanno fatto con prostitute, zingari, senza fissa dimora di una città italiana come tante, Torino: li hanno aiutati a rialzarsi per farceli incontrare, guardare negli occhi (magari anche in quelli strappati dalle orbite e messi sott’alcool dell’albanese Munira), riconoscere come non-altri rispetto a noi, ossia come persone. Sono loro i più appropriati ad incarnare i nostri ‘nemici’ perché sono indifendibili e ingiustificabili. Minacciano i nostri valori, la nostra sicurezza quotidiana prodotta dai comportamenti devianti, predatori, immorali che ci infliggono quasi mai direttamente, più spesso per sentito dire dal vicino di casa, dal collega di lavoro o dall’amico, dalla televisione. E sono comportamenti ingiustificabili, in quanto, si pensa, dettati sostanzialmente dal rifiuto di integrarsi e ‘rimboccarsi le maniche’ in una società come la nostra dove il mito del self-made man integerrimo continua ad avere la sua presa e si alimenta delle ceneri del Welfare State. A poco servono i richiami dei sociologi alla ben più costosa (per la collettività) criminalità detta dei ‘colletti bianchi’(vedi il caso Parmalat o le morti sul lavoro) o di rari illuminati amministratori pubblici sul rischio di strumentalizzazione politica di queste paure per mantenere o conquistare consensi elettorali facili. Di fronte alla forza mediatica e alla strumentalizzazione politica del disagio generalizzato, prodotto da un futuro economico, sociale ambientale sempre più incerto, è difficile far passare argomenti convincenti sugli interventi complessi su scala urbana necessari per contrastare più efficacemente la micro-criminalità.

Le micro-storie narrate in prima persona dai loro protagonisti ci aiutano anche ad entrare in quei vuoti urbani che generalmente temiamo di avvicinare e che troviamo ben descritti attraverso l’efficace metafora della lettura della mano, della quale le donne zingare sono grandi esperte:

Noi li chiamiamo zingari, e con lo stesso disprezzo loro ci chiamano gaje. Secondo loro, sulla mano c’è tutto, strade e sentieri. Ogni mano è una mappa e racconta una storia. Immaginate che la linea della vita sia una tangenziale su cui corrono i TIR. Di fronte, cè una via che comincia e finisce nel nulla: via della Fortuna. Siamo al confine tra una piccola e una grande città. La periferia della prima - il quartiere Promontorio – si trova sul rilievo tra il pollice e la tangenziale . Nel palmo, un pianoro con capannoni industriali, posteggi, ipermercati, stadio e supercarcere. Sul polso volano gabbiani. Sotto, c’è una grande discarica. Fra la tangenziale e la via della Fortuna, proprio dove corre il confine, c’è uno spiazo d’asfalto ed erba stentata, ove si vedono uomini, fili da stendere, auto scrostate, sedie da campeggio, stufe a legna, poltrone sfondate e roulotte disposte a ferro di cavallo. I rom sono lì: a tre km dal supercarcere , dove hanno certamente un cugino, a due dallo stadio, dove prendono l’acqua e a meno di uno dalla grande discarica, che per loro è una specie di hard discount” (Ibid., p.12).

Il modo semplice e diretto adottato per entrare a contatto con questo mondo altro-da-noi, è il ‘viaggio’ in tram, dall’atollo lucente del centro urbano, gentrificato e videosorvegliato al capolinea perso nel nulla. Ma il capolinea di questo testo, scarno e denso insieme, è tutt’altro che un punto di arrivo: apre scenari, ci aiuta a sperimentare uno sguardo diverso su un mondo che ci spaventa anche perché dentro di noi sappiamo quanto sottile e rapida da oltrepassare sia la ‘linea d’ombra’ oltre la quale il nostro ‘esserci nel mondo’ potrebbe subire quella “crisi della presenza” di cui parlava Ernesto De Martino e che riprenderò tra breve. A ricordarcelo è l’uomo senza casa e senza nome, soprannominato Sandokan, che ci congeda dall’ultimo racconto (non a caso intitolato Senza) . Lo trovarono morto assiderato su una panchina dove si era fermato una notte per riposarsi dicendo a sé stesso :”Due minuti, non uno di più. Invece si assopì”.

Ma forse la città fragile può nascondere anche qualità preziose e insostituibili, come ci suggerisce Patrick Chamoiseau : “Texaco era ciò che la città conservava dell’umanità della campagna. E l’umanità è quel che c’è di più prezioso per una città. E di più fragile” (Chamoiseau, 1994, p.287). Per provare allora a descrivere la città vivibile che abbiamo perduto e che dovremmo ricreare, e con ciò affrontare il terzo e ultimo insieme di parole-chiave: benessere, vivibilità, urbanité , mi verranno in aiuto altri frammenti di testi. Li ho scelti tra autori che, pur avendo affrontato il tema da differenti punti di vista disciplinari e generi di scrittura –antropologico, letterario, urbanistico, architettonico, psicanalitico - esprimono a mio parere visioni stupendamente accattivanti del benessere prodotto dal con-vivere lo spazio , e in particolare da tre aspetti che ritengo essenziali : l’appaesamento, la sacralità e la bellezza.

Ciò che fa sentire al riparo dalla crisi del ‘non esserci nel mondo’ è parte di quello che è stato chiamato da Leroi-Gourhan ‘appaesamento’ (1977):

“La pratica dell’appaesamento, vale a dire il processo di modellamento dello spazio della vita, è per la specie umana un processo fondamentale, radicale proprio nel senso di costitutivo di radici” (Signorelli, 1983).

Lo individuiamo grazie agli abitanti del Rione Terra nel centro storico di Pozzuoli, evacuati (o deportati?) a Monterusciello :

Le porte del Rione Terra erano sempre aperte e ci stavano un sacco di entrate! Il Rione Terra era fatto come…un monte” Signorelli, 1989, p.18)

Mia nonna aveva la casa proprio vicino al Tempio di Se rapide, ci stava un fabbricato con la finestrella e lei mi spiegava che anticamente c’era il mercato degli schiavi….che poi là vedevi pure gente che passeggiava e si riunivano pure i vecchierelli, che si facevano la chiacchierata (Antonio C,, 27 anni, pescatore)” (ibid., 1983, p.19)

Ne troviamo tracce significative anche nella storia del contadino calabrese che Ernesto De Martino convince a salire sulla sua auto per farsi indicare come raggiungere un luogo non segnato sulla mappa : “la sua diffidenza si andò via via tramutando in angoscia, perché ora, da finestrino da cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo spazio domestico. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e solo a fatica potemmo condurlo sino al bivio giusto e ottenere quel che ci occorreva sapere. Lo riportammo poi indietro in fretta , secondo l’accordo: e sempre stava con la testa fuori dal finestrino, scrutando l’orizzonte, per veder riapparire il suo campanile. Finché quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una patria perduta. Giunti al punto dell’incontro, si precipitò fuori dall’auto senza neppure attendere che fosse completamente ferma , scomparendo selvaggiamente senza salutarci, ormai fuori dalla tragica avventura che lo aveva strappato dallo spazio esistenziale del campanile di Marcellinara” (De Martino, 2002, 480-481).

Lo ritroviamo nello slum di Fort-de-France chiamato Texaco, descritto nell’omonimo romanzo, in cui si narra di un urbanista incaricato di progettarne la distruzione, ma poi convinto a conservarlo dai suoi abitanti, e in particolare dalla carismatica ‘fondatrice’ Marie-Sophie:

Lei mi insegnò a rileggere i due spazi della nostra città creola: il centro storico, che vive delle esigenze nuove del consumo, e la cortina di occupazione popolare, ricca della profondità della nostra storia. Fra quei luoghi, il palpito umano che circola. Al centro si distrugge il ricordo, per ispirarsi alla città d’Occidente e rinnovare. Nella corona si sopravvive di memorie. Al centro ci si perde nel moderno del mondo; qui si portano alla luce vecchissime radici, non profonde e rigide ma diffuse, profuse, sparse nei tempi con quella leggerezza conferita dalla parola. Questi poli, collegati alla volontà delle forze sociali, strutturarono coi loro conflitti i volti della città” (Chamoiseau, 1994, p.174).

Per il richiamo alla sacralità della città, vi invito alla lettura integrale delle bellissime pagine che vi dedica Enzo Scandurra e mi limito qui a riprenderne un breve passo:

In un certo senso la città è già di per sé un luogo sacro, in quanto oikos, casa, dimora. Questo ‘sacro’ non è quello che viene conferito alla città dall’essere luogo delegato e privilegiato di una religione…. Il sacro di cui parlo è - per dirla con Lévy-Strauss – ciò che attiene all’ordine del mondo, ciò che garantisce questo ordine. Sacro è ciò che ci difende dal rischio del caos, dall’angoscia del nulla… e custodisce, o perpetua, un ordine antico e inviolabile” (Scandurra, 2007, p. 130)

Infine, la bellezza, alla quale lo psicanalista James è una politica che si sottrae ‘alle battaglie di un realizzarsi finalistico’ e recupera ‘i criteri dell’estetica – unità, linea, ritmo, tensione, eleganza- che possono …offrirci un nuovo insieme di qualità’. Come fanno quelle creature degli abissi marini nascoste alla vista, mai percepite eppure dotate di colori scintillanti e di una bellezza senza scopo, cioè della vera bellezza. Che non ha un fine, non ha intenzionalitàHillman ha dedicato un volume (2002) e della quale dialoga con l’architetto Truppi in un altro libro dedicato all’anima dei luoghi.

La politica della bellezza “” (Truppi, 2004, p.139).

E a proposito della voracità di massa che ha fatto man bassa degli spazi pubblici, Franco Cassano ha auspicato che : ”quando avremo restituito a tutti le strade, le spiagge e i giardini, quando saremo guariti dalla ricerca ossessiva della separazione e della distinzione…allora la bellezza tornerà a visitarci” (Cassano, 1996)

Se è vero, come sostiene Truppi, che il malessere che l’individuo sta vivendo dipende molto dall’esterno, ebbene la ‘politica della bellezza’, con la sua enfasi sulla qualità e cura dei luoghi suggerisce una risposta positiva e convincente al male di vivere. E l’attenzione per l’esterno è anche garanzia della sostenibilità (ambientale e perciò anche urbana), ossia della trasmissione alle generazioni future dei saperi e delle pratiche necessarie al con-vivere.

L’ultima parola ad un bambino di Torino, abitante dell’estrema periferia nord-est, chiamata non a caso Barriera di Milano e molto vicina al campo nomadi descritto ne La città fragile. Quando gli abbiamo chiesto cosa pensa della zona dove vive, la sua risposta è stata tanto breve quanto incisiva, un piccolo capolavoro di saggezza, come spesso solo i bambini sanno fare. Ha detto:

Mi piacerebbe che ci fossero più cose e che l’ambiente fosse bello”.

Bibliografia

Cassano F.,1996, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari;

Chamoiseau P, 1994, Texaco, Einaudi, Torino;

De Martino E., La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino;

Forni E., 2002, La città di Batman. Bambini, conflitti, sicurezza urbana, Bollati Boringhieri, Torino;

Galtung J., 1969, “Violence, Peace and Peace Research”, in “Journal of Peace Research”, 6 (3);

Galtung J., 1990,”Cultural Violence”, in “Journal of Peace Research”, 27 (3);

Hillman J., 2002, Politica della bellezza, Moretti & Vitale, Bergamo;

Hillman J. e Truppi C., 2004, L’anima dei luoghi. Conversazione con Carlo Truppi, Rizzoli, Milano;

Latouche S., 2007, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino;

Leroi-Gourhan, A. , 1977, Il gesto e la parola, Einaudi, Torino;

Rosso B. e Taricco F., 2008, La città fragile, Bollati Boringhieri, Torino;

Piccolomini M., 1993, “Lo sviluppo sostenibile: una sfida per le città”, in “ReS”, ,n.7;

Scandurra E., 2007, Un paese ci vuole, Città Aperta, Troina;

Signorelli A., 1989, “Spazio concreto e spazio astratto. Divario culturale e squilibrio di potere tra pianificatori ed abitanti dei quartieri di edilizia popolare”, in “La ricerca folklorica”, n.20.

The following appeal was proposed during the Assembly of urban social movements at the European Social Forum, which was held on September 20th in Malmö (Sweden). It will discuss the mobilisation at the time of the summit of European housing ministers which will also be held in Marseille on the 24rd and 25th of November.The first meeting is open to everyone and will be held in Marseille on Tuesday September 30th at 19H00 at the Maison de l'Architecture, 12 boulevard Théodore Thurner, 13006 Marseille. Contacts: Benoit 06 42 70 49 46 and Marc 06 14 61 50 20

European Appeal

24rd and 25th November 2008, everyone together in Marseille:

Against a Europe of speculation, rent increases, privatisation of social housing and urban segregation.

For a Europe for the right to housing and the right to choose one's housing, for the right to a city, to a healthy environment, accessible and renewable energy, for a Europe of solidarity, that fights for housing. European housing and town planning ministers will meet in Marseille on Monday November 24th.

Since their meeting, rent, real estate and land prices have never been so high, yielding unequal private income and speculative profits. The crisis and insecurity touches everyone: tenants' rights are being seriously compromised, getting on the property ladder can only be achieved through serious indebtedness, the so-called urban “revitalisation” is chasing the working class, not only from the city centres, but also from the outskirts. Forced and swift expulsions are being multiplied, social housing is threatened by its financing and its privatisation, repression is battering the people who live in insecure housing.

The ministers are only worried about speculators' profits and banks threatened by the prospect of a real estate crash.

In Marseille, the ministers could not find a better example of the dramatic consequences of the “financialisation” of real estate, town planning and housing policies being pursued for 20 years and putting cities in competition, as desired by Europe, within its framework of the Lisbon strategy.

The city centre of Marseille, a very popular area, is therefore, the object of intense speculation, which is encouraged by local authorities. For example, hundreds of families are being evicted from rue de la République, and many buildings have been deprived of their liveliness to be put up for retail sale at 5,000 EUR/m2. The present owner of the property is a subsidiary of Lehman Brothers, in New York, which is now bankrupt as a result of the subprime crisis. Many houses will, inevitably, be empty for years, unless the local authorities decide to requisition them and convert them into social housing.

Europe has chosen Marseille as the European city of culture for 2013. This is bad news for housing; for each international cultural or sporting event triggers speculation and aggressions against people from working-class neighbourhoods.

To prevent an increasing part of the population from being thrown out into the streets, from facing uncertainty and indebtedness, to prevent the nurturing of urban segregation accompanied by intense violence now and in the future, we are demanding the full recognition of everyone's rights to housing by all levels of institutions, as well as an end to expulsions, the policies of “gentrification” of urban centres and the social cleansing of the working class districts. We are demanding the re-establishment or the maintenance of rent regulations policies and measures to protect tenants.

To finance a real right to housing for everyone, we are demanding a tax on real estate profits at the European level, a permanent action by the European Central Bank to counter the inflation of housing and rent prices, and budget increases.

To implement this, we are demanding that a real public housing service be implemented at the European level instead of the neo-liberal policies and injunctions of the European Commission.

Done at Malmö, during the European Social Forum by the No-vox, IAI, HIC international networks.

THE PROGRAMME

The theme is the city as a common good, the relevance of this expression in today’s divided cities, the challenges posed by informal settlements in Nairobi and the struggle to find viable alternatives. Spatial forms are relevant in determining the socio-ecological and political-economic conditions of a community. At the same time our struggles are inscribed in space, time and environment in multiple ways, as well as places are constructed and experiences as intricate network of social relations. A shift in perspective is needed for overcoming inequality, alienation and injustice in cities, and this demand a collective effort. The open debate in Toi market includes a presentation of the Toi Market Slum Upgrading Initiative and a contribution by Muungano wa Wanavijiji and KOPA.

Session I: Toi Market, in Kibera Drive

Introduction by Joseph Muturi and Joseph Kimani

Presentation of the Toi Market Slum

Upgrading Initiative

Presentation about "celebrating people's struggles".by Muungano wa Wanavijiji (Federation of saving schemes) and COPA (Community Organizing Practioners Association of Kenya.)

Open debate and interaction between all participants

Session II: World Social Forum – Kasarani

Introduction, by Ilaria Boniburini

The City as a common good in the European experience, by Edoardo Salzano

Informal settlement integration. The role of professionals by Erastus O.Abonyo

Urban design and housing in Nairobi and public space needs in informal settlements by Dr. Susan Kibue

Slum Upgrading and informal settlements in Nairobi

by Jane Weru

The training of the building professionals and its relevance in informal settlements by Gathogo Githatu

Questions/Comments

SPEAKERS AND OGANIZERS

Erastus Abonyo: Architect, Partner of Tecta Consultants and lecturer at the University of Nairobi, School of Built Environment. Field of research: urban design and human settlement planning. Vice-chairman Architectural Association of Kenya and chairman Board of Education, Board of registration of Architects and Quantity Surveyors

Ilaria Boniburini: Architect, conservation specialist. Recently enrolled in a Ph.D program in urban planning at the University of Florence. Field of research: urban planning and segregation. Chairman of Zone Onlus.

Georgia Cardosi: Architect, self –employed practitioner. Involved with Toi market redevelopment project since 2004, she is the coordinator of the design team and project coordinator for Zone Onlus

Susan Kibue: Architect and senior lecturer at the Jomo Kenyatta University of Agriculture and Technology, School of Architecture and Building Sciences. Chairperson of Dept. of Architecture. Recent research in traditional architecture in the context of social cultural economic and political atmosphere. Ph.D research in “Cultural Adaptations of Urban Dwellers in Nairobi”.

Joseph Kimani: Bachelor of Arts in Development Studies and a certified Community Organizer. Worked for human rights organizations in Kenya in community advocacy before joining Pamoja Trust, where is currently coordinating the Youth Program as a Senior Program Officer.

Gathogo Githatu: Architect, partner of ArchLink Consultants, and lecturer at the Jomo Kenyatta University of Agriculture and Technology, Department of Landscape Architecture.

Joseph Mukeku: Senior architect at the Tecta Consultants, in charge of Kambi Moto Slum Upgrading Project. Master in Architecture from the University of Nairobi, and Master in Environmental Design from Cambridge University. Community led projects’ expert for the Toi Market Redevelopment Project.

Joseph Muturi: Certified Social Worker and Community Mobilizer, Founder and current Treasurer of the Munungano wa Toi Market Saving Scheme – a member of the Slum Dwellers Federation of Kenya.

Joash Odemo, Architect Technician, Dip. Kenya Polytechnic. In practice since 2004, specialised in community based projects and mainstream practice. Currently working with Tekto Consult in Nairobi.

Margaret Okoth: Community Mobilizer, trader at Toi Market and member of the Toi Market Saving Scheme.

Hezekiah Rema: Certified Social Worker and Community Mobilizer, Founder and Chairperson of the Munungano wa Toi Market Saving Scheme – a member of the Slum Dwellers Federation of Kenya.

Edoardo Salzano: Urban and regional planner, consultant for Italian Local Governments, author of several books on urban planning. Founder and director of www.eddyburg.it, a website concerning urban planning, society and political issues. He was city counsellor in Rome and Venice, Major’s assistant for urban planning in Venice, professor and Dean of the Faculty of Town and Regional Planning at University IUAV of Venice.

Jane Weru: Lawyer by profession, and expert on Urban Poverty Issues. Currently the Executive Director of Pamoja Trust, which is the supporter agency for the Kenyan Federation of Slum-Dwellers-Muungano wa Wanavijiji. A member of the Provincial Commissioner’s Informal Settlements Commettee. Member of the Slum Dwellers International (SDI) and the UN-Habitat Slum Upgrading Facility.

Zone Onlus is a non- profit association based in Italy. It supports through advocacy, reserach and technical support and long term and sustainable development that can guarantee to every individual health, education and accessibility to the necessary resources for a dignified life; to work in the respect of environment and territorial resources.

Ilaria Boniburini(Chairman) - ilariaboniburini@zoneassociation.org - tel: +39 3473196786

Toi saving scheme is a member of the Muungano wa Wanavijiji (Slum Dwellers Federation of Kenya. Formed to unite the people of Toi market and enable them speak with one voice, protect the residents from forced evictions by the government, help the residents manage their small business and micro-finance issues and help the members in achieving their goal of permanent residential areas

Joseph Muturi (Treasurer) -josephmtr@yahoo.com tel: +254 (0) 722249360

Pamoja Trust is a Kenyan non-profit organization formed in 1999 to mobilize and support movements of the urban poor. It provides technical advice to poor communities in legal, financial and project development matters, community mobilization, training, establishment and management of saving schemes and mobilization of national and international support for community activities. Jack Makau (Programms Coordinator) – jmmkauontheweb@yahoo.com - tel. +254 (0) 723912454

Mwamko wa Vijana is a Slum Youth Federation whose objective goal is to increase space, voice and visibility of the Youth and children in the informal settlements of Kenya, by ensuring their full participation in decision making processes and activities that affects and influence their human and developmental growth.Joseph Kimani (Youth program coordinator) -joskimani2004@yahoo.co.uk - tel. +254 726 741 685

Toi market initiative is a project for the redevelopment of Toi informal market in Kibera, Nairobi. It includes an integrated multi-functional structure with market facilities, urban infrastructure and services. The project is based on the priority of upgrading communal areas, and is undertaken through a community led slum upgrading project.

Partners: Toi Market saving scheme - Muungano wa Wanavijiji – Pamoja Trust

Joseph Mukeku – jomukeku@yahoo.co.uk - +254 (0) 722833505

Georgia Cardosi – geo.c@libero.it - +39 3295455796

NOTE

The conference proceeding have been not issued yet. You can find some documents in this folder. However audio and video recording of the whole conference (both sessions) are available upon request, unfortunatly in poor quality. Please write to Zone onlus:
info@zoneassociation.org and specify the format required

Good afternoon and welcome.

As half of the world’s population are city dwellers and the rapid increase in urban population is expected to continue it is central for the international community, including researchers, practitioners and academics to explore ways for making urbanization work for all people.

An extimated 1 billion people, a sixth of the global population currently lives within illegal settlements or environmentally hazardous residence locations, without security of tenure and adequate basic services such as water, roads or sewage systems.

Those areas, sometime as big as cities, are not what we define city, they are not even consider part of it, and it is not simply a matter of physical deficiencies. Poverty, vulnerability and exclusion from the economic and social opportunities of the city and from adequate housing conditions, also generate exclusion from democratic processes and lack of access to citizenship rights.

That is why, in such divided cities, we decided to discuss about the opportunity to consider the city as a common good, about the challenges posed by informal settlements and the struggle to find viable alternatives.

The assumption is that spatial forms are extremely relevant in determining the socio-ecological and political-economic conditions of a community. In the one hand the places are experienced and constructed by the intricate network of social relations. In the other hand our actions and straggles are inscribed in a given space and time.

This morning we heard about the voice of the communities and about their struggles in living in such conditions. But we also discussed about their vision and plan for the future and how professionals can help them to materialise and fulfil their expectations not just for themselves but also for the city as whole, to which they belong.

This afternoon we will hear the voices of the experts on urban issues and their contribution about alternatives.

We will start with the meaning of words like city and common good, and the relationship between spatial forms and social life through European experience and the vital role played by public spaces in the every day life of those cities.

Then, it will be presented what is an informal settlement and how the spatial and social space is produced in the slums.

As there is an ongoing debate on the question of what kind of measures and policy strategies would be necessary for responding to the challenge of slums, we will then continue the discussion about the alternatives of and to slum upgrading from different prospective starting from considering the slum as part of the city and not a separated problem. The crucial role played by planners and architects and the training of the professionals of tomorrow will also be addressed.

A conclusive talk will be about the response of urban movements and groups in Nairobi to the slum challenges and upgrading options, with specific reference to what we have heard this morning at the Toi Market.

However we look at the alternatives, a shift in perspective is needed both in the effort of coexisting in shared spaces and for overcoming inequality, alienation and injustice in cities.

And this demands a collective effort.

1 THE CITY AS A COMMON GOOD. WHAT DOES IT MEAN?

There’s a growing movement in Europe, which claims the city as a common good. Let’s start from the three single words forming the expression.

City

In the European experience the city is not simply a cluster of houses.

The city is a system in which the houses, the places allocated to the communal activities (schools, churches, public squares, parks, hospitals, markets etc.) and the places for the working activities are integrated and as a whole are serviced by a network of infrastructures which link the various parts and provide water, gas and electricity.

The city is the home of the society.

For a settlement to be considered a city, it needs to be the physical expression and the spatial organization of a society, which is a whole of families and individuals whom are bonded by common identities, mutual solidarity and shared rules.

Good

The city is a good and not a commodity. The distinction between these two words is essential for surviving in the modern capitalistic society.

Good and commodity represent two different ways to see the same objects.

A good is something that has a value in itself. The value of a good is determined by the use that people make of it or could make of it. A good is something that helps to fulfill elementary needs, needs for knowledge and the need of love and pleasure. A good has an identity and each good is different from another. A good is something that I use without alienating or destroying it.

A commodity is something that has a value only when I can exchange it with money. A commodity does not have a value in itself, but only in term of what it can add to my material richness or to my power. A commodity is something that I can destroy for making something else that has a higher economic value. For example if I consider the natural landscape a commodity, I can destroy it for mining. All commodities are similar and interchangeable and can be measured only in term of money

Common

Common does not mean public, but sometime it is useful that it become so.

Common means that it belongs to more people united by voluntary binds of identities and solidarity. It means that it satisfies a need that the single persons cannot satisfy without being together with others.

In the European experience each person belongs to more communities: the local community, the neighborhood, the village, where I was born, where I work, where I live, where the people that I am linked with are.

But each person also belongs to wider communities, which share the same history, language, use and traditions, food habits, songs, etc.

For example I, Ilaria, I live in Venice, I study in Florence, but I am also Italian and European. Each of these communities ties me with my life and history.

To belong to a community make me responsible for it and for what is going on there. I will fight in order that in my communities, the abuse of power, inequalities, injustices, racism, and discrimination are banned.

To belong to a community make me aware of my identity and the fact that I may differ from the others, but my diversity is a richness fore everyone, as well as the diversity of other people, cities, nations make me richest.

Ultimately we all belong to the same community, the plane heart, which we share.

2. THE ROLE OF THE COMMON SPACES

IN THE EUROPEAN EXPERIENCE

The common spaces in the formation of the European city

In the tradition of the European cities, the public spaces have always being important. They are places where we can meet, trade, celebrate religious and civic events, perform common activities, use common services and amenities.

From the Greek city to the Roman one, from the medieval to the renaissance city, the role of the ‘piazza’, square, has been decisive. The square is where people met, and public buildings overlook: the market, the law court, the church, the town hall.

The public squares were the pivot of the arrangement of the city. There the members of became citizen, therefore member of a community. There they celebrate their rituals, exchanged information and feelings, there they looked for and offered jobs, there they enjoyed feasts or emanated judgments or gave warnings, alerts.

In the big cities instead of having just one square there was a network of squares, all connected in the urban layout of the city. Each of them was devoted to something specific and special: The square of the market, of the Duomo etc.

If the city was organized in suburbs, each of them had its own square, but those small squares were a sort of satellites of the main squares or of the network of the squares in the cities.

The squares and the streets that connected them composed the frame of the city. The houses and the workshops were the tissues of the city. A city without its own square was like a human body without the skeleton

The common spaces in today’s European city

Today things are changing. In the past century happened events that have deeply undermined the common and collective character of the city. It prevails an idea of human being, economy and society that take to the supremacy of the individual instead of community.

The ground on which the city was founded was considered, in many European cities until the XIX century, the patrimony of the community. With the triumph of the capitalistic bourgeoisie, the land has been privatised. The speculation over the urban land leaded and still leads to build more and more buildings to be sold as residences or offices instead of buildings for communal use. The spaces allocated for collective functions are less and less.

It has been devastating the expansion of the use of private cars and means of transport, especially in the areas with high population density. It would have been preferable to use public transport, because the cars have thrown out citizen from the squares and roads.

The need of the people for common spaces has been instrumentally utilized for increasing artificially the consumption of commodities. The producers of affluent merchandise, more o less useful, have built or contributed to build artificial common spaces: Mall, outlets or other forms of enclosed spaces. They are fake squares, fake markets, privately managed, attended by a multitude of people more then by citizen, which are considered first of all clients. A citizen is some one with the consciousness of his/her dignity, rights and duties) while a client is simply someone with money to spend.

Movements for claiming the public spaces

In the last years in many European cities the decay of the common spaces have been opposed by making wide pedestrian areas, restricting the vehicular traffic in the city, developing public transport, cycling tracks, and pedestrian routes.

Whereas this is not happened, the life has become very difficult especially for children, elderly and women.

In all Europe many movements, associations, committees claim more, in term of quantity and quality, common spaces, to make the cities more liveable. Even in the USA there are manifestations of this kind, a cultural and social tendency to oppose the excess of individualism. It is from an American association, International Making Cities Liveable Conferences, that are suggested, following a meditation on the European urban experience, 10 points for making public spaces.

I would like to highlight on few of them:

The open public spaces must be at the very Centre of neighbourhood. The public spaces don’t live only as a scenario, but typically as focus of a community.

The open public spaces must also be the Hinge between the neighbourhood and the city - between indoors and outdoors. The door from which you enter in the neighbourhood and the door from which you go out from the neighbourhood and you enter the city.

The open public spaces must be the sites where happened the events that can interest the community: the festivals, the market, the site were the major or the candidate for the elections encounters the citizens.

The ‘campi’ of Venezia described by an English architect

The urban and architectural design is definitely indispensable for obtaining good public spaces. But is not enough. The city and its spaces are made of stones, concrete and other materials, but also and above all by the relationships that are established among the people and the places.

I am lucky to live in a city where the public spaces have been preserved and are as they were centuries ago. The have retained the same shape, architecture and the relationship between the people and the places are also maintained.

I am talking about Venice and its ‘campi’, as they are called the squares. An English architect, Suzanne Crawford Lennard, described them as:

Open irregularly shaped paved space surrounded by buildings

Almost every campo contains a church, which still serves the community, and a well head which, though no longer a water source is still a gathering place.

The campi vary in size. They provide settings for a variety of social situations, some more suited to small-scale neighborly social scenes, others offering the opportunity for larger festivities and community events.

The absence of traffic ensures that all sounds on the campo are human sounds-conversation, laughter, footsteps, and children’s voices.

There are several entrances and exits, but streets do not connect directly across the campo, so the campo never appears to be merely a temporary widening of the street. Rather, it is very clearly the center and focus of community life.

Small businesses, services or workshops are located on the ground floor, ensuring a high frequency of interaction, and makes it possible for people with very different backgrounds and trades to observe each others' lives and to make friends with those dissimilar from themselves.

The campi of Venice and the festival of “l’unità” in 1973

Venice is a very ancient city but in the last century has been abandoned by its population. Only in the last decades it has re-borne.

An event, which has contributed to the re-discovery of Venice by its same citizens, Italians and Europeans, was the festival of the Unità in 1973, a national-wide, political kermess. The festival gathers thousands of people coming from all parts of Italy. Generally it takes place in the suburbs of the cities.

That year was decided to do it in Venice, in its campi. At least 15-20 campi were involved. In each one there were performances, entertainment, debated, open-air refreshment points and restaurants referred to traditions of a specific part of Italy.

The city for a week changed face. Everybody discovered the beauty of the spaces occupied by the people and their encounters.

Since then inhabitants and tourists live and experience the campi. They are the open space of each single home, the place where friends meet, where you know new people. They are the places where the hart of the city beats.

The centre of Rome occupied by the inhabitants of the suburbs

An episode very meaningful regarding the importance of the public spaces in the re-establishment of the relationship between society and city, happened in Rome, the capital of Italy.

It was in 1976. At that time Rome had about 2 million people, a beautiful and famous historical center with ever expanding suburbs, poorer and more deteriorated as you went from the center towards the periphery. The center was occupied by the well-off and tourists, the suburbs by the poorer. The baraccopoli, the italian word for slums, of the city were places where the criminality grew, where the youth roamed without having an alternative to the games of power.

In those years Italy was still subject to the terrorism.

An intelligent major, Giulio Carlo Argan, and a young town councilor, Renato Nicolini changed radically the social climate of the city, modifying the relationship between people and the space.

The cultural activities were taken out from the small theaters and museums. Large mass manifestations like film marathons of popular films, street theatre, music and dancing, were organized in central places of the city.

Young people in the evenings abandoned their slums and hurried to the city center, in its squares, in its archaeological places. The families took their dinners in the spaces where the most popular films and shows were screened.

The citizens re-conquered, or perhaps conquered for the first time, the most beautiful places of their city, ones from which they were so far excluded.

3. WHAT CAN BE DONE

The two episodes that I mentioned indicate some ways for re-building the common role of the public spaces through interventions that oppose the individualistic tendency prevailing in desegregate societies. In Europe we can work on the heritage of our ancient cities and their places. In other part of the worlds you can work with other values. Binds among families, group of families, villages, communities and their languages, dialects, and traditions still testify the vitality of common values in many societies.

In many African cultures, the concept of private property did not exist. The land was a common good, which could not be subtracted from the community. This is a common value. The privatization of the urban land in Europe has been one of the causes of the degradation of the city.

To start from the common interest of local communities, enriching their life with common spaces which function well is a good commencement. That’s why the Toi market initiative seems particular interesting and I hope that the community develops their ideas and visions under their own responsibility.

But to do a step does not mean to make all the way that the step had announced.

The aim should be, as the experience of Rome as shown, to take over the entire city. Each community, village, neighborhood is part of a vaster organism: the city.

Like in many other part of the world, from Asia to Europe, from Africa to America, the city is divided in parts, which do not communicate; moreover often they are in conflict. It is an inhuman situation, which is experienced, although in a very different way, both in the ghetto of the poor and in the enclaves of the rich.

Staring from the public spaces the city can become an environment favorable to the life of human beings, if we will be able to return to the city its original role of home of the society. Its form and function will be, overall, at the service of those needs, which the individual is not able to satisfy on his own, but can be satisfied effectively only together with the others.

The city as a whole and in its parts have to be seen, felt and organized as “common goods”.

Goods and not commodities. Therefore object services, which have a value in themselves because they cannot be exchanged with others or with money. Common and not private, material and immaterial elements, which can be enjoyed, used by single members of the society, but they belong to the community as a whole.

The paper was translated and presented at the conference by Ilaria Boniburini, that has contributed to its editing. Here you go to the italian text

Note. There is a lot of discussion on upgrading. It is my observation thatintegration is more critical than upgrading. It denotes inclusion without being paternalistic. It is in this process that professionals can recast their role. By integrating informal settlements in their practice. The professionals find a new market and source of knowledge and challenge.

Define informal settlements.

Define traditional roles for professionals in the built environment.

Explore experiences in Kenya.

Outstanding challenges in informal settlements integration.

Role of professionals.

- Defining the new professional

- Methodology.

- Implementation strategies

- Evaluation of integration

Conclusions. Recasting the professional.

REF. Majale / ilishe paper / Hans .

Abstract

Shelter is one of the basic needs of any society. The high urban migration rates to towns and cities in developing countries has often resulted in very crowded unplanned developments referred to as informal settlements. These are typically characterized by lack of infrastructure and other basic amenities. The relevant government and quasi government agencies charged with responsibility of housing provision are unable to cope with the high demand resulting in the relegation of the task to the users. Consequently, proliferation of poor housing and slums within the towns and cities in Kenya is currently a serious problem especially for the low-income earners.

This paper highlights the need to provide open spaces giving the historical basis of the courtyards in traditional set-ups. Traditional architecture for most communities also reveals the need for separate spaces for male and females and also the need for privacy. The government policy is cited as a necessary guide to aid in the development of a clear way forward towards the improvement of the situation. Finally, in keeping with the conference theme the Common Good and the need for justice and basic human rights is presented. The aims of any society is to achieve the common good which should contribute to the well being and dignity of each person in the society.

Introduction

Nairobi is host to more than two hundred slum areas with the majority of people about two (million) more than half, 60% living in these slums in about 5% of the area. 40% of the population lives on about 95% of the area demarcated for residential use. The space in the slums is very densely populated and lacks the basic shelter and infrastructure conditions for living a full and healthy life. The slums are also characterised by people living in extreme poverty.

The largest slums are mainly towards the Eastern side of Nairobi and the rest on peripheral areas of high-income residential areas towards the North and West of the city. The pattern of development of Nairobi has its roots in the colonial history of the city and the division of zones for Europeans, Asians and Africans, which seem to persist until today. The European and Asian districts have now included the affluent Africans yet maintaining the same system and of zoning and low-density. The disparity in living conditions between the high and low-income is appalling and the gap only seems to widen with time.

There are many problems associated with the slum areas however this presentation will focus on the following four key areas, which broadly include:

- The Statement of the problem and the extent of the poor conditions,

- Requirement for open areas giving the basis of traditional configurations, the requirements for privacy needs,

- Government policy and way forward to improve the situation,

- The Common Good and the need for justice to achieve a better life for the dignity of the person

The Statement of the Problem of Informal Settlements

The high urban migration rates to towns and cities in developing countries has often resulted in very crowded unplanned developments referred to as informal settlements. These are typically characterized by lack of infrastructure and other basic amenities. The relevant government and quasi-government agencies charged with responsibility of housing provision are unable to cope with the high demand resulting in the relegation of the task to the users. Consequently, proliferation of poor housing and slums within the towns and cities in Kenya is currently a serious problem especially for the low-income earners. The solution to the housing problem is left to the people themselves using their own means.

However, in the midst of all the poverty and insecurity it is amazing to note the high potential of the slum dwellers to organize themselves to provide for their own shelter. Toepfer (UN-Habitat, 1999, v) indicates that ‘their physical and social reality also reflects the capacity …to mobilize resources, devise survival strategies and build social organizations even in the presence of enormous constraints”. This capacity of the residents makes upgrading policies implementable, as community involvement is important. The residents contribute towards the improvement of their shelters through community participation during the design and the management after the project is completed. The extent of the slums “..in terms of human suffering and its devastating impact on the life of people living in cities, are immeasurable.”(ibid,6)

Many other social vices emanate from the poor living conditions because of tight spaces and congested living that is inhumane. Due also to poor basic facilities the residents are prone to disease outbreaks and epidemics. There is a definite socio-economic cost to the country due to the negative consequences in the slum areas. The socio-political situation and advantages for the policy makers could be one of the factors that contribute to the apparent laissez-faire attitude.

Basic Space Requirements, Needs for Open Areas Giving the Traditional Configurations

In the traditional set-up the built-form is a reflection of the social structures of the group, the family organisation, and social networks. The built environment also depicts the values of the people their preferences, status, power, and roles. There are positive traditional values and constants in architecture. Every activity within the home setting has a particular place and meaning whether it is a public or private activity, whether it is clean or dirty and has to be at a different end of the house or homestead, all these happen due to the cultural requirements and dictates of a particular society.

There was clear and cohesive nature of the homestead configuration in traditional space, with a definite focus and interaction centre in the courtyard. The courtyard underscores the important need for open space for interaction of the residents. This is used for both working and for recreation for the different people in the homestead. The family and social networks are reflected through the forms used and arrangements of the dwellings. A key aspect that runs through these and many other African settlements is the use of the courtyard as a basic organizing principal around which all the various activities are arranged. It becomes a key unifying focus of the family and a hub for the various social day-to-day activities. The arrangement of the homestead is understood by all the members in terms of the hierarchy between them and the respect and values that are associated with it. Although the courtyard is a communal space the individual members are still able to have their own private areas.

There is clear separation in the socialisation and cultural instruction of the boys and the girls and enables them to accord high levels of respect to the elders. The homestead doubles as a school of social virtues necessary for the smooth co-existence between the members of the family. We find that the separate units for the mature boys gives them a lead in nurturing their independence at an early stage and allows them to become responsible individuals. For example having joined the ‘junior council of elders’ Kenyatta (1979) for the Kikuyu young men this helps them to get more formation before they get married.

Girls were looked after by the mother until they got married and a new home was only initiated on marriage. There was high respect for the marriage institution and house construction for a new home was a ceremonial process again with the collaboration of all the members of the family only when a new homestead was formed. This mutual interdependence is definitely lost with the more individualistic approach to life in the contemporary society. The home is a training ground, a school for both cultural and social values, which require adequate space.

Traditional space allows for good quality of space that facilititates for dignified living environments.

Basic Privacy needs that require to be addressed

The secondary level in the Hierarchy of Needs according to Cooper (1975) and Maslow (1954) includes the sense of ‘belongingness and love needs’ of an individual. Everyone requires this sense of belongingness and love needs. These are best addressed in the family setting. The fulfilment of this need ensures that each individual in the family feels part of it and can also experience the shared interaction with the other members. People even as they interact at the public level also need their own individual ‘space’. Individual privacy levels are also necessary for the overall well-being of the person. These are realities that are not possible within the slum areas.

When social networks at a public level and the need for mutual caring and protection are lacking crime and vandalism may occur. At a private level individuals also need time and space on their own for self-reflection and intimate conversations when these are frustrated withdrawal depression or illness does occur. It is important that the home provides for the two scenarios: interaction and retraction as required by the individual. If these are lacking in the home front the individuals will look for it elsewhere and perhaps in the wrong place, which can be serious for the young. This need indicates that ample space is required to provide good liveable home environments.

Privacy required includes both visual and acoustic, which are necessary. Basic and separate functional spaces are required, that is, for the basic human functions sleeping, washing, socialising, cooking and ablution. There are major privacy violations in for example one-roomed houses where the divisions are flimsy or non-existent as seen in many slum dwellings. Specific spaces are required for family living and for seperation of the male and females as well as the parents.

Government Policy and Way Forward to Improve the Situation

The urban Municipal Councils have the duty to provide the basic infrastructure as well as the legal backing to secure the land. More often than not the land is occupied illegally by slum dwellers and it is usually government land or municipal authority land or railway reserves (as is the case in Kibera) or lipellian wayleave (as is the case in Mathare). These people need some tenure for their land to be well re-located or the slums upgraded.

Proper policies need to be put in place to ensure that slums are eradicated without the inhuman clearance and evictions that have happened in Nairobi. Cognizance needs to be made that slums do constitute a percentage of the housing stock and a percentage of the populace of Nairobi, hence plans need to be made to improve the conditions without wholly relegating the problem to the users as community groups and to non-governmental organizations. NGOs seem to be the key players in most slum upgrading programmes and not the government or quasi-government institutions.

The UN Agenda 21 encompasses the broad based integrated approach to the provision of shelter and supporting infrastructure facilities. It is clear from many of the projects that do not involve the community adequately that the real problems are not addressed. Self-help construction in isolation does not assist in creating that sense of belonging and ownership, it is far from just an issue of provision of cheap self-help labour.

Infrastructure planning and development needs to be well designed and organized by professionals who need to give the appropriate densification. Architects and Planners also need to re-think clearly of the best possible way to deliver shelter and services to the low-income and also to ensure that the actual owners benefit. Several projects including Umoja and Dandora are clear examples of development for the poor that does not end up with them. Previous efforts by government agencies to provide for the shelter was ineffective as the original owners have sold out to middle and high-income owners and developers who have made major changes to the original estate. A lot of thought also needs to be made on a well-structured management system so that any proposed projects have. There are very few of the original allotees actually leaving in their houses. The mechanisms for the control of development very often seem to be unsuccessful.

Slum upgrading as an alternative provides for the possibility to improve the living conditions and also creates an opportunity to weave into such settlements the necessary infrastructure and utilities to give a better quality of life for the residents. It can also be the right time to design or enhance the spatial quality of the open areas used for social and public interaction. The need for public/open spaces in urban environments is highlighted these can be incorporated through design in slum upgrading projects and in proposed housing developments. Ample space is also important so that different members of a household are able to have their space.

Achieving the Common Good and the Need for Justice to Achieve a Better Life for the Dignity of the Human Person

The aim of any society is to achieve the common good that should contribute to the well being of each person in the society. Those that govern have an obligation to contribute to that mission of the common good through appropriate legislation or incentives that enable people to do this. Laws should be just as well as reflect the Natural Law.

Material goods are important in order for people to access education, cultural goods and peace. People’s freedom needs to be respected, they have a right to own property and to work and in this way contribute towards the Common Good themselves. Through work they should also be able to and have a right to create wealth to provide for their needs and to improve their state in life. They also need to have a good and decent environment in which to live a dignified life. This is where urban design and housing play a key role in enhancing peoples’ quality of life. Housing and shelter is one of the basic needs of any society. It is also one of the main agendas of the UN-HABITAT through their campaigns on “Shelter for All”.

The right to own property entails some form of security of tenure and access to land. Security of tenure also minimizes the possibility of vulnerability, fear of evictions especially for minority groups of people and enables them to invest.

When there are very apparent disparities.

In summary,

- Poor housing and slums constitute a myriad of other problems for the society including, moral, social, physical and economic decadence

- Security of tenure important in encouraging self-development of the slum dwellers

- Open spaces are important for social interaction and individuals also require private areas

- Role of the government and municipal authorities needs to be amplified especially in the provision of basic infrastructure and access to land

- The Common Good needs to be attained for the dignity of every individual in society. The disparity that currently exists in living conditions is an indication that unjust policies are in place.

References

Robbins E (2003): Immigration, Gentrification and the Neighbourhood in Oslo School of Architecture Yearbook 2003

UNCHS (Habitat) (1999): Informal settlement upgrading: the demand for capacity building in six pilot cities. UNCHS (Habitat) Nairobi

Kenyatta (1979): Facing Mount Kenya. Kenway Publications Nairobi

Particolarmente drammatica la situazione in Africa. Oggi ha una popolazione urbana di 350 milioni, più degli USA e del Canada messi insieme, e la situazione degli slum è particolarmente drammatica: per l’estensione, per la miseria priva di prospettive cui si accompagna, per la disgregazione sociale di cui è espressione, per il peso che costituisce per ogni ipotesi di progresso civile.

Il 7° World Social Forum è dedicato quest’anno al tema: ”Le lotte dei popoli, le alternative dei popoli”. Si svolgerà nei prossimi giorni a Nairobi, Kenya. Una città di oltre 3 milioni di abitanti (secondo le stime ufficiali), dove ai ben delimitati quartieri coloniali e neocoloniali (ville, palazzine e grattacieli, densità territoriali tra 15 e 25 ab/Ha) si affiancano alcuni dei maggiori slums (tuguri e capanne, densità di 250 ab/Ha).

Si discuterà tra l’altro di programmi di “slums upgrading” (miglioramento). Questi programmi, quando non si riducono alle ruspe che aprono la strada ai grattacieli ed espellono gli abitanti in aree più lontane, tendono a radicare gli abitanti al luogo con la costruzione di casette e la loro assegnazione in proprietà. Nella tradizione deella cultura africana il concetto di proprietà privata del suolo non esiste. Esiste invece una fortissima carenza di infrastrutture (acqua, fognature, elettricità) e di servizi per la vita associata: scuole, mercati, sale di culti e di riunione. Al Forum verrà proposto da una piccola associazione italiana (ZONE onlus) un progetto, radicato nelle comunità del popoloso slum di Kibera (800mila ab.), che vuole partire dalla ristrutturazione di uno spazio comune per avviare un processo di riqualificazione fisica e sociale. La questione verrà discussa, al Forum e a Kibera, in un convegno dal titolo: “La città come bene comune. Quale futuro per il miglioramento degli slums”. Ne parleremo, in Carta e in eddyburg.it.

Abbiamo dedicato l’ultima giornata di questa meravigliosa edizione della Scuola di eddyburg all’esperienza del piano regolatore di Napoli e dei Ragazzi del piano[1]. Ci hanno raccontato una vicenda bellissima, da cui abbiamo imparato molto sulle virtualità del nostro mestiere. E hanno concluso esprimendo tutta la loro amarezza per il fatto che Napoli è accerchiata: è accerchiato il territorio comunale, correttamente ed efficacemente pianificato, dal vasto hinterland nel quale la pianificazione non funzione o non viene praticata; ed è accerchiata la città nell’opinione pubblica, perché la buona amministrazione dell’urbanistica napoletana è ignorata dall’opinione pubblica, e dalla stessa cultura, che preferiscono dare di Napoli l’immagine di una città soffocata dalle immondizie, dalla camorra, dal cattivo governi municipale.

Vorrei dire agli amici napoletani: non vi meravigliate, ci sentiamo tutti accerchiati in questo paese (e nell’Europa, e nel mondo). È una condizione comune, della quale dobbiamo cercar di comprendere le ragioni per poter efficacemente resistere. Anche questo le quattro giornate della Scuola ci hanno insegnato. E su questo vorrei adesso riflettere.

Le quattro giornate

Abbiamo organizzato questa edizione della Scuola per comprendere una cosa: per comprendere perché, “nonostante i programmi e i piani concepiti a partire dagli anni ’90 […] abbiano fatto sovente ricorso a parole come “riqualificazione” e “qualità urbana”, gli effetti prodotti non sono corrispondenti agli obiettivi dichiarati. Per capire le ragioni che hanno determinato questo scarto – abbiamo scritto nel programma della Scuola - occorre, come nelle passate edizioni, capire i presupposti e leggere criticamente i fenomeni in atto, recuperare concetti e strumenti troppo frettolosamente abbandonati, sperimentare percorsi di riflessione e di iniziativa controcorrente”.

Una riflessione sulle “parole della città”, una comprensione della loro ambiguità e del loro uso da parte dell’ideologia dominante, delle loro potenzialità ai fini della rinascita di un pensiero critico e della loro utilizzazione come strumento di resistenza e di costruzione di pratiche virtuose ha aperto i nostri lavori[2]. Ad esse si sono fruttuosamente ricollegati gli interventi della prima giornata, nella quale gli urbanisti Giovanni Caudo, Paola Somma e Giancarlo Paba, particolarmente attenti alla società, la sociologa Elisabetta Forni e l’antropologo Ferdinando Fava ci hanno aiutato a comprendere molte cose [3]. Soprattutto, ci hanno aiutato a uscire dal nostro guscio, a comprendere in che modo si pongano i rapporti tra la nostra opera di esperti e le concrete trasformazioni della società, come i nostri strumenti vengano compresi dai cittadini e dagli abitanti – e soprattutto, quale sia la concreta condizione della città: anzi, della civitas, della società che nella città vive e senza la quale essa non sarebbe “città”.

Grazie al loro aiuto abbiamo compreso meglio in che modo le nostre piccole storie si pongano nell’ambito di quel grande conflitto al quale mi sono riferito nell’aprire queste giornate. Il conflitto tra due concezioni e due strategie: quella della città come merce, tipica del neoliberalismo e caratterizzata dal vedere la città come una macchina fatta per arricchire gli appartenenti agli strati alti della società globale, e la città come bene comune, come costruzione collettiva finalizzata alle esigenze, ai bisogni, alla crescita delle persone che vi vivono, vi lavorano, vi abitano.

Il primo giorno ha lasciato molti dei partecipanti alla Scuola in una situazione di sgomento: che fare allora, come difenderci e difendere le verità di cui ci sentiamo portatori? Su questo punto tornerò in seguito, per tentar di restituire alcune cose che ci siamo detti nei colloqui che si sono intrecciati attorno alle riunioni generali e dei gruppi. Vorrei dire subito che è emersa praticamente da tutti gli altri esempi illustrati la situazione, l’accerchiamento, il dominio di concezioni e pratiche deleterie per la città così come la intendiamo e la vogliamo. Le “buone pratiche” hanno gettato germi di speranza e hanno testimoniato che “un’altra urbanistica è possibile”, ma a condizione che si sappia uscire dal guscio della nostra specificità e si riesca a far convergere l’urbs (la città fisica alla quale è soprattutto rivolto il nostro mestiere) con la civitas e la polis, la società e la politica. Ma anche su questo tornerò più avanti.

La seconda giornata è stata aperta da una lezione di Mauro Baioni, direttore della Scuola, che ci ha illustrato il contesto nel quale gli strumenti degli anni Novanta sono nati e le loro caratteristiche. Le urbaniste bolognesi, tutte operatrici nelle strutture urbanistiche pubbliche dell’area emiliana e animatrici della Compagnia dei Celestini (quindi attivamente impegnate sia nel mestiere che nella società), ci hanno illustrato in quale modo le concrete esperienze dei “programmi complessi” nella loro città abbiano generalmente tradito le speranze e le intenzioni, determinando un peggioramento delle condizioni che ci si proponeva di migliorare[4]. Un raggio di speranza è venuto dall’illustrazione del recentissimo piano strutturale comunale, che sembra suscettibile di aprire una nuova positiva stagione: a condizione però che si eserciti un’attentissima vigilanza sul modo in cui si risolveranno alcune ambiguità o genericità del dettato del piano (ad esempio, quali concreti contenuti avrà la “edilizia sociale” e chi ne saranno i beneficiari? Qual è il contenuto reale della “vivibilità” e “qualità urbana” che si propongono come obiettivi?).

L’esperienza internazionale, illustrata in apertura della terza giornata, si è sviluppata a partire da alcuni approfondimenti delle “Parole della città”, ed ha esplorato le politiche e i problemi della rigenerazione e della riqualificazione nel quadro europeo[5]. L’analisi ha messo particolarmente in luce come non sia sufficiente perseguire qualità e vivibilità (obiettivi che peraltro devono venire attentamente qualificati per non divenire ombrelli che coprono intenzioni anche antitetiche) a livello locale, ma come sia indispensabile praticare politiche a scala di area vasta. Alcune buone pratiche in Europa e negli USA hanno gettato qualche barlume di speranza sulle potenzialità dell’urbanistica, là dove urbs, civitas e polis si incontrano e collaborano per un obiettivo condiviso. La brillante illustrazione del progetto Urban di Cosenza ha rivelato come un’esperienza volta a superare le condizioni di disagio e mirata a specifici obiettivi di rinascita sociale della città abbia condotto a risultati positivi nell’assetto e nella vita della città ma come, una volta mutato il quadro politico, la situazione sia regreditai[6].

L’illustrazione dell’area Spina Tre a Torino ha aperto uno squarcio interessante e particolarmente istruttivo[7]. Non si è trattato questa volta di un “programma complesso”, ma di un intero piano regolatore, che è stato sottoposto a critica. La questione – è emerso – non sta tanto né solo nello strumento adoperato: anche quando si adopera in modo tecnicamente corretto uno strumento di per sé capace di governare l’insieme della città l’esperienza è deludente quando mancano due requisiti: la definizione di obiettivi sociali adeguati e condivisi, tra i quali l’uguaglianza dei diritti degli abitanti abbia un peso preminente, e quando vi sia un corretto inquadramento dei problemi e delle soluzioni alla scala che ciascuno di essi richiede. Il piano urbanistico comunale è anch’esso uno strumento:come per qualsiasi altro strumento i risultati dipendono dagli obiettivi e dai contenuti.

Di Napoli si è già detto. È utile aggiungere che è rimasta inevasa una domanda, che è emersa con maggior evidenza che in altre esperienze. Perché la svolta? Nel capoluogo campano essa è non è avvenuta nel passaggio non da una maggioranza all’altra, ma da una trasformazione dello stesso personale politico. Probabilmente l’involuzione ha coinciso con il mutamento dell’interesse di chi guidava la città (nella fattispecie Antonio Bassolino): quando ha privilegiato l’intesa con gli interessi economici dominanti rispetto al benessere dei cittadini. Ma Napoli ha testimoniato anche che l’efficacia della pianificazione (ancor oggi, otto anni dopo il passaggio dal Bassolino 1 al Bassolino 2) il PRG è ancora autorevole, efficace, e prosegue il suo cammino regolatore e attivatore di interventi virtuosi. Ciò dipende con ogni probabilità dal fatto, raccontato nel libro I ragazzi del piano, che esiste un ufficio del piano costruito e consolidato dopo due decenni di esperienze di lavoro comune, in stagioni difficilissime, ha hanno costruito e consolidato il rapporto tra urbs, civitas e politi negli anni in cui le tre realtà hanno saputo trovare la loro sintesi.

Che fare

Ho accennato alla sensazione di sgomento quando, al termine della prima giornata, ci si è resi conto della pervasività della ideologia del neoliberalismo e della conseguente strategia della “città come merce”. Sembra indubbio (tutte le testimonianze successive lo hanno confermato) che l’”accerchiamento” è forte. Le esperienze positive da un lato sono minacciate nella loro stessa possibilità di proseguire, o sono già cancellate, dall’altro lato, quando anche sopravvivano, sono ignorate, nascoste, negate. E indubbiamente l’ideologia dominante è quella promossa, instillata, inculcata dai poteri forti della globalizzazione. Poteri forti dei quali è diventata parte integrante l’appropriazione della rendita urbana, strettamente intrecciata alla rendita finanziaria e con essa diventata dominatrice dell’economia. Di una economia, d’altra parte, sulla quale la politica si è appiattita.

Per questa economia (e per questa politica) la città è diventata una macchina esclusivamente finalizzata ad accrescere le rendite e a moltiplicare i consumi di merci utili all’espansione produttiva (indipendentemente dalla loro reale utilità per l’uomo e per la società), a produrre forza lavoro a basso costo (l’immigrazione, i ghetti, gli slums sono funzionali allo “sviluppo”). Nella civitas si tende a spegnere ogni forma di dissenso suscettibile di minacciare quell’equilibrio sociale: quindi a trasformare la partecipazione politica in propaganda, ad alimentare il mito dell’insicurezza recuperando fantasmi medioevali, ad aumentare le segregazioni, i “recinti”[8], le gated cities, le disuguaglianze.

Cresce l’ingiustizia, crescono le privatizzazioni (le stesse aree a standard devono servire a far soldi, non a soddisfare le esigenze comuni degli abitanti), crescono le distruzioni dei beni comuni. Ma ecco allora, all’interno stesso delle condizioni provocate dal dominio dell’ideologia neoliberale e della “città come merce”, i germi della possibile speranza. Per dirlo con una sintesi, se l’urbs non incontra la polis perché la politica ha scelto altre strade, essa può resistere e rinascere alleandosi alla civitas, alla società. Se questa è oggi dominata dall’egemonia del neoliberalismo (la libertà vince sull’eguaglianza, il mercato è il regolatore assoluto, il pubblico è servo del privato, la comunità è negata dall’individuo) in essa però crescono i momenti di sofferenza, di critica, di ribellione. Ve ne sono ormai numerose testimonianze, in Italia e nel mondo.

In Italia vorrei sottolineare le numerosissime iniziative dei comitati in vario modo sorti per difendere singoli aspetti o porzioni della gestione del territorio. Episodi numerosissimi, mai censiti, sempre caratterizzati da un localismo che minaccia di spegnerli. Episodi, però, che cominciano ad evolvere verso la costituzione di “reti” che possono orientarli verso una strategia e dei contenuti più ampi. Mi riferisco alla Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio. Mi riferisco alla costituenda e analoga rete lombarda, alle reti che tentano di costituirsi nel Veneto, ai numerosi comitati che contestano le politiche urbanistiche di Roma e di Torino. Mi riferisco alle sollecitazioni, che nascono dal mondo sindacale, di saldare la difesa del territorio con la difesa del lavoro (l’altra grande vittima della strategie neoliberale). E mi riferisco a un episodio nel Mezzogiorno che porta una testimonianza di grande significato: la lotta per l’utilizzazione pubblica del grande complesso ex militare di Macrico, a Caserta[9].

L’intreccio tra “buone pratiche” e “buone lotte” può essere un modo utile per uscire dal guscio e riportare l’urbanistica nella civitas – in attesa del giorno in cui anche la polis riprenderà il suo ruolo di espressione della società e guida dell’economia, e non di ancella di quest’ultima. Da questa possibilità, da questa speranza nascono anche le risposte al “che fare”, che è venuta con forza dalle quattro giornate della scuola: cosa fare come urbanisti.

Gli urbanisti sono in primo luogo cittadini; allora è in primo luogo come cittadini che dobbiamo interrogarci.

Il primo obiettivo che dobbiamo proporci è di recuperare i senso critico: la capacità di vedere e comprendere le cose al di là della loro apparenza. La distinzione gramsciana tra senso comune e buon senso[10] è utile per comprendere il lavoro da fare. Ciò comporta la necessità di contrastare, come suggerisce Raffaele Radicioni, la tesi secondo la quale il reale è razionale, ciò che esiste è l’unica realtà possibile. Ciò comporta di non credere che la storia sia già scritta, e convincerci che la storia siamo noi che la scriveremo, se orienteremo la nostra azione nella direzione giusta e se riusciremo a lavorare in quella direzione con altri.

Dobbiamo ricordare che ogni nostro gesto (ogni parola come ogni azione) ha una direzione: se non la scegliamo noi, allora adoperiamo quella che il senso comune ci impone. Altro è se non diciamo “i sindaci non hanno risorse finanziarie e quindi sono costretti a vendere il territorio per sopravvivere”, o se noi diciamo “i sindaci sono stati costretti a non avere più risorse finanziarie e quindi…”.

Il secondo obiettivo è quello di comprendere. Lo so, per comprendere bisogna studiare, leggere, impiegare del tempo. Ma è la condizione necessaria; se non siamo in grado di farlo, allora è meglio rassegnarsi, smettere di protestare. La Scuola tenta di aiutarvi nel comprendere e studiare: non solo nelle sue giornate, ma anche regalandovi libri e inserendo in rete i testi delle lezioni e altri documenti utili a comprendere. Ed eddyburg è pronto ad aiutarvi con le sue risorse, con la piccola rete di esperti che attorno al sito gravita. Domandate, e cercheremo di rispondervi. Le cose sono complesse. I manuali di urbanistica, se sono utili per la professione, non bastano per comprendere la società, l’economia, le loro trasformazioni. Eppure, è di lì che l’urbanistica è sempre partita. A maggior ragione ciò è necessario oggi, in tempi di così immane trasformazione.

E in quanto urbanisti?

A maggior ragione in quanto urbanisti, dobbiamo innanzitutto comprendere. Questo significa studiare. Non aggiungo nulla di ciò che ho detto or ora, se non che l’aiuto che si sforza di dare eddyburg è particolarmente rivolto a chi, dentro o a ridosso alla pubblica amministrazione, ha il dovere e la possibilità di lavorare in modo efficace per una città migliore, e quindi ha i dovere di comprendere più e meglio degli altri ciò che determina le condizioni della civitas nell’urbs.

E ancora maggiori sono le possibilità dell’urbanista di far comprendere.

Possiamo dare un sostegno al movimento in più direzioni. La prima è quella di illustrare ciò che accadrà nella città prima che esso avvenga. Radicioni lo ha detto: i cittadini hanno iniziato la protesta a Spina 3 quando anno visto gli effetti molti anni dopo che le cause (il PRG) erano state proposte, accettate, consolidate. Perché nessuno lo ha raccontato prima? Colpa dei cittadini, ma anche degli urbanisti che forse hanno fatto poco per spiegare. La seconda è di adoperarsi per far sì che il movimento (i cittadini, i comitati, le piccole associazioni) escano dal localismo, dal settorialismo, dalla logica Nimby che è spesso il necessario punto di partenza. Del resto – l’ho appena detto – gli urbanisti lavorano a ridosso delle amministrazioni pubbliche, dei municipi, che sono (che devono tornare a essere) il primo punto di riferimento dei cittadini. È da lì che occorre ricominciare a fare politica. È lì che la civitas può cominciare a incontrare la polis, a modificarla.

Possiamo lavorare per modificare le istituzioni. I sindaci, gli amministratori, non sono tutti corrotti: moltissimi non lo sono. Se subiscono l’egemonia dell’ideologia prevalente è perché, spesso, non sanno, non comprendono: restano avvolti nella tecnicità di cui noi stessi troppo spesso ci ammantiamo. Dobbiamo far comprendere a loro (come del resto ai cittadini) quali sono le conseguenze sociali, economiche, territoriali delle scelte che si compiono: i prezzi delle soluzioni sbagliate, i vantaggi delle soluzioni possibili. Dobbiamo imparare ad argomentare le nostre tesi, le nostre proposte, le nostre denunce.

E dobbiamo (questo è un punto che Cristina Gibelli mi chiedeva particolarmente di segnalare) far bene il nostro mestiere, impiegare bene la nostra cassetta degli attrezzi. Ad esempio, il calcolo del fabbisogno. Questo è uno strumento fondamentale della nostra cassetta degli attrezzi: non si decide quante nuove aree si devono urbanizzare se non si è fatto un ragionamento e un calcolo sulle reali necessità di nuovi spazi per la residenza, le industrie, la distribuzione. Chi adopera oggi questo fondamentale attrezzo? Non è forse vero che oggi, nel migliore dei casi, si decide sulla base delle ragioni della mera attività edilizia? E nel peggiore sulla base degli interessi fondiari che si vogliono premiare? Primo dovere di un urbanista è spiegare al decisore che così è indecente, è contrario alla deontologia professionale, e che per questa faccenda l’amministratore si rivolga ad altri (a proposito, che fanno gli ordini, le associazioni sindacali, per tutelare il dovere deontologico degli urbanisti?).

Certo, spesso sarà difficile convincere il decisore, resistere alla sua insistenza (e magari, in un mondo nel quale il lavoro diventa sempre più precario, al ricatto). Spesso bisognerà cedere, attaccare il carro dove vuole il padrone. Ma sarà più utile, per l’interesse generale e per quello della città e dei cittadini, farlo dopo aver tentato di resistere, e avewr instillato magari un germe nella coscienza di quel decisore, se davvero non è corrotto intellettualmente o materialmente.

Gli spazi pubblici

C’è poi un campo d’azione nel quale la professionalità dell’urbanista può dispiegarsi con una pienezza di rapporto con la coscienza civile: il campo degli spazi pubblici. Questi sino decisivi per una città che voglia davvero costruire una società non atomizzata. Al Social forum europeo di Malmö, nel seminario che eddyburg, Cgil e Zone hanno contribuito a organizzare, un ragazzo greco ha detto: “ma come facciamo a riunirci, a discutere, a convincere gli altri abitanti che così non va, che quelle scelte sono sbagliate, che queste esigenze non vengono soddisfatte, se non abbiamo spazi pubblici dove riunirci?”. Testimonianza di un carenza che avvilisce la stragrande maggioranza dei nostri insediamenti. Qui c’è davvero molto da fare. Siamo pieni di parcheggi, siamo pieni di rotatorie e svincoli, ma mancano le piazze.

Ci lamentiamo per i “recinti” che separano l’una dall’altra parte le città dei ricchi, quelle dei benestanti, quelle delle varie categorie dei poveri. Vogliamo la mixitè. Perché allora non adoperiamo gli spazi pubblici (e magari l’individuazione di quelli che gli stessi abitanti scelgono come luoghi nei quali stare insieme) come i nodi di una ricomposizione sociale della città? Perché non avviamo, insieme ai gruppi di cittadini e alle associazioni più sensibili, una campagna di rilevamento e mappatura degli spazi pubblici da difendere, o di quelli da recuperare e restituire alla società? Molte strade si aprono a chi vuole orientare la propria professionalità nella direzione giusta.

Avviandomi alla conclusione, vorrei darvi qualche anticipazione sui nostri programmi. La prossima edizione della Scuola (la quinta, un traguardo significativo) sarà con ogni probabilità in Sardegna, ad Alghero. Sarà dedicata proprio agli spazi pubblici. Pur apportando qualche modifica, volta soprattutto a stimolare il lavoro degli studenti, la organizzeremo secondo lo schema attuale.

Una prima sessione sarà dedicata a tracciare, in un contesto pluridisciplinare, il quadro generale della situazione: parleremo dell’uomo pubblico e l’uomo privato, dell’intimo e del sociale, del pubblico e del privato; parleremo del diritto alla città (ci piacerebbe avere qualcuno come Stefano Rodotà a parlarne); cercheremo di parlare di condizioni e anche di principi: perché è ai principi che si parte. In una seconda sessione vorremmo lavorare sulla storia: in particolare, la storia di quella fase nella quale, grazie al fruttuoso incontro di urbs, civitas e polis, si affrontarono in Italia due grandi questioni della “città pubblica”: gli standard urbanistici e il diritto alla casa. Ragioneremo sugli anni 60 senza nostalgia, proiettando la nostra riflessione sull’oggi. Le altre due sessioni le dedicheremo, rispettivamente, alla presentazione di casi significativi e interessanti, dal punto di vista sia delle “buone pratiche” che delle “buone lotte”, e alla individuazione di quelli che chiamerei “i nuovi standard urbanistici”: che cosa bisogna fare per guardare avanti, al di là dei confini tracciati dall’impostazione degli anni 60, al di là non solo dell’impostazione meramente quantitativa, ma anche da una visione troppo appiattita sul locale e sul cittadino, troppo limitata a ciò che allora era essenziale e oggi è solo una parte delle “nuove essenzialità”: il tempo libero, le spiagge e i boschi, i luoghi della cultura.

Prima delle giornate della scuola (che si svolgerà in una dell prime settimane di settembre) vi proporremo altre cose da fare insieme. Faremo alcune cose interessanti in preparazione della scuola, con l’aiuto di alcuni di voi. Organizzeremo degli altri appuntamenti. Da queste giornate è emerso il comune interesse di approfondire la riflessione, in modo più specifico, su realtà che qui erano rappresentate solo come illustrazione di un ragionamento generale. Per Napoli, per Torino, per Bologna è sembrato a molti interessante approfondire la conoscenza dia della città che del suo piano: incontri di un paio di giorni, nei quali si possa conoscere meglio i documenti di piano, incontrare la città e i suoi abitanti (come ci invitava a fare Giovanni Caudo), e discutere sugli uni e sugli altri insieme. Poiché le risorse che possiamo dedicare alla scuola sono impegnate fino all’estremo da questa, organizzeremo queste giornate se qualcun altro se ne farà completamente carico. Roberto Giannì si è impegnato a farlo per Napoli, Raffaele Radicioni verificherà la possibilità di farlo a Torino, e sono sicuro che le nostre Celestine saranno in grado di farlo magnificamente a Bologna.

Ringraziamenti

Ringrazio ancora tutte e tutti. I docenti cha hanno messo gratuitamente a nostra disposizione il loro tempo, cosa abbastanza eccezionale in questi tempi. Gli studenti che hanno partecipato ancor più che in passato, e hanno davvero aiutato gli stessi docenti a ricalibrare giorno per giorno il taglio delle loro presentazioni. Il sindaco Daniele Ferrazza e l’ottimo assessore (ed enologo, come abbiamo potuto sperimentare) Franco Dalla Rosa, l’impareggiabile Suor Eliana, la cui intelligenza, la cui cultura (oltre che la pazienza e la disponibilità) sono state una piacevolissima sorpresa (a proposito, vi ricordo la serie di dibattiti che ha programmato sulla politica oggi, ho già sentito di qualcuno di voi che vi parteciperà). Infine, i cirenei dell’organizzazione di queste giornate: il direttore Mauro Baioni e Ilaria Boniburini, che hanno dedicato almeno un paio di intensi mesi delle loro vite al lavoro che c’è dietro la scuola, e alle new entries dello staff della scuola, Giorgia Boca e Patrizia Del Rosso. Una punta di rincrescimento per alcuni studenti degli anni scorsi che avrebbero voluto partecipare ma non hanno potuto. Speriamo di rivederli ad Alghero, con molti di voi.

© eddyburg.it. Chiunque può riprodurre l’articolo, alla condizione di citare l’autore e indicare la fonte, eddyburg.it

[1] Hanno illustrato la vicenda del PRG di Napoli Roberto Giannì, Gabriella Corona e Vezio De Lucia.

[2] I testi delle “Parole della città (vedi in eddyburg) sono stati redatti e illustrati da Ilaria Boniburini.

[3] Le scalette e, al più presto, i testi dei oro interventi sono in eddyburg, in una cartella dedicata alle lezioni.

[4] L’analisi della situazione urbanistica bolognese è stata svolta da Barbara Nerozzi, Chiara Girotti, Graziella Guaragno ed Elettra Malossi.

[5] La lezione è stata tenuta da Maria Cristina Gibelli.

[6] L’illustrazione del programma urban di Cosenza è stata redatta e presentata da Giorgia Boca.

[7] Essa è stata tenuta da Raffaele Radicioni.

[8] Questo termine, argomentato da Paola Somma, ha incontrato una particolare fortuna nel dibattito e negli interventi degli studenti.

[9] Vedi su eddyburg

[10] Vedi su eddyburg parole

Sono due gli argomenti intorno ai quali penso di articolare il mio contributo, anche tenendo conto di coloro che mi avranno preceduto.

Il primo riguarda una concezione della pianificazione “sensibile alle differenze”: alle differenze di età (bambini), di provenienza geografica (migranti), alle altre mille differenze, e anche a quelle di luogo ( e di opportunità che ne derivano).

Il secondo argomento riguarda il ruolo che possono avere, nelle situazioni di disagio sociale, le “politiche pubbliche dal basso”, le pratiche auto-organizzate di azione sociale, per una maggiore vivibilità della città. Partirò da alcune piccole storie del quartiere della Piagge di Firenze per definire più in generale i caratteri che le “politiche pubbliche dal basso” possono avere.

Si tratta di un argomento rilevante sul quale la discussione è aperta: l’ultimo libro di Stefano Moroni e di Grazia Brunetta (Libertà e istituzioni nella città volontaria), fornisce una interpretazione liberista del significato che possono avere le forme spontanee di auto-organizzazione capaci di produrre utilità collettive; io cercherò di fornirne una visione diversa.

Nella cartella letture consigliate possono essere scaricati due contributi, che hanno qualche relazione con questi argomenti (e contengono indicazioni bibliografiche forse utili); essi riproducono, con qualche taglio e qualche variazione, i seguenti due articoli:

G. Paba, “Corpi, case, luoghi contesi: osservazioni e letture”, in Contesti. Città, territori, progetti, n. 1, 2007, pp. 39-48 [si tratta dei primi semplici appunti di una ricerca in corso, pubblicati nella rivista del Dipartimento di urbanistica e pianificazione del territorio dell’Università di Firenze]

G. Paba, “Interazioni e pratiche sociali auto-organizzate nella trasformazione della città”, in A. Balducci, V. Fedeli, a cura di, I territori della città in trasformazione, Angeli, Milano, 2007, pp. 104-122.

A sei anni di distanza dalla prima edizione il «rischio stanchezza» esiste. Lo sanno bene gli organizzatori del quinto Social Forum Europeo (Esf) che parte oggi a Malmo, nel sud della Svezia, intenzionati innanzitutto a recuperare lo spirito delle origini, a rilanciare le lotte sociali in un Vecchio continente in crisi economica e sempre più succube delle politiche sociali imperanti. Si inizia oggi nel tardo pomeriggio con l'inaugurazione ufficiale e si finisce domenica mattina con l'assemblea dei movimenti sociali. In mezzo ci sarà il corteo di sabato e oltre 250 seminari, workshop e assemblee, più di 400 appuntamenti culturali e un numero imprecisato di manifestazioni, e meeting informali, a cui parteciperanno non meno di 20mila persone. Sotto il titolo «Costruire un'altra Europa possibile» si discuteranno i temi più svariati, ma con l'obiettivo comune di «costruire una società più sostenibile, più democratica e più equa», di «cambiare l'Europa», senza limitarsi a «constatare semplicemente la situazione attuale». Un compito arduo, per raggiungere il quale il Comitato organizzatore nordico (Noc) si è impegnato a inserire nuove energie, e a coinvolgere soggetti e paesi rimasti finora marginali. Rispetto alle edizioni precedenti (il primo Forum si è svolto a Firenze nel 2002) avranno maggiore spazio proprio le organizzazioni della Scandinavia, i sindacati, le associazioni femministe e giovanili, i gruppi umanitari e ambientalisti, che metteranno sul tavolo dell'Esf la loro lunga tradizione di lotte sociali e di conquiste in termini di eguaglianza di genere, di ambiente e di stato sociale. Un patrimonio che adesso anche qui nel nord Europa subisce i contraccolpi della globalizzazione e delle sue politiche neoliberiste, ma che nelle intenzioni del Noc può servire ancora da stella polare per quanti credono in un'altra Europa possibile. E poi verranno coinvolte le organizzazioni provenienti dall'Est europeo, con il loro contributo di esperienze politiche «originali» rispetto al resto del continente, e più in generale si tenterà di dare voce ai giovani e alle donne, e ai protagonisti dell'attivismo di base. Per raggiungere gli obiettivi della vigilia le circa 800 organizzazioni arrivate nel sud della Svezia dovranno fare meglio che nelle passate edizioni. Soprattutto - come ha spiegato alla France Presse Susan George, del Transnational Institute - non bisogna commettere gli errori del passato, quando i delegati hanno speso «troppo tempo in spiegazioni, descrizioni e analisi delle diverse crisi», senza arrivare a nulla di concreto. Questa volta dal Forum ci si aspettano meno chiacchiere e più «iniziative, azioni e alleanze forti» con cui dare vita a «un'altra Europa». I buoni propositi rischiano tuttavia di naufragare nella massa di tematiche in agenda nei 5 giorni. Dall'elenco di proposte iniziali (circa 70) il Noc nel corso delle Assemblee europee preparatorie (Epa), tenute a Istanbul, Berlino, Malmo e Kiev, ha tirato fuori una piattaforma per temi, definitivamente sintetizzata in un documento di dieci punti. Dai diritti sociali, allo sviluppo sostenibile, dalla lotta contro le politiche della «sicurezza» a quella contro le discriminazioni, dal pacifismo ai diritti del lavoro, fino alle alternative economiche, alla cultura e all'immigrazione. Ma la vastità del programma e dei temi non spaventa i partecipanti di quello che resta il più grande luogo di incontro per i movimenti sociali e la società civile progressista del continente. Piuttosto il problema sarà quello di non fermarsi a Malmo, di ripartire da qui per ridare centralità ai movimenti, e ricreare il clima di inizio millennio, quando i temi del Social Forum riuscivano a influenzare l'agenda globale.Qui la cartella degli eventi cui partecipa eddyburg

• Spina 3 e le Zone Urbane di Trasformazione del PRG di Torino 1995: dove sono e cosa sono le ZUT.

• I programmi di Trasformazione Urbana di Torino: localizzazioni e dati quantitativi. Previsioni al 1997.

• Il rapporto fra il PRG ed i Programmi complessi: bilancio sintetico al 2008, con l’ausilio della pubblicazione di Silvia Saccomani sull’argomento.

• I principali elementi quantitativi di Spina 3: in particolare gli spazi pubblici; conteggi e considerazioni con l’ausilio di quanto predisposto da Flavia Bianchi in occasione del Convegno di Torino nel maggio 2007 dedicato a Spina 3.

• Le principali proprietà fondiarie operanti nel complesso di Spina 3.

• Alcune immagini fotografiche, scattate nel luglio 2005 e nel maggio 2007 in alcuni settori di Spina 3.

• Il controllo democratico del progetto di Spina 3.

• Le premesse del progetto di Spina 3 nel PRG del 1995: le aree per servizi e le scelte fondanti del PRG.

Una delle ragioni della progressiva perdita di rilevanza sociale dell’urbanistica é da ricercare nell’allontanamento di questa dai temi che riguardano il modo in cui le persone abitano, dai problemi reali che queste affrontano quotidianamente nello svolgere le diverse attività che le impegnano.

La cultura urbanistica e quella architettonica, in questo concordi, si sono lacerate negli anni. La prima attorno alla questione della rendita, divisa tra chi voleva contrastarla e tra chi voleva favorirla. La seconda, la cultura architettonica, sembra essersi appiattita sulla dittatura del mercato imperante e sulle domande di spettacolarizzazione imposte dai processi finanziari impliciti nel mercato immobiliare. Un ripiegamento verso l’immagine, talvolta con tinte ecologiche, che non ha incontrato, se non raramente, le reali condizioni di vita delle persone, degli abitanti. In entrambe queste posizioni sono mancate le persone e le relazioni che queste intrecciano con lo spazio. Da qui é necessario ripartire.

Comprendere i bisogni, le aspirazioni e costruire risposte a partire dalle forme dell’abitare (dalle difficoltà di farlo) sono attività che hanno costituito la base del lavoro degli architetti-urbanisti nel XIX e XX secolo. Al centro della proposta operativa dei maestri era la complessità delle forme di associazione umana, l’interpretazione delle vicissitudini imposte agli individui dal cattivo sviluppo della città e del territorio.

Tornare a dispiegare delle letture per comprendere i bisogni, le aspirazioni, … non é facile. Leggere i “fenomeni”, “ciò che accade”, “quello che le persone fanno” è una pratica difficile e controversa. Difficoltà date, ad esempio, dall’”evanescenza del collettivo” che ha perso (si tratti di spazio o no) i caratteri che da sempre lo hanno segnato. Difficoltà che procede con la progressiva individualizzazione della società, della sua articolazione in isole che, però, non costruiscono arcipelaghi.

Eppure, questo ritorno a “le cose” ci appare inevitabile per uscire da una prassi tecnica, dove gli strumenti, le procedure prevalgono sul “cosa fare”, sul contenuto. Oggi pare che ogni cosa, purché dentro una qualche procedura, sia giusta e vada realizzata.

Tornare a “le cose” vuol dire assumere la prospettiva di interrogarsi sul cosa fare. In qualche modo, certamente in modo diverso dal passato, é anche tornare a fare “militanza”.

Mettersi dinanzi a questa prospettiva, tanto più se poi la si offre ai partecipanti della scuola, ci impone di chiarire le difficoltà, i rischi e le implicazioni. Ammesso che poi le ragioni di partenza risultino chiare e condivise.

I differenti profili degli intervenuti ci consentono di affrontare la necessità di tali chiarimenti e di delineare l’insieme delle questioni che il “vivere insieme” nella città contemporanea propone.

La sequenza degli interventi inizia con i contributi di Somma, Forni e Fava che guardano “le cose” da tre differenti punti di vista. Rispettivamente, quello dei “nuovi arrivati”, dei bambini e da un luogo, il quartiere Zen di Palermo. Ai tre interlocutori chiediamo che il loro racconto incontri anche i due temi esposti qui di seguito:

- “la contrazione” del senso proprio della Città come luogo d’incontro. La riduzione, la progressiva scomparsa, di ciò che sta tra noi e che ci fa stare insieme. Quel mondo di cose che la Harendt considerava essenziale per vivere insieme. Cosa oggi può costituire questo “in between” posto che lo spazio di prossimità si é sciolto in connessioni e legami a-spaziali? Qui confluisce un tema ancora più ampio, quello delle relazioni tra spazio e individui. Come si ridefinisce lo spazio di prossimità?

- la seconda questione, in realtà come per la prima si tratta di grumi di questioni, attiene al Diritto alla città. E’ questione controversa, ma ci interessa guardarla il più possibile in modo frontale, per esigenze di chiarezza e per tentare di contrastare un binomio – dentro/fuori - che si sta diffondendo in modo subdolo (forse neanche tanto subdolo). Per noi stare bene (sicuri) l’altro deve restare fuori. Negare il diritto all’estraneo, ma poi anche all’indesiderato, poi anche a chi non ha le risorse economiche necessarie, poi…. . Così si sta formando una sorta di città di sotto che cresce in dimensione e che sembra essere il destino dei “deboli”.

La sequenza prosegue con l’intervento di Paba il cui racconto, oltre ad incontrare i temi di cui sopra, ci piacerebbe che affrontasse il rapporto tra la conoscenza, quella acquisita guardando “le cose” e quella più esperta ma distaccata, meno partecipata. Le difficoltà di interpretare ciò che accade, per i motivi in parte prima elencati, ci pare che incontrano qui, nel crocevia di come si costruisce la conoscenza, gli aspetti più propriamente disciplinari. Aspetti che hanno implicazioni dirette sulla formulazione delle politiche di intervento e di costruzione delle scelte.

Vorrei iniziare il mio contributo leggendo alcuni narrazioni tratte dai testi indicati in bibliografia. Credo che possa essere un modo efficace per entrare emotivamente , prima ancora che razionalmente e ‘fisicamente’ nello spazio urbano del disagio, dell’emarginazione, della povertà, del degrado, della negazione (dell’altro) della lontananza, dell’assenza (esattamente le parole-chiave che ci ha proposto Ilaria Boniburini).

Ma vorrei che queste letture ci stimolassero poi a riflettere razionalmente sul “discorso” dello spazio. E proverò a farlo con l’aiuto dell’Antropologia e della Sociologia.

Se vogliamo mettere in positivo il tema della invivibilità, credo sia importante domandarsi come si produce culturalmente e socialmente lo spazio; e chi lo costruisce? E come lo si può comprendere? E quali effetti produce il mettere lo spazio (e non l’architettura) al centro del progetto urbano?

Vorrei riflettere con voi su come l’urbanità sia legata al processo di spazializzazione sociale. La produzione dello spazio riguarda infatti la riproduzione e l’interazione sociale e culturale.

E ancora:se è vero che culture differenti usano lo spazio (e lo costruiscono) in modo differente, come affrontare e mettere in positivo il conflitto che ne deriva?

Infine: come portare l’uomo e la sua cultura dello spazio al centro del discorso sulla sostenibilità urbana

Il desiderio di “ritornare alle cose”, che sostiene anche l’impresa di conoscenza etnologica, si dispiega da una parte nel riconoscimento dell’impossibilità di accedere al reale al di fuori di circuiti di mediazione e dall’altra nel discernere, nella domanda “Cosa fare?” “un dovere” (in realtà la domanda è “Cosa devo fare?”). Si tratta di un dover fare che è ad un tempo epistemologico, etico e politico. In questa prospettiva, il mio racconto della vivibilità del quartiere Zen [Zona espansione nord] di Palermo, centrato sui modi dell’abitare (nel senso di “produzioni” di configurazioni concrete che performano il nostro rapporto alle persone, ai beni e al tempo) sarà prima di tutto il racconto delle rappresentazioni “esterne” della sua qualità della vita, di quelle rappresentazioni che hanno la pretesa di restituire immediatamente “le cose”, le condizioni della periferia degradata e la invivibilità delle sue traiettorie individuali, trasformandola con i suoi residenti in un oggetto di sapere. L’ascolto “da dentro e dal basso” dei residenti e di quanti il territorio convoca (operatori esterni) porta alla luce un rapporto allo spazio e delle relazioni sociali che rimangono occultati dai discorsi dominanti, “dall’esterno e dall’alto”. Il concetto di qualità della vita, in realtà soggettivo ed esperienziale, rivela la sua natura “posizionale”, mediatrice di rapporti tra classe, generi e generazioni. L’apparato dei suoi indicatori oggettivi che vuole operazionalizzare il tradeoff tra interventi finalizzati, pubblici o privati, e la maggiore vivibilità del quartiere, appare essere una costruzione necessaria alla cultura delle politiche (policies) e della politica che fa funzionare volontari, architetti, pianificatori urbani, ricercatori sociali, amministratori pubblici, giornalisti e molte delle loro organizzazioni. Nelle maglie strutturali economico-politiche della città di cui il quartiere è secrezione, l’iniziativa individuale che si manifesta nelle “poetiche dell’abitare”, aggirando e integrando le cosiddette “ostilità spaziali”, ci invita a pensare ad una epistemologia diversa per comprendere la città. E illustra forse l’invenzione di un rapporto allo spazio urbano ancora tutto da apprendere. Il problema della vivibilità allo Zen è diventato in gran parte la sua stessa problematizzazione.

Riferimenti biografici

Ferdinando Fava (2008), Lo Zen di Palermo. Antropologia dell'esclusione, prefazione di Marc Augé, Franco Angeli Editore, Milano.

In eddyburg vedi la cartella periferie. In particolare segnaliamo due interviste, a Vittorio Gregotti, progettista del quartiere, e a Vezio De Lucia.

Riferimenti biografici

Ferdinando Fava, antropologo, insegna Antropologia Culturale, Patrimonio industriale e trasformazioni urbane presso l’Università degli studi di Padova. È ricercatore affiliato al Centre d’Anthropologie des Mondes Contemporains, dell’EHESS di Parigi. Ha studiato Sociologia Urbana all’University of California at Berkeley.

LA REALTÀ

Divaricazione tra crescita economica e benessere sociale

La società in cui viviamo ha consegnato il proprio futuro a un sistema fondato sull’accumulazione illimitata. Non appena la crescita subisce un rallentamento o si arresta, dilaga il panico. La capacità di sostenere il lavoro e di pagare lo stato sociale presuppone il costante aumento del prodotto interno lordo (PIL).La crescita però porta benefici soprattutto ai ricchi, è insostenibile dal punto di vista ambientale e sociale e si accompagna a una progressiva perdita di relazioni umane.

Esaminiamo sinteticamente i fatti:

1. Le statistiche sulla distribuzione del PIL tra capitale e lavoro ci dicono che negli ultimi dieci anni (in Italia negli ultimi trenta) la quota di reddito nazionale che va al lavoro dipendente è costantemente diminuita in tutti i paesi occidentali ed anche in quelli emergenti (Cina e India) e di converso è aumentata la quota di reddito nazionale che va al capitale.

2. Il “peso” ambientale dei nostri modi di vita e la loro “impronta ecologica” risultano insostenibili sia dal punto di vista dell’equità nei diritti di sfruttamento della natura che della capacità di rigenerazione della biosfera. I processi di trasformazione dell’energia non sono reversibili (seconda legge della termodinamica).

3. Al trionfo dell’economia corrisponde la progressiva scomparsa della dimensione sociale. La crescita della ricchezza si accompagna ad una progressiva perdita di relazioni umane fondamentali: amicizie,affetti, legami disinteressati.

4. I caratteri del neoliberalismo generano instabilità nei rapporti internazionali tuttora dominati dalla spirale guerra/terrorismo e dallo scontro latente tra le diverse “locomotive dello sviluppo”. La moltiplicazione e la diffusione geografica dei conflitti armati negli ultimi venticinque anni costituisce la continuazione della politica neoliberista “con altri mezzi”.

Dunque appare evidente che crescita economica e benessere sociale si stanno divaricando.

Il capitalismo d’oggi

All’origine dei fenomeni succintamente descritti vi è la forma attuale assunta dal capitalismo. Un sistema economico sociale che ha innalzato sull’Olimpo una nuova divinità, sconosciuta sinora a tutte le religioni rivelate: il Dio Mercato che tutto mercifica.

Per una lunga fase in Europa il capitalismo, regolato e temperato dalla forza del movimento operaio e dalle sue espressioni sindacali e politiche, aveva prodotto un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia e dei ceti popolari. Compito del movimento sindacale e dei partiti della sinistra era quello di promuovere lo sviluppo perché solo attraverso una maggiore produzione di ricchezza si creavano le condizioni favorevoli per una migliore ripartizione della crescita.

La caduta del muro di Berlino arrivò come una conferma delle virtù superiori del capitalismo e aprì una nuova fase della sua storia: l’allargamento del mercato mondiale a tutti i paesi, il predominio della dimensione finanziaria su quella concreta, la riduzione del ruolo dello stato nazione e la creazione di un immenso, globalizzato, mercato del lavoro. Mezzo miliardo di lavoratori occidentali sono stati messi in concorrenza con un miliardo e mezzo di lavoratori orientali con la conseguenza che il lavoro si paga a prezzi sempre più bassi mentre le merci si pagano a prezzi dei paesi più “sviluppati”.

E così tutte le conquiste storiche del movimento dei lavoratori sono state velocemente messe in discussione. Esemplare la sconvolgente direttiva europea sull’allungamento degli orari di lavoro. Non solo, le politiche neoliberiste, nelle stesse società ricche, hanno generato nuove forme di povertà, marginalità ed esclusione sociale.

In sostanza, il welfare è stato, anche nell’Europa socialdemocratica, parzialmente smantellato e, soprattutto, è ripresa – dopo quasi mezzo secolo- una divaricazione/polarizzazione crescente tra le fasce di reddito medio alte e la maggioranza della popolazione.

Per dare una risposta al disagio sociale il Washington consensus continua a ripetere: bisogna rilanciare la crescita economica e reggere la competizione asiatica attraverso l’aumento della produttività del lavoro e il taglio della spesa sociale. La risposta dei principali governi europei si esprime attraverso la nota ideologia Sarkoberlusconiana: “se vuoi guadagnare di più devi lavorare di più”.

Entra in crisi il luogo di lavoro

come luogo delle relazioni

Storicamente il luogo di lavoro, e la fabbrica in particolare, ha rappresentato il luogo d’incontro, di solidarietà, di rapporti sindacali, d’interessi comuni, di amicizia. Oggi la fabbrica è cambiata.

Tutte le forme di relazioni sociali sono diventate più rade e più fragili. Le attività di gruppo che hanno sempre formato una parte intrinseca della socialità del lavoro risultano difficili. Si stenta persino a mettere insieme una squadra sportiva. La ragione principale non sta nel cambiamento degli stili di vita: la causa principale sta nei contratti di breve durata, nel precariato, nella dispersione del lavoro, nell’affidamento a imprese esterne, diverse dall’impresa che controlla la fabbrica, di segmenti sempre più ampi del processo produttivo interno.

Oggi può accadere che su cento lavoratori in attività entro una fabbrica, ma anche in un cantiere, in un dato giorno, appena un terzo o un quarto siano dipendenti fissi dell’impresa cui la fabbrica stessa fa capo. Gli altri sono lavoratori che oggi ci sono ma domani, o tra una settimana o un mese, non ci saranno più, o verranno sostituiti da qualche faccia nuova. Per alcuni sarà scaduto il contratto, quale che fosse, da interinale, da apprendista, da collaboratore o da contratto a tempo determinato. Ad altri, dipendenti da imprese terze, subentreranno in fabbrica i dipendenti da nuove imprese.

La fabbrica così da luogo canonico di permanenza e stabilità, si trasforma in luogo di frettoloso passaggio. E’ un cambiamento epocale.

Nella vecchia fabbrica fordista tutto si faceva in casa. Tutti dipendenti a tempo indeterminato. Chi entrava in queste fabbriche spesso ci rimaneva una vita ed era dunque interessato a lottare per migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro. Si determinarono così le condizioni per lo sviluppo di una fortissima solidarietà di classe guidata da un’idea di uguaglianza.

Il postfordismo è il rovesciamento di questa impostazione. Conviene esportare fuori dalla fabbrica una serie di funzioni, si risparmia. È una corsa alla riduzione delle dimensioni produttive, la fabbrica snella tende a procurarsi all'esterno ciò che prima produceva all'interno.

La fabbrica si disperde sul territorio

Nasce così l'impresa a rete, il lavoro si disperde nel territorio. Prima le reti erano corte, distrettuali, oggi le reti diventano sempre più lunghe, tendono a stendersi ed articolarsi su scala planetaria, connettendo segmenti di produzione, saperi tecnologici e reti commerciali, dislocate magari in continenti diversi.

Il cambiamento è reso possibile dalla rivoluzione delle nuove tecnologie dell’I.C.T. che velocizzano le comunicazioni e dalla ricerca del capitale di luoghi di produzione a minor costo del lavoro.

Così la fabbrica postfordista esternalizza, il lavoro si disperde nel territorio. In molte regioni, come nel Nord Italia, nascono come i funghi i capannoni in mezzo alla campagna , dove il terreno costa meno.

La fabbrica just in time elimina il magazzino perché esso viaggia sulle nostre strade congestionate che a loro volta attirano attività commerciali, il tutto genera una mobilità multidirezionale delle merci e delle persone, quasi sempre su mezzi privati che congestiona il traffico e soffoca la nostra esistenza.

Una mutazione gigantesca, formata dalla somma di trasformazioni diffuse e capillari, ha investito negli ultimi decenni particolarmente il Nord Est d’Italia. Un diluvio di cemento che ha deturpato uno dei paesaggi più belli d'Europa. Si affermano nuovi modi di costruire. Le strade-mercato, una successione lineare di fabbriche ed edifici mostra che ha invaso ormai l’intera pianura padana. Più in generale, quello che un tempo era campagna è diventato un paesaggio reticolare della piccola impresa disseminato di case laboratorio. Nuovi monumenti suburbani crescono come funghi, sono i centri commerciali che sostituiscono le vecchie piazze cittadine.

Un modello di urbanizzazione costoso in termini di distruzione di suolo agricolo, di aumento di spese di energia e di tempo nonché insostenibile da un punto di vista ambientale e scarsamente competitivo rispetto ad altri modelli territoriali. Una dispersione insediativa per la quale gli americani coniarono il termine “ sprawl town”, letteralmente: città sdraiata sguaiatamente.

L’habitat dell’uomo

diventa una marmellata

In sostanza, l’ambiente della vita dell’uomo diventa una marmellata; è sempre più privo di forma e memoria dei luoghi, è vissuto come alienante soprattutto dalle nuove generazioni. Ecco una delle cause della crisi del luogo dell’abitare.

Dalle città stanno scomparendo i luoghi d’incontro, anche per effetto della prepotenza del traffico automobilistico. Le piazze sistematicamente trasformate in parcheggi ne sono una manifestazione esemplare. Sono state il gioiello e il simbolo delle città come bene comune, come “casa della società” secondo la bella definizione di Salzano. “Hanno costituito il luogo nel quale gli abitanti diventavano cittadini, s’incontravano, si scambiavano informazioni, condividevano sentimenti ed emozioni: erano un crogiuolo di diverse esperienze, condizioni, età, mestieri. Oggi sono distrutte dall’invasione delle automobili. Analogo destino hanno avuto le strade. I grandi viali erano caratterizzati da grandi marciapiedi(…)..Le strade strette tra le case a due tre piani, nei paesi e nei centri storici, erano i luoghi dove i vicini si sistemavano a crocchio sulle sedie, fuori dall’uscio di casa per conversare” (Salzano, 2007).

Tutto ciò tende a divenire luogo di parcheggio. Tra i molti primati negativi, l’Italia ha anche la più alta quota di automobili private e la più bassa per traffico assorbito dai mezzi pubblici. Non solo perché non s’investe nel trasporto pubblico ma anche perché continua a mancare una pianificazione urbanistica tesa a contenere la dispersione insediativa e a favorire un’organizzazione del territorio fondata sulla vicinanza delle residenze ai luoghi quotidianamente frequentati (scuole, servizi, luoghi di lavoro), sulla conseguente facilità degli spostamenti pedonali e ciclabili e sulla coincidenza dei nodi del trasporto collettivo.

Le città si allargano, si “sdraiano sguaiatamente sul territorio”, perché tanti cittadini vanno a vivere in luoghi nei quali gli i prezzi delle case siano meno elevati di quelli nella città. Tutto ciò ha effetti pesanti sul sistema territoriale e su quello sociale: una crescita esponenziale della mobilità privata, una spinta vera all’isolamento, una segregazione dei ceti cui gli alti costi impediscono di accedere alla vita in citta.

Come riconquistare i diritti

per la città e per il lavoro?

“La città può diventare di nuovo l’ambiente favorevole alla vita dell’uomo se saremo capaci di restituirle la sua natura originaria di casa della società: (…). La città nel suo insieme e le sue parti vitali devono quindi essere viste, sentite e organizzate come beni comuni. Beni quindi, e non merci: prodotti e servizi che valgono di per se, non in quanto possono essere scambiati con altri o con la moneta. Comuni quindi, e non individuali: elementi materiali e immateriali che solo temporaneamente e occasionalmente possono essere goduti o fruiti da uno dei membri della comunità, ma che appartengono alla comunità nel suo insieme.” (Salzano 2007).

Questi principi comportano la necessità di compiere determinate scelte. La principale è che le trasformazioni della città debbono avvenire secondo un piano, un disegno e un programma unitario rispondente agli interessi della collettività e non già - come oggi avviene correntemente in Italia – agli interessi della rendita immobiliare.

L’accesso alla casa per tutti – il diritto alla casa - e il diritto alla città per tutti è un grande tema, particolarmente in Italia: un tema controcorrente. Molte ordinanze dei “sindaci sceriffo” ci dicono invece che questi diritti oggi sono negati a chi per reddito o per etnia o per condizione sociale, per religione o per recente immigrazione è considerato pericoloso semplicemente perché diverso, e quindi emarginato e segregato in parti separate della città, nei nuovi ghetti. A questi corrispondono i “ghetti dei ricchi”: villaggi recitanti e video sorvegliati dove le famiglie benestanti si rinchiudono, segregandosi dalla paura di dover condividere i propri privilegi con gli abitanti delle aree vicine.

I costruttori della “fabbrica della paura” chiedono braccia per accudire i nostri vecchi e per i lavori più dequalificati nelle nostre fabbriche, ma una volta terminato il turno di lavoro si pretenderebbe che scomparissero dalla nostra vista. Essi sono ormai parte essenziale di un lavoro che si disperde in mille rivoli in un territorio sempre più ampio e contemporaneamente assistiamo ad una concentrazione finanziaria e dei centri di comando.

Questo cambiamento rende più ardua la tutela dei lavoratori non solo perché il lavoro è disperso nel territorio, ma anche perché all’interno dello stesso sito convivono lavoratori con contratti diversi. Dentro le mura di una stessa fabbrica lavorano lavoratori stabili con contratti a tempo indeterminato insieme a lavoratori somministrati a pseudo soci di pseudo cooperative super sfruttati, spesso impegnati nella logistica, e ancora tempi determinati e altre numerose forme di precariato. Questo fenomeno non riguarda solo l’industria, è pervasivo di tutti i settori produttivi e dei servizi pubblici e privati.

LE POLITICHE CONTRATTUALI PER IL LAVORO

Il lavoro frantumato

In Italia, in questi ultimi anni, al blocco delle assunzioni nel pubblico impiego ha corrisposto l’esternalizzazione di molti servizi a privati e a pseudo cooperative, nei comuni e province, nelle Unità sanitarie locali, nello stato e nel parastato.

Nello stesso luogo di lavoro operano fianco a fianco lavoratori con diverse tipologie contrattuali e magari dipendenti da diverse imprese con la conseguenza che ad essi vengono riconosciuti diritti del tutto diversi sia sul piano salariale che sul piano normativo.

Molto spesso noi siamo in grado di contrattare solo per i lavoratori stabili e a tempo indeterminato. E così veniamo accusati di difendere i presunti privilegi dei lavoratori dotati di diritti a scapito dei giovani e dei precari. Prima frantumano il lavoro, lo deprivano di diritti e poi lo usano per erodere le mura della cittadella dei diritti.

Mentre noi vogliamo estendere i diritti a chi ne è privo, loro tentano di far credere che togliendo i diritti a chi ancora li ha, sia possibile migliorare le condizioni di chi non ne ha, quasi che la cosa funzionasse sulla base del principio dei vasi comunicanti.

Ma non basta la denuncia per difendere le nostre conquiste, occorre riqualificare la nostra contrattazione per riunificare ciò che l’impresa frammenta per indebolirci.

Rilanciare e riqualificare

la contrattazione aziendale

In questi anni le condizioni di lavoro sono peggiorate. E’ necessario perciò riqualificare la contrattazione aziendale sull’organizzazione del lavoro, sui carichi, sui ritmi, sugli orari, sulla salute e la sicurezza.

La riconquista di un potere d’intervento delle rappresentanze sindacali unitarie nei luoghi di lavoro (R.S.U.) su questi temi è la condizione per esercitare nei fatti i diritti sanciti dalle leggi e dai contratti, altrimenti destinati a rimanere sulla carta. Così come è essenziale tornare a rivendicare quelle conoscenze ed informazioni che permettano di ricostruire il ciclo produttivo frammentato.

Ma non basta più la contrattazione nel luogo di lavoro, e dentro il luogo di lavoro, solo per il nucleo di lavoratori stabili. È indispensabile ricomporre tutto ciò che è stato decentrato, terziarizzato, esternalizzato attraverso una contrattazione di sito e di filiera, capace di ricomprendere tutto il ciclo del prodotto o del servizio, riunificando la rappresentanza unitaria dei lavoratori che vi sono coinvolti.

Una contrattazione che sappia parlare a tutta quella vasta variegata gamma di lavoratori che operano dentro lo stesso luogo di lavoro indipendentemente dal tipo di contratto o dell’impresa alla quale appartengono. Il tutto nel quadro di un rinnovato ruolo centrale del Contratto collettivo nazionale di lavoro con funzione sovraordinata. Questa è la sfida per il futuro. Alcune esperienze ci dicono che è possibile. E’ questo un segno di speranza per tutti noi.

La contrattazione sociale territoriale

Il secondo terreno d’iniziativa è rappresentato dalla contrattazione sociale territoriale, ovvero la connessione tra la contrattazione aziendale e il territorio, con un duplice obiettivo: riprendere il controllo sull’intero ciclo produttivo - ovvero l’intera filiera di fabbricazione di un prodotto o erogazione di un servizio spesso dispersa nel territorio -e la saldatura tra i diritti del lavoro e i diritti di cittadinanza in materia di salute, di scuola, di servizi sociali e via dicendo. A questo scopo alcune Camere del lavoro (strutture territoriali della CGIL) si sono dotate di Consigli di zona, organismi di partecipazione democratica dei delegati di luogo di lavoro. Altre, da tempo sviluppano una interessante contrattazione territoriale. Il territorio in quanto spazio fisico sempre più strettamente interconnesso con le dinamiche produttive diventa decisivo sia per riprendere il controllo della filiera sia perché la contrattazione di luogo di lavoro possa disporre di una iniziativa esterna in materia di formazione, ricerca, politica industriale. Oppure, per l’importanza di accompagnare la contrattazione del salario con una contrattazione sociale in grado di ottenere risultati su materie come gli asili nido, i servizi di assistenza, la sanità, la casa, i trasporti, i beni comuni prodotti dai servizi pubblici locali (acqua, ambiente, energia), l’integrazione dei migranti, la vivibilità urbana, anche attraverso la richiesta al sistema delle imprese di contribuire al finanziamento del welfare locale.

È un salto culturale, politico e organizzativo quello che noi proponiamo: la saldatura tra la contrattazione di secondo livello e la contrattazione nel territorio. È questa una proposta di allargamento del campo d’azione del nostro lavoro sindacale per tenere insieme il luogo di lavoro e la sua inscindibile relazione con il contesto territoriale, nei suoi diversi aspetti di organizzazione e pianificazione dello spazio urbano, di equilibrio ambientale, di qualità ed efficacia del welfare locale.

Perché nascondono il lavoro dipendente?

Da troppi anni viviamo in una realtà virtuale, quella che ci viene rappresentata dai media. Per anni ci hanno raccontato che gli operai erano una specie in via di estinzione e che più in generale il lavoro dipendente sarebbe stato destinato ad essere sostituito dal lavoro autonomo. Chi non capiva questi processi veniva dipinto come vecchio ed incapace di comprendere la modernità.

È successo esattamente il contrario: tra il 2000 e il 2006 gli operai sono aumentati del 13% raggiungendo quota 8 milioni, il 35% degli occupati. Nello stesso periodo gli imprenditori sono invece diminuiti del 34% passando da 525.000 a 346.000. Vale a dire la supposta centralità dell’impresa corrisponde all’esercizio di un comando di una minoranza che si restringe sulla maggioranza.

L’aumento del lavoro operaio, seppur diversamente distribuito tra agricoltura, industria e servizi si situa all’interno di una più generale tendenza all’espansione del lavoro dipendente in Italia, in Europa e nel mondo. Su un totale di 22 milioni e 900 mila occupati i lavoratori dipendenti in Italia risultano essere 16 milioni 900 mila, il 73, 5 %. Nel Veneto delle partite IVA la percentuale è addirittura superiore.

Dunque il lavoro dipendente non solo non scompare ma al contrario aumenta, si estende e si diversifica mentre come dice Censis, anche quest’anno abbiamo assistito ad una riduzione del lavoro autonomo. Perché allora ci rappresentano quotidianamente un’altra realtà?

La ragione è semplice. Se si riesce a far credere che la tendenza dell’economia è quella all’estinzione del lavoro dipendente, cade la necessità di rappresentarlo. Quindi cade anche la distinzione tra destra e sinistra che nella rappresentanza del lavoro trova la sua ragione costitutiva.

Ne consegue che per la politica diventa centrale la rappresentanza dell’impresa e del lavoro autonomo.

Gli operai non compaiono mai nel mondo delle immagini costruite dai media. Eppure, tutte le cose di cui siamo circondati e che usiamo quotidianamente sono uscite da una fabbrica. Di li vengono l’auto il frigorifero, il telefono e il televisore. Da una fabbrica sono usciti pure la tazzina di caffè che abbiamo sorseggiato e il tavolo su cui l’abbiamo posata, il computer col quale abbiamo scritto questa relazione e la carta su cui l’abbiamo stampata.

Le cose uscite da una fabbrica spesso (non sempre) ci rendono la vita più comoda. Ma quanto più cresce il numero di lavoratori globali e la ricchezza da essi prodotta tanto più il capitale ha bisogno di oscurare, manipolare e infine cancellare la presenza dei produttori di tale ricchezza. Scrive Paolo Ciofi: “La rutilante invasività dell’immane raccolta di merci penetra in tutti i pori della società e tenta di sedurci ogni istante dai teleschermi in ogni angolo del pianeta, ma dei lavoratori – della loro vita, dei loro pensieri, dei loro sentimenti, delle loro azioni – raramente si trova traccia. Non solo sui teleschermi, o nella realtà immaginaria costruita dai media secondo gli stereotipi dell’ideologia dominante. E non solo nel senso comune diffuso dalla cultura di massa, ma anche nell’assetto della società reale, come pure nei sistemi politici emersi dalla transizione del “secolo breve” verso il nuovo secolo. E’ il dominio onnivoro delle merci, cioè delle cose, sugli esseri viventi. Il massimo dell’alienazione” (Ciofi, 2008).

Infatti, anche l’originaria liberazione dai bisogni, conquistata con la crescita del reddito, muta la sua natura se si trasforma in una nuova schiavitù verso necessità crescenti e perennemente insoddisfatte. La creazione di nuovi bisogni a mezzo di bisogni – alimentata dalla nuova religione della crescita – somiglia alla ruota in cui corre inutilmente il criceto, per non generare frustrazione. La stessa rapidità con cui i beni si trasformano in rifiuti mostra come la positività originaria dello sviluppo degrada rovesciandosi nel suo contrario.

Al tempo stesso, la riduzione dei cittadini a puri agenti produttori e consumatori, per tenere insieme la macchina economica, corrode il tessuto connettivo della vita sociale, atomizza gli individui. Per dirla con Piero Bevilacqua, trionfa l’economia e muore la società (Bevilacqua, 2007). Un’inversione dei fini che si consuma sotto i nostri occhi. Con il dissolvimento della società anche i collanti ideali che hanno sinora tenuto insieme i partiti si disfano, lo stesso cemento di partecipazione e controllo, su cui regge la democrazia si sgretola. Ma nella società pulsa anche il cuore della nostra felicità terrena: la fitta rete di rapporti interpersonali, l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il senso stesso della vita. La società, dunque è un bene inestimabile, un patrimonio storico che ereditiamo quale risultato di una gigantesca opera collettiva. E’ un bene tecnicamente irriproducibile che non si compra in alcun supermercato.

Un bene che non possiamo sacrificare sull’altare del Dio Mercato. Gli uomini e il loro benessere devono tornare ad essere il fine e non il mezzo, lo strumento di una crescita economica peraltro sempre più insostenibile per il nostro pianeta. Si riaffaccia dunque il tema del come e cosa produrre.

VI SONO SEGNI DI SPERANZA?

Sul versante del lavoro

Sul versante del lavoro rimane forte la volontà della CGIL di riaffermare il proprio ruolo di sindacato generale dei diritti e della solidarietà. Per noi rimane centrale il CCNL come strumento fondamentale di solidarietà tra grande e piccola impresa, tra nord e sud del paese.

Non possiamo accettare una deriva verso l’aziendalizzazione della contrattazione - e quindi del sindacato - pena un’ulteriore frammentazione delle tutele tra chi è più forte ed è in grado di difendersi e chi è più debole ed è esposto alla riduzione delle tutele. Lontana è invece, purtroppo, la necessaria prospettiva di una contrattazione su scala europea.

Sul versante del territorio

Sul versante della difesa del territorio, negli ultimi anni sono nati in Italia alcuni movimenti a forte caratterizzazione territoriale. La tendenza in atto è tesa a superare la loro connotazione localistica, individuando categorie interpretative più ampie entro cui collocare le loro rivendicazioni, e costruendo nel contempo una rete di collegamenti e di sinergie tra esperienze simili.

E’ il caso, ad esempio, delle lotte contro le centrali termoelettriche, le discariche e gli inceneritori, le grandi infrastrutture stradali e ferroviarie, la militarizzazione del territorio, la chiusura di presidi sanitari, la privatizzazione dell’acqua e il potenziamento del welfare locale.

Tali movimenti, sempre più diffusi, valorizzano forme di democrazia diretta per contrastare la privatizzazione e il saccheggio del territorio. Operano come insediamenti specifici a forte radicamento territoriale. Sviluppano forti legami sociali, rivendicano trasparenza e diritto all’informazione e si avvalgono di competenze tecnico scientifiche.

A fronte di una capacità dei movimenti di mettersi in rete non corrisponde ancora pienamente una capacità del movimento sindacale territoriale di porsi in una relazione feconda con essi. Il mondo del lavoro, tranne alcune importanti eccezioni, sulle questioni territoriali sembra procedere ancora su binari separati da quelli dei movimenti. Analogamente vi è un distacco da parte dei movimenti rispetto alle rivendicazioni propriamente sindacali.

I due mondi non si fondono appieno nel territorio. Tuttavia, in alcuni casi di maggiore resistenza e capacità creativa, alcune realtà locali acquistano una funzione emblematica, che esce dai confini propri ed entra nell’arcipelago delle lotte che acquistano tanta autonomia e tale continuità da rappresentare i semi riconosciuti di un’alternativa antineoliberista. Quando scatta questo innalzamento di livello, anche la separazione del mondo del lavoro e di altri soggetti si affievolisce e la ricomposizione produce un fatto politico che oltrepassa la vita e l’estensione sociale dei movimenti.(Agostinelli, 2008)

Il caso di Vicenza

Un esempio è rappresentato da quello che è accaduto negli ultimi anni a Vicenza : un movimento sviluppatosi contro la militarizzazione della città. Partendo da un fatto locale (la realizzazione di una nuova base militare USA) il messaggio è diventato globale immediatamente e ovunque riconoscibile

Dopo essere stata palcoscenico della destra di Berlusconi e Bossi, un’altra Vicenza è scesa in campo. La città nella quale ho operato fino a qualche mese fa vive da oltre due anni in un fermento politico e culturale senza precedenti. In brevissimo tempo è diventata un luogo di partecipazione e di azione politica davvero sorprendente. L’incontro tra comitati civici, gruppi pacifisti, associazioni, singoli cittadini e, naturalmente, la Cgil, ha prodotto un movimento che ha riscosso simpatia e solidarietà su scala nazionale e internazionale. Un movimento costituito da una pluralità di soggetti di varia ispirazione politica e culturale, e da cittadini di diversa condizione sociale.

Senza rinunciare alle nostre differenze, abbiamo saputo dialogare e lavorare insieme per ribadire il nostro netto NO alla nuova base militare americana.

CHE FARE

Tre principi di fondo

da cui partire per il domani

Sulla base dell’esperienza che ho vissuto a Vicenza, dove lotte sindacali e lotte cittadine si sono unificate per un obiettivo comune, traggo tre principi di fondo, che possono costituire la base per costruire un domani migliore.

La Terra. Intesa come difesa del nostro spazio sociale e ambientale, ma anche come difesa di un bene comune, della nostra identità collettiva, della nostra qualità della vita. La presenza di tante donne e mamme che portano i loro figli alle manifestazioni testimonia che questa lotta viene condotta anche in nome delle generazioni future.

La Pace. Intesa come ripudio della guerra, secondo il dettato della Costituzione italiana. Intesa anche come volontà dei vicentini di impedire che questa città sia trasformata nella base logistica più importante dell’esercito americano per i teatri di guerra del martoriato Medio Oriente.

La Democrazia. Intesa come volontà dei cittadini di non delegare il proprio destino a istituzioni sempre più autoreferenziali. L’esempio più clamoroso è quello dell’ex sindaco di Vicenza, il quale da un lato riconosce che la stragrande maggioranza dei cittadini è contraria alla base, e nello stesso tempo si fa di questa stessa base convinto assertore.

Unire il “rosso” e il “verde”

Il tema della difesa del territorio come bene comune, nell’accezione patrimonio fisico, sociale e culturale costruito nel lungo periodo, se messo in correlazione con le dinamiche del postfordismo, può essere terreno per costruire una moderna critica all’attuale fase dello sviluppo capitalistico.

Lo sfruttamento dell’uomo sulla natura è un aspetto del più generale sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della conseguente ricerca di una diversa ragione dello sviluppo. Un discorso ecologico cioè non può essere disgiunto da un discorso sociale e viceversa.

Quindi se la coscienza di luogo è minacciata dalle devastazioni ambientali prodotte dal capitale, mi chiedo se su questo terreno non sia possibile costruire una nuova coscienza sociale: l’interesse generale contrapposto all’interesse egoistico di pochi.

È necessario un incontro tra il movimento sindacale e i comitati, le associazioni, i gruppi, spesso nati spontaneamente attorno a un evento, una minaccia, un progetto. Una nuova coscienza collettiva che nasca da questo incontro non può che essere fondata sulla consapevolezza dell’impossibilità del mercato di risolvere i problemi derivanti dal carattere intrinsecamente sociale e collettivo della città e del territorio, in contrasto con il carattere individualista proprio dell’ideologia che sta alla base del sistema capitalistico, ovvero dell’attuale sistema economico sociale.

Come ha detto recentemente Alberto Asor Rosa “La cosa, se si entra nel merito, è tutt'altro che semplice: una classe operaia ecologista ancora non s'è vista ma neanche s'è visto un militante ecologista capace di «pensare» la questione sociale contemporanea. E pure sempre più avanza la consapevolezza che il destino umano risulta dalla composizione, meditata e razionale, delle due prospettive e cioè, per parlarne in termini politici, dalla sovrapposizione e dall'intreccio del «rosso» e del «verde»” (Asor Rosa, 2008).

Le contraddizioni su cui far leva

Quali le contraddizioni su cui fare leva? Sul versante dei rapporti di produzione la contraddizione tra capitale e lavoro, seppur nelle nuove condizioni, non ha mai cessato di operare. Sul versante della difesa del territorio come bene comune ancora una volta faccio ricorso alle posizioni espresse da Salzano..

La privatizzazione del suolo urbano è la prima contraddizione tra il sistema economico sociale e la città perché chi governa in nome dell’interesse collettivo non è libero nelle sue operazioni.

La seconda contraddizione tra habitat umano e sistema capitalistico consiste nel fatto che quest’ultimo riconosce quale unico valore socialmente rilevante quello economico, inteso come valore di scambio, dimenticando completamente l’altra componente, ovvero il valore d’uso. In altri termini, le cose hanno valore, e quindi meritano di essere considerate, promosse, tutelate solo se possono essere comprate e vendute: non hanno valore in se. In una parola i beni sono ridotti a merce, il territorio è ridotto a merce.

La terza contraddizione è quella che nasce come questione ambientale. Aver ridotto l’intero ciclo economico alla produzione via via crescente di merci minaccia oggi la sopravvivenza delle stesse basi materiali sulle quali poggia l’esistenza dell’umanità sul pianeta terra.

“Ricostruire una città umana significa eliminare la congestione, restituire alle piazze la loro funzione originaria di luogo d’incontro, di scambio di esperienze, significa rendere accessibile per i deboli, come per i forti, i luoghi della vita collettiva ed i luoghi della vita privata, significa fare della città il luogo nel quale i differenti ceti, i differenti mestieri, funzioni sociali, differenti etnie, abitudini, culture si mescolano e si scambiano reciproci insegnamenti" (Salzano, 2007).

La visione è una linea di valorizzazione del lavoro, investendo nel fattore umano. Essa passa attraverso la riunificazione graduale del sapere e del lavoro, la ricomposizione in termini individuali e collettivi del lavoro parcellizzato e frantumato, la liberazione delle potenzialità creative del lavoro subordinato o eterodiretto. In sostanza una cooperazione conflittuale dei lavoratori al governo dell’impresa, partendo dalla conquista di nuovi spazi di autogoverno del proprio lavoro. La visione è un invito alla socialità, se possibile alla socievolezza, la città come luogo della libertà e della crescita personale. E’ una visione che, tradotta nel nostro linguaggio più consueto, si propone di affermare il diritto all’ambiente, alla mobilità, alla casa e ai servizi, al lavoro, alla salute, all’istruzione e alle opportunità formative e culturali.

In calce sono scaricabili due contributi attorno ai due temi seguenti che saranno trattati da Giancarlo Paba nella sua comunicazione:

- una concezione della pianificazione “sensibile alle differenze”: alle differenze di età (bambini), di provenienza geografica (migranti), alle altre mille differenze, e anche a quelle di luogo ( e di opportunità che ne derivano);

- il ruolo che possono avere, nelle situazioni di disagio sociale, le “politiche pubbliche dal basso”, le pratiche auto-organizzate di azione sociale, per una maggiore vivibilità della città.

Riproducono, con qualche taglio e qualche variazione, i seguenti due articoli:

G. Paba (2007), “Corpi, case, luoghi contesi: osservazioni e letture”, in Contesti. Città, territori, progetti, n. 1, pp. 39-48 [si tratta dei primi semplici appunti di una ricerca in corso, pubblicati nella rivista del Dipartimento di urbanistica e pianificazione del territorio dell’Università di Firenze]

G. Paba (2007) “Interazioni e pratiche sociali auto-organizzate nella trasformazione della città”, in A. Balducci, V. Fedeli, a cura di, I territori della città in trasformazione, Angeli, Milano, pp. 104-122.

Comune di Bologna, Piano strutturale comunale, Note di sintesi per la storia della pianificazione a Bologna, scaricabile dal sito del piano strutturale.

Documento in cui si ricostruiscono in modo estremamente sintetico:

- la successione di piani urbanistici che hanno regolato lo sviluppo della città dal 1889 agli anni ’80;

- alcuni contenuti del PRG approvato nel 1989 e un primo bilancio della sua attuazione;

- i principali interventi di trasformazione urbana degli anni ‘90.

Comune di Bologna, Piano strutturale comunale, Il bilancio del PRG vigente, allegato scaricabile in calce.

Documento facente parte del quadro conoscitivo del piano strutturale nel quale è ricostruito il bilancio dell’attuazione delle principali trasformazioni urbanistiche previste dal PRG del 1989.

Provincia di Bologna, Riqualificazione urbana e territorio, atti del convegno, 30 gennaio 2003, Bologna, scaricabile dal sito del PTCP.

Si segnalano in particolare i contributi di Rudi Fallaci nonché il capitolo conclusivo “La riqualificazione nell’area bolognese: bilanci e considerazioni” in cui viene effettuata una disamina analitica degli interventi di trasformazione urbana promossi dopo il 1995.

Nelle pagine Inforumrer del sito istituzionale della Regione Emilia Romagna sono contenuti i principali riferimenti di legge e alcune informazioni ulteriori sui programmi di riqualificazione in Emilia Romagna.

Quale futuro scegliamo: la metropoli neoliberista

o una città comune e solidale?

Malmö: 19 Settembre, 18h-21h, Möllevången; 21 Settembre, 9h30-12h30, Sofielund

Il Forum Sociale Europeo è l’occasione per i partecipanti per discutere e organizzarci sulla questione: “La fine dello sviluppo urbano: quale metropoli vogliamo?”

Abbiamo bisogno di comprendere meglio gli effetti delle politiche neoliberiste e le ripercussioni del modello di sviluppo della città ultra-liberale, i cui caratteri sono la gentrificazione, l’esclusione sociale ed una crescente disuguaglianza. A partire dagli impatti negativi della città neoliberista sulle persone (crescente precarietà, espulsione, scarsa accessibilità ai servizi pubblici, ecc.) come trasformare e rendere concreta l’affermazione “la città come bene comune” (redistribuzione, solidarietà tra coloro che hanno e quelli che non hanno, tra il centro e la periferia, tra la metropoli e campagna), i partecipanti al seminario cercheranno di proporre approcci e proposte alternative dalla scala locale (partecipazione nei processi decisionali politici e nella pianificazione, lotte e movimenti urbani) a quella globale (campagne e gruppi di pressione internazionali). L’obiettivo è di promuovere una collaborazione internazionale tra movimenti, organizzazioni, gruppi e associazioni per comprendere il fenomeno, le tendenze e costruire delle azioni capaci di contrastare le problematiche emergenti individuate.

L’attività si articola in due eventi:

Seminario, il 19 settembre, dalle 18 alle 21: per presentare e poi discutere insieme: il modello della città neoliberista e i suoi effetti; casi studio in cui gli effetti del neoliberalismo sono evidenti: problemi, testimonianze di lotta e azioni intraprese; e proposte di approcci e azioni alternative: concetti, principi e strategie. Gli interventi saranno tradotti simultaneamente in Inglese, Francese, Italiano, Svedese e Turco.

Workshop, il 21 settembre, dalle 9.30 alle 12.30: per discutere insieme gli esiti del seminario, le azioni e attività programmate dalle organizzazioni partecipanti in ambito urbano per far fronte ai problemi individuati, per stilare una dichiarazione collettiva e un piano d’azione. Il workshop si terrà in lingua inglese.

Organizzazioni partecipanti:

Association Internationale de Techniciens, Experts, Chercheurs (AITEC); Camere del lavoro-CGIL Bologna, Brescia, Ferrara, Modena, Padova, Reggio Emilia, Roma, Venezia e Vicenza; CGIL National Department of Immigration Politics; eddyburg.it; Initiatives Pour un Autre Monde (IPAM); International Alliance of Inhabitants (IAI); Interregional Trade Union Confederation (IRTUC Øresund); Network of the World Forum for suburban Local Authorities (FALP); Lavoro in movimento; LO-distriktet i Skåne; Foundation for Social Search, Culture and Art, Turkey( TAKSAV); Union Of Chambers Of Turkish Engineers And Architects (TMMOB); Zone onlus

Contatti:

Aitec, IPAM, FALP:
helene.aitec@reseau-ipam.org; International Alliance of Inhabitants:
info@habitants.org; CGIL-Camere del lavoro:
andrea_fabbri_cossarini@er.cgil.it; eddyburg.it:
eddysal@tin.it; LO-distriktet i Skåne, IRTUC:
gert@stkbh.lo.dk; TAKSAV, TMMOB:
barisince82@yahoo.com; ZONE onlus:
ilariaboniburini@zoneassociation.org.

PROGRAMMA SEMINARIO

Venerdì 19 Settembre, 18h-21h – Möllevången, Chokladfabriken, Ölhallen

Moderatore: Monique Crinon (Aitec/IPAM)

Introduzione alle attività: Ilaria Boniburini (Zone onlus)

Discorso di benvenuto: Kenneth Bjrkman (LO Skåne)

PARTE 1 - Comprendere le politiche neoliberiste e il loro impatto sulla città

- Gli impatti urbani e sociali delle politiche neoliberiste nell’Europa centrale e orientale: Sonia Fayman (Aitec-France) e Krizstina Keresztely (Aitec/Hongrie)

- Lavoro e habitat: le vittime del neoliberalismo: Oscar Mancini (CGIL-Camera del Lavoro di Vicenza)

PARTE 2 - Casi studio, esperienze, testimonianze di lotta e azioni intraprese

- I processi di rigenerazione urbana nella Trabzon Zağnos Valley e a İstanbul Sulukule; Fahri Ozten (TMMOB)

- Sfide per l’uguaglianza e il welfare nelle città gemelle: Håkan Hermansson (LO-distriktet i Skåne, IRTUC Øresund)

- La contrattazione confederale territoriale delle Camere del Lavoro sulla casa e lo sviluppo urbano: Mauro Alboresi (CGIL-Camera del Lavoro di Bologna)

PARTE 3 - Proposte per contrastare la città neoliberista

- Verso un nuovo patto urbano sociale a partire dai cittadini: l’approccio internazionale dal basso della campagna “Sfratti Zero”: Cesare Ottolini (IAI)

- Sviluppare alleanze con le autorità locali per migliorare la solidarietà: Gérard Perreau-Bezouille, delegato del sindaco di Nanterre, coordinatore di FALP

- La città come bene comune: Edoardo Salzano (eddyburg.it)

PARTE 4 - Dibattito

PROGRAMMA WORKSHOP

Domenica, 21 Settembre, 9h30-12h30, Sofielund, Studiefrämjandet, Sal 204

- Sommario e commenti sul dibattito avvenuto al seminario, sulle questioni emerse durante l’assemblea dei movimenti sociali e durante le altre attività legate alla città e ai problemi urbani svoltesi al Forum Sociale

- Breve presentazione e discussione delle attività programmate dai vari gruppi per contrastare il modello neoliberista e i problemi ad esso legati.

- Stesura di una dichiarazione collettiva e condivisione di un piano di azione per il futuro.

Ulteriori Informazioni

L’aggiornamento del programma, gli abstracts e le relazioni saranno inseriti nello spazio apposito nel sito dell’ ESF:

http://openesf.net/projects/the-city-as-a-common-good/project-home

Paola Somma (2004), "Casa, integrazione e segregazione", in Coin F. (a cura di), Gli immigrati, il lavoro, la casa: tra segregazione e mobilitazione, Angeli, Milano, pp. 121-136.

Testo scaricabile in calce

Nicholas Blomley (2004), Unsettling the city. Urban land and the politics of property, Routledge

Garrett Hardin (1968), The tragedy of the commons, “Science”, n. 162, p. 1243-48

Neil Smith (1996), The revanchist city, Routledge

Vedi anche la scaletta della lezione

G. Soda, Politiche urbane a Cosenza in Politiche e piani in medie città del sud Italia, "Urbanistica", n. 119 (2002), qui in allegato.

D. Cersosimo, C. Donzelli, Mezzo Giorno.Realtà, trasformazioni e tendenze del cambiamento meridionale, Donzelli Editore (2000). In particolare, Introduzione e cap. 9- L’identità come risorsa

In particolare sul Programma Urban I:

il sito ufficiale dell’Unione Europea Urban Community Initiative con informazioni di carattere generale sul programma e sulle singole esperienze

P.C. Palermo (a cura di), Il programma Urban e l’innovazione delle politiche urbane, Franco Angeli/DIAP, 2002 (vol. I, II e III)

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