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«Via dal vento». A pochi giorni dal summit dei Grandi che ha lanciato l’appello a frenare il caos climatico, una secessione nel movimento ambientalista prova a bloccare la corsa dell’energia eolica. Coldiretti, Amici della Terra, Mountain Wilderness, Altura, Vas, Movimento Azzurro, Comitato del paesaggio, Comitato per la bellezza, Fareverde, Italia Nostra hanno convocato per questa mattina una conferenza stampa in cui lanciano l’offensiva contro le pale eoliche proponendo una moratoria europea per bloccarle.

«Nel nostro nuovo sito, Viadalvento, diamo conto dell’ampiezza della rete costruita: oltre 500 comitati presenti in 19 paesi europei, dalla Lapponia a Gibilterra», spiega Carlo Ripa di Meana, presidente del Comitato nazionale per il paesaggio. «E in Italia, dove sono state costruite 3.500 torri eoliche e altre 10 mila sono state pianificate, stiamo cominciando a ottenere risultati importanti, come il no di Volterra».

Dopo aver chiesto per oltre 30 anni la fuoriuscita dall’era dei combustibili fossili, il movimento ecologista mette sotto accusa la fonte rinnovabile più vicina alla competitività con il petrolio? Proprio mentre la causa dell’energia pulita viene sposata non solo dalla comunità scientifica ma dai leader dei principali paesi? «Il nostro non è un movimento contro tutte le rinnovabili, ma contro l’eolico», risponde Betto Pinelli, di Mountain Wilderness. «Il paesaggio è la natura che si è fatta storia, è un divenire, ma non può subire l’immissione massiccia di oggetti così ingombranti come le torri eoliche: sarebbe la cancellazione di quella rete di rapporti culturali, microstorici, che sono l’essenza stessa del paesaggio. Un danno enorme con vantaggio zero visto che l’incidenza del vento nella produzione elettrica è minima».

Opposto il parere delle tre maggiori associazioni ambientaliste, Legambiente, Greenpeace e Wwf che offrono dati completamente diversi. Le pale installate nel 2008 in Europa forniscono l’elettricità equivalente a quella prodotta da 3 centrali nucleari da mille megawatt. E l’eolico presente in Italia dà la stessa energia di una centrale nucleare. «Da qui al 2020 in Italia l’elettricità prodotta dalle centrali nucleari annunciate sarà zero, quella delle centrali eoliche previste per quella data equivarrà a oltre 4 centrali nucleari da mille megawatt», precisa Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace.

Qualche errore in passato c’è stato - ammette Mariagrazia Midulla, del Wwf - ma, dopo aver ridotto i consumi migliorando l’efficienza energetica, si tratta di costruire meglio gli impianti eolici usando precise linee guida, non di lasciare campo libero a carbone e nucleare. «Sarebbe folle mettere una centrale sulle cime di Lavareto, ma in luoghi impoveriti, come le colline disboscate o le alture attraversate dagli elettrodotti, le pale eoliche migliorano il paesaggio», osserva Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente. «Del resto poco più di cent’anni fa c’era chi voleva smantellare la Tour Eiffel: dicevano che era brutta».

Hanno già iniziato le regioni. No al nucleare, dicono quasi tutti i governatori. Dice no Nichi Vendola, governatore della Puglia di Sinistra e Libertà. E dice no anche Ugo Cappellacci, neoeletto governatore della Sardegna che è del Pdl, il partito di Silvio Berlusconi. Per qualcuno è un’opposizione di principio. Per qualche altro è un no frutto di un attenta valutazione tra costi e benefici. Per qualche altro ancora è semplicemente la sindrome NIMBY: non nel mio giardino. Per tutti parla Vasco Errani (Emilia-Romagna), presidente dei presidenti di regione: «Il governo ha imboccato la strada sbagliata».

È la riproposizione del modello autoritario di gestione delle scelte tecniche e scientifiche, utilizzate con apparente (solo apparente) successo da Guido Bertolaso per gestire l’emergenza rifiuti in Campania o l’emergenza terremoto in Abruzzo. Ma è un metodo che non sempre funziona. Questa è la lezione che è venuta da Scanzano Jonico, nel 2003, quando la protesta popolare costrinse il governo - il secondo governo Berlusconi - a ritirare l’atto unilaterale con cui aveva scelto (male peraltro) il sito di profondità per stoccare le scorie nucleari dell’intero Paese. Cosicché è facile prevedere che il no dei governatori alle nuove centrali nucleari sarà fatto proprio dalle popolazioni, se il quarto governo Berlusconi dovesse continuare a procedere in maniera unilaterale e scegliere d’imperio i siti per le centrali nucleari che intende costruire e per le scorie che quelle centrali produrranno.

Qui non discutiamo la scelta di merito:nucleare sì o nucleare no. Questo nucleare di terza generazione e d’importazione francese, o il nucleare di quarta generazione, realizzato con una filiera di conoscenza tutta italiana. Discutiamo del metodo: la politica nucleare di un Paese libero non può essere imposta per coercizione, ma deve essere fondata sulla convinzione. Dopo una grande (non necessariamente lunga, ma reale) discussione, cui possano partecipare i tecnici, le istanze democratiche e l’intera popolazione. Come avviene in tutta Europa e in ogni Paese che riconosce i nuovi diritti della “cittadinanza scientifica”. Non è solo una questione di prassi democratica ma di efficienza della decisione. In una società complessa e in una moderna democrazia tutti coloro che hanno una posta in gioco (i sociologi li chiamano stakeholders) vogliono dire la loro sulle scelte rilevanti. E se non hanno una camera dove parlare ed essere ascoltati cercano di esercitare con tutti i mezzi leciti il loro potere, più o meno grande di veto. L’Italia può anche decidere di ritornare sui suoi passi e scegliere (anche) l’opzione nucleare per modificare l’antico paradigma energetico fondato sui combustibili fossili, superare col minor danno possibile il «picco del petrolio» e contrastare i cambiamenti climatici. Ma solo se la scelta è condivisa, non se è imposta. Solo se è negoziata con le popolazioni e gli enti locali, dopo aver deciso con prassi trasparente e scientificamente fondata i tempi e i luoghi degli interventi. Non è possibile, in una società complessa e in un Paese democratico, somministrare, con atto d’imperio, «il trattamento nucleare obbligatorio».

L’atomo di Pantalone

Guglielmo Ragozzino – il manifesto

L'affare dell'energia è formidabile; un po' complicato, magari. Ieri Italia e Francia si sono accordate per un programma nucleare che in ipotesi potrebbe portare alla costruzione di quattro centrali in Italia nel giro di una decina di anni.

Le centrali non serviranno a risolvere i problemi energetici o ambientali italiani che sono diversi e maggiori. Grandi spazi di apprendimento scientifico non ce ne saranno: un altro obiettivo mancato. I francesi infatti sono titolari da molti anni di una loro tecnologia che riprodurranno tal quale da noi. Noi, in cambio, toglieremo dai guai la società francese del nucleare, Areva, che ha difficoltà a piazzare i suoi reattori. Nessuno al mondo li compra. Ma queste sono considerazioni meschine, come lo sarebbe contrapporre al nucleare il risparmio energetico o le rinnovabili. Da una parte vi sono grandiosi investimenti per imprese potenti che muovono capitali enormi; dall'altra piccole attività di persone comuni che vorrebbero scegliere, decidere della propria vita.

I francesi dell'Edf, Electricité de France, controllano in Italia la vecchia Edison, destinata, nel modello liberista, a svolgere il ruolo di concorrente di Enel. In nome dell'Europa, Edf ha avuto libertà di movimento. Ma in nome del grande capitale ha fatto un accordo con Enel, sottoscritto, ieri dai presidenti, Nicolas e Silvio. Edf ed Enel non saranno più veri concorrenti, ma soci, a braccetto. Nei dieci o quindici anni necessari a produrre il primo chilowatt, Edf, proprietaria delle centrali nucleari francesi, venderà a tutti i distributori italiani l'energia elettrica in eccesso che le è tecnicamente impossibile immagazzinare. I vantaggi per l'industria elettrica italiana saranno nell'importare energia al prezzo di liquidazione dei francesi e metterla in vendita nella rete italiana al prezzo maggiorato del sistema italiano. Inoltre i costruttori nazionali - Marcegaglia a capo della fila - potrebbero ricavarne qualche commessa.

L'impegno preso dal governo italiano, il primo tifoso di Enel, è quello di garantire l'ordine pubblico nei dintorni delle erigende centrali. Il sistema italiano dei reattori atomici è stato fermato dalla volontà della popolazione, venti e più anni fa. Più tardi, in questo secolo, un'intera regione, la Basilicata, ha impedito di scaricare a Scanzano Ionico le scorie di tutte le centrali dismesse. Così i francesi avranno chiesto - e ottenuto - garanzie e assicurazioni economiche: simili eccessi non si ripeteranno, avranno promesso in coro l'Enel e il governo italiano.

La gestione delle scorie è il motivo addotto da Obama per chiudere di nuovo ogni finanziamento governativo ai programmi di nuove centrali nucleari in Usa. Qui in Italia rimane un mistero.

Come altri misteri sono i siti per le centrali, i modelli stessi del nucleare all'italiana, tenuto conto che quello auspicato ancora non esiste, e soprattutto il nome di quel generoso mecenate che pagherà per gli studi e le prime esperienze del futuro atomo. Ma - volete scommettere? - il suo nome è Pantalone.

Radiografia del business atomico

Maurizio Ricci – la Repubblica

È chiarissimo perché la Francia voglia costruire quattro centrali nucleari in Italia. Nonostante il gran parlare di rinascita del nucleare, i reattori effettivamente in costruzione in Europa sono, in tutto, tre: due in Francia, uno in Finlandia.

La commessa italiana più che raddoppia il libro degli ordini, un traguardo assai appetibile per Areva, protabandiera dell’industria atomica francese, nel momento in cui deve difendersi dalla concorrenza degli altri reattori di terza generazione (i Toshiba-Westinghouse e i General Electric), deve cavarsi fuori dalla maretta creata dal divorzio con il partner tedesco di sempre, la Siemens e deve difendersi dalle polemiche sui ritardi nei progetti già in corso. Una salutare boccata di ossigeno. Non è altrettanto chiaro perché li voglia far costruire l’Italia.

Le motivazioni che vengono offerte sono, sostanzialmente, tre. Cominciamo dalla quarta, che nessuno dice ad alta voce, perché è poco elegante, ma che è fra le più efficaci. Il nucleare è, anzitutto, un grande business, di quelli che piacciono alle grandi aziende, perché muovono una montagna di soldi, vasti giri d’affari, appalti, commesse: è l’aria che i grandi gruppi, come quelli dell’energia, respirano più volentieri. Torniamo ora alla prima motivazione ufficiale, questa, invece, proclamata ai quattro venti: si tratta di assicurare la certezza dell’approvigionamento nazionale di energia, viste le incertezze sul gas, protagonista assoluto, oggi, dell’elettricità italiana. È una motivazione solida. L’obiezione che Gazprom si prepara a dimezzare il prezzo del suo gas (visto il crollo del petrolio) ha il fiato corto: il problema del prezzo del metano e della sua disponibilità si riproporranno presto, non appena la congiuntura mondiale sarà tornata al bello. Una seconda motivazione esplicita - assai più fragile - è che si tratta di partecipare ad un importante sviluppo tecnologico.

Enel ed Edison, i più importanti gruppi italiani, fanno già nucleare, sia pure fuori dai confini nazionali. I dirigenti dell’Enel si sono più volte vantati di poter utilizzare, nelle loro centrali, tutte le tecnologie nucleari oggi disponibili. Può essere ipocrita, visto che in Italia, poi, il nucleare non l’abbiamo voluto. Ma non si può dire che i tecnici italiani non vedano un reattore. Inoltre la tecnologia di terza generazione dei reattori in programma è, per unanime ammissione, transitoria. Se tutto andrà bene, nel 2030 dovrebbero arrivare i reattori di quarta generazione, quelli, per dirla in breve, che non producono scorie. È opportuno partire, come da scaletta, fra il 2020 e il 2025 con reattori destinati a durare 50 anni, ma che, dopo 5 anni, sarebbero già obsoleti?

Infine, l’energia atomica non produce anidride carbonica e, dunque, effetto serra. Che è vero, ma è anche vero che non è la sola.

Considerando il costo effettivo degli impianti nucleari che si stanno costruendo in Europa, le quattro centrali italiane costeranno all’incirca 20 miliardi di euro. Ovvero, un punto e mezzo del Pil nazionale. È legittimo chiedersi se - nel governo e nelle aziende - qualcuno abbia provato a valutare quali effetti avrebbe avuto un programma altrettanto ambizioso di sviluppo delle fonti rinnovabili: quali risultati avrebbe dato, come avrebbe posizionato l’industria italiana nella tecnologia futura dell’energia, quale sarebbe stato l’impatto sull’occupazione. È noto che, esaurita la fase del cantiere, nelle centrali atomiche lavorano in pochi, soprattutto se la tecnologia la compri all’estero.

Ci sono altri interrogativi da sciogliere. L’Italia si riaffaccia al nucleare senza aver preventivamente risolto né il problema delle scorie, né quello della localizzazione delle centrali. Per ora, al mondo, solo la Finlandia ha individuato un luogo, geologicamente sicuro, in cui immagazzinare i residui che resteranno radioattivi per migliaia di anni. In Italia, siti simili - al riparo, per dire, dai terremoti - non esistono. Quanto ai luoghi dove costruire le centrali, si è parlato molto di "brown sites", cioè dei posti in cui le centrali già c’erano. Sarebbe, però, sorprendente tornare, ad esempio, a Trino, in mezzo alle risaie del Vercellese, con le falde acquifere a diretto contatto del Po.

C’è ancora un elemento che serpeggerà, più o meno sottotraccia, nel dibattito dei prossimi giorni. Ed è la tesi che il kilowattora atomico costi poco. Questa è, come minimo, una scommessa. Il costo del kilowattora nucleare è determinato dal costo di costruzione dell’impianto, perché, fino a che la spesa non sarà ammortizzata, gli incassi servono a compensare il capitale investito nella centrale. È un costo rigido: la centrale atomica non si può spegnere o abbassare. Il reattore deve funzionare al 90-95 per cento della capacità, producendo, dunque, tot kilowattora, quale sia il prezzo finale. Quindi, l’investimento effettuato dalle aziende è il parametro cruciale. Avranno l’aiuto di sussidi, a carico dello Stato e del contribuente? Finora, questo è stato assolutamente escluso. Tuttavia, è bene sapere che, in Francia, il kwh nucleare costa poco, sia perché gli impianti sono già stati ammortizzati, sia perché lo Stato francese si fa carico dei costi delle infrastrutture, come di quelli del futuro smantellamento delle centrali obsolete, non piccoli, se si pensa quanto sta costando alla Sogin sbaraccare le vecchie centrali italiane.

In Italia, ad oggi, questo non sarebbe possibile. Tutti i costi dell’energia sono in bolletta: il sistema energetico italiano, oggi, si sostenta da solo. Quindi avremo un kwh nucleare che costerà tanto o poco, a seconda di quanto costeranno i kwh da altre fonti. Questa è la scommessa ed è tutta a carico del consumatore. Perché, poi, nell’attuale sistema italiano, il prezzo del kwh in bolletta è quello del produttore marginale, cioè più costoso. Potrebbe essere la centrale nucleare, costretta a produrre in ogni caso.

Anche l’energia alternativa fa gola a Cosa nostra. Con una duttilità e una preveggenza degne delle imprese più all’avanguardia, la mafia siciliana si apprestava a mettere le mani sul nuovo business dei cosiddetti parchi eolici, che in Sicilia sembra essere diventato la nuova frontiera degli affari, specialmente dopo la stretta determinata dagli scandali sulla sanità.

Un gruppo di imprenditori, mafiosi, amministratori e dipendenti pubblici è stato bloccato da una indagine della Procura distrettuale antimafia, mentre si apprestava a gestire un giro d’affari milionario imperniato sullo sfruttamento dell’energia eolica. La squadra mobile e i carabinieri di Trapani hanno eseguito otto ordini di custodia cautelari emessi dal Gip di Palermo: si tratta di un’organizzazione, adesso accusata di associazione mafiosa e di altri reati minori, che prendeva linfa dalla sinergia politico-mafiosa intrecciata intorno alle figure di Vito Martino, ex assessore ed oggi consigliere comunale di Forza Italia a Mazara del Vallo, e dell’imprenditore Melchiorre Saladino, imprenditore di Salemi indicato come molto vicino al boss latitante Matteo Messina Denaro.

I due, almeno da ciò che risulta dalle indagini, sarebbero la "mente" che ha consentito una penetrazione profonda dentro l’amministrazione del grosso centro marinaro del Trapanese, anche perchè bene inseriti nel gruppo mafioso che fa capo alla "famiglia" mafiosa degli Agate, di Cuttone (suocero di Martino) e di Giuseppe Sucameli, un architetto dipendente del Comune di Mazara attualmente detenuto perchè condannato per associazione mafiosa.

L’aspetto che più preoccupa magistrati e investigatori riguarda la presenza, in questa storia di mafia, di imprenditori del Nord per nulla impressionati dai metodi - certamente lontani dalle regole richieste dal libero mercato - degli "amici" incaricati di far ottenere "il necessario" per ottenere le regolari concessioni per impiantare i parchi eolici. Così, tra gli arrestati spicca il nome del trentino Luigi Franzinelli, ex dirigente sindacale Cgil (fino al 1993) poi divenuto attivo imprenditore nel settore dell’energia, con cariche pubbliche di una certa importanza, come la Municipalizzata dei servizi energetici di Riva del Garda.

Un ruolo ancora non definito, secondo i magistrati, è quello della "Fri-El Green Power", impresa entrata nella vicenda in fase conclusiva e sospettata di aver finanziato con un contributo di 30.000 euro - senza iscrizione nel bilancio societario - la campagna elettorale di Martino, candidato alla Regione nelle ultime elezioni. In serata l’azienda ha smentito ogni coinvolgimento nella vicenda.

L’indagine risale al 2003, quando due ditte (la Enerpro e la Sud Wind srl) presentano al comune di Mazara del Vallo la richiesta per ottenere il via alla realizzazione di parchi eolici nel territorio. La tesi dell’accusa è che Saladino sia il mediatore incaricato da Cosa nostra e che la sua missione sia quella di favorire la Sud Wind, su "autorizzazione" degli Agate, di Messina Denaro. Una decisione presa addirittura in una riunione ufficiale tenutasi alla "Calcestruzzi Mazara Spa" del boss Mariano Agate. Aiutare la Sud Wind, dunque, significa danneggiare la concorrenza e allora Saladino si procura (attraverso impiegati comunali infedeli) il progetto della Enerpro in modo da adattare e migliorare il progetto dell’impresa protetta.

Di primo piano, il ruolo di Vito Martino, "Vituzzu", riconosciuto dai boss - anche da Paolo Rabito, capo di Salemi noto per il coinvolgimento nel processo Andreotti - come "quello che ci porta avanti le cose di qua, i parchi eolici". E infatti ai due, Martino e Saladino, viene promessa una tangente di 150.000 euro, pagamento metà alla stipula della convenzione comunale, il resto alla conclusione dell’affare.

Poi si decide che, invece di soldi, la tangente si paga in parte in natura: una Mercedes E 220 per Martino, ma intestata ad una società riconducibile all’imprenditore trentino Franzinelli. Ma le cose di mafia non vanno mai lisce e, per evitare contrasti, il gruppo mafioso pianifica una specie di "messa a posto" che favorisce la scomparsa delle due imprese e la nascita della "Eolica del Vallo", che sarà l’unica ad ereditare le autorizzazioni già ottenute dalla "Sud Wind". I due progetti vengono unificati. Il "copione" poi verrà ripetuto con altre imprese, sempre col sistema di trovare accordi sotterranei garantiti dai mafiosi.

Vito Martino tenterà la scalata alla Regione nelle elezioni del 2006, non ce la farà: secondo dei non eletti. Poi l’intervento della magistratura.

La parola d'ordine "rottamare il petrolio" aleggiava ieri al convegno del partito democratico "Un new deal ecologico". Ogni tanto l'oratore di turno la ripeteva, con evidente soddisfazione. Per tutti i presenti, tranne uno, il concetto doveva essere chiarissimo e non metteva conto di spiegarlo. Con molta fatica, l'escluso si è dato due interpretazioni possibili, abbastanza contrastanti tra loro. La prima, più facile: meglio risparmiare i quattrini necessari per una seconda rottamazione delle auto, cioè la distruzione, con incentivo pubblico, di quelle più inquinanti, e usare il denaro non speso in un'altra direzione. Per esempio produrre auto con minore consumo petrolifero (o addirittura ibride oppure a gas). La seconda spiegazione, più letterale, era invece: "rottamare il petrolio" significa impegnarsi per un petrolio meno inquinante, intervenendo sulla raffinazione, sulle qualità del greggio importato, sui prodotti derivati. Il passaggio dall'olio combustibile al gas, per far girare le turbine nelle centrali elettriche, è stato un processo concreto di "rottamazione del petrolio".

Ora può darsi che risolvere i dilemmi di quell'unico ascoltatore senza certezze non valga nulla; ma se si immagina che all'interno di un continente, di una nazione, di una maggioranza politica, o anche soltanto di un partito di opposizione, l'opinione sia divisa, e due siano le soluzioni, allora l'interesse di saperlo cresce. Nel Pd, par di capire, il segretario Veltroni intende la parola d'ordine con il primo significato, mentre il ministro ombra Bersani è più orientato sul secondo; anche se questo aspetto non è stato chiarito, data l'assenza di Pierluigi Bersani dalla riunione di ieri degli ecologisti del partito.

Bersani, allora ministro dello sviluppo economico, non era andato alla Conferenza ambientale organizzata dal suo governo nel settembre del 2007 alla Fao. Molti ne ricavarono l'impressione che quella Conferenza fosse inutile. I problemi dell'energia - e dei suoi padroni - erano rimasti fuori della porta.

La relazione è stata letta ieri da Fabrizio Vigni, presidente degli Ecologisti democratici, deputato senese della direzione del partito. Meticolosa e ispirata, la relazione partiva da John Kennedy, antenato di Obama e concludeva con Alex Langer e un proverbio beduino.

"Guidare la nuova rivoluzione industriale. Il carbone e la ferrovia segnarono la prima. Il petrolio e l'auto la seconda. Le energie rinnovabili, le tecnologie pulite, l'economia ecologica, quella che sta dinanzi a noi. Non è una buona, forte, affascinante idea?". Così parlò Vigni. Da metà dicembre è responsabile dell'organizzazione e l'ecologia, in sostanza, è retta da altri. Che abbia svolto lui la relazione deve avere un significato; anche se quello stesso ottuso di prima non è riuscito a coglierlo. E c'era tempo per citare Leonardo, ma non per dire una parola sul nucleare.

Sul nucleare, il partito si esprime in una pagina di un documento ufficiale che dopo averci girato a lungo intorno, arriva al punto: "Nel merito, invece, per rendere credibile l'opzione nucleare è quindi necessario risolvere almeno sei forti criticità, connesse alla sicurezza, all'ambiente, alla partecipazione dell'industria nazionale, all'economicità, alla costruzione del necessario consenso sociale e alla ricerca". Obama non ha menato tanto il can per l'aia: ha detto che per il deposito nazionale per le scorie di Yucca Mountain c'era già stata una spesa altissima e nessuna sicurezza di arrivare a un risultato accettabile. Meglio non buttare altri soldi. Ma Obama, per Walter Veltroni, vale solo nei giorni dispari.

Veltroni, segretario del partito, ha parlato della necessità una "rivoluzione verde", ma non basta dirlo "per trasferire il mondo alle generazioni future". Si deve fare di più "nel settore automobilistico, dell'edilizia", arrivando financo "alla rottamazione del petrolio che è una scelta economica e politica".

Ermete Realacci ha insistito sulla sua vecchia idea dei milioni di posti di lavoro che "con la ricerca e l'innovazione si possono produrre in pochi anni". Non che non sia vero, ma scuola e formazione sembrano indirizzate altrove.

Splendido l'intervento di uno che ci capisce, Edo Ronchi. Un gran lavoro lo aspetta se vuole spostare sui suoi temi il partito Pd.

Un impianto capace di rigassificare 8 miliardi di metri cubi/anno di GNL (gas naturale liquefatto), pari a quasi il 10 per cento del consumo annuo italiano, utilizzando per il processo acqua di mare prelevata da una piccolissima baia quasi priva di ricambio idrico.

Proponente, la multinazionale spagnola Gas Natural, che ha individuato il sito di Trieste-Zaule, nel cuore del porto industriale (ma anche a poche centinaia di metri da quartieri densamente abitati) e all’interno della baia di Muggia, nell’estremo settentrionale dell’Adriatico.

Si prevedono un traffico di navi gasiere pari a 110 unità all’anno, lo scarico di circa 750 mila metri cubi/giorno di acqua fredda e trattata con cloro, un investimento di circa 400 milioni di Euro e un’occupazione diretta a regime di 80 persone, più circa 350 nell’indotto.

Questi i dati essenziali del progetto del terminale di rigassificazione per GNL che interessa il capoluogo giuliano, uno della quindicina di impianti analoghi proposti in Italia negli ultimi anni.

Con la differenza che questo, a differenza di altri, pare avviato ad ottenere il via libera per la costruzione. Nel giugno scorso, infatti, la Commissione VIA del ministero dell’ambiente ha espresso parere di compatibilità ambientale favorevole sul progetto.

I pareri sulla VIA.

Un parere francamente ignobile: leggendolo si scopre infatti che la Commissione – era quella nominata dall’allora ministro Pecoraro Scanio – ha preso per oro colato tutto ciò che Gas Natural (e la sua consulente per il VIA, la misteriosa società “Medea”, svizzero-lussemburghese ma formata da tecnici italiani ex ENEL e ENI) ha raccontato nei propri studi.

In compenso, la Commissione ministeriale ha omesso – violando così la legge - di considerare le obiezioni e le critiche approfondite ai medesimi studi, contenute nelle osservazioni presentate dalle associazioni ambientaliste e nei pareri di alcuni Comuni.

Bastino alcuni esempi, tra i tanti possibili: 1) nessuno degli elaborati di Gas Natural/Medea è firmato dagli estensori, né si può capire chi li abbia redatti (ancorché le norme sulla VIA prescrivano “dichiarazioni giurate” degli autori sulla veridicità dei dati contenuti); 2) gli studi sugli effetti della dispersione nella baia di Muggia dell’acqua di mare utilizzata nel processo di rigassificazione sono grossolanamente manipolati, allo scopo di negare l’esistenza di problemi (mentre invece questi scarichi rappresentano la criticità ambientale principale legata al funzionamento dell’impianto); 3) lo studio sull’”effetto domino”, cioè sui pericoli legati ad incidenti che interessino il terminale, le navi gasiere o gli altri impianti a rischio di incidente rilevante esistenti nell’intorno (ce n’è una mezza dozzina), esiste in due versioni diverse, una sola delle quali messa a disposizione del pubblico per la procedura VIA, e in ogni caso risulta assai sommario e reticente; 4) nessuno studio prende in considerazione i rischi legati a possibili atti terroristici.

Si aggiunga che al progetto del terminale GNL manca l’indispensabile gasdotto di collegamento con la rete SNAM. Logica e normativa vorrebbero che la VIA considerasse entrambe le infrastrutture (l’una non ha infatti senso alcuno in assenza dell’altra).

A dire il vero, le tante lacune e incongruenze degli studi di Gas Natural/Medea erano state rilevate anche nel parere che la Regione Friuli Venezia Giulia aveva espresso (1 giugno 2007) nell’ambito della procedura VIA ministeriale. Un parere gesuitico, però, perché non concludeva – come sarebbe stato logico attendersi – con un giudizio negativo sulla compatibilità ambientale del progetto (si era ormai a quasi un anno e mezzo dall’inizio della VIA e il proponente aveva presentato un corposissimo studio di impatto ambientale e altrettanto corpose integrazioni dello stesso, senza risolvere nessuno dei problemi evidenziati), bensì si scaricava la responsabilità sul ministero dell’ambiente, invitandolo a richiedere eventuali ulteriori integrazioni.

Il “non parere” regionale era però accompagnato da una delibera di indirizzo politico, favorevole “per ragioni socio-economiche” alla costruzione non solo del rigassificatore proposto da Gas Natural, ma anche dell’analogo impianto off shore proposto dalla concorrente Endesa e previsto nel mezzo del Golfo di Trieste.

Si arriva così, un anno dopo, al già citato parere della Commissione VIA ministeriale. Come sia possibile che tale organismo, di cui facevano parte esperti di indubbia preparazione e prestigio (ma anche una pletora di avvocati…), abbia potuto esprimere un atto del genere, rimane un mistero.

Risulta – lo ha scritto l’Espresso, mai smentito – che si sia attivato Zapatero in persona, per perorare la causa di Gas Natural. Fatto sta che - 26 favorevoli, 18 assenti e 14 astenuti (su 58 componenti) – la Commissione il 20 giugno 2008 ha emesso parere favorevole.

Nel frattempo, SNAM aveva presentato (marzo 2008) per la procedura VIA il progetto di un gasdotto – parte sottomarino, parte terrestre - tra il terminale GNL di Trieste-Zaule e la rete SNAM a Villesse. Le due procedure sono però del tutto distinte tra loro e gli studi presentati dalle due società non hanno alcun rapporto l’uno con l’altro. D’altronde, anche il progetto del gasdotto solleva molte perplessità ambientali, specie perché non è stato adeguatamente valutato il rischio legato alla posa della condotta all’interno della baia di Muggia, con il conseguente sollevamento di grandi quantità di fanghi estremamente inquinati e l’inevitabile contaminazione della catena alimentare.

In realtà, l’incompatibilità del progetto di Gas Natural con il sito di Trieste-Zaule pare abbastanza evidente ad un esame tecnico obiettivo, per ragioni ambientali e di sicurezza, ma la politica deve averci messo lo zampino.

Il nodo del paesaggio.

Dopo l’ok, ancorché sgangherato come si è detto, della Commissione VIA, manca soltanto il “concerto” tra i ministri dell’ambiente e dei beni culturali, per concludere la procedura.

Sennonché la Soprintendenza ai beni paesaggistici e architettonici del Friuli Venezia Giulia aveva già espresso – su richiesta del proprio ministero - fin dal 2005, ribadendolo poi altre tre volte, il proprio parere negativo sul progetto, dal punto di vista paesaggistico. Motivazione principale: non è lecito aggiungere degrado al degrado. Se infatti il contesto nel quale sorgerebbe il rigassificatore è quello tipico di una zona industriale, nel sito costiero previsto per il nuovo impianto si è progressivamente impiantata una vegetazione spontanea che ha mitigato alquanto la preesistente situazione di degrado. La costruzione delle opere previste dal progetto e in particolare i due enormi serbatoi di stoccaggio del gas (altri più di 50 metri e larghi 81 metri ciascuno), più il pontile di attracco delle navi gasiere e la prevista modifica della linea di costa, rappresenterebbero un indubbio peggioramento del paesaggio.

Difficile sembrava, quindi, la concertazione tra i due ministri, visto che il parere negativo della Soprintendenza era stato ribadito - per la quarta volta! – l’11 agosto 2008. Ecco allora che il Direttore generale del ministero per i beni culturali, arch. Prosperetti, prima chiede a Gas Natural uno “studio di inserimento paesaggistico” per il terminale di Trieste-Zaule e poi convoca a Roma il Soprintendente del Friuli Venezia Giulia, arch. Monti.

Quest’ultimo, il 4 dicembre scorso, esprime un nuovo parere “a seguito della richiesta della Direzione Generale … tesa a voler ottenere un parere positivo sul proposto rigassificatore a Zaule”. Non è certo la prima volta che i vertici ministeriali premono sui propri organi periferici per “persuaderli” a mutare opinione su un progetto. E’ però forse la prima volta che tali pressioni vengono apertamente dichiarate in un documento ufficiale da un Soprintendente.

Va detto che il parere favorevole è accompagnato da prescrizioni: parziale interramento dei serbatoi per diminuirne l’altezza a 15 – 20 metri al massimo e arretramento degli stessi per non interferire con la fascia alberata esistente; nessuna modifica della linea di costa attuale; arretramento delle opere a mare previste (pontile di attracco, ecc.). Si tratta di prescrizioni tali da comportare una sostanziale modifica del progetto, perché – ad esempio – il parziale interramento dei serbatoi implica lo scavo di decine di migliaia di metri cubi di terreno pesantemente inquinato, con la conseguente necessità di provvedere alla bonifica dello stesso, di reperire una discarica idonea in cui smaltire i residui tossici della bonifica, ecc.

Resta da vedere, naturalmente, se le prescrizioni dell’arch. Monti saranno recepite nel decreto che i ministri dell’ambiente e dei beni culturali dovranno “concertare” tra loro.

La pianificazione svilita.

L’intera vicenda del rigassificatore di Gas Natural chiama però in causa anche lo stato penoso della pianificazione, tanto quella urbanistica e paesaggistica, quanto quella di settore. Non esiste infatti, com’è noto, uno straccio di piano energetico nazionale (l’ultimo, peraltro mai approvato in via definitiva, risale al 1988…), che permetta di capire quanti terminali di rigassificazione sono necessari (e perchè) all’Italia, né quali siano i criteri per una localizzazione ottimale degli stessi. Criteri che dovrebbero ovviamente considerare sia la taglia degli impianti, sia le connessioni con la rete dei gasdotti e la prossimità ai bacini di utilizzo del gas, ma anche le tecnologie di rigassificazione preferibili, le condizioni al contorno dal punto di vista ambientale (caratteristiche paesaggistiche, fisiche e biologiche delle aree costiere e marine interessate, ecc.) e socio-economico (possibili interferenze con altri usi della costa e del mare, ecc.).

Nulla di tutto ciò esiste, e malgrado le tante chiacchiere in proposito nessuno dei Governi succedutisi nei decenni scorsi ha saputo neppure abbozzare un piano degno di questo nome.

Il piano energetico regionale del Friuli Venezia Giulia, approvato nella primavera del 2007, tace sull’argomento delle grandi infrastrutture, limitandosi ad un modesto programma di incentivazioni alle fonti rinnovabili.

Il nuovo Piano Territoriale Regionale (che dovrebbe sostituire l’ormai “archeologico” P.U.R.G. del 1978), invece, adottato nell’ottobre 2007 e che dovrebbe avere anche valenza di piano paesaggistico, menziona quasi di sfuggita i rigassificatori, prescrivendo che “devono essere localizzati negli ambiti portuali industriali individuati ai sensi della L. 84/94 e s.m.i.”. Il che è come dire nel sito di Trieste-Zaule, posto che altri siti capaci di accogliere navi gasiere – se non altro per questioni legate alla profondità dei fondali – in Friuli Venezia Giulia non ne esistono.

Peccato che le questioni ambientali e di sicurezza, emerse nella procedura VIA, rimangano irrisolte e che il PTR non ne faccia menzione alcuna.

Senonché, il PTR pur adottato non è stato approvato, né si sa se lo sarà mai, essendo nel frattempo cambiata la Giunta regionale dopo le elezioni dell’aprile 2008 che hanno visto la sconfitta di Riccardo Illy e del centro-sinistra e la vittoria del centro-destra di Renzo Tondo.

Ma c’è di peggio. Il vigente Piano Regolatore del Porto di Trieste, infatti, non prevede il terminale GNL. Che ti fa l’Autorità portuale? Commissiona prontamente una variante ad hoc per inserire l’impianto nel PRP: a chi va l’incarico? Proprio a Gas Natural, che infatti nel dicembre 2006 inserisce gli elaborati di questa variante nelle integrazioni del proprio studio di impatto ambientale! Caso forse unico di variante allo strumento urbanistico di un ente pubblico, commissionata dallo stesso ente alla società privata che propone un progetto ancora sub judice, non previsto dallo strumento urbanistico vigente.

Di fronte alle contestazioni il presidente dell’Autorità portuale, dott. Boniciolli, replica che non gli risulta alcun incarico a Gas Natural per la predisposizione della variante, ma i documenti dicono che l’incarico c’è stato (magari dato da qualche suo predecessore), anche se la variante stessa non è mai stata adottata. Va però detto che, in base alla Legge 222/2007 (art. 46), l’autorizzazione ministeriale alla costruzione del rigassificatore – un atto che va rilasciato a valle della VIA, previa conferenza dei servizi - costituisce anche variante automatica allo strumento urbanistico portuale.

E ora?

Il mondo politico, nazionale e locale, aveva già deciso a priori – a cor prima che fosse presentato -che il progetto di Gas Natural s’ha da fare. La posizione della Giunta regionale di centro sinistra è del resto condivisa dalla nuova Giunta di centro destra. DS e AN, in particolare, sono sempre stati sfegatati sostenitori dell’impianto fin dal primo minuto, mentre qualche resistenza – invero debole – è emersa soltanto da qualche altro partner delle due coalizioni.

Intanto, però, l’uomo forte di AN a Trieste, l’on. Menia, è diventato sottosegretario all’ambiente…

Favorevoli, ça va sans dire, anche sindacati e industriali, così come il sindaco di Trieste, Dipiazza (PDL), mentre confermano il loro no – con voto unanime dei rispettivi Consigli comunali - i due Comuni minori coinvolti, Muggia e S. Dorligo-Dolina, entrambi retti dal centro sinistra.

Anche il Governo sloveno (quello uscito sconfitto dalla recenti elezioni) aveva espresso un parere nettamente contrario, supportato da un’approfondita analisi tecnico-scientifica. Resta da vedere se anche il nuovo Governo di centro sinistra confermerà questa posizione.

In un incontro a Roma con il precedente collega sloveno, il ministro degli esteri Frattini aveva assicurato che l’Italia non avrebbe deciso nulla contro il parere di Lubiana. Era anche stata decisa la costituzione di una commissione mista di esperti, con il compito di approfondire (in un mese) le questioni tecniche legate agli impatti ambientali del progetto di Gas Natural: non se n’è più saputo nulla. Nel contempo, però, il Governo italiano ha ribadito più volte l’intenzione di arrivare ad un accordo “strategico” con la Slovenia in campo energetico, che comprenda il rigassificatore, insieme con i progetti dei nuovi oleodotti e gasdotti previsti in arrivo in Italia dal Mar Nero e dal Caucaso, nonché per la partecipazione al raddoppio della centrale nucleare slovena di Krško (che interessa molto all’ENEL). Profferte che già D’Alema aveva fatto in occasione della visita di Stato a Lubiana agli inizi del 2007.

Intanto associazioni ambientaliste (WWF, Legambiente, Italia Nostra) e comitati locali – constatata l’inutilità dei rilievi e degli appelli formulati tramite i consueti canali istituzionali (osservazioni nell’ambito della VIA, ecc.) – hanno segnalato alla Procura della Repubblica di Trieste i tanti abusi e le illegittimità collezionati nel lungo iter del progetto.

Altre azioni legali sono ovviamente probabili, qualora si arrivasse comunque – malgrado tutto – ad un decreto VIA favorevole “concertato” tra i ministri competenti.

La morale della favola.

Insomma, questa deprimente vicenda vede una pianificazione ridotta – quando c’è – a foglia di fico utile soltanto per coprire le peggiori vergogne, procedure (come la VIA) pensate per la garantire la qualità delle scelte ambientali valorizzando l’apporto critico e conoscitivo della società civile e delle comunità locali, e tuttavia svilite e negate nella loro essenza proprio da coloro che dovrebbero esserne i custodi, organi (come la Soprintendenza) preposti alla tutela di beni pubblici, ma “richiamati all’ordine” dai superiori gerarchici quando interpretano con troppo scrupolo il proprio ruolo, una politica invasiva che non tollera alcuno spazio di autonomia per le competenze tecnico-scientifiche e completamente asservita agli interessi economici (ma anche organi tecnici infarciti di yesmen privi di dignità).

Ai cittadini rimane da giocare la carta del ricorso agli organi giurisdizionali, prima di concludere che l’Italia è ridotta definitivamente al rango di una repubblica delle banane.

Dario Predonzan è Responsabile energia e territorio del WWF Friuli Venezia Giulia

abbondante documentazione sull’argomento nel sito www.wwf.it/friuliveneziagiulia, in particolare nella sezione “documenti”, sottosezione “energia”

Il nucleare non fornisce risposte convincenti all'emergenza climatica e il ricorso all'atomo potrebbe rivelarsi fatale per un'economia fragile. Eppure il «sentimento prevalente» del paese subisce la campagna del governo Berlusconi, sostenuta dall'opportunismo dei capofila dell'economia italiana.

1. Un'impresa dissennata. Secondo l'Ipcc al 2020 saremo già in piena emergenza climatica se non interverranno prima riduzione dei consumi e blocco delle emissioni di Co2. In tali tempi ravvicinati il ricorso al nucleare risulta pressoché ininfluente. A un impianto nucleare, con 40 anni di funzionamento previsto, occorrono i primi 9 anni di esercizio per pareggiare l'energia spesa nella costruzione. Tenuto conto di 4 anni di lavori e di 5 tra localizzazione e progettazione, un sistema che sviluppa 1 impianto/anno darebbe energia netta positiva solo dal 19˚ anno (anche nel piano di Scajola arriveremmo al 2028). Se si raggiungesse entro il 2030 l'obiettivo buttato lì da Berlusconi - il raddoppio nel mondo delle centrali nucleari esistenti - per le emissioni globali di Co2 la riduzione sarebbe solo del 5% . Occorrerebbe una nuova centrale ogni 2 settimane da qui al 2030, spendendo tra 1.000 e 2.000 miliardi di euro, aumentando il rischio di incidenti e aggravando la questione irrisolta delle scorie. Se poi guardassimo oltre il 2030, il nucleare dovrebbe arrivare a pesare almeno per il 20-25% del mix elettrico per rallentare il cambiamento climatico. Occorrerebbero almeno 3 mila centrali nucleari in più (oggi sono 439): 3 nuove centrali al mese fino a fine secolo, con prezzi alle stelle dell'uranio in via di esaurimento.

2. Clima e acqua : emergenze ambientali. Lungo l'intero ciclo di vita dell'uranio, dalla miniera al reattore, si registrano emissioni di Co2 inferiori, ma confrontabili con quelle che accompagnano il ciclo del gas naturale. Sono emissioni connesse all'esercizio della centrale, ma soprattutto alle fasi relative a costruzione, avvio, posizionamento in loco del combustibile fissile, che possono avvenire attualmente solo con l'impiego molto elevato di fonti fossili nell'area di costruzione e in miniera. Inoltre, agli impianti nucleari occorrono enormi quantità di acciaio speciale, zirconio e cemento, la cui produzione richiede carbone e petrolio. Sommando tutto, la Co2 emessa nel ciclo completo di un impianto nucleare corrisponde all'incirca al 40% di quella prodotta dal funzionamento di una centrale di pari potenza a gas naturale. Senza contare lo stoccaggio finale dei rifiuti, per cui mancano esempi. L'energia nucleare è destinata solo alla fornitura di elettricità, che conta per il 15% degli usi finali di energia nel mondo (il restante 85% va in trasporti, calore per riscaldamento e processi industriali). Un aspetto critico, spesso taciuto, nel processo nucleare è la quantità di acqua necessaria. Per evitare rischi di incidente catastrofico l'acqua ai reattori deve fluire, per asportare l'eccesso di calore, in volumi 10 volte superiori a quelli delle centrali tradizionali, con dispersione in vapore in aria e ritorno nel letto a elevata temperatura. Dove le filiere atomiche hanno subito una diffusione massiccia, come in Francia, la crisi idrica si è già manifestata. In questo paese il 40% di tutta l'acqua fresca consumata va a raffreddare reattori nucleari.

3. Sicurezza. Il nucleare comporta seri e irrisolvibili problemi di sicurezza. A 22 anni dall'incidente di Chernobyl, non esistono ancora garanzie né per la contaminazione «ordinaria» radioattiva da funzionamento, né per l'eliminazione del rischio di incidente nucleare catastrofico. Piccole dosi di radioattività nell'estrazione di uranio e durante il normale funzionamento delle centrali, non sono rilevabili in tempo reale, ma solo registrabili per accumulo a posteriori. Vi sono esposti i lavoratori, come nel caso dei tre recentissimi incidenti consecutivi di Tricastin , in Francia, e la popolazione che vive nei pressi della centrale, come nel caso recente, di Krsko, in Slovenia. In un processo di combustione, spegnendo l'impianto, cessa anche la produzione di calore. In una centrale nucleare, invece, anche quando la reazione a catena viene «spenta», i prodotti di fissione presenti nel nocciolo continuano a liberare calore. Se non può essere rimosso, questo determina la fusione del combustibile e il rilascio catastrofico di materiale radioattivo, che si disperde nello spazio e permane attivo nel tempo. E' un'eventualità insopprimibile di una probabilità di catastrofe prevista e connaturata alla progettazione, che rende imponderabile il rischio nucleare. Nonostante l'enfasi che si vuole porre su un'ipotetica «quarta generazione» operativa solo dopo il 2030 (?), con i reattori in grado di eliminare parte delle scorie (?), l'impiego di miscele di combustibile meno pericolose (?), oggi si possono realizzare solo centrali intrinsecamente insicure. Le scorie radioattive sono tra i problemi più noti in relazione alle centrali nucleari. Non esistono soluzioni concrete. Le circa 250 mila tonnellate di rifiuti radioattivi prodotte finora nel mondo sono tutte in attesa di siti di smaltimento definitivi. Il problema rimane senza soluzioni, producendo effetti incommensurabili sul piano economico. Sarebbe impossibile affrontarlo ex novo su scala nazionale e irresponsabile trascurarne le conseguenze. In Italia, però, nel governo nessuno si preoccupa delle scorie prodotte dall'ipotizzato piano nucleare.

4. Esauribilità e costi. Secondo le stime del World energy council , l'uranio estraibile a costi convenienti è pari a 3,5 milioni di tonnellate, a fronte di un consumo annuo di circa 70 mila tonnellate. Al ritmo attuale l'uranio è disponibile solo per 40-50 anni. Se aumentassero le centrali, inizierebbe una competizione internazionale per questa risorsa scarsa. Il ciclo nucleare ha costi diretti e indiretti troppo elevati, e perciò destinati a essere scaricati sulla collettività. Di fatto, il nucleare è la fonte energetica più costosa che ci sia. Negli ultimi anni, il prezzo dell'uranio è cresciuto di sei volte, passando da 20 $ per libbra del 2000 ai 120 $ del 2007 e si prevede salirà. Inoltre, gran parte del costo dell'elettricità da nucleare è legato alla progettazione e realizzazione delle centrali: il doppio di quanto ufficialmente dichiarato, per i tempi di ritorno di 20 anni. Aggiungendo anche i costi di smaltimento delle scorie e di decommissioning degli impianti, le cifre sono imprecisabili, ma più alte delle altre fonti. Il Kwh da nucleare risulta apparentemente poco costoso dove lo stato si fa carico di sicurezza, ricerca e inconvenienti di gestione, ma soprattutto delle scorie e smantellamento delle centrali. Sono proprio questi costi e la possibilità di ripensamento dei governi in crisi finanziaria, a aver scoraggiato gli investimenti privati negli ultimi decenni. Nel caso dell'Italia, nonostante la propaganda di Scajola e soci, il nucleare non consentirebbe di ridurre la bolletta energetica. Infatti, per un totale di 10-15mila Mw di potenza installata su una decina di impianti, occorrerebbe costruire da zero tutta la filiera, investendo tra i 30 e i 50 miliardi di euro (scorie escluse) con i primi ritorni solo dopo 15 o 20 anni e sicuramente bollette più salate.

Non sarà cominciata una commedia satirica, divertente e spaventosa? Argomento: la catastrofe climatica e la crisi petrolifera uccidono il rischio atomico.

Nella riunione annuale del G8 in Giappone il presidente americano George W. Bush torna a caldeggiare la costruzione di nuove centrali nucleari. Per salvare il clima il mondo deve scoprire la «bellezza dell’energia atomica». Anche i governi europei - tra i quali l’Italia, la Francia, la Gran Bretagna - vogliono reintrodurre l’energia atomica, ribattezzata "eco-energia" (secondo la definizione del segretario generale della Cdu, Ronald Pofalla), nel gioco di potere della politica energetica. Forse anche gli "Stati canaglia" diventeranno ben presto "eco-Stati". Di fronte a questa svolta politico-linguistica è necessario richiamare alla memoria quanto segue.

Qualche anno fa il Congresso degli Stati Uniti affidò a una commissione scientifica l’incarico di sviluppare un linguaggio o un sistema di simboli che avrebbe dovuto mettere in guardia anche dopo diecimila anni sulla pericolosità dei depositi di scorie atomiche americani. Il problema da risolvere era questo: come devono essere i concetti e i simboli adatti a comunicare un avvertimento a coloro che vivranno fra migliaia di anni? La commissione era composta da fisici, antropologi, linguisti, studiosi del cervello, psicologi, biologi molecolari, studiosi dell’antichità, artisti, ecc. Essa dovette anzitutto chiarire questa questione: fra diecimila anni ci saranno ancora gli Stati Uniti? La risposta della commissione governativa fu ovviamente facile: Usa forever! Ciò nonostante, il problema di fondo, ossia avviare oggi un dialogo con il futuro, si dimostrò poco a poco insolubile. Gli esperti cercarono esempi nei simboli più antichi dell’umanità, studiarono la costruzione di Stonehenge (1500 a. C.) e le piramidi, indagarono sulla storia della ricezione di Omero e della Bibbia. Questi testi, però, risalivano tutt’al più a qualche migliaio di anni fa, non diecimila. Gli antropologi suggerirono il simbolo del teschio, ma uno storico ricordò che per gli alchimisti il teschio simboleggiava la resurrezione e uno psicologo condusse esperimenti con bambini di tre anni: se si incollava l’immagine del teschio a una bottiglia essi gridavano impauriti «veleno», ma se la si affiggeva a una parete, esclamavano eccitati «pirati»!

Proprio la scrupolosità scientifica della commissione rese evidente che perfino la nostra lingua fallisce di fronte al compito di informare le generazioni future sui pericoli che abbiamo introdotto nel mondo a causa dell’utilizzo dell’energia atomica.

Gli attori che devono garantire la sicurezza e la razionalità (lo Stato, la scienza, l’industria) giocano un gioco molto ambivalente. Essi non sono più fiduciari, ma sospetti: non più manager del rischio, ma anche fonti di rischi. Infatti, pretendono che la gente salga su un aereo per il quale non esiste nessuna pista di atterraggio.

La "cura dell’essere", risvegliata in tutto il mondo dai rischi globali, ha portato nella discussione politica a un concorso per la rimozione dei grandi rischi. I pericoli incalcolabili generati dal mutamento climatico devono essere "combattuti" con i pericoli incalcolabili legati alle nuove centrali nucleari. Molte decisioni sui grandi rischi non comportano la scelta tra alternative sicure e rischiose, ma quella tra diverse alternative rischiose, spesso la scelta tra diverse alternative i cui rischi si riferiscono a dimensioni qualitativamente diverse e non sono comparabili. Le forme odierne del discorso scientifico e pubblico non sono all’altezza di simili valutazioni. Qui i governi scelgono la strategia della consapevole semplificazione, presentando la decisione come una decisione tra alternative sicure e rischiose, ridimensionando l’imponderabilità dell’energia atomica e centrando l’attenzione sulla crisi petrolifera e sulla catastrofe ambientale.

Occorre rilevare che le linee di conflitto della società mondiale del rischio sono linee culturali. Nella misura in cui i rischi globali sfuggono ai normali metodi scientifici di imputabilità e configurano un ambito di relativo non-sapere, la percezione culturale, ossia la fede nella realtà o nell’irrealtà del rispettivo rischio mondiale assume un’importanza centrale. Per quanto concerne l’energia atomica, abbiamo a che fare con un clash of risk cultures, con uno scontro fra culture del rischio. Così l’esperienza di Chernobyl in Germania è valutata in modo diverso che in Francia o in Gran Bretagna, in Spagna o in Italia. Per molti europei i pericoli del mutamento climatico sono ormai molto più importanti dei pericoli dell’energia atomica o del terrorismo. Mentre dal punto di vista di molti americani gli europei soffrono di isteria ambientale e di isteria da "Frankenstein-food", gli americani agli occhi dei molti europei sono vittima di un’isteria da terrorismo.

Fino a poco tempo fa in Germania sarebbe equivalso a un suicidio politico perorare in una campagna elettorale l’abbandono dell’abbandono dell’energia atomica. Ma da quando il mutamento climatico in quanto prodotto dall’uomo e le sue conseguenze catastrofiche per la natura e la società sono considerati certi, le carte nella società e nella politica si sono rimescolate. È però del tutto sbagliato presentare il mutamento climatico come una via irreversibile verso la catastrofe umanitaria. Infatti, il mutamento climatico dischiude insperate opportunità di riscrivere le priorità e le regole della politica. Così, ad esempio, la cancelliera tedesca Angela Merker può mettere i Verdi di fronte a un dilemma, contestando loro il monopolio dell’"eco-politica" e costringendoli a una discussione sulla falsa alternativa tra energia atomica e politica climatica.

In effetti qualcosa si sta preparando. Il continui aumenti del prezzo della benzina giovano, sì, al clima, ma minacciano di portare a un regresso collettivo. L’esplosione dei costi dell’energia riduce lo standard di vita e produce un rischio di povertà nel mezzo della società. Di conseguenza la priorità della sicurezza dell’energia, ancora valida vent’anni dopo Chernobyl, viene messa in discussione dalla domanda: quanto a lungo la maggioranza dei consumatori potrà mantenere il suo standard di vita di fronte ai costi sempre crescenti dell’energia elettrica, del gas e dell’automobile?

Su ciò fa leva la cancelliera tedesca Angela Merkel: chi, come i Verdi, respinge il ritorno al nucleare si rende colpevole nei confronti di una politica climatica preventiva e provoca nella massa della popolazione la paura del declino. In questo modo essa cerca di spingere gli elettori nelle braccia della Cdu, che promette ciò che si esclude a vicenda: essere mobili come lo si è stati finora e, nello stesso tempo, salvare il mondo dalla catastrofe climatica.

Ma chi non degna di considerazione il "rischio residuale" dell’energia atomica disconosce la dinamica politica e culturale della società del rischio residuale. I critici più irriducibili, più convincenti e più efficaci dell’energia atomica non sono i Verdi - per quanto importanti e irrinunciabili essi siano. L’avversario più influente dell’industria atomica è l’industria atomica stessa.

Ma quand’anche ai politici riuscisse questa trasformazione semantica dell’energia atomica in eco-energia, quand’anche i contromovimenti sociali si perdessero nelle loro divisioni, a tutto ciò continuerebbe pur sempre a fare da contrappunto il contropotere reale del pericolo. Esso è costante, duraturo, indipendente dalle interpretazioni, presente anche là dove i manifestanti si sono stancati da un pezzo. La probabilità di incidenti improbabili cresce con il numero degli impianti di eco-energia atomica: ogni "evento" ridesta i ricordi di tutti gli altri eventi, accaduti in ogni parte del mondo.

Infatti, rischio non significa catastrofe. Rischio significa l’anticipazione della catastrofe, che può avvenire non in un determinato tempo e in un determinato luogo, ma ovunque. Non occorre che in Europa accada una mini-Chernobyl; basta che si diffonda un sospetto di negligenza o di qualche "errore umano" da qualche parte nel mondo perché i governi dell’eco-energia atomica si ritrovino di colpo sul banco degli imputati, con l’accusa di aver giocato alla leggera e in malafede con gli interessi di sicurezza della gente.

I pericoli dell’energia atomica ecc. non possono essere né visti, né ascoltati, né gustati, né annusati. E dunque, cosa può fare nella società mondiale del rischio il "cittadino consapevole" che non ha organi di senso per questi pericoli prodotti dal progresso e di conseguenza è privato della sovranità del proprio giudizio? Facciamo un esperimento mentale: cosa accadrebbe se la radioattività desse prurito? I realisti, detti anche cinici, risponderanno: si inventerebbe qualcosa, ad esempio una pomata, per "spegnere" il prurito. Un affare proficuo e promettente, quindi. Certo, ben presto arriverebbero - e godrebbero di grande risonanza pubblica - le spiegazioni secondo le quali il prurito non significa nulla, forse deve essere correlato a fenomeni diversi dalla radioattività, e comunque non è dannoso; fastidioso, ma dimostrabilmente innocuo. Qualora tutti si grattassero e andassero in giro con la pelle rossa e si realizzassero servizi fotografici con modelli o riunioni manageriali dove tutti i presenti non smettono di grattarsi, è probabile che queste spiegazioni di comodo non sopravviverebbero. Perciò, nel confronto con i grandi pericoli moderni la politica e la società si troverebbero davanti a una situazione del tutto nuova: ciò su cui si discute e su cui si tratta sarebbe ora culturalmente percepibile.

L’ultimo libro di Ulrich Beck è Conditio humana. Il rischio nell’età globale, Laterza editore 2008.

Traduzione di Carlo Sandrelli

Sarà pure un impianto vecchio, obsoleto, antiquato, quello sloveno di Krsko, come lo era certamente quello sovietico di Chernobyl. E sarà pure ingiustificata la paura. Ma istintivamente si stenta a credere, tanto più con il ricordo drammatico dell'86 ancora nella memoria e negli occhi, che "al momento non c'è pericolo di contaminazioni", come recitano i primi comunicati ufficiali.

"Al momento", si precisa. Anche allora non c'era pericolo, la situazione era sotto controllo, la nube radioattiva sarebbe stata fermata. E invece, silenziosa e invisibile, dilagò in tutta Europa, arrivò fino all'Italia e oltre, scavalcando confini e barriere doganali.

Quanti furono effettivamente i morti di Chernobyl? Quante sono le vittime di quel disastro? E quanti bambini, nati successivamente, ne portano ancora i segni nel proprio organismo, sulla propria pelle, nel proprio animo? Nessuno sa dirlo con certezza. La maledizione biblica del nucleare continua.

Auguriamoci che questa volta non sia così. Che la portata dell'incidente sia circoscritta e limitata. Che l'allerta possa rientrare rapidamente, come annuncia la nostra Protezione civile. Ma in pieno revival nucleare quello che arriva da Krsko è più che un segnale d'allarme: è un monito, un richiamo a pensare a riflettere.

Non c'è nulla di ideologico in tutto questo, se non nel senso etimologico delle idee, delle valutazioni e delle scelte che la questione comporta. Il nucleare non è un tabù e non può essere neppure un totem da adorare come un feticcio.

Non occorreva aspettare il "campanello" di Krsko per sapere che, anche nel caso di impianti più moderni ed efficienti, le centrali nucleari non sono né sicure né tantomeno economiche. Non sono sicure in rapporto ai rischi altissimi che un qualsiasi incidente può produrre e ancora meno lo sono in rapporto allo smaltimento delle scorie. E non sono neppure economiche, queste cattedrali dell'atomo, perché richiedono enormi investimenti governativi per la costruzione e la manutenzione, la sorveglianza degli impianti, la sicurezza delle aree circostanti.

È vero: la crisi globale incalza, il petrolio è arrivato alle stelle, l'economia mondiale ristagna o regredisce. Ma solo il cinismo della disperazione può indurre alla fuga dalle responsabilità. Non c'è alibi per il ricatto nucleare. L'umanità può anche rassegnarsi a fare il conto dei costi e dei benefici, ma deve calcolare a parte il prezzo dell'autodistruzione, il rischio di scomparire per crescere, il pericolo mortale dello sviluppo.

Non è un caso, del resto, che negli Stati Uniti non si costruiscono più centrali atomiche da vent'anni a questa parte e che in Europa i nuovi impianti si contano sulle dita di una mano. La stessa enfasi con cui viene invocato oggi il mito del "nucleare sicuro", il cosiddetto nucleare di quarta generazione che nessuno sa dire se e quando arriverà mai, rivela la mancanza di sicurezza attuale. O quantomeno, l'insufficienza del livello di sicurezza.

La verità è che la crisi energetica mette in discussione il nostro modello di sviluppo economico-sociale, il paradigma dei nostri consumi e anche dei nostri costumi: per dire, la tendenza collettiva allo sperpero, alla distruzione delle risorse naturali, al saccheggio sistematico del patrimonio ambientale. E perfino l'emergenza rifiuti, a Napoli e in tutto il Mezzogiorno d'Italia, ne è un prodotto e un riflesso. Una società che consuma troppo, a spese soprattutto delle generazioni future; un mondo in cui una metà fa la dieta macrobiotica e l'altra metà fa la fame o muore letteralmente di fame; un pianeta dove si combatte contemporaneamente contro l'obesità e contro la carestia.

Eppure, per ridurre la dipendenza dal petrolio e dagli altri combustibili fossili che inquinano l'atmosfera, provocando il surriscaldamento della Terra e il cambiamento climatico, la prima fonte energetica è già pronta, a portata di mano, disponibile: ed è il risparmio energetico, le piccole buone abitudini quotidiane, ma soprattutto la tecnologia per ridurre i nostri consumi. E poi la ricerca, compresa quella sul "nucleare sicuro"; lo sviluppo delle fonti rinnovabili; la riscoperta del sole e del vento che madre natura prodiga gratuitamente a tutta l'umanità.

Speriamo davvero che sia soltanto un segnale quello che viene da Krsko. Ma in ogni caso non sottovalutiamolo. Non lo rimuoviamo dalla nostra coscienza collettiva. È un richiamo alla ragione, alla consapevolezza, alla responsabilità. E potrebbe anche essere provvidenziale.

«Non comprende e si rattrista» il segretario generale dell’Associazione nazionale energia del vento, Simone Togni, per le mie critiche alla allocazione, al di fuori di ogni pianificazione energetica nazionale, di innumerevoli parchi eolici che, dopo il Sud, ora dilagano in Toscana e altrove, con devastazione di insostituibili beni paesaggistici e rurali, grazie ad incentivi lucrosi. La prima tesi dell’Anev è che «non vi sono in Italia incentivi pubblici per l’eolico», essendo i certificati verdi un meccanismo che ricade sui produttori privati inadempienti.

Si tratta di una mezza bugia. Infatti il costo dei Cv (contributo premiante per i produttori di energia alternativa), se in una fase intermedia viene in parte ripagato dai produttori di energia «sporca», che li acquistano, anche a prezzo maggiorato, sul mercato libero per rientrare nei parametri di Kyoto (con lucro aggiuntivo per i produttori di energia alternativa), nella fase finale viene scaricato sui consumatori, attraverso una maggiorazione della bolletta. Del resto nelle direttive del Gestore del Sistema elettrico si indicano le norme «per poter accedere all’incentivo», senza schermi semantici.

Forse il sig. Togni non le ha lette. Così come non spiega perché i Cv italiani abbiano il costo più alto del mondo, almeno secondo la classifica pubblicata dall’Agenzia Internazionale per l’Energia. Ma quel che soprattutto mostra di ignorare è che oltre a questa voce, i costruttori dei parchi eolici ricevono contributi diretti, se allocati al Sud, in base alla legge 488 sull’industrializzazione del Mezzogiorno (dall’inchiesta dell’Espresso risulta il forte interessamento mafioso) mentre, se situati in Toscana e altrove, il sostegno pubblico avviene tramite contributi regionali ed europei.

Posso girargli, ad esempio, il testo pubblicato dalla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea della concessione rilasciata alla società Cosvig per la costruzione dei parchi eolici di Montecatini Val di Cecina (Pisa) e Monterotondo Marittimo (Grosseto) dove, oltre a una linea di credito, si assicura «un contributo regionale a fondo perduto di 3.067.200 euro» con l’assicurazione di poter «fruire di ulteriore finanziamento a fondo perduto per gli altri MW installabili». Per un altro parco eolico, quello di Scansano, i contributi sono andati al gruppo spagnolo Gamesa. Gli esempi possono continuare ma passo all’altro argomento dell’Anev secondo cui «nessun paesaggio viene devastato dalla realizzazione di impianti eolici più di una qualsiasi altra opera di origine umana (sic!)».

Rispondo pubblicando la foto che mostra due opere di «origine umana»: il castello di Montepò a Scansano e le torri eoliche che lo circondano. E´ proprio su questo scempio che sta deliberando il Consiglio di Stato anche perché le autorità toscane si erano rifiutate di sottoporre l’opera sia alla Valutazione d’impatto ambientale sia al placet della Sovrintendenza di Siena-Grosseto con la scusa che la zona non era vincolata. Ed ora la Giunta regionale teme, secondo quanto «la Nazione» attribuisce al presidente Martini, che i 14 milioni stanziati in bilancio per l’eolico... finiscano al vento.

Ragion per cui la Regione «farà tutto ciò che sarà possibile fare per scongiurare lo smantellamento dell’impianto». Sembra una sceneggiatura impazzita del Don Chisciotte con i mostruosi mulini a vento all’assalto del castello di Dulcinea. E’ assente purtroppo la saggezza di Sancho Panza.

La favola atomica

Gianni Mattioli, Massimo Scalia

Ministri, politici e Confindustria ripetono che dall'energia nucleare si può trarre energia abbondante, tanto da liberarci dalla schiavitù del petrolio e del gas, energia pulita, tanto da contrastare l'incubo del cambiamento climatico, energia a prezzi ben più limitati, tanto da ridar fiato alla nostra stanca economia.

Tutto ciò è una favola, non ha alcun fondamento scientifico razionale: non poco o tanto discutibile, semplicemente inesistente. Tanto che sorge una domanda ingenua: è possibile che ministri, politici e industriali possano proclamare tante assurdità senza che un tecnico amico gli suggerisca qualche dato?

Basterebbe guardare gli altri paesi nucleari: forniscono un quadro di crisi dell'energia nucleare, documentata dai rapporti dell'Agenzia Internazionale dell'Energia (Aie) e, in particolare, dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (Aiea) delle Nazioni Unite.

L'energia nucleare abbondante. Di che parliamo? Oggi essa copre il 6,4% del fabbisogno mondiale di energia, e di uranio fissile, a questo ritmo modesto di impiego, secondo il rapporto Aiea del 2001 ce n'era per 35 anni. Certo, si potrebbe ricorrere all'uranio 238, ben più abbondante in natura: si tratta di un tipo di uranio non fissile, ma attraverso il processo di cattura di un neutrone, si puo trasformare in plutonio, materiale fissile, anzi ingrediente principale per le bombe. Materiale dunque ad alto rischio di proliferazione militare e anche sanitario: un milionesimo di grammo è la dose che può essere letale per inalazione. La Francia, che aveva perseguito con decisione questa strada, l'ha abbandonata col venir meno dell'urgenza strategica della force de frappe.

La questione delle scorie radioattive provenienti dalla fabbricazione e dall'impiego del combustibile nucleare. Solo per l'Italia, con il suo modesto passato nucleare, si tratta di un centinaio di migliaia di metri cubi, da sistemare in modo che non vengano più a contatto - per «ere» intere - con l'ambiente, la falda idrica, tutti noi. Oggi non c'è soluzione. Si era fatto molto affidamento - anche per Scanzano - sulle strutture geologiche saline, fidando sul carattere idrorepellente: l'acqua è un temibile avversario per la sua capacità di fessurazione di qualsiasi contenitore e conseguente messa in circolazione dei materiali radioattivi. La fiducia è crollata qualche anno fa, quando, nel corso della messa a punto del deposito Wipp del New Mexico, l'acqua ha fatto irruzione là dove non ci si sarebbe aspettati di trovarla e, inoltre, si è anche ipotizzata la possibile circolazione d'acqua a causa dell'insediamento di materiali ad alta temperatura (a causa della loro radioattività) con conseguente alterazione delle condizioni di stabilità geologica. Oggi si spera nelle rocce argillose e la Francia indirizza a queste strutture geologiche la sua ricerca.

Ma allora quanto costa il kilowattora, in una situazione nella quale il ciclo del combustibile nucleare è tutt'ora materia di ricerca fondamentale?

E si torna alla complessità di una tecnologia che ripropone il problema della radioattività, l'insoluta sfida che conosciamo dal 1896, con la scoperta di Becquerel. E' questo in definitiva il fattore che ha fatto lievitare il costo dell'energia prodotta, man mano che le popolazioni (e i lavoratori) statunitensi chiedevano standard di protezione sempre più elevati.

Vorremmo ricordare a ministri, politici e Confindustria che tutt'ora il danno sanitario da riadioazioni non ammette soglia al di sotto della quale non c'è rischio: dosi comunque piccole - questa è la valutazione della Commissione Internazionale per la Protezione dalle Radiazioni Ionizzanti - possono innescare i processi di mutagenesi che portano al danno somatico (tumori, leucemia) o genetico. Da qui la lievitazione dei costi per la riduzione di rilasci di radiazioni, si badi, in condizioni di funzionamento di routine, degli impianti. E, a maggior ragione, la questione della sicurezza da incidenti.

Nasce da tutto questo il progressivo abbandono del nucleare civile, che dal 1978 diviene totale per gli Usa e all'inizio degli anni '90 per tutti i paesi Ocse (con la sola eccezione del Giappone), Francia compresa. Di qui il consorzio di ricerca guidato dagli Stati Uniti, Generation IV, che proclama la messa a punto di un reattore che si vorrebbe più sicuro, che usi con maggior efficienza l'uranio, non proliferante e che dovrebbe costare di meno. Il prototipo non è atteso prima del 2025, ma il premio Nobel Carlo Rubbia giudica già insufficiente il programma.

In questo quadro è incredibile parlare di energia pulita e poco costosa: il Department of Energy situa a 0,06 euro il prevedibile costo del kWh al 2010 e vien da sorridere se si pensa al costo del vento e alla sua formidabile espansione, altro che nucleare, su scala mondiale.

Certo, le imprese elettromeccaniche devono pur lavorare e forniscono impianti per esempio a Cina e India, ma continuano a non piazzarli in casa: solo gli enormi incentivi del provvedimento di Bush fanno dire alla Exelon, una delle principali elettriche Usa, che, in virtù di quegli incentivi, partiranno un paio di impianti entro il decennio, ancora di terza generazione, come di terza generazione è quello che si annuncia in Francia in mancanza di meglio.

È questo che ci propongono Governo, politici e industriali? Attendiamo chiarimenti.

Dai reattori alle scorie, un'eredità ingombante

Eleonora Martini

L'Italia sarebbe pronta, secondo la visione del ministro per lo Sviluppo economico Claudio Scajola, per il ritorno alla produzione di energia atomica. Eppure, a distanza di vent'anni dalla chiusura delle centrali nucleari, il paese è ancora alle prese con lo smaltimento delle scorie radioattive derivanti dall'attività di quegli impianti e stoccate in alcuni depositi temporanei, o lasciate esattamente là dove sono state generate. Senza contare i rifiuti che ancora non ci sono ma che verranno fuori dallo smantellamento delle quattro centrali spente e in «custodia passiva» da diciotto anni, e dai quattro impianti di sperimentazione del ciclo del combustibile nucleare.

Quando infatti verranno completamente smontati (il termine usato è decommissioning) i quattro reattori nucleari attualmente sotto gestione dell'Enel - Caorso (Emilia), Trino Vercellese (Piemonte), Latina e Garigliano (Lazio) -, e i quattro impianti che erano al servizio del ciclo del combustibile - Itrec (Basilicata), Eurex (Piemonte) Pec (Emilia Romagna) e Cirene (Lazio) -, i circa 80-90 mila metri cubi di rifiuti che ne deriveranno dovranno essere posti in sicurezza per 100 mila anni, il tempo necessario per il decadimento radioattivo.

A questi vanno sommati, secondo un dossier che Legambiente ha stilato a novembre scorso e secondo l'inventario curato dalla stessa Apat, circa «250 tonnellate di combustibile irraggiato - pari al 99% della radioattività presente nel nostro Paese -, e i circa 1.500 m3 di rifiuti prodotti annualmente da ricerca, medicina e industria». Per un totale di circa 25 mila metri cubi di rifiuti radioattivi presenti ancora sul territorio italiano. Nel 2003 il governo Berlusconi e la Sogin (la Società di gestione degli impianti nucleari finita più volte nelle polemiche per una discutibile gestione del generale Carlo Jean), avevano progettato di accumulare questa montagna di scorie in un unico sito a Scanzano Ionico, in Basilicata. Non se ne fece nulla perché «il sito non era stato studiato con rilievi sul campo, ma solo con indagini bibliografiche», come spiega Legambiente.

Attualmente tutte le centrali, tranne Caorso, sono state svuotate delle scorie radioattive e dal combustibile irraggiato che vi erano stoccati. Fino a qualche anno fa ce n'erano 950 metri cubi a Latina, 2.200 a Garigliano, 780 a Trino Vercellese (dove giacevano nella piscina di decadimento anche 47 elementi di combustibile irraggiato pari a 14,3 tonnellate), e 1600 a Caorso (assieme a 1032 elementi di combustibile irraggiato). È proprio qui, nella centrale piacentina, che è rimasta l'ultima tranche di 235 tonnellate di combustibile irraggiato da trasferire entro il 2008 in Francia per essere vetrificate grazie alla tecnologia della Framatome, la ditta che ha vinto la gara per il trattamento. La vetrificazione però non risolve il problema della radioattività: perché siano ridotte a scorie di seconda categoria, meno pericolose e longeve, andrebbero incenerite. Per quanto riguarda invece lo smantellamento, fissato entro il 2015, degli impianti destinati al trattamento del combustibile e alla ricerca scientifica, che hanno anche la funzione di piccoli depositi di rifiuti radioattivi, Legambiente calcola una spesa di circa 862 milioni di euro.

Ma sul groppone, a distanza di più di venti anni, all'Italia sono rimasti anche i depositi di scorie, sia quelli di terza categoria (le più pericolose da stoccare per centinaia di migliaia di anni) che quelle di seconda (generalmente di natura ospedaliera, meno pericolose e con un tempo di decadenza radioattiva di poche centinaia di anni). I più grandi sono tre, quello di Saluggia in Piemonte, la Casaccia, il centro di ricerche dell'Enea vicino a Roma, e a Rondella (Basilicata). Senza contare le 5 mila tonnellate di grafite radioattiva ancora da smaltire, dell'impianto di Latina dove era in funzione un reattore di fabbricazione britannica a gas-grafite. Nel sito piemontese di Saluggia ci sono 110 metri cubi di liquidi radioattivi per i quali è prevista la cementificazione dei silos, una procedura lunga validata dalla commissione tecnico-scientifica ma che richiede ancora molti anni. Il deposito della Casaccia invece è destinato a stoccare solo rifiuti a bassa radioattività. Infine a Rondella, l'impianto Itrec contiene 3 metri cubi di liquido radioattivo, anche qui in attesa di cementificazione, e ancora 64 elementi di combustibile irraggiato da trattare (in tutti questi anni ne sono stati «lavorati» solo 20). Il problema è che stiamo parlando di Torio, un elemento di cui nessuno vuole occuparsi in Europa. Altra tecnologia, americana. Quello che è stipato a Rondella infatti è il risultato del primo trattamento effettuato con il metodo della centrale nucleare americana Elk River, dove negli anni '60 venivano spedite le scorie e i combustibili radioattivi.

Insomma, non sembra proprio un paese pronto a tornare all'atomo.

Uno dei grandi successi iniziali del Mercato comune (oggi Unione europea) parve essere la politica agricola.

Essa stabiliva, appunto, che tutta la produzione dei Sei paesi fondatori (Francia, Germania, Italia e Benelux) venisse messa in comune e protetta dalla concorrenza estera mediante dazi alle frontiere. Ogni anno si riunivano i ministri e stabilivano i prezzi validi per i 12 mesi successivi: tot per un quintale di grano, tot per un ettolitro di latte, tot per la carne, per il burro, per l’olio e così via. Il prezzo veniva fissato in modo che anche il produttore meno efficiente trovasse il suo rendimento. Se non riusciva a vendere il suo prodotto sul mercato libero, quel che restava veniva, comunque, acquistato e stoccato da Bruxelles al prezzo stabilito. Chi ci guadagnava di più erano naturalmente gli agricoltori più efficienti – francesi, tedeschi e olandesi – che producevano grandi quantità a costi minori e, quindi, con profitti crescenti. In breve il meccanismo incentivò la produzione di quantità enormi e invendibili sul mercato di burro, latte, carne. La linea di coltivazione del grano superò le latitudini abituali e salì verso il nord della Germania. I magazzini comunitari traboccavano di prodotti stoccati.

La politica agricola devastò per decenni i bilanci comunitari, fino a quando si riuscì, almeno in parte, a riformarla sovvenzionando direttamente i contadini. Il meccanismo aveva, peraltro, almeno un vantaggio: manteneva l’integrità del paesaggio agreste della vecchia Europa.

Questo precedente mi è venuto alla mente per la sua analogia con quel che stanno producendo gli incentivi pubblici alla produzione dell’energia eolica. Anche questa volta il fine è «buono»: sviluppare le energie alternative (sole, vento, biomasse, fotovoltaico, ecc.) il cui costo di produzione è troppo alto per competere con petrolio e gas, così come l’agricoltura europea non poteva competere con quella americana. Con la differenza in peggio che questa volta l’integrità di un paesaggio agreste unico al mondo, come quello delle campagne e paesi italiani, viene devastato in partenza con la creazione dei cosiddetti «parchi eolici», foreste di torri di acciaio alte almeno da 110 a150 metri munite di pale che girano vorticosamente quando spira vento sufficiente per produrre energia. Il più delle volte, peraltro, ne producono poca perché le zone prescelte, per lo più collinose, sono scarsamente ventose, ma l’evenienza non conta: costruttori e gestori ci lucrano egualmente. Ho già affrontato il tema («Linea di confine» del 17/3 e del 7/4 us) ma vi torno perché prevale nei mass-media una visione idilliaca di una gravissima operazione speculativa internazionale. Ferma restando la giustezza di sostenere, anche con aiuti pubblici, la creazione di fonti alternative, è evidente che questo impulso va coordinato in un piano energetico nazionale che stabilisca in partenza dove è utile incrementare il sole e il fotovoltaico, dove la geotermia, dove le biomasse (trasformazione dei rifiuti), dove l’eolico per costanza dei venti e salvaguardia del paesaggio, di quanto può essere realizzato con il risparmio di energie convenzionali, quanta energia nucleare conviene importare, ecc. Tutto questo manca e il meccanismo è stato abbandonato al western di un mercato senza regole. Una volta annunciati gli incentivi, che per l’eolico risultano tra i più alti d’Europa e anche del mondo, sia per la costruzione che per la gestione, è cominciata la corsa all’offerta di impiantare le torri, presentata alle Regioni o direttamente ai comuni, affamati di soldi, da parte di gruppi imprenditoriali di lungo corso o sorti per l’occasione e anche di faccendieri di ogni risma ("L’Espresso" del 17/4 ha pubblicato una inchiesta di Marco Lillo, degna di Gomorra, sul coinvolgimento di mafia e camorra). Che queste torri producano energia o girino a vuoto poco importa, i finanziamenti corrono lo stesso. Nel 2006 il Mezzogiorno, dove è stata utilizzata anche la legge 488 per l’industrializzazione, ha speso 468 milioni di euro per torri in gran parte inutili. E’ cominciata anche la devastazione della Toscana, attraverso contributi regionali a fondo perduto oltre alla lucrosissima speculazione sui certificati verdi. Così, se nessuno arresterà lo scempio, dalle colline di Scansano a quelle di Massa Marittima, dall’Aretino ai dintorni di Pisa vedremo moltiplicarsi le torri eoliche accanto a quelle medievali, tra vigneti doc impoveriti, vecchi casali e agriturismi svalutati, paesani offesi e turisti scoraggiati. Vien da citare il Commiato di D’Annunzio dalla Versilia: «... e, se barbarie genera nel vento/ nuovi mostri...».

"Vento, vento portami via con te..." recitava una celebre canzone degli anni Quaranta che si dice inducesse Mussolini a gesti di scongiuro, dopo un rapporto della polizia in cui si segnalava come spesso il finale venisse cambiato in "... portalo via con te". Quell’aria mi è tornata alla mente leggendo la lettera di protesta inviatami dal segretario generale dell’Anev (Associazione nazionale energia del vento), Simone Togni, che si dice «dispiaciuto», per la mia rubrica intitolata «Il vento soffia miliardi a scapito del paesaggio» ("Repubblica" del 17 us). Eppure è proprio così, checché ne dica il gentile rappresentante dei promotori dell’eolico che mi accusa di «non voler vedere gli aspetti positivi di questa tecnologia pulita... mentre l’unico impatto reale è quello paesaggistico e proprio per combatterlo l’Anaev ha sottoscritto un protocollo che impegna i nostri associati al rispetto di regole virtuose, protocollo sottoscritto anche da Wwf e Legambiente».

Dopo aver ribadito con incauta noncuranza che l’unico inconveniente sarebbe quello «visivo» (per cui basterebbe chiudere gli occhi per evitare il fastidio?) lo scrivente cambia le carte in tavola e si produce in una difesa ad oltranza delle energie rinnovabili, su cui siamo cento volte d’accordo, con l’avvertenza, per contro, a non confonderle tutte nello stesso cesto, perché l’eolico, se esteso nelle dimensioni già in atto e, ancor più in quelle annunciate (20.000 pale su piloni di cemento di 120 metri – ma anche di 170 – e conficcati per 25 m nel terreno), devasterebbe il paesaggio italiano, soprattutto quello collinare e dei clivi montani. Bisogna inoltre calcolare che per trasportare turbine e pali occorre una rete di ampliamenti stradali e di nuove arterie dove far passare migliaia di autotreni in andata e ritorno in zone con forti pendii, sovente geologicamente franose, occorrono inoltre scavi per centinaia di chilometri per gli elettrodotti, nuove linee elettriche aeree, cabine, piazzole, installazioni di illuminazione delle turbine per la sicurezza aerea. Tutto a carico della spesa pubblica statale e locale. Una vera e propria follia dietro cui, però, come diceva Shakespeare, vi è sovente una «logica». In questo caso la logica di una fruttuosa speculazione all’italiana, con profitti sicuri per i costruttori e gestori degli impianti e aggravio per le bollette degli utenti sui quali verrà scaricato il sovrapprezzo energetico. In uno studio del Wwf, favorevole in linea di principio ad una razionale utilizzazione dell’eolico si legge: «La valorizzazione dell’energia prodotta da impianti eolici che beneficiano dei certificati verdi (che i produttori di energie alternative possono rivendere alle industrie inquinanti per farle rientrare contabilmente nei parametri di Kyoto, ndr) ammonta a circa 190 euro per mwh (il MegaWatt equivale a 1000 kiloWatt, ndr). In gran parte d’Europa l’incentivazione, ad esempio in Germania, è compresa tra i 55 e gli 87 euro per mwh. L’elevata remunerazione garantita dal meccanismo di incentivazione in Italia ha quindi determinato una corsa all’eolico negli ultimi anni». Su tutto ciò il portavoce dell’Anev tace, ma sorvola anche sul fatto che la vantata Convenzione con le organizzazioni ambientaliste è scaduta e il Wwf non l’ha rinnovata perché, come mi scrive il segretario generale, prof. Michele Candotti, «non ha avuto impatti pratici e non si è arrivati a una posizione comune e ad un consenso sulle linee guida per la localizzazione degli impianti».

Alla lettera è allegato uno studio su quel che sta avvenendo nelle varie Regioni. Cito qualche breve passaggio: «Da un rapido esame su tutti i procedimenti autorizzativi regionali si evince che la potenza eolica installata o autorizzata è stimabile in circa 5000 mw, di gran lunga superiore ai 2500-3000 mw previsti per l’intera Italia... I progetti presentati solo da Sicilia, Calabria, Sardegna, Puglia e Basilicata ammontano ad oltre 12.000 mw!... Se alcune regioni hanno inserito ultimamente dei tetti massimi ciò non ha impedito che venissero approvati impianti in aeree ad alta vulnerabilità ambientale o eccedenti per ben sei volte (Sicilia) le capacità di distribuzione della rete elettrica. Ne emerge un quadro desolante caratterizzato da innumerevoli esempi di malagestione territoriale... con conseguente degrado di siti protetti, la scomparsa di comunità faunistiche di rilievo, l’adulterazione di paesaggi plurivincolati, il degrado di valori storici, archeologici e culturali». A questo punto il Wwf invoca almeno una moratoria per bloccare e regolare la sfrenata "bora" che rischia di devastare il Bel Paese.

Il Royal Town Planning Institute, in risposta all’annuncio del ministro per le Attività produttive John Hutton riguardo al piano di costruzione di nuove centrali nucleari, ha criticato il metodo usato dal governo per introdurre questa politica. Quell’annuncio rappresenta esattamente il modo in cui non si deve agire nel caso di scelte nazionali. Il governo ha mancato al proprio dovere di consultare adeguatamente le comunità direttamente interessate. Non si è nemmeno dimostrato che non esistono opzioni alternative, né perché il nucleare sia il metodo più efficace nel futuro.

Robert Upton, segretario generale del RTPi, ha affermato: “Non è questo il modo di impostare una politica nazionale. Il governo ha mancato al proprio dovere di una consultazione onesta e aperta a tutte le opzioni. Non si sono coinvolte le comunità.

“Il governo deve trarre insegnamento da questo errore anche per costruire le linee applicative per la organizzazione nazionale del territorio così come delineate dal progetto di legge quadro [Planning Bill] attualmente all’esame del Parlamento”.

L’anno scorso Greenpeace aveva portato il governo di fronte all’alta corte con l’accusa di non aver intrapreso adeguate consultazioni pubbliche. Il giudice si era espresso favorevolmente a Greenpeace dichiarando che il processo delle consultazioni era stato “gravemente carente” e “proceduralmente iniquo”. Come risposta, l’allora primo ministro Tony Blair aveva osservato che si sarebbero modificate le modalità di consultazione, ma non le scelte.

QUI il sito del RTCPI col comunicato originale (f.b.)

MILANO - «Si spesero ottocentomila franchi invece dei sette milioni del progetto originario. Si risparmiò sugli strumenti di misurazione. E venne cancellato un recipiente di recupero in caso di esplosioni. Se quel recipiente ci fosse stato, la diossina non sarebbe uscita dallo stabilimento dell´Icmesa».

Domani saranno passati trent´anni. Jorg Sambeth era il giovane direttore di produzione del gruppo Hoffman La Roche. Lo chiamarono da Seveso mentre era in vacanza sulle montagne svizzere: «È scoppiato il reattore». Era l´inizio della tragedia di Seveso, la contaminazione che avrebbe devastato un pezzo di Lombardia mettendo per la prima volta l´Italia davanti al lato più cupo del boom economico e dell´industrializzazione selvaggia. Per la legge italiana, Sambeth è uno dei colpevoli di quel disastro: cinque anni di condanna in primo grado, uno e mezzo in appello. Durante il processo, ha scelto la linea voluta dall´azienda: incidente imprevedibile. Ma quando si è convinto di essere stato un capro espiatorio, ha raccontato la sua verità in un libro. Il libro è diventato un film: Gambit di Sabine Gisiger. In Svizzera, dove Sambeth vive, il film è stato visto e applaudito. In Italia, nel paese dell´Icmesa, il film non è mai arrivato. Non lo hanno voluto le sale. Non lo hanno voluto neanche le librerie.

Eppure gli ultimi dati dicono che la storia di Seveso non appartiene solo alla memoria. Nella zona in cui quella mattina di luglio si sparsero i veleni dell´Icmesa, quest´anno mancano all´appello venti neonati maschi. Il rapporto delle nascite, che da sempre vede venire al mondo più bambini che bambine, a Seveso si è invertito. I medici non hanno dubbi: il motivo è nella nuvola di trent´anni fa, che ha cambiato senza ritorno gli organismi di quelli che allora erano ragazzini, e che oggi sono padri.

I ragazzini del 1976 continuarono a giocare a lungo nei campi invasi dalla diossina prima che qualcuno lanciasse l´allarme. Il reattore scoppia il 10 luglio 1976. I primi, cauti, provvedimenti sono del 15. Solo il 17 la notizia finisce sui giornali. Solo il 26 luglio inizia l´evacuazione della "zona A". Un ritardo che Sambeth spiega senza eufemismi. «Ci vollero cinque giorni perché venisse convocata una unità di crisi. Il presidente era in viaggio in Brasile. Il numero due disse: non si parla. Le società non dovevano essere nominate e non doveva essere nominata la diossina. Era successo un incidente durante la produzione del triclorofenolo e basta. La linea era: non sappiamo cosa è successo esattamente, vi informeremo a tempo debito, fino ad allora non c´è pericolo per nessuno».

Fin da subito, i vertici dell´azienda sapevano che l´esplosione del triclorofenolo - la sostanza base per la produzione del tranquillante Valium - aveva sviluppato e liberato diossina. Ma non lo dissero, lasciando i medici italiani a interrogarsi su quelle macchie che invadevano le facce dei bambini di Seveso. «Resistetti tre giorni - racconta Sambeth - poi venni di nuovo in Italia. Non dire ai medici che curano gente ferita di cosa si tratta, pur sapendolo... Non è possibile. Come fa il dermatologo a riconoscere che si tratta dell´inizio della cloracne, che è stata la diossina?». Sambeth parlò, e l´Italia scoprì una nuova parola: diossina.

Per 447 persone, soprattutto bambini, ci furono danni alla pelle, a volte terribili. Quattromila animali domestici morirono, migliaia dovettero venire uccisi. Centinaia di abitanti vennero evacuati e le loro case abbattute. Solo pochi giorni fa la Regione Lombardia ha dato lo status di parco naturale al Bosco delle querce, l´area verde di sessantadue ettari realizzata dopo la bonifica sul luogo del disastro. Si è persa la memoria di quella farsa che fu la sparizione dei 41 fusti con la diossina, ritrovati dopo una caccia interminabile in una discarica francese e inceneriti infine in Svizzera. E senza risposta è rimasta la domanda sollevata nel 1993 dal giornalista tedesco Ekkehard Sieker in un suo film: la diossina dell´Icmesa era davvero una conseguenza non voluta della produzione di triclorofenolo, o era un´arma chimica deliberatamente prodotta per il mercato bellico?

Quando gli si parla di questo, è come se a Sambeth un nuovo fantasma attraversasse lo sguardo. «Sì, l´impianto era così concepito che ci si poteva domandare: sembra fatto apposta per questo». Ma più in là non va. Di fantasmi, forse, gli bastano quelli che si porta dentro da trent´anni.

Chi è Laura Conti e che c'entra con Seveso, in un profilo di Giorgio Nebbia

Titolo originale: Chinese toxic spill flows into Russian city – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Le autorità delle zone più orientali della Russia oggi hanno fatto appello alla calma, mentre i veleni riversati dalla Cina arrivavano nella città di Khabarovsk.

La chiazza – che si estende per quasi 200 chilometri – è entrata nel territorio della città poco dopo il tramonto, dicono i funzionari.

Comunque, si insiste sul fatto che i livelli di inquinamento dell’Amur sono entro i limiti di sicurezza e si continuerà a fornire acqua potabile.

”Abbiamo fatto tutto quanto possibile per proteggere e filtrare le acque, e non intendiamo chiudere l’acqua a Khabarovsk” ha dichiarato il governatore Viktor Ishayev. Ha fatto appello ai 580.000 abitanti della città, a “restare calmi”.

L’inquinamento è stato innescato da un’esplosione in un impianto chimico nel nord-est della Cina il 13 novembre.

L’esplosione ha mandato 100 tonnellate di benzene e altri veleni nel fiume Songhua, costringendo la città di Harbin a chiudere gli impianti di acqua potabile ai propri 3,8 milioni di residenti per cinque giorni.

Da allora, la chiazza si è spostata lungo la corrente del fiume. È entrata nel territorio della Russia la scorsa settimana, spingendo gli abitanti di Khabarovsk ad accumulare acqua da bere, per lavarsi e cucinare.

Una linea telefonica d’emergenza è stata inondata di chiamate preoccupate.

“Tentiamo di non farci prendere dal panico, ma naturalmente c’è paura” ci dice Irina Zakonnikova, abitante della città.

Il piccolo appartamento, che divide col marito e due figli adolescenti, è stipato di bottiglie, pentole e altri recipienti pieni d’acqua.

Si stanno usando tonnellate di carbone per filtrare i contaminanti dalle scorte d’acqua prelevate dal fiume Amur, che normalmente fornisce tutta la città.

I funzionari regionali confermano la presenza di nitrobenzene nelle acque, ma aggiungono che la concentrazione è entro livelli accettabili e non c’è pericolo per la salute.

Comunque, fra i sospetti per le rassicurazioni ufficiali, qualcuno ha affermato che non è sicuro usare l’acqua del rubinetto.

”Gli abitanti hanno accumulato acqua, e questo dovrebbe essere sufficiente a bastare per due o tre giorni” dice Vladimir Ott, responsabile regionale del Servizio Federale Risorse Naturali.

La chiazza potrebbe impiegare quattro giorni a passare attraverso Khabarovsk, ma gli esperti avvertono che gli effetti ambientali saranno di lungo termine. Benzene e nitrobenzene, entrambi più pesanti dell’acqua, probabilmente si insedieranno sul fondo del fiume e si attaccheranno al ghiaccio.

Col disgelo primaverile così non si inquinerà solo l’acqua del fiume, ma anche le sponde, secondo Yevgeny Rozhkov, ingegnere dell’Agenzia Metereologica dell’Estremo Oriente.

L’amministrazione regionale ha proibito la pesca sull’Amur – probabilmente per i prossimi due anni – e gli abitanti hanno riempito i frigoriferi di pesce surgelato.

here English version

Titolo originale: Beyond the Harbin Chemical Spill – Traduzione di Fabrizio Bottini

New York – Il riversamento di veleni questo mese nel fiume cinese Songhua ha obbligato ad evacuare migliaia di persone; ha avvelenato le riserve d’acqua a milioni di abitanti del nord-est della Cina, compresa Harbin, la principale città della regione; ora minaccia l’approvvigionamento per settanta città e villaggi russi a valle del corso del fiume. Sinora, la maggior parte delle analisi seguite al disastro si sono concentrate sulle sfide per gli abitanti della città e i problemi determinati da una scarsa applicazione delle norme ambientali, da funzionari locali corrotti, dalla lentezza e difficoltà con cui sono state rese disponibili le informazioni alle popolazioni colpite.

Ma si sono persi di vista due punti di gran lunga più significativi riguardo alla perdita, di 100 tonnellate di benzene, un potente prodotto petrolchimico cancerogeno che causa le leucemia. Primo, non si tratta di un evento isolato, ma della manifestazione di un problema strutturale di dimensioni molto superiori per la Cina, che colpisce in modo sproporzionato le zone rurali dove abita la maggior parte della popolazione. Secondo, il mondo nel suo insieme è implicato a vari livelli nella questione, e non può più fingere che sia altrimenti.

Lontano dalle brulicanti megalopoli di Pechino e Shanghai ci sono gli entroterra rurali della Cina: motore e discarica della crescita e sviluppo economico senza precedenti del paese. Queste zone rurali forniscono alle città del boom economico una manodopera a buon mercato, non sindacalizzata, proveniente da villaggi di poveri contadini nel pieno di una crisi sociale e ambientale. È qui che si localizzano molte industrie nocive, dove i riversamenti di benzene hanno iniziato a scorrere e scorreranno ancora, lontano dagli occhi dei media internazionali.

I lavoratori delle campagne operano in condizioni che sono tra le più antigieniche e pericolose del mondo, in queste remote industrie di villaggio e cittadina sparse per il paese. Questi subfornitori delle corporations cinesi e internazionali diffondono inquinamento nell’aria, nell’acqua, nel suolo. E quando la salute dei lavoratori è distrutta dentro queste fabbriche, essi tornano a coltivare le povere terre residue attorno ai propri villaggi: ormai discariche di veleni per questa produzione senza regole.

Ho trascorso buona parte degli anni ’80 lungo il fiume Songhua. Ricordo distintamente di aver bevuto acqua di pozzo rossastra inquinata in un villaggio privo di qualunque altra fonte idrica di quella avvelenata dalla piccola fabbrica del luogo. La possibilità di scelta per gli abitanti era o di bere quell’acqua o andarsene, aggiungendosi ai 200 milioni di contadini cinesi in cerca di lavoro ogni giorno nelle città cinesi.

Alternative del genere sono il rovescio della medaglia del successo economico della Cina a partire dai primi anni ‘80, che ne ha fatto il produttore di una quota costantemente in crescita dell’industria mondiale. La fenomenale crescita del paese si è accompagnata a un saccheggio delle risorse della sua base rurale, con un declino nell’accesso dei contadini ai servizi di base, sanitari e dell’istruzione, è un solco profondo e in rapida crescita fra aree urbane e rurali, fra una minoranza di ricchi e una maggioranza di poveri.

Questioni de genere possono apparire distanti. Ma le loro manifestazioni concrete stanno sugli scaffali del nostro Wal-Mart o dell’Ikea. La Cina rurale, il suo ambiente, la sua gente, sono la base portante di una catena globale che si collega all’emergere della Cina come piattaforma industriale preferita dalle corporations globali.

Se sono i lavoratori e l’ambiente cinese a pagare in massima parte i costi, noi al di fuori dei confini del paese, sempre pronti a comprare beni a basso prezzo senza pensare ai loro impatti sociali e ambientali – specie in contesti remoti e nascosti come la Cina rurale – ne godiamo i benefici. E pure indirettamente ne sosteniamo anche i costi.

Le compagnie mondiali continuano ad accorrere verso la Cina a metter su fabbriche per evitare le regole ambientali e del lavoro vigenti altrove, le organizzazioni sindacali, e trascinano le comunità di tutto il pianeta verso il basso nella lotta per la concorrenza a questa piattaforma industriale socialmente ed ecologicamente distruttiva.

Dobbiamo renderci conto di questa triste realtà, e affrontare la conseguente sfida alle comunità di tutto il mondo. È troppo facile lanciare un momentaneo grido di sgomento in ogni caso di notizia di disastro ambientale, puntando il dito contro leaders locali corrotti e industriali, o anche al fallimento del sistema di regole cinesi, solo in attesa del prossimo evento, una settimana più tardi. Invece, dobbiamo affrontare direttamente questi modi ambientalmente e socialmente insostenibili che abbiamo scelto per produrre e consumare globalmente.

Nota: Joshua Muldavin, professore di Geografia e Studi sull’Asia al Sarah Lawrence College, sta scrivendo un libro sugli impatti sociali e ambientali del processo di sviluppo in Cina dell’epoca post-Mao. Il testo originale al sito dello International Herald Tribune(f.b.)

Titolo originale: L.A. all over again – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Con un’economia spumeggiante che cresce del 9% l’anno o più, ma con problemi per la disponibilità di energia, la Cina non ha alternative al ricorso a petrolio da fonti esterne. Ma gli americani sono rimasti sorpresi quando una compagnia cinese è emersa come potenziale concorrente per l’acquisizione della Unocal Corp. poi è stata la Cina ad essere sorpresa, dalla feroce reazione politica di alcuni ambienti conservatori USA, che ha obbligato la CNOOC Ltd. a ritirare le offerte la scorsa settimana.

Lo stupore da entrambe le parti mostra come Cina e USA siano poco preparati a rapportarsi l’uno all’altro nei termini del 21° secolo. Ma con l’economia globalizzata in espansione, che continua a pesare sull’ambiente mondiale, ciascuna nazione ha più da guadagnare che da perdere studiando i problemi energetici dell’altra.

La Cina dovrebbe guardare gli USA, e chiedersi: se il prezzo della crescita è aria irrespirabile, acqua imbevibile, città che non funzionano e strade congestionate, per quanto una nazione può sostenere un boom economico?

Quello che la Cina ha imparato dagli Stati Uniti, è che una prospera industria automobilistica diffonde la crescita verso le attività correlate, come acciaio, vetro, plastica, petrolio, finanza e assicurazioni. Quello che sembra non aver imparato, è l’alto prezzo che si può pagare, per una crescita del genere.

A Pechino, dove il numero di auto cresce del 20% l’anno, la velocità media del traffico è scesa dai 45 chilometri l’ora del 1994 ai 12 del 2003: un passo che è possibile mantenere anche su una bicicletta. Come nelle città americane, il livello crescente di proprietà dell’auto coincide con un brusco declino dell’utenza dei mezzi pubblici. Negli anni ’70 a Pechino usava i mezzi pubblici il 70% della popolazione. Oggi è solo il 24%.

I pendolari in bicicletta, un tempo ubiqui nelle strade cinesi, sono stati esclusi dalle arterie di traffico principali, per far posto alle auto. Più cinesi guidano, e aumenta la domanda per una versione locale dello sprawl in stile californiano, con immacolate lottizzazioni di casette a bassa densità unifamiliari, lontane dai posti di lavoro. Come i californiani, i pendolari cinesi si spostano più lontano e passano più tempo in viaggio, consumando più benzina e producendo più inquinamento. È chiaro che la cultura dello sprawl californiana non fornisce il miglior modello di sviluppo sostenibile.

La Cina dovrebbe guardare a Curitiba, nel Brasile meridionale, o a Tokyo, che unisce alta diffusione dell’auto privata a bassi usi quotidiani, offrendo buoni trasporti pubblici e adottando rigidi limiti alla circolazione. Si possono comprare quante auto si vuole (e stimolare l’industria automobilistica, e l’economia), ma non usare l’auto per ogni spostamento.

Non sono solo le città cinesi ad essere sottoposte a pressione. Anche le vaste aree rurali attirano industrie fumose, discariche e altre fonti inquinanti espulse dalle città. I mezzi di comunicazione occidentali hanno riportato di violente proteste di contadini contro l’inquinamento.

Circa 15.000 contestatori vicino a Xinchang, 250 chilometri a sud di Shanghai, hanno ribaltato auto della polizia e tirato pietre, per la rabbia contro l’inquinamento e le condizioni di lavoro insicure, per l’uso di prodotti chimici pericolosi da parte di una fabbrica farmaceutica. A ottanta chilometri di distanza, a Dongyang, circa 10.000 rivoltosi chiedevano la chiusura di una fabbrica di pesticidi.

Una volta evidenti i costi umani in crescita, un sorprendente numero di funzionari governativi, accademici e altri ha iniziato a parlare apertamente della follia dei modi di crescita in Cina. Il Centro per i Trasporti Sostenibili cinese sta redigendo raccomandazioni per promuovere un sistema meno dipendente dal petrolio straniero. Si spera anche nelle recenti azioni dell’Agenzia per la Tutela dell’Ambiente. A lungo considerata organismo debole, da poco l’agenzia si è mossa d’autorità in casi di progetti di costruzione di alto livello promossi da altre agenzie governative.

Le sfide ambientali cinesi possono diventare gravi, al punto da impedire la crescita economica. Ora il secondo produttore mondiale di emissioni serra, la Cina dovrebbe superare gli Stati Uniti entro il 2025, per il discutibile posto di Numero 1, secondo il Pew Center on Climate Change. L’Accademia Cinese di Pianificazione Ambientale riferisce che le malattie connesse all’inquinamento atmosferico contano per il 2%-3% sul prodotto nazionale lordo, e calcola che per il 2020 la cifra salirà al 13%.

Glu USA dovrebbero considerare la Cina non un rivale, ma un partner, offrendo aiuti per individuare soluzioni innovative. Per prima cosa, gli USA potrebbero iniziare col buon esempio. Il rifiuto dell’amministrazione Bush di sottoscrivere il protocollo di Kyoto sul riscaldamento globale, basato in parte sull’esenzione per la Cina e altri paesi in via di sviluppo, manda il messaggio per niente gratificante che il paese protegge i suoi interessi a spese dell’ambiente mondiale. Il Presidente Bush potrebbe chiedere al Presidente cinese Hu Jintao di unirsi a lui nello sforzo a ridurre i consumi di benzina e la dipendenza dagli impianti energetici a carbone in entrambi i paesi, e tagliare alte fonti di gas serra.

Le imprese USA che cercano investimenti in Cina potrebbero influenzare le condizioni locali con una selezione di prodotti, imprese associate e venditori. Per esempio, la General Motors potrebbe trarre vantaggi dalla minor produzione cinese e costi di mercato, per sviluppare veicoli a maggior efficienza nei consumi. Una volta realizzati, questi nuovi veicoli potrebbero essere prodotti anche negli USA per i nostri consumatori.

Il progetto EMBARQ della Energy Foundation e World Resources Institute hanno sostenuto progetti di trasporto pubblico velocissimi per le città cinesi, simili allo MTA, linee autobus Metro Rapid di Los Angeles. Ora alcuni lungimiranti funzionari cinesi vogliono andare oltre, e cercano aiuto per le cause profonde delle lacune energetiche e di trasporto, a individuare i modi per scoraggiare l’uso dell’auto e ridurre le distanze degli spostamenti pendolari.

Invece di combattersi la limitata disponibilità di energie non rinnovabili del mondo, Cina e USA dovrebbero unire le forze per mostrare al mondo un nuovo modello di prosperità: calcolata non solo in dollari o yuan, ma in termini di città vivibili e ambiente salubre.

Nota: il testo originale sul sito del Los Angeles Times; in questa stessa sezione di Eddyburg, Il Nostro Pianeta, oltre che in Megalopoli e Territorio del Commercio altri articoli sul rapporto fra sviluppo urbano/economico cinese, occidentale, e degrado ambientale (f.b.)

Bhopal, vergogna senza fine

GALAPAGOS

Il capitalismo - ci ha insegnato Marx nei Grundrisse - è uno straordinario sistema innovativo. Però, spesso, sa essere staordinariamente cattivo: non rispetta i valori umani, la vita stessa delle persone, come insegnano le migliaia di morti nelle miniere di carbone della Cina. Il capitalismo uccide nella produzione e spesso anche nel consumo: uccide con medicinali affrettatamente immessi sul mercato; uccide con l'amianto del quale da tantissimi anni si conoscono le conseguenze micidiali; uccide uccidendo l'ambiente, riversando sostanze mortali sulla terra, nelle acque, nell'atmosfera. Difficile fare una graduatoria tra i cattivi: al primo posto, però, non c'è dubbio va collocata la Union Carbide. Oggi fanno venti anni dal disastro ambientale di Bhopal: una Seveso moltiplicata per mille. Ma, al contrario di Seveso (che a livello Ue ha prodotto una direttiva di una qualche utilità) non ha portato nulla, se non morte a disperazione. A cominciare da quella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984. Fu un inferno: una nube tossica di gas chiamato «isocinato di metile» fuoriuscito da un impianto per la produzione di pesticidi della Union Carbide avvolse moltissimi quartieri della città. La gente moriva come mosche sulle quali viene spruzzato il Ddt, quel diclorodifeniltricloro etano, oggi vietato (ma usato in molti paesi sottosviluppati) che un tempo veniva sciaguratamente usato per combattere i pidocchi sulla testa dei nostri figli.

Furono 40 le tonnellate di gas mortale a essere scaricate sulle povere case a essere inalate da centinaia di miglia di persone. Il risultato fu disastroso: in pochi giorni morirono 7 mila persone. Altre 15 mila sono morte negli anni successivi per aver respirato il veleno e sono almeno 100 mila gli indiani che soffrono di malattie respiratorie croniche, di tumori, di tubercolosi. Le cifre sono da bomba atomica: non a caso molti parlano di Bhopal come di una «Hiroshima industriale». Le colpe della Union Carbide non si limitano alla fuga di gas: nascose per giorni le informazioni mediche su quel gas che erano preziose per soccorrere la popolazione e dopo 20 anni la gente è ancora in attesa di rimborso equo dei danni subiti e quel che è peggio la zona seguita a essere contaminata e la gente a ammalarsi.

Un'inchiesta della Bbc su Bhopal ha denunciato che la popolazione seguita a ammalarsi per l'acqua contaminata i cui valori di inquinamento sono 500 volte superiori agli standard previsti dall'Organizzazione mondiale per la sanità. Tutta la zona, insomma seguita a essere contaminata: a 20 anni di distanza nessun processo di decontaminazione è stato avviato. La Dow Chemicals nel 2001 ha assorbito la Union Carbide, ma non l'impianto di Bhopal lasciato a marcire e a contaminare ancora di più il territorio. Ma la Dow Chemical non è migliore della Union Carbide: i suoi prodotti come ad esempio il Numagol-Fumazone uccidono di cancro i bananeros che disinvolte multinazionali (a conoscenza degli effetti nocivi) utilizzano sulle piantagioni: perché sul prezzo delle banane e sui profitti quelle povere morti di contadino latino americani o cittadini indiani non vengono mai conteggiate.

Una strage lunga vent'anni

MARINA FORTI

Lo stabilimento della Union Carbide di Bhopal, importante città industriale nel cuore dell'India, si trova in una zona popolare molto abitata: addossati ai muri di cinta ci sono almeno cinque colonies, borgate di case assai modeste, a volte solo baracche. Di fronte ai cancelli della fabbrica di fertilizzanti e pesticidi c'è la borgata di Jayaprakash Nagar, con centinaia di migliaia di persone. Per gli abitanti di queste borgate, la notte tra il 2 e il 3 dicembre del 1984 è ancora ricordata come un incubo. Quella notte la fabbrica si è trasformata in una sorta di bomba chimica: l'impianto che sintetizzava fosgene-isocianato di metile si è surriscaldato, una cisterna è esplosa e 40 tonnellate di un cocktail letale è stato sparato in aria. La nuvola di gas ha investito le borgate a nord della fabbrica e centinaia di migliaia di persone l'hanno respirata. Qualcuno è morto nel sonno. Gli altri hanno cercato la fuga: ma non c'era scampo al gas. Chi ricorda quella notte descrive strade disseminate di cadaveri, gente che invocava aiuto vomitavando sangue, bambini che soffocavano. E' stata una notte di guidatori di risciò che tentavano di portare persone in ospedale, capistazione che fermavano treni prima che si avvicinassero a bhopal, medici che non sapevano cosa fare. Per parecchie ore dopo l'esplosione i dirigenti della fabbrica hanno continuato a dire che non era successo nullo, una piccola fuga ma tutto sotto controllo. Quella notte sono morte tra duemila e 6.000 persone: le stime variano, intere famiglie sono scomparse senza lasciare traccia. Molte di più sono morte nei mesi successivi per le conseguenze dell'avvelenamento: è accettata la stima di 15mila. La Union Carbide a Bhopal ha fatto oltre ventimila vittime: viene chiamata una «Hiroshima chimica». Ieri migliaia di persone hanno ricordato quella notte, vent'anni dopo: manifestazioni a Bhopal stessa, una fiaccolata all'università di New Delhi, proteste e commemorazioni un po' ovunque nel mondo. Ma non intendevano solo commemorare le vittime di un disastro passato. Bhopal è una tragedia del presente, per diversi motivi. Il primo è che nella città nel cuore dell'India centinaia di migliaia di persone continuano a soffrire le conseguenze fisiche di quella notte. Le autorità contano ufficialmente 570mila gas affected people, persone che nella strage hanno perso qualcuno - coniuge, genitore o figlo - o che sono rimaste menomate dal gas. Si stima che 150mila persone soffrano di mali cronici: per lo più al sistema respiratorio, allergie, disordini ginecologici, disordini riproduttivi, disturbi nervosi o turbe psichiche. Non che siano mancate le cure: a Bhopal c'è anche un nuovissimo ospedale dedicato proprio alle vittime della Union Carbide, costruito nel 1998 col ricavato della vendita delle azioni della Union Carbide India. Ma i mali cronici restano.

Non solo. Bhopal è un'ingiustizia presente. La Union Carbide è riuscita a «chiudere» le sue responsabilità, nel 1989, patteggiando con il governo indiano un risarcimento di 470 milioni di dollari, sette volte meno la cifra rivendicata in un primo tempo dal governo indiano (che si era costituito in legale rappresentanza delle vittime): se l'è cavata con 43 centesimi di dollaro per ogni azione quotata in borsa. Di responsabilità penali non si parla: i dirigenti dell'azienda non si sono mai presentati ai tribunali indiani. L'allora presidente della multinazionale statunitense, Warren Anderson, formalmente ricercato con l'accusa di omicidio plurimo, vive da agiato pensionato da qualche parte negli Usa e nessuno a Washington intende estradarlo.

Di quei risarcimenti, i sopravvissuti hanno ricevuto circa 2.200 dollari in risarcimento per i defunti, e circa 400 dollari per i vivi, piccola somma una tantum distribuita tra il 1994 e il `95. Dopo lunghe battaglie popolari, in ottobre una sentenza della Corte suprema indiana (non la prima) ha ingiunto al governo di procedere a distribuire tra le vittime ufficiali il resto dei soldi versati da Union Carbide (che nel frattempo hanno fruttato: oggi sono circa 327 milioni di dollari).

La cosa più grave però è che il vecchio stabilimento della Union Carbide, in disuso da quella notte di vent'anni fa, continua a uccidere. Nelle carcasse arruggicite della fabbrica, tra i capannoni ormai diroccati, abbiamo visto migliaia di tonnellate di sostanze tossiche: residui di naftolo, urea, ddt, polveri ormai indurite che fuoriescono da sacchi sdruciti, resine nerastre che filtrano da bidono corrosi dalla ruggine, fiocchi di amianto che si staccano dalle vecchie guarnizioni. Nel `94, dopo proteste popolari e indignazione pubblica, 44 tonnellate di residui tossici catramosi erano stati rimossi, ma quello che resta basta ancora a contaminare terreni e falde idriche. Diverse indagini indipendenti hanno mostrato che l'acqua dei pozzi a cui attingono le borgate attorno allo stabilimento contiene metalli pesanti come mercurio e piombo, che il piombo è nel latte materno. Manca un'indagine epidemiologica più sistematica ma è abbastanza per allarmarsi. Le istituzioni pubbliche indiane ne sono consapevoli. Ma bonificare un sito simile costa parecchio: e Dow Chemical, che nel 2001 ha assorbito la vecchia Union Carbide, afferma di non aver nessuna responsabilità. Nella fusione, Dow non ha acquisito il catorcio di Bhopal, formalmente in custodia del governo indiano. Così decine di migliaia di persone continuano ad assorbire veleni, lentamente.

Il record c’è, ma è decisamente negativo. La Commissione Europea ha diffuso nei giorni scorsi il rapporto Eper (European Pollutant Emission Register), una sorta di radiografia dell’inquinamento europeo. Il rapporto è frutto di un’analisi dettagliata compiuta a partire dal 2001 su un campione di oltre novemila tra aziende, discariche e stabilimenti della vecchia Europa dei Quindici allargata a Norvegia e Ungheria. Cinquanta le sostanze tossiche prese in considerazione.

Una apposita “lista nera” individua le aziende che da sole producono più del 10 per cento delle emissioni totali rilevate in Europa per una determinata categoria. Fra esse figurano anche diverse società italiane, dislocate in tutto lo stivale. Segno che l’inquinamento di casa nostra non ha particolari preferenze geografiche. È complessivamente diffuso.

Per una questione di comodità, elenchiamo le “aziende tossiche” a partire dal nord. A sorpresa scopriamo che l’insospettabile Valle d’Aosta, rinomata per la sua aria salubre e per il suo ambiente incontaminato, vanta la poco invidiabile presenza, sul suo territorio di un mostro come la Magnesium Products of Italy di Verres, che da sola produce il 25,2 per cento del totale di fluoruro di zolfo nell’Unione europea.

Poco più a sud, la Radici Chimica di Novara, città il cui distretto industriale è finito nel mirino degli ambientalisti, che lo descrivono come un paesaggio post-atomico, sarebbe responsabile del 17,6 per cento del totale delle emissioni di protossido di azoto. Sempre da quelle parti, in provincia di Vercelli, località Valduggia, sorge la “Sitindustrie Internationa”, rinomata a partire da adesso per l’emissione del 25,9% dei composti organostannici, delle sostanze spesso usate per le vernici navali.

Seguendo la rotta del Po’ fino a Mantova e poi deviando a nord, si arriva dritti a Porto Marghera. Figuriamoci se il Mostro della Laguna poteva non far parte della lista nera. Lo stabilimento di Porto Marghera è responsabile del 25,1% del totale di esaclorobutadiene, meglio noto per questioni di sobrietà come Hcbd.

Scendendo a sud e sconfinando in Romagna troviamo l’azienda Hera, una discarica di rifiuti urbani e speciali non pericolosi (non per l’aria) con sede a Baricella (Bologna) che produrrebbe il 21,9 per cento del totale delle emissioni di metano nella Ue. Il Centro ecologico di Ravenna emette il 14,4% del totale delle emissioni di dicloroetano (DCE). Notizia dei giorni scorsi: Hera ha firmato il contratto definitivo per l’acquisto del 100% di Ecologia Ambiente, società che gestisce le attivtà del

Polo Ecologico di Ravenna. Se la fusione andasse in porto, l’Emilia Romagna si trasformerebbe in una piccola Hiroshima. Ti pareva se poteva mancare anche Nagasaki: l’impianto di trattamento chimico-fisico-biologico del depuratore di Lugo (Ravenna) produce il 12% del totale delle emissioni di azoto europee.

Andiamo a Sud. Lo stabilimento di Taranto Ilva, secondo l’Eper produrrebbe il 10,2% del totale delle emissioni di monossido di carbonio (CO), mentre dalle ciminiere dello stabilimento brindisino Enipower fuoriesce il 13,7% del totale delle emissioni di zinco. Non male.

Infine la Sardegna. Avremmo potuto prenderla in considerazione prima, quando eravamo ancora alle prese con i mostri del Regno Sabaudo. Ma abbiamo preferito la lezione di storia contemporanea piuttosto che quella di storia moderna. Lo Stabilimento Syndial di Porto Torres emette il 14,3% del totale delle emissioni di diossine e di furani. Il depuratore consortile di Olbia (Sassari) che produce il 10,1% delle emissioni di fosforo e il 18,4% di TOC. Chiudere con un doppio primato fa sempre effetto.

Tanto per cominciare, lo dice anche lui: “anche in questo settore la tecnologia è in rapida evoluzione”. E questo mal si concilia con l’affermare qualche riga sotto, che “Combattere l’eolico in nome dell’Ambiente è, dunque, un controsenso che non sta né in cielo né in terra”.

Mi riferisco a Giovanni Valentini, che col suo nuovo articolo della serie energie alternative coglie al volo l’occasione per dare gentilmente dell’imbecillotto passatista, o qualcosa di simile, a singoli, multipli, istituzioni e regole che ostacolano la marcia del progresso. Che altro sarebbe, secondo l’Autore, questa carica contro i mulini a vento, se non una patetica difesa a oltranza di un mondo fantastico (il riferimento mentale donchisciottesco della personalità disturbata è sin troppo facile da evocare automaticamente nel lettore), di pianure e colline da cartoni animati, che ovviamente non trovano alcun riscontro nella realtà. Realtà che vede l’operoso stivale attento sì alla tutela del paesaggio e del territorio, ma insomma vi abbiamo dato delle centrali che non inquinano e voi non siete contenti? Con cosa ve lo facciamo funzionare l’ascensore per salire a contemplare il vostro paesaggio? Coi fuochi di sant’Antonio?

Domande che appaiono del tutto ragionevoli, se non fosse che quelle obiezioni e opposizioni alle fattorie del vento, sono assai più realistiche dell’esegesi tardo-marinettiana di tanti cantori del progresso “a prescindere”. Perché tengono conto, sostanzialmente, di due aspetti che il futurismo giornalistico lascia al momento nel cassetto:

- l’osservazione empirica, e la prospettiva storica

- il fatto, appunto che “la tecnologia è in rapida evoluzione”.

La storia e la cronaca dicono, perlomeno a chi decide di badare a questi aspetti, che l’insediamento delle turbine nasce e si sviluppa secondo i criteri abituali dell’industria. In modo quindi del tutto paragonabile a cose ben note come le centrali energetiche tradizionali, le discariche, o diverse ma simili come le strutture per la logistica e la grande distribuzione, le infrastrutture per la mobilità … Ovvero: c’è l’immagine degli uffici stampa (non necessariamente menzognera, ma certamente parziale) concentrata sui vantaggi, e c’è il resto degli impatti. Nel caso delle wind farms il non detto spesso rappresenta il quasi tutto, ovvero ciò che sta a terra in termini di strutture di servizio, strade (e effetti indotti dalle strade in aree dove prima non ce n’erano), recinzioni, barriere, altri effetti territoriali della questione sicurezza ecc. Altro che dire: problema risolto quando le pale non tritano più le anatre. Il tutto senza nemmeno sollevare la questione estetica, che è discutibile e lasciamola discutere in altra sede.

C’è poi il fatto che, lo riconosce Valentini, “la tecnologia è in rapida evoluzione”. Non solo la tecnologia pura (che in sé interessa solo i veri appassionati), ma le forme organizzative che la affiancano e complementano: impianti di dimensioni minori, maggiore efficienza, minori velocità di rotazione … il che significa (volendo) una logica diversa riguardo alle possibili localizzazioni, concentrazioni, rapporti col suolo e con la rete di distribuzione e consumo. E la stessa “rapida evoluzione” non si deve certo alla sola libera concorrenza dei settori ricerca e sviluppo delle imprese interessate, ma al fatto che il mitico mercato è composto anche da singoli, gruppi e istituzioni che hanno imparato sulla propria pelle come il collettivo OOOOH! a naso all’insù non sia l’unica possibile reazione. Singoli, gruppi e istituzioni che sollevano legittimi dubbi sulla effettiva luminosità dei futuri da pieghevole pubblicitario. Si spera siano almeno finiti i tempi in cui per la common wisdom si è out se non si portano moglie e figli ad ammirare il fungo dalle parti di Los Alamos. Per poi sentirsi dire dopo qualche decennio: “non potevamo sapere”.

Quindi ben vengano tutte le innovazioni tecnologiche e organizzative (soprattutto le seconde), ma ben vengano anche le legittime cautele di chi non accetta a scatola chiusa i “vincoli tecnici”, soprattutto quando c’è il rischio di accettare da subito una trasformazione comunque in gran parte irreversibile, e poi per decenni l’impatto di una tecnologia dimostratasi quasi subito obsoleta. E la stessa cosa vale ad esempio per le idee, di cui già si parla, di riconversione delle colture agricole a scopi energetici. Con qualcuno già a immaginare la pianura padana come una replica un po’ più pulita del delta del Niger … e le solite tribù di intellettualoidi passatisti che si oppongono al progresso …

Avevo letto l'articolo di Valentini. Pensavo di ospitarlo nella cartella "Stupidario", poi ho soprasseduto. E' veramente singolare che un giornalista che passa per ambientalista ignori la ragionevolezza delle perplessità che, non solo in Italia, si sollevano nei confronti dell'eolico. Che ignori l'assenza di un serio programma energetico basato su una valutazione comparativa dei vantaggi e benefici di ciascuna delle tecnologie impiegabili: non in generale, ma nella specifica situazione del nostro paese Che non metta nel conto la pesante degradazione del paesaggio, valore costituzionalmente garantito, provocata dalle "fattorie del vento". Ma se riflettiamo, Valentini è quel giornalista che ha inventato "l'ambientalismo sostenibile", allineandosi con i molti che non sanno che cosa "sostenibilità" significhi nella cultura internazionale.

Mi ha dissuaso di pubblicare l'articolo di Valentini anche l'astio che sgorga dalle sue righe, ogni volta che ne ha l'occasione, per Renato Soru, per motivi che non conosco ma che certamente non derivano dalla prudenza nei confronti dell'eolico, che Soru condivide con altri governanti.

Nell'ampia documentazione sui fatti e sulle opinioni a proposito dell'eolico vedi, in eddyburg, lo studio del Comitato per il paesaggio e l'eddytoriale n.74. Per un esempio della "tecnologia in rapida evoluzione, su eddyburg_Mall una dscrizione anche tecnica della turbina Quiet Revolution. E, qui sotto, potete scaricare un ampio dossier sull'eolico.

Titolo originale: Public Attitudes Toward Wind Power - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Una panoramica degli studi

Gli studi sugli atteggiamenti del pubblico nei confronti dell’energia eolica sono di tipo molto diverso. Spesso questi studi non sono stati condotti con criteri scientifici, ed esiste poco coordinamento tra di loro. Questo rende difficile compiere un’analisi tra i vari contesti nazionali. Le indagini sull’argomento sono state condotte a partire dagli anni ’90 principalmente in paesi come Gran Bretagna, USA, Canada, Svezia, Germania, Olanda, Danimarca. Il presente studio farà una sintesi delle principali conclusioni che è possibile trarre sulla base delle ricerche disponibili. Si noterà, comunque, che esiste una differenza fra l’opposizione agli impianti come atteggiamento negativo, e l’opposizione come comportamento di resistenza contro nuovi insediamenti. Questo studio si concentra sugli atteggiamenti generali e locali verso l’energia eolica, e verso specifici impianti.

Le fonti di energia rinnovabili

Le fonti di energia rinnovabile hanno maggiore credibilità nei confronti del pubblico di quanto non avvenga per quelle non rinnovabili, come combustibili fossili o energia nucleare. Negli USA un sondaggio di opinione nazionale del 1995 ha mostrato che il 42% degli americani ritiene che le fonti di energie rinnovabili come solare, eolica, geotermia, biocombustibili e idroelettrica, dovrebbero essere prioritarie nei finanziamenti federali per la ricerca e sviluppo nel settore energetico. I combustibili fossili e il nucleare, le fonti che forniscono la maggior parte di energia negli USA, vengono per ultime, con il 7 e 9 per cento.

In Danimarca sono state poste le stesse domande. Anche qui l’atteggiamento verso le energie rinnovabili è positivo. A un campione rappresentativo di danesi è stato chiesto se le fonti rinnovabili dovessero avere maggior priorità nelle politiche energetiche nazionali. Secondo il risultato dei questionari, quattro su cinque danesi pensano che le energie rinnovabili debbano avere priorità. Solo il 9 per cento non la pensa così. Non c’è dubbio che le fonti rinnovabili oggi siano considerate una fonte evoluta di produzione energetica. Dietro al termine “energie rinnovabili” c’è comunque una varietà di tecniche di generazione. È quindi interessante indagare se quella di origine eolica gode di un particolare ampio sostegno del pubblico.

L’energia eolica

Un questionario distribuito in Canada chiedeva a un campione rappresentativo di cittadini se avrebbero gradito vedere l’autorità energetica provinciale conferire priorità alla produzione elettrica a generazione eolica. Secondo questo sondaggio il 79% del canadesi ritiene che l’energia generata dal vento debba avere priorità a livello nazionale. La stessa tendenza è osservabile in un sondaggio danese. Ai danesi è stato chiesto se il paese dovesse mirare ad un uso più ampio dell’energia eolica. L’82 per cento della popolazione era favorevole a più energia dal vento. Un’indagine fatta in Olanda ha mostrato la stessa tendenza. L’80% della popolazione olandese era favorevole all’energia eolica, il 5% si opponeva ad essa, e il 15% era neutrale. Gli stessi risultati sono stati ottenuti nel Regno Unito. Qui sono stati condotti dal 1990 al 1996 tredici studi, e anche qui otto su dieci intervistati sostengono l’energia eolica. Quindi, sia alle fonti rinnovabili in generale, che all’energia eolica in particolare, è conferita più credibilità che non alle fonti non rinnovabili come combustibili fossili e nucleare.

Caratteristiche dei favorevoli e contrari

Questo paragrafo si concentra sulle caratteristiche degli atteggiamenti nei confronti di energia e impianti eolici. Questi diversi atteggiamenti sono stati oggetto di varie indagini nel corso degli anni.

Le persone prive di esperienza specifiche con l’energia eolica credono che il rumore sia più forte, rispetto a chi realmente abita vicino alle turbine. I maschi credono che siano più rumorose di quanto non ritengano le femmine. Le persone di mezza età in generale sono più critiche degli altri gruppi di età. Altri risultati dell’indagine danese sono: le donne preferiscono gruppi di 2-8 turbine rispetto a impianti più grandi e rotori isolati; gli uomini preferiscono gruppi di 10-50 turbine rispetto a installazioni singole e parchi più ampi. Gli oppositori valutano l’estetica locale in termini più alti di quanto non facciano per il clima o ad esempio i rischi dell’energia nucleare. Come mostrano sia gli studi americani che quelli svedesi, l’accettazione delle pale in movimento è più alta di quella degli impianti fermi quando non generano energia. Una ricerca sul problema del rumore in Danimarca, Olanda e Germania mostra che il disturbo causato dalle turbine tocca molto poche persone, e il livello di disturbo è pochissimo correlato all’effettivo livello sonoro dei particolari impianti. Invece, il disturbo è connesso ad altre cause, come l’atteggiamento negativo nei confronti delle turbine a vento. L’indagine danese mostra che chi è favorevole alle energie rinnovabili e all’eolico in particolare ha anche un atteggiamento più positivo verso gli impianti locali, li trova meno rumorosi e invadenti nel paesaggio.

Anche se sembra che la percezione individuale di rumori e impatti visivi sia determinata da fattori diversi rispetto all’effettivo livello sonoro e quantità di impianti, ciò non significa che il problema del rumore e degli effetti visivi debba essere trattato in modo superficiale. La scelta delle località deve tener conto di questi aspetti. Ciò probabilmente ridurrà al minimo l’atteggiamento negativo verso specifici progetti.

In una sintesi di ricerche britanniche, vengono analizzati gli argomenti caratteristici a favore e contro l’energia eolica.

Il profilo di chi dice NO

... le energie rinnovabili non possono risolvere i nostri problemi energetici ... le turbine a vento sono inaffidabili e dipendono dall’intensità del vento ... l’energia eolica è costosa ... le turbine a vento rovinano il paesaggio ... le turbine sono rumorose

Il profilo di chi dice SI

... l’energia rinnovabile è davvero un’alternativa ad altre fonti ... la teoria del mutamento climatico deve essere presa sul serio ... l’energia eolica è illimitata, a differenza dei combustibili fossili ... l’energia dal vento non inquina ... l’energia eolica è sicura

I due profili illustrano bene perché si continua a dibattere sull’energia eolica. Si possono trovare argomenti sia pro che contro, senza il sostegno di fatti. Sono invece gli atteggiamenti ad essere basati su convinzioni e valori individuali. Il fatto che le turbine a vento deturpino o arricchiscano il paesaggio, è una questione di gusti. Se il costo dell’energia eolica è a buon mercato o dispendioso dipende, pure, da quanto si valuta il clima globale, e se si crede nella teoria dell’effetto serra.

Lo studio sul caso di Sydthy

L’ultimo studio condotto in Danimarca sul comune di Sydthy mostra alcuni risultati interessanti. Sydthy ha 12.000 abitanti, e più del 98% dell’energia elettrica consumata è fornita da impianti eolici. Ciò significa che Sydthy è uno dei posti del mondo con la più alta concentrazione di turbine a vento. Il sondaggio di opinione a Sydthy mostra che le persone con un alto livello di conoscenze sulla produzione di energia e le fonti rinnovabili tendono ad essere più positive rispetto all’eolico, di chi ha poche conoscenze.

La distanza dalla turbina più vicina non influenza l’atteggiamento delle persone verso l’eolico in generale. Questo indica che chi vive vicino agli impianti non considera rumori e impatti visivi un problema significativo. Di fatto chi vive più vicino di 500 metri ad una turbina tende ad essere più positivo nei riguardi delle turbine, di chi abita più lontano.

Questa tendenza si conferma se si incrociano gli atteggiamenti verso le turbine a vento in generale con il numero di esse visibile dall’abitazione degli intervistati. Ancora, non emerge uno schema chiaro. Ma le persone che possono vedere fra 20 e 29 turbine tendono ad essere più positive rispetto all’energia eolica di chi ne riesce a vedere solo un piccolo numero. Questo indica, ancora, che la quantità di turbine a vento nell’ambiente locale non influenza negativamente l’atteggiamento delle persone nei confronti dell’energia eolica.

In Danimarca esiste una tradizione di cooperative per l’energia eolica, dove un gruppo di persone condivide un impianto di generazione. Da questo punto di vista il comune di Sydthy è piuttosto unico, con il 58% delle famiglie con una o più partecipazioni in una turbina di proprietà cooperativa. Per quanto riguarda l’atteggiamento generale verso le turbine a vento, il quadro è chiaro. Le persone che possiedono quote sono significativamente più positive di chi non ha interessi economici in materia. I membri delle cooperative del vento sono più propensi ad accettare che si realizzi una turbina nei paraggi.

Chi vive nella zona urbana (definita dai limiti di velocità) tende ad essere più negativo di chi abita in area rurale. Un spiegazione di questo fenomeno può essere che le persone di città hanno un’immagine più romantica della campagna, mentre chi abita in campagna ha un rapporto più pratico con la natura, in quanto risorsa da utilizzare a scopi produttivi.

Nel comune di Sydthy quattro su cinque persone non si ritengono per nulla disturbate dal rumore delle turbine. Come previsto, più lontano abitano da esse, meno subiscono inconvenienti relativi al rumore. Lo studio su Sydthy conferma anche i precedenti risultati degli studi danesi, sulle persone di mezza età come quelle che trovano il rumore più snervante. Gli uomini avvertono il rumore delle turbine più delle donne, e più positivo l’atteggiamento verso l’energia eolica, meno il disturbo percepito. Va ricordato che molte delle turbine di Sydthy sono progettate secondo i livelli di rumorosità ammessi negli anni ’80, e non dei più silenziosi modelli attuali.

Not In My Backyard

C’è una grossa differenza, fra l’energia eolica come idea generale, e le turbine a vento come strutture accettabili nel paesaggio. Come abbiamo visto, le persone sostengono l’idea generale delle energie rinnovabili e di quella eolica. Ma quando si passa a progetti concreti per il territorio locale, l’accettazione sembra scomparire. Questo è definito la sindrome del “ Not In My Back Yard” o, in breve, la sindrome NIMBY. La teoria di base è che le persone sostengono l’energia eolica a livello astratto, ma mettono in discussione specifici progetti locali a causa delle temute conseguenze riguardo principalmente al rumore e agli impatti visivi. La sindrome di NIMBY non è caratteristica degli impianti eolici. Si verifica in molte altre situazioni. Nuove strade, ponti, gallerie, ospedali, aeroporti, impianti nucleari e altre strutture per la produzione di energia, tutti incontrano resistenze a livello delle comunità locali.

Nel Regno Unito sono state effettuate parecchie indagini prima/dopo l’installazione. In un rapporto di ricerca commissionato da BBC Wales, è stato calcolato il sostegno del pubblico locale per l’energia eolica in genere e per tre particolari parchi di turbine, prima e dopo l’impianto.

L’indagine mostra che solo una su cinque persone è in genere contro lo sviluppo dell’energia eolica in Galles, e sette su dieci sostengono gli impianti. Il livello di sostegno generale quindi è più o meno identico a quello di Danimarca e Olanda. Contemporaneamente, alle persone è stata chiesta anche un’opinione prima e dopo la costruzione delle tre wind farms.

Inizialmente, solo il 40% sosteneva i tre progetti, contro il 70% che in generale era favorevole allo sviluppo dell’energia eolica in Galles. In altre parole siamo di fronte a una reazione NIMBY per quanto riguarda specifici impianti di energia eolica. Chi si opponeva ai progettati impianti citava tre motivi per essere contrario. Il principale era la preoccupazione per il rumore. Tre su quattro persone fra quelle contrarie alle turbine citavano il rumore. Le altre due ragioni erano l’interferenza visiva e quella dei campi elettromagnetici. Dopo il completamento dei tre progetti, la BBC Wales ha di nuovo posto le domande sugli atteggiamenti nei confronti delle wind farms.

Se paragoniamo i risultati di prima con quelli di dopo le realizzazioni delle turbine, lo schema appare chiaro. In tutti e tre i casi le persone favorevoli superano quelle contrarie sia prima che dopo. Anche il 36,2% del totale della popolazione che si dichiara non sicuro o non interessato ai progetti prima della realizzazione, sembra spostarsi verso un sostegno dopo l’attuazione (l’indagine contempla solo gli spostamenti netti). Ancora, uno su quattro non approva i progetti.

Un costruttore olandese di impianti eolici, la Energy Connection, ha rilevato lo stesso atteggiamento in Olanda. Qui, come abbiamo detto prima, l’accettazione dell’energia eolica è alta. Ma su specifici progetti il tasso di approvazione sembra abbassarsi nella fase di progettazione e costruzione. Dopo la realizzazione il consenso sembra aumentare avvicinandosi ai livelli di prima.

Le conclusioni sonora sono che l’accettazione da parte del pubblico dell’energia eolica è molto elevata. Essa cade, ad ogni modo, quando si invade il “cortile” degli interessati. Ma il consenso sembra aumentare anche nel territorio locale, dopo l’installazione delle turbine. D’altra parte, che non è favorevole alle energie rinnovabili in generale tende a trovare gli impianti eolici meno accettabili quando si tratta di impatti visivi e acustici. Una sintesi di sondaggi mostra un’altra caratteristica interessante. La comparazione fra atteggiamenti del pubblico in zone con presenza di impianti eolici, e in altre che ne sono prive suggerisce che gli atteggiamenti verso impianti concreti sono di maggiore accettazione in zone che ne hanno già esperienza, di quanto non accada dove non esiste alcuna esperienza. Ciò vuol dire che la sindrome di NIMBY sembra avere le manifestazioni più forti dove non esiste o esiste scarsa conoscenza dell’energia eolica. Questa conclusione indica che l’accettazione da parte del pubblico dell’energia eolica cresce col crescere del livello di informazione. In Cornovaglia si è verificato un significativo mutamento di atteggiamenti da parte dei residenti nell’area della wind farm, prima e dopo la costruzione. In generale la popolazione è diventata più favorevole all’energia eolica. Il 27% delle persone interrogate ha cambiato il proprio atteggiamento da quando le turbine sono in funzione. Di questi, nove su dieci sono diventati favorevoli all’uso dell’energia eolica.

Questa spiegazione basata sull’idea di NIMBY è stata messa in discussione da molti studi. Anche se molti atteggiamenti individuali nei confronti degli impianti locali possono essere descritti come NIMBYismo, ciò sembra essere un fattore minoritario per la maggioranza di chi si oppone ai progetti.

Nell’ultima indagine, nella regione del Friesland, agli olandesi residenti è stato chiesto se volevano più turbine a vento nella specifica zona, e se sostenevano un uso più intensivo dell’energia eolica nel resto del Friesland. Il 61% non obiettava a più turbine in Friesland, purché non fossero collocate nel loro “cortile”. Il 15% non voleva più turbine in generale nella regione. Questa distribuzione dei risultati non differisce in modo significativo dagli studi precedenti. Il fatto interessante di questa indagine, è che agli intervistati è stato anche chiesto se potessero accettare più turbine nella propria zona. Sorprendentemente il 66% erano favorevoli ad accettare altre turbine nella comunità locale, e il 18% era contrario. Ovvero c’erano più persone (5% in più) disposte ad accettare nuove turbine nel proprio “cortile”, di quanti ne accettassero di più nel resto della regione. Questi risultati indicano che esistono variabili nascoste, diverse dall’atteggiamento NIMBY, che condizionano il rapporto dell’opinione pubblica con l’energia eolica a livello locale.

The NIMBY-explanation is probably a too simplistic way of seeing people's attitudes. There has to be focused on other explanations if public attitude shall be described in a more sophisticated manner. The mentioned study (Wolsink, 1996) concludes, that people in areas with significant public resistance to wind projects are not against the turbines themselves, they are primarily against the people who want to build the turbines. Often the local people are kept out of the decision making process. Some have hostile attitudes against the developers, the bureaucracy or the politicians on beforehand. Those factors have a significant effect on public attitudes in a specific area. Attitudes towards concrete projects are site specific. They are primarily formed by the interaction with central actors and the extent of involvement of local interests are a major explanatory factor.

Anche uno studio recente condotto in Germania mette in discussione l’ipotesi della sindrome NIMBY. Le dimensioni dell’impianto di turbine influenzano in modi non significativi l’atteggiamento del pubblico nei confronti di un progetto. Ciò indica che gli impatti reali legati alle dimensioni dell’impianto, come le trasformazioni del paesaggio, hanno effetti relativamente piccoli sugli atteggiamenti verso specifiche installazioni. La dimensione quindi dice poco rispetto all’atteggiamento. Lo studio conclude invece che, sull’atteggiamento del pubblico nei confronti del progetto, hanno una significativa influenza quelli verso chi lo realizza, i decisori locali, il processo complessivo di decisione. Contemporaneamente, lo studio suggerisce che un approccio partecipativo al progetto di localizzazione ha effetti positivi sull’opinione pubblica, e conduce a una diminuzione delle resistenze. Quello che conta è coinvolgere la popolazione locale nella procedura di localizzazione, entro processi di piano trasparenti, e con un alto livello informativo.

Le persone vogliono essere coinvolte

Lo studio sulla zone del Friesland conferma queste conclusioni. Più dell’85% della popolazione desidera essere tenuta informata sui progetti di nuovi impianti eolici. Il 60% ritiene che diffondere informazioni sia compito dell’amministrazione municipale. Un altro 5% pensa che sia compito dell’autorità provinciale. Solo il 13% crede che tocchi ai mezzi di comunicazione. Nella realtà, le persone di solito traggono le proprie informazioni dai rapporti personali e dai media. Il 49% afferma che andrebbe alle assemblee pubbliche, se fossero tenute. Quindi, esiste una grossa differenza tra il modo in cui le persone vorrebbero essere informate, e il modo in cui funzionano davvero le cose. Un recente studio tedesco rivela che in meno del 50% dei progetti di impianti eolici nel paese, agli abitanti è stata data l’opportunità di esprimere la propria opinione nella fase di piano. E solo nell’8% dei casi in cui gli abitanti sono stati sentiti, i costruttori hanno tenuto assemblee pubbliche di informazione. In un caso su tre l’opinione pubblica ha avuto un’influenza concreta sul processo di localizzazione, caratteristicamente attraverso la possibilità garantita dalla legge di presentare osservazioni formali.

Se si vogliono ridurre al minimo le opposizioni, tutte le parti in causa devono avere effettiva opportunità di influenzare un progetto. Le decisione prese sopra la testa delle popolazioni locali sono il modo più diretto per generare proteste. Restano da vedere, sondaggi a livello internazionale che esaminino approfonditamente questi problemi.

Conclusioni

In tutti i paesi, sia il sostegno del pubblico per le energie rinnovabili che per l’energia eolica in particolare è molto elevato. A livello astratto, circa l’80% della popolazione sostiene l’energia eolica, secondo le indagini esaminate in questo studio. A livello locale il sostegno nelle aree dove operano impianti eolici è egualmente elevato. Ovvero, quattro su cinque persone tendono ad approvare gli impianti, sia in generale che nelle zone che hanno esperienze in proposito. Ciò però non significa che non si manifestino proteste. Basta un oppositore impegnato, ad esempio, per attivare una causa legale contro un’autorizzazione di impianto. Questa è una delle ragioni per cui i conflitti, nei casi di impianti eolici, sono diventati la regola anziché l’eccezione. La carenza di comunicazione fra chi abita dove sarà realizzato un impianto e chi lo vuole realizzare, le burocrazie locali, l’ambito della decisione politica, sembra il perfetto catalizzatore per trasformare lo scetticismo locale in azioni concrete contro progetti specifici. Al contrario, informazione e dialogo sono la strada per l’accettazione.

Nota: il file PDF scaricabile dell’articolo, nella relativa pagina della Danish Wind Industry Association (f.b.)

Non convince l’intervento di Massimo Serafini e Mario Agostinelli pubblicato nei giorni scorsi su queste pagine a proposito degli impianti per la produzione di energia eolica in Puglia. Anche il presidente della Regione Sardegna e con lui la maggioranza di centrosinistra hanno convenuto sulla necessità di andare a vedere meglio le questioni connesse alla installazioni di tralicci eolici nel territorio. E con legge hanno deciso di sospendere, per quanto possibile, le iniziative (troppe) con effetti di sicura alterazione di quadri paesistici di rara bellezza.

Il provvedimento della Regione Autonoma, che è stato assunto insieme a quello di fermare l’assalto alle are costiere, è stato poi impugnato dal governo Berlusconi davanti alla Corte Costituzionale ( un atto che la dice lunga sugli interessi in gioco ben al di qua degli accordi del protocollo di Kyoto). La posizione di Serafini e Agostinelli, in forma di lettera a Nichi Vendola, pone quindi una questione - gli effetti pericolosi della moratoria - che potrebbe essere riferita per stretta analogia anche alla Sardegna. Il limite dell’ impostazione è quello di attribuire, pure con molte cautele, il primato alla questione energetica ponendo in secondo piano i diritti del bene comune paesaggio.Per cui nelle regioni del Mezzogiorno dove il vento soffia forte si dovrebbe costruire “un modello energetico nuovo e pulito, più giusto e sostenibile, costruito intorno alle risorse locali “.

La questione posta in questo modo sembra sottovalutare molto, nonostante le rassicurazioni di circostanza (perché siamo tutti, ci mancherebbe, per la tutela del paesaggio), l’impatto di queste torri normalmente ubicate su quote elevate, visibili a distanza con un esteso grado di compromissione non solo sul piano della percezione. Un esito ingiusto, insostenibile e appunto a danno di quelle risorse locali che sono la sola ricchezza che in un futuro non lontanissimo potranno essere essenziali per lo sviluppo del Mezzogiorno (che ha poche colpe sull’effetto serra). Sottrarre al mercato contingente le cose belle e rare che potranno servire domani è un imperativo. La solidarietà ecologica e generazionale si esprime anche su questo terreno. Al di là delle contingenze appunto. Se in Sardegna saranno realizzate anche la metà delle pale eoliche progettate dalle varie società nel nome dell’ energia pulita c’è la certezza di un danno incalcolabile (a proposito di flussi turistici, basta leggere qualche sondaggio e si capisce che paesaggi inquinati da cose del genere i turisti non ne vogliono proprio vedere!).

Si è vero, l'eolico è incentivato da massicci finanziamenti europei. E a proposito di partecipazione occorre dire che molti comuni, che non hanno un euro in cassa, vorrebbero consentire quegli impianti solo per incamerare un po’ di denaro. Anche con il dubbio che fra una decina d’anni, per l’evoluzione rapida della tecnologia, quelle pale non siano inservibili ferraglie che nessuno sarà impegnato a togliere.

Chi ha visto le conseguenze degli impianti eolici sui paesaggi sardi non potrà che diffidare delle ipotesi di mitigarne l’impatto ( accorciare le torri ? metterle più a valle ? colorarle di verde ?). La moratoria è l’unica strada per provare a considerare all’interno di un piano tutte le ragioni insieme, muovendo dal presupposto che l’energia pulita (da esportazione) non può essere a scapito dei paesaggi del nostro Mezzogiorno.

Un nuovo scenario energetico si delinea per l´Europa. I prezzi del gas e del petrolio sono quasi raddoppiati negli ultimi due anni. Con l´esaurirsi delle nostre riserve di idrocarburi e con l´aumento della domanda, la dipendenza dell´Europa dalle importazioni dovrebbe crescere, secondo le previsioni, fino al 70% entro il2030, con le conseguenze che ne deriveranno per la nostra sicurezza energetica. Le nostre infrastrutture devono essere rinnovate: nei prossimi20anni saranno necessari 1000 miliardi di euro per soddisfare la prevista domanda di energia e per sostituire le infrastrutture obsolete. Il clima sta cambiando a causa del riscaldamento del pianeta.

Si tratta di problemi comuni a tutti i cittadini e paesi europei. Si impone pertanto una risposta comune a livello europeo. L´Ue si trova nella posizione migliore per agire. Abbiamo il potere negoziale che ci deriva dall´essere il secondo maggiore consumatore mondiale di energia. Siamo uno dei continenti con la maggiore efficienza energetica. Siamo all´avanguardia nel mondo nella ricerca di fonti di energia nuove e rinnovabili, nello sviluppo di tecnologie a bassa emissione di carbonio e nella gestione della domanda. Eppure, finora l´Europa ha seguito un approccio disorganico ai problemi energetici, che ha impedito di collegare politiche e paesi diversi. Questa situazione deve cambiare.

Per questo la Commissione europea pubblica oggi un libro verde sullo sviluppo di una politica europea coerente nel settore energetico. Il nostro obiettivo è quello di garantire la sostenibilità, la competitività e la sicurezza dell´energia. Se l´Ue sarà in grado di adottare un approccio comune, e di dare espressione a tale approccio con una sola voce e in modo coerente, l´Europa potrà imporsi come leader a livello internazionale nella ricerca di soluzioni ai problemi energetici. Le risposte non sono semplici. Il libro verde permetterà, comunque, di avviare un importante dibattito pubblico su come affrontare la nuova realtà energetica.

Quali sono le nostre proposte?

L´unità. L´Ue deve parlare con una voce sola a livello internazionale, in particolare ai principali produttori e consumatori di energia. Dobbiamo valerci delle dimensioni del nostro mercato e della gamma degli strumenti a nostra disposizione per contenere la nostra dipendenza energetica, diversificare le nostre fonti di approvvigionamento energetico e creare sostegno internazionale per affrontare le nuove sfide energetiche. Fondamentale è un nuovo partnerariato con i paesi fornitori limitrofi, tra cui la Russia. Dobbiamo mettere a frutto il reciproco interesse dell´Europa e dei suoi principali fornitori limitrofi per mercati energetici sicuri, aperti e in crescita. E dobbiamo rafforzare la nostra cooperazione con gli altri principali partner, in Medio oriente, in Asia e in America.

L´integrazione. Dobbiamo creare un vero mercato unico europeo dell´elettricità e del gas, che ci consenta di garantire sicurezza, competitività e sostenibilità. Mercati aperti generano benefici per i consumatori, pongono le basi essenziali a lungo termine per gli investimenti, creano l´idoneo contesto paneuropeo per le attuali operazioni di concentrazione. Nel settore energetico, come in altri settori, l´Europa potrà prosperare abbattendo le barriere, non erigendole.

La solidarietà. L´integrazione dovrebbe andare di pari passo con la solidarietà. L´Europa deve poter reagire meglio alle fluttuazioni sui mercati dell´energia e alle variazioni dell´offerta, e deve ripensare la politica di gestione delle riserve di emergenza di gas e di petrolio.

La sostenibilità. Dobbiamo accelerare la transizione verso un´economia a bassa emissione di carbonio, utilizzando sia le nuove energie che le energie tradizionali. L´Europa deve creare le condizioni che consentano lo sviluppo delle energie a bassa emissione di carbonio: per alcuni si tratta dell´energia eolica, per altri dell´energia solare, per altri ancora del carbone pulito. Alcuni Stati membri stanno considerando di sviluppare ulteriormente l´energia nucleare. Non possiamo permetterci il lusso di favorire una forma di energia ad esclusione delle altre. La quota delle energie rinnovabili nel nostro mix energetico deve continuare a crescere. Dobbiamo impegnarci seriamente a favore delle energie rinnovabili e a basso tenore di carbonio. Esse non possono sostituire del tutto gli idrocarburi, con i quali, però, come nel caso dei biocarburanti, possono letteralmente combinarsi.

L´efficienza. Dobbiamo modificare non solo l´offerta ma anche la domanda di energia. Notevoli sono le possibilità di un uso più efficiente dell´energia, a beneficio del clima, dei consumatori e della nostra sicurezza. Non si tratta semplicemente di diminuire il riscaldamento, per quanto tutti noi a volte ci rendiamo colpevoli di accendere i termosifoni e di aprire la finestra allo stesso tempo. Si tratta invece di sviluppare tecnologie e abitudini che ci consentano di cambiare il modello energetico dell´Europa e di favorire una crescita sostenibile. Dovremmo continuare a sviluppare norme di efficienza energetica per i settori ad elevato consumo di energia, quali i trasporti e le abitazioni.

L´innovazione. L´Europa è all´avanguardia nello sviluppo delle tecnologie a bassa emissione di carbonio. Dobbiamo conservare questa posizione. Enormi sono i benefici per l´ambiente, ed enormi sono le opportunità commerciali, vista la forte crescita del mercato internazionale delle tecnologie ad elevata efficienza energetica e a bassa emissione di carbonio. Un istituto europeo di tecnologia potrebbe consentire all´Europa di conservare la sua posizione di testa nell´innovazione.

Danno sostegno a queste sei priorità due concetti cruciali che consentiranno all´Europa di garantire la sostenibilità, la competitività e la sicurezza dell´energia. Il primo è la diversità: delle fonti energetiche, dei paesi d´origine e di quelli di transito. Abbiamo visto quanto sia importante questo concetto nel settore del gas. Il secondo è l´urgenza. In alcuni settori dobbiamo iniziare quasi da zero. Ci vorranno anni prima che alcune delle nuove energie arrivino a regime. È un argomento, questo, senz´altro a favore di un´azione immediata, non del rinvio. L´Europa non può permettersi di aspettare. Il libro verde sulla politica energetica europea aiuterà l´Ue a creare le basi per garantire la sostenibilità, la competitività e la sicurezza dell´energia. Il mondo sta entrando in una nuova era dell´energia. Con una coerente politica comune dell´energia l´Europa potrà guardare con fiducia alla nuova era.

Josè Manuel Barroso è presidente della Commissione Ue, Andris Piebalgs Commissario Ue all´Energia

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