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Anche la Campania ha il suo piano casa. Il consiglio regionale, dopo quasi quattro mesi di discussione, nella tarda serata di ieri ha dato il via libera alla legge, ma la maggioranza di centrosinistra è andata in frantumi, con il PD che ha votato con le destre, la Sinistra che si è divisa tra astensione e voto contrario, e il no dell’Italia dei Valori. Un brutto spettacolo in vista delle elezioni regionali di primavera.

Il testo approvato è diverso da quello adottato nella scorsa primavera dalla giunta. La Sinistra è riuscita dopo un estenuante braccio di ferro ad imporre modifiche significative, relative alle aree di esclusione (piani paesistici, aree a rischio idrogeologico,vulcanico e sismico, centri storici, aree agricole); alla possibilità per i sindaci di individuare ulteriori ambiti di non applicazione della legge; all’impegno della Regione di finanziare interventi di edilizia sociale.

Ma il risultato resta insoddisfacente. Troppo inadeguato il disegno di legge di partenza, senz’altro il peggiore nel panorama nazionale. Troppo forti gli appetiti della maggioranza trasversale PD-PDL, che ha usato l’accordo stato-regioni come pretesto per una specie di “decreto mille proroghe” in materia di governo del territorio. Dentro c’è di tutto: dal cambiamento di destinazione d’uso delle case rurali, all’abitabilità dei sottotetti, fino al recupero delle stalle abusive sui Monti Lattari, in piena area PUT. E poi ancora, la possibilità di conversione residenziale di lotti produttivi dismessi fino a 15.000 mq (due terzi di piazza del Plebiscito), in deroga ai piani vigenti, con un semplice permesso a costruire. Per il verde, gli standard e la coerenza con il disegno urbano si vedrà.

Nella foga, i promotori della legge non hanno risparmiato nemmeno le zone C dei parchi nazionali, inserendo nella legge un evidente vulnus di incostituzionalità.

Com’era da aspettarsi, gli incrementi del 20 e 35% sono consentiti anche sugli immobili abusivi condonati o in attesa di regolarizzazione, purché prima abitazione, e così la legge ripropone il triste concetto di “abuso di necessità”, in una regione che ospita il 20% del patrimonio abusivo italiano, e nella quale risultano ancora inevase più dell’80% delle domande di condono.

Il voto di ieri è l’epilogo triste di un ciclo politico durato quindici anni: i contenuti della legge, e le modalità della sua approvazione, con il PD pronto a mollare i suoi alleati per correre all’abbraccio con le destre, proiettano lunghe ombre sul panorama che si aprirà in Campania dopo le elezioni di marzo.

Tra le proposte di legge regionali sul famigerato “piano casa”, quella della Regione Campania è davvero la più strampalata e perniciosa, se stamane anche gli ordini professionali di ingegneri e architetti, di solito non pregiudizialmente ostili al “pianificar facendo”, prendono pubblicamente le distanze, denunciando sulle pagine napoletane di Repubblica che “… sulla Campania incombe il rischio di speculazioni e di deregulation nella pianificazione edilizia”, reclamando per bocca del presidente degli ingegneri di Salerno Armando Zambrano la restituzione ai comuni “del ruolo di programmazione territoriale, per mediare tra l’interesse pubblico e quello privato”, per mettere la Campania “ al sicuro da una nuova ondata di speculazioni edilizie”.

A scatenare tanta apprensione è soprattutto l’articolo 5 del disegno di legge che, al comma 4, liberalizza di fatto la riconversione abitativa di edifici non residenziali, svincolandola da ogni atto di pianificazione e programmazione.

Il risultato immediato, secondo la denuncia degli ordini, è che “il valore di mercato delle aree dismesse è immediatamente triplicato”.

In effetti, nell’attuale formulazione, il disegno di legge si presenta non già come un incentivo alla riconversione di aree dismesse, quanto piuttosto alla cessazione anticipata delle attività manifatturiere in essere. Questo perchè gli imprenditori sono perfettamente in grado di valutare i vantaggi della rendita edilizia che un simile provvedimento artificialmente crea, rispetto ad un reddito d’impresa mai come di questi tempi incerto.

Davvero un buon risultato per un provvedimento il cui impegnativo titolo è quello di “Misure urgenti per il rilancio economico e la riqualificazione del patrimonio esistente”!

Resta da capire, pensando ai nuovi carichi insediativi che in questo modo atterreranno liberamente e dovunque su un territorio già sofferente e congestionato, chi provvederà agli standard, agli spazi e attrezzature pubbliche, alle misure di inserimento ambientale dei nuovi quartieri che nasceranno, agli indispensabili interventi di riqualificazione dei contesti. Ma è vano sperare che simili preoccupazioni possano aver presa su un centrosinistra locale tutto impegnato nella difficile riconquista del consenso malamente dilapidato.

Eppure, una strada decente ci sarebbe per attuare una politica efficace di riconversione delle aree dismesse, e sarebbe quella di impiegare gli strumenti già previsti dal Piano territoriale regionale approvato con legge nel 2008, che lega questo tipo di interventi alla predisposizione di piani attuativi e di accordi di pianificazione di iniziativa pubblica, garantendone soprattutto la coerenza con i carichi insediativi programmati a scala regionale e provinciale.

Ma sembra essere una irresistibile inclinazione del centrosinistra, specie quello campano, quella di non riuscire a mettere in atto e valorizzare nemmeno la parte buona di un lavoro amministrativo che pure è stato fatto.

In calce il testo del Progetto di legge n. 3921, Azioni straordinarie per lo sviluppo e la qualificazione del patrimonio edilizio ed urbanistico della Lombardia.

Alla volontà sovranamente espressa dal Primo ministro di affrontare le difficoltà indotte dalla crisi economico-produttiva mondiale promuovendo in Italia un incremento dell’attività edificatoria minuta attraverso la sospensione in via eccezionale dei limiti posti dalle regole urbanistiche in tema di rapporto tra quantità edificatorie e dotazioni di attrezzature pubbliche normalmente vigenti, e alla conseguente minaccia di procedere autocraticamente nel determinare i contenuti e la durata di tale “periodo eccezionale”, la Conferenza unificata delle Regioni del 1 aprile scorso (ironia delle date!) ha approvato un’Intesa che propone di adeguarsi “spontaneamente” all’espressa volontà sovrana, rivendicando almeno margini di autonomia decisionale nel come farlo.

In questo, tuttavia, la Regione Lombardia avrebbe più di un argomento per sostenere, rispetto ad altre Regioni, di avere da tempo autonomamente, preventivamente e a tempo indeterminato già più che ottemperato a quell’auspicio, sia con il principio del cosiddetto “standard qualitativo” nei PII (cioè, cessione di minori aree pubbliche rispetto a quelle prescritte dagli strumenti urbanistici vigenti a fronte di oneri urbanizzativi per opere pubbliche in qualche misura superiori a quelli normalmente vigenti), sia con la possibilità di trasformare ad uso abitativo tanto i sottotetti preesistenti che quelli delle nuove edificazioni che via via si vanno realizzando ex-novo (questi ultimi, ora, solo dopo un periodo di “invecchiamento” di cinque anni dalla avvenuta realizzazione dell’immobile cui pertengono).

La Giunta regionale della Lombardia il 3 giugno scorso ha, invece, approvato un disegno di legge regionale, che dà seguito a quell’Intesa, che consentirebbe – si dice in via straordinaria e temporaneamente per diciotto mesi, ma poi si vedrà – , al di fuori dei centri storici e in deroga a ogni norma vigente, di aumentare l’edificato proporzionalmente ai volumi preesistenti (20-30-35% in più, a seconda dell’impiego di criteri di risparmio energetico e di schermature arboree) con incrementi volumetrici da 300 a600 metri cubi per gli edifici mono e bifamiliari e sino a 1000 metri cubi per quelli plurifamiliari (in pratica da uno a tre nuovi alloggi in più) e sino al 40% in più (senza limiti volumetrici complessivi e anche con la costruzione di nuovi edifici) per gli insediamenti di edilizia economica popolare.

Anche nei centri storici (e salvo il parere discrezionale di una commissione ad hoc), la demolizione e ricostruzione di edifici di più recente costruzione verrebbe premiata con un incremento volumetrico del 30%, a fronte dell’utilizzo di tecniche costruttive a risparmio energetico, che tuttavia ne aggraverebbe la dissonanza dal contesto insediativo.

Si tratta di incrementi che si concentreranno in particolare nelle zone urbane più fittamente utilizzate, soprattutto in ambito metropolitano: basti pensare alle cosiddette “coree” costituitesi nelle grandi periferie urbane del triangolo industriale negli anni Cinquanta (cioè, nel periodo coevo al logorante e interminabile conflitto Stati Uniti- Corea, che – ironia della sorte – rischia oggi di tornare d’attualità)) con la vendita di mini-lotti di 400-500 mq ai primi immigrati veneti e meridionali e da questi progressivamente edificati in autocostruzione (prima abitando la cantina, poi il primo e, infine, il secondo piano), con l’unico limite della distanza prescritta dal codice civile di 1,5 metri dal confine - per una distanza totale di 3 metri tra gli edifici - e strade di poco più di 5 metri di larghezza, senza marciapiedi.

Non sono scomparse, sono solo state inglobate nella successiva e più massiccia espansione metropolitana.

Se la loro densità edificatoria fondiaria è relativamente non elevatissima (si tratta, appunto di edifici per lo più di due piani fuori terra, pur con superficie quasi totalmente coperta), lo è invece quella territoriale, per la pressoché totale assenza di adeguata rete viaria e spazi pubblici.

Ma è proprio questo l’obiettivo dell’intervento legislativo caldeggiato dal Primo Ministro: far intendere anche ai piccoli e piccolissimi proprietari immobiliari che potranno godere anche loro (nel loro piccolo, si intende) dei benefici di quel liberismo privo di regole di cui hanno sinora usufruito le grandi e medie proprietà immobiliari con gli strumenti di deregolazione di piani attuativi e spazi condominiali.

La speranza, per limitare i danni di questa illusoria libertà individuale, è che si inneschi un meccanismo di autodifesa da parte di coloro che si vedrebbero sorgere nuove parti edificate a distanze minori dei dieci metri garantiti dal DM n. 1444/68, che – come è già accaduto nel caso della trasformazione ad uso abitativo dei sottotetti – è stato sentenziato dal TAR Lombardia essere inderogabile da parte di provvedimenti legislativi regionali e comunali, senza una sua esplicita abrogazione a livello nazionale.

Anche nelle zone di edilizia economica popolare, che tradizionalmente hanno utilizzato indici edificatori più elevati proprio in considerazione delle più ridotte capacità economiche dell’utenza, un incremento percentuale del 40% della volumetria presenterà non pochi problemi di vivibilità urbana.

In questo caso l’obiettivo è ricavare ulteriori quote di edificabilità da destinare al crescente mercato dell’housing sociale, alla cui gestione ambiscono poter accedere le tradizionali centrali cooperative, ma anche e in modo ormai preminente quelle cielline di Compagnia delle Opere, senza penalizzare le quote di edificabilità dell’immobiliarismo privato.

Infine, il DDL della Giunta lombarda consentirebbe di trasformare le parti inutilizzate di edifici esistenti in zone agricole in destinazioni ricettive non alberghiere, uffici e attività di servizio non meglio specificate e addirittura nelle aree dei parchi regionali gli edifici esistenti potrebbero avere un incremento volumetrico dal 13 al 21% (cioè lo stesso che in zone urbane, diminuito di un terzo).

Si tratta, nel complesso, di una tendenza – precocemente praticata dalla Lombardia, ma poi generalizzatasi a livello di legislazioni nazionali e regionali - che alimenta una sostanziale sfiducia negli esiti prodotti dall’applicazione delle norme sui rapporti tra densità edificatorie e spazi pubblici, faticosamente conquistate fra il 1967-’68 (Legge Ponte e DM sugli standard) e il 1977 (prime leggi regionali di Lombardia, Piemonte, Emilia, Liguria, Toscana e, infine, Legge Bucalossi sul regime dei suoli), anche se paradossalmente gli esempi che spesso vengono portati a sostegno degli insoddisfacenti risultati prodotti in termini di immagine urbana sono proprio quelli causati dal periodo delle “libere” contrattazioni senza Piano Regolatore degli Anni Cinquanta/Sessanta.

Vi è, in questo, una perversa convergenza tra tendenze neoliberiste nell’uso di città e territorio e accresciute sensibilità ambientaliste (risparmio di suolo, risparmio energetico, patrimonio arboreo) che propugna in materia urbanistica un ritorno alle sole norme ottocentesche di superficie coperta ed altezza (quest’ultima, tuttavia, spesso liberalizzata in nome di una preteso minor consumo di suolo e modernità funzionale e di immagine degli edifici in altezza) abbandonando come obsolete quelle novecentesche basate su indici di densità e dotazioni di spazi pubblici, a fronte dell’avvento dei criteri di sostenibilità nell’uso delle risorse non rinnovabili (risorse idriche, inquinamento da traffico e riscaldamento, smaltimento rifiuti).

Anche se è vero che, coi soli limiti di densità e di standard pubblici, si sarebbe potuto procedere ad un’urbanizzazione dell’intero territorio, senza alcuna valutazione di sostenibilità ambientale di lungo periodo (e il sovradimensionamento dell’estensione urbanizzativa di molti PRG ne è la testimonianza), tuttavia non è concentrando un accresciuto peso insediativo in ambiti più ristretti che si affronta correttamente il problema.

In tal modo, infatti, ad un incremento dello spazio alberato o scoperto (ma per lo più si tratta di spazi privati e non pubblici, quando non si tratta addirittura del bizzarro “verde verticale”, cioè della piantumazione – non si sa quanto durevole – di terrazze private pensili) corrisponde un incremento più che proporzionale della densità insediativa, con una riduzione dello spazio pubblico per abitante (realmente “inedificato”, cioè non pertinenziale ad un edificio), che si risolve in un’accresciuta pressione antropica.

Anche i vantaggi in termini di risparmio energetico e di miglioramento della qualità edilizia appaiono come uno scambio ineguale, se ottenuti - nel ciclo di lungo periodo – al prezzo di un peggioramento della qualità insediativa dell’assetto urbano.

Certo l’urbanistica, dopo essere stata al centro di grandi aspettative e rivendicazioni sociali negli anni Sessanta-Ottanta, negli ultimi decenni non gode ormai più di buona fama e il suo posto nell’immaginario sociale collettivo dell’aspettativa di un futuro migliore è stato preso dall’ambientalismo ecologista.

Eppure il rischio è che anche questo si riveli alla fine un obiettivo illusorio e succube del neoliberismo economico, oggi prevalente, che ritiene un lusso insostenibile mantenere le regole di un progetto pubblico di territorio e città, socialmente individuato e condiviso.

Accettarne la progressiva demolizione a fronte della promessa di edifici “intelligenti”, “verdi”, “energeticamente autosufficienti”, in uno scambio ineguale tra libertinaggio pubblico e virtù privata, credo sarebbe la resa ad un “pensiero unico” di privatismo (tanto il territorio ha “spalle grosse”, non c’è più sensibilità diffusa a volerlo proteggere, non è reato abusarne) cui è colpevole rassegnarsi.

Chiunque può pubblicare questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it

Sandra Amurri Noi aquilani in attesa dell’abitazione promessa

C’è qualcuno che testimonia le bugie e qualcuno che raccoglie le denincie, ai margini dell’informazione. Il Fatto Quotidiano”, 9 dicembre 2009

Le persone che a L’Aquila potranno trascorrere il Natale nelle nuove case, quelle presentate all’Italia in diretta dal presidente del Consiglio a “Porta a Porta” saranno poco più di 5 mila. Ventimila sono ancora ospiti degli alberghi sulla costa e delle caserme. 18 mila hanno optato per case in affitto. All’appello, per arrivare a 70 mila cittadini, ne mancano 27 mila che non fanno parte del censimento e verosimilmente hanno trovato ospitalità da parenti e amici. Il governo non ha finora dato una sola lira agli albergatori, che giustamente reclamano di essere pagati. Non ha finanziato il comune che a sua volta, da 8 mesi non versa più ai cittadini che hanno scelto l’autonoma sistemazione, l’incentivo di 200 euro a testa per ogni persona del nucleo familiare con canoni d’affitto che sono quadruplicati.

Le scuole hanno riaperto ma nessuno dice che i bambini delle famiglie alloggiate negli alberghi sulla costa, circa 14 mila, ogni giorno si fanno dai 150 ai 200 km per andare a lezione. Il governo non ha elargito alcun incentivo alle attività produttive e commerciali, risultato: chi ha potuto affittare locali per ricominciare lo ha fatto. Gli altri, circa il 60% da nove mesi sono senza lavoro. E se la promessa arrivata in extremis da Bertolaso di un decreto per ripristinare la proroga per il pagamento delle tasse resterà vana i cittadini che giovedì manifesteranno davanti Palazzo Chigi inizieranno lo sciopero fiscale.

Mancano soldi per rimuovere le macerie dal centro storico che risulta ancora sommerso e il puntellamento degli edifici colpiti dal sisma è stato sospeso. Guido Bertolaso che, come si sa, il 31 dicembre andrà in pensione ha già fatto il passaggio delle consegne al presidente della regione Chiodi del Pdl che ricoprirà il ruolo di commissario e vicecommissario per la ricostruzione, mentre il sindaco della città, Cialente sarà commissario per il solo centro storico. Sul terreno restano molti interrogativi inquietanti. Come l’assegnazione delle case costruite prima del sisma, rimaste invendute, che i comitati dei cittadini chiedevano che venissero requisite dal comune mentre sono state acquistate a buon prezzo dalle banche che le ha poi affittate alla Protezione civile. Si tratta di villette su tre piani.

Il metodo di assegnazione è del tutto oscuro. E c’è chi è pronto a giurare che sarà un buon modo per fare dell’ottimo clientelismo affidandole ai notabili della città, ai raccomandati. “Avevo appreso che il costruttore Valentini, uno dei tanti, aveva venduto delle villette alla Cassa di Risparmio de L’Aquila che le aveva affittate alla Protezione civile. Sono andata allo sportello per i cittadini, ora sostituito da Linea Amica gestito dal call center e ho presentato domanda” racconta Anna Colasacco dell’associazione Cittadini per i Cittadini “Non ho ricevuto alcuna risposta. Sono tornata e mi sono nuovamente messa in lista chiedendo il rilascio di una ricevuta. Risposta: non diamo alcuna ricevuta. Non sono mai stata contattata e come me molte altre persone”. Lo stesso metodo è stato adottato per le case già assegnate. Nessuno sa, in assenza di una graduatoria pubblica, con quale criterio siano state scelte le famiglie. Alla domanda di spiegazione hanno risposto che non erano tenuti a farlo. In questo modo la Protezione civile ha conquistato l’approvazione di parte della città che ora risulta spaccata in due: i buoni, quelli rassegnati al volere di una ricostruzione carente di trasparenza e i cattivi quelli che rivendicano il diritto di cittadini e non sudditi. Una città che non esiste più se si escludono le 19 aree su cui hanno costruito i quartieri dormitori, due dei quali Assergi e Camarga, si trovano praticamente nel Parco Nazionale del Gran Sasso. L’emergenza ha legittimato tutto, anche l’illegalità. La legge dice che le ditte che vincono l’appalto non possono subappaltare più del 30% mentre a L’Aquila i lavori sono stati subappaltati per oltre il 50% senza alcuna approvazione dell’ente appaltante, cioè la Protezione civile, tanto che cinque ditte erano in odore di mafia. Non sarà un buon Natale per gli aquilani, al di là della propaganda a reti unificate, ma almeno Gesù nascerà anche per loro.

Ampliamento per circa mezzo milione di abitazioni con una media di due camere in più; demolizione e ricostruzione di 16 mila fabbricati, per lo più residenziali; investimenti complessivi di quasi 60 miliardi di euro. In attesa che il governo semplifichi le procedure (avrebbe dovuto farlo già molti mesi fa), le Regioni si sono mosse autonomamente con i loro piani-casa. Quindici di esse (più la provincia di Bolzano) hanno già approvato le relative leggi. Quattro stanno per vararle e solo la provincia di Trento ha rinunciato.

Ora l’Ance (l’Associazione nazionale costruttori edili) ha stimato l’impatto che tutti questi progetti produrranno sullo stock di case e di fabbricati non residenziali. E non è affatto poco: un milione di stanze in più. Insomma, sembra proprio che stia per ricominciare una stagione d’oro per il settore delle costruzioni abitative. Sia pure con una gran varietà di eccezioni, condizioni e paletti, le Regioni italiane hanno dato il loro via libera ad un ampliamento del 20% delle abitazioni e alla demolizione e ricostruzione di fabbricati fino al 35% in più.

Certo, ci vorrà ancora tempo: l’Ance stima che l’impatto sui livelli produttivi del settore possa avvenire solo a partire dalla seconda metà del 2010 a causa dei ritardi legislativi sia da parte del governo che delle Regioni nel concretizzare l’accordo di fine marzo. Di fronte la guazzabuglio di leggi e delibere, la Finco (la federazione industrie prodotti, impianti e servizi per le costruzioni di Confindustria) sollecita il varo del decreto legge sugli snellimenti procedurali e il varo delle normative da parte delle quattro regioni che ancora mancano all’appello. «Abbiamo assistito ad un defatigante confronto tra Stato e Regioni - commenta il direttore generale di Finco, Angelo Artale - dobbiamo riflettere se l’assetto urbanistico si presti o meno a una legislazione concorrente tra Stato e Regioni, e addirittura esclusiva per quelle a statuto speciale».

Il risultato è un grande caos di norme. Ha fatto da apripista la Toscana, limitando i premi di ampliamento ad edifici mono e bifamiliari, ma con superficie non superiore ai 350 metri quadrati. La Liguria ha invece escogitato un "bonus-spezzatino" per ingradire casa: più 60 metri cubi per edifici fino a 200 mc; più 20% per edifici fra 200 e 500 metri quadri e più 10% fra 500 e 1.000. Per poter usufruire invece del bonus volumetrico del 35%, l’intervento dovrà ridurre il rischio idrogeologico e permettere il miglioramento della qualità architettonica e l’efficienza energetica del patrimonio edilizio. Più consistenti i bonus riconosciuti dal Veneto per la ricostruzione di edifici realizzati prima del 1989 che potranno arrivare fino al 40% della volumetria esistente per il residenziale a condizione che si utilizzino fonti energetiche rinnovabili e tecniche di bioedilizia.

La regione Lombardia condiziona il bonus del 30% per la ricostruzione alla diminuzione del fabbisogno annuo di energia per la climatizzazione invernale. La regione Lazio concede un bonus volumetrico del 40% nel caso in cui l’intervento sia realizzato in base a un progetto vincitore di concorso di progettazione architettonica. La ricostruzione deve essere realizzata nel rispetto della normativa antisismica e permettere una riduzione dei consumi energetici. Anche la regione Basilicata riconosce un bonus volumetrico del 30% a condizione che siano rispettate le norme sismiche e sia migliorata la prestazione energetica dell’edificio. Il premio di cubatura può arrivare al 40% se si utilizzano tecniche costruttive di bioedilizia, impianti fotovoltaici e se la dotazione di verde privato viene aumentata.

ORISTANO. Il Piano Casa sull’orlo del baratro. Un precipizio che potrebbe chiamarsi «incostituzionalità» e dal quale difficilmente uscirebbe. I dubbi sulla sua legittimità costituzionale li avanza, pur con tutte le cautele del caso, il procuratore Andrea Padalino Morichini. Esperto in materie urbanistiche ha formulato le sue perplessità in una missiva, che per ora è stata inviata agli organi di polizia giudiziaria che operano per la procura oristanese, ai comandi di polizia municipali, alle forze dell’ordine preposte al controllo del territorio e agli uffici tecnici.

A giorni prenderà il volo verso ben altre realtà, assai più complesse di un capoluogo di provincia con poco più di trentamila abitanti. Verrà recapitata sui tavoli che contano della magistratura nazionale e sulle scrivanie di tutte le procure, affinché ne prendano visione e considerino i dubbi che vi sono indicati.

Insomma, le cinque pagine di stampato potrebbero avere l’effetto deflagrante di una bomba, che fa saltare per aria uno dei più discussi e allo stesso tempo attesi strumenti in materia edilizia. Prova ne sia che le Regioni hanno fatto la corsa per approvarlo il più in fretta possibile.

Il nocciolo giuridico della questione starebbe nella conflittualità delle normative locali appena approvate, rispetto a quella prevalente che è la legislazione nazionale. E questo vale sia per le Regioni a statuto ordinario, sia per le Regioni a statuto speciale quale la Sardegna è, dove peraltro si è deciso di agire «In deroga alle disposizioni normative regionali».

Sono numerosi le leggi, gli articoli e le sentenze richiamati dal procuratore oristanese che dapprima ricorda quali siano le procedure che si devono adottare per ottenere il via libera all’ampliamento di edifici preesistenti e agli interventi di demolizione e ricostruzione di fabbricati, ovvero le due peculiarità del Piano Casa. Per poter avviare i lavori, infatti, ci sono procedure semplificate: basta una semplice denuncia all’Ufficio tecnico del Comune competente.

Al di là di aspetti tecnici e giuridici assai complessi, sono due i punti contestati. Andrea Padalino Morichini li chiarisce, facendo riferimento al Codice dei beni culturali e del paesaggio che regola la normativa nazionale. È questa quella prevalente «Pertanto le leggi regionali sul Piano Casa non avrebbero mai potuto derogare o modificare le disposizioni richiamate e contenute nel decreto legislativo numero 42 del 2004». La colpa per il magistrato è del Governo che «Ha largamente disatteso le indicazioni contenute nell’intesa fra Stato, Regioni ed enti locali». Entro dieci giorni infatti avrebbe dovuto provvedere ad emanare un decreto legge «Con l’obiettivo precipuo di semplificare alcune procedure di competenza esclusiva dello Stato». Ma il governo non l’ha fatto, per cui «Le leggi regionali sono state promulgate in assenza di una normativa nazionale».

C’è poi un secondo «Ed ancor più inequivocabile profilo di illegittimità costituzionale, perché nello stabilire deroghe, le leggi regionali escludono la punibilità di condotte che il legislatore ha invece previsto come fattispecie penalmente sanzionabile». Materia ostica, ma l’avvertimento appare chiaro. E il fatto che la missiva sia stata spedita anche agli uffici tecnici suona come avviso: il procedimento penale potrebbe essere dietro l’angolo, in attesa che la questione di legittimità venga sollevata davanti al giudice competente.

Il Comune di Udine ha deciso di provocare un caso politico e apre una battaglia contro la legge 11 novembre 2009, n. 19 “Codice dell'edilizia regionale”.

In un convegno tenuto il 20 novembre il sindaco Furio Honsell e l’assessore comunale alla pianificazione territoriale Mariagrazia Santoro hanno lanciato una sfida alla maggioranza di destra al comando della Regione sostenendo l’incostituzionalità della legge regionale nelle parti in cui costituisce l’interpretazione dell'intesa del 31 marzo 2009 tra Governo, Regioni e alcuni rappresentanti degli Enti locali, ormai nota come "piano casa".

Al convegno sono intervenuti anche Andrea Baldanza magistrato della Corte dei Conti Sez. Abruzzo e componente del Comitato scientifico dell’Istituto per la Finanza e l'Economia Locale; Paola Di Biagi, ordinario di Urbanistica all’Università di Trieste; Fabio Refrigeri, Vice coordinatore nazionale dell’ANCI e Sindaco di Poggio Mirteto (Ri); Roberto Tricarico, assessore all’ambiente, alle politiche per la casa e al verde del Comune di Torino.

La legge regionale è strutturata in due parti. Una è quella che dà il nome alla stessa e costituisce - nelle originarie intenzioni del legislatore regionale - la cornice ordinamentale unitaria e organica a cui fare riferimento per la disciplina dell'attività edilizia. L’altra parte è il "piano casa" del Friuli Venezia Giulia, pacchetto che si è aggiunto nel corso dell’iter della legge che ha mosso i primi passi sul finire del 2008.

Il Comune di Udine concentra il fuoco dell’attenzione su alcuni aspetti della legge regionale, in particolare verso il Capo VII, articoli 57, 58, 59 e 60, che detta “Disposizioni straordinarie per la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente”.

Le disposizioni di legge prevedono espresse deroghe agli strumenti urbanistici vincolanti per i comuni, i quali si vedono sottratti qualsivoglia valutazione di congruità urbanistica, edilizia, paesaggistica e ambientale.

Un primo rilievo sollevato sta nel fatto che la legge estromettendo il comune nella gestione del territorio, gli nega la garanzia del principio di sussidiarietà sancito dagli articoli 114 e 118 della Costituzione.

Altro appunto viene mosso partendo dalla considerazione che l’intesa sancisce che le leggi regionali devono “… c) introdurre forme semplificate e celeri per l'attuazione degli interventi edilizi di cui alla lettera a) e b) in coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e della pianificazione comunale”. La legge regionale, invece, non tiene pressoché conto della pianificazione comunale dato che da essa deroga, discostandosi così dall’intesa.

Ulteriore rilievo che il Comune muove in ordine all’espropriazione di competenze in capo ai comuni, sta nella stessa legge urbanistica regionale 5/2007, il cui art. 3 espressamente riconosce che “La funzione della pianificazione territoriale è del Comune che la esercita nel rispetto dei principi di adeguatezza, interesse regionale e sussidiarietà…”.

La stessa legge 19/2009, nella parte ordinamentale costituente il codice dell’edilizia, riconosce al comune l’ente preposto al governo del territorio e al rilascio dei titoli abilitativi in conformità agli strumenti urbanistici.

Secondo il Comune di Udine, dunque, esiste nel corpo legislativo regionale un nucleo consolidato di competenze in materia di edilizia e urbanistica in capo ai comuni che costituisce un limite alla discrezionalità del legislatore regionale nelle materie individuate dall’art. 4 dello Statuto Regionale (legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1).

Inoltre secondo il Comune di Udine le attribuzioni riconosciute statutariamente alla regione trovano il proprio limite nell’art. 5 della Costituzione che garantisce il principio di autonomia degli enti locali ed il cui rispetto investe anche quelle a statuto speciale.

Alla luce di queste valutazioni il Comune di Udine chiede alla Presidenza del Consiglio dei Ministri di promuovere giudizio di legittimità costituzionale contro il Capo VII, articoli 57, 58, 59 e 60, della LR n. 19/2009, per violazione dell’art. 4 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 e degli articoli 3 e 5 della Costituzione.

Se queste sono le ragioni di natura giuridica sulle quali il Comune di Udine ha impostato la propria battaglia, ricercando alleati nel mondo delle autonomie locali della regione, ulteriori sono poi le ragioni urbanistiche che preoccupano seriamente il Comune.

Anche se il Comune di Udine non muove una critica radicale all’intesa nazionale, per quanto l’assessore comunale abbia sottolineato che il rilancio dell’economia non passa necessariamente solo ed esclusivamente attraverso l’assorbimento di risorse nel settore delle costruzioni, sono però forti le critiche che rivolge all’impostazione della legge regionale.

Innanzitutto per quanto riguarda l’enorme durata: le deroghe ai piani urbanistici trovano applicazione per gli interventi edilizi che abbiano inizio entro cinque anni dall’entrata in vigore della legge, tempo ben maggiore rispetto ai 18 mesi contenuti nell’intesa e pure nella stragrande parte delle altre leggi regionali.

Altro punto sostanziale è che la legge regionale, a differenza di molte altre (Toscana, Veneto, Lombardia, Puglia, ecc.), esclude i comuni dal determinare se e in quali situazioni, in quali parti della città e del territorio, sulla base di valutazioni di sostenibilità urbanistica, paesaggistica e ambientale, le deroghe non possono trovare applicazione applicazione.

Per il Comune questo lede alle fondamenta il principio della pianificazione, fa diventare del tutto aleatoria e velleitaria ogni qualsivoglia volontà di pianificare la città e il territorio ed è tale da depotenziare il piano regolatore. Non a caso il Comune di Udine si chiede, retoricamente, se la legge regionale non abbia come obiettivo reale quello di eliminare la pianificazione urbana e territoriale.

Secondo il Comune questa impostazione scardina la politica urbanistica dei comuni, lasciandoli in una situazione di perenne balia e indeterminatezza programmatica. L’effetto sulla città, poi, sarà quello di privarla della qualità insediativa che non si misura solamente sulle quantità degli standard urbanistici o sull’azzonamento.

Il Comune ha inoltre stigmatizzato altri aspetti negativi che caratterizzano l’impostazione politica, culturale e progettuale del “piano casa” regionale.

La legge regionale produrrà effetti dirompenti sulla qualità delle parti della città esistente al di fuori dal nucleo storico centrale, ma anche nelle realtà urbane minori dove pure i piccoli incrementi volumetrici possono determinare effetti rilevanti sulla qualità, sulla riconoscibilità dei luoghi, spesso esprimenti una propria peculiarità e singolarità.

Il taglio della legge risponde anche ad una visione della città obsoleta separata in parti divise nella zonizzazione funzionale, laddove le zone A e simili costituiscono quelle e solo quelle meritevoli di una qualche attenzione, tali da essere escluse dall’applicazione delle norme in deroga dal piano regolatore.

Al di fuori di questa parte “nobile” della città, secondo il “piano casa” regionale, c’è il resto, il “brodo primordiale urbano” dove tutto è ammissibile, senza alcuna regola e governo pubblico. E sono proprio queste parti dell’organismo urbano, dove la legge esprime la sua banale e semplicistica indifferenza alla qualità spaziale, edilizia ed insediativa, nelle quali gli spazi vuoti possono essere sempre e comunque riempiti dai metri cubi dove non esiste alcuna idea di riqualificazione urbana.

In quest’ottica lo spazio pubblico è del tutto residuale e ininfluente a determinare la qualità della città (l’art. 58, 2° comma, lett. b) della legge costituisce una perla di rara anarchia incivile, del tutto ingovernabile) ed è trattato come mero standard quantitativo con uan visione ragionieristica.

Neppure lontanamente sfiora l’idea del legislatore che la vita delle persone in una città non avviene sulla base dell’azzonamento funzionale, ma della mixitè delle attività, delle relazioni fisiche, sociali, spaziali, dei rapporti morfologici e tipologici del costruito e no, di tutto ciò che è esterno all’abitazione. Togliendo al comune la potestà di pianificare il “brodo primordiale urbano” nell’interesse pubblico e generale, gli stessi beni comuni (la città dei cittadini, degli interessi comuni) vengono disconosciuti. Il modello è quello di una città sommatoria di individui chiusi nella propria casa.

Della bellezza, dell’accoglienza e dell’attrazione dello spazio urbano non c’è proprio traccia, né poteva esserci quando una legge è centrata esclusivamente sulle quantità edificabili e non sulla qualità urbana e insediativa, determinante per elevare la qualità dell’abitare e del vivere.

E non vale, è stato sottolineato, l’ipotesi di interpretare la legge come un tentativo di densificare il tessuto urbano consolidato, per contrastare la diffusione insediativa.

L’impronta ideologica della legge è molto forte ed è tutta incentrata sull’interesse piccolo e individuale del singolo. Ogni visione complessa della società e della città è totalmente assente, ridotta a semplificazione che denota anche una grande assenza di conoscenza.

Il Comune ha sottolineato che la legge esprime una forte povertà culturale e progettuale, del tutto estranea alla cultura urbanistica.

A venire allo scoperto per primo è stato ieri Maurizio Lupi, il vicepresidente della Camera da sempre "mente" del Pdl nei settori della casa e delle infrastrutture. «C'è bisogno di un provvedimento nazionale urgente per la semplificazione delle procedure del piano casa perché questa è un'emergenza nazionale ed è evidente che non bastano le leggi regionali a mettere in moto gli interventi. O con un'iniziativa del governo o con un'iniziativa del Parlamento su corsia preferenziale occorre riprendere i contenuti del testo accantonato». Lupi interveniva all'Ance alla presentazione dell'Osservatorio congiunturale. Totalmente d'accordo con il rilancio del decreto semplificazioni il presidente dell'Ance, Paolo Buzzetti, che ha ribadito per le opere pubbliche finanziate dal Cipe e per il piano casa l'urgenza di passare dalla fase della carta a quella operativa. «Se il problema è accelerare interventi che altrimenti sarebbero spalmati in 24 mesi - dice Buzzetti - il governo potrebbe prevedere un incentivo fiscale per i primi sei mesi».

Questi interventi potrebbero essere registrati come materia da convegno se non ci fosse contemporaneamente una forte spinta ad accelerare l'attuazione del piano casa che arriva direttamente da Silvio Berlusconi. A più riprese, nelle settimane scorse, il presidente del Consiglio ha chiesto a ministri e uffici un'analisi per capire cosa non sta funzionando nel piano casa. Perché, in altre parole, gli interventi previsti dalle leggi regionali impiegano tanto tempo a tradursi in cantieri. Un'eco di questa preoccupazione si è vista nelle parole del premier nel consiglio dei ministri di venerdì scorso, quando ha detto di voler richiamare le tre regioni inadempienti (Campania, Calabria e Molise). L'unica azione di governo messa in cantiere per ora è infatti proprio la lettera di diffida a queste regioni, per poi arrivare al commissariamento.

Ma i ritardi del piano casa non possono essere addebitati solo alle inadempienze delle tre regioni che non hanno ancora varato la legge. Questo Berlusconi lo ha capito. Il punto è che il piano casa non funziona come stimolo anticongiunturale neanche nelle regioni che sono partite per prime: in Toscana sono qualche decina le domande presentate nonostante la legge sia di aprile. Sia chiaro: non c'è nessuna intenzione da parte di Palazzo Chigi di riaprire il contenzioso con i governatori su questo punto, come fu a marzo. Nessuno contesta oggi gli strumenti messi in campo dalle leggi regionali ed è difficile che il governo assuma iniziative presso la Consulta per contestarle (fa eccezione il fascicolo del fabbricato insetrito nella legge del Lazio). Berlusconi vuole però lanciare un segnale forte al pubblico che il piano casa c'è ed è, di fatto, operativo. In questa direzione vanno i due segnali lanciati ieri all'Ance: un incentivo fiscale ad hoc e il decreto legge di snellimento delle procedure.

A bloccare il decreto era stato l'intervento del presidente della Repubblica sulle norme per le aree vincolate, bocciate dal consiglio superiore dei beni culturali, e la richiesta delle regioni di incentivi per l'adeguamento alle norme antisismiche. Sui beni culturali c'era già stata la marcia indietro e si era trovato un punto di equilibrio. Quanto agli incentivi per l'adeguamento antisismico, Buzzetti invita le regioni a desistere per affrontare la questione in altro provvedimento.

La relazione di esordio del neo-presidente dei costruttori napoletani (Acen) ha avuto l´utilità di rilevare con attenzione i difetti e le incongruenze dell´urbanistica regionale e alcune inefficienze amministrative del Comune di Napoli.

Ovviamente lo fa in maniera partigiana, traguardando la metà più conveniente del bicchiere, sia per quanto riguarda i diversi dati sul deficit di abitazioni, di infrastrutture, sia sui ritardi di ordine burocratico che non favoriscono gli investimenti, sia sui provvedimenti emergenziali, come il piano casa, che, nonostante dichiarati urgenti, tardano a partire. Su alcuni di questi temi vale forse la pena offrire un contributo.

Malgrado qualche recente timido scatto in avanti del consiglio regionale, era quasi inevitabile che il cosiddetto piano casa, che sarebbe meglio chiamare "piano edilizia", finisse nel magma di fine legislatura. E non si tratta di sole questioni di tipo "politico".

Con l´incongruenza e l´insipienza delle norme interamente deregolative in essa contenute, questa legge si è quasi subito manifestata, da un lato, di difficile applicazione e poco snella e proficua per gli investitori, dall´altra avrebbe addirittura messo in discussione la quantità non trascurabile di progetti, piani attuativi e programmi integrati che, sebbene rallentati (e spesso mortificati) dalle regie inadeguate degli enti pubblici, stanno mettendo in campo milioni di euro, in genere privati, a cui le norme-papocchio del "piano edilizia" non avrebbero certo fatto bene. Molti attori economici, anche all´interno dell´Acen, sono coscienti di questo virus contenuto nella legge e di certo non si sono affaticati più di tanto nel promuoverla e nel sostenerla attraverso le consuete metodologie e azioni lobbistiche.

Il caso Napoli può essere un utile esempio. Rivelandosi ancora una volta migliore delle tante critiche che lo vogliono obsoleto e da demolire, il Piano regolatore vigente dal 2004 ha consentito e sta consentendo, all´interno del territorio cittadino, una quantità di trasformazioni urbane (molte delle quali vedono proprio l´Acen in prima linea) che danno attuazione agli scenari previsti dal piano, muovendosi all´interno di regole chiare, univoche e, in parte, anche ragionevolmente flessibili. Vediamo i dati.

Il numero delle iniziative in corso, in attuazione del Prg, è di circa 200.

I Piani urbanistici attuativi (Pua) e i Grandi progetti urbani (Gpu) approvati o adottati sono 24, per una superficie di 8.079.335 mq, con urbanizzazioni per 788.648 mq.

I Pua e i Gpu in corso di adozione sono 8, per una superficie di 1.322.570 mq, con urbanizzazioni per 165.345 mq, quelli ancora in istruttoria sono 16, per una superficie di 3.018.420 mq e urbanizzazioni per 386.595 mq.

L´investimento per realizzare le attrezzature, le residenze e le infrastrutture in essi previste, è tutto a carico dei privati, così come a carico dei privati sono le opere compensative, le urbanizzazioni, spazi e attrezzature interamente cedute al pubblico.

La superficie destinata a urbanizzazioni derivanti dall´insieme delle iniziative già in corso ammontaa 2.945.981 mq, che corrisponde al 23 per cento del deficit dei cosiddetti "standard" calcolato e previsto dal Prg.

Questa immissione di spazi pubblici comporterebbe un incremento di circa 3 mq nella dotazione media per abitante in termini di attrezzature pubbliche, che rappresenta circa il 50 per cento dell´attuale.

Non è difficile ipotizzare che le norme factotum del "piano edilizia" sarebbero entrate a gamba tesa nei già complicati processi di attuazione, alterandone l´iter, innescando varianti a ripetizione e, soprattutto, mettendo in discussione proprio la parte "pubblica", e cioè quelle attrezzature e servizi che, con le regole del piano, i privati investitori dovranno obbligatoriamente cedere al Comune. E invece, come prevede espressamente il "piano edilizia" queste sarebbero le prime a essere derogate e a saltare assieme a indici di fabbricabilità, altezze massime, rapporti di coperture, e tutto l´armamentario urbanistico, forse un po´ vecchio, ma che serve ancora a regolare una crescita e una trasformazione sensata dei tessuti urbani.

Anche per quanto riguarda il semplice 20 per cento di allargamento delle villette si avanzano dubbi da più parti e le stime che misuravano, a livello nazionale, un impatto complessivo del provvedimento di 60 miliardi, sono oramai riviste al ribasso (su questo concordano anche i vertici nazionali dell´Acen).

A una scala diversa, lo stesso discorso vale anche per gli altri Comuni. La mole non piccola di programmi e progetti già in parte operativi, quindi, è senz´altro una positiva base di partenza sulla quale costruire un rilancio strutturale dell´attività edilizia a Napoli e in Campania. I ritardi amministrativi e lo stallo burocratico devono diventare problemi da risolvere e non pretesto per confidare ancora una volta nel solito provvedimento straordinario, nell´ennesima variante, in ulteriori sussidi.

Il Piano Casa della Regione Campania non garantisce la tutela del vasto patrimonio edilizio di interesse storico e architettonico che allo stato attuale non è ancora vincolato dal Codice dei Beni culturali; di conseguenza, esso non garantisce la tutela dei numerosi paesaggi campani che proprio da tale patrimonio traggono valore e identità.

Si sperava che il testo portato in Consiglio regionale fosse il frutto di un lavoro condiviso in commissione Urbanistica, scaturito dall´esame delle osservazioni costruttive inoltrate da qualificati istituti e associazioni operanti nel settore dell´urbanistica e della tutela ambientale, preoccupati per gli effetti negativi innescati in maniera casuale dagli incrementi dei carichi abitativi e da trasformazioni edilizie diffuse e poco attente al valore del nostro patrimonio edilizio di qualità.

Sono essenzialmente due gli interventi straordinari che possono avere effetti davvero disastrosi su numerose e importanti aree campane al momento fragili per carenza normativa: l´ampliamento di volumetria e la demolizione e ricostruzione di edifici di interesse storico e/o architettonico ancora privi di vincolo ai sensi del decreto legislativo 42/2004 e, per aggravio di pena, ubicati in aree non ancora classificate come zone A, in zone (agricole e no) prive di vincolo di inedificabilità assoluta o non collocati in riserve e parchi nazionali e regionali.

In poche parole potremmo perdere una mole di quegli edifici monumentali e di quella edilizia minore di valore, che, pur essendo ancora privi di vincolo, svolgono un ruolo essenziale, quello di fornire la misura del tempo e dunque della storicità dei luoghi; e, in uno con la componente naturale, di definire, poi, l´identità del paesaggio.

Che ne sarà, ad esempio, degli arcaici paesaggi della Piana Campana laddove il millenario disegno delle centuriazioni romane si coniuga ancora a filari di pioppi, strade rurali, termini lapidei e antiche masserie superstiti, che coralmente compongono ancora un paesaggio antico e allo stesso tempo vitale? Sarà la fatiscenza dei manufatti a determinarne il destino? Che ne sarà di Ischia, già collassata da una urbanizzazione selvaggia, che ha provocato una diffusa messe di case, separate ormai solo da piccole frange di verde: si dovrà saturare del tutto fino a formare un unico agglomerato urbano coincidente con l´intero territorio isolano? Purtroppo potremmo citare numerosissimi esempi. È noto, infatti, che il patrimonio culturale italiano - in particolare monumenti e paesaggi - è tutelato solo in piccola parte rispetto alle reali potenzialità: per la sua estensione, infatti, censimenti e catalogazioni vanno a rilento così come le complesse procedure di vincolo.

Che cosa fare dunque per dare un contributo alla salvaguardia della nostra regione? Innanzitutto accettare il principio culturale che il rilancio dell´edilizia non può avvenire a danno del nostro patrimonio paesaggistico. Per ottenere ciò occorre promuovere nei territori di riconosciuta qualità attività legate al restauro, limitare, inoltre, gli interventi di ampliamento e di sostituzione all´edilizia post-bellica, esprimere con chiarezza nel testo (onde evitare future controverse interpretazioni) che i due interventi suddetti non possono essere realizzati nei territori soggetti alla disciplina dei piani territoriali paesistici di cui alle leggi 1497/1939 e 431/1985 e in quelli vincolati ai sensi del Dlgs 42/2004.

È inoltre fondamentale accelerare i processi di conoscenza del territorio regionale per individuare e tutelare aree e manufatti di rilevante interesse. Una maggiore estensione della tutela prevista dal Codice dei Beni culturali appare in ogni caso uno strumento-paracadute da attivare per salvare il salvabile, soprattutto se in sede regionale non si dovesse ritenere di accogliere gli emendamenti volti a garantire la conservazione del nostro patrimonio culturale, per lo più ancora ufficialmente sconosciuto.

Un piano casa perpetuo, che di fatto è operativo da oltre vent’anni. Il sacco edilizio di città e campagna perennemente appaltato al partito dei «calce-struzzi». Una colata continua di condomini, capannoni, magazzini e centri commerciali, che fa balzare il Veneto in cima alla classifica delle regioni più edificate. E’ la transizione dalla scintillante «locomotiva» del Nord Est alla partita doppia della betoniera.

Con l’implosione dell’impresa familiare e il default delle logistiche strozzate dalla stretta del credito, il cemento armato rimane l’unica «benzina». Fonte «naturale» di guadagni, rendite, favori e voti; strutturalmente al riparo dagli scossoni di ogni mercato. Funziona al di là della recessione e degli schieramenti politici.

Il Veneto gioca la partita della crisi puntando (ancora) sull’asso pigliatutto del mattone. Alimentando una bulimia edilizia patologica, che divora migliaia di ettari di territorio ogni anno. Oltre 290 milioni di metri cubi di edifici residenziali direzionali e commerciali costruiti dal 1983 al 2006 sono il bilancio dell’economia «impalcaturiera» del Nord Est imbullonata sulle gru. Cemento armato che si traduce in un giro di appalti milionario: più che vitale per enti locali preoccupati di raddrizzare bilanci votati al rosso. Ma anche per l’affollato giro d’affari di costruttori e immobiliaristi con l’acqua alla gola. Muove la cazzuola dell’edilizia «in chiaro» e stende anche la malta di quella «criptata». Politicamente è la «colla» dell’ unico vero «partito del Nord».

L’effetto collaterale è un territorio irrimediabilmente degradato, banalmente omologato dal Bellunese al Polesine, violentato nei tratti somatici dell’identità non solo paesaggistica. Sotto i metri cubi di calcestruzzo, acciaio e bitume spariscono per sempre campi, paludi e aree boschive. Insieme alla rete idrica, «stuprata» da passanti, bretelle, raccordi e direttissime.

Il piano casa regionale varato a luglio spara il colpo di grazia al precario equilibrio ecologico. Sulla carta, il provvedimento non serve. Il patrimonio immobiliare dei 581 comuni veneti copre il fabbisogno abitativo fino al 2022, immigrati compresi. «Nelle sole province di Padova e Treviso le aree urbane ormai corrispondono al 20% del territorio. Una quantità enorme che non ha eguali in nessun altra regione italiana» spiega Sergio Lironi, urbanista di Legambiente. Sul tavolo, i dati del Centro ricerche economiche sociali di mercato per l'edilizia e il territorio e gli studi della Cassa edile artigiana veneta: dal 1999 al 2008 quasi 340 mila nuove abitazioni. Sono 135 milioni di metri cubi di cemento armato.

«E’ il risultato della filosofia dell’urbanistica contrattata, del caso per caso e giorno per giorno. Una gestione dei piani caratterizzata da continue varianti e deroghe ha consentito l’arrogante prevalere degli interessi privati delle grandi società immobiliari dando via libera alle logiche speculative – denunciano gli ambientalisti - La città tentacolare si è sparpagliata nel territorio cancellando luoghi identitari, risorse ambientali e beni culturali. E degradando la qualità del vivere quotidiano».

Ma non c’è solo il lato B della mitologica polis diffusa: a puntellare l’ossatura edile c’è soprattutto la sconfinata melassa di capannoni, centri commerciali, attrezzature «di servizio» e «rurali» solo nei registri dei catasti.

Un boom mai regolato nemmeno dal «libero» mercato, volontariamente sordo al paradigma domanda-offerta. Nel lustro 2002-2007 sono stati costruiti oltre 114 milioni di metri cubi in depositi e magazzini poi svuotati dalla crisi. Si è edificato troppo (oltre 275 metri cubi per ogni nuovo abitante) e male: «La dispersione insediativa ha distrutto risorse naturalistiche, agronomiche e paesaggistiche fondamentali, con tipologie e costi che non corrispondono alla domanda reale, usando tecnologie obsolete non adeguate agli standard energetici e di comfort ambientale stabiliti dall’Unione europea» puntualizzano a Legambiente. Con un lassismo «colposo» da parte di enti locali pronti a incamerare Ici e oneri di urbanizzazione barattando pezzi del territorio.

L’incredibile numero di varianti urbanistiche presentate nel solo 2005 rende l’idea di una morbosa frenesia costruttiva: 1.276 richieste di scostamento dai piani comunali (+ 220% rispetto alla media degli anni precedenti) fanno impressione. Si appoggiano a 389 Piruea (piani di riqualificazione urbanistica e ambientale) attuati nel biennio 2005-2006: la soluzione più semplice per accontentare la voglia di «villettopoli» dei veneti.

Chilometri di bifamiliari a schiera, versioni economiche di Milano2 e residence metropolitani diventano però un miraggio per chi vive sulla soglia della povertà. Immigrati, giovani coppie e pensionati affollano le graduatorie degli alloggi popolari.

Domande sostanzialmente inevase. Le cifre della Direzione regionale per l’edilizia abitativa registrano un migliaio di assegnazioni a fronte di 16.500 richieste. Nei comuni schiacciati dalla tensione abitativa è una lotteria: il 99% di chi chiede una casa ad affitto calmierato non riceve risposta. Per ora, gli enti locali riescono ad arginare l’esercito di poveri ufficialmente conclamati: 20 mila potenziali morosi schivano lo sfratto grazie ai contributi pubblici.

Dal 2002 al 2007, le volumetrie ultimate hanno superato gli 89 milioni di metri cubi. Uno stock di tutto rispetto: dovrebbe bastare ad accomodare circa 600 mila nuovi abitanti, compresi i 78 mila immigrati del Trevigiano. Senza contare lottizzazioni già approvate e concessioni da tempo operative.

Cinque anni fa la deregulation edilizia era parsa un’enormità perfino a palazzo Ferro-Fini, tanto che la legge urbanistica regionale del 2004 limitava le aree agricole trasformabili in terreni con altra destinazione d’uso. «Uno stop praticamente inutile: perché consentirà comunque di sottrarre all’agricoltura altri 93 milioni di metri quadrati nei prossimi 10 anni» osservano gli ambientalisti.

L’impatto della valanga di lottizzazioni si rileva calcolando l’impronta ecologica rilasciata da 4,9 milioni di veneti. La misura del territorio biologicamente attivo per equilibrare produzione, consumo, assorbimento dei rifuti ed emissioni inquinanti è un’efficace cartina di tornasole. Ne risulta un’«orma» abbondantemente oversize: 6,43 ettari equivalenti per abitante fanno impallidire la media nazionale ferma a quota 4,3.

E poi c’è l’impatto atmosferico della «betoniera» a ciclo continuo: 1,9 milioni di abitazioni emettono 7,2 milioni di tonnellate di CO2 all’anno. Basterebbe mettere a norma i fabbricati per risparmiare all’ambiente 4, 4 milioni di tonnellate di anidride carbonica.

Ma a Nord Est non si cambia rotta. Per Legambiente «Il piano casa si rivela un sistema di regole diverso in ogni regione. Spiccano la Toscana e la Provincia di Bolzano, che hanno praticamente bloccato l’attuazione, e il Veneto con la Sicilia, da subito paladine di un’applicazione generosa, con premi in cubatura dispensabili a qualsiasi tipo di edificio dovunque e comunque collocato. In pratica il piano casa regionale diventa una scorciatoia per risollevare le sorti del mercato edilizio, senza un’idea capace di muovere il settore fuori da una crisi che non è congiunturale».

Preoccupa anche la troppo generica indicazione energetica per ottenere l’ambito «premio» di volume. Molte regioni hanno stabilito un tetto massimo di mille metri cubi per gli ampliamenti. In Veneto, invece, non c’è mai limite.

Scheda

Valido per due anni con aumenti fino al 50%

Il piano casa del Veneto (L.R. 14/2009) è stato approvato dal consiglio regionale il 1 luglio scorso. La prima stesura del programma edilizio includeva la possibilità di ampliamenti nei centri storici, interventi poi esclusi nella versione definitiva. Altre correzioni hanno riguardato il depennamento delle seconde case e il ruolo dei Comuni nell’applicazione della norma. Il piano consente aumenti di cubatura «ordinari» del 20%, che salgono al 30 % in caso di demolizione e successiva ricostruzione. Possono raggiungere il 40% se si utilizzano criteri di bioediliza o fonti rinnovabili. Se gli interventi sono oggetto di un piano attuativo la quota può arrivare al 50%. La riduzione degli oneri (60%) sarà applicabile solo per le prime case. Per avviare i lavori non servirà più il permesso di costruire, ma una semplice Dia. Le norme si applicano anche a edifici non residenziali e ai condomini. Non concorrono alla cubatura totale dell’edificio pensiline e tettoie, purché finalizzate all’installazione di impianti fotovoltaici o di energia rinnovabile. I Comuni hanno tempo fino al 30 ottobre 2009 per stabilire eventuali limitazioni all’applicazione della legge. Se i municipi non si pronunceranno, la Regione nominerà un commissario con il compito di far deliberare l’amministrazione locale. La validità delle norme del piano casa veneto è stata fissata a due anni.

Qui la legge del Veneto in corso di distruzione. E qui la delibera della resistenza del sindaco Domenico Finiguerra.

Il Comune di Cassinetta di Lugagnano ha approvato la sua “delibera di resistenza” al Piano Casa Berlusconiano in salsa Formigoniana. Al netto delle popolarissime stanze del figlio a risparmio energetico, i fronti che la legge regionale lombarda apre sono molti. Ma quello più grave è sicuramente l’introduzione spinta del concetto culturale della deroga: In una legge di soli 5 articoli, la parola deroga appare 6 volte (deroga agli strumenti urbanistici, deroga ai regolamenti edilizi, deroga ai piani territoriali di coordinamento dei parchi regionali). L’anticamera dell’abuso? il preludio di un nuovo condono?

Una deroga concessa dal livello regionale che è una vera e propria ingerenza, una violazione della titolarità dei comuni in materia di pianificazione urbanistica. A fronte di una crisi economica mondiale che è anche effetto dell’eccesso di offerta immobiliare, si mette in campo l’ennesima ricetta a base di cemento. La cura peggiore del male. L’ultimo bicchiere di vino al viandante ubriaco.

Facendo leva sulle perenni e croniche difficoltà economiche dei comuni, si indica quale migliore soluzione ai problemi di bilancio la possibilità di trasformazioni da industriale/artigianale a residenziale, con incremento di volumetrie fino al 30% e i conseguenti oneri di urbanizzazione per le casse comunali. Una norma che si presta molto a diverse e controverse interpretazioni. Che rischia di aggiungere confusione al già caotico mondo giuridico in cui vive l’edilizia e l’urbanistica.

Insomma, l’ennesimo passo indietro che rischia di allontanarci ulteriormente rispetto al traguardo della pianificazione urbanistica e territoriale fatta nell’interesse generale e collettivo, spingendoci, come se non fosse già abbastanza, nell’opposta direzione.

POTENZIALITA’…

Il “piano casa” lombardo se non integrato/applicato da parte dei Comuni, per un anno e mezzo, consente di aumentare di un quinto le volumetrie degli edifici costruiti. Nei parchi si potrà demolire e ricostruire in deroga ai piani di coordinamento. Anche nei centri storici, come pressoché ovunque nel territorio lombardo, si potrà ampliare e ricostruire (+20% o 30% di volumetria) sostituendo gli edifici esistenti che non si adattano al contesto storico e architettonico. Fuori dai centri storici si potrà incrementare la volumetria esistente del 3O%. In caso di «congruo equipaggiamento arboreo» pari almeno a un quarto del lotto interessato, l’incremento di volumetria ammesso sarà del 35%. Si potranno convertire in residenza i capannoni industriali e artigianali – non commerciali e terziari – per una quota pari alle volumetrie definite dagli indici residenziali del luogo.

… E POSSIBILI RESISTENZE

Ma il provvedimento della Regione Lombardia, predisposto dall’Assessore leghista Davide Boni, prevedeva la facoltà per il Comune di deliberare (entro il 15 ottobre) in ordine ad alcune limitazioni e all’applicazione concreta del cosiddetto “Piano Casa”. Facoltà di cui l’Amministrazione Comunale di Cassinetta di Lugagnano ha deciso di avvalersi, alla luce del proprio PGT (Piano di Governo del Territorio) che ha come sua prerogativa principale l’azzeramento del consumo di suolo el’eliminazione di nuove aree di espansione urbanistica, nonché l’attenzione e la spinta al recupero del patrimonio esistente, la promozione dell’agricoltura e la valorizzazione del paesaggio ambientale e architettonico.

TRASFORMAZIONI

La legge regionale consentiva la possibilità di individuare zone industriale e/o artigianale da classificarsi a specifica destinazione produttiva secondaria ove è possibile l’applicazione del Piano Casa. Il Comune di Cassinetta di Lugagnano non ha individuato ne trasformato la destinazione d’uso di nessuna area.

ESCLUSIONI

Con motivata deliberazione i comuni potevano individuare parti del proprio territorio nelle quali le disposizioni della legge non troveranno applicazione, in ragione delle speciali peculiarità storiche, paesaggistico-ambientali ed urbanistiche, compresa l’eventuale salvaguardia delle cortine edilizie esistenti. Il Comune di Cassinetta di Lugagnano ha così escluso dall’applicazione del Piano Casa: il Centro Storico (e tutte le zone interessate dal Piano del Colore), i Piani di Recupero Obbligatori individuati dal Piano di Governo del Territorio, i Piani di Recupero vigenti.

ONERI DI URBANIZZAZIONE

Secondo la legge lombarda, la ripresa edilizia andrebbe incentivata tramite uno sconto sugli oneri di urbanizzazione che potrebbe arrivare fino al 50%. L’amministrazione non ha ritenuto opportuno operare una discriminazione tra interventi ordinari ed eventuali interventi da realizzarsi ai sensi del Piano Casa, concedendo a questi ultimi una riduzione del solo 0,1% (10 euro ogni 1000 euro).

VERDE E PARCHEGGI

La delibera del comune di Cassinetta di Lugagnano ha stabilito che gli interventi attuati secondo la legge regionale devono essere dotati di spazi a parcheggio e verde privato nelle misure stabilite dalle vigenti norme tecniche attuative dello strumento urbanistico comunale, senza possibilità di monetizzazione, e che in difetto di tali spazi gli interventi non potranno essere ammessi.

Ecco emanata dal presidente della Regione Veneto la circolare esplicativa della legge regionale n° 14 del 29.09.2009 che, meglio conosciuta come “piano casa”, è ufficialmente denominata come segue: “intervento regionale a sostegno del settore edilizio per favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e modifica della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16”. Il titolo sa tanto da scusatio non petita: la ridondante definizione e l’utilizzo del tanto abusato termine “sostenibile” manifesta la chiara intenzione di giustificare una misura almeno discutibile qualificandola come intesa a un nobile fine.

La contraddizione principale della legge (che, ricordiamolo, arriva dopo tre condoni edilizi) viene esplicitata dalla stessa circolare nella quale si legge che “pare opportuno specificare che la LR 14/2009 non è una legge urbanistica né edilizia pur avendo contenuti che incidono significativamente sulla disciplina di queste materie ma è , prima di tutto, una legge economico e finanziaria”. Infatti “la legge, di carattere straordinario, prevale sulle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali, comunali, provinciali e regionali, nonché sulle altre leggi regionali in contrasto con essa”. Rimane ai Comuni la potestà di deliberare (entro il 30 ottobre 2009) se e con quali limiti e modalità applicare le disposizioni; trovano, invece, immediata applicazione gli interventi sulle “prime case”.

Evitando di entrare nel merito di temi quali l’opportunità della normativa o dell’indifferenza al problema della necessità di alloggi popolari, analizziamo alcuni aspetti della legge regionale, alla luce della recente circolare.

In primo luogo è previsto, in deroga a strumenti di ogni ordine, l’ampliamento degli edifici esistenti (come definiti dalla stessa circolare) nei limiti del 20 % del volume se destinati ad uso residenziale e del 20 % di superficie coperta se destinati ad uso diverso.

E’ poi ammessa la demolizione e ricostruzione degli edifici legittimi realizzati prima del 1989; la demolizione e ricostruzione può prevedere aumenti fino al 40% della cubatura e fino al 40% della superficie coperta a seconda delle destinazioni, percentuali che possono essere elevate fino al 50% nel caso della ricomposizione volumetrica nell’ambito di un piano attuativo.

Va evidenziata la modifica della nozione stessa di ristrutturazione: il piano casa prevede che in caso di demolizione e ricostruzione possano essere mantenute le distanze precedenti, incidendo sulla consolidata prassi derivata da decenni di evoluzione normativa e da decenni di giurisprudenza, in base alla quale tutto ciò che è qualificato come “aliquid novi” deve rispettare i distacchi previsti dalle normative nazionali e dagli strumenti urbanistici. Va evidenziato che questa è una disposizione non legata agli interventi da realizzare con il “piano casa” ma a regime. Quindi con una normativa che ha valenza economica finanziaria si va ad incidere sulla delicata questione dei distacchi in probabile contrasto, ad esempio, con l'articolo 9 del decreto interministeriale 1444/1965, che stabilisce le distanze minime tra i fabbricati.

Dagli interventi suddetti non sono esclusi i fabbricati ricadenti in zona agricola anche nel caso in cui l’edificio non sia più funzionale alla conduzione del fondo, in aperto contrasto con quanto disposto dalla legge urbanistica regionale se non altro nelle more di approvazione del primo Piano di assetto del territorio. Nello specifico per la prima casa di abitazione ricadente in zona agricola è ammesso l’ampliamento calcolato non sulla volumetria esistente, ma sulla volumetria massima realizzabile.

Inoltre, le disposizioni si applicano anche a edifici soggetti a specifiche forme di tutela (ad es. “gradi di protezione”) a condzione, in questo caso, che gli interventi siano conformi alla normativa statale e regionale e agli strumenti urbanistici e territoriali.

Di immediata applicazione, infine, la facoltà di realizzare pensiline o tettoie destinate all’installazione di impianti solari e fotovoltaici, le quali non concorrono a formare cubatura nel caso in cui la superficie coperta non superi i 60 mq.

Evidenti sono le distorsioni che tale normativa comporta e i rischi ad essa connessi. Emergono subito il fallimento della pianificazione territoriale ad ogni livello e il fallimento degli intenti della nuova legge urbanistica regionale. Viene inoltre da chiedersi a cosa siano servite tutte le verifiche attuate dagli uffici tencici negli anni passati, per garantire la corretta attuazione dei piani regolatori generali con particolare riferimento al loro dimensionamento.

Quali, inoltre, i risultati attesi? Il “piano casa” viene proposto dai media come indirizzato a favorire la ripresa del settore edilizio e a permettere alle famiglie che hanno una casetta di aggiungere la stanza per il secondo figlio senza la difficoltà dei soliti “lacci e lacciuoli”.

Premesso che, gli interventi su case a schiera o condomini sono praticamente resi impossibili dal necessario accordo di tutti i proprietari, entriamo nel merito dell’equità della norma. L’ampliamento di volume o superficie è proporzionale all’esistente. Come sempre accede in questo paese, chi più ha più avrà: chi possiede una villa di 2000 mc potrà realizzarne ulteriori 400; chi invece possiede un piccolo alloggio, forse riuscirà a realizzare un ripostiglio (per realizzare il quale magari aveva potenzialità edificatoria residua).

Per non parlare di cosa si intende per ampliamento, considerato che la circolare ribadisce che, qualora l’ampliamento compromettesse “l’estetica del fabbricato”, è possibile effettuarlo su un corpo edilizio separato di carattere accessorio e pertinenziale: chi verrà ritenuto depositario della conoscenza necessaria per decidere se l’ampliamento compromette l’estetica del fabbricato non è dato saperlo.

Rimane poi la questione della difficoltà economica in cui versano molte famiglie italiane in questo momento: chi avrà comprato una casa accedendo ad un mutuo, non avrà presumibilmente difficoltà ad impegnarsi economicamente per un ampliamento?

A vantaggio di chi andrà, allora, questa misura (sempre ammesso che vi siano nel territorio le risorse per investire)? Un vantaggio limitato per chi possiede una casa monofamiliare modesta; un grosso vantaggio per chi possedere una grande villa; rimane nebuloso il possibile vantaggio per chi possiede un’attività commerciale essendo gli edifici con questo uso esclusi dai benefici qualora gli interventi “siano volti ad eludere o derogare le disposizioni regionali” (non è dato sapere chi valuterà tutto questo); un enorme vantaggio per chi possiede alberghi e attività produttive. Viene da chiedersi dove sia finita la volontà di fermare il consumo indiscriminato del territorio veneto sottesa alla cosiddetta “Legge blocca capannoni” (LR 35/2002) emanata dalla Regione Veneto in attesa della Legge urbanistica regionale 11/2004.

Un enorme vantaggio, infine, andrà agli avvocati, vista l’altissima probabilità di contenziosi con particolare riferimento alle distanze.

Interessante è, poi, la questione dell’onerosità e delle opere di urbanizzazione. Il comma 4 della LR 14/2009 subordina gli ampliamenti all’esistenza e all’adeguatezza (o il previsto adeguamento) delle opere di urbanizzazione primaria; si specifica che l’eventuale carenza è superabile solo con l’adeguamento delle stesse nei modi consentiti dalla legge. Ad una prima lettura sembrerebbe che sia concesso realizzare in deroga una serie di interventi che incidono pesantemente sul carico urbanistico, previo il pagamento di un contributo di costruzione in misura eventualmente ridotta nelle quantità e modi previsti dai Comuni (salvo che per la prima casa per la quale casistica il contributo è da subito ridotto del 60%; notare che attualmente, ai sensi degli art. 17 comma 3 lettera b. del Testo unico per l’edilizia, gli ampliamenti fino al 20% del volume di case monofamiliari sono esentati dal pagamento del contributo di costruzione) e che, qualora non vi siano le necessarie opere di urbanizzazione queste dovranno essere adeguate non si sa da chi (dal comune?) e non si sa con quali risorse considerata la possibilità della riduzione del contributo di costruzione.

Infine, con riferimento alla retorica della riduzione dei tempi della burocrazia, tanto cara al centro destra, evidenzio che le opere consentite dal Piano casa, avrebbero dovuto essere attuate con Denuncia di inizio attività, intenzione pericolosissima rilevato che, come sa bene chi opera negli uffici tecnici della pubblica amministrazione, la verifica dei requisiti oggettivi (parametri, vincoli, ecc…) da parte dei tecnici progettisti (che nel caso della denuncia di inizio attività si sostituiscono alla pubblica amministrazione nell’attestazione della conformità dell’opera in progetto), in molti casi è errata, certamente anche a causa della complessità dei regolamenti edilizi e le abissali differenze fra i comuni.

In merito al necessario titolo abilitativo, la circolare esplicativa chiarisce che, nella Regione Veneto, rimane la facoltà di realizzare le opere previste dal piano casa con DIA, ma è possibile presentare in alternativa Permesso di cCostruire. Addirittura la presentazione dell’istanza di permesso di costruire è obbligatoria qualora si intenda eseguire un intervento che in parte esuli dall’ambito di applicazione della legge speciale.

Se da un lato questa decisione riduce il rischio di errori (più e meno voluti) nella valutazione dei requisiti per la realizzazione delle opere, dall’altro viene eluso l’obiettivo della riduzione dei tempi che rimangono quelli della normale istanza di un permesso di costruire.

La scelta potrebbe comportare un enorme carico di lavoro per gli uffici tecnici comunali, peraltro ridotti notoriamente all’osso grazie al patto di stabilità, viste sia la quantità delle pratiche che potrebbero pervenire presso i comuni, sia la complessità delle verifiche da effettuare. Ricordo che la percentuale di ampliamento realizzabile è legata alla prestazione energetico-ambentale da valutare mediante il complesso di 34 criteri. Ovviamente, tutto ciò, con lo scopo dell’osannata semplificazione.

Chiunque può pubblicare questo articolo alla condizione di citare l’autore, e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it

«Ma non aggrediamo il paesaggio»

di Giulia Maria Crespi e Fulco Pratesi

(Lettera aperta al presidente del Senato, al presidente della Camera, ai senatori e ai deputati)



IlPaese guarda smarrito le immagini del disastro di Messina e si interroga sulle responsabilità e sul futuro. È evidente che una dissennata e disonesta politica territoriale è sotto accusa; non solo per quanto è successo in Sicilia ma anche per rischi idrogeologici a cui gran parte del nostro territorio è esposto. Su questo quadro allarmante pesa oggi ancora di più la sconsiderata scelta compiuta con il Piano casa, approvato nella Conferenza Stato-Regioni del 31 marzo e sulla quale abbiamo già diffuso valutazioni negative.

L’intervento, come è noto, si proponeva di contribuire al «rilancio dell’economia » con lo scopo di «rispondere anche ai bisogni abitativi delle famiglie». Questo si è tradotto nella possibilità di aumentare le cubature di ville e villette del 20% e di demolire interi edifici per ricostruirli più grandi del 30%. Tutto senza previsioni sugli impatti territoriali che potrebbero essere dirompenti: se solo un decimo degli aventi diritto ampliasse del 20% la propria casa si produrrebbe un volume di cemento di oltre 50 milioni di metri cubi! Quasi come se la città di Milano raddoppiasse in superficie e altezza.

Le finalità del Piano casa sono state fatte proprie, fino ad oggi, da 12 Regioni mentre il Governo non ha emanato quel decreto legge al quale si era impegnato nella Conferenza Stato-Regioni e che avrebbe dovuto costituire una cornice per l’operato locale. Ogni Regione, dunque, su un tema così cruciale come la pianificazione del territorio, ha fatto da sola e in totale assenza dello Stato. La lacunosità dell’intesa è quindi emersa dalla disomogeneità delle leggi regionali come se l’Italia, quando si parla di urbanistica, non fosse una sola; le possibilità di aumentare le cubature variano dal 20 al 65%; a Bolzano e in Lombardia si può liberamente intervenire anche nei centri storici mentre sia in Lombardia che in Valle d’Aosta addirittura nelle aree protette; in Veneto e in Umbria sarà possibile aumentare le cubature degli edifici industriali e nel Lazio di edifici commerciali, con possibilità di cambi nelle destinazioni d’uso per Lazio, Veneto e Valle d’Aosta; le conseguenze saranno devastanti. Molto differenti, inoltre, sono i parametri di risparmio energetico richiesti ai nuovi edifici: da standard protocollati a mere indicazioni generiche non vincolanti.

Ci troviamo oggi nella paradossale situazione in cui le Regioni hanno innovato la normativa in materia di governo del territorio in totale assenza di una legge quadro nazionale e quindi esautorando di fatto il potere legislativo del Parlamento. Perché nessuno ha sollevato dubbi di costituzionalità? Come è possibile che su tante altre questioni si discuta per mesi e sulla gestione del futuro del nostro territorio neanche un minuto? Vi sembra davvero una questione così marginale?

Questo comportamento appare esiziale sia per la palese violazione della omessa disciplina comunitaria in materia di Valutazione Ambientale Strategica, sia per il colpo mortale inferto al concetto stesso di pianificazione in quanto impone ai Comuni una deroga totale ai loro Piani regolatori. Una specie di obbligo a non curarsi della pianificazione che non è errato interpretare come un condono edilizio preventivo.

Gli effetti del Piano casa si tradurranno dunque in una nuova aggressione al paesaggio italiano, tesoro insostituibile e non replicabile e primo attrattore della più grande risorsa economica del Paese: il turismo.

Signori presidenti, a questo punto vi chiediamo di non accettare alcuna proroga al Piano casa e di agire con fermezza sui vostri partiti per porre la massima attenzione a quelle norme regionali non ancora approvate e che toccano regioni dal delicato equilibrio ambientale, quali Campania, Liguria, Sicilia e Sardegna. Vi chiediamo inoltre di avviare un dibattito che porti a nuove misure legislative che fermino il crescente degrado del territorio e del paesaggio ponendo un freno al consumo di suolo; come del resto avviene nei maggiori Paesi europei.

Nessun momento sarebbe più appropriato di questo per affrontare al più alto livello di rappresentanza politica, e dunque in Parlamento, un serio dibattito sull’uso e l’abuso del territorio e sulla tutela del paesaggio che l’articolo 9 della Costituzione pone tra i massimi capisaldi della nostra identità nazionale e che noi auspicheremmo fosse una delle priorità per chi abbiamo eletto a rappresentarci in Parlamento. In un’Italia unita nel dolore per la tragedia evitabile ci aspettiamo da tutti voi, oggi più che mai, una risposta concreta e una seria, onesta e responsabile presa di coscienza.

Giulia Maria Crespipresidente Fai

Fulco Pratesipresidente onorario Wwf Italia

Piano casa, l’Italia delle tante regole (diverse)

diAntonella Baccaro



Ampliamenti e demolizioni: 12 leggi regionali più Bolzano Cambiano i metri cubi concessi in più, i divieti e i permessi

Il federalismo entra nelle case degli italiani. E ne aumenta le cubature. L’annuncio di un Piano casa per il rilancio dell’edilizia, effettuato dal governo Berlusconi all’inizio dell’anno, seguito, a marzo, da un’intesa-quadro Stato-Regioni, ha prodotto finora 12 leggi regionali, la delibera di una Provincia autonoma e poche, pochissime pratiche.

Si è delineata intanto una sorta di «autonomia immobiliare» degli enti locali, ciascuno dei quali ha interpretato a proprio modo il canovaccio dell’intesa Stato-Regioni sui possibili aumenti di cubatura in caso di ampliamenti degli immobili, demolizioni e ricostruzioni. In quell’accordo si stabilivano solo alcuni paletti, tra cui il divieto d’intervenire nei centri storici oppure su aree di inedificabilità assoluta. Nel contempo si lasciava alla determinazione delle Regioni la possibilità di porre ulteriori limiti agli interventi in aree di pregio culturale, paesaggistico o ambientale.

Da parte propria il governo aveva promesso di emanare, nel giro di dieci giorni, un decreto-legge di semplificazione delle procedure edilizie. Ma il provvedimento non c’è ancora mentre la Finanziaria si è limitata a prorogare fino al 2012 l’agevolazione fiscale del 36% per le ristrutturazioni edilizie.



Le magnifiche sette

A tagliare per prime il traguardo del varo della legge sono state in sette: Toscana, la prima, Emilia-Romagna, Umbria, Valle d’Aosta, Piemonte, Puglia e Provincia di Bolzano. In tutti questi ambiti è già scaduto il termine entro il quale i Comuni avevano la possibilità di introdurre proprie limitazioni. A parte la Valle d’Aosta, che non ha posto alcuna scadenza alle agevolazioni, in tutti gli altri casi non si va oltre il 2011: in Piemonte ad esempio, la domanda va presentata entro quel termine, in Emilia-Romagna e Toscana la dichiarazione d’inizio attività (Dia) va depositata entro il 2010, entro la stessa data a Bolzano vanno invece iniziati i lavori. Nel merito degli interventi, Toscana, Emilia-Romagna e Umbria consentono ampliamenti del 20% per edifici residenziali fino a 350 metri quadri, chiedendo in cambio una riqualificazione energetica e l’adeguamento sismico. In Puglia si comprendono anche gli edifici rurali a prevalente uso abitativo. La Provincia di Bolzano consente un aumento di 200 metri cubi, la sopraelevazione e l’intervento, previa autorizzazione, anche nei centri storici. Qui però le demolizioni vengono concesse fino al 50% dell’immobile, ma senza premio in cubatura. In Emilia- Romagna, d’altra parte, il premio per demolire può arrivare fino al 50% se si tratta di delocalizzare un edificio «incongruo». In Toscana qualsiasi intervento è possibile soltanto se i regolamenti comunali consentono «addizioni funzionali» in base a una legge regionale del 2005.



Dall’Abruzzo alla Lombardia

Il 15 ottobre prossimo scade il termine entro il quale i Comuni lombardi potranno limitare l’applicazione della legge regionale. Termini più lunghi hanno i municipi abruzzesi, lucani, laziali e veneti. In Lombardia gli edifici residenziali mono-bifamiliari, ultimati al 31 marzo del 2005, che non superino i 1.200 metri cubi possono ottenere un premio del 20% se, nei lavori di ampliamento, sarà assicurato un risparmio energetico del 10%. Quanto alle demolizioni, è possibile un cambio di destinazione d’uso in residenziale ma senza premio volumetrico. Le domande vanno presentate entro il 15 aprile 2011. Nessun limite di tempo hanno invece i cittadini del Lazio. Qui se si abbatte un immobile che sta sul litorale, delocalizzandolo, e lo si riconverte in struttura ricettiva, si può godere di un premio del 50%. In Abruzzo ampliamenti del 20% sono consentiti solo nel caso venga assicurata l’antisismicità. In Basilicata gli abbattimenti possono godere di un aumento di cubatura del 60% se vengono adottate tecniche di bioedilizia o se si aumenta il verde del 60%. In Veneto si possono ricostruire solo gli immobili, anche non residenziali, realizzati prima del 1989 con un premio del 40%, che diventa del 50% in caso di delocalizzazione. Entro il 30 ottobre i Comuni veneti dovranno pronunciarsi sulla legge regionale, altrimenti varrà solo per la prima casa.



I fanalini di coda

Il Consiglio regionale delle Marche ha approvato il Piano casa mercoledì scorso. Le Regioni mancanti all’appello, Calabria, Campania, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Molise, Sicilia e Sardegna, hanno effettuato solo il passaggio in giunta. La Provincia di Trento non ha aderito all’intesa, confermando gli attuali contributi per le ristrutturazioni senza premi volumetrici.

Interessante il caso della Liguria che ha graduato gli aumenti di cubatura in base alla grandezza dell’edificio: +30% fino a 200 metri cubi, +20% tra i 200 e i 500, +10% tra i 500 e i mille, richiedendo l’adeguamento sismico dell’intero edificio. Un ulteriore 5% può essere ottenuto utilizzando materiale locale come l’ardesia. Limiti sono previsti per le aree delle Cinque Terre e di Portofino.

In Sardegna la giunta ha cercato di utilizzare gli incentivi per delocalizzare gli immobili siti sulla costa: un premio del 40% viene concesso se alla nuova costruzione delocalizzata si applicherà un risparmio energetico del 15%, si arriva a un +45% se il risparmio è del 20%. In Sicilia la legge consente interventi anche sugli edifici coperti da tutela, purché previa autorizzazione.

Finora il governo ha impugnato due leggi regionali: quella pugliese per un codicillo sui parcheggi e quella lucana perché introducendo l’obbligo di un fascicolo del fabbricato, aggrava gli adempimenti e gli oneri amministrativi dei privati.

Sullo stato dell’arte del Piano Casa interviene Confedilizia stigmatizzando il mancato rilancio della locazione attraverso misure come l’incentivo fiscale della cedolare secca del 18-20%: «Nei sette mesi dall’annuncio del Piano Casa — si fa osservare — quegli incentivi avrebbero dato il via alla ristrutturazione di almeno 500 mila dei 700-800 mila immobili inabitabili, attivando lavori di recupero per 7,5 miliardi di euro».

Napoli. Esasperati da quattro mesi di cassa integrazione che coinvolge o sta per coinvolgere 400 dipendenti sui 680 in totale, giovedì mattina gli operai della Fincantieri di Castellammare di Stabia, polo navale di rilievo nazionale, hanno occupato per la seconda volta in tre settimane la statale sorrentina. Traffico paralizzato per ore da e verso le capitali del turismo della costiera amalfitana. Nelle scorse settimane cinque lavoratori dell’Alcatel di Battipaglia si sono barricati in fabbrica minacciando di darsi fuoco per la paventata chiusura dello stabilimento che da lavoro a 200 interni e 300 interinali. La protesta si è chiusa, per ora, solo dopo il blocco della cessione alla Btp Techno srl, che si temeva essere il primo passo verso la dismissione. A Pomigliano d’Arco 5 mila lavoratori della Fiat e 5 mila tute blu dell’indotto arrivano a fine mese grazie ai 200 euro supplementari alla cassa integrazione, stanziati grazie al rimescolamento di alcuni fondi regionali per progetti di formazione e pubblica utilità. La catena di montaggio, che assembla modelli di auto tagliate fuori dagli incentivi sulle rottamazioni, marcia a singhiozzo.

Nubi nere anche sul futuro di Bticino di Torre del Greco, che ha già licenziato 14 lavoratori su 250, della Metalfer di Torre Annunziata, con 100 operai che resteranno disoccupati alla scadenza della cassa integrazione a dicembre, e dell’Avis di Castellammaredi Stabia, 90 operai che sopravvivono tra cassa integrazione e progetti pubblici di integrazione al reddito. L’ultimo rapporto Istat riferisce di 108mila posti di lavoro persi in Campania rispetto al 2008. Altri 2200 posti, sostengono i sindaci dell’area torrese-stabiese in una lettera aperta al Governo, stanno per andare in fumo tra Castellammare e dintorni entro i primi mesi del 2009.

In questo quadro di crisi e di tensione, va avanti in Regione Campania un “Piano Casa” che all’articolo 5 potrebbe rappresentare il via libera verso la definitiva desertificazione industriale. La delibera licenziata a maggio dalla giunta Bassolino e in attesa di approvazione (si vota domani) in consiglio prevede, caso unico in Italia, la possibilità di riconvertire le aree industriali dismesse in aree residenziali.

Evidenti le controindicazioni: si offre un ulteriore incentivo al disinvestimento, si spunta un’arma ai sindacati nel corso delle contrattazioni – le imprese spesso non chiudono perché non è conveniente svuotare capannoni per i quali è impossibile il cambio di destinazione d’uso – c’è il pericolo di ‘premiare‘ imprenditori che dopo aver munto i soldi pubblici dei contratti d’area e degli altri strumenti di programmazione negoziata stanno cercando di abbandonare il campo. E alla finestra c’è la potentissima camorra del napoletano. Il capogruppo regionale di Sinistra Democratica, Tonino Scala, è da mesi che grida l’allarme: “E’ un provvedimentovoluto soltanto per dare ossigeno all’economia edilizia e che qui in Campania rischia di favorire solo la criminalità organizzata, l'unica che ha la liquidità necessaria ad acquistare i capannoni industriali dismessi in zone come Bagnoli o Ponticelli”.

Proprio il destino di Napoli Est, area periferica e degradata dove si concentrano grandi opere incompiute come l’ospedale del Mare, è uno dei grandi punti interrogativi degli effetti di questo piano. Un piano fermo in commissione Urbanistica da tre mesi, schiacciato dal peso di 427 emendamenti: l’ok per ora è arrivato solo per i primi quattro articoli su nove. Ma le pressioni affinché il ddl venga approvato sono fortissime. A cominciare da quelle dell’Ance, l’associazione campana dei costruttori. “Bisogna far presto – ha detto il presidente Nunzio Coraggio nel corso di un convegno organizzato per fare lobbying – superando le logiche di schiarimenti e unarigidità che non ha ragione di esistere”. In nome di una fame di abitazioni, quantificata nel corso del convegno in ben 300mila unità, gli imprenditori del mattone chiedono un’accelerazione che finora il consiglio regionale non ha impresso, rinviandodal 23 al 30 settembre la trattazione in aula (sempre se la commissione ce la farà a licenziare il tutto). Salvatore Vozza, il sindaco di Castellammare che il 4 settembre scorso ha marciato alla testa del corteo Fincantieri, da uomo di sinistra (ex deputato e segretario provinciale Pds, oggi sta con Nichi Vendola) definisce la proposta relativa alle aree industriali “assurda e inaccettabile, perché offre la possibilità a nuove speculazioni su terreno martoriato. In una terra come la nostra il diritto alla casa è sacrosanto quanto quello a un futuro fatto di lavoro e rispetto per l'ambiente". Anche il Pd, attraverso il capogruppo in Regione, il giurista Pietro Ciarlo, si è dissociato dalla delibera della giunta Bassolino, chiedendo modifiche: “Se dovesse passarela linea speculativa, meglio bloccare tutto”. Viene da chiedersi: che fine ha fatto il Bassolino che nel 2003 impugnò il condono edilizio di Berlusconi in nome della difesa del territorio? “Ha ceduto al pensiero berlusconiano – risponde l’urbanista Vezio De Lucia, assessore comunale di Bassolino ai tempi del ‘Rinascimento Napoletano’ – questo piano ha ceduto al pensiero unico del privatistico e del liberalismo: la casa piuttosto che la città, il bisogno individuale contro i valori sociali negativi”.





«Proteggete le bellezze del nostro territorio dal piano casa». Questo l’appello lanciato dalla Fai a tutti i sindaci della Lombardia, a pochi giorni dell’entrata in vigore della legge che permetterà ai cittadini di ampliare, fino al 20%, la volumetria di edifici esistenti.

Entro il 15 di ottobre ogni singola amministrazione comunale dovrà decidere - e quindi comunicare alla Regione - quali aree non potranno essere interessate dall’attuazione del piano casa. Da qui la richiesta della presidente del Fondo ambientale italiano, Giulia Maria Mozzoni Crespi, che con una lettera inviata ai 1546 primi cittadini lombardi invita i Comuni a «prendere coscienza del valore del paesaggio, sia dal punto di vista culturale che ambientale».

La presidente dell’associazione ambientale dà quindi alle amministrazioni alcune linee guida da seguire nella scelta delle aree da preservare: «Bisogna difendere i caratteri identitari del nostro Paese - si legge nella lettera - . Si raccomanda quindi l’esclusione dei centri storici e di tutte le zone di particolare valore paesaggistico e ambientale». E ancora: «Ogni Comune deve attivarsi in tutti i modi per evitare l’ulteriore involgarimento e degrado del nostro territorio a causa di una legge che appare come strumento di disordine ai danni della collettività».

Per polemizzare con Salvatore Settis, Maria Rita Lorenzetti e Riccardo Conti arrivano a scrivere che “le regioni hanno contrastato da sole” l’iniziativa del governo per il piano casa. Tutte le regioni? Anche la Campania? Anche il Veneto? E la benemerita azione regionale è avvenuta “in un assordante silenzio anche della stampa più progressista, dell’opposizione politica e di intellettuali”. Basta sfogliare la cartella di eddyburg relativa al piano casa (La barbara edilizia di Berlusconi) per rendersi conto che, al contrario, oltre a noi di eddyburg, Italia Nostra, una parte non residuale della stampa fra cui la stessa Unità, il giornale sul quale scrivono i due autorevoli esponenti dell’Umbria e della Toscana, da subito, implacabili, hanno scritto e suscitato iniziative contro il piano casa di Berlusconi, tali da produrre anche “ravvedimenti” in extremis (v. il caso Campania).

Non tutte le leggi regionali prodotte da questa sciagurata iniziativa sono uguali nei contenuti, tutte però condividono un’arretratezza culturale di fondo. Quella che fa scrivere a Lorenzetti e Conti che la tutela significa chiudere “i beni culturali e ambientali in un’ illusoria teca di vetro”, e che ricicla un’uguale ipocrisia demagogica nell’affermare che “sinistra significa attenzione per gli edili che perdono il posto di lavoro” riproponendo il vecchio ricatto dell’alternativa inconciliabile fra sviluppo/occupazione e tutela del territorio.

La lezione di alcuni dei più avanzati stati europei (Germania e paesi nordici innanzi tutto) che da anni creano migliaia di nuovi posti di lavoro investendo sulle energie rinnovabili e su riqualificazioni urbane e territoriali, la lezione di Obama che sta spingendo il più potente stato del mondo verso una grandiosa riconversione industriale (e culturale) in senso ecologico, sapevamo da tempo che sarebbe rimasta inascoltata da un governo culturalmente così rozzo a livello economico, sociale, imprenditoriale come quello attuale.

Duole constatare che simili argomenti che auspicavamo archiviati da vent’anni, siano riproposti da due amministratori di primo piano del centrosinistra.

Toscana e Umbria hanno territori meravigliosi: solo con una tutela integrale dei quali possono continuare ad alimentare un’economia duratura e solida perché fondata innanzi tutto sull’elementare principio della salvaguardia del bene che si vuole utilizzare.

Oltre che culturalmente suicida, una crescita edilizia quale quella prefigurata dal piano casa, è economicamente avventurosa, miope e arcaica.

Ma probabilmente elettoralmente redditizia.

Siamo proprio sicuri che Salvatore Settis abbia ragione quando parla di «fai da te» delle regioni rosse sul piano casa? Le sue recenti osservazioni, prodighe di imprecisioni, sono il frutto di un'interpretazione estremamente soggettiva e confusa della vicenda. Francamente ci lascia stupefatti che un esperto della materia possa prender per buona la propaganda del governo più che la realtà.

Il così detto "Piano casa 2" era una vera emergenza per il territorio, che le regioni hanno contrastato da sole in un assordante silenzio anche della stampa più progressista, dell'opposizione politica e di intellettuali. La sinistra deve rappresentare un universo di valori e interessi che unisce esigenze strategiche e culturali (paesaggio, territorio, sviluppo di qualità delle città), soprattutto in regioni come le nostre, considerate «perle» quanto a valori paesistici, storici, artistici. E qualcuno ne porterà pure il merito se queste regioni, che si sono sviluppate in un periodo in cui, per citare come Settis Romano Prodi, «la devastazione del territorio continua e sarà ricordata anche fra molti secoli come il documento più buio dell'Italia del dopoguerra» hanno mantenuto questo prestigio e bellezza.

Se le soprintendenze hanno agito in tutta Italia, la differenza fra regioni con elevata qualità del paesaggio e regioni meno virtuose l'avrà fatta qualcun altro. Che sia la sensibilità di governi locali, che fin dagli anni 50 hanno trovato, con professionisti e intellettualità, una chiave di sviluppo pianificato dei sistemi territoriali?!

Crediamo che la vera tutela sia lavorare per una società moderna, dinamica, che non chiude i beni culturali e ambientali in una illusoria teca di vetro, prossimi al deperimento. Ma, ecco l'odierno paradosso: Toscana ed Umbria, che si avviano ad approvare il Codice del paesaggio, sono anche le prime regioni che hanno adottato le misure urgenti per l'edilizia. Ciò non solo per un senso delle istituzioni che ci ostiniamo a considerare come un valore fondamentale mentre dal governo, come rileva giustamente anche Settis, non arrivano segnali sul tema. Ma anche perché "sinistra" significa attenzione per gli edili che perdono il posto di lavoro, per i problemi congiunturali, argomenti che sono, invece, utilizzati soltanto come bandiere dal centrodestra.

La nostra scommessa è stata tenere insieme regole urbanistiche e manovre anticongiunturali, ricondurre nelle regole gli interventi d'urgenza. Noi non abbiamo mitigato il male minore, ma cambiato la natura degli interventi proposti, atti a far saltare, magari dal basso, quello che resta dell'assetto urbanistico italiano a favore di un saccheggio edilizio. Sfidiamo Settis a trovare un solo punto all'interno delle leggi regionali toscane ed umbre, pur a termine di 18 mesi, in cui si permetta di agire in deroga al codice del paesaggio che si tratti degli ulivi umbri, dei dolci profili toscani o altro.

I due autori sono rispettivamente Presidente della Regione Umbria e Assessore della Regione Toscana

si veda anche il commento di Maria Pia Guermandi

Mancheranno le case, non le statue. Quando Silvio Berlusconi, a fine settembre (magari il 29, compiendo gli anni), inaugurerà le palazzine condominiali dette "C.a.s.e." nelle frazioni aquilane di Bazzano e Cese di Preturo, i cinquemila nuovi e fortunati inquilini che si saranno piazzati in testa alla classifica delle assegnazioni, avranno davanti agli occhi un esempio (non il peggiore) di maniacalità berlusconiana. Una trentina di statue in marmo "ordinate" due mesi fa dal presidente del consiglio in persona a uno stupefatto sindaco di Carrara, con un semplice telefonata: «Caro sindaco, chi meglio di voi può regalare un po' di statue per i terremotati dell'Aquila?».

Domanda retorica e risposta inevitabilmente favorevole. Unico margine di discrezionalità lasciata al primo cittadino del capoluogo apuano era il soggetto: «A piacere». Le principali aziende carraresi sono ora al lavoro, per rispettare i tempi del regalo richiesto dal premier. Cui preme rispettare la promessa fatta: «A settembre i terremotati potranno avere delle abitazioni confortevoli e belle», assegnandosi un nuovo record mondiale per scolpirlo nel marmo. Poco importa ciò che sta dietro le statue.

In questi giorni le tendopoli dell'Aquila stanno chiudendo, a iniziare dalla più grande, piazza d'Armi. Tutto come annunciato, tutto fatto molto in fretta: mercoledì 2 settembre l'avviso agli sfollati, giovedì l'inizio dell'esodo dei volontari della regione, venerdì la festa di saluto (con karaoke), da sabato i trasferimenti. Non tutti gradevoli e graditi, soprattutto per chi si è visto assegnare una località troppo lontana. Qualcuno ha protestato, qualcun altro non si è mosso. I più sono partiti: per la caserma di Coppito, Avezzano, Tagliacozzo, Ovindoli, Ofena. Ieri a piazza d'Armi c'erano ancora una trentina di persone, quasi tutti anziani e "stranieri", ma se ne andranno presto, anche perché le cucine da campo hanno chiuso i battenti, i bagni sono stati quasi tutti rimossi e quelli rimasti non vengono più puliti, i volontari della Protezione civile dell'Emilia Romagna se ne sono andati tutti, come quasi tutti i loro colleghi delle altre regioni (da aprile e per tutta l'estate ne sono passati 121.000 in tutto l'Abruzzo, dal 10 settembre ce ne sono 800).

Mentre tutto è rimasto nelle mani dell'apparato centrale diretto da Bertolaso, in compagnia dell'esercito. Sono loro che gestiscono lo smantellamento dei campi. Anche facendo il muso duro.

E' Bertolaso, naturalmente, che coordina il tutto. Con un duplice obiettivo: rispettare - almeno formalmente - gli annunci del Presidente del consiglio, evitare che l'emergenza alloggi esploda. Il capo della Protezione civile sa benissimo che il "piano C.a.s.e." non basta. Anche se si calcola che oltre 10.000 aquilani (il 15% della popolazione residente prima del 6 aprile, studenti fuorisede esclusi) abbia trovato una sistemazione per conto proprio nei paesini della cintura e pur considerando che qualche altro migliaio sia rientrato nelle proprie abitazioni (superando un po' di paure), resta il fatto che al 10 settembre le persone assistite erano ancora 37.000: 15.200 in alberghi, 9.600 in alloggi privati, 12.300 nelle tendopoli.

L'obiettivo del "piano C.a.s.e" è fissato a quota 15.000 e comunque non sarà raggiunto prima di febbraio-marzo, perché se Cese e Bazzano sono quasi pronti, gli altri cantieri hanno una tempistica più lunga (e in inverno, visto il clima, non si potrà costruire anche di notte, come si è fatto quest'estate in barba a regolamenti e contratti). Per questo, pur mantenendo il "punto" dell'inaugurazione settembrina da esibire al mondo intero (insieme alle statue), la Protezione civile sta in realtà cambiando i piani e tornando un po' indietro rispetto a quella che sembrava essere un'ideologia indiscutibile: niente container o case provvisorie.

Del resto la realtà è sempre stata un po' diversa da quella enunciata dal duo Bertolaso-Berlusconi. Basta andare a Onna che, essendo divenuta uno dei simboli del terremoto abruzzese, ha potuto derogare dal "piano Case" e batterlo sul tempo, affidandosi alla provincia di Trento e ai suoi costruttori che il 15 settembre inaugureranno un villaggio di 92 casette sorte accanto al borgo da ricostruire, sufficienti per tutti gli abitanti del paese colpito. Ma la stessa cosa è successa - con meno clamore - in molti altri comuni colpiti, costringendo solo il capoluogo alla legge dei nuovi condomini considerati risolutivi della Protezione civile. Che ora - dopo aver a lungo respinto le richieste dei comitati, delle autorità locali - ha aperto alla costruzione di abitazioni provvisorie. Dal primo settembre sono ammessi (anzi, sollecitati) i Map (Moduli abitativi provvisori), in sostanza casette in legno: si stanno già individuando i siti per mille di queste abitazioni.

Non basterà ancora per accogliere tutti durante l'inverno. Così gli alberghi aquilani "offriranno" (si fa per dire) il 75% dei loro posti letto agli sfollati per i prossimi quattro mesi, mentre verranno requisite in via provvisoria (e affittate a prezzo di mercato) le case sfitte. Poi qualcun altro andrà in caserma a Coppito (ce ne sono già 500, ma si arriverà a quota 1.500). Insomma, smembrando comunità vecchie e nuove (persino le tendopoli lo erano diventate) e con un po' più di elasticità rispetto all'inizio, tutti - più o meno - avranno un tetto durante l'inverno.

E, così, il "capolavoro" di Bertolaso è completo: Berlusconi può esibirsi al mondo, l'emergenza continua ma è sotto controllo, le tensioni - quando ci sono - si scaricano nelle "invidie" tra sfollati su presunti privilegi. E lui è sempre più popolare: firma autografi, veste delle sue magliette il maestro Muti, dà il calcio d'inizio a partite di football... quasi una star. Che può permettersi di non rendere pubblico fino alla vigilia dell'apertura scolastica il decreto con i criteri per l'assegnazione delle abitazioni di Bazzano e Cese di Preturo. Criteri che ha già deciso, ma che tiene sul suo tavolo per non dare al mugugno il tempo di diventare protesta (figurarsi, proposta).

E tenere tutto in sospeso, governando con le concessioni e i dinieghi di un signore feudale. Il problema - ulteriore - è che a fine anno Bertolaso e i suoi dovrebbero lasciare il campo alle amministrazioni "normali", ponendo fine all'emergenza e iniziando il tempo della ricostruzione. Difficile crederlo, impossibile immaginarlo guardando ciò che resta del centro storico attraverso il percorso di visita aperto qualche giorno fa: cinquecento metri per sfollati e turisti del terremoto, dove l'Aquila ricorda Pompei.

Si parlerà del piano casa per i giovani al Consiglio dei ministri di oggi, anche se le misure annunciate da Silvio Berlusconi non sono ancora state tradotte in un articolato pronto per l'esame collegiale del Governo.

Fonti di Palazzo Chigi confermano che aggi il tema potrebbe emergere nell'ambito di una più generale discussione imperniata su terni economici e ricordano che la misura annunciata dal premier si raccorda al più ampio progetto del social housing. Progetto cui collabora anche l'agenzia del Demanio, che, come riporta l'agenzia Radiocor, sta portando avanti il censimento dei beni demaniali - aree e immobili - passibili di un utilizzo e di una riconversione all'insegna dell'edilizia a basso costo. Allo stesso fine contribuiranno anche le strutture gestite dagli ex Iacp, con la vendita, anche ai giovani sposi, con mutuo a tasso agevolato, o con la demolizione e costruzione di nuovi edifici. Il patrimonio ex lacp interessate dal piano conta circa un milione di appartamenti,

Non è, però, ancora terminata la mappatura del Demanio, per selezionare il parco aree al servizio del piano casa, E' poi scontato che per il piano serva la collaborazione di Regioni e Comuni, sia per le procedure urbanistiche che per l'individuazione di ulteriori aree a basso costo.

Fondamentale poi il ruolo dei privati, che hanno preso molto sulk serio l’ultimo annuncio di Berlusconi. «Ned abbiamo parlato a lungo questa mattina in un incontro anche con il mondo delle cooperative», riferisce Claudio de Albertis, presidente dei costruttori di Milano (Assismpredil), la città che più di altre sta sperimentando le soluzioni di social housing. «I1 ragionamento di Berlusconi é giusto - giudica de Albertls - oggi ci vogliono interventi di grandi dimensioni, con prodotti pensati per singole categorie, come appunto le giovani coppie. Un esempio è quello che si è fatto in Abruzzo, dove si é realizzato un prodotto in tempi rapidi che costa meno». C'e pero ancora molto da fare, secondo il presidente dei costruttori privati milanesi, su vari fronti: «Il quadro normativo é quella del 1950, sotto il profilo architettonico, igienico-sanitario e tecnologico», Sul prodotto «bisogna aprire il confronto a progettisti per lavorare sull'innovazione di qualità e di prestazione. All'Aquila ho visto progetti molto belli da un punto di vista architettonico. C'è effettivamente una nuova stagione che si apre». «C'è poi il problema finanziario, risolvibile con un mix di possibilità per mantenere basso il costo del denaro, e in ogni caso con l'equity di imprese e operatori», l poi c'è la gestione: se si pensa al riscatto o al patto di futura vendita, la gestione pesa per anni sull'operatore privato.

L'annuncio del premier non convince 1'Anci. «Del progetto cento cîtta avevo sentito parlare tre anni fa, quando una delegazione del governo Prodi, insieme a imprenditori, si recò in Cina per studiare un progetto per il contenimento della forte ondata migratoria che dalle campagne portava la popolazione cinese verso le città - commenta il presidente della consulta Casa dell'Anci, Roberto Tricarico -, Evidenetemente il governo Berlusconi intende mutuare quel progetto adattandolo all’Italia, che invece dovrebbe lavorare per usare lo spazio esistente al Nord come al Sud, conseguente al processo di deindustrializzazione del Paese».

Ha ragione Rosa Serrano (la Repubblica, 28 agosto) di parlare di «fai-da-te» delle regioni sul «piano-casa», con conseguente «giungla di regole». Ma c’è di più. L’accordo-beffa del 1° aprile (data ben scelta, non c’è che dire) prevedeva una precisa sequenza: il governo s’impegnava a emanare entro 10 giorni un decreto-legge di «semplificazioni normative», di fatto un maxi-condono edilizio preventivo; le regioni avevano poi tre mesi di tempo per emanare le proprie norme. Cinque mesi sono passati senza che il governo abbia emanato il suo decreto; intanto, come ha scritto Rosa Serrano, «sono 12 le leggi già pronte, altre 8 allo studio», ma alla scadenza di tre mesi di cui all’accordo del 1° aprile solo due regioni (Toscana e Umbria) e la provincia autonoma di Bolzano avevano emanato la propria legge. È dunque evidente che l’accordo del 1 aprile è saltato.

Una cosa hanno in comune le norme regionali, varate o da varare: sono illegittime, perché prevedono deroghe al Codice dei Beni culturali e ad altre leggi dello Stato, dunque vanno oltre la competenza delle regioni. L’ordine logico e cronologico è quello previsto il 1° aprile: prima una legge-quadro statale, dopo le leggi regionali, di natura attuativa. Se il governo le impugnasse alla Corte Costituzionale, cadrebbero con un sol colpo di bowling, ma è improbabile che accada. Due gli scenari possibili: primo, il governo aspetta che tutte le regioni abbiano fatto la propria leggina per poi «adeguarsi» con una legge nazionale giustificata, esautorando il Parlamento, come l’esito di una spinta dal basso. Secondo scenario: la norma nazionale non viene mai emanata, il governo fa finta che l’accordo del 1 aprile sia un surrogato della legge e, in connivenza con le regioni, omette di impugnare le loro leggine davanti alla Corte, come dovrebbe.

In questo teatrino della politica, vittima della beffa è il paesaggio come bene comune, cioè noi. L’aggiunta di volumetrie vietate fu l’oggetto dei condoni edilizi di Berlusconi deprecati dalla sinistra; ma ora le regioni «di sinistra», sbandierando la dubbia etica del male minore, difendono il proprio piano-casa con un argomento miserevole: perché esso consente devastazioni minori di quelli delle regioni «di destra». La differenza fra destra e sinistra non è dunque nel rispetto delle leggi, ma nella misura in cui esse vengono violate. Per esempio l’Umbria, la cui presidente Lorenzetti aveva dichiarato all’Unità che il piano-casa di Berlusconi «favorisce l’abuso e distrugge il territorio», ha prodotto una legge che legittima persino l’abbattimento degli uliveti (in Umbria!) in favore di progetti edilizi. Italia Nostra ha denunciato il «piano per la cementificazione dell’Umbria» alla Commissione Europea per infrazione del principio di sviluppo sostenibile, e ha chiesto al governo di impugnarlo per incostituzionalità.

La convergenza fra governo e «opposizione» non è un caso, è il cuore del problema. La nuova disciplina di tutela del paesaggio, che prevede la pianificazione congiunta Stato-Regioni e «il minor consumo del territorio», è in un Codice bipartisan, prodotto da due governi Berlusconi e da un governo Prodi. Ma non meno trasversale è stata la decisione di rinviarne tre volte l’entrata in vigore, ora prevista al 1° gennaio 2010. Intanto, la devastazione dell’agro romano continua quale che sia il segno politico delle amministrazioni regionale e comunale. L’ottimo rapporto 2009 della Società Geografica Italiana (curato da Massimo Quaini) analizza il caso di Malagrotta, luogo di nuove lottizzazioni con 50.000 abitanti e di alcuni ipermercati, ma anche di una raffineria petrolchimica e della più vasta discarica d’Europa, che assorbe ogni giorno 5000 tonnellate di rifiuti, compresi (fino al 2008) i fanghi di depuratori e fogne: la gloriosa Campagna romana è diventata un paesaggio di morte. L’amministrazione dei beni culturali ha dato da poco un ottimo segnale con un vincolo di tutela paesaggistica (applicando per la prima volta l’art. 138 del Codice) sul vasto territorio a sud di Roma (fra Laurentina e Ardeatina), dove casali, torri e acquedotti ancora connotano un paesaggio amato da Goethe e Stendhal. Eppure Comune e regione sono subito scesi in campo: per Alemanno il vincolo è un «fulmine a ciel sereno», per la regione Lazio è inaccettabile perché «non tiene conto della pianificazione intrapresa». Destra e sinistra accorrono in soccorso dei palazzinari che vogliono cementificare anche questo lembo prodigiosamente (quasi) intatto di Campagna. Il Ministero ha finora resistito, e questo vincolo sull’agro romano, per la sua straordinaria importanza, ha ormai il valore di un simbolo e di una cartina di tornasole. Questa istruttiva vicenda mostra che l’amministrazione dei beni culturali (lo Stato) ha a cura la tutela del paesaggio molto più delle amministrazioni locali; la partita fra Stato e regioni è assai più decisiva della differenza di colore politico fra Veltroni e Alemanno o fra Storace e Marrazzo.

Il paesaggio è il grande malato d’Italia. Il rapporto Istat 2009 registra un incremento del costruito di 3,1 miliardi di metri cubi nel decennio 1995-2006, nonché l’evoluzione in senso meramente consumistico del rapporto popolazione-territorio, che va verso «la saturazione territoriale, in nessun caso sostenibile». Ma i dati Istat sono approssimati per difetto: nel 2008 l’Agenzia del Territorio ha scoperto un milione e mezzo di fabbricati abusivi, una vera megalopoli fantasma (Paolo Biondani sull’Espresso del 6 agosto). Come ha scritto Romano Prodi, «la devastazione del territorio continua e sarà ricordata anche fra molti secoli come il documento più buio dell’Italia del dopoguerra» (Il Messaggero, 26 agosto). Una situazione così drammatica impone di fermarsi a pensare. E’ necessario ripartire dai valori della Costituzione: il paesaggio come bene comune, luogo identitario, orizzonte del benessere e della qualità della vita. Nell’incultura e incoerenza diffuse in tutte le forze politiche, resta un soggetto che può e deve riaffermarlo con forza. Noi, i cittadini.

Il provvidenziale flop (per ora) del piano casa versione Bassolino è l’ultimo episodio di una complessa partita che il centrosinistra campano sta giocando da quindici anni con se stesso e con il suo elettorato di riferimento.

All’inizio c’è il piano regolatore di Napoli, un piano subito accusato di dirigismo, e che invece rappresenta il più alto momento di democrazia partecipata che la città abbia mai conosciuto. Le scelte che quel piano proponeva furono infatti discusse in decine di assemblee pubbliche con i cittadini, le associazioni, gli operatori economici. Fu in quei mesi che il centrosinistra costruì le basi del consenso, con l’assessore De Lucia che finì inevitabilmente per divenire il volto più credibile e apprezzato della nuova amministrazione, probabilmente più ancora dello stesso Bassolino.

Incredibilmente a questo punto, invece di raccogliere i frutti del lavoro svolto dedicandosi seriamente all’attuazione del piano, lo stesso centrosinistra, che governa anche la provincia, propone un piano territoriale che sconfessa completamente il Prg del capoluogo. Tra le altre cose, il piano provinciale cancella del tutto il Parco delle colline di Napoli, la grande infrastruttura verde nata per tutelare i 2.200 ettari di boschi e masserie miracolosamente scampati al sacco edilizio, e al suo posto rispolvera le vecchie lottizzazioni. Succede il finimondo. Per bloccare il piano provinciale le associazioni ambientaliste, gli agricoltori, i comitati locali si riuniscono in un coordinamento permanente. Per un mese i media nazionali seguono con risalto la vicenda, che si conclude con le dimissioni dell’assessore, il ritiro del piano provinciale, e le pubbliche scuse su Repubblica del segretario regionale Ds.

Il centrosinistra accusa il colpo e si rimette al lavoro, anche per dimostrare di aver appreso la lezione. Viene allora il turno della Regione, che propone un piano territoriale (il primo dopo quarant’anni) che fa sua la strategia di Napoli, mettendo al sicuro centri storici, paesaggio e territorio rurale, puntando tutto sulla riqualificazione dell’esistente e sul recupero delle aree dismesse e inquinate, mettendo finalmente un freno al consumo di suolo. Così come avvenuto per il Prg di Napoli, il piano regionale viene discusso in numerose conferenze e assemblee pubbliche, con migliaia di osservazioni, valutate e controdedotte una per una. Sull’onda della massiccia partecipazione il piano viene approvato dal consiglio regionale quasi all’unanimità, in una versione addirittura migliorata rispetto a quella licenziata dalla giunta.

E’ a questo punto della storia che spunta fuori la scellerata proposta di piano casa in versione vesuviana. Una proposta incredibile che, travalicando i contenuti dell’accordo Stato-Regioni, liberalizza di fatto la riconversione abitativa delle aree produttive, anche di quelle attive, affidando l’iniziativa alla proprietà fondiaria, in deroga ai piani vigenti, esautorando a tempo indeterminato sindaci ed amministratori. Ancora una volta sarebbe il de profundis per il Prg di Napoli e per il piano regionale fresco di approvazione, se non ci fosse l’energica reazione delle associazioni, anche di quelle professionali, che reclamano il ritiro del provvedimento, o almeno la sua radicale modifica. Il consiglio regionale, convocato ad oltranza per l’approvazione, preferisce a questo punto soprassedere, grazie alla decisa presa di posizione della Sinistra, e di pochi consiglieri più avvertiti del Pd. Se ne riparlerà a settembre (cioè ora).

La morale, se è possibile trovarne una in tutta questa scombinata vicenda, è un po’ desolante, ed è quella di un centrosinistra spaventato dai suoi successi, infastidito dal consenso, fragile e disorientato quando scopre che le cose che fa sono troppo distanti da quelle appuntate nell’agenda del satrapo col cerone.

ROMA - Il federalismo si è materializzato con il piano casa. Sono dodici le Regioni - compresa anche la Provincia autonoma di Bolzano - che hanno già approvato una legge per consentire l’ampliamento o la ricostruzione di immobili. L’accordo Stato-Regioni prevedeva che entro il 10 aprile sarebbe stato emanato un provvedimento d’urgenza per semplificare, fra l’altro, le procedure abilitative e permettere l’avvio sprint dei lavori di estensione delle abitazioni esistenti. Il decreto legge non è arrivato ma l’idea lanciata dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi di invertire il trend negativo del settore delle costruzioni - concedendo cubature aggiuntive ai proprietari che volevano allargare o ricostruire i loro edifici - non è rimasta sulla carta. Così le Regioni hanno fatto da sole. Con regole differenti e con possibilità di ampliamenti che, in molti casi, vengono estesi anche ai fabbricati non residenziali. E alle dodici potrebbero aggiungersene presto altre: sono infatti otto i disegni di legge delle giunte regionali che saranno sottoposti nei prossimi mesi all’approvazione dei rispettivi consigli.

Il primo tassello del piano casa federale lo ha messo la Toscana, limitando i premi di ampliamento a edifici mono e bifamiliari o, in ogni caso, con una superficie non superiore ai 350 metri quadrati. In pratica, l’aumento del volume del 20% non può superare i 70 metri quadrati. Disco rosso, invece, per gli immobili adibiti ad attività produttive. Di tutt’altro tenore la legge del Veneto, molto più generosa. Il bonus per ampliamento degli edifici viene riconosciuto nei limiti del 20% del volume se destinati ad uso abitativo e del 20% della superficie coperta se utilizzati, ad esempio, per l’esercizio di attività economiche. E in alcune ipotesi è ammessa la realizzazione di un corpo edilizio separato. Il piano casa veneto premia, inoltre, operazioni di abbattimento e ricostruzione degli edifici costruiti prima del 1989, con aumenti di volume (per le case) e di superficie (per gli edifici non residenziali) fino al 40%, in deroga agli strumenti urbanistici, a condizione, però, che gli interventi siano compatibili con la destinazione urbanistica dell’area, non modifichino l’utilizzo degli edifici e impieghino tecniche di edilizia sostenibile e fonti di energia rinnovabile. Sia gli ampliamenti che le ricostruzioni sono subordinate al via libera da parte dei Comuni: entro il 30 ottobre 2009 dovranno decidere se e con quali ulteriori limiti e modalità applicare la nuova normativa regionale. Per entrambi gli interventi edilizi, il contributo di costruzione è ridotto del 60% nell’ipotesi di edificio destinato a prima abitazione del proprietario. Gli interventi non possono essere realizzati per gli edifici situati all’interno dei centri storici.

Il Lazio, invece, ha approvato il piano per l’edilizia nella seduta del 6 agosto. Potranno ampliare la loro casa del 20% i proprietari di immobili con volume non superiore a mille metri cubi. L’incremento massimo per l’intero edificio sarà di 62,5 metri quadrati. Il "premio cubatura" del 10% scatta anche per gli edifici a destinazione non residenziale utilizzati per artigianato e piccola industria con superficie non superiore a mille metri quadrati. Ma non si potrà cambiare la destinazione d’uso per dieci anni. Nelle zone agricole, i benefici previsti dalla legge potranno essere utilizzati solo dai coltivatori diretti, dagli imprenditori agricoli a titolo professionale e i loro eredi.

Alcune normative prevedono poi dei superbonus di ampliamento collegati, spesso, a miglioramenti della prestazione energetica o a interventi anti-sismici. Ad esempio, la legge regionale dell’Emilia Romagna stabilisce che, per gli edifici esistenti al 31 marzo 2009 con una superficie non superiore a 350 metri quadrati, l’allargamento è ammesso fino al 20% in più e, in ogni caso, fino ad un massimo di 70 metri quadrati. Sarà possibile estendere l’immobile entro un massimo del 35% (e comunque fino a 130 metri quadrati) applicando i requisiti di prestazione energetica in tutto l’edificio e non solo sulla parte ampliata.

Vedi l'accurata analisi di Legambiente

Sono fra coloro che hanno duramente criticato il ‘piano casa’ del governo perché inutile rispetto agli obiettivi dichiarati, distruttivo del paese e immorale. A differenza di altre Regioni, fra cui spiccano i congruenti estremismi di Veneto e Campania, la Regione Toscana lo ha tradotto in una buona legge. La LR 24/2009, infatti, ha il merito fondamentale di permettere l’ampliamento o la riedificazione solo di una parte del patrimonio edilizio esistente e solo all’interno degli strumenti urbanistici vigenti; impedisce con ciò l’aspetto più nefasto del disegno berlusconiano, il colpo di spugna sulla pianificazione del territorio e il via libera a ogni forma di speculazione.

Più precisamente, la legge limita gli interventi di ampliamento ai casi in cui già i piani regolatori permettono la ‘ristrutturazione edilizia con incrementi volumetrici’. Quanto agli interventi di demolizione e ricostruzione, questi sono possibili esclusivamente sull’edilizia abitativa, senza cambio di destinazione. Inoltre, i provvedimenti non si applicano nei centri storici o nelle parti del territorio ad essi assimilate, a immobili vincolati o dichiarati di interesse storico-culturale dagli strumenti urbanistici, nei parchi o nelle riserve naturali, in zone di pericolosità idrogeologica e all’interno dei piani attuativi. Viene così disinnescata la peggiore pillola avvelenata del disegno di legge statale, la possibilità di riconvertire i capannoni dismessi o inutilmente costruiti con la Tremonti bis, e magari da ricostruire con la Tremonti ter, come residenze ed uffici. Se si considera, inoltre, che tutti gli interventi sono condizionati dall’utilizzazione di tecniche di sostenibilità ambientale e di risparmio energetico (nonché dall’eliminazione delle barriere architettoniche), si può sostenere che la legge, se correttamente applicata, potrebbe avere un impatto positivo sul patrimonio edilizio regionale. Un risultato non di poco conto e addirittura brillante se confrontato a quanto legiferato dalle altre regioni.

Chi critica la legge, sostenendo che comunque la Regione Toscana avrebbe potuto ignorare il ‘piano casa’ del governo, trattandosi di materia di esclusiva competenza regionale, non tiene conto che un rifiuto secco, data la popolarità dell’abuso edilizio, sarebbe stato un suicidio politico. Il fatto che la Regione Toscana abbia approvato rapidamente la legge (con l’astensione dell’opposizione), a mio parere - e in ciò dissento da altre osservazioni critiche - è stata una mossa intelligente che ha chiuso la questione prima che si scatenassero le pressioni di proprietari, costruttori, cooperative, professionisti e del potente battaglione edilizio.

Tuttavia il comportamento dei Comuni che ne dovranno dare attuazione può inficiare le potenzialità positive della legge. Sarebbe, infatti, una iattura se le amministrazioni locali rendessero più permissivi gli strumenti urbanistici o riclassificassero in basso le categorie di intervento sul patrimonio edilizio, in particolare nel territorio rurale, per ampliare e rendere possibile ciò che la Regione ha voluto limitare. E qui torniamo ad un punto dolente, al vero nodo di fondo che mette in crisi sistematicamente le buone intenzioni di governo del territorio della Toscana espresse anche nel PIT recentemente adottato come piano paesaggistico: la delega totale ai Comuni delle politiche urbanistiche reali e la altrettanto totale assenza di controlli e sanzioni, di fronte a plateali violazioni della legge e ad azioni non solo illecite, ma criminose e ripetute nel tempo. Vi è un caso esemplare che interessa un Comune situato in quel ‘patrimonio collinare’ che il piano paesaggistico definisce come ‘invariante strutturale’. Il Comune è Casole d’Elsa: qui la lettura dei verbali della Procura della Repubblica, da poco resi pubblici, dipinge un quadro drammatico e pone interrogativi non solo sulle possibilità, ma anche sulla volontà di controllo da parte degli organismi regionali in presenza di clamorose, insistite, ricorrenti e impudenti violazioni della legge. Il tema è cruciale dal momento che il piano paesaggistico adottato limita drasticamente il potere delle soprintendenze in merito alle autorizzazioni paesaggistiche (ormai richieste solo in casi particolari), trasferendo di fatto ogni potere ai Comuni. Se ciò interessa a qualche lettore di Eddyburg, questo sarà il tema di un prossimo intervento.

Sull’argomento vedi anche Piano casa alla Toscana, in “Eddyburg per Carta” http://eddyburg.it/article/articleview/13341/0/293/

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