La Repubblica, 28 luglio 2013
Es e non ci riescono i vertici dello Stato a espellere i razzisti dalle istituzioni – come ha confermato l’inamovibilità del vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, protetto dal suo partito – ciascuno di noi è chiamato a farsene carico. Il lancio di banane contro una concittadina dalla pelle nera, chiamata dal governo a occuparsi dell’integrazione di milioni di immigrati, ha un nesso inequivocabile con la violenza verbale di chi l’aveva paragonata a un orango. Altri le hanno augurato di subire uno stupro. Hanno appeso manichini insanguinati nei luoghi in cui lei doveva intervenire. Hanno messo in dubbio il suo diritto alla cittadinanza italiana per il fatto di essere nata in Congo. Insinuano che la sua laurea in oculistica la renderebbe inadeguata alla funzione ministeriale. Si lamentano che usufruisca di una scorta di polizia.
Di fronte a queste infamie esprimiamo, certo, ammirazione per il self control mostrato da Cécile Kyenge; e consideriamo elegante il suo sforzo di minimizzare nonostante le continue umiliazioni cui viene sottoposta insieme alla sua famiglia e a tanti altri cittadini che ne condividono il faticoso percorso di vita. Ma se anche lei minimizza, noi non possiamo permettercelo. Mi spiace dissentire da Mara Carfagna: per quanto felice sia la battuta sullo spreco di cibo con cui la ministra ha avuto la prontezza di liquidare a Cervia quel lancio di banane, l’ironia non sarà mai grimaldello sufficiente a controbattere un’azione sistematica d’inciviltà. Illudersi che si tratti solo di pochi “stolti”, parola di Carfagna, è una falsa consolazione. Per favore, non chiudiamo gli occhi di fronte all’evidenza: la pazzesca campagna razzista scatenata contro Kyenge è il condensato di un odio che in Italia si è diffuso anche usufruendo di una prolungata, non più tollerabile, legittimazione dall’alto. Gli “stolti” hanno goduto di comprensione, se non di giustificazione, e così si sono moltiplicati.
Questo razzismo italico ha radici antiche nelle guerre coloniali e nell’antisemitismo novecentesco. Ma negli ultimi vent’anni si è rigenerato anche grazie a un’ostentata, scandalosa tolleranza ai vertici delle istituzioni.
Il 24 luglio scorso, in Francia, il deputato Gilles Bourdouleix si è dovuto dimettere dal suo partito per aver sostenuto, nel corso della visita a un campo rom, che “forse Hitler non ne ha uccisi abbastanza”. Gli stessi giorni, in Italia, Calderoli se l’è cavata con una ramanzina del suo segretario che nel frattempo convocava una manifestazione nazionale contro l’immigrazione clandestina, tanto per fare pari e patta. Perché la xenofobia, più o meno mascherata, viene considerata un’arma politica redditizia cui sarebbe un peccato rinunciare, anziché un limite invalicabile della politica democratica. Gli osservatori internazionali faticano a capacitarsene. Si domandano come sia possibile che un paese membro dell’Unione Europea non disponga di anticorpi sufficienti a estromettere dal dibattito pubblico chi nega la pari dignità fra cittadini in base al luogo di nascita, al colore della pelle, al credo religioso. Ignorano il retaggio storico di cui la destra italiana ancora non è riuscita a liberarsi, neanche quando ha formalmente accettato le regole costituzionali.
Se dunque il razzismo dall’alto precede e giustifica le pulsioni da stadio dei lanciatori di banane, tocca a noi, dal basso, organizzare la catena umana della solidarietà. Giustamente si è già detto, anche da parte del premier Letta, che le offese rivolte a Cécile Kyenge feriscono l’insieme della collettività nazionale. Ora si tratta di mettere in pratica questo sentimento maggioritario della condivisione. La solidarietà a Kyenge, e con lei a tutte le vittime del razzismo residenti in Italia, indipendentemente dal passaporto che hanno in tasca, deve manifestarsi con segni tangibili. Nei giorni scorsi ci ha commosso la foto di gruppo dell’ex presidente americano George Bush che, insieme a tutto il suo staff, si è rasato i capelli per immedesimarsi nell’esperienza di un bambino malato di cancro. L’immedesimazione, appunto. Forse è attraverso questo sentimento potente che la società civile può intraprendere una risposta efficace ai lanciatori di banane e ai loro ispiratori.
«La democrazia italiana è incompiuta. Essendo a disposizione, il suo Stato si fa dispositivo, piattaforma che serve da punto d’appoggio per manovre utili a altri».
La Repubblica, 17 luglio 2013
SIAMO talmente abituati a considerare l’Italia un paese diverso, più sguaiato e uso all’illegalità di altre democrazie, che nella diversità ci siamo installati, e non chiediamo più il perché ma solo il come. Il perché conta invece, è la domanda essenziale se vogliamo capire chi siamo: non una nazione che fa delle leggi le proprie mura di cinta ma un paese immerso nell’anomia, nell’assenza di leggi scritte o non scritte.Di conseguenza, un paese a disposizione. Gli storici forse, o gli antropologi, potrebbero rispondere. Perché siamo una terra dove ben due volte, nell’ultimo decennio, sono stati sequestrati cittadini stranieri con regolari passaporti e deportati con spettacolare violenza nei paesi da cui erano fuggiti per scampare alle torture o alla morte.
Il 17 febbraio 2003 fu il caso dell’imam di Milano, Abu Omar; oggi è toccato a Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov (anche ricercato per frode), e alla figlia di 6 anni Alua: in ambedue le occasioni lo Stato si è inchinato a mafiosi diktat di potenze straniere, sperando che l’affare non venisse mai a galla. Perché siamo sempre in stato di emergenza, di necessità, sempre in mano a governanti che hanno l’impudenza di dire che non sanno quel che fanno, che sono stati aggirati da poteri interni o esterni incontrollati. Perché la fine della guerra fredda non ci ha resi più liberi di fare un’altra politica ma ci ha ancora più seppelliti nella necessità, imbarbarendoci al punto che un vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, può paragonare il ministro di colore Cécile Kyenge a un orango, senza subito decadere dalla carica che ricopre.
Anche questo è anomia: tutto è permesso ai potenti, quando non hanno nulla da temere. Siamo abituati a ingoiare ogni misfatto e a ridacchiare di noi stessi: dei politici che ignorano le proprie azioni, di Calderoli che fa la sua «simpatica battuta», del poliziotto che grida alla Shalabayeva battute analoghe («puttana russa»). L’aggettivo simpatico dilaga nel nostro parlare: Thomas Mann se ne accorse e inorridì, descrivendo l’alba del fascismo nella novella Mario e il Mago. Anche il sequestro di Alma e Alua è orrido.
C’è qualcosa di radicalmente marcio in Italia, se davvero crediamo che un’operazione così vasta (40 uomini della pubblica sicurezza mobilitati per l’assalto) sia nata nelle menti di una polizia del tutto sconnessa dal potere politico. Nella sua inchiesta sulla deportazione di Alma e Alua, Carlo Bonini ricostruisce su Repubblica una storia torbida, che comincia al ministero dell’Interno con un vertice segreto, la mattina del blitz, tra l’ambasciatore kazako Yelemessov, il suo primo consigliere, e il capogabinetto di Alfano, Giuseppe Procaccini. Qui si concorda l’enorme operazione, e la sua natura violenta.
Chi legge l’inchiesta non potrà sottrarsi a sgradevoli reminiscenze: in quelle stesse stanze del Viminale Borsellino, convocato d’urgenza mentre interrogava il pentito Gaspare Mutolo sui patti Stato-mafia, sentì quel che a suo parere aveva precipitato l’assassinio di Falcone, e che 18 giorni dopo avrebbe ucciso anche lui: il «puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità». L’assenza tragica del «fresco profumo della libertà». In quelle stanze non trovò solo il nuovo ministro Mancino. Trovò Contrada, uomo dei Servizi di cui subito intuì la mafiosità. Quel puzzo di compromesso morale permane. Non abbiamo magari tutte le prove ma lo sappiamo: la democrazia italiana è incompiuta. Essendo a disposizione, il suo Stato si fa dispositivo, piattaforma che serve da punto d’appoggio per manovre utili a altri. Il dispositivo intrappola perfino ministri onesti come Emma Bonino, che seppe subito dell’avvenuto sequestro e forse tentò rimedi: ma troppo tardi, troppo in segreto. Ancora una volta Berlusconi è coinvolto, non direttamente come nel caso Abu Omar ma tramite Alfano.
In uno Stato-piattaforma è ineluttabile il patteggiare sotterraneo con poteri esterni o occulti. La democrazia degenera in finzione, i ministri scaricano le colpe sulla polizia, o i Servizi, o i capigabinetto. «Non sapevamo », ripetono: in italiano si chiama omertà. Invece di Alfano s’è dimesso il capogabinetto Procaccini: in stato di necessità i governi non hanno da cadere.
Resta che non basta un gesto, per emendare la democrazia a bassa intensità che siamo diventati.Per riattivare gli anticorpi che ci sveleniscano, e che pure esistono: la Costituzione, i magistrati, i parlamentari liberi, l’informazione indipendente. Non a caso la destra berlusconiana si scatena da anni contro di loro. Li accusa di eversione: non della democrazia, ma dello Stato-dispositivo che domina i cittadini e li depotenzia. Per questo sono state così importanti, nel 2010, le rivelazioni di Wikileaks sulla deportazione di Abu Omar in Egitto, dove poi fu torturato e spezzato. Grazie a loro fu scoperchiata la completa identità di vedute fra Berlusconi e il governo Usa, sull’indipendenza dei giudici italiani. In un cablogramma confidenziale del 2005, gli americani si lamentano dei nostri magistrati. «Sono ferocemente indipendenti. Non rispondono ad alcuna autorità governativa, neanche al ministro della Giustizia. È quasi impossibile dissuaderli dall’agire come vogliono»: cioè dal chiedere l’estradizione degli agenti Cia implicati del sequestro dell’imam. Sotto accusa a quei tempi era Armando Spataro, il procuratore che chiese e infine ottenne la condanna in terzo grado dell’ex direttore del Sismi Pollari e del suo numero due, Marco Mancini. Ma non poté processare gli agenti americani. Il segreto di Stato fu difeso da Berlusconi come dal governo Prodi, l’estradizione venne bloccata. Fu con Enrico Letta, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che l’ambasciatore Usa Ronald Spogli provò a negoziare l’impunità della Cia. Letta non gli rispose a muso duro, come avrebbe dovuto. Già allora amava rinviare, sopire: mandò Spogli dal ministro della Giustizia Mastella, che solerte obbedì al potente alleato. Lo stesso avviene oggi.
Il Kazakistan è uno Stato torturatore ma ricco di petrolio. Il suo Presidente Nazarbayev gode dell’amicizia di Berlusconi. Fin dalla guerra fredda il potere politico a Roma ha questa malleabilità, questa inconsistenza. È uno Stato-non Stato, simile alla Grecia pur avendo avuto una Resistenza che non fu estromessa su pressione americana come a Atene (in una guerra civile di tre anni, dal ‘46 al ’49) ma che pesò, dando vita al Comitato di liberazione nazionale e poi alla Costituzione. Ciononostante siamo andati somigliando a quel che la Grecia fu per decenni: una piattaforma militare, uno Stato in cui i cittadini non credono. Non abbiamo avuto i colonnelli, abbiamo gli anticorpi, ma il miasma fiutato da Borsellino resta. I ministri della Repubblica non sanno la verità che ammettono, quando dicono che i misfatti avvengono «a loro insaputa». Ammettono che i governanti sono marionette, che le elezioni sono inutili: altri decidono chi siamo.
Ritrovare il fresco profumo della libertà è compito nostro e dell’Europa, se non vuole essere anche lei un dispositivo. Urgente è mettere in comune i debiti, ma anche la democrazia, le leggi. Manca l’unione bancaria, ma anche una vincolante Costituzione comune: che bandisca le deportazioni di chi trova asilo in terra europea; che dia la cittadinanza agli immigrati nati nell’Unione, perché la «mondializzazione dell’indifferenza » è inevitabile se il diritto del suolo non sostituirà quello del sangue. Una comune legge, infine, dovrebbe vietare ai rappresentanti delle nazioni parole come quelle dette da Calderoli. La politica estera, l’integrazione degli immigrati, il diritto d’asilo non sono a disposizione. Né di signori esterni, né di signori interni che non temono sanzione alcuna, quando imbarbariscono.
La Repubblica, 15 luglio 2015
ROBERTO Calderoli deve dimettersi dalla vice presidenza del Senato perché chi parla come l’ex ministro non è degno di ricoprire alcuna carica istituzionale, tantomeno una così importante, in un paese civile. Punto e basta. Almeno in questo caso, per favore, non apriamo il solito dibattito da talk show, dove tutti hanno un po’ ragione e un po’ torto. Qui la ragione sta tutta da una parte, il torto dall’altra.
Si dirà, ma qual è la novità? Sono ormai vent’anni che sopportiamo il continuo imbarbarimento del discorso pubblico, la progressiva perdita di dignità culturale della politica, archiviando ogni passo verso il baratro dell’intolleranza come occasionale “gaffe”, prontamente seguita da svogliate, ipocrite scuse. Il risultato concreto di questo vecchio che avanza è l’aver ridotto a pezzi l’immagine dell’Italia agli occhi del mondo, l’infelice laboratorio di una regressione collettiva. Allora, che cosa cambia una in più o in meno? Il fatto è che esistono punti di non ritorno e questo dell’offesa di Calderoli al ministro Cécilie Kyenge segnala esattamente questo.
Sarebbe un tragico errore considerare la vicenda come un episodio isolato, per quanto deplorevole, o peggio una semplice voce dal sfuggita. Da un lato l’offesa di Calderoli è il precipitato di un ventennio di sotto cultura politica. Dall’altro, collegato agli altri fatti di questi giorni, annuncia il definito assalto agli ultimi baluardi di opinione pubblica democratica sopravvissuti nel nostro Paese.
Proviamo a guardarci un istante con lo sguardo degli altri. Siamo una nazione finita nelle prime pagine dei giornali stranieri, soltanto nell’ultima settimana, per queste tre notizie. Abbiamo bloccato i lavori del Parlamento in polemica contro una (forse) imminente condanna definitiva di un leader politico per evasione fiscale. Seconda notizia, abbiamo espulso e consegnato nelle mani di un regime dittatoriale in qualche modo amico, o meglio amico degli amici, una donna e una bambina colpevoli soltanto di essere moglie e figlia di un dissidente. Terza notizia, il vice presidente del Senato della Repubblica ha “scherzosamente” definito “un orango” una donna nera che è ministro del governo. Non stiamo a far paragoni con nazioni di superiore civiltà e quindi non staremo a raccontare che cosa sarebbe successo negli Stati Uniti se un vice presidente del senato americano avesse definito “un orango” Condoleeza Rice. Ora, che cosa si può e si deve pensare di un paese in cui tutto questo passa in prescrizione in una sola settimana, senza alcuna assunzione di responsabilità da parte di nessuno, senza conseguenze, confuso nel grigio pietrisco della cronaca quotidiana?
Enrico Letta ha fatto bene a rivolgersi a Roberto Maroni per chiedere le dimissioni di Calderoli. Se Maroni fosse un vero leader politico, invece che un semplice erede, ne coglierebbe l’opportunità istituzionale, politica e personale. Istituzionale perché il presidente della Regione Lombardia è uno dei principali registi dell’Expo 2015, un evento ad alto rischio, il cui (improbabile) successo è legato all’afflusso di “orango” e “bingo bongo” dai paesi emergenti dell’ex Terzo Mondo, dall’Africa, dall’Asia, dal Sud America. Visto che un massiccio arrivo a Milano 2015 di milioni di visitatori californiani o tedeschi o scandinavi, ansiosi di scoprire le novità tecnologiche del-l’Italia è, per usare un eufemismo, piuttosto incerto. Politico e personale perché se davvero la Lega, dismessa la bandiera pur nobile del federalismo, è ormai ridotta a sventolare lo straccio lurido del razzismo, allora non le serve un leader azzimato come Bobo Maroni. È molto più adatto uno dei dobermann addestrati alla caccia allo straniero.
La solerzia dell’Interpol e il repentino via libera dato a Cortese hanno una ragione. Il pomeriggio del 28, l’ambasciatore kazako e il suo primo consigliere salgono anche i gradini del Viminale e vengono ricevuti da un alto dirigente del Dipartimento di Pubblica sicurezza, di fronte al quale ripetono il siparietto della Questura. E devono suonare convincenti, perché vengono rassicurati sul fatto che il blitz ci sarà. Ad horas. Chi è il dirigente? Informa il ministro Angelino Alfano? Fonti qualificate del Viminale, proteggendone l’identità, spiegano che «il nome del dirigente è oggetto dell’inchiesta interna disposta dal ministro». «Anche perché - aggiungono le stesse fonti - quel dirigente non ritiene di dover informare il ministro, né prima, né dopo, della visita e della richiesta dei diplomatici kazaki».
Il passaporto diplomatico. La Farnesina
Alle 7.30 del mattino del 30 maggio, Alma Ablyazov è «una pratica ordinaria» sul tavolo del direttore dell’Ufficio Immigrazione Maurizio Improta. E come tale viene trattata. Burocratica-macinata come le altre 7 mila espulsioni che ogni anno questo ufficio “evade”. La donna racconta di essere rimasta 15 ore senza bere o mangiare. Di non aver avuto accesso a interpreti in grado di spiegare la sua condizione. Va meglio al fratello Bolat che, accompagnato dai poliziotti nella villa di Casalpalocco, ne torna con un permesso di soggiorno rilasciato in Lettonia che lo rende legale nell’area Schengen. Anche Alma ne avrebbe uno identico. Ma non lo mostra, né dice di averlo. Consegna piuttosto alla polizia un passaporto diplomatico della Repubblica Centroafricana. Il documento viene spedito per accertamenti al “Centro falsi documentali” della Polizia di Fiumicino e, il pomeriggio del 30, l’esito è che si tratta di un «falso».
Errori materiali. Un solo dubbio
Il 30 pomeriggio, mentre Alma riesce a incontrare per la prima volta gli avvocati dello studio Vassalli- Olivo, incaricati della sua difesa da uno studio di corrispondenza di Ginevra, il suo destino è già segnato. Il prefetto di Roma Pecoraro vista il decreto di espulsione predisposto dall’Ufficio immigrazione. E poco importa che contenga un paio di significativi errori materiali. Che, nel prestampato, sia rimasta barrata la casella dei precedenti penali (che Alma non ha). E che la donna risulti “già entrata clandestinamente in Italia” nel 2004 dal Brennero (in realtà la segnalazione di polizia riguarda un suo arrivo ad Olbia insieme al marito per una vacanza). Alla vigilia dell’udienza del giudice di Pace che deve decidere dell’espulsione, il pm Eugenio Abbamonte e il Procuratore Giuseppe Pignatone, sollecitati dagli avvocati dello studio Vassalli che prefigurano le ricadute “umanitarie” di quell’espulsione, chiedono all’Ufficio Immigrazione un supplemento di documenti. Che arriva ed è sufficiente al loro nulla-osta.
Non è solo a Bruxelles che l´Italia è sotto esame. Esiste un altro esame che riguarda il tasso di civiltà del paese. E chi ci esamina sono i 5 milioni di abitanti che non sono ancora giuridicamente italiani e che cominciano a desiderare di non diventarlo perché temono non sia possibile convivere con noi. I nodi sono venuti al pettine tutti insieme: e tutti insieme vanno affrontati. Con singolare coincidenza il tentato pogrom di massa di Torino e la sparatoria del ragioniere nazista di Pistoia rivelano una diffusione del virus razzista e dell´odio etnico in un´Italia senza attenuanti, l´Italia ricca, colta e civile delle due città che furono le capitali storiche dell´Italia risorgimentale: Torino e Firenze. Anche in questo caso il Paese è costretto a prendere brutalmente coscienza di qualcosa che è accaduto quasi sotto pelle, strisciando, riempiendo goccia a goccia gli interstizi sociali della convivenza, le maniere di pensare, i comportamenti, le pratiche istituzionali. Chi ricorda ancora il decreto Maroni sull´"emergenza nomadi" del 2008? Proprio in questi giorni, appena caduto il governo Berlusconi-Bossi, il Consiglio di Stato ha dato ragione alla sentenza del Tar di Roma che aveva bocciato il decreto e ha avviato lo smantellamento delle sovrastrutture amministrative create per quella minacciata, fantomatica emergenza. Ma chi smantellerà un pregiudizio che si è intanto radicato in profondità e si esprime nello stillicidio di una violenza quotidiana fatta di discriminazione a piccole dosi, per lo più impalpabile, diffusa nell´aria che si respira? Non basta la caduta del governo che ha lungamente e pervicacemente cavalcato il populismo e l´ostilità etnica come strumento di dominio sulle menti impaurite della sua base. È col suo lascito nella coscienza collettiva che si devono fare i conti. Si pensi a tutto il parlare di identità, l´odiosa parola che ha eretto un muro di differenza e di diffidenza verso tutto ciò che viene da fuori, che non coincide con le abitudini e coi pregiudizi dell´autosufficienza.
E quando si parla di mercatini delle città italiane come quelli di Piazza Dalmazia e di San Lorenzo, si dovrebbe provare a fare il conto delle misure vessatorie contro quei tappetini stesi sui marciapiedi, contro i borsoni dei venditori africani. Noi forse le abbiamo dimenticate. Ma loro no: è sulla pelle dei discriminati che l´odio e la sopraffazione lasciano il segno. Noi, gli italiani: loro, gli altri. Ecco la parola che fa problema: italiani. È venuto il momento di ridefinire questa parola. Il problema, come ha segnalato il presidente Napolitano, è quello della cittadinanza: che da noi ha un connotato sostanziale del razzismo, impermeabile com´è al dato di realtà del nascere, vivere e lavorare in un luogo. È una questione urgentissima. I segnali di questi giorni hanno portato allo scoperto il fondo melmoso e fetido dove si è iscritto il razzismo come vincolo sociale tipico della società dove vige l´eccezione giuridica.
Un anno fa il rapporto sul razzismo in Italia firmato da Alfredo Alietti e Dario Padovan ha denunciato la diffusione di tendenze razziste nel 51% della popolazione italiana: un numero che coincide con la percentuale di chi si ritrae dalla partecipazione politica. Non a caso. Nella società dell´eccezione giuridica la cultura del razzismo è un sentimento di rifiuto e di diffidenza verso tutto ciò che viene da fuori. È qui che bisogna incidere. E non bastano i buoni propositi. Certo è di buon auspicio il fatto che il ministro Andrea Riccardi abbia rilanciato l´invito giunto dal presidente della Repubblica proprio davanti alla tomba di Jerry Maslo, il sudafricano ucciso a Villa Literno. Ma, come e più che per altre urgenze italiane, quella culturale e giuridica del diritto di cittadinanza non può più essere rinviata. Ce lo diceva lo sguardo dei senegalesi riuniti a Firenze: quei morti loro devono diventare i nostri morti.
Un pogrom. Diciamola la parola, per terribile che possa apparire. Quello di Torino è stato un pogrom in senso proprio, come quelli che avvenivano nella Russia ottocentesca. O nella Germania degli anni Trenta. Di quei riti crudeli ha tutti gli elementi, a cominciare dall'uso distruttivo del fuoco, per liberare la comunità dall'intruso considerato infetto (per "purificarla", si dice). E poi l'occasione scatenante, trovata in un presunto - e falso - atto di violenza su una vittima per sua natura innocente (può essere il neonato "rubato", come qualche anno fa a Ponticelli o, appunto, la "vergine" violentata). E lo stato di folla che s'inebria della propria furia vendicatrice, convinta di compiere un "atto di giustizia".
Ora, che il mostro si sia materializzato, in questo dicembre del 2011, a Torino dovrebbe farci riflettere. Qui, nella ex "capitale operaia". Nella città delle lotte del lavoro, dove è nata la nostra democrazia industriale. Né serve ripetere la stanca litania che Torino è un esempio di "integrazione e di accoglienza". Che la maggioranza la pensa diversamente dalle poche decine di invasati che a colpi di fiaccola e di accendino ha tentato una strage. Non è così.
Se una ragazzina spaventata e (per questo) bugiarda ha evocato i "due zingari" per accreditare una violenza mai avvenuta, è perché ha pensato che quell'immagine rendesse credibile - in famiglia e nel quartiere - un racconto altrimenti improbabile. Se centinaia di persone sono scese in piazza in una fredda serata d'inverno per manifestare, non è purtroppo perché si trattava di una violenza sessuale (quante sono passate ignorate in questi anni!), ma perché i suoi presunti (e falsi) autori erano di un'etnia odiata a priori. Se le decine di incendiari hanno potuto agire sotto lo sguardo compiacente degli altri abitanti del quartiere, è perché mettevano in scena un comportamento condiviso.
La verità è che la "città dell'accoglienza" è oggi priva di anticorpi contro i nuovi mostri che emergono dalle sue viscere provate dalla crisi. Politica e informazione ne sono responsabili. Da anni ogni discussione in Consiglio comunale sui "campi nomadi" si apre e si chiude sempre e solo su un unico tema, gli sgomberi. E il quotidiano cittadino La Stampa ha dato notizia del fatto, poco prima che la sedicenne confessasse, sotto l'indecente titolo a quattro colonne: «Mette in fuga i due rom che violentano la sorella». Perché i giovani balordi delle Vallette dovrebbero essere migliori dei loro amministratori e giornalisti? Perché gli abitanti sbrindellati, spaesati e logorati dai debiti e dalla disoccupazione, di questo che era, fino a tre decenni fa, il quartiere dormitorio dov'era stokkata la forza-lavoro di Mirafiori e del Lingotto, e dove ora si accumulano i detriti di una composizione sociale in disfacimento, dovrebbero essere più consapevoli, e "politicamente corretti", delle loro élites?
Torino, da anni, si compiace della bellezza ritrovata del proprio centro, brillante e patinato. Del fascino delle proprie piazze-vetrine e delle dimore sabaude restaurate. Oggi scopriamo che quel centro geometrico e luccicante è un po' come il volto intatto ed eternamente giovane di Dorian Gray - l'inquietante personaggio di Oscar Wilde -, mentre il suo ritratto, invecchiato e sfregiato, lo si può scorgere qua, nel quartiere di periferia dove si è scaricata tutta la carica di degrado e di bruttura accumulata in questi anni: lo sfarinamento della sua industria, l'erosione dei diritti sociali, l'impoverimento e la precarizzazione del lavoro, la crisi della socialità e della solidarietà. Tra il vuoto di diritti e di potere che si è aperto a Mirafiori, e questo pieno di rancore e di passioni funeste che si è condensato nel suo antico dormitorio, corre il filo nero di un'infausta profezia.
Auguriamoci che Torino non sia, ancora una volta, "laboratorio". Che non anticipi i segni di un'involuzione antropologica mortale. Il lungo piano inclinato della crisi, via via più ripido, lascia intravvedere inediti scenari weimariani, minacce fino a ieri impensabili. Il conflitto sociale, rimosso ed esorcizzato al vertice, rischia di ricomparire al fondo della piramide sociale, con il volto sfregiato della "folla criminale", del linciaggio e della ricerca feroce del capro espiatorio. Se la caduta dovesse accelerare, e la situazione precipitare, allora, con molta probabilità, il pogrom di Torino non resterebbe un fatto isolato.
IMMIGRATI In settimana la conversione del decreto che allunga i tempi di detenzione. Giornalisti, parlamentari e associazioni contro il divieto di ingresso nei centri imposto dal ministro Maroni
«Questo posto è un monumento alla violazione della Costituzione». Così il deputato del Pd Furio Colombo ha definito il Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria, al termine di una visita di due ore condotta insieme ai colleghi parlamentari Rosa Calipari, Andrea Sarubbi, Livia Turco, Vincenzo Vita (tutti del Pd) e Pancho Pardi (Idv). Una visita che si inserisce in una giornata di mobilitazione nazionale contro la chiusura dell'accesso a tutti i centri per immigrati - i Cie ma anche i Cara, dove sono ospitati i richiedenti asilo a gran parte delle associazioni e alla stampa, decretata con una semplice circolare dal ministero degli Interni il 1˚ aprile scorso.
Una circolare con cui il Viminale vieta l'accesso fino a nuovo ordine in tutti i centri ai giornalisti «per non intralciare le attività rivolte» alle persone all'interno. Lanciata dalla Federazione nazionale della stampa (Fnsi), dall'ordine dei giornalisti, dai parlamentari che hanno partecipato, da varie sigle dell'associazionismo e dai singoli giornalisti che il 26 maggio scorso hanno firmato un appello per ottenere l'accesso ai Cie (pubblicato in prima pagina su questo giornale), la mobilitazione - significativamente denominata LasciateCIEntrare - ha visto visite ispettive in 12 centri in giro per la penisola, condotte da 36 parlamentari (unici soggetti cui non è possibile impedire l'accesso, insieme a poche altre organizzazioni internazionali).
Visite che hanno fatto emergere una situazione di grave emergenza, soprattutto all'interno dei Centri di identificazione ed espulsione. Dopo l'approvazione del decreto che aumenta il periodo di permanenza da sei a 18 mesi (che la maggioranza cercherà di convertire in legge entro la settimana), numerosi sono stati i tentativi di suicidio e vari gli atti di autolesionismo registrati nei centri. «Qui dentro ci sono solo poveri cristi. Gente che non dovrebbe esserci», ha sottolineato la deputata Rosa Calipari all'uscita di Ponte Galeria. Nella struttura alle porte di Roma, come in molti altri Cie soprattutto nel nord Italia, sono infatti trattenuti diversi cittadini stranieri transitati per il carcere. «Queste persone hanno scontato delle pene e, all'uscita, vengono portate qua per identificarle e procedere al loro rimpatrio.
E' un'assurdità», ha evidenziato Livia Turco, che pure è la firmataria (insieme all'allora ministro degli interni e attuale presidente della repubblica Giorgio Napolitano) della legge che nel 1998 creò i cosiddetti Centri di permanenza Temporanea (Cpt), antesignani degli odierni Cie. «I Cpt erano un'altra cosa. Erano istituiti in cui si veniva trattenuti in via eccezionale. E al massimo per 30 giorni», ha puntualizzato Turco. I parlamentari hanno quindi voluto aggiungere alcuni punti programmatici per il futuro, come lo stralcio della norma che prevede l'allungamento del tempo di trattenimento da 6 a 18 mesi e l'abolizione del reato di clandestinità introdotto con il pacchetto sicurezza. «Le cose che abbiamo visto oggi all'interno delle Guantanamo d'Italia targate Maroni, mi hanno convinto ancora di più che la legislazione sull'immigrazione del centrodestra deve essere rasa al suolo, a partire dal suo architrave, quel mostro giuridico chiamato reato di immigrazione clandestina», ha detto il deputato del Pd Jean-Léonard Touadi (Pd), all'uscita della sua visita al Cie di Via Corelli a Milano. Tutti d'accordo sulle critiche all'inasprimento della legislazione sull'immigrazione introdotto dall'attuale governo e dal ministro degli interni Roberto Maroni.
Ma su un punto i parlamentari dell'opposizione non arrivano a esporsi fino in fondo: quello dell'eventuale chiusura dei Cie in quanto tali. «Noi combattiamo il modo in cui sono gestiti questi centri. Così come sono, non hanno ragione di esistere, sono solo strutture detentive», ha detto Livia Turco. All'uscita del Cie di Bari Palese, i deputati Dario Ginefra (Pd) e Pierfelice Zazzera (Idv), ne hanno richiesto l'immediata chiusura. «Il Cie di Bari andrebbe chiuso anche per motivi di sicurezza e questa decisione dovrebbe essere assunta, senza ulteriori esitazioni, sia nell'interesse degli ospiti immigrati che del personale civile e militare in esso operante». E gli altri? I partiti dell'opposizione arriveranno a mettere al centro della loro agenda politica futura la chiusura di tutti i centri?
Volevano liberare il territorio patrio, e quello delle nazioni conquistate - il loro Lebensraum - dalla presenza degli ebrei; per impedire che gli contaminassero razza e costumi; ma non pensavano ancora allo sterminio. Prima avevano cercato di chiuderli nei ghetti: ma «loro» erano troppi e ancora troppo visibili. E si erano resi conto che con i pogrom - famoso è quello della notte dei cristalli - non avrebbero mai risolto il «loro» problema. Poi avevano pensato di deportarli in un paese lontano, in Madagascar; ma era troppo difficile, soprattutto in tempo di guerra. Allora hanno cominciato a ucciderli dove li avevano appena rastrellati, fucilandoli sull'orlo delle fosse comuni che gli avevano fatto scavare. Ma lo spettacolo era sconvolgente e gli schizzi di sangue gli macchiavano le divise. Alla fine hanno inventato le camere a gas e i campi di sterminio: un sistema «asettico», dove hanno convogliato per sopprimerli sei milioni di ebrei. È la storia della Shoah.
Anche noi - sembra - dobbiamo preservare i nostri territori dall'invasione di popoli inferiori ed estranei alle nostre radici giudaico-cristiane. Prima abbiamo usato una legislazione ad hoc e le questure, equiparando la loro esistenza a un crimine e vessandoli in ogni modo con la speranza che se ne andassero. Non ha avuto successo. Poi abbiamo cominciato a internarli in vere e proprie galere, fingendo che fossero luoghi di transito. Ma le hanno riempite tutte subito; e gli altri sono rimasti fuori. Poi siamo andati a bruciare i loro campi e le loro catapecchie, sotto la guida della Lega nelle città del Nord e della camorra in quelle del Sud; o a radere al suolo con i bulldozer campi e fabbriche dismesse dove si insediano sotto la guida di molti sindaci sia del Nord che del Sud; ma ritornano sempre, accampandosi da qualche altra parte. Per questo abbiamo pensato di affidare ai nostri dirimpettai del Mediterraneo, pagandoli, blandendoli e sottoponendoci a umilianti rituali - senza però mai trascurare gli affari - il compito di fermarli prima che toccassero il nostro bagnasciuga. Erano campi di sterminio quelli che finanziavamo, anche se lo sterminio era affidato alle angherie di svariate polizie e non a un'organizzazione scientifica come quella dei Lager. Poi la diga si è rotta e quelli che avevamo addestrato perché li bloccassero si sono messi ad organizzare le loro partenze in massa.
Così ci siamo ritrovati in guerra contro il tiranno che avevamo blandito fino al giorno prima. Abbiamo anche provato a rimandarli indietro: in aereo, in nave, in treno; o a spedirli oltre frontiera, sperando che se li prendesse qualcun altro; ma è come svuotare il mare con un secchiello. Alla fine qualcuno ha proposto di sparare direttamente sui barconi per affondarli: in un mare che nel corso degli anni ha già inghiottito trentamila migranti. Niente di più facile, d'altronde: sfiorano sui loro barconi con i motori in avaria le navi che bombardano le truppe di Gheddafi (ben armate, queste, dalla nostra industria bellica); e quelle nemmeno si accostano per raccoglierli. Quale sarà, allora, il prossimo passo di questa deriva?
La politica dei respingimenti è fallita sotto i nostri occhi. Il governo italiano aveva pensato di poterla perseguire per conto suo, in combutta con Gheddafi, per non renderne conto ai partner dell'Ue, a suo tempo definita «Forcolandia» per aver promosso una legislazione antirazzista sgradita alla Lega (bei tempi! Oggi l'Unione accetta senza fiatare la nuova costituzione ungherese, che del razzismo è un'epitome). Adesso il governo italiano piange perché i paesi che aveva appena finito di insultare non vogliono condividere il «fardello» caduto addosso al povero ministro Maroni, diventato in poco tempo il nemico numero uno della sua base più incarognita. Ma sulle menzogne della politica dei respingimenti sono stati costruiti per anni successi politici truffaldini e maggioranze di governo ad personam. E carriere ancora più facili di quelle delle tante ragazze trasformate in ministro, parlamentare, consigliere regionale o dirigente politico per aver fatto sesso con Berlusconi. Pensate al «Trota», il figlio di Bossi, diventato consigliere regionale dopo ben tre bocciature negli esamifici più screditati della Padania, che nel suo curriculum aveva solo un videogioco intitolato «Rimbalza il clandestino». Forse che - progressi tecnologici a parte - film e libri come Süss l'Ebreo, che hanno spianato la strada alla Shoah, avevano un'ispirazione diversa?
Purtroppo, in questa deriva l'Italia non è che l'avanguardia di un processo che sta investendo tutta l'Europa, mettendo alle corde tanto la sua politica (la capacità di scelte condivise), quanto il suo bagaglio culturale: esattamente come a suo tempo il razzismo antiebraico (largamente recepito sia ad est che ad ovest della Germania nazista) aveva sconfessato secoli di cultura tedesca e sprofondato il suo popolo in una vergogna che l'oblio non ha ancora sanato. L'Italia e l'Europa, peraltro, possono ancora incattivire parecchio: la strada verso una qualche «soluzione finale» è ancora lunga. Ma è già tracciata fin da quando Oriana Fallaci è assurta al ruolo di profeta della nuova Europa razzista.
Dunque è chiaro, anche se tutt'altro che evidente e condiviso, che al di là dei successi elettorali e delle facili carriere, la politica dei respingimenti non paga. Con essa l'Italia e l'Europa stanno rapidamente perdendo ogni posizione di vantaggio nell'arena della democrazia. L'alba di un rovesciamento delle parti già si intravvede: in Tunisia, in Egitto, in Siria, in Barhein, in Algeria; forse persino in Yemen; là dove un popolo di giovani scolarizzati e disoccupati sta riuscendo in quello che in Italia non riusciamo più a fare e molti di noi nemmeno a sperare: liberarsi da una tirannia mascherata da democrazia: niente di molto diverso dai regimi di Ben Alì, Mubarak o Assad.
Ma la storia avrebbe potuto imboccare, e forse può ancora imboccare, un'altra strada. Se respingere è irrealizzabile, e le conseguenze sono un danno per tutti, bisogna attrezzarsi per accogliere. Agire come se vivessimo in un'unica grande «patria» (non la «nazione», continuamente invocata a sproposito da Ernesto Galli della Loggia; e nemmeno uno Stato, nazionale o sovranazionale, che è da tempo un organo senza più poteri, ma solo con funzioni di copertura e saccheggio); bensì un'area di relazioni in grado di arricchire tutti: chi è qui e chi resta là. Una società dove a tutti venga offerto un ricovero e un'alimentazione decente (non sarebbe un grande sforzo: in Italia siamo soffocati dal cemento e buttiamo via quasi metà degli alimenti che compriamo). Un'integrazione fondata sull'accesso alla scuola e all'educazione di tutti, fornita dei supporti necessari per fare di ogni allievo, bimbo, giovane o adulto, un veicolo di reciproca accettazione. Un'economia aperta a tutti su un piede di parità: dove venga meno la possibilità di sfruttare il lavoro irregolare, ma anche il «vantaggio competitivo» di chi lavora in condizioni e per salari indecenti perché è irregolare (nella clandestinità c'è sempre posto per tutti; anche ai livelli di vita più degradati; per questo è una «calamita» di disperati. Ma quando si aprono le porte agli ingressi è possibile che molti, ai rischi di una traversata pericolosa preferiscano aspettare un secondo turno, se turni ci sono; anche se i turni, ovviamente, non sono la risposta ai problemi più urgenti). E poi, una produzione sostenibile e replicabile: per poter fare anche là, senza dipendere più di tanto da aiuti o capitali stranieri, quello che si potrebbe imparare a fare qua: con le energie rinnovabili, la piena utilizzazione delle risorse locali, la sovranità alimentare, la cura del territorio, la valorizzazione del patrimonio culturale; tante «cose» che rendono produttivi anche e soprattutto i rapporti interpersonali. Non ci sono solo profughi alla ricerca di un futuro; ci sono anche molti migranti che hanno imparato un mestiere, costruito un'impresa, creato una rete di relazioni; pronti a riportare nel paese di origine il piccolo o grande «capitale umano» che hanno acquisito. Certo sono meno di quelli che arrivano; ma possono essere un vettore di uno «sviluppo più sostenibile», che nessun programma di cooperazione ministeriale potrà mai realizzare.
Un approccio del genere è mancato per una nostra debolezza culturale. Eppure avrebbe potuto accelerare la democratizzazione in corso in molti paesi del Mediterraneo; rallentare la spinta all'emigrazione (forse non quella sospinta dalla miseria e dalle guerre; ma certamente quella promossa dalla curiosità per una vita diversa); promuovere desideri di un ritorno in patria in migranti portatori di un nuovo corredo di professionalità, di conoscenze, di esperienze e persino di capitali. Soprattutto, avrebbe potuto, e ancora potrebbe, fare dell'Europa e del bacino del Mediterraneo un'unica grande comunità.
Non si è ancora spenta l'eco della Giornata della Memoria che già incalza la ricorrenza del giorno del Ricordo, senza che si sia riflettuto a sufficienza sulla confusione che si è rischiato di creare (e che almeno per una parte politica si è voluta creare deliberatamente) fra le due circostanze, allo scopo di sdrammatizzare il crimine dello sterminio degli ebrei ad opera di nazismo e fascismo e di enfatizzare viceversa il dramma delle foibe istriane come simbolo italiano dei crimini del comunismo. Tuttavia non è a questo nodo irrisolto che oggi intendiamo rivolgere la nostra attenzione, anche se esso si presta singolarmente a rappresentare in modo emblematico l'ambiguità o meglio ancora l'agnosticismo storico e storiografico della cultura politica che oggi predomina nel nostro paese.
Torniamo al giorno del Ricordo. Non riprenderemo cose che abbiamo ripetutamente ricordato proprio su questo giornale per contribuire a evitare e a controbattere le strumentalizzazioni e le menzogne degli irriducibili di una memoria a senso unico che sarebbe ipocrisia non definire filofascista. Siamo come sempre convinti che non si debba approfittare della data del 10 febbraio per rinfocolare il dolore e il risentimento dei familiari delle vittime né tantomeno per speculare sulla sorte delle centinaia di migliaia di persone che a seguito degli assetti postbellici sono state costrette a rifarsi una esistenza fuori dai territori d'origine. Non è una storia unicamente italiana, è una storia comune a molta parte della società europea sconvolta dal secondo conflitto mondiale ma con una specificità italiana che si richiama al passato fascista. Opportunamente il presidente della Repubblica invita a non strumentalizzare il ricordo, anzi a superare ogni tentazione strumentalizzatrice. Nessuno come noi è consapevole che questa è l'unica condizione perché si verifichi l'auspicio del presidente che le circostanze all'origine del ricordo del 10 febbraio entrino durevolmente nella memoria non solo ufficiale ma in quella collettiva di Italia, Slovenia e Croazia. Ma perché questo accada e non sia soltanto un superficiale gesto diplomatico bisogna che sull'oggetto del ricordo non rimangano ambiguità o mezze verità: si ricordino senza mezzi termini gli antecedenti delle stragi del 1943-'45. Bisogna che la storia della dominazione italiana della Venezia Giulia, sulla quale studiosi italiani e sloveni negli ultimi decenni hanno fornito contributi illuminati, diventi conoscenza di dominio pubblico, sottratta alle ipoteche di una vecchia storiografia nazionalista e alla propaganda di nuovi irriducibili nostalgici. Mascherati da democratici: come definire, se non maschera, l'atteggiamento di ieri del presidente della Camera Gianfranco Fini che in modo a dir poco negazionista ha annunciato a Trieste che bisogna revocare le onorificenze a Tito e ad altri dirigenti della lotta partigiana jugoslava contro l'occupazione nazifascista che riempì i Balcani di stragi rimaste assolutamente impunite?
Tra breve uscirà un importante studio sul «fascismo di confine» cui auspichiamo larga diffusione perché la riflessione storica di lungo periodo e di larga impostazione possa contribuire a uscire dal provincialismo e dalle strettoie dei patriottismi di confine. Ma vogliamo ricordare anche che sui resti del campo di concentramento di Arbe manca tuttora un segnale, un cippo o altro, che menzioni le responsabilità del fascismo e per esso dello stato italiano.
Come non consentire con le considerazioni del presidente della Repubblica sulla comunanza di interessi e sulle prospettive di pace che dovrebbero indurre i popoli e gli stati sulle due sponde dell'Adriatico a collaborare e a trovare motivi per compiere un cammino comune. Purtroppo esiste ancora una questione balcanica e i bombardamenti della Nato non hanno contribuito a scioglierne i nodi, forse ne hanno complicato l'intreccio. La distruzione della Jugoslavia ha scatenato le ambizioni di influenza delle potenze; gli stati minori che ne sono derivati vivono di indipendenza apparente, le nazionalità in nome delle quali si sono inventati interventi umanitari si rispettano solo perché si trovano sotto libertà vigilata dalla presenza di contingenti militari internazionali. Dare loro una prospettiva positiva sarebbe urgente e necessario, ma l'Unione europea sinora non ha dato segnali forti di preoccuparsene.
Sull’argomento vedi anche in eddyburg gli articoli di Corrado Staiano, Claudia Cernigol, Simonetta Fiori, Enzo Collotti, Giacomo Scotti, Paolo Rumiz.
Vogliamo lasciare aMaroni tutto il peso dello sfoltimento delle file degli immigrati nel nostro paese? Nossignori, il vero leghista si dà da fare in proprio, insomma ci prova gagliardo. Gagliarda, la sindaca di Montecchio Maggiore, Milena Cecchetto, lo è parecchio. Ne ha già dato prova togliendo il pane di bocca ai bimbi i cui genitori non avevano pagato la retta per la mensascolastica.Malavorava ad altro, ci lavora ancora: ha capito che se riparametra a piacer suo le dimensioni minime dei locali di un alloggio, può impedirne l’abitabilità e di conseguenza avviare una bella fuga a catena di gente che ha il salotto troppo piccolo. Neanche la strega di Biancaneve, storia interessante. La signora Cecchetto ha mosso i primi passi l’anno scorso stendendo unadelibera con cui modificava i criteri per ottenere l’idoneità di un alloggio.
Delibera ad personam: infatti, senza giri di parole dichiarava che la procedura era destinata «ai cittadini extracomunitari». Troppo zelo danneggia perfino la cattiveria: era chiaro che una discriminazione tanto manifesta non sarebbe mai passata, e così a dicembre se l’è messa via o si è fatta furba, scrivendo che la delibera era destinata «ai cittadini ». La mela avvelenata era pronta, si trattava di costringere «i cittadini» a mangiarla. Del resto, chi è che chiede l’abitabilità di un alloggio se non chi è obbligato a farlo da una legge che altrimenti lo sega? Stiamo parlando, ovviamente, di quei cittadini che hanno bisogno di questo certificato ogni volta che devono rinnovare il permesso di soggiorno o per altri motivi. Per raggiungere il suo obiettivo, non ha badato a spese: la sindaca ha armato i vigili urbani e con l’aiuto dei carabinieri li haorganizzati in squadre d’assalto che all’alba odi notte hanno circondato decine di isolati abitati generalmente da persone perbene e la molla è scattata. Giù tutti dai letti, donne, bimbi, uomini che pure hanno regolari contratti di lavoro.
«In genere, gente che non ha familiarità con la legge italiana e con le sue garanzie - spiega Maurizio Ferron, responsabile confederale della Cgil dell’Ovest vicentino -, quindi non sanno che senza un regolare mandato nessuno può mettere piede in casa tua. Hanno aperto e hanno lasciato fare». Cercavano droga, armi, terroristi? Macché: pistola nella saccoccia, metro in mano e sposta i mobili, i tutori dell’ordine si sono messi a misurare le superfici delle stanze. Scena non priva di comicità, anche se nessuno pare si sia messo a ridere: lo avrebbero arrestato per oltraggio. Grazie a arrivederci.
Al centro dati per aggiornare il dossier o per affilare la mannaia. Con un magone nel cuore, perché a volte la solidarietà tra perfidi non funziona: sarà legale quel che sta facendo la sindaca? Il problema è che proprio mentre lei concepiva la riparametrazione, proprio un altro leghista, Maroni, ribadiva che per omogeneizzare la normativa le amministrazioni pubbliche dovessero rifarsi ai criteri fissati da un decreto del Ministero della Salute. Quali erano? Esattamente gli stessi che lei stava modificando, Montecchio era già in regola con quel che prescriveva il suo governo. Esempio: secondo Maroni, un soggiorno non può essere più piccolo di 14 metri quadri, la signora Cecchetto dice 15. Sempre più divertente. Ma siccome non hanno il senso dell’humour, loro non ridono, conteggiano al millimetro, dopo aver concluso che il loro Maroni si era limitato a dare delle indicazioni e non delle prescrizioni: hanno negato l’abitabilità ad appartamenti che avevano una stanza di 0,22 metri al di sotto del nuovo limite.
«Pazzesco - insiste Ferron -. Noi della Cgil, insieme a Cisl, Uil, Caritas e associazioni degli immigrati ci siamo dati da fare, siamo decisamente fuori da ogni contesto umanamente apprezzabile. Ora l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione ha presentato ricorso al tribunale di Vicenza, una causa civilenon banalmente amministrativa, il cinque novembre ci sarà la prima udienza». Intanto, per gli immigrati ore e giorni di sconforto: rischiano di trovarsi, con le famiglie, per la strada e senza lavoro perché senza permesso di soggiorno sei meno di niente. E c’è gente che stava a Montecchio, e lavorava e pagava gli affitti, anche da dieci anni. Ma qualcuno, anche se fin qui ha pensato bene di stare zitto, ci rimette e sono i proprietari degli immobili: il loro valore si azzera, in mancanza di ristrutturazioni e non possono nemmeno più affittarli.
E non è finita: «In base a questi parametri - spiega Ferron - la maggioranza degli alloggi di Montecchio è fuori regola, una bomba contro il mercato immobiliare.Ma il fatto più importante è che cavalcando il risentimento della gente, sta seminando nuovo risentimento, accentua le tensioni sociali». Sai cosa gliene frega.
Uno spettro si aggira per l´Europa: un altro. Non quello rosso del comunismo che nel 1848 allarmò la Santa Alleanza. Oggi lo spettro veste gli stracci colorati e si muove sui carrozzoni di un popolo di nomadi. È questo lo spettro che ha spinto Sarkozy a rispondere sgarbatamente alla commissaria europea Viviane Reding e che gli ha guadagnato l´immediato appoggio di Berlusconi.
Oggi nasce in Europa una nuova internazionale: quella della paura. Ne tengano conto gli storici del futuro. Abbiamo avuto finora diverse Europe, quella cristiana, quella degli umanisti, quella illuministica. È stato battuto il tentativo di dar vita a un´Europa nazifascista nel segno della romanità antica e della svastica che nel 1934 portò a Roma per annunciarne la creazione l´ideologo del razzismo nazista Alfred Rosenberg. Ci fu, invece di quella, l´Europa rinata dalle rovine grazie all´intelligenza e al coraggio di uomini come Federico Chabod che concluse le sue lucidissime lezioni sulla storia dell´idea d´Europa lasciando Milano per unirsi alla Resistenza in Val d´Aosta.
Ma quella che oggi ha preso forma nelle dichiarazioni di Sarkozy e per la quale il nostro presidente del Consiglio si è affrettato a dichiarare che esiste «una convergenza italo-francese» è un´Europa dominata dalla paura, dalla volontà di chiudere le porte agli immigrati e di cacciare via i rom.
Notiamo di passaggio la differenza di stile tra le due dichiarazioni, quella di Sarkozy e quella di Berlusconi. Quella di Sarkozy è una rispostaccia pubblica, da litigio di condominio: quella di Berlusconi è un avvertimento di metodo: di queste cose si deve parlare privatamente. Ma ambedue partono da un unico presupposto: quello che i rom siano spazzatura. Anzi, qualcosa di meno. Sul mercato internazionale della spazzatura il prezzo dei rimpatri francesi dei rom - 300 euro un adulto, 100 un bambino - è decisamente a buon prezzo se confrontato con quello dei residui speciali che attraversano l´Europa su carri blindati per andare a nascondersi in qualche miniera abbandonata o a farsi bruciare negli impianti tedeschi.
Accomuna le due dichiarazioni lo stesso disprezzo per gli esseri umani in gioco. Ci si chiede se siamo giunti davvero al punto di dover riconoscere che l´Europa ha dimenticato l´epoca in cui i trasferimenti forzati di popolazione e l´eliminazione fisica degli indesiderati presero avvio proprio dai rom. Sbaglieremmo a trascurare le ragioni di questa rapida convergenza dei due presidenti nella costruzione di un´Europa della paura.
Il ministro Maroni ci aveva già informato all´inizio dell´estate che stava preparando la sua campagna d´autunno col rilancio del tema degli immigrati. E non è certo da oggi che la politica della paura costituisce la risorsa alla quale si appella una dirigenza politica senza idee e senza risultati da presentare al paese. È una ricetta a suo modo infallibile. Ma la censura della commissaria europea Viviane Reding ha fatto suonare l´allarme in casa leghista e ha spinto Berlusconi a coprirsi dietro le spalle di Sarkozy per la semplice ragione che la Francia è sempre la Francia.
Sarà bene che l´opinione pubblica democratica si svegli: non si dimentichi che si sta discutendo della sorte di esseri umani mercificati e venduti a un tanto il chilo. Che cosa contino sul mercato di una coalizione che si presenta a mani vuote davanti al paese in cerca di rilanci elettorali lo abbiamo capito dal commento del governo all´episodio della sparatoria partita da navi vedetta italiane in mani libiche: pensavano forse che si trattasse di immigrati clandestini? Perché evidentemente in questo caso si sarebbe trattato di una causa giusta. Che i libici, con l´aiuto e l´avallo dell´Italia, sparino sui pescherecci dei disperati o li chiudano nei campi di concentramento viene considerato un successo politico del nostro paese.
Comunque il risultato è quello di una brusca svolta storica: nell´idea d´Europa, nella immagine della Francia paese della libertà e rifugio per chi non trova libertà in casa sua; anche nella realtà storica di un´Italia che, pur nella fragilità delle sue istituzioni statali, aveva trovato nel solidarismo cristiano e in quello socialista le risorse ideali e pratiche per assicurare assistenza e conforto ai diseredati.
Sono interessato alla Libia e alla sua emancipazione perché lì sono nato, lì ho vissuto fino all'età di vent'anni, lì si è realizzata la mia formazione politica e anche culturale. Sono nato a Tripoli il 7 febbraio del 1931 e ne sono stato cacciato dall'autorità britannica (Bma, cioè British military administration) nel dicembre del 1951. Ho vissuto a Tripoli e nella campagna di mio nonno, a Sorman, dove ho conosciuto la fatica dei braccianti agricoli libici, largamente sfruttati dai padroni italiani. In quegli anni ho appreso della violenza dell'occupazione italiana: mio nonno era stato soldato in Libia nel 1911 e me ne ha raccontato, al punto che lui e un suo compagno volevano ammazzare un loro ufficiale. A Tripoli ho cominciato ad avere notizia della resistenza dei libici e della feroce repressione degli italiani, primo fra tutti Rodolfo Graziani, che usò anche i gas e che dovendosene poi andare all'arrivo dell'VIII armata inglese regalò la sua villa a monsignor VittorinoFacchinetti, vescovo fascista di Tripoli, anche dopo la sconfitta degli italiani e dei tedeschi del famoso maresciallo Rommel, finito poi vittima di Hitler.
Cominciai ad avere conoscenza delle ripetute impiccagioni in piazza del Pane, poi piazza Italia e ora piazza Verde dove c'era un monumento di Mussolini a cavallo, che brandisce la Spada dell'Islam e dove c'è ancora una fontana uguale a quella che qui a Roma possiamo vedere dentro Villa Borghese. Poi ho appreso anche della vile impiccagione di Omar el Muktar. Su questa vicenda q ualcosa fu raccontato da Roberto Haggiag, un ebreo straordinario che dopo quell'impiccagione smise di fare il consulente del governo italiano e poi emigrò negli Usa dove divenne produttore cinematografico.
La colonizzazione italiana oltre che barbara era demografica, tendeva alla progressiva riduzione della popolazione libica rispetto a quella italiana. Si cominciò con le famose «concessioni»: il territorio libico sulla fascia costiera era diventato proprietà statale, salvo poche oasi dove vivevano malamente, con un po' di palme e un pozzo, le famiglie dei braccianti. Questo territorio statalizzato fu diviso in «concessioni» date a cittadini italiani che ne sarebbero poi diventati proprietari. Ma questo era solo l'inizio. In Italia il fascismo aveva realizzato la bonifica delle paludi pontine. Attraverso questa bonifica un vasto territorio del Lazio era stato popolato da disoccupati provenienti soprattutto dal Veneto e dalla Bassa emiliana. Il fascismo aveva preparato case, stalle, strade e quelle terre cambiarono popolazione e cultura e furono fascistizzate. Era il modello vincente per «italianizzar» la Libia e marginalizzare la popolazione libica.
Così dopo il 1935 in Libia, ad opera, sia detto, di eccellenti architetti, furono costruiti i villaggi, tutti con nomi di personaggi fascisti (Bianchi, Breviglieri, Gioda, etc.) con le loro casette, le stalle, già con gli animali, i campi da coltivare, le strade di comunicazione. A seguito di quest'opera nel 1938 sbarcano nel porto di Tripoli tra feste e bandiere 20.000 poveri italiani provenienti grosso modo dagli stessi territori di quelli andati nell'agro Pontino. Nel 1939 ne sbarcarono altri 10.000. Poi nel 1940 l'Italia entrò in guerra e l'ambizioso progetto fascista fallì. Avevo 8 anni e i miei genitori mi accompagnarono contenti a veder quel «fiume di italianità». La Libia da colonia passò a territorio nazionale: Tripoli e Bengasi furono dichiarate province italiane, ma ovviamente i libici non divennero cittadini italiani, ma popolazione in liquidazione. I libici - va ricordato - erano esclusi da tutte le cariche pubbliche. Era escluso che un libico potesse diventare potestà (così si chiamava allora il sindaco). L'unica eccezione era per le famiglie nobili del tempo della dominazione turca: i Caramanli e i Muntasser soprattutto. Al liceo, alla fine degli anni '40 avevo solo due compagni di classe libici: Omar Muntasser e Mustafa Ben Zicri, che, ai tempi del re Idriss, divennero entrambi ministri.
In quella stagione, immediatamente successiva alla seconda guerra mondiale - che avevo vissuto tutta in Libia, a Sorman, con i soldati italiani, ai quali servivo il vino di mio nonno, con i tedeschi, che furono l'ultimo reparto dell'Asse a ritirarsi e che mi chiamarono a vedere il gran polverone dei tanks inglesi che si avvicinavano - si cresceva in fretta e così tra i 16 e i 17 anni diventai comunista e sostenitore dell'indipendenza della Libia. Ovviamente non da solo. Era maturato un gruppo di intellettuali (il leader era il notaio Errico Cibelli e con lui il professor Giuseppe Prestipino) e operai (Nino Caruso, Giuseppe Russo e altri ancora). Nacque così un Partito comunista clandestino che a Botteghe Oscure si riferiva a Renato Mieli, arrivato a Tripoli come capitano Merril dell'VIII armata di Montgomery. E, nacque anche, ma pubblica, l'Associazione politica per il progresso della Libia (Appl), che raccoglieva italiani, ma anche maltesi ed ebrei e che era in buoni rapporti con il Partito del congresso di Bashir as-Sadawi.
Ricordo che questa nostra posizione a favore dell'indipendenza della Libia non piacque affatto alla comunità italiana, che allora si raccoglieva nel Circolo Italia, fondamentalmente fascista. Vale ricordare che fummo ripetutamente accusati di essere al soldo degli inglesi per strappare all'Italia la Libia. Favorimmo anche la formazione di un movimento sindacale forte tra i portuali, che realizzarono alcuni scioperi.
L'Associazione politica per il progresso della Libia raggiunse presto duemila iscritti, soprattutto italiani, ma non solo (era aperta a tutti gli abitanti di Libia). Centrale nel suo programma era la costituzione di uno stato libico e indipendente. Interlocutore privilegiato dell'Appl era il leader del Partito del congresso Bashir as-Sadawi, rientrato nel 1948 a Tripoli dal Cairo, dove aveva sede il Comitato di liberazione della Libia, da lui presieduto.
Insomma secondo il classico schema leninista avevamo un Partito comunista libico clandestino e un'organizzazione di massa l'Appl, del tutto pubblica; il suo obiettivo principale era l'indipendenza della Libia. Proprio per questo l'Appl contrastò le iniziative del governo italiano di allora e dei suoi portavoce locali ispirati dal vescovo Vittorino Facchinetti, già ammiratore e amico di Mussolini.
Quando poi venne fuori il famoso compromesso Bevin-Sforza, che prevedeva la spartizione in tre parti della Libia e l'amministrazione fiduciaria della Tripolitania all'Italia, l'Appl si unì ai libici nella protesta e ci fu un appello all'Onu per chiedere l'indipendenza immediata della Libia. L'Associazione riuscì anche ad avere un settimanale (Corriere del lunedì) e con rappresentanti nella Commissione dell'Onu.
Finalmente, il 24 dicembre 1951 viene proclamato il Regno unito della Libia, con Idriss I Senussi sovrano.
A questo punto gli inglesi decidono di lasciare la casa pulita a Idriss. Quindi espellono buona parte degli italiani membri dell'Appl e anche del Pc libico, arrestano i sindacalisti libici. Tutto ciò nel dicembre del 1951. All'inizio del 1952 si tennero elezioni piuttosto truffaldine: il Partito del congresso fu sciolto e Bashir as-Sadawi espulso.
Partecipi di questa vicenda furono Errico Cibelli, Giuseppe Prestipino, Sante Pascutto, Antonio Caruso, Giuseppe e Giovanni Russo, Mohamed Buras, Dino Marastoni, Vasta, Manzani, Ali Kadri, Clara Valenziano, Giuseppina Mazzei, Ernesto Ragusa, Mario Mazzarino, Valentino Parlato, Nino Serafin, Carlo Cicerchia e altri ancora. Vale ricordare che sempre in quel dicembre del 1951 (il Corriere del lunedì era già stato soppresso) Prestipino e Pascutto furono invitati ad andarsene e pochi giorni Errico Cibelli, Antonio Caruso, Giuseppe e Giovanni Russo, Manzani e io fummo arrestati e caricati sulla nave che ci portò in Italia. Tutto sommato non fu una disgrazia, anche se un indubbio segno dello stile imperiale britannico.
Al primo odore di elezioni anticipate, i politici italiani hanno ripreso ad agitare lo spauracchio degli immigrati. Prima il ministro La Russa (anche allo scopo di mettere in crisi un Gianfranco Fini di colpo giudicato "buonista"), poi il ministro Maroni, ansioso forse di non farsi sottrarre la palma dell'intransigenza dal presidente francese Nicolas Sarkozy. Maroni si è spinto ad annunciare di voler chiedere all'Unione Europea "la possibilità di espellere anche cittadini comunitari", aggiungendo (con rimpianto, sembrerebbe dal tono dell'intervista al Corriere della Sera) che "da noi molti sinti e rom hanno cittadinanza italiana. Loro hanno diritto a restare, non si può fare niente".
Bene ha fatto, quindi, monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana, a puntualizzare attraverso la Radio Vaticana due concetti fondamentali: il primo è che "il Governo italiano non può autonomamente decidere in riferimento a una politica europea che invece stabilisce sostanzialmente il diritto di insediamento e di movimento"; e il secondo, non meno importante, è che "l'azione che avviene contro i rom oggi, non è un'azione di politica migratoria - non dimentichiamo che anche in Italia, l'80% dei rom è italiano - ma è una politica discriminatoria nei confronti di una popolazione che, sostanzialmente, non si è riusciti a gestire attraverso canali che sono soprattutto di tipo sociale".
La prontezza della politica nel servirsi della leva anti-straniero e anti-immigrato dice tutto della schizofrenia di questa nostra Italia. Perché i politici parlano in un modo (e magari i cittadini li votano) ma la realtà va esattamente in senso opposto. Nel 2009, in piena crisi occupazionale (526 mila italiani in più senza lavoro), gli occupati stranieri sono cresciuti di 147 mila unità. Mentre la Fondazione "Leone Moressa", analizzando i dati Excelsior-Unioncamere, già ci dice che la tendenza proseguirà nel 2010: sono 181 mila i nuovi assunti stranieri previsti per l'anno in corso, pari al 22,6% di tutte le assunzioni previste. A far la parte del leone saranno le imprese sopra i 50 dipendenti, che cercano manodopera straniera da impiegare nei servizi alle persone (21,8%), lavoratori con esperienza nel settore (54,6%) e qualificati nel commercio e nei servizi (27%).
In poche parole: non vogliamo gli stranieri, ma ci piace che il loro lavoro dia un contributo decisivo alla tenuta del nostro sistema produttivo e, di conseguenza, al benessere di tutto il Paese. Quando capiremo che le due cose non stanno insieme sarà sempre troppo tardi.
È un piccolo evento culturale il libro La storia negata, il revisionismo e il suo uso politico: ha venduto in pochi mesi, nonostante l'argomento, più di novemila copie. Ne parliamo con il curatore, lo storico del colonialismo italiano Angelo Del Boca, appena trascorse due celebrazioni, il «Giorno della memoria» di fine gennaio e il «Giorno del ricordo» di mercoledì scorso. «Come sta andando il libro, con i contributi così importati che hai raccolto?», «Sta andando magnificamente - ci risponde - nel senso che è un libro non del tutto facile, non è un romanzo, ma tra poco verrà stampata la seconda edizione perché c'è molta richiesta. Questo mi ha molto stupito, vuol dire che ha riempito un vuoto».
Sono da poco passate la «Giornata della Memoria» e il «Giorno del ricordo». Si potrebbe dire «finita la festa gabbato lo santo», perché ogni volta ci si trova di fronte ad un rito dentro la deriva della politica ufficiale?
Indubbiamente queste giornate della Memoria sono molte, c'è una specie di inflazione. Perfino io ho fatto l'errore di aggiungerne un'altra che però non è stata accettata e che riguardava i 500.000 africani uccisi da noi, nelle nostre guerre coloniali. Avevo proposto il 19 febbraio perché è la giornata in cui dopo il tentativo di uccidere Graziani e il federale Cortese, i fascisti italiani lanciano la caccia all'africano ad Addis Abeba: una strage con 5-6mila vittime attendibili. Un bagno di sangue. Bisognava sentire la descrizione dei testimoni che hanno avuto il coraggio poi di raccontare la caccia con i manganelli, con le spranghe di ferro, cadaveri portati via dai camion, inceneriti. Poi hanno bruciato metà Addis Abeba. Così questa ritualità celebrativa, spesso dimenticata il giorno dopo, non ha neanche una grande funzione. Visto però che in Italia si tende veramente a dimenticare il passato, a rimuovere soprattutto le nostre colpe, l'insistenza sulla memoria ha la sua importanza e la sua incidenza.
La scia delle commemorazioni strumentali da parte della destra del Giorno del Ricordo, non è ancora finita. In più, il presidente della repubblica Napolitano ha polemizzato con Slovenia e Croazia accusandole di «disattenzione». Eppure proprio i suoi discorsi commemorativi del 2007 e del 2008 che non citavano mai le responsabilità del fascismo nelle terre slave, provocarono le reazioni di Lubjana e Zagabria insieme ad una dura presa di posizione dello scrittore italiano di origine slovena Boris Pahor che accusò: «Silenzi insoppportabile sugli eccidi del Duce»...
Una prima cosa che voglio dire è che ci si dimentica nel Giorno della memoria sempre dei rom e dei gay, oltre che dei deportati politici. Inoltre per il Giorno del ricordo, sul «confine mobile» dobbiamo ricordare che in realtà noi avevamo avuto l'Istria e la Dalmazia in seguito alla vittoria della prima guerra mondiale, ed erano territori che non erano «etnicamente» italiani, e su questo noi abbiamo «giocato», cercando proprio di snaturalizzare con la violenza queste popolazioni. Quindi era un confine dal punto di vista strategico, non dal punto di vista etnico, tanto è vero che durante la guerra di Etiopia migliaia di giovani della zona passarono quel confine e andarono a rifugiarsi in Jugoslavia. È un fatto che viene assai poco ricordato e che io stesso ho scoperto da poco dalle informazione di una storica slovena. La grande tragedia è cominciata proprio dall'occupazione nel '42 della Slovenia e di Lubiana, è da lì che comincerà la revanche di sloveni e croati naturalmente quando l'Italia sarà sconfitta.
E inoltre le prime foibe furono opera dei fascisti contro gli insorti slavi, come ha ricordato lo scrittore Predrag Matvejevic. Ora c'è uno storico, Ferruccio Tassin, che solleva la questione di Visco, piccolo comune in provincia di Udine governato dalla destra, che sta decidendo di smantellare l'area della caserma Sbaiz, l'ex campo di concentramento di Visco. C'è una petizione di storici, ha aderito anche Boris Pahor, perché il luogo diventi monumento nazionale a ricordo dei crimini del fascismo contro gli sloveni...
Esattamente. E va ricordato che oltre al campo di concentramento di Visco, di dimenticati ce ne sono altri 60 di campi di concentramento del fascismo solo in quel «confine mobile» - furono 200 in tutta Italia. Campi come quello di Arbe-Rab: su questa piccola isola erano state confinate 20mila persone e ci sono dei racconti (che io ho raccolto nel mio libro) sui bambini che quando l'acqua saliva non avevano neanche la possibilità di proteggersi perché erano sotto tende improvvisate: era un lager perché la «concentrazione» aveva come scopo solo la morte dei deportati. È stata una delle pagine peggiori della nostra storia nazionale.
Nel libro denunci che il revisionismo è diventato una sorta di mestiere culturale...
È una marea che sale e che può travolgerci. Il filone che tirava è cominciato una ventina d'anni fa. Lo stesso Giampaolo Pansa, che rivendica questo mestiere nel suo libro «Il revisionista», fino a 10 anni fa scriveva a favore della Resistenza. E poi all'inizio del 2000 cambia. Perché cambia? Forse ispirato da Pisanò che già aveva fatto questo revisionismo sfacciato, ma almeno Pisanò era uno della Rsi, tirava l'acqua al suo mulino. Ma Pansa no, è cresciuto nella Resistenza, con tesi di laurea sulla resistenza nell'Alessandrino. Fatto oltremodo singolare, l'affermazione di Berlusconi in Israele: «La Resistenza ha riscattato le leggi razziali del '38». Ma perché va all'estero per raccontare queste cose e in Italia invece si fa di tutto contro la Resistenza. Tra l'altro, da quando c'è la destra al potere anche gli Istituti storici della Resistenza hanno perso molte possibilità: gli insegnanti, che sono poi i direttori degli istituti, erano all'inizio 61, adesso sono molti di meno, soprattutto sono di meno i comandati, ogni anno ce ne portano via 5 o 6 con scuse risibili. Meno male che come presidente c'è Scalfaro. Berlusconi oltre alle belle parole pensi anche a mantenere in piedi questi istituti che «ricordano» ogni giorno, non in modo rituale, e che lavorano sul piano scientifico e non sul piano dei Pansa.
I più importanti storici italiani: le falsificazioni del revisionismo
«Negli ultimi dieci anni - scrive Angelo Del Boca nell'introduzione a «La storia negata» (ed. Neri Pozza, pp. 383 euro 20) - l'uso politico della storia, che nulla ha a che fare con la ricerca storiografica, non ha risparmiato nessuna delle grandi questioni della storia nazionale. È la più vasta e subdola offensiva tesa alla totale rimozione dei crimini commessi in Italia, Africa, Balcani, Urss, un tentativo di riscrivere la storia contemporanea in Italia e in Europa, relativizzando gli orrori del nazismo e della soluzione finale, depenalizzando il fascismo e la sua classe dirigente, delegittimando la Resistenza e demonizzando il comunismo». Nell'all'antologia: Mario Isnenghi: «I passati risorgono. Memorie irriconciliate dell'unificazione nazionale»; Nicola Labanca: «Perché ritorna la "brava gente". Revisioni recenti sulla storia dell'espansione coloniale italiana»; Nicola Tranfaglia: «Il ventennio del fascismo»; Giorgio Rochat: «La guerra di Mussolini 1940-1943»; Lucia Ceci: «La questione cattolica e i rapporti dell'Italia con il Vaticano»; Mimmo Franzinelli: «Mussolini, revisionato e pronto per l'uso»; Enzo Collotti: «La Shoah e il negazionismo»; Aldo Agosti: «La nemesi del patto costituente. Il revisionismo e la delegittimazione del Pci»; Giovanni De Luna: «Revisionismo e Resistenza»; Angelo D'Orsi: «Dal revisionismo al rovescismo. Resistenza (e Costituzione) sotto attacco».
Viviamo a Rosarno una pagina oscura della storia italiana. Le ronde criminali scatenate nell´assalto agli africani, le sprangate in testa e le fucilate alle gambe degli immigrati, rappresentano una vergogna di fronte a cui possiamo solo sperare in un moto collettivo di ripulsa morale.
Di quale tolleranza, "troppa tolleranza", parla il ministro Maroni? Ignora forse che da trent’anni l’agricoltura del Mezzogiorno d’Italia si regge economicamente sull’impiego di manodopera maschile immigrata, sospinta al nomadismo stagionale fra Puglia, Campania, Sicilia e Calabria, con paghe di sussistenza alla giornata, ricoveri di fortuna in edifici fatiscenti, criteri d’assunzione malavitosi, senza la minima tutela sanitaria e sindacale?
Ora non li vogliono più, s’illudono di espellerli come un corpo estraneo dopo che li avevano convocati alla raccolta degli agrumi. Ma è dal 1980 che le colture specializzate meridionali non possono fare a meno delle migliaia di ragazzi africani trattati né più né meno come bestiame. E al tramonto, se la mandria non fa ritorno disciplinato nei recinti abusivi delle aree industriali dismesse, non trova certo istituzioni disponibili a riconoscerne l’umanità. Gli italiani con cui entrano in contatto questi lavoratori senza diritti sono solo di due tipi: i caporali spesso affiliati alla criminalità organizzata; e i volontari di Libera, della Caritas e di Medici senza frontiere. Le forze dell’ordine si sono limitate finora a un blando presidio territoriale per evitare frizioni pericolose con la popolazione locale. Ma l’importante era che il ciclo produttivo non si interrompesse: la mattina dopo il reclutamento ai bordi della strada non subiva intralci.
Chi ha tollerato che cosa, ministro Maroni?
Rosarno era teatro da anni di una conflittualità quotidiana, pestaggi isolati, sfide tra giovanissimi divisi dal colore della pelle ma accomunati da una miseria culturale che li induce a viversi come nemici. Dopo i colpi di fucile che hanno ferito due immigrati, giovedì la furia degli immigrati ha colpito indiscriminatamente la popolazione calabrese. Ieri, per rappresaglia, è scattata la "caccia al nero": disordini razziali che evocano scenari di un’America d’altri tempi. Di nuovo sparatorie a casaccio per terrorizzare i miserabili che hanno osato ribellarsi, insanguinando la Piana di Gioia Tauro dove governano ben altre autorità che non lo Stato democratico.
La riconversione legale dell’agricoltura del Sud implicherebbe, accanto agli investimenti economici, un’opera di civilizzazione che mal si concilia con l’offensiva propagandistica imperniata sulla criminalizzazione del clandestino. Non solo i mass media ma anche i portavoce della destra governativa hanno eccitato, legittimato sentimenti d’ostilità da cui oggi scaturiscono comportamenti barbari, indegni di un paese civile.
Se a Castelvolturno, nel settembre 2008, fu la camorra a sterminare sei braccianti africani, a Rosarno assistiamo a un degrado ulteriore: settori di cittadinanza coinvolti in un’azione di repulisti inconsulta. La chiamata alle armi contro i dannati della terra che certo non potevano garantire – con la sola forza disciplinata delle loro braccia - il benessere di un’area rimasta povera.
Vi sono probabilmente motivazioni sotterranee, indicibili, alla base di questo conflitto. Non tutti i 25 euro di paga giornaliera finiscono nelle tasche dei braccianti illegali. Pare che debbano versare due euro e mezzo agli autisti dei pulmini che li trasportano nelle piantagioni. Si vocifera addirittura di una odiosa "tassa di soggiorno" di 5 euro pretesa dalla ‘ndrangheta. Di certo non sono associazioni legali quelle che pattuiscono le prestazioni di lavoro. Ma soprattutto è chiaro che una relazione trasparente con la manodopera immigrata viene ostacolata, resa pressoché impossibile dalla legislazione vigente.
Altro che pericolo islamico: qui la religione non c’entra un bel nulla. L’Italia dell’economia illegale, non solo al Sud, lucra sulla farraginosità normativa che sottomette il lavoratore immigrato a procedure arbitrarie sia in materia contrattuale, sia nel rilascio del permesso di soggiorno. Quando Angelo Panebianco, sul "Corriere della Sera", asserisce che affrontare il tema della cittadinanza significherebbe "partire dalla coda anziché dalla testa", ignora che restiamo l’unico paese europeo in cui le procedure di regolarizzazione e di naturalizzazione non contemplano alcuna certezza di tempi e requisiti. Assecondando, di fatto, un’informalità di relazioni per cui ai doveri non corrispondono mai i diritti.
Sulla scia di un’analoga iniziativa francese, circola fra gli stranieri residenti in Italia l’idea di dare vita a marzo a una iniziativa forse velleitaria ma dal forte significato simbolico: "24h senza di noi". Che cosa succederebbe se per un giorno tutti gli immigrati si astenessero dal lavoro? Quanto reggerebbe il nostro sistema di vita senza il loro apporto? Farebbero bene, i sindacati, a prendere in seria considerazione questa iniziativa, contribuendo con la loro forza organizzativa al moto spontaneo. Ma prima ancora è l’intero arco delle forze politiche, culturali e religiose che rifiutano la contrapposizione incivile fra italiani e stranieri a doversi mobilitare: l’inciviltà dei pogrom è contagiosa.
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? La domanda, antica, può produrre pensiero profondo oppure ottusità, veggenza oppure cieco affanno.
Ci sono momenti della storia in cui la domanda secerne veleni, chiusura all’altro. Uno di questi momenti fu la vigilia delle prima guerra mondiale: nella Montagna incantata, Thomas Mann parla di Tempi nervosi. Anche oggi è uno di questi momenti. La fabbricazione di un’identità con ferree e univoche radici è piena di zelo in Francia, Inghilterra, e nervosamente, astiosamente, in Italia. In Italia un partito xenofobo è al governo e addirittura promette «Natali bianchi», liberati dagli immigrati che saranno scacciati - parola del sindaco di Coccaglio, presso Brescia - profittando dei permessi di soggiorno in scadenza. Come in certi film tedeschi (Heimat, Il Nastro bianco) è un villaggio-microcosmo che genera mostri. Genera anche irrazionalità, come ha spiegato un medico del lavoro di Bologna, Vito Totire, in una bellissima lettera inviata il 19 novembre al direttore della Stampa: non sono gli italiani a compiere oggi le bonifiche dell’amianto, «ma gli immigrati, per pochi euro, in condizioni di sicurezza incomparabilmente migliori di quelle di anni fa ma non del tutto immuni da rischi».
In Francia un collettivo sta preparando un giorno di sciopero, intitolato «24 ore senza di noi»: quel giorno gli immigrati resteranno a casa, per mostrare cosa accadrebbe se smettessero di lavorare e consumare.
Ma non sono solo economiche, le ragioni per cui l’immigrato è prezioso, indispensabile. Specialmente in Italia ha una funzione più segreta, più vera. Gli immigrati anticipano la risposta alle tre antiche domande, prefigurando quel che saranno in avvenire i cittadini italiani. Sono un po’ i nostri posteri, che contribuiranno a forgiare la futura identità dell’Europa e delle sue nazioni. Saremo quel che diverremo con loro, mescolando la nostra cultura alla loro. D’altronde le radici d’Europa son fatte da Atene, Gerusalemme, Roma, Bisanzio-Costantinopoli. Il culmine della civiltà fu raggiunto dalla res publica romana: un impasto meticcio di molte lealtà.
Gli immigrati, nostri posteri, sono proprio per questo scomodi. Perché entrando nelle nostre case ci porgono uno specchio in cui scorgiamo quel che siamo, il senso del diritto e della giustizia che stiamo perdendo. Esistono comportamenti civici che l’immigrato, accostandosi all’Europa con meno stanchezza storica, fa propri con una naturalezza ignota a tanti italiani.
Gli esempi si moltiplicano, e quasi non ci accorgiamo che la nostra stanchezza è rifiuto di preparare il futuro, e generalmente conduce al collasso delle civiltà. Il regista Francis Ford Coppola, intervistato per da Raffaella Silipo e Bruno Ventavoli (19-11) descrive il possibile collasso: «Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un paese in cui i padri divorano i figli, si prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità».
È significativo che lo dica un italo-americano, nipote di nostri emigranti. Che evochi, con l’immagine dello sbranamento cannibalico, una crudeltà radicale verso il prossimo: la crudeltà del padre che usurpa figli e futuro, convinto che fuori dal suo recinto non c’è mondo. Anche Stefano Cucchi, il ragazzo pestato a morte il 16 ottobre nei sotterranei di un tribunale a Roma, è un figlio sbranato. In alcune parti d’Italia la vita non vale nulla, uccisa dall’apatia ambientale più ancora che dalla lama. Anche qui, come nei lavori pericolosi, l’immigrato agisce spesso al nostro posto, con funzione vicaria. Nel caso di Cucchi c’è un unico testimone, anche se parla confuso: un immigrato detenuto del Ghana, addirittura clandestino, che rischia tutto rivelando la verità.
Allo stesso modo sono immigrati africani a insorgere contro camorra e ’ndrangheta. Prima a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, dopo una carneficina che uccise sei cittadini del Togo, Liberia, Ghana. Poi il 12 dicembre 2008 a Rosarno, presso Reggio Calabria, dopo il ferimento di due ivoriani. Regolari o clandestini, gli immigrati hanno una fede nello Stato di diritto che gli italiani, per paura, rassegnazione, sembrano aver smarrito. Roberto Saviano rese loro omaggio: «Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull’onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti. (...) Nessun italiano scende in strada». (Repubblica, 13-5-2009).
Ci sono video che dicono queste cose inconfutabilmente. Il video che ritrae l’indifferenza di decine di passanti quando venne ucciso, il 26 maggio, il musicista rumeno Petru Birlandeanu, nella stazione cumana di Montesanto. Il video che mostra l’assassinio di Mariano Bacioterracino, lo svaligiatore di banche ucciso l’11 maggio da un camorrista a Napoli. Anche qui i passanti son lì e fanno finta di niente. Difficile non esser d’accordo con Coppola: l’Italia mette tristezza, e a volte in tanto buio non ci sono che gli immigrati a emanare un po’ di luce.
Ai potenti non piacciono i film noir sull’Italia. Roberto Maroni, ad esempio, ha criticato la diffusione del video su Bacioterracino, predisposta dal procuratore di Napoli Lepore con l’intento di «scuotere la popolazione che per sei mesi non si era mossa». Insensibile alla pedagogia civica del video, il ministro s’indigna: «Hanno dato l’idea di una città, Napoli, ben diversa dalla realtà». D’altronde fu sempre così, nella storia della mafia.
Nel 1893, quando in un treno che lo portava a Palermo fu ucciso Emanuele Notarbartolo, un uomo onesto che combatteva la mafia nel Banco di Sicilia, il senatore mandante fu infine assolto perché non si voleva trasmettere un’immagine ignobile della Sicilia e dell’Italia. Durante il fascismo, il prefetto Mori combatté una battaglia che molti - nel regime, nei giornali - interpretarono come denigrazione della patria. Cesare Mori fu allontanato perché non imbelliva la nostra identità ma l’anneriva per risanarla.
Dice ancora Coppola che un film come Gomorra l’infastidisce. Non racconta una storia, tutto è freddo, terribile: «E’ spaventoso vedere Napoli rappresentata con tanto realismo. Quei delinquenti non sono più esseri umani». È vero, il film non è fascinoso e chiaro come il Padrino. È inferno, caos. Ma è tanto più reale. Viene in mente Salamov, il detenuto dei Gulag, quando critica il crimine troppo imbellito da Dostoevskij, «falsificato dietro una maschera romantica» (Salamov, Nel Lager non ci sono colpevoli, Theoria 1992).
Tra Dostoevskij e Salamov c’è stato il Gulag, che solo una «scrittura simile allo schiaffo» può narrare. Tra Coppola e Gomorra c’è il filmato che ritrae Bacioterracino atterrato senza schianto. È ancora Saviano a scrivere: «Il video decostruisce l’immaginario cinematografico dell’agguato. Non ci sono braccia tese a impugnare armi, non ci sono urla di minaccia, non c’è nessuno che sbraita e si dispera mentre all’impazzata interi caricatori vengono riversati sulla vittima inerme. Niente di tutto questo. La morte è fin troppo banale per essere credibile. L’esecuzione è un gesto immediato, semplice, poco interessante, persino stupido. Ma è la banalità della scena, quella assurda serenità che la circonda e che sembra ovattarla e relegarla al piano dell’irrealtà, che mette in dubbio l’umanità dei presenti. Dopo aver visto queste immagini è difficile trovare giustificazioni per chi ritiene certi argomenti diffamatori per Napoli e per il Sud».
Le tre domande dell’inizio restano. Impossibile rispondere, se la realtà del nostro divenire non la guardiamo assieme agli immigrati. Se non vediamo che non solo per loro, anche per noi e forse specialmente per noi valgono i versi di Rilke: «Ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, cui non appartiene il passato né ancora il futuro più prossimo. Poiché anche il più prossimo è lontano per l’uomo».
La legge 94, del 15 luglio 2009, è un capolavoro di xenofobia e incongruenze. È sciatta e farraginosa, formata da soli 3 articoli suddivisi in una miriadi di commi e subarticolazioni. È dispendiosa, costerà tagli per 166 milioni. È piena di assurdità, scrivere sui muri diventa più grave del falso in bilancio
Sia da un punto di vista formale, sia da un punto di vista dei contenuti, l'ennesimo «pacchetto sicurezza» (legge 15 luglio 2009, n.94) sconta in maniera preoccupante per le ragioni di uno stato di diritto, il suo essere opera di una convulsa attività legislativa di tipo emergenziale, espressiva più di emozioni, poco accreditabili sul piano della stessa civiltà, che non di una razionale politica criminale.
Sotto il profilo formale, la tecnica di redazione è connotata da farragine e sciatteria: siamo lontanissimi dall'esigenza di chiarezza che, secondo la fondamentale lezione illuministica sulla legalità, deve contrassegnare, nello stato di diritto, la normativa penale: essa pretende, di regola, per le violazioni alle sue disposizioni anche il sacrificio della libertà individuale. Ed invece, nel pacchetto sicurezza farragine e sciatteria sono la regola: si consideri solo che la legge 94/09 è formata da tre soli articoli - privi di rubrica, cioè di un titolo illustrativo dei contenuti - che risultano suddivisi, rispettivamente, il primo in trentadue commi, il secondo in trenta commi ed il terzo in ben sessantasei commi; inoltre, la gran parte delle norme contiene ulteriori subarticolazioni, con defatiganti rinvii, anche plurimi, ad altre norme, e con frequenti interpolazioni di queste ultime. In queste disposizioni risultano allineate in modo confuso o, addirittura, intrecciate ipotesi di reato, circostanze aggravanti, cause di maggiore o minore punibilità e tutta una gamma variegata di norme non penali che, tuttavia, finiscono con l'incidere drammaticamente sui diritti fondamentali delle persone, come le norme in tema di centri di identificazione ed espulsione.
Se c'è una lettura difficile anche per un penalista esperto - figuriamoci per il semplice consociato, il destinatario delle norme - è certo quella di questi tre articoli: impegna realmente per ore!
Furia cieca
Dal punto di vista dei contenuti, la caratteristica del complesso malassortito delle tante disposizioni è data dal loro essere espressione di bisogni, spessissimo indotti, di rassicurazione dell'opinione pubblica, soprattutto in rapporto ad immigrazione ed ordre dans la rue, con un occhio alla mafia ed entrambi gli occhi serrati rispetto alla criminalità del ceto politico-amministrativo, imprenditoriale e finanziario.
I rimedi adottati sono riassumibili nello slogan: più repressione, più carcere, più controllo, di polizia e non. Sulla scia di precedenti, improvvidi provvedimenti normativi si mette in scena una coazione a ripetere repressiva, che, connotata da inquietante populismo, criminalizza e rinchiude gli outsiders, oppure li scheda (registro nazionale dei vagabondi, art.3 co.39) e li vessa in vario modo (vedi la tassa da 80 a 200 euro sul permesso di soggiorno, oppure il sistema a punti, con perdita del permesso per lo straniero che non raggiunge certi «obiettivi» previsti dall'«accordo di integrazione», art.1 co.25), per assecondare senza scrupoli le pulsioni xenofobe di una minoranza tanto rumorosa quanto incivile. Si arriva così allo stato di polizia: controllo ossessivo - anche attraverso sorveglianti «parapoliziali», le ronde -, marchi sui vagabondi e campi di internamento.
Una legge costosa
Considerando i prevedibili effetti della legge n.94 in chiave di carcerizzazione e di internamenti nei centri d'identificazione ed espulsione (Cie), appare manifesto che il governo ed il legislatore si comportano in modo ciecamente repressivo ed irresponsabile, dato l'insostenibile sovraffollamento carcerario; e tutto ciò avviene deliberatamente e platealmente a spese di ben più efficaci ed auspicabili interventi in chiave di sviluppo economico-sociale, anche all'estero, dal momento che, come illustra la tabella 1 allegata alla legge, per costruire nuovi Cie si stabiliscono tagli ai fondi ministeriali che gravano soprattutto sul ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, per quasi 90 milioni di euro in tre anni (!), e poi sul ministero degli affari esteri, per circa 49 milioni, e su quello dell'economia e delle finanze, per più di 14 milioni, su un totale di tagli di 166 milioni.
Monumento all'inefficacia
Guardando ai singoli contenuti, in materia di immigrazione si staglia il nuovo reato di soggiorno illegale, un vero e proprio monumento di inefficacia, al di là di ogni altra dolorosa considerazione. Nessun extracomunitario illegale potrà mai pagare la prevista ammenda da 5000 a 10000 euro - per la quale viene arbitrariamente esclusa l'applicabilità della comune disciplina dell'oblazione -; né si capisce a cos'altro serva mai questa figura di reato, dal momento che l'autore denunciato può essere immediatamente espulso o internato nel Cie, il che poteva già avvenire in via amministrativa secondo la disciplina vigente. Dal punto di vista funzionale era sostanzialmente equivalente il reato di inottemperanza all'ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato - sanzionato, a seconda dei casi, con la reclusione da un anno a quattro o a cinque anni (o da sei mesi ad un anno in caso di permesso scaduto) - che viene «ritoccato» rispetto alla disciplina risultante dal pacchetto sicurezza dell'anno scorso (d.l. n.92, conv. in l.n.125/08). E come il reato di inottemperanza, anche la nuova fattispecie si presenta priva di legittimazione in uno stato di diritto conforme ai principi costituzionali del sistema penale.
Infatti, si può legittimamente punire una persona solo se abbia leso o messo in pericolo un bene giuridico, in altri termini un tangibile interesse o diritto di una o più persone; non si può sanzionare penalmente taluno per la mera disobbedienza ai comandi dell'autorità (nullum crimen sine iniuria). Ora, l'extracomunitario senza permesso di soggiorno, o che non si allontana, con ciò solo non fa male proprio a nessuno; ritenere che solo per il fatto di essere sans papier sia pericoloso è espressione di pura xenofobia.
Ma ciò, evidentemente, non importa ai pretesi fautori del pragmatismo efficientista e della tolleranza zero, come non importa loro che l'unico vero effetto della nuova disciplina possa essere quello di far scoppiare i Cie, in attesa che si realizzino quelli nuovi, moltiplicando così i campi di internamento disseminati nel territorio nazionale. Va considerato infatti che, in ultima analisi, il reato di ingresso illegale ha come vera sanzione l'internamento nel Cie, ossia, al di là delle etichette, una pena detentiva fino a sei mesi.
In questo contesto si segnalano anche altre gravi discriminazioni e stranezze, come l'aumento da sei mesi ad un anno dell'arresto previsto (oltre all'ammenda) per lo straniero che rifiuta di esibire i documenti, art.1 co.22 lettera h, mentre il cittadino che realizza un fatto analogo è punibile solo con l'arresto fino ad un mese (e un'ammenda dieci volte inferiore), art.651 c.p.; o le modifiche alla norma incriminatrice del dare alloggio o cedere anche in locazione un immobile ad uno straniero originariamente o successivamente divenuto irregolare, laddove è prevista la reclusione da sei mesi a tre anni, a fronte dell'ammenda prevista per lo straniero irregolare. Una incongruenza veramente singolare.
Ma forse è nell'art.3 e negli altri contenuti «stravaganti» del pacchetto sicurezza che più traspare la sua natura emergenziale; nuove incriminazioni e soprattutto aumenti di pena del tutto superflui assecondano in ordine sparso, al di fuori di una visione sistematica coerente, le ansie repressive spesso indotte dai mass-media. Qualche esempio: innanzitutto, il restyling del reato di oltraggio, un omaggio allo strisciante neofascismo, oggi tanto in voga. Si pensi inoltre alla gran messe di aggravanti introdotte con la legge n.94: è giusto contrastare fatti di bullismo ed in genere fatti contro la persona in danno di minori, ma allo scopo non serve, ed anzi è miopemente arbitrario, prevedere un'aggravante se il fatto è commesso «all'interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o di formazione», art.3 co.20: perché, in discoteca è meno grave o meno pericoloso? E per strada?
Considerazioni analoghe potrebbero svolgersi per le nuove aggravanti del furto e della rapina, di cui all'art.3 co.26-27, consistenti, rispettivamente, nella commissione «all'interno di mezzi di pubblico trasporto» - non è aggravata, però, la rapina appena scesi alla fermata in periferia... - oppure al momento in cui la vittima preleva denaro o l'ha «appena» prelevato: una sorta di istigazione indiretta a seguire la vittima, per rapinarla dopo, lontano dalle guardie e dalle telecamere... Non parliamo poi dell'aggravante - da un terzo alla metà della pena - prevista per la guida in stato di ebbrezza o stupefazione se commessi dalle 22 alle 7; sinceramente credevamo fosse più grave e/o pericoloso guidare ubriachi in pieno giorno, quando e dove c'è più gente in giro.
Il decoro urbano soprattutto
Per finire, si diceva che questo pacchetto sicurezza riduce la sicurezza ad ordre dans la rue; in effetti, il decoro urbano, o la sua fruibilità dalle persone «perbene», sembra ormai essere più importante non solo delle libertà di circolazione e soggiorno degli altri, ma anche della stessa libertà personale. Viene introdotta la pena della reclusione, in alternativa alla multa, per chi imbratta (senza danneggiarli) immobili o mezzi di trasporto. Nei casi di recidiva anche semplice, la pena massima è raddoppiata a due anni di reclusione: più grave del falso in bilancio.
Su tutto questo ed altro ancora, vigileranno le famigerate ronde. Tra tanti rischi di abusi in chiave squadrista, di conflitti con altri gruppi e con le forze dell'ordine, e così via, forse il rischio maggiore consiste nel fatto che la sorveglianza di strada dei «cittadini perbene» possa perpetuare una visione «a senso unico» della sicurezza, orientata ad una certa criminalità o mera illegalità di strada. E così, magari, l'imprenditore che picchia l'operaio rumeno in azienda non viene segnalato, ma potrebbe esserlo l'operaio che, appena uscito in strada, gli imbratta l'auto; così come sarà facile prevedere la segnalazione per il giovane ubriaco che di notte fa troppo chiasso nella movida o in qualche periferia che non quella dei poliziotti che, giunti sul posto, come pure avviene, perdano la testa e lo picchino a sangue.
Abbiamo provato a gridarlo in ogni modo che il mostruoso reato d'immigrazione clandestina avrebbe generato crimini «umanitari». Così è stato, purtroppo. L'abbandono e poi la morte dei settantatre profughi eritrei è la prima strage prodotta dal «pacchetto-sicurezza». È, certo, il frutto maturo del trattato con la Libia, siglato dal ministro Amato, rafforzato e reso operativo, cioè criminale, dall'attuale governo. È il frutto, più largamente, dell'Europa-fortezza e dell'adeguamento alla sua politica anche da parte del governo maltese.
Ma inedito è il cinismo di Stato per cui una tale strage non trovi come risposta né l'indignazione corale, né l'incriminazione per strage, appunto, bensì per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. «Senza escludere un'eventuale ipotesi di omissione di soccorso», dicono gli inquirenti. Immigrazione clandestina di cui potrebbero essere imputati i cinque poveri spettri che il fato - lui solo compassionevole - ha voluto sottrarre alla morte. Questo «dettaglio», con l'annuncio della parata che Berlusconi sta per fare il 30 agosto con Gheddafi per festeggiare a Tripoli l'anniversario del trattato, restituisce in modo perfetto il senso del crollo dell'elementarmente umano consumato con le politiche di questo governo.
Politiche disumane generano comportamenti disumani: se nessuno ha sentito il dovere morale di soccorrerli è anche perché leggi criminali producono condotte sociali criminali. Ma non tutto è inedito in questo dramma. Non è vero che con esso «abbiamo toccato il fondo», come si è scritto. Se così fosse, si potrebbe coltivare la fragile speranza che un futuro governo non reazionario e non razzista potrebbe ripristinare forme di rispetto per l'elementarmente umano. Purtroppo non è così. Ce lo dice la strage di 108 profughi albanesi della Kater I Rades, provocata nel 1997 dalla pretesa di un governo di centrosinistra di bloccare manu militari l'esodo albanese. Ce lo ricorda un'altra strage del proibizionismo, quella del 25 dicembre 1996, in cui annegarono 233 migranti: a lungo ignorata dai media - il manifesto fu l'unico giornale ad aprire subito con la tragedia -, sempre negata dal governo di centrosinistra e occultata da una parte dei pescatori di Portopalo. Alla fine fu grazie all'ostinazione di qualche giornalista e di antirazzisti come Dino Frisullo, che il silenzio fu spezzato. Non vogliamo sostenere che il trattamento crudele riservato ai de-umanizzati - coloro che anche da cadaveri sono detti clandestini - sia una lunga notte oscura in cui tutte le vacche sono nere. Ma che per produrre i frutti marci che coltiva il governo in carica, di fatto guidato dall'ideologia post-nazionalsocialista della Lega nord, altri hanno provveduto a spargere i semi avvelenati: quelli del proibizionismo crudele e ad ogni costo. La condizione per tornare a coltivare la speranza sta nella costruzione di una volontà collettiva di superamento del paradigma proibizionista.
Sono arrivati in cinque. Erano ische-letriti, cotti dal sole che martella, in agosto, sul canale di Sicilia. Ma il barcone, era grande: ce ne stipano ottanta, i trafficanti in Libia, di migranti, su barche così. Affastellati uno sull’altro come bidoni, schiena a schiena, gli ultimi seduti sui bordi, i piedi che penzolano sull’acqua. E dunque quel barcone vuoto, con cinque naufraghi appena, è stato il segno della tragedia. Laggiù a 12 miglia da Lampedusa, ai margini estremi dell’Europa, un relitto di fantasmi. Cinque vivi e forse più di settanta morti, in venti giorni di peregrinazione cieca nel Mediterraneo.
Decine e decine di eritrei inabissati come una povera zavorra di ossa in fondo a quello stesso mare in cui a Ferragosto incrociano navi da crociera, traghetti, e gli yacht dei ricchi. È questo il dato che raggela ancor più. Perché in venti giorni, nelle acque della Libia e di Malta, e in mare aperto, qualcuno avrà pure incrociato, o almeno intravisto da lontano quel barcone; ma lo ha lasciato andare al suo destino. Solo da un peschereccio, hanno detto i superstiti, ci hanno dato da bere. Come dentro a una spietata routine: eccone degli altri. E non ci si avvicina. Non si devia dalla rotta tracciata, per un pugno di miserabili in alto mare. Noi non sappiamo immaginare davvero. Come sia immenso il mare visto da un guscio alla deriva; come sia spaventoso e nero, la notte, senza una luce.
Come picchi il sole come un fabbro sulle teste; come devasti la sete, come scarnifichino la pelle le ustioni. Noi del mondo giusto, che su quelle stesse acque d’agosto ci abbronziamo, non sappiamo quale spaventevole nemico siano le onde, quando il motore è fermo, e l’orizzonte una linea vuota e infinita. Non possiamo sapere cosa sia assistere all’agonia degli altri, impotenti, e gettarli in acqua appena dopo l’ultimo respiro. 'Altri' che sono magari tuo marito o tuo figlio. Ma bisogna liberarsene, senza tempo per piangere. Perché quel sole tormenta e disfa anche i morti; e i vivi, vogliono vivere. Noi non sappiamo com’è il Mediterraneo visto da un manipolo di poveri cristi eritrei, fuggiti dalla guerra, sfruttati dai trafficanti, messi in mare con un po’ di carburante e vaghe indicazioni di una rotta.
Ma c’è almeno un equivoco in cui non è ammissibile cadere. Nessuna politica di controllo della immigrazione consente a una comunità internazionale di lasciare una barca carica di naufraghi al suo destino. Esiste una legge del mare, e ben più antica di quella pure codificata dai trattati. E questa legge ordina: in mare si soccorre. Poi, a terra, opereranno altre leggi: diritto d’asilo, accoglienza, respingimento. Poi. Ma le vite, si salvano. E invece quel barcone vuoto – non il primo arrivato come un relitto di morte alla soglia delle nostre acque – dice del farsi avanti, tra le coste africane e Malta, di un’altra legge. Non fermarsi, tirar dritto. (Pensate su quella barca, se avvistavano una nave, che sbracciamenti, che speranza. E che piombo nel cuore, nel vederla allontanarsi all’orizzonte).
La nuova legge del non vedere. Come in un’abitudine, in un’assuefazione. Quando, oggi, leggiamo delle deportazioni degli ebrei sotto il nazismo, ci chiediamo: certo, le popolazioni non sapevano; ma quei convogli piombati, le voci, le grida, nelle stazioni di transito nessuno li vedeva e sentiva? Allora erano il totalitarismo e il terrore, a far chiudere gli occhi. Oggi no. Una quieta, rassegnata indifferenza, se non anche una infastidita avversione, sul Mediterraneo. L’Occidente a occhi chiusi. Cinque naufraghi sono arrivati a dirci di figli e mariti morti di sete dopo giorni di agonia. Nello stesso mare delle nostre vacanze. Una tomba in fondo al nostro lieto mare. E una legge antica violata, che minaccia le stesse nostre radici. Le fondamenta. L’ idea di cos’è un uomo, e di quanto infinitamente vale.
Tanti sono, secondo la stima della Caritas, gli immigrati in Italia senza permesso di soggiorno. Una cifra alla quale si avvicina quella fatta dall’Ocse che parla invece di 500-750 mila clandestini.
L’ Ocse (Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo) stima che nel nostro Paese vivano tra i 500 e i 750 mila immigrati clandestini. Sono l’1,09% della popolazione italiana e il 25,6% di tutti i residenti stranieri. Il dato emerge dal rapporto 2009 dedicato al fenomeno dell’immigrazione. Ed è assolutamente in linea con quanto avviene negli altri Paesi europei (mentre gli illegali negli Usa sono addirittura il 3,94 della popolazione complessiva). Queste sono le ultime cifre «ufficiali» relative al fenomeno che sta infiammando il dibatto politico italiano dopo l’entrata in vigore del nuovo pacchetto sicurezza. Ma le valutazioni sull’impatto che avrà il provvedimento di sanatoria (nel prossimo mese di settembre) per le colf e le badanti aiutano a correggere al «rialzo» il dato. Secondo il responsabile del Dossier statistico della Caritas Migrantes, Franco Pittau, — uno dei massimi esperti italiani di flussi migratori — la stima degli irregolari dovrebbe aggirarsi più realisticamente «intorno a un milione di persone». Perché è presto detto. Secondo Pittau, in questo campo «vale la regola del doppio». E cioè per ogni colf e badante che chiede di «emergere» c’è almeno un altro immigrato irregolare sul territorio. «Ce lo insegna l’esperienza della regolarizzazione della Bossi-Fini del 2002 e dei decreti-flussi del 2006 e 2007».
Le badanti interessate dalla sanatoria dovrebbero essere circa cinquecentomila. Secondo una recente indagine delle Acli-colf, infatti, la metà della categoria lavora in nero. Nel nostro Paese si contano 600 mila lavoratori domestici regolari, ma considerando il sommerso il loro numero arriva almeno al doppio.Anche il Dipartimento Immigrazione del Viminale prevede una regolarizzazione — a settembre — di 500 mila rapporti di lavoro domestico («solo» 300 mila per la Ragioneria generale dello Stato).Ma dal momento che colf e badanti costituiscono almeno il 50 per cento di chi negli anni passati ha richiesto la regolarizzazione (la metà dei circa 700 mila candidati che ha fatto domanda nel 2002, e lo stesso è avvenuto con le 500 mila richieste del 2006 e le quasi 750 mila del 2007), eccoci arrivati — secondo la Caritas — «alla cifra di un milione di immigrati irregolari sul nostro territorio».
Naturalmente si tratta, per la quasi totalità, di persone che un lavoro già ce l’hanno, ma che non hanno potuto ottenere il permesso di soggiorno, a causa di «quote d’ingresso» troppo basse rispetto alle richieste di privati e aziende. Persone che in ogni caso — come ha commentato ieri Giuliano Cazzola — «fanno lavori che gli italiani rifiutano ». Mentre senza di loro interi settori produttivi «non avrebbero personale ».
Il rapporto Ocse evidenzia altri due dati che sfatano luoghi comuni radicati. Primo: la stragrande maggioranza degli irregolari entra in Italia legalmente. Ben il 60-65% sono overstayer , cioè persone che sono entrate in modo regolare e poi si sono trattenute più di quanto consentito dal loro visto di ingresso. Un altro 25% dei clandestini giunge illegalmente da altri Paesi Schengen, approfittando dell’abolizione dei controlli alle frontiere. Soltanto il 15% dell’immigrazione irregolare arriva dal mare e dalle rotte del Mediterraneo. Anche se negli ultimi mesi c’è una nuova crescita degli sbarchi dovuta alla pressione demografica dall’Africa subsahariana e dalle coste meridionali del Mediterraneo dovuta all’aggravarsi della crisi alimentare ed economica.Mediamente, in un anno, però non più di 60.000 persone attraversano il Mediterraneo dirette in Europa.
Secondo l’Ocse, questo «suggerisce che è difficile ridurre l’immigrazione irregolare attraverso misure di solo controllo delle frontiere». La ricerca di lavoro di chi entra magari per turismo è «alimentata dalle richieste del mercato del lavoro non soddisfatte dai canali dell’immigrazione legale», sottolinea il Rapporto. E ancora: «Quando esistono reali necessità del mercato e i datori di lavoro hanno mezzi limitati per reclutare lavoratori all’estero, l’ingresso illegale, seguito dalla ricerca del lavoro e dal protrarsi della permanenza, è una delle strade usate per bilanciare la domanda e l’offerta, sebbene non necessariamente sia la più vantaggiosa per gli stessi immigrati e per il mercato del lavoro del Paese ospitante». I dati mostrano quindi come l’elemento principale per contrastare l’immigrazione illegale dovrebbe essere l’apertura di canali legali d’immigrazione. «Questo è ciò che chiedono i mercati del lavoro nei Paesi Ocse e in Europa — conclude il Rapporto — ma su cui la risposta politica è ancora insufficiente, a partire dal Patto su immigrazione e asilo».
C’è poi il secondo luogo comune sfatato. Non solo non è vero che gli immigrati, regolari e irregolari, «rubano» lavoro, ma addirittura aiutano a creare posti di lavoro. Si prenda ad esempio il caso delle badanti, che ormai esercitano buona parte delle attività degli assistenti domiciliari: il numero di questi ultimi paradossalmente è cresciuto perché essi possono svolgere attualmente mansioni più qualificate di un tempo.
La crisi sta rallentando il flusso, «per la prima volta dagli anni 80». Per quanto riguarda l’Italia, dopo quello dall’Albania, si stanno fermando anche gli arrivi dalla Romania. Trascurabili i nuovi ingressi dei polacchi, mentre sono sempre sostenuti quelli da Moldavia e Ucraina. Pittau però ritiene che «il mercato del lavoro italiano sia comunque sempre appetibile». E cita la teoria delle formichine del demografo Enrico Todisco della Sapienza. «Finché ci saranno anche solo delle briciole le formichine si sposteranno per raggiungerle».
Ci sarebbe da riflettere sul fatto che la difesa della permanenza dei “clandestini” è generalmente motivata dall’utilità del loro lavoro (sottopagato) per gli italiani, non dall’obbligo morale di difendere anche gli stranieri poveri dalla sottrazione del diritto di cittadinanza. E poi parlano di “valori” e di “princìpi”, parlano di “difesa della civiltà”. É civiltà questa?
Le cifre della strage sono pubbliche, accessibili a tutti. Basta consultare il sito di Fortress Europe per conoscere i numeri della nostra vergogna. Nei primi quattro mesi dell'anno sono stati già 339 i migranti morti annegati nel canale di Sicilia. Erano stati 1.274 in tutto il 2008. E ammontano a 4.099 nel quindicennio che va dal 1994, quando si è incominciato a tenere il conto dei morti sulla base delle notizie stampa, a oggi. Un'altra decina di migliaia di vittime si contano sulle rotte verso la Spagna e le Canarie (4.436), nel mar Egeo, verso la Grecia (1.310), nel nostro Adriatico, dall'Albania (603), o nel deserto del Sahara, lungo «le piste tra Sudan, Chad, Niger e Mali da un lato e Libia e Algeria dall'altro» (1.691 morti censiti, ma il numero è sottostimato perché la maggior parte delle tragedie si consuma fuori da ogni vista, senza lasciar traccia né notizia).
Altri sono morti di freddo nel tentativo di attraversare le zone montuose tra Turchia e Grecia. O saltando nei campi minati dell'Evros, in Macedonia (91 persone). O annegati nelle acque dell'Oder, del Sava, del Morava, i fiumi che separano Polonia e Germania, Bosnia e Croazia, Slovacchia e Repubblica Ceca. O assiderati nei carrelli degli aerei dove si erano nascosti per sfuggire ai controlli (41 persone). O soffocati nei container di un tir. O, ancora, caduti sotto gli spari delle diverse polizie di frontiera, a Ceuta e Melilla, l'enclave spagnola in Marocco, in Gambia, in Egitto, in Israele, in Libia, dove sono documentate le feroci torture praticate «nei centri di detenzione per stranieri, tre dei quali sarebbero stati finanziati dall'Italia».
Il totale è agghiacciante: 14.679 morti documentate lungo il perimetro che circonda la civile Europa con un muro immaginario immenso, infinitamente più lungo, alto e terribile di quello stesso Muro di Berlino la cui caduta è stata salutata come una liberazione dai fantasmi del Novecento. Di questi numeri non si è parlato nel G8 dell'Aquila, che pure della tragedia dell'Africa si è fatto ampiamente scudo per nascondere il proprio vuoto. Non hanno turbato lo shopping delle first ladies per le vie di Roma. Né i sonni dei loro augusti mariti nella caserma di Coppito, riadattata in fretta e furia per l'occasione probabilmente con il lavoro di un buon numero di sopravvissuti a quella strage, ora «regolarizzati».
Soprattutto non hanno segnato, col proprio scandalo, neppure una riga dei discorsi ufficiali del cosiddetti «Grandi», detentori di un'estenuata sovranità nazionale che - pur nel proprio anacronismo - non tollera messe in discussione né eccezioni, pronta a rivalersi della propria impotenza verso la forza dei mercati e dei capitali con la segregazione, il respingimento, la chiusura dei confini e il loro presidio, l'ostentazione muscolare nei confronti dei più deboli tra i deboli.
Men che meno, quei numeri - eppure di questo si trattava -, hanno anche soltanto sfiorato la discussione nel nostro parlamento su quel decreto sicurezza che, divenuto legge, trasforma in reato penale la colpa di esser sopravvissuti al viaggio. Tacendo sui sommersi, costituisce in «criminali» i salvati. Il Senato l'ha approvato in un clima dimesso, dopo un dibattito svogliato, come si trattasse di ordinaria amministrazione, con un'opposizione rassegnata, distratta e in una sua parte, almeno, intimamente connivente. E una stampa divisa tra le storie da bordello del premier e la cronaca rosa del summit, un occhio ai letti di palazzo Grazioli e l'altro ai tavoli di Coppito.
Eppure uno strappo, grave - un ennesimo, tanto che ci si è assuefatti - alla nostra civiltà giuridica, e alla più elementare morale pubblica, in quell'atto si è consumato: con l'introduzione del «reato di clandestinità», in una forma che è unica in Europa, si è varcato un limite. Sanzionando penalmente l'ingresso o la permanenza del singolo straniero sul nostro territorio, si individua come fattispecie di reato non un fatto o una serie di «fatti lesivi di beni meritevoli di tutela penale» ma - come è stato autorevolmente sostenuto da un buon numero di giuristi - «una condizione individuale, la condizione di migrante» secondo una logica che assume di per sé «un connotato discriminatorio contrastante non solo con il principio di eguaglianza, ma con la fondamentale garanzia costituzionale in materia penale, in base alla quale si può essere puniti solo per fatti materiali».
Sul piano pratico gli effetti saranno nulli, o più probabilmente negativi. Chiunque conosca il problema concorda che l'applicazione di quell'obbrobrio è tecnicamente impossibile, metterebbe in crisi l'intero sistema giudiziario. Spaventerà, certo. Rafforzerà le tendenze xenofobe già fin troppo diffuse nei nostri uffici pubblici, nei commissariati di polizia, tra le pieghe della burocrazia. Alimenterà la paura in chi dalla paura, nelle proprie terre, aveva tentato di fuggire. Ma non produrrà certo né più «sicurezza», né più ordine. Anzi. Può darsi che per qualche tempo influenzi la geografia dei flussi, scoraggiando almeno in parte le rotte verso l'Italia, spostandone tuttavia le derive lungo altre direttrici, dalla Turchia alla Grecia, in primo luogo, sui confini orientali dove la pericolosità è maggiore, e la mortalità rischia di crescere.
Un effetto, evidente, la legge ce l'ha, invece, sul piano simbolico. Per il messaggio che lancia. E per l'incultura che rivela. Uno strappo intollerabile, perché di effetti simbolici si nutre oggi la politica e la coscienza collettiva. E di oltraggi simbolici al pudore civile una democrazia muore. C'è da augurarsi che la figura cui spetta in ultima istanza il ruolo di «custode della Costituzione» non avalli un tale strappo. Che lo scandalo di quei numeri, inascoltato negli altri luoghi del potere, varchi almeno i muri del Quirinale.
"Ero straniero e mi avete accolto"
di Michele Smargiassi
CASTEL VOLTURNO (Caserta) - Più conosce l’italiano, più Mary odia quella parola. «Clandestino. Mi fa orrore». Non è solo questione di brutti ricordi, è proprio un odio semantico. «Clan/destino: il tuo destino è il clan, non sarai mai un cittadino vero». L’etimologia di Mary è bizzarra, ma suggestiva. «È l’unica vera parola che troppi italiani hanno per noi. Anche quando dicono regolari, pensano clandestini: restate al vostro posto, nel vostro clan, non siete come noi».
A volte Mary si sente ancora clan/destina come all’inizio. Venne dal Ghana col visto turistico e, quando scadde, restò. Ha avuto fortuna: prese al volo una delle ultime sanatorie. Ora fa l’interprete per un’associazione che assiste i rifugiati politici, ha due figlie, una casa dignitosa e paga un affitto. Ma non ce l’avrebbe mai fatta se un buon samaritano, senza frugarle le tasche in cerca di documenti, non l’avesse ospitata e aiutata. Mary è stata la prima tra le migliaia di immigrati che padre Giorgio ha accolto da quando, tredici anni fa, reduce dalle missioni africane, scelse di farsi missionario nell’Africa nostra, la gran piana dei pomodori e dell’illegalità, il primo girone dell’inferno migrante italiano: Castel Volturno.
E padre Giorgio dov’è? «In stanza». Quella che sulla porta ha una foto di Auschwitz. Bussiamo. Eccolo: barba, camiciona arancione, sta timbrando permessi di soggiorno. Col timbro del Signore. Non può certo usare quello del ministro. «Ma stiamo parlando di dignità umana, no? E allora è chiaro, tra le due, quale sia l’Autorità più Competente». Compila, controfirma il foglio azzurrino: ecco, un altro permesso di soggiorno in nome di Dio è pronto. Lui e i suoi confratelli ne hanno rilasciati a centinaia: protesta beffarda e amara, ribellione simbolica e un po’ goliardica. A prima vista sembrano quelli veri, però è difficile che un questore li prenda per buoni. Ma valgono qualcosa dinanzi a un Giudice più alto.
Per qualcuno, pochi, è un profeta in sandali. Per altri, tanti, è quello che «ci porta in casa i negri». Per se stesso Giorgio Poletti, 67 anni, comboniano e sacerdote, è «un devoto della Legge», occhio alla maiuscola, a costo di sfidare la legge, occhio alla minuscola. «Non denuncerò nessuno straniero senza documenti. Una legge contraria ai diritti umani e all’insegnamento di Cristo, io non la servo. Mi mettano pure in galera. E guardi che io non ho nessuna voglia di andare in galera. Non sono un incendiario. Sono figlio di povera gente che aveva soggezione e rispetto per l’autorità. Quel rispetto ce l’ho dentro. Ma c’era da scegliere, e io ho scelto».
La chiesa di Santa Maria dell’Aiuto è una gabbia di cemento armato tamponata di mattoni, ma dentro è sorprendentemente luminosa. Di fianco all’altare una batteria e un set di tamburi afro. «Le nostre messe durano un paio d’ore. Anche adattare il nostro stile liturgico è accoglienza». Sulle pareti intonacate, affreschi a vivi colori. «Li ha dipinti un ungherese. Non è Caravaggio, ma dà l’idea». Un Gesù biondo lava i piedi a un san Pietro nero. Un Samaritano nero soccorre un viandante bianco. E l’Ultima Cena è una mensa multietnica. È la parrocchia degli immigrati: il vescovo di Capua l’ha affidata a padre Giorgio e ai suoi due vicari, padre Antonio e padre Claudio. Forse è l’unica in Italia a non avere un territorio ma solo un gregge, il più disperso, anonimo e mutevole. Lavorano alla raccolta dei pomodori, nei cantieri, «arrivano, restano un po’, spariscono. Di molti neanche ho mai saputo il nome». Sul sagrato, sotto lo sguardo preoccupato di una madonnina di pietra, due ragazzi color ebano tirano rigori con un pallonaccio giallo. Altri si stanno preparando il giaciglio nel parcheggio, tra panni stesi e vecchi materassi. «Adesso fa caldo, ma quest’inverno li ho fatti dormire in chiesa. Il Signore avrà gradito la compagnia, di notte è sempre solo là dentro».
Quando arrivò a Castel Volturno, nel ‘93, padre Giorgio dovette trovare una mezza dozzina di case d’emergenza. Solo qualche anno fa la Caritas lo ha seguito aprendo un centro d’accoglienza, che però è sempre pieno. Quanti avranno i documenti, di questi? «Io non li chiedo a nessuno. Così evito di sapere chi dovrei considerare un delinquente». Chiediamo a caso: ecco Joe il senegalese, sbarcato a Lampedusa in marzo lasciando in Libia moglie e due figli, arrivato chissà come fin qui a far lavoretti. Carte non ne ha, ma padre Giorgio gli ha trovato un riparo: «Sono un cristiano», dice in un inglese cantilenante, «lo ero anche prima. Ma qui ho capito cosa vuol dire».
L’opposizione alla «legge del dolore», al reato di clandestinità, soffia all’ombra di centinaia di campanili come questo. Il ministro può far arrestare l’istigatore, è molto noto, si chiama Matteo e il suo proclama sta al capitolo 25, versetto 35 del suo Vangelo: «Ero straniero e mi avete accolto». La disubbidienza matura sottovoce dove la porta non si chiude neanche per ordine di legge. «Dovrei chiudere anche questo?»: il cancello dell’asilo dei comboniani immette in un cortile gremito di bambini color cioccolata tra casette di plastica e scivoli. Sono una cinquantina: ben pochi dei loro genitori hanno il permesso di soggiorno. Con la nuova legge sarebbero ignoti all’anagrafe, figli di nessuno. I rari italiani che passano davanti al recinto, sorridono e fanno smorfiette ai bimbi. Allora non siamo tutti malati di cattivismo. «I bimbi africani sono bellissimi», sospira padre Giorgio, «ma hanno un difetto: crescono. E da grandi nessuno li trova più così teneri».
Da grandi sono i clandestini, appunto. Moderna icona della paura, reincarnazione dell’eterno barbaro, del turco predatore. E voi, padre, siete i protettori di quell’icona terrificante. «Mi chiamano ‘il nemico numero uno di Castel Volturno’. Ma mi rispettano, perché sanno che non mangio sugli immigrati». Ma ora il suo aiuto è illegale. «Una condizione anagrafica non può essere un reato». Il reato veramente sarebbe entrare in casa d’altri senza bussare. «Ma cosa credono, i ministri? Che basti alzare il ponte levatoio? Anche se si potesse, che vita sarebbe, chiusi nella fortezza, armati, terrorizzati dall’arrivo dei tartari ogni santo giorno, schiavi dei riti della nostra paura?».
In cornice, una foto con papa Wojtyla che stringe la mano a un irsuto Rasputin in saio nero: era lui, Giorgio, nel 1989, missionario a Beira in Mozambico. «È un’illusione pensare di poter fermare le migrazioni. Le abbiamo coltivate noi. So quel che dico. Ho visto arrivare i televisori con la parabola e il generatore nei villaggi, e scodellare là il nostro finto benessere. Chi può impedire loro di venirlo a cercare? Bisogna regolare l’accoglienza, io dico: organizzare l’ibridazione. Ma vedo solo una gran fretta di organizzare l’esclusione».
Non ce la farete, padre. Vi faranno passare come amici dei delinquenti. «In chiesa io grido contro gli spacciatori di droga. Chi sbaglia, pagherà. Io sono contro l’illegalità. Ma non capisce che è proprio questo il problema? Venga con me». Saliamo in macchina. La via Domiziana è il museo dell’orrore di un sogno balneare abortito. Ventisette chilometri di palazzine cadenti, alberghi chiusi, acquaparchi fatiscenti, cassonetti sventrati, sporcizia, spiagge deserte in pieno luglio: sembra Rimini dopo un bombardamento. Ed ecco la saracinesca, ora chiusa, dietro cui in settembre sei ghanesi furono falciati dalle mitragliette della camorra. «Non c’è quasi edificio che non sia abusivo, perfino quella chiesetta lì. Potrei citarle a quale clan fa capo ogni isolato. Il bene pubblico qui non esiste. In questo scenario, però, gli illegali sarebbero questi uomini che inseguono un sogno di vita migliore. Vuol dire consegnarglieli in regalo, all’illegalità».
La vera, segreta speranza di padre Giorgio «è l’ipocrisia del potere. Che sia solo una esibizione di muscoli per propaganda, che non stiano davvero per rastrellare migliaia di poveri. Perché allora bisognerebbe fare qualcosa di più eclatante». Sicuro che Dio voglia questo, padre? «Gesù di Nazaret fu ammazzato per aver amato gli ultimi. Se il Padre somiglia al Figlio…».
Quando un forestiero bussa alla porta
di Enzo Bianchi
«Ero straniero e mi avete ospitato», oppure no? È questo l’interrogativo che non cessa di risuonare da quando l’evangelista Matteo l’ha posto in bocca a Gesù nella sua descrizione del giudizio finale, descrizione che non mira tanto a raccontare quanto accadrà alla fine dei tempi, ma piuttosto a plasmare l’atteggiamento quotidiano dei discepoli e a fornire loro un criterio di giudizio sul proprio e l’altrui comportamento. Del resto, fin dall’Antico Testamento, la categoria dello straniero era quella che meglio raffigurava il bisognoso: lontano dalla propria casa, lingua e cultura, privo dei diritti legati all’appartenenza a un popolo, sovente lo straniero finiva per cadere ben presto nelle altre situazioni di emarginazione e sofferenza: malato, carcerato, affamato..., condizioni non a caso citate anch’esse da Gesù nel suo racconto sul giudizio. Nella tradizione veterotestamentaria la cura e il rispetto per lo straniero si fondavano su una memoria esistenziale prima ancora che storica: l’invito «amate il forestiero perché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto» (Deuteronomio 10,19) risuona pressante e attuale anche per generazioni ormai da tempo insediate nella terra promessa. A questa consapevolezza si aggiunge nei Vangeli l’inattesa identificazione di Gesù con lo straniero che attende accoglienza e che incontra rifiuto: ciò che si fa o non si fa al «più piccolo», al più indifeso, è dono elargito o negato a Gesù, come se egli fosse presente e recettivo ogni giorno al nostro agire.
In questo senso un dato complementare emerge con forza dalle pagine del Nuovo Testamento: Gesù stesso, il Gesù storico che ha abitato tra gli uomini come uno di loro, è percepito e narrato come uno straniero, in quanto ha vissuto «altrimenti», manifestandosi come «altro» agli occhi di chi lo ha incontrato e ne ha poi raccontato l’esistenza. Dall’infanzia come profugo in Egitto alla sua provenienza dalla Galilea, tutto lo rendeva marginale nell’ambito di Gerusalemme, cuore culturale e religioso di Israele: «Il Cristo viene forse dalla Galilea? [...] Non sorge profeta dalla Galilea!» (Giovanni 7,41.52). Inoltre, il suo essere dotato di un’autorità carismatica fuori dell’ordinario suscitava una dura opposizione sia da parte dei sacerdoti che governavano il Tempio, i quali lo consideravano pericoloso, sia da parte dei maestri della Legge, invidiosi della sua conoscenza della Scrittura.
Gesù, con la sua missione e la sua esperienza di estraniamento che lo accomuna ai profeti, assume il volto dell’«altro»: altro rispetto alle attese del suo maestro Giovanni Battista, altro rispetto alla famiglia che lo giudica «fuori di sé» e vorrebbe riportarlo a casa con la forza, altro rispetto alla sua comunità religiosa che lo considera «indemoniato» (cf. Marco 3,21 e 22). Egli è altro anche rispetto ai suoi concittadini di Nazaret: è significativo che proprio là dove dovrebbe attivarsi il meccanismo del riconoscimento e dell’accoglienza, nella sua patria, avviene il rifiuto, e Gesù diviene estraneo, fino ad essere nemico. L’incomprensione di questa alterità conoscerà il suo culmine quando il Figlio sarà «ucciso dai vignaioli» - quelli a cui era stato inviato - «e gettato fuori della vigna»!
Paradigmatica è la presentazione di Gesù quale straniero fatta da Luca nell’episodio dei discepoli di Emmaus (cf. Luca 24,13-35): il Risorto, con i tratti di un viandante, si accosta a due discepoli e cammina con loro, mentre essi parlano con tristezza della morte del profeta Gesù di Nazaret. Alla sua domanda sull’oggetto del loro discorrere, ribattono: «Tu solo sei così forestiero da non sapere ciò che è accaduto in questi giorni?»: egli è lo straniero che cammina con gli uomini, che resta nascosto fino a quando, invitato a tavola, viene riconosciuto nel gesto di condividere il pane. Sì, nella condivisione del pane, nello stare a tavola insieme, nel conversare, nel fare memoria di ciò che si è vissuto, avviene il riconoscimento e lo straniero si rivela.
Forse possiamo allora cogliere meglio tutta la pregnanza di un ammonimento come quello che Gesù rivolge ai suoi discepoli: se egli può identificarsi con lo straniero fino a considerare come rivolta a se stesso ogni cura prestata - e ogni offesa arrecata - a uno straniero nel bisogno è perché ha voluto vivere nella carne l’esperienza di estraneità, il venire in mezzo ai suoi e non essere riconosciuto, il vedersi negata quella dignità fondamentale di ogni essere umano. Perché, come ha ben ricordato papa Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate, «ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione». Di questo rispetto la coscienza ci chiede conto qui e ora, di questo rispetto un giorno verrà chiesto conto a ciascuno.
Dopo l'approvazione della legge, presa di posizione di padre Alex Zanotelli. Che definisce il provvedimento razzista e xenofobo. Che si vergogna come italiano, cristiano e missionario. E che chiede una reazione forte.
«Mi vergogno di essere italiano e di essere cristiano. Non avrei mai pensato che un paese come l'Italia avrebbe potuto varare una legge così razzista e xenofoba. Noi che siamo vissuti per secoli emigrando per cercare un tozzo di pane (sono 60 milioni gli italiani che vivono all'estero!), ora infliggiamo agli immigrati, peggiorandolo, lo stesso trattamento, che noi italiani abbiamo subito un po' ovunque nel mondo.
Questa legge è stata votata sull'onda lunga di un razzismo e di una xenofobia crescenti di cui la Lega è la migliore espressione. Il cuore della legge è che il clandestino è ora un criminale. Vorrei ricordare che criminali non sono gli immigrati clandestini ma quelle strutture economico-finanziarie che obbligano le persone a emigrare. Papa Giovanni XXIII° nella Pacem in Terris ci ricorda che emigrare è un diritto.
Fra le altre cose la legge prevede la tassa sul permesso di soggiorno (gli immigrati non sono già tartassati abbastanza?), le ronde, il permesso di soggiorno a punti, norme restrittive sui ricongiungimenti familiari e matrimoni misti, il carcere fino a 4 anni per gli irregolari che non rispettano l'ordine di espulsione ed infine la proibizione per una donna clandestina che partorisce in ospedale di riconoscere il proprio figlio o di iscriverlo all'anagrafe. Questa è una legislazione da apartheid, che viene da lontano: passando per la legge Turco-Napolitano fino alla non costituzionale Bossi-Fini. Tutto questo è il risultato di un mondo politico di destra e di sinistra che ha messo alla gogna lavavetri, ambulanti, rom e mendicanti. Questa è una cultura razzista che ci sta portando nel baratro dell'esclusione e dell'emarginazione.
«Questo rischia di svuotare dall'interno le garanzie costituzionali erette 60 anni fa - così hanno scritto nel loro appello gli antropologi italiani - contro il ritorno di un fascismo che rivelò se stesso nelle leggi razziali». Vorrei far notare che la nostra Costituzione è stata scritta in buona parte da esuli politici, rientrati in patria dopo l'esilio a causa del fascismo. Per ben due volte la Costituzione italiana parla di diritto d'asilo, che il parlamento non ha mai trasformato in legge.
E non solo mi vergogno di essere italiano, ma mi vergogno anche di essere cristiano: questa legge è la negazione di verità fondamentali della Buona Novella di Gesù di Nazareth. Chiedo alla Chiesa italiana il coraggio di denunciare senza mezzi termini una legge che fa a pugni con i fondamenti della fede cristiana.
Penso che come cristiani dobbiamo avere il coraggio della disobbedienza civile. È l'invito che aveva fatto il cardinale R. Mahoney di Los Angeles (California), quando nel 2006 si dibatteva, negli Stati Uniti, una legge analoga che definiva il clandestino come criminale. Nell'omelia del Mercoledì delle Ceneri nella sua cattedrale, il cardinale di Los Angeles disse che, se quella legge fosse stata approvata, avrebbe chiesto ai suoi preti e a tutto il personale diocesano la disobbedienza civile. Penso che i vescovi italiani dovrebbero fare oggi altrettanto.
Davanti a questa legge mi vergogno anche come missionario: sono stato ospite dei popoli d'Africa per oltre 20 anni, popoli che oggi noi respingiamo, indifferenti alle loro situazioni d'ingiustizia e d'impoverimento.
Noi italiani tutti dovremmo ricordare quella Parola che Dio rivolse a Israele: "Non molesterai il forestiero né l'opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d'Egitto" (Esodo 22,20)».