Periodicamente le catastrofi del territorio ci ricordano che abbiamo abbandonato la cura della stessa sua struttura idro-geologica. Ecco i risultati dell'assenza di rispetto per l'ambiente in cui viviamo e dell'abbandono degli strumenti che erano stati inventati per controllarne e regolarne le trasformazioni: la pianificazione territoriale e urbanistica. Qui un elenco dei disastri di questi giorni (e.s.)
ll bilancio delle vittime è dunque a otto, anche se si cerca ancora un disperso, mentre decine sono stati i feriti tra i quali si contano anche diversi vigili del fuoco. Più di 5mila gli interventi compiuti dai pompieri chiamati da cittadini in difficoltà: per 3500 chiamate si è trattato di alberi caduti o pericolanti, la causa principale degli incidenti mortali. Vento record si è registrato in Liguria, con la punta massima a 180 chilometri orari rilevati dall'anemometro a Marina di Loano, nel savonese. Sempre sorvegliati speciali i fiumi, soprattutto in Veneto e Friuli, ma anche in Lombardia c'è allerta.
Ieri due persone in auto sono state schiacciate da un albero nel Frusinate, un altro a Terracina, un giovane di 21 anni morto nello stesso modo a Napoli, un'anziana di 88 anni colpita da parti del tetto di un condominio ad Albisola (Savona), e una persona morta travolta da un albero durante un temporale che si è abbattuto in serata a Feltre (Belluno).
A Terracina una fortissima tromba d'aria ha provocato diversi feriti.
Scuole chiuse e disagi da nord a sud
Molte le scuole sono rimaste chiuse, anche a Roma e in Toscana. Sono state riaperte questa mattina l'autostrada e la statale del Brennero.
Tragedia nel crotonese: 4 morti
Domenica 28 ottobre a Isola Capo Rizzuto, nel Crotonese, tre operai e un noto imprenditore della zona, sono morti inghiottiti dal terreno che è franato sotto i loro piedi mentre riparavano una fogna. Oggi i funerali.
Cade albero nel Frusinate: due morti
Due persone sono morte a Castrocielo, in provincia di Frosinone a causa della caduta di un albero su una Smart. Il tratto di strada tra il bivio per il casello autostradale di Castrocielo e Roccasecca è stato interdetto alla circolazione. Sul posto Vigili del Fuoco ed i Carabinieri della Compagnia di Pontecorvo
Veneto
L'alta marea sale velocissima a Venezia, e nel pomeriggio ha raggiunto i 160 centimetri sopra il medio mare. Il centro storico è allagato per il 70%. Intanto il premier Conte ha firmato la dichiarazione dello stato di mobilitazione del Servizio nazionale della protezione civile, accogliendo la richiesta arrivata nella serata di ieri dal presidente della regione Veneto Luca Zaia. "Siamo preoccupati per l'indicazione del pomeriggio e della sera, con 400 mm per metro quadro di pioggia", ha detto il governatore.
Sardegna
Ha raggiunto già i 160 chilometri orari il vento di libeccio che da ieri notte sta soffiando sulla Sardegna accompagnato da piogge e temporali. Il picco è stato registrato questa mattina a Capo Carbonara. Una tromba d'aria si è registrata tra Narcao e Villaperuccio, dove sono stati strappati i tetti di alcune abitazioni. Discorso analogo a Nuoro nelle prime ore di di questa mattina.
Liguria
Prorogata l'allerta meteo rossa in gran parte della Liguria, dove Val di Vara, Cinque Terre e Spezzino sono state le zone al momento più colpite dalle forti piogge, con un picco a Monterosso di 140 millimetri da mezzanotte. Si temono mareggiate con onde di 6-7 metri. Esondato, intanto, il torrente Gravegnola nei pressi di Rocchetta Vara nello Spezzino e sono state chiuse le strade provinciali, fuori dall'abitato, dove si sono verificati allagamenti ed erosioni delle sponde. Un pezzo della diga del porto turistico Carlo Riva di Rapallo è crollato.
Trentino Alto Adige
Domani chiuse tutte le scuole del Trentino, mentre saranno regolari le lezioni all'università. La Protezione civile ha invitato i cittadini a muoversi con i propri mezzi solo se strettamente necessario, dal pomeriggio di oggi a tutta la giornata di domani, "vista la possibilità che sulle strade si verifichino smottamenti che costringano ad interrompere la viabilità".
Calabria
Ha un nome e una nazionalità l'uomo, che risulta disperso, proprietario della barca a vela finita ieri contro uno dei moli del porto del quartiere Lido di Catanzaro. Si tratterebbe di un cittadino di nazionalità turca titolare anche di un sito web. Ancora senza esito le ricerche degli eventuali dispersi a bordo del natante che batteva bandiera canadese.
Toscana
A causa del forte vento e delle mareggiate sono fermi i traghetti per l'Isola del Giglio, per quella di Giannutri e da Piombino e Livorno verso l'Isola dell'Elba. Problemi sul lungomare di Porto Ercole all'Argentario dove la polizia municipale è stata costretta a chiudere la viabilità per una forte mareggiata. Il Comune di Castiglione della Pescaia ha diramato un avviso alla popolazione invitando a non uscire di casa per il forte vento. Due persone disabili sono state evacuate in maniera precauzionale nel Livornese.
Lazio
Un albero si è schiantato su un'auto a Terracina, morta la persona al suo interno. Oggi a Roma le scuole sono chiuse. Nella Capitale si registrano disagi a causa del maltempo e del vento forte. Problemi alla circolazione per i numerosi rami caduti a terra in quasi tutti i quartieri. La ferrovia locale Roma-Lido, che collega il centro con il litorale, è rimasta chiusa per 15 minuti per la presenza di un ramo sui binari a Tor di Valle. Chiusa la tratta della metro B tra Piramide e Laurentina. Predisposta la chiusura anche di cimiteri e ville. Problemi anche ai Castelli e a Ciampino. Chiuso il tratto dell'A24 Tivoli-Castelmadama per telonati a caravan.
Lombardia
Quattrocento persone, tra bambini e personale, sono state fatte evacuare da un asilo di Romano di Lombardia, in provincia di Bergamo, per infiltrazioni d'acqua dal tetto.
Campania
Il forte vento di scirocco che sta soffiando su Napoli e su buona parte della sua provincia hanno provocato, in diversi punti della città, la caduta di rami dagli alberi. I vigili sono impegnati in numerosi interventi sia in città che in Comuni dell'area metropolitana. Ancora interrotti i collegamenti con le isole. Un ragazzo di 21 anni della provincia di Caserta è morto schiacciato da un albero che gli è crollato addosso mentre camminava in via Claudio, nel quartiere Fuorigrotta di Napoli.
Abruzzo
Chiuse le scuole in numerosi comuni della Marsica e dell'Alto Sangro a causa dell'allerta rossa. A Villetta Barrea la situazione è tornata sotto controllo dopo che ieri il fiume Sangro era esondato in alcuni punti.
Friuli Venezia Giulia
Le scuole di ogni ordine e grado della provincia di Pordenone resteranno chiuse anche domani. Dalle autorità anche un appello alla prudenza e ad evitare gli spostamenti, se non strettamente necessari.
Valle D'Aosta
Il Centro funzionale regionale ha prorogato almeno sino alla mattinata di domani su tutto il territorio della Valle d'Aosta l'allerta 'gialla' (livello 1 su 3) per criticità idrogeologica e l'avviso meteo per precipitazioni forti, scattati ieri. Per il pomeriggio i tecnici valuteranno, in base alle condizioni, se decretare la fine dell'allerta.
La presidente del Senato Casellati: commissione d'inchiesta
"Quante frane, quante alluvioni, quanti morti ci dovranno ancora essere prima di mettere seriamente mano al problema del dissesto idrogeologico, di un territorio reso ancora più fragile dai cambiamenti climatici? Se non fossi il Presidente del Senato, domani stesso presenterei un disegno di legge per la costituzione di una Commissione d'inchiesta su tale drammatico specifico problema.
È ora di dire basta". Così in una nota la presidente del Senato Elisabetta Casellati. "Che ciascuno si assuma fino in fondo le proprie responsabilità di fronte a tali tragedie che toccano la vita delle persone e la identità stessa dei territori, mi auguro che la mia idea venga raccolta dai senatori in carica senza alcuna distinzione di appartenenza politica", aggiunge la presidente del Senato Casellati.
il manifesto, 11 maggio 2018. Cambia la tipologia dei veleni che iniettiamo nella nostra terra per aumentarne la produttività, e quindi il valore per chi la possiedi e usa, ma non diminuisce la tossicità (m.p.r.)
Sono sempre più «amare», nel senso di inquinate, le acque dolci italiane, sia superficiali che sotterranee. A certificarlo è l’ultimo rapporto Ispra sui residui di pesticidi nelle acque, relativo al biennio 2015-2016, il più completo sforzo di monitoraggio capillare su tutto il territorio italiano con riferimenti anche ai sedimenti storici e alla loro interferenza con i nuovi prodotti utilizzati .
Il rapporto si basa sui campioni prelevati, purtroppo ancora abbastanza a discrezione, dalle Regioni e dalle aziende locali per la protezione ambientale e si preoccupa di fornire linee guida, che sono: aumentare i dati, armonizzare le ricerche e investire su ricerca e innovazione per l’agroecologia. Cioè filiera sostenibile e a chilometro zero che riduca l’uso di prodotti chimici.
L’indagine è corposa anche se non è ancora esaustiva, basti pensare che su 400 sostanze chimiche potenzialmente tossiche in concentrazione ma autorizzate e reperibili sul mercato per essere impiegate in agricoltura soltanto 259 sono state cercate e rintracciate. Le analisi sono lacunose in particolare nelle regioni del Centro-Sud: su 35.353 «provette» analizzate nel biennio 2015-2016, per un totale di quasi 2 milioni di misure analitiche, il 50% dei punti di monitoraggio si concentra nel Nord mentre nel resto del Paese la campionatura è disomogenea e a maglie molto, troppo, larghe, con il «buco nero» della Calabria, dove campeggia un disastroso cartello «non pervenuta».
Delle pericolosità dei mix poi poco o niente si sa, considerando che si è osservato che la pericolosità è determinata al 90% dall’effetto tossico cumulativo, cioè da ciò che si sedimento in natura tra gli «antichi» inquinanti, alcuni dei quali oggi proibiti e non più in vendita, e i più recenti.
Il più famoso erbicida oggi si chiama glifosato, ad esempio, ma che dire dei livelli ancora alti del Ddt con cui durante i primi anni Cinquanta venivano irrorati a pioggia i campi dagli aerei militari americani o dell’ex celebre atrazina, altro erbicida bestia nera della campagna ambientalista che portò al referendum del 1990 – però senza quorum – per la sua messa al bando. Oggi il veleno peggiore, perché il più diffuso nelle acque, oltre al glifosato, si chiama Ampa ed è il metabolita che si ottiene dalla degradazione del glifosato stesso, immesso a man bassa nelle acque reflue da almeno quarant’anni perché oltretutto presente anche in moltissimi detersivi per la casa.
Il glifosato e i suoi derivati, anche se potenzialmente cancerogeni, non sono però i veleni peggiori trovati nei campioni analizzati dai laboratori Ispra. Nell’elenco dei veleni dai nomi che sembrano medicine ce ne sono di tossicità massima, con effetti sull’apparato respiratorio e sugli occhi, e poi i più comuni insetticidi come imidacloprid, e fungicidi come i tradimenol, oxadixil e metalaxil. Tutti questi sono nelle acque sotterranee di 260 punti di rilevamento (l’8,3% del totale) con concentrazioni superiori ai limiti.
La presenza dei pesticidi nel periodo 2003-2016 è cresciuta del 20% nelle acque superficiali e nel 10% di quelle sotterranee. La contaminazione riguarda il 67% dei punti di acque superficiali monitorate e il 33, 5 % di quelli delle acque profonde, dove evidentemente la saturazione è tale da non permettere una diluizione. Tanto che Giorgio Zampetti, direttore di Legambiente, avverte come la situazione di fiumi, laghi e falde acquifere sia «sempre più preoccupante».
L’aumento dipende in realtà in parte da un campionatura più estesa e accurata, soprattutto nella pianura padana, ma è la persistenza di questi agenti chimici nell’ambiente che aumenta i livelli di rischio con l’accumulo nella catena alimentare che dispiega effetti a lungo andare soprattutto sul sistema endocrino umano e può, a livello di specie, ridurre la capacità riproduttiva.
C’è da dire, come nota di speranza, che la vendita dei prodotti fitosanitari più pericolosi dal 2001 al 2014 in base ai dati Istat è sensibilmente diminuita (-12% e -22% per principi attivi) ma si è diffusa quella dei diserbanti e insetticidi più comuni passando, dopo dieci anni di riduzione, a un rialzo fino a 136 mila tonnellate commercializzate nel 2015 (erano 130 mila soltanto l’anno prima).
Internazionale, 13 novembre 2017. Inaugurata a Bologna la "Disneyland del cibo": grazie all''alleanza fra pubblico e privato in cui, come eddyburg ha rupetutamente denunciato, il privato si arricchisce con i soldi del pubblico, ossia del contribuente, ossia di noi creduloni (m.c.g.) con riferimenti in calce
L’olandese Randstad è una delle principali agenzie al mondo di lavoro interinale. È finita nel mirino delle proteste studentesche del 13 ottobre 2017 per un progetto intitolato “Un giorno da Fico”. I ragazzi contestavano una delle novità più importanti della legge del governo Renzi sulla Buona scuola: il principio dell’alternanza scuola-lavoro, che prevede l’obbligo per gli studenti dell’ultimo triennio delle superiori di fare un’esperienza formativa - tra le 200 e le 400 ore a seconda che si tratti di un istituto tecnico o di un liceo - in un’azienda, un’istituzione, un’associazione sportiva o di volontariato, perfino in un ordine professionale.
Nell’elenco c’è pure Fico Eataly World, la Fabbrica italiana contadina di Oscar Farinetti - una società partecipata da Eataly World, Coop Alleanza 3.0 e Coop Reno - che aprirà il 15 novembre. La Randstad è finita sul banco degli imputati perché accusata di reclutarle manodopera gratuita.
Per capirne di più chiedo ai diretti interessati. Negli uffici dell’ex Mercato ortofrutticolo alla periferia di Bologna, negano accuse e sospetti. Spiegano che il progetto è della Randstad, si svolgerà nelle scuole e alla fine da loro arriverà solo un pugno di ragazzi, “non più di sette o otto”, e comunque “non verranno a fare i lavapiatti”.
A Bologna tutti i poteri cittadini, istituzionali e privati, sono in qualche misura coinvolti
L’amministratrice delegata Tiziana Primori dice che c’è un protocollo “sulla tutela dell’occupazione, la qualità del lavoro e la valorizzazione delle relazioni sindacali” firmato con i sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil e il comune di Bologna, per “favorire la piena regolarità delle condizioni di lavoro, l’agibilità sindacale, il diritto d’assemblea e la trasparenza della filiera delle aziende presenti nel parco”. Fico, spiega, darà lavoro stabile a settecento persone, mentre altre tremila lavoreranno nell’indotto.
Ne parlo con Marta Fana, ricercatrice all’università Sciences Po di Parigi, autrice di Non è lavoro, è sfruttamento. “Bisognerà vedere quante saranno le assunzioni stabili e quanti i contratti di somministrazione, dunque precari”, dice. Fana contesta a Farinetti la “gestione politica” della nascita di Fico: “Perché la regione ha speso 400mila euro per la formazione di persone per le quali non c’è la certezza di assunzione?”. A suo parere, le istituzioni locali, guidate dal Partito democratico, non avrebbero dovuto mettersi al servizio di quello che definisce solo “l’ennesimo centro commerciale”.
Dalla Randstad rendono noti i contenuti dell’accordo con la nuova impresa di Farinetti: i dipendenti della multinazionale olandese gireranno le scuole di tutta Italia per “illustrare ai ragazzi i nuovi trend del mercato del lavoro, guidarli in un tour virtuale di Fico Eataly World e lanciare un project work” sul tema dell’innovazione nella filiera agroalimentare. Il progetto coinvolgerà 20mila studenti, appunto, e prevede 300mila ore di alternanza scuola-lavoro, ma a Fico i ragazzi ci passeranno appena una giornata, per assistere a un convegno sul tema della “Food innovation”, al termine del quale saranno premiate le scuole vincitrici.
Istituzioni, università, entusiasti
I visitatori, dice, potranno seguire l’intera filiera del prodotto. Prima di sedersi a tavola per mangiare un piatto di pasta, per esempio, saranno condotti da un “ambasciatore del gusto” a vedere un campo di grano, la macinazione in uno dei due mulini a pietra e la nascita di una tagliatella di Campofilone in uno dei tre pastifici. A supervisionare il tutto saranno le facoltà di veterinaria e agraria dell’università di Bologna.
Fico sarà un esempio dell’Italia che riparte? O è un modo furbo per capitalizzare la tendenza a mangiar bene, pulito e sano?
A Bologna tutti i poteri cittadini, istituzionali e privati, sono in qualche misura coinvolti. Il comune ci ha messo la struttura, che varrebbe 55 milioni di euro. Per la ristrutturazione sono stati raccolti 75 milioni di euro di fondi privati: 15 milioni sono arrivati dal sistema cooperativo, dieci da imprenditori locali e altri 50 da casse previdenziali professionali. Al progetto partecipano centocinquanta imprenditori grandi e piccoli (da piccoli artigiani a grandi consorzi come quello del Parmigiano reggiano), i ministeri dell’ambiente e dell’agricoltura, l’associazione dei borghi più belli d’Italia e l’Ente nazionale italiano per il turismo (Enit), Slow food, le università di Bologna e quella di Napoli, la Suor Orsola Benincasa .
Nelle ambizioni dei fondatori, la “Disneyland del cibo”, com’è stata soprannominata, dovrebbe attirare quattro milioni di visitatori il primo anno e arrivare a sei milioni nel giro di tre. Il sindaco Virginio Merola è così entusiasta che è andato a Manhattan per presentarla alla stampa americana sulla terrazza del Flatiron building, il grattacielo all’incrocio tra Broadway e la Fifth avenue che oggi ospita Eataly New York. Per portare i turisti che immagina diretti a frotte verso la periferia bolognese, ha annunciato un servizio di bus elettrici.
Dentro il parco
Qui, fino all’altro ieri, sorgeva il Centro agroalimentare di Bologna (Caab), nato negli anni novanta ma progettato nei settanta. Il presidente era Andrea Segré, ex professore di politica agraria all’università di Bologna e ideatore del Last minute market, un mercato nato per recuperare e riciclare i prodotti invenduti. A quattro mesi dalla nomina, capito che il Caab languiva e non avrebbe avuto futuro, Segré aveva contattato Farinetti “per sviluppare l’idea del parco agroalimentare che da anni mi frullava nella testa”.
Era il novembre del 2012 e, ora che tutto si è realizzato, sarà lui a presiedere la fondazione Fico, che dovrà promuovere programmi di “cultura della sostenibilità economica, sociale, ambientale ed alimentare”. Il comitato scientifico, presieduto dall’europarlamentare Paolo De Castro, ex ministro delle politiche agricole nei governi D’Alema e Prodi, ha già messo in cantiere le prime iniziative: una giornata sulla dieta mediterranea e la creazione di un frutteto della biodiversità.
L’architetto ferrarese Thomas Bartoli ha rimesso a nuovo la struttura, salvando pure un pezzo del vecchio mercato, che non chiuderà del tutto. Bartoli è un fedelissimo del fondatore di Eataly. Mi spiega di aver mantenuto la vecchia architettura industriale, ma con l’obiettivo di creare una “sensazione contadina”, creando un continuum tra l’interno e i campi, e che il suo progetto è a “cemento zero”, anzi ha recuperato due ettari “per aumentare la superficie verde”. Ma, si schernisce, “l’idea di Fico è talmente forte che la realizzazione architettonica è passata in secondo piano”.
Una Disneyland del cibo
In un libro intitolato La danza delle mozzarelle, lo scrittore Wolf Bukowski prende di mira il modello di narrazione del cibo che parte da Slow food, e prima ancora dal Gambero rosso, per finire a Coop, a Eataly e alla sua ultima evoluzione: la Fabbrica contadina di Bologna, appunto. “Fico non è solo un parco giochi per rudi cooperatori e costruttori edili, ma è proprio una Disneyland, un mondo dove fantasia e realtà del capitale si rispecchiano reciprocamente”, scrive Bukowski, che attacca frontalmente l’ideologia di Renzi e Farinetti, improntata al marketing e all’ottimismo, in politica come al supermercato, in cui il conflitto è visto come qualcosa di anormale.
Bukowski vede in Fico la saldatura tra il pensiero di Farinetti e il capitalismo emiliano di derivazione postcomunista: una sorta di socialdemocrazia economica in una regione dove il pubblico governa e le cooperative rosse prosperano. Definisce Bologna “la città coop”, portando come esempio il fatto che nel giro di poche centinaia di metri, in pieno centro cittadino, sono nati negli ultimi anni il Mercato di mezzo, che è stato voluto dall’amministratrice delegata di Fico, Primori, e può essere considerato un prototipo del Parco, e una libreria Coop con annesso punto vendita Eataly. Tutto attorno, una teoria di super e ipermercati Coop.
I due alleati
Da quando quelli con il marchio Slow food sono finiti sugli scaffali di Eataly, la loro diffusione è decuplicata. La richiesta di collaborazione è arrivata pure per Fico, e dall’associazione di Petrini hanno risposto sì, pur mantenendo uno sguardo critico.
Ne parlo con Carlo Petrini, l’uomo incoronato da Time tra gli “eroi del nostro tempo”, in quanto guru di una filosofia e di un movimento nel frattempo divenuti globali. A suo avviso il problema, a questo punto, è di “governare il limite”. Spiega che qualsiasi produzione, se supera una certa soglia, diventa “invasiva”, pur se buona, pulita e giusta. Il fondatore di Slow food ritiene invece che si debba evitare il “rivendicazionismo sui prezzi”, altra critica frequente. A suo parere va bene che un alimento di qualità costi di più se tutti sono pagati meglio, dal contadino al trasportatore.
Farinetti concorda su quest’ultimo punto. Spiega che “il 15 per cento di quello che vendiamo lo produciamo noi, il resto arriva da piccoli, medi e grandi produttori”, selezionati da un gruppo di giovani provenienti dall’università di Pollenzo e spediti in giro per l’Italia. Accorciando la filiera, dice, “riusciamo a pagare la carne il 31 per cento in più e a venderla a un prezzo decente”.
Sulla questione della produzione ritiene invece che ci siano margini ulteriori di crescita. “In Italia ci sono 14 milioni di ettari di terreni coltivati, negli anni ottanta erano 19, anche se oggi si produce di più”, dice. Vuol dire che l’agricoltura di qualità (convenzionale a residuo zero, biologica, biodinamica, simbiotica) può svilupparsi ancora molto e puntare al mercato italiano (tuttora gastronomicamente poco educato a dispetto delle apparenze) e soprattutto a quello estero.
È su quest’ultimo punto che il patròn di Eataly ha trovato l’intesa con Coop Alleanza 3.0. Sebastiano Sardo, che ha selezionato i produttori del neonato Parco agroalimentare, dice che l’obiettivo è “creare una piattaforma dei prodotti italiani da esportare” per contrastare i cosiddetti italian sounding, il mercato dei prodotti venduti come italiani ma che non lo sono. Secondo i dati dell’Assocamerestero, l’associazione che raggruppa le 78 camere di commercio italiane all’estero, l’italian sounding ha un giro d’affari di 54 miliardi di euro, mentre l’ industria alimentare italiana si aggira sui 132.
L’accusa di monopolio
Gli anelli istituzionali di congiunzione sarebbero il sindaco di Bologna Virginio Merola, già nel mirino per gli sgomberi di spazi occupati e centri sociali, e il ministro del lavoro Giuliano Poletti, ex presidente di Legacoop e ideatore insieme al governo di Matteo Renzi del Jobs act. Questo contribuisce a spiegare le proteste studentesche e lo scetticismo di un pezzo di sinistra radicale.
Al fondatore di Eataly si imputa di essere diventato il “braccio imprenditoriale di Slow food” e non gli si perdona l’infatuazione per Matteo Renzi, culminata nella partecipazione alle manifestazioni organizzate dal segretario del Pd all’ex stazione ferroviaria fiorentina della Leopolda.
La prima volta è stata nel 2012, quando ha detto che “la politica è come la maionese impazzita e Renzi vuole rifarla da zero”. Nel 2013 l’allora sindaco di Firenze ha tagliato il nastro di Eataly Firenze e nel 2014 l’ha accolto come “l’amico Oscar”. Lui ha ricambiato dimostrando sintonia con lo spirito della Leopolda. “Questo è un posto dove ci si lamenta poco, mentre ciascuno esprime con sintesi le proprie idee di soluzione”, ha dichiarato a La Stampa.
Un anno fa, alla vigilia del referendum costituzionale del 4 dicembre che è costato le dimissioni a Renzi, fiutando il clima sfavorevole ha affermato: “Dobbiamo tornare a essere simpatici”. Un anno dopo, appare più disincantato ma non ha cambiato opinione. “Renzi è stato tradito dal suo carattere, però è onesto”, dice. Nel frattempo, a inaugurare Fico è stato invitato il più mite Paolo Gentiloni.
riferimenti
su eddyburg seguiamo da tempo le imprese di Oscar Farinetti, abile imprenditore, che all’insegna della modernità e della “cultura”, contribuisce al saccheggio dei beni comuni anche con il supporto della pianificazione urbanistica. A questo proposito si veda Fico, la Disneyland del cibo pronta al debutto di Mara Monti, Un tram chiamato Farinetti.“Gli fanno una linea ad hoc” di Ferruccio Sansa, Qui si mangia di Carlo Tecce. Sul fronte della cultura si veda di Tomaso Montanari Carta e bellezza non fanno rima, Santa Lucia Farinetti, incinta tra le mortadelle, Milano e Firenze, chiese a uso privato (m.p.r.)
la Repubblica on line, 17 novembre 2017. L'agenzia europea per l'ambiente ha messo a punto una mappa interattiva che riporta i valori della qualità dell'aria. L'Italia non solo non fa nulla per ridurre l'inquinamento, ma non comunica neppure i risultati delle rilevazioni. (p.s.)
Gli inquinanti dell'aria sono infidi e di solito invisibili, ma ora possono essere visualizzati in tempo reale su una mappa europea. L'ha messa a punto l'Agenzia per l'Ambiente (AEA), che l'ha presentata in occasione del "Clean Air Forum" della Commissione europea che si è aperto ieri a Parigi. La mappa "Air Quality Index" raccoglie i dati di oltre 2mila centraline, ogni tre ore si aggiorna e misura i diversi inquinanti che danneggiano salute e ambiente: le micropolveri PM10 e PM2.5, Ozono, diossido di zolfo (SO2) e diossido di azoto (NO2). Che vengono tradotti in pallini colorati dal verde al rosso, rilevando il valore peggiore per ogni inquinante, in un sistema interattivo che permette ai cittadini di zoomare e conoscere la situazione anche nei dintorni di casa propria. Grande assente, ed è una mancanza che salta agli occhi, l'Italia, costellata di pallini grigi, ovvero spenti: le nostre centraline ancora non risultano, come quelle di Romania, Bulgaria e Grecia.
a Repubblica, 9 settembre 2017, con postilla (m.c.g.)
postilla
Stupisce la differenza di stile fra l’articolo di Paolo Berizzi pubblicato su la Repubblica e la risposta del sindaco: il primo aggressivo e partigiano, la seconda molto tecnica e garbata. Poiché non avevo seguito la vicenda, mi sono informata e ho trovato, sulla stampa locale, una lettera aperta molto dettagliata rivolta ai cittadini, firmata dal sindaco e dalla giunta, che spiega le ragioni della scelta, i cambiamenti apportati al progetto originario e i vantaggi che si otterranno nel governo della mobilità su gomma in Città Alta. Per inciso, nulla di simile si è mai verificato a Milano in merito ai progetti più controversi: in genere, si "mandano avanti" i consulenti prezzolati dell’accademia; in genere non si risponde nel merito ai cittadini organizzati in comitati; in genere, se si apportano modifiche, sono sempre a favore degli interessi immobiliari.
La voce dei comitati civici è indubbiamente rilevante (anche se nell’articolo sembra essere l’unica fonte utilizzata); ma anche il cambiamento di passo della attuale giunta e, in particolare, la natura intelligentemente riformista di alcuni recenti provvedimenti urbanistici meriterebbero l’attenzione di un grande quotidiano di diffusione nazionale che dovrebbe privilegiare il giornalismo d’inchiesta rispetto a quello dell’insulto. Invece la tecnica dell’insulto e dell’aggressione sembra aver fatto scuola, partendo dall’esempio "storico", davvero censurabile, delle celie indirizzate da Francesco Merlo all’allora sindaco Ignazio Marino, irriso per “le cene a sbafo, bottiglie di vino a scrocco, ma senza la simpatia del vero morto di fame, del Totò che dice: a proposito di politica… ci sarebbe qualche coserellina da mangiare?”.
Nell’imminenza delle elezioni regionali, sarebbe sembrato più che opportuno che il giornalista di Repubblica autore dell’articolo riportasse anche il parere dell’amministrazione in carica, e in particolare del sindaco di Bergamo il quale, ad oggi, sembrerebbe essere il candidato più competitivo nei confronti della maggioranza che ormai da decenni governa, o meglio sgoverna, la Lombardia. Viene il sospetto che, come il quel caso, l’insulto sia strumentale all’avvio di una ennesima campagna elettorale condotta in modo irresponsabilmente divisivo. (m.c.g.)
la Repubblica, 7 settembre 2017 (c.m.c)
Una frana è più di un macigno. E una figura di palta può generare un dissesto più rognoso di qualsiasi penale. Se poi in nome dello sviluppo urbanistico sfregi con uno scavo di 70mila metri cubi di terra un patrimonio dell’umanità, forse rischi il destino di Tafazzi. È la morale di quanto sta succedendo da sei giorni, ruspe al lavoro, a Bergamo alta: sulle Mura venete, fiore all’occhiello della città. Mura insignite dall’Unesco del titolo più prestigioso per un sito.
La storia, venuta al pettine dopo 13 anni, è complessa. Ma essenziale nel suo scheletro. Protagonista è un mega parcheggio interrato: nove piani per 496 posti auto. Auto di turisti e visitatori. Un bestione così, di norma, trova posto ovunque tranne che nei centri storici. Figurarsi in un gioiellino che vanta vestigia medievali, botteghe di età romana, opere della Serenissima tra cui, appunto, i baluardi e le porte veneziane. Dunque a Bergamo dove sorgerà l’autosilo? Qui, all’interno della cinta muraria tutelata. Al di sotto dell’ex parco faunistico della Rocca, polmone verde geologicamente delicato.
Nel 2008 è venuta giù una frana mentre si stava iniziando a scavare. Adesso gli operai si sono rimessi all’opera nonostante le vibranti proteste dei residenti e, più in generale, dei bergamaschi a cui l’idea di vedere violentate le Mura dell’Unesco fa venire l’ulcera. «Fermate questa vergogna» — tuona Giovanni Ginoulhiac, tra i promotori del comitato NoParking Fara che da mesi chiede al sindaco Giorgio Gori di fare marcia indietro. L’altro giorno hanno consegnato al primo cittadino 6.383 firme “contro”. Prima ci sono state manifestazioni di protesta, appelli, richiesta di carte e di cifre (quelle mai comunicate a cui ammonterebbero le penali per il mancato rispetto della convenzione stipulata dall’amministrazione con Bergamo Parcheggi). Le hanno tentate tutte, per contrastare il cantiere. Zero. Il sindaco ha azionato gli escavatori. «È la migliore soluzione per un’eredità difficile», ha scritto Gori a fine giugno in una lettera ai cittadini.
Torniamo alla frana del 2008: in pericolo non finirono solo le abitazioni adiacenti il cantiere, ma anche l’ex convento di San Francesco, la Rocca, la porzione di Mura venete sottostanti. Da allora il progetto fu congelato (e la frana tamponata in emergenza con tonnellate di materiale al centro di un processo per discarica abusiva di rifiuti speciali tossici a carico dell’imprenditore Pierluca Locatelli). Una frana, evidentemente, non è bastata. Accadesse di nuovo? «Lo scandalo è doppio — attaccano i NoParKing — La messa a rischio di un patrimonio storico e il non senso di una scelta in controtendenza rispetto a quello che stanno facendo tutte le città europee: portare le auto fuori dai centri storici».
Con il nuovo parcheggio (costo 18 milioni: 70% privato e 30% pubblico), in Città alta le auto dei turisti entreranno 24h24. Alla faccia delle fasce Ztl introdotte proprio per decongestionarla. A ottobre 2016 la giunta ha approvato la nuova convenzione per il via all’autosilo. «Siamo obbligati, altrimenti pagheremmo penali stratosferiche», hanno ripetuto da Palazzo Frizzoni. Sull’eventuale salasso pecuniario, però, aleggia una nebulosa. Si rimanda al parere dell’avvocatura comunale. La quale tuttavia il 20 febbraio 2017 scrive: «Nessun parere è stato formulato dallo scrivente ufficio sull’opportunità di proseguire i lavori afferenti alla realizzazione del parcheggio».
«L’eredità scomoda», dunque. La patata bolle dal 2004. Tre giunte si scaricano la palla. Poi arriva Gori e decide di metterla in rete. «L’obiettivo è togliere le auto dalle piazze: per questo il parcheggio sarà riservato ai residenti e ai lavoratori del centro storico». Ma l’autosilo, sorpresa, sarà invece destinato ai turisti. I commercianti già sognano l’effetto Firenze o Venezia. Gioisce l’impresa assegnataria (Collini spa), coinvolta in un’indagine conclusasi nel 2010 con un patteggiamento per turbativa d’asta e corruzione.
E gli altri? Legambiente e Italia Nostra vedevano il parcheggio come il fumo negli occhi: la prima si è rassegnata, la seconda inabissata. E L’Unesco che dirà? Curiosità: Gori abita a 300 metri dal cantiere della discordia e è iscritto al circolo Pd di Città alta. Che resta assai contrario. «Abbiamo chiesto un dialogo, ma il sindaco non ha dato retta a nessuno», — dice il segretario dem Alessandro Tiraboschi. Qualcuno ricorda il commento di un ammirato Le Corbusier in visita a Bergamo nel 1949: «Le automobili dei visitatori devono essere lasciate fuori dalla città vecchia». Parole al vento.
il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2017 (p.d.)
del gruppo di ricerca "Emidio di Treviri", che riflette sulle modalità distorte attraverso cui si intende provvedere al bisogno abitativo nelle aree terremotate, compiacendo i costruttori e spostando le popolazioni. 10 luglio 2017 (p.d.)
“Lo spazio è diventato uno strumento politico di primaria importanza per lo Stato. Lo Stato usa lo spazio per garantire il controllo sui luoghi, la sua stretta gerarchia, l’omogeneità del tutto e la segregazione delle parti”
Henri Lefebvre, 1974
Sulla base delle esperienze pregresse e grazie agli strumenti contrattuali messi in campo” [1] dalla Protezione Civile, l’attesa sarebbe dovuta durare appena sei mesi. Il dato certo è che ad oggi, nelle Marche, la regione che registra il numero più alto di sfollati e sfollate in attesa di una sistemazione nei SAE (5.040, secondo i dati ufficiali), nessuno ha ancora ricevuto le chiavi dei moduli abitativi e nella maggioranza dei comuni interessati non sono neanche partite le opere di urbanizzazione. Ora più che mai è evidente la condizione di affanno in cui versano le istituzioni circa la gestione della questione abitativa dei terremotati. In questo tempo immobile che perimetra l’emergenza, catturato e scandito dal succedersi di decreti ed ordinanze, il Governo mette in campo l’ennesima opzione per cercare di raddrizzare i dati.
L’articolo 14, titolato “Acquisizione d’immobili ad uso abitativo per l’assistenza della popolazione” ed inserito per la prima volta nel Decreto n.8 del 9.11.2017 (convertito in legge lo scorso 7 Aprile), autorizza infatti le Regioni a comprare unità immobiliari da destinare in maniera provvisoria ai terremotati e, in un secondo momento trasformarle in “case popolari”. Una notevole operazione di acquisizione al patrimonio pubblico residenziale, dunque, come non succedeva da decenni e compiuta attraverso il Fondo nazionale per le Emergenze (ai sensi dell'articolo 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225). Costituirebbe un importante passaggio di riflessione ragionare sul fatto che a) la “domanda di casa” costituisca un tema all’ordine del giorno solo in una situazione straordinaria come il post-terremoto, b) che lo Stato cerchi di tamponare parte della questione del disagio abitativo solo grazie all’emergenza, nonché c) che le istituzioni individuano, tra le molte categorie sociali in affanno, quella dei terremotati quale target-group meritevole di un intervento - al contrario di tutti gli altri -. Ma tralasciando per il momento questi interrogativi e stando a una superficiale lettura del fenomeno, l’operazione dell’art.14 sembrerebbe quasi rappresentare un’inversione di tendenza rispetto alla grande ritirata dello Stato dal sociale delle ultime decadi.
Analizzando le specifiche degli avvisi di manifestazione di interesse pubblicati finora, salta subito all’occhio quanto l’implementazione della legge abbia assunto di regione in regione forme dissimili e, in alcuni casi, pericolose. La prima evidenza, conferma la straordinaria efficacia riscossa dai Tavoli tecnici permanenti di confronto coordinati dal Direttore dell’Ufficio speciale per la Ricostruzione, ed avviati, ad esempio nel caso della Regione Marche, con l’Associazione dei Costruttori (ANCE - Confindustria). Scorrendo le specifiche del bando emanato dalle regioni adriatiche, è facile ravvisare quanto le modalità di applicazione di una misura potenzialmente virtuosa in linea di principio, corrano il rischio di scadere nella possibilità di implementare i meccanismi di speculazione e di rendita del mercato immobiliare. In base alla regolamentazione stilata dalla Regione che è stata coinvolta in due terremoti e che annovera 27.046 terremotati, le abitazioni devono essere preferibilmente nuove, prioritariamente mai utilizzate e possono trovarsi anche fuori dai comuni del cratere (al contrario di Marche e Abruzzo, l’Umbria [3], ad esempio, non prevede quest’ultimo punto). Il pensiero corre immediatamente alle cementificazioni della costa:
Il primo bando pubblicato dall’Erap [5], l’ente marchigiano per l’abitazione pubblica, che si è chiuso lo scorso 3 Aprile, ha ammesso 654 offerte di vendita (85 nella provincia di Ancona, 148 ad Ascoli Piceno, 109 a Fermo e 312 a Macerata) per un totale di 95.749.743,72 milioni di euro [6]. All’indomani della chiusura del bando, commentava così il presidente della Regione Marche Luca Ceriscioli: “è un ulteriore tassello che, insieme con altri provvedimenti, ci consente di agevolare il processo di rientro delle persone le cui abitazioni hanno subito danni gravi dal sisma, in attesa della ricostruzione pesante”. Ma la prassi sembra essere direzionata proprio nel verso opposto, incentivando le urbanizzazioni incompiute, favorendo così lo spopolamento dei territori interni colpiti dal sisma. Infatti, come si nota dalla mappatura, la maggior parte degli immobili individuati dal bando è collocata nelle zone dove negli ultimi anni si sono verificati i maggiori incrementi di densità urbanistica, ben lontano dalle aree interne.
per “Emidio di Treviri”
Gruppo di Ricerca sul post-sisma del Centro Italia
[2] Dopo dieci mesi di mensilità, difatti, il contributo economico a fondo perduto e senza vincoli di spesa è diventato uno strumento molto simile a un reddito garantito, non calibrato però secondo lo status socio-economico di partenza con il risultato che situazioni familiari eterogenee ricevano contributi identici.
[3] http://www.regione.umbria.it/edilizia-casa/sisma-2016-acquisto-alloggi
[5] http://www.regione.marche.it/Entra-in-Regione/Appalti?id_8340=432
il Fatto Quotidiano on line, 7 luglio 2017 (m.p.r.)
Il progetto dell’Anas per unire con una superstrada il polo siderurgico di Terni con il porto di Civitavecchia risale agli anni 60, mentre i lavori partirono dieci anni dopo. Attualmente è ancora incompiuto il tratto che va da Orte al porto laziale, circa un terzo del percorso. Di questo terzo, la tratta finale, la più problematica dal punto di vista ambientale, è quella che corre da Monte Romano a Tarquinia, tratta soggetta a Valutazione di impatto ambientale (Via), il cui iter è iniziato il 3 agosto 2015.
Il percorso individuato dall’Anas si snoda per 18 chilometri e prevede 9 viadotti, 1 galleria e 2 svincoli, ed è localizzato nella vallata del fiume Mignone, una delle aree più incontaminate e ricche di bellezza del Centro Italia, tutelata dalla direttiva Habitat, volta alla conservazione degli habitat naturali di particolare pregio nel territorio europeo. Nell’ambito dell’iter della Valutazione di impatto ambientale, in data 20 gennaio, la Commissione tecnica di verifica del ministero dell’Ambiente ha espresso parere negativo al progetto, mentre, in data 15 marzo, in sede di Conferenza dei servizi tutti gli altri soggetti chiamati ad esprimersi, tranne il comune di Tarquinia ed appunto il ministero, hanno dato parere favorevole, inclusa la regione Lazio.
Adesso, la decisione finale spetta al Consiglio dei ministri che pare la adotterà in data 20 luglio. Andiamo più nel dettaglio della vicenda: ne vale la pena. Nel progetto presentato dall’Anas, secondo i tecnici del ministero dell’Ambiente che hanno redatto una corposa relazione di oltre 120 pagine, non sono stati valutati adeguatamente né l’impatto paesaggistico, né quello ambientale, compresi i rischi connessi all’inquinamento atmosferico e acustico.
Ecco alcuni significativi passi delle conclusioni del parere rilasciato dalla Commissione: “L’intervento modificherà in modo sostanziale, permanente e irreversibile il paesaggio dell’area, distruggendone la naturalità attuale. Dai foto inserimenti, si evidenzia infatti un impatto visivo insostenibile per il contesto specifico della valle del Mignone, l’arteria andrà a tagliare in due una continuità naturale, territoriale e storico culturale che invece deve essere conservata come bene di alto valore ambientale […] Il rumore e le vibrazioni, date le caratteristiche di grande valore ambientale dell’area in oggetto, si ritengono troppo elevati per poter essere accettati all’interno dei siti di importanza comunitaria (Sic) e nelle Zone di protezione speciale (Zps)”.
La stessa opinione del ministero è stata espressa dalle associazioni ambientaliste e dai comitati locali con motivate osservazioni che evidenziano, tra l’altro, come l’Anas si sia sempre di fatto rifiutata di redigere una seria Valutazione di incidenza ambientale relativa sia all’area Zps sia al Sic della valle del Mignone, cioè non abbia voluto valutare i danni che sicuramente ci sarebbero sui siti qualora l’opera fosse realizzata. Vale la pena ricordare, infatti, che la direttiva Habitat prevede la Valutazione come “un passaggio che precede altri passaggi, cui fornisce una base. In particolare, l’autorizzazione o il rifiuto del piano o progetto”. Uno studio d’incidenza incompleto, le cui conclusioni ottimistiche sono state contestate nel parere Via, ha evitato ad Anas il rifiuto o quanto meno il rischio che un approfondimento avrebbe dato risultati diversi da quelli sperati, bloccando l’iter del progetto.
Ma perché l’Anas avrebbe scelto una soluzione così impattante? Non c’erano alternative? Nel 2004, l’azienda di Stato sviluppò un diverso progetto che aggirava l’abitato di Monte Romano a Nord per poi seguire l’attuale tracciato della Aurelia bis. Progetto che, adeguato alle prescrizioni Via che ne avevano richiesto il passaggio in galleria per quasi la metà del percorso, avrebbe lasciato maggiormente integro il paesaggio che invece il progetto attuale taglierebbe in due. Nel 2007 l’Anas inoltrò il progetto al Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) per il finanziamento, ma il Cipe non lo finanziò perché lo ritenne troppo costoso. Singolare, perché per altre opere sommamente costose e perfettamente inutili come l’alta velocità e il Terzo valico, il Cipe ha chiuso non uno, ma ambedue gli occhi. Allora cosa fece l’Anas? Concepì questo nuovo progetto molto meno costoso, che infatti definì essa stessa low cost e andò avanti su di esso. Quindi, l’alternativa c’era ma costava. E allora ecco un progetto che costa di meno, che sarebbe finanziato e pazienza se è sommamente impattante.
Oggi le pressioni perché l’opera sia completata ed in breve termine sono molteplici: comunità locali, Confindustria, i soliti sindacati, Associazione dei costruttori edili (Ance) e altri, compresi organi di stampa autorevoli quali Il Corriere della Sera. La solita commedia che viene recitata ogni volta che c’è una grande opera da realizzare. Qualora il Consiglio dei ministri desse il via libera nonostante il parere negativo dello stesso ministero dell’Ambiente, questa sarebbe a tutta evidenza una decisione di carattere politico e non già di compatibilità ambientale. Sarebbe lo sviluppo purchessia. E la Valutazione di impatto ambientale una barzelletta, come del resto, diciamolo, è stata quasi sempre fino ad oggi.
la Repubblica, 24 giugno 2017 (m.p.r.)
Sempre meno acqua e sempre più sprechi. I ricercatori del Cnr-Isafom (Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo) prevedono che il caldo di quest’anno non sarà un caso sporadico e potrebbe durare, come accaduto ciclicamente 1000 e 2000 anni fa, per circa 150 anni. «Occorre quindi intervenire al più presto per contrastare gli effetti negativi sulla disponibilità delle risorse idriche», dice la ricercatrice Silvana Pagliuca. In pratica, bisogna migliorare i sistemi di raccolta e distribuzione, e invece in Italia l’acqua si spreca a più non posso.
la Repubblica, 19 aprile 2017
QUANDO ponti, cavalcavia e viadotti non vengono spazzati via dalle scosse di terremoto o dalle bombe d’acqua dei nostri torrenti impazziti ma semplicemente vengono giù da soli, per di più con una frequenza impressionante, c’è da domandarsi a quale punto di degrado sia arrivata in Italia la gestione della cosa pubblica. Sei crolli in meno di tre anni, due dei quali solo negli ultimi 4 mesi, con il loro corredo di morti e feriti. Insieme al calcestruzzo armato delle nostre opere pubbliche si sbriciolano anche la credibilità e il senso civico di un paese che non impara mai dal suo passato, che dopo lo sgomento momentaneo, invece di capire e correggere gli errori compiuti, torna a paralizzarsi nel consueto rimpallo di responsabilità. È la stessa Italia che realizza opere ardite e gigantesche all’estero, che crea il terzo ponte sul Bosforo, che allarga il canale di Panama. La stessa Italia che in soli otto anni, tra il ’56 e il ’64, costruisce l’Autostrada del Sole, assicurandole un alto livello di qualità. Oggi quell’Italia non è in grado di programmare neppure la manutenzione di quello che ha costruito negli ultimi anni. Il ponte crollato sulla A14 nei pressi di Ancona è di appena un mese fa. Preceduto da altri cinque incidenti ravvicinati. Casi sempre più frequenti, che avranno anche cause diverse e diverse responsabilità. Ma che hanno in comune il marchio dell’incuria, del disinteresse, dell’ignavia.
Corriere della Sera, 8 novembre 2016 (m.p.r.)
Vecchi che piangono. Che resistono. Che non si arrendono. Pazienti in transizione, li chiamano i medici. Hanno perso tutto, devono andarsene ma non se ne vorrebbero andare. La somma di quel che manca ai sopravvissuti del terremoto è enorme: case, odori, rumori, umori, la memoria del corpo e degli affetti, le pietre, l’erba calpestata, i rintocchi di una campana. «La distruzione è un dolore immenso, il sisma è come una guerra. Dopo bisogna ricostruire», dice la psicanalista Lella Ravasi. «Ma i traumi non sono una sconfitta, possono diventare storie, memorie, una spinta per andare oltre. In quelle case polverizzate c’è il senso della vita, l’impronta di chi ci è stato». L’anima dei luoghi.
«È questo amore, questo rispetto, questa dignità che evoca la gente anziana dei borghi. È per quest’anima che vogliono tornare. Dentro la sofferenza c’è uno straordinario messaggio di vita, contro la terra che sprofonda, contro ogni tipo di deportazione. È la speranza che risale dopo un lutto, la forza di gridare che non si può perdere il rapporto con il luogo che sentiamo nostro, è l’umanità che va difesa e salvata», spiega. Nel dramma si pesano le cose che contano. «Si torna ai gesti primitivi, al valore dei sentimenti veri. Nell’attaccamento che abbiamo visto, anche da parte dei giovani, c’è il tentativo umano di andare contro la morte, di recuperare frammenti di memoria che danno senso alla vita».
Amatrice, Arquata, Ussita, Preci, Visso, Castelluccio, Fiastra, Sarnano, Camerino. Quanto pesa il dolore per gli anziani che hanno questi luoghi dentro la pelle? «Un peso schiacciante», risponde il gerontologo Carlo Vergani. «Il borgo amico è l’ancora di salvezza dei vecchi, l’ambiente dove affondano le radici. È quel che resta di una vita soggetta a continue perdite, che configura la loro identità». Si può reagire, si deve reagire.
«L’anima dei luoghi evoca dentro di noi la forza dei primi tempi di vita, bisogna guardare avanti per non soccombere», dice Ravasi. Gli anziani sfollati devono aggrapparsi a qualcosa, aggiunge Vergani, studioso della nuova longevità: «Quando il borgo crolla e le radici vengono estirpate, anche la sfida adattativa viene meno. Se la difficoltà supera la forza residua subentra la desistenza. La resa». E ricorda uno studio dell’università di Boston sulle persone anziane sopravvissute al terremoto del 2011 in Giappone: «L’allontanamento dalle case e dai vicini non solo può provocare problemi di salute mentale come il disturbo da stress post traumatico, ma può anche accelerare il declino cognitivo in chi è vulnerabile».
La sfida adesso è la ricostruzione, tornare e recuperare quei sentimenti che creano comunità. Ma come e con chi? Basta mettere le case in sicurezza? «No, non basta», dice Carlo Ratti, docente al Mit di Boston, «in certi posti non c’è più nemmeno lo scheletro delle case. Accanto al vissuto bisogna ricostruire uno spirito, portare in questi luoghi segnati da abbandono, il lavoro, i giovani, internet, la modernità delle tecnologie intelligenti. Bisogna dare valore. Si può pensare al turismo, dare gli incentivi, restaurare i monumenti, ma la vera svolta viene dal lavoro, attività produttive legate alla terra, agricoltura bio, qualità delle filiere diffusa attraverso la Rete». Ratti, teorico della smart city, pensa alla robotica che ha fatto fare un salto di qualità ai trattori della New Holland («Si guidano da soli nelle zone impervie») e ricorda l’investimento di Google in Boston Dynamics, la società di ingegneria che ha creato il mulo meccanico per l’esercito Usa. «L’anima antica e l’anima del futuro in questi luoghi può essere saldata con la terra. È importante creare nuove opportunità con la tecnologia, rispettando la storia. Se muore la Civitas, scompare anche l’Urbs. Per questo, con gli anziani, devono tornare giovani e lavoro». Per salvare un patrimonio che fa parte di noi.
Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2016
“7 milioni di cittadini si trovano ogni giorno in zone esposte al pericolo di frane o alluvioni. In ben 1.074 Comuni (il 77% del totale) sono presenti abitazioni in aree a rischio. Nel 31% sono presenti addirittura interi quartieri e nel 51% dei casi sorgono impianti industriali. Nel 18% dei Comuni intervistati, nelle aree golenali o a rischio frana sono presenti strutture sensibili come scuole o ospedali e nel 25% strutture commerciali. … nel 10% dei Comuni intervistati sono stati realizzati edifici in aree a rischio anche nell’ultimo decennio”.
Nella premessa a “Ecosistema a rischio 2015″ di Legambiente i risultati riportati, inequivocabili. Dopo il recente Rapporto di Ispra “Dissesto idrogeologico: pericolosità e indicatori di rischio”, arriva la presentazione dei dati sull’esposizione a rischio frane e al rischio idraulico nei Comuni italiani e sulle attività volte alla mitigazione del rischio da parte delle amministrazioni comunali. Il trend ancora negativo. Come confermano i risultati dell’indagine. A partire da quelli relativi ad “Interi quartieri in aree a rischio”. Non singole abitazioni, ma parti di agglomerati urbani. Insomma spazi estesi nelle quali si concentrano grandissime quantità di persone. Si va dai 68 del Piemonte e i 51 della Lombardia, ai 33 dellaToscana, i 30 della Sicilia, i 29 delle Marche e della Calabria, i 27 di Campania e Emilia Romagna, i 23 del Veneto e i 20 della Liguria, passando ai 16 del Lazio, i 13 della Puglia, i 12 dell’Abruzzo, gli 11 della Sardegna, i 9 della Valle d’Aosta, i 7 del Friuli Venezia Giulia e dell’Umbria, fino ai 5 dellaBasilicata.
Molti altri gli elementi che contribuiscono a definire l’estrema precarietà nella quale si trova una gran parte dei territori italiani. I pericoli che insidiano parti considerevoli delle diverse regioni. Tuttavia ad aggravare il quadro un elemento nodale. La parzialità dell’indagine. Già perché, come è sottolineato nel Rapporto di Legambiente, i dati presentati costituiscono il risultato del questionario inviato a 6.174 amministrazioni comunali “in cui sono state perimetrate aree a rischio idrogeologico“. Questionario al quale hanno risposto in 1.444, dei quali 45 in maniera incompleta e “quindi non assimilabili agli altri”.
Il dettaglio, per regione, più che un semplice elemento statistitico, sembra un illuminante indicatore delle politiche, certamente comunali ma anche regionali, in tema di urbanistica e di controllo del territorio, oltre che di trasparenza dei dati. Così in Abruzzo 40 quelli che hanno fornito risposte su 253 interpellati. InBasilicata 26 su 123. In Calabria 60 su 408. In Campania 64 su 474. In Emilia Romagna 70 su 265. In Friuli Venezia Giulia 39 su 146. Nel Lazio 55 su 364. In Liguria 35 su 187. In Lombardia241 su 889. Nelle Marche 82 su 235. In Molise 11 su 119. InPiemonte 306 su 1.045.
In Puglia 52 su 181. In Sardegna 29 su 243. In Sicilia 63 su 271. In Toscana 74 su 275. In Umbria 27 su 92. In Valle d’Aosta 33 su 74. In Veneto 84 su 278. Numeri che, a prescindere dalle percentuali differenti riscontrabili nelle diverse regioni, sanciscono l’assoluta volontà di una cospicua quantità di amministrazioni comunali di non voler dare conto delle proprie decisioni. Di non aprirsi al giudizio dei cittadini. Proprio come è accaduto con il “Censimento del cemento” lanciato nel 2012 dal Forum nazionale “Salviamo il paesaggio-Difendiamo i Territori” con l’intento di analizzare capillarmente il numero e lo stato degli edifici costruiti, agibili e in buone condizioni ma abbandonati e inutilizzati.
“Delle circa 1000 risposte che in quattro anni sono arrivate al forum, la metà sono risultate negative. In altri casi invece (circa 250) le risposte erano incomplete o incongruenti rispetto ai dati ufficiali. Gli unici questionari compilati in maniera rigorosa, completa e con un buon indice di affidabilità, si sono dunque limitati ad una manciata di decine” ha scritto la Redazione nel febbraio 2016. Le difficoltà incontrate da Salviamo il Paesaggio le medesime di Legambiente. Le amministrazioni continuano, ancora troppo spesso, a cannibalizzare i propri territori e a disinterissarsi della loro sicurezza. Scelleratamente continuano a non essere “trasparenti”. Ad impedire che sia possibile usufruire di dati completi. Così quanto le due questioni siano tra loro in relazione diventa sempre più chiaro. Più macroscopico il legame tra un utilizzo disinvolto del suolo e l’ostracismo a fornire informazioni sulle politiche adottate.
Il 16 maggio è diventato legge il Freedom information act, il decreto previsto dalla Riforma Madia sulla Pa per liberalizzare l’accesso agli atti della Pubblica amministrazione da parte dei cittadini. La situazione che ha impedito la completa realizzazione delle operazioni del Forum e di Legambiente dovrebbe mutare. Ma non è detto che sarà davvero così.
pagheranno chi ha inquinato e chi non ha controllato?. Ilfatto quotidiano.it, 21 aprile 2016 (m.p.r.)
L’ammissione, clamorosa, arriva direttamente dal direttore generale della sanità veneta Domenico Mantoan: «Io sono tra i super esposti - dichiara il dirigente regionale parlando dell’emergenza Pfas, le sostanze cancerogene nelle acque delVeneto - perché ho bevuto per trent’anni l’acqua di casa mia a Brendola, nel vicentino. Ora ho fino a 250 nanogrammi per grammo di Pfas nel sangue». La Regione Veneto cambia passo sull’emergenza sanitaria e ambientale per le sostanze perfluoroalchiliche, di cui fino a poco fa discuteva riservatamente nelle riunioni tecniche definendola “fuori controllo”, e decide di uscire allo scoperto rendendo nota tutta la gravità del problema, insieme agli esperti dell’Istituto Superiore di Sanità e dell’Oms. «Più di 60mila persone residenti nelle zone a maggior impatto sono contaminate – spiega l’assessore regionale alla Sanità,Lucio Coletto – Altre 250 mila sono interessate dal problema».
Insieme a Loredana Musmeci dell’Istituto Superiore di Sanità, a Marco Marcuzzi dell’Oms e al dirigente della sanità veneta Mantoan, l’assessore Coletto ha presentato i primi risultati del biomonitoraggio che la Regione ha realizzato con l’Iss sulla popolazione esposta ai Pfas, “possibili cancerogeni” per lo Iarc. Il risultato è che nel sangue dei veneti - e dei vicentini in particolare - scorrono quantità rilevanti di Pfas, un gruppo di composti prodotti per decenni dalla fabbrica chimica Miteni di Trìssino, nel vicentino, usati per l’impermeabilizzazione di pentole e tessuti, che hanno contaminato le falde acquifere delle province di Vicenza, Verona e Padova. La zona più colpita, dove si trovano i cittadini “esposti” (14 ng/g) e “super esposti” (70 ng/g), è quella compresa tra i comuni di Montecchio Maggiore, Lonigo,Brendola, Creazzo, Altavilla, Sovizzo, Sarego, in provincia diVicenza. Mentre la zona di controllo, a impatto minore, interessa i comuni di Mozzecane, Dueville, Carmignano, Fontaniva,Loreggia, Resana e Treviso. Nell’agosto del 2013 è stata effettuata la messa in sicurezza degli acquedotti, tramite l’applicazione di filtri a carboni attivi che costano 2 milioni di euro all’anno. Ma fino ad allora l’acqua ha intossicato la popolazione.
Un’emergenza rimasta a lungo sotto traccia, tanto che le indagini sull’origine della contaminazione, iniziate nel 2013 in seguito a un esposto dell’Arpa, sono rimaste ferme per tre anni inProcura a Vicenza. Secondo gli inquirenti, per contestare il reato di avvelenamento delle acque sarebbero stati necessari i risultati di uno studio epidemiologico. Ora la Regione, sotto il coordinamento dell’Iss, fa sapere di volerne avviare uno “della durata di 10 anni” partendo dalle 60mila persone più esposte della provincia di Vicenza. Le analisi, promette l’assessore Coletto, saranno effettuate a carico della sanità regionale e verranno estese a tutti i 250mila cittadini dei comuni del Veronese e del Padovano coinvolti. Chi risulterà positivo agli esami verrà seguito con un protocollo di follow-up semestrale a partire da gennaio 2017.
I composti Pfas, ha spiegato la dottoressa Musmeci dell’Iss, sono “idrosolubili e vengono assorbiti rapidamente per via orale. Una volta nell’organismo, si legano alle proteine del plasma e del fegato, e vengono eliminate dai reni solo molto lentamente”. Secondo gli studi epidemiologici, effettuati sulla popolazione della Mid-Ohio Valley, negli Usa, e su quella tedesca, i Pfas possono causare «colesterolo alto, ipertensione, alterazione dei livelli del glucosio, effetti sui reni, patologie della tiroide e, nei soggetti iper esposti, tumore del testicolo e del rene». Lo studio avviato in Veneto potrà essere determinante per modificare la classificazione di cancerogenicità dei Pfas fatta dello Iarc, che per ora si basa su una letteratura limitata. Mentre l’Unione Europea sta elaborando, sulla base del caso veneto, una direttiva che imponga minuziosi controlli sui Pfas nell’acqua.
La Repubblica, 5 aprile 2015 (m.p.r.)
VIiggiano (PZ). Un documento rassicurante. Distribuito a sindacati, funzionari regionali, esponenti della politica, il 22 febbraio scorso, in occasione della riunione del Tavolo regionale della trasparenza sull’industria petrolifera della Basilicata e in particolare sull’inquinamento al centro oli di Viggiano. Un documento che stride con i dati che si leggono nell’ordinanza di 800 pagine alla base dell’indagine della procura di Potenza. «Tutti e cinque i dirigenti Eni che avevano partecipato a quella riunione - osserva il segretario della Fiom lucana, Emanuele De Nicola - oggi sono agli arresti».
Il documento presentato da Eni poco più di un mese fa riporta dati tranquillizzanti. Sintetizza così i «risultati del monitoraggio ambientale» effettuato dei tecnici della società. «La qualità dell’aria è buona - si legge - con dati da 5 a 10 volte inferiori ai limiti normativi » e addirittura «migliori che nella maggior parte delle città italiane». In particolare, sempre secondo l’Eni, i flussi delle emissioni in atmosfera «si attestano intorno al 25-30 per cento dei valori autorizzati dall’Aia», l’autorizzazione integrata ambientale valida nell’Unione Europea. Un dato certamente soddisfacente. Ma proprio su questo punto il documento della società petrolifera differisce in modo clamoroso da quanto è stato accertato dai pm di Potenza. A pagina 27 dell’ordinanza si legge che le emissioni in atmosfera, nel solo periodo tra dicembre 2013 e luglio 2014 «hanno superato per ben 208 volte i limiti di legge». In particolare la tabella allegata all’indagine sottolinea il caso delle emissioni di biossido di zolfo (So2) del termodistruttore contrassegnato con la sigla E 20. Secondo la perizia affidata dai pm e la tabella conseguente l’So2 nel punto E20 ha superato i limiti di legge per 29 volte nel periodo aprile2013-marzo 2014. Tanto da spingere il gip a commentare: «Tale elevata frequenza di superamenti indica in maniera chiara che l’assetto impiantistico e i sistemi di controllo per tale punto di emissione non sono in grado di assicurare in maniera stabile il rispetto dei limiti».
Eppure proprio sul termodistruttore E20 la narrazione del documento consegnato da Eni alla riunione del 22 febbraio è completamente diversa. A pagina 21 del dossier sulle migliori pratiche per la riduzione delle emissioni si legge che nell’impianto sono state adottate le procedure migliori «per evitare o, dove ciò si riveli impossibile, ridurre in modo generale le emissioni e l’impatto sull’ambiente nel suo complesso ». Dunque in uscita dal termodistruttore, di fronte a un limite Aia di 200 milligrammi per metro cubo di So2 la tabella indica quantità «inferiori a 180 milligrammi». Ampiamente al di sotto dei limiti, altro che «elevata frequenza dei superamenti». Siccome il termodistruttore è lo stesso e l’inquinante anche, le due ipotesi possibili sono comunque inquietanti. Sia che ad affermare il falso per nascondere i problemi sia stata una multinazionale come l’Eni sia che, al contrario, a forzare la situazione siano stato i periti che hanno redatto la consulenza per il tribunale.
Quella sulle emissioni del termodistruttore è solo una delle contraddizioni più stridenti tra quanto si legge nel documento Eni e quanto sta scritto nell’ordinanza del gip di Potenza. La stessa Eni dichiara che non esiste alcun problema relativo alle acque di reiniezione così come sulla salubrità della falda e dei fiumi. Per quanto riguarda le acque sotterranee ci sarebbe «il costante rispetto dei limiti normativi» mentre il lago artificiale del Pertosillo, al centro delle preoccupazioni delle popolazioni locali per le morie di pesci, «soddisfa tutti gli standard imposti dalla normativa». Toccherà ora al processo stabilire chi ha scritto la verità.
Il Fatto Quotidiano
ASTENSIONE SULLE TRIVELLE:
LA CEI SCOMUNICA IL PD
di Tommaso Rodano
La scomunica che non ti aspetti ha per protagonisti i vescovi italiani, per oggetto il referendum sulle trivelle e per destinatario, nemmeno troppo implicito, il Partito democratico, che ha invitato i suoi elettori ad astenersi. La Conferenza episcopale non prende posizione per il sì o per il no, ma chiarisce un punto: la gente va coinvolta e informata sull’argomento, non può essere sollecitata ad ignorarlo.
Il manifesto
I NO TRIV: «SI VUOLE IMPEDIRE AI CITTADINI
DI ESERCITARE UN DIRITTO»
di Serena Giannico
Il manifesto
I GUARDIANI DELLE TRIVELLE
«La minoranza dem protesta: “Chi ha deciso per l’astensione sul referendum?”. Durissima replica dei vicesegretari Serracchiani e Guerini: «Noi. E vedremo in direzione chi ha i numeri per usare il simbolo del partito”».
«L’astensione è la scelta dei gruppi dirigenti, non dei cittadini, militanti ed elettori del Pd. Che non la rispetteranno». È arrabiato Pietro Lacorazza, presidente del Consiglio regionale della Basilicata e frontman del comitato promotore del referendum sulle trivellazioni in mare. Il quesito è stato voluto da nove regioni, sette delle quali a guida Pd. «In totale sono oltre cento i consiglieri regionali democratici che si sono espressi per il Sì, e sto parlando di gente votata da migliaia di elettori, io ho avuto 11mila preferenze. Chi ha deciso di schierare il Pd per l’astensione? Chi rappresenta?».
«Scontro nel Pd» è più un revival che una notizia, le liti sono magma bollente nel corpaccione del partito, ma questa volta trovano nel referendum del 17 aprile un cono di risalita velocissimo. Anche perché il segretario non fa nulla per limitare l’eruzione. La nota dei suoi due vice dopo le prime proteste della minoranza è durissima. Alla domanda che arriva un po’ da tutti – «chi ha preso questa decisione?» – la risposta è «noi due». Firmata Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini.
I due vice devono dare corpo alla finzione, persino per questo presidente del Consiglio, e segretario Pd, sarebbe un po’ troppo invitare ad andare al mare direttamente da palazzo Chigi. Bettino Craxi quando lo fece, e gli andò male, era solo segretario del Psi; nemmeno Berlusconi osò tanto, disse solo che il referendum sulla legge 40 era «demagogico». «È inutile» dicono adesso i due vice, non il titolare, contraddicendosi un attimo dopo spiegando che il referendum è pericoloso per l’economia nazionale. Dicono poi, loro, che farà sprecare 300 milioni, ma è stato il governo a non volere l’election day per sperare nell’astensionismo.
Le correzioni però sono solo il preludio: «Vedremo lunedì in direzione (ecco dove si deciderà, ndr) chi ha i numeri a norma di statuto per utilizzare il simbolo del Pd». Frase durissima, da frazionismo di maggioranza si sarebbbe detto un tempo. O più da Grillo e Casaleggio che da Serracchiani e Guerini, si potrebbe dire oggi.
Ma mentre la minoranza si sgola - «la segreteria non si riunisce da mesi», dice il senatore Miguel Gotor - Legambiente e Greenpeace condannano la scelta astensionista - «scandalosa», «incoerente» -, su tutto il partito scende una cappa di imbarazzo. Mercoledì sera, richiesto di confermare la notizia apparsa sul sito dell’Agcom, lo sventurato Lino Paganelli (il dirigente Pd già addetto alle feste del partito) al quale era toccata la comunicazione burocratica, rispondeva solo: «È corretto», rifiutando ogni commento. Ieri il presidente della Puglia Michele Emiliano preferiva esorcizzare la notizia, mentre il lucano leader dei bersaniani Roberto Speranza faceva domande che potrebbero essere rivolte anche alla stessa minoranza: «Fino a quando si può andare avanti così?». Già, ma chi ha votato prima lo Sblocca Italia e poi la legge di stabilità contro la quale tenterà di agire il referendum? Lacorazza ha una sua lettura: «I parlamentari del Pd hanno votato tutta la manovra con la fiducia, non un singolo provvedimento, devono sentirsi liberi di votare anche Sì al referendum. Del resto, può un partito che si dichiara democratico fare l’appello all’astensione?».
È giornata di domande senza risposta, ma quantomeno la polemica serve a far parlare del referendum – siamo ormai al sedicesimo giorno di una teorica campagna elettorale. E ieri il direttore per l’offerta informativa della Rai Carlo Verdelli ha risposto alle proteste del movimento 5 Stelle. Promettendo che la tv pubblica darà «sempre maggiore spazio al tema del referendum abrogativo con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale». Come prova di buona volontà le 9 tribune politiche previste diventano 13. E saranno trasmesse non più in orari morti ma a ridosso dei Tg.
Il Fatto Quotidiano
TRIVELLE, IL PD SI ASTIENE. È CONTRO LE SUE REGIONI
di Virginia Della Sala
Perché un partito che porta nel proprio nome il richiamo alla sovranità popolare svilisce così gravemente un istituto fondamentale di democrazia diretta come il referendum? Per una forza nata in risposta al crollo della prima Repubblica, riecheggiare il Craxi che invitava gli italiani ad andare al mare invece di votare non mi pare un bel traguardo”. Domanda e osservazioni sono legittime, poste da Andrea Boraschi, responsabile della campagna clima ed energia di Greenpeace, il primo ad accorgersi della presenza del Partito democratico tra i soggetti politici favorevoli all’astensione per il referendum del 17 aprile.
Il manifesto
EMILIANO: «LA POSIZIONE DEL PD INGIUSTA E STRUMENTALE»
di Serena Giannico
Ci sono tweet e post del governatore della Puglia, Michele Emiliano, a rendere più dura un’altra giornata nero petrolio del Pd. Perché le trivelle, pure le trivelle, spaccano il partito di Renzi. C’è la posizione ufficiale, quella che predica l’astensione al referendum del 17 aprile. Ma ci sono anche le Regioni, quelle che il referendum l’hanno chiesto e ottenuto. E 7 delle 9 regioni che hanno combattuto per il referendum (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) sono amministrate proprio dal Partito democratico.
E allora? Emiliano cinguetta: «Io e Barack Obama siamo contro le trivellazioni petrolifere marine. Il Pd italiano che fa? Il 17 aprile vota Sì». E infila il link di un articolo in cui si parla della decisione del presidente degli Stati Uniti di non approvare le piattaforme e perforazioni nell’Oceano. E poi aggiunge: «Obama vieta le trivellazioni petrolifere nell’Atlantico. E noi in Italia dobbiamo fare un referendum!!!». A chi sul social gli fa notare che la consultazione popolare nasce da precise scelte del Pd, Emiliano risponde: «Il Pd siamo noi che lottiamo per l’ambiente non gli altri». E invita a «non dimenticare che senza il Pd non ci sarebbe stato il referendum: l’opposizione impotente – sottolinea – si sarebbe divertita di più. Nel mio partito – aggiunge – siamo quasi tutti contro le trivellazioni e abbiamo chiesto e ottenuto il referendum». Poi, sul suo profilo Facebook, la faccenda viene trattata approfonditamente. Ed è una risposta al documento dei due vicesegretari del Pd che hanno bollato la consultazione popolare come «inutile» e costosa. «È sbagliata e ingiusta questa posizione – tuona Emiliano -.
Secondo il governatore pugliese si sarebbe potuto discutere in assemblea «solo pochi giorni fa, per sanare la posizione di astensione del Pd improvvidamente anticipata». Una posizione «anch’essa strumentale perché il vero scopo è impedire il raggiungimento del quorum e negare alla maggioranza del popolo italiano di esprimersi».
La Repubblica, 10 febbraio 2016
Bari. «Scateniamo il paradiso. Faremo qualunque cosa per salvarlo» aveva protestato il sindaco delle isole Tremiti, Antonio Fantini. Un mese più tardi, la società Petroceltic rinuncia ad andare a caccia di petrolio al largo delle isole tra la Puglia e il Molise. «Essendo trascorsi nove anni dalla presentazione dell’istanza, periodo durante il quale si è registrato un significativo cambiamento delle condizioni del mercato mondiale (oggi il prezzo del greggio è di 30 dollari al barile,ndr).
Unacittaincomune.it, 10 febbraio 2016
Il Parco Migliarino–San Rossore–Massaciuccoli sta vivendo momenti delicati. Non è ancora uscito dal grave dissesto economico che due anni fa l’ha portato al commissariamento e in queste settimane si rinnovano il Consiglio e il Presidente; a fine anno anche il Direttore.Contemporaneamente la Regione, guidata da un PD sempre più renziano e neoliberista, assesta fendenti all’area protetta minando la tutela di ecosistemi preziosi e unici. Questo anche perché, a fronte di una crisi economica che mette ferocemente in luce i limiti del nostro sistema di sviluppo, in tanti pensano ai parchi solo come ad un ostacolo alla libera attività economica o come a belle zone da sfruttare per gli scopi più diversi: dalla costruzione di residenze esclusive alla realizzazione di grandi eventi.
In linea con questa ideologia sviluppista ormai drammaticamente fallimentare, il consigliere regionale PD Antonio Mazzeo si sgola per dire che il Parco non deve costituire un limite e si affanna a omaggiare gli attori economici che chiedono di ridimensionare i confini del parco o di snaturarne i luoghi (es. la riapertura delle strade bianche). Estremizza così la linea già adottata da Regione Toscana, secondo cui le aree protette debbono diventare economicamente autosufficienti: in base a questa visione San Rossore è già stato trasformato in accampamento per gli scout, fondale per passeggiate di sceicchi e ora potenziale scenario per il G7. Difficile sorprendersi quindi della pur incredibile candidatura alla presidenza di Giuseppe Barsotti, imprenditore edile e rappresentante di interessi industriali: un lupo a guardia del gregge!
Il futuro del Parco è scritto invece nelle sue funzioni statutarie, tanto più importanti in un’area di altissimo pregio naturalistico al centro di un territorio fortemente urbanizzato. Oggi vanno affrontate sfide di conservazione difficili e ambiziose (il controllo degli ungulati, l’erosione costiera, ecc…), ma è anche il tempo di raccoglierne di nuove e avvincenti, come la valorizzazione di una nuova agricoltura compatibile con l’ambiente e lo sviluppo di una economia locale realmente sostenibile, in tutte le sue manifestazioni, turismo compreso. Per vincere queste sfide è necessaria un’ottica completamente diversa da quella di uno sfruttamento scriteriato e incontrollato delle risorse. Migliarino–San Rossore–Massaciuccoli è un’area protetta che può dare tantissimo al territorio, sul piano economico, sociale e ambientale, ma serve una mentalità aperta e coraggiosa, non tornare indietro di sessant’anni!
Invece di mortificare continuamente i parchi con tagli economici e lottizzazione delle cariche, la Regione Toscana deve impegnarsi in un forte investimento in idee e risorse, a partire dalla redazione di un nuovo Piano del Parco. Occorre progettare liberi dal condizionamento di interessi spiccioli e immediati, trovare persone autorevoli, con elevati profili di competenza, appassionate e capaci di visioni ambiziose e di lungo periodo, in grado di coinvolgere tutte le forze positive dei territori. E’ con questo spirito che vanno valutati i candidati alla presidenza, non col miserabile e pericoloso bilancino della rappresentanza dei meno nobili tra gli interessi locali.
di Serena Giannico
di Andrea Fabozzi
Per quale ragione non potrà esserci l’accorpamento tra il referendum No Triv e le prossime elezioni amministrative Alfano non lo ha davvero spiegato. Rispondendo ieri alla camera all’interrogazione di Sinistra italiana, il ministro dell’interno ha elencato una serie di ostacoli tecnici al cosiddetto «election day», ma ha poi dovuto concludere che questi ostacoli sono superabili e sono infatti già stati superati almeno una volta - nel 2009. In realtà c’è anche un altro precedente, per quanto di diversa natura: il referendum consultivo sull’Europa che si tenne congiuntamente alle elezioni europee del 1989. In quel caso però non era previsto un quorum minimo di partecipanti, anche se l’affluenza risultò molto alta. Mentre nel 2009 malgrado l’accoppiata con le amministrative i referendum - sulla legge elettorale - si fermarono al 24% di affluenza e risultarono non validi.
Il manifesto, 12 gennaio 2016 (m.p.r.)
Le trivelle mandano sututte le furie la Puglia, ein particolare il suo governatore,Michele Emiliano.Il ministero dello Sviluppoeconomico ha autorizzato,con decreto - numero 176 del22 dicembre 2015 - ricerchepetrolifere - le ennesime - allargo delle Isole Tremiti. El’acredine tra governo e Regionesi è inasprita.Il provvedimento è arrivatodopo la presentazione del referendumantipetrolio da partedi dieci Regioni (Basilicata,Marche, Puglia, Sardegna,Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria,Campania e Molise) epoche ore prima che Renzi ecompany provvedessero ademendare la Legge di stabilità,con l’articolo 239, ripristinando,per l’intero perimetronazionale, il limite di 12 migliadalla costa per nuovi permessidi ricerca, prospezionee coltivazione di idrocarburi liquidie gassosi off shore.
L’autorizzazione del Mise èstata rilasciata all’irlandese Petroceltic,pubblicata nel Bollettinodegli idrocarburi del 31dicembre scorso e «riguarda -dice Angelo Bonelli, della Federazionedei Verdi - una superficiedi 373,70 chilometriquadrati e un’area dalla riccabiodiversità dove verrannoutilizzate le tecniche più devastanti,come l’air gun, per le ricerche.La società - continuaBonelli - pagherà allo Stato italianola cifra di 5,16 euro perchilometro quadrato, per untotale di 1.928,292 euro l’anno».Secondo l’esponente deiVerdi altri permessi starebberoper avere il nulla osta: daPantelleria al golfo di Taranto.Ma quello rilasciato per le Tremiti,che interessa anchel’Abruzzo (la zona di Vasto,nel Chietino) e il Molise (territoriodi Termoli) basta ad arroventarelo scontro politico.«Quest’attacco al nostromare - afferma il presidentedella Puglia Michele Emiliano- è una vergogna e una follia.Bisogna bloccare il progetto:in caso contrario, scateneremol’inferno».
E poi la stessariflessione che, in questi giorni,hanno fatto in molti. «Governoirresponsabile: da un latomanda in Gazzetta ufficialelo stop alle perforazioni edall’altro approva nuove ricerche.Faccio appello al presidenteMatteo Renzi affinchérevochi immediatamente leautorizzazioni. Tra l’altro - evidenziaEmiliano - alle Regioniera stato assicurato che la questione,dopo la modifica dellaLegge di stabilità, sarebbe statachiusa. Non può essere chela volontà di ben dieci Regionidi proteggere il proprio maresia sbeffeggiata».Tra l’altro, dopo i cambiamentinormativi, con l’introduzionedell’articolo 239, laCassazione, il 7 gennaio scorso,ha riesaminato e bocciatocinque dei sei quesiti referendariproposti per salvare le costedello Stivale dall’assaltodel greggio. «Con la Legge distabilità 2016 - spiega Enzo DiSalvatore, costituzionalista -sono stati soddisfatti tre deiquesiti referendari: il Parlamentoha modificato le normesu strategicità, indifferibilitàed urgenza delle attività petrolifere.
La Cassazione, in secondabattuta, d’altro cantoha ammesso solo il quesitosul divieto di trivellare in mareentro le 12 miglia dal litorale.Ma non va: le Regioni proponentisono pronte ad elevareil conflitto di attribuzionenei confronti dello Stato davantialla Corte costituzionaleriguardo alla durata di permessie concessioni di titoliminerari in mare e terrafermae sul “Piano delle aree”, necessarioper pervenire ad una razionalizzazionedelle attivitàpetrolifere». Intanto, domani,il referendum sarà all’attenzionedella Corte costituzionale.E sulle Tremiti, paradiso naturalisticoe turistico? «Duemilaeuro all’anno dati dalla Petroceltic...- riflette il sindaco,Antonio Fentini -, che dire?Magari servono a risanare il bilanciodello Stato...».
La ministra dello sviluppoeconomico Federica Guidi definiscele polemiche sterili:«Non si prevede alcun tipo diperforazione e quei permessiriguardano una zona di mareben oltre le 12 miglia dalla costae anche dalle isole Tremiti.Si tratta solo di prospezionegeofisica e non di perforazioni».«Che se ne fanno di ricerchese poi non possono procederecon le trivellazioni?», fapresente Di Salvatore. E aggiunge:«Il ministero si sbaglia,perché da una verifica effettuata,con la misurazionedei vertici, salta fuori che ilpermesso rilasciato per le Tremitiè in più punti entro le 12miglia». E quindi pronti con iricorsi al Tar.«Tutto l’Adriatico in pastoai petrolieri, dal Po al Salento».
Il coordinamento No Ombrina,Trivelle Zero Molise eTrivelle Zero Marche chiedonoinvece una moratoria immediata:«Bisogna agire anchea livello comunitario,manca la Valutazione ambientalestrategica e mancano leValutazioni di impatto cumulativee transfrontaliere. Il permessodi ricerca rilasciato davantialle Tremiti e a Termoliè solo un assaggio amaro. Perchétra poco sarà un vero eproprio far west con un quadrodevastante che si aggiungeràalle decine di titoli minerarigià in itinere».
i si intende tagliare tutto per guadagnare di più. La Repubblica, 12 gennaio 2016
Sul taglio lungo il Savena il Wwf, assieme all’Unione bolognese naturalisti (di cui fanno parte botanici dell’università), a Italia Nostra, alla Lipu e a una decina di associazioni ambientaliste, presenterà un esposto di venti pagine alla procura della Repubblica dopo che il Corpo forestale a sua volta aveva già inoltrato due denunce mesi fa.
La vicenda inizia nell’estate 2014 e si protrae fino all’agosto scorso. Il Comune di Pianoro, dopo due esondazioni del torrente e di fronte all’ostruzione dei ponti, chiede un intervento di pulizia dell’alveo al Servizio di bacino del Reno, un organismo regionale che ha la competenza di autorizzare e controllare operazioni di questo tipo.
L’ente concede il proprio assenso con precise prescrizioni affinché la bonifica sia «selettiva». Si possono tagliare solo gli alberi «secchi, ammalorati, inclinati, creciuti a ridosso della strada o dentro l’alveo». Il Comune bandisce quindi un appalto vinto da tre ditte toscane
Il bosco raso al suolo per evitare alluvioni e Bologna dice addio a cinquantamila alberi, vale a dire a costo zero per il Comune stesso perché i lavori vengono pagati con il legname disboscato. Questo significa che il guadagno è direttamente proporzionale alla quantità tagliata. E in effetti l’abbattimento diventa massiccio e comincia addirittura da una zona protetta a ridosso del contrafforte pliocenico dove è proibito intervenire. Il Comune blocca il tutto quando però le motoseghe hanno già raso al suolo 2700 metri di vegetazione (30mila secondo il Wwf).
A parte l’incidente, che provoca la denuncia della Forestale, la “pulizia” dell’alveo continua per dodici chilometri. «Un intervento necessario — sostiene il sindaco di Pianoro Gabriele Minghetti — dopo gravi esondazioni e cinque ponti ostruiti dai tronchi. Ora è tutto più sicuro e la vegetazione sta già ricrescendo». Ma per Fausto Bonafede — botanico del Wwf — il danno è enorme. Oltre alla perdita di vegetazione, il rischio è che alle specie autoctone, si sostituiscano quelle infestanti come la robinia e l’alianto. Interventi come questi, a decine solo in Emilia-Romagna, vanificano gli sforzi per migliorare la qualità dell’aria e compromettono il paesaggio».