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«Éindiscutibile che gli stadi italiani siano i peggiori d’Europa e non c’è bisogno di frequentare quelli di Champions League per capirlo. Basta guardare agli impianti di Inghilterra, Germania o Spagna per rendersi conto quanto siamo lontani da una realtà appena discreta. I nostri sono stadi scomodissimi e obsoleti ». Sono parole di Sergio Campana, avvocato e presidente dell’Assocalciatori e riassumono l’anomalia italiana. Primo punto: nessun club di serie A e B è proprietario dello stadio dove gioca. Secondo punto: nessuna società ha sfruttato le possibilità offerte dall’organizzazione di Italia ’90, a parte Roma (Olimpico rifatto) e Milano (terzo anello a San Siro), con due impianti che sono considerati di alto livello da parte della Federcalcio europea e dove si sono giocate due finali di Champions League. In qualche caso, come a Bari, è stato costruito uno stadio bello, ma poco funzionale, soprattutto in rapporto alla capienza (60 mila spettatori). Terzo punto: non ci si è resi conto per tempo che la tv stava svuotando gli stadi: i primi segnali erano già apparsi chiari negli anni Novanta; l’introduzione del digitale terrestre (gennaio 2005) ha completato l’allontanamento della gente dal calcio visto dal vivo, trasformandolo in uno spettacolo da consumare in salotto davanti al televisore.



L’esempio di Torino

Adesso il calcio italiano sta cercando di riguadagnare il tempo perduto nei confronti degli altri Paesi europei. In un clima di incertezza assoluta, è iniziata la corsa all’ideazione di nuovi stadi o alla ristrutturazione di quelli vecchi. In verità, soltanto la Juve si è mossa con determinazione e con un progetto chiaro che fra 600 giorni le consentirà di inaugurare il vecchio stadio delle Alpi, completamente rifatto e di proprietà. Il disegno di legge Crimi è il prodotto di un’intesa trasversale fra maggioranza e opposizione: è stato approvato all’unanimità dalla Commissione Cultura del Senato, dopo un lungo lavoro di emendamenti e salterà il passaggio in Aula. Ora passa alla Camera, ma con profonde modifiche rispetto al momento della presentazione. Nei giorni scorsi il sottosegretario ai Beni culturali, Francesco Giro, aveva pubblicamente spiegato le perplessità del proprio dicastero: «Siamo di fronte a provvedimenti di legge che permettono una nuova impiantistica sportiva, ma anche dell’altro. Bisogna essere persone serie e pensare a proteggere il nostro patrimonio artistico. L’accordo di programma permetterà ai Comuni di andare in deroga, cioè di operare varianti al piano regolatore. Si potranno realizzare non soltanto gli stadi, ma anche appartamenti e palazzine in terreni al momento considerati inedificabili. Per questo occorre cautela. Capisco la fretta delle società calcistiche, ma qui si sta parlando di altro. Dobbiamo essere rigorosi, seri e responsabili ». Il disegno di legge non ha convinto tutti, anche all’interno del mondo sportivo, ai massimi livelli istituzionali.



San Siro: sì, no, forse

Juventus a parte, il quadro (modificabile) è questo. Il Milan è deciso a restare a San Siro, dopo ristrutturazione totale: 75 skybox sul primo anello, un ulteriore anello intermedio, per far spazio a nuove soluzioni commerciali (negozi e ristoranti), uno spazio adiacente allo stadio per lo shopping. La scelta nasce dalla considerazione che San Siro ristrutturato ha le stesse potenzialità di uno stadio moderno. Il presidente dell’Inter, Massimo Moratti, ha costituito una commissione di esperti, per essere pronto a realizzare un nuovo stadio nel caso in cui la legge dovesse rendere vantaggiosa la costruzione di un nuovo impianto (il progetto c’è già e da tempo). Ma anche Moratti non è del tutto convinto della necessità di lasciare San Siro, unico impianto, con l’Olimpico di Roma e il San Nicola di Bari, in grado di ospitare un (eventuale) Europeo.



Roma, Firenze e Bologna

Il caso più controverso è quello di Roma, dove i due club vogliono abbandonare l’Olimpico. A settembre, la Roma ha presentato un progetto per il nuovo stadio, intitolato a Franco Sensi, che dovrebbe sorgere in zona Massimina, lungo l’Aurelia. La struttura, ideata dall’architetto Gino Zavanella, dovrebbe ospitare 55-60 mila spettatori; gli appartamenti e il centro commerciale più grande d’Europa devono avere tutte le autorizzazioni urbanistiche e non sarà facile. È tutto da verificare il progetto dello stadio della Lazio, che dovrebbe sorgere in zona Tiberina, esposta al rischio di esondazioni. Il progetto di Alfonso Mercurio prevede la realizzazione di una cittadella dello sport, con case, hotel, shopping center: 2 milioni di metri cubi impegnati.

Il presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, ha spiegato che «non avere uno stadio è come avere una società senza gli uffici». Da sette mesi gli architetti scelti dal presidente stanno studiando come rifare totalmente il San Paolo.

Ma il primo progetto di un nuovo impianto è della Fiorentina. È da più di un anno che Diego Della Valle ha illustrato le caratteristiche della cittadella viola: stadio da 40-50 mila posti, centro commerciale, hotel, parco a tema calcistico. Lo stadio è destinato a sorgere nell’area Castello, ancora sotto sequestro da parte della magistratura.

Giovedì il vertice fra le istituzioni, il Bologna e la Federcalcio sul nuovo stadio è finito con una bocciatura del progetto del nuovo impianto, perché ritenuto «non conforme agli interessi pubblici ».

A Genova, invece, non c’è chiarezza sull’area sulla quale dovrebbe sorgere il nuovo stadio.



L’equivoco di Euro 2016

In questo clima di incertezza, si è fatto strada un equivoco, che nessuno sembra in grado di cancellare: secondo questa tesi, rifatti gli stadi, sarebbe automatica l’assegnazione all’Italia, che ha già perso l’edizione 2012, dell’Europeo 2016. Niente di più sbagliato, perché stadi funzionali sono la condizione necessaria, ma tutt’altro che sufficiente per aggiudicarsi la manifestazione (la prima edizione a 24 squadre). C’è tempo fino al 15 febbraio 2010 per ufficializzare la candidatura, ma la concorrenza è fortissima: Francia, Turchia, Norvegia- Svezia. Occorre un impegno diretto del governo e soprattutto la certezza che verranno rispettati i tempi di costruzione dei nuovi stadi. Niente di più difficile, in Italia, come si è visto anche per il Mondiale ’90.

Nel nostro tempo vediamo morire l'estetica. «Le arti nascono, si consolidano e scompaiono perché uomini insoddisfatti vanno al di là del mondo delle espressioni ufficiali e dei festival della sua povertà» (Hurlements en faveur de Sade, giugno 1952). Da un secolo a questa parte, ogni pratica artistica muove da una riflessione sulla sua materia e finisce in una riduzione ancora più estrema dei propri mezzi (esplosione finale della parola, o dell'oggetto pittorico. Il Cinema ha seguito lo stesso processo, accelerato dal precedente delle arti più antiche). L'isolamento di qualche parola sul bianco dominante di una pagina in Mallarmé, la fuga che mette in evidenza l'opera meteorica di Rimbaud, la folle diserzione di Arthur Cravan attraverso i continenti, o il risolversi del dadaismo nella partita a scacchi di Marcel Duchamp sono le tappe di una stessa negazione di cui oggi dobbiamo depositare il bilancio.

L'Estetica, come la Religione, potrà metterci molto tempo a decomporsi, ma le sopravvivenze non hanno alcun interesse. Dobbiamo semplicemente denunciare la speranza che potrebbe ancora essere riposta in queste soluzioni retrograde. È questo il senso della nostra manifestazione contro Chaplin dell'ottobre del 1952. L'Arte Moderna ha il presentimento di un al di là dell'estetica e lo esige, le sue variazioni formali ne annunciano la venuta. A questo proposito, l'importanza del Surrealismo consiste nel fatto di aver considerato la Poesia un semplice mezzo per attingere a una vita nascosta e più valida. Ma il mattino conserva poche tracce delle costruzioni oniriche incompiute. Gli anni passano borghesemente nell'attesa del «caso oggettivo» di passanti improbabili, di rivelazioni incerte.

Due generazioni non possono vivere della stessa scorta di illusioni. Il Lettrismo di Isou è stato una specie di Dadaismo in positivo. Propone una creazione illimitata di nuove arti attraverso meccanismi stabiliti. Nell'inflazione dei valori comunemente spiegati, queste discipline perdono anche l'ultimo barlume di interesse. Le arti si esauriscono nelle loro ricchezze residue, o continuano per ragioni di commercio. «Ogni giorno si creeranno forme nuove; non si farà più la fatica di provarle, di esplicitare la loro resistenza tramite opere valide... Ci si spingerà più lontano per scoprire altre fonti secolari che verranno abbandonate, a loro volta, nello stesso stato di virtualità inesplorata. Il mondo rigurgiterà di ricchezze estetiche di cui non saprà che cosa farsene» (Isou, Mémoires sur les forces futures des arts plastiques et sur leur mort, marzo 1951). Dopo il processo all'accademismo idealista, e l'esclusione dei suoi sostenitori, scrivevo: «Tutte le arti sono giochi volgari che non cambiano nulla» (Notice pour la Fédération française des ciné-clubs, novembre 1952). Il nostro disprezzo per l'Estetica non è una scelta. Al contrario, eravamo piuttosto dotati per amarla. Siamo arrivati alla fine, ecco tutto. (...)

Dentro una camera astratta

Lo Scenario ci colma e ci determina. Anche nello stato attuale abbastanza penoso delle costruzioni cittadine, esso è generalmente molto al di sopra degli atti che contiene, atti rinchiusi nelle linee imbecilli delle morali e di un'efficacia primaria. Bisogna giungere a uno spaesamento attraverso l'urbanesimo, a un urbanesimo non utilitario o più precisamente concepito in funzione di un altro uso. La costruzione di ambienti nuovi è la condizione fondamentale per altri atteggiamenti, altri modi di comprendere il mondo. Lo stesso desiderio segue il suo corso sotterraneo in più secoli di sforzi liberatori, dai castelli inaccessibili descritti da Sade fino alle allusioni dei surrealisti, a quelle case complicate, con lunghi corridoi bui, in cui avrebbero voluto abitare. Il fascino - nel senso più forte di questo termine - che continuano a esercitare i grandi castelli del passato, i villaggi circondati da palizzate dei bei tempi del Far West, le case inquietanti del porto di Londra - cantine comunicanti con il Tamigi - o i dedali dei templi indiani, non deve essere lasciato a una fiacca e occasionale rievocazione cinematografica, ma utilizzato in costruzioni nuove e concrete.

Il prestigio esercitato dai Ragazzi terribili su un'intera generazione deriva dal clima creato dalla costruzione inusitata di un luogo, e dalla decisione di viverci in maniera esclusiva: una camera astratta, una città cinese dai muri fatti di paraventi. «Una sola camera, isola deserta circondata di linoleum». Una frase dell'opera rivela chiaramente tutte le opportunità di avventura che possono essere contenute in una casa a seguito di un «errore» nei progetti classici dell'architettura: «Avevano notato una delle sue singolari virtù, e non la minore; la galleria andava alla deriva in tutti i sensi, come una nave ormeggiata a una sola ancora.

Quando ci si trovava in una qualsiasi altra stanza, diventava impossibile situarla e, allorché vi si penetrava, rendersi conto della sua posizione in rapporto alle altre stanze» La nuova architettura deve condizionare tutto: una nuova concezione dell'arredamento,dello spazio e della decorazione in ogni stanza;un nuovo utilizzo delle sensazioni termiche, degli odori, del silenzio e della stereofonia; una nuova immagine della Casa (scale, cantine, corridoi,aperture) che dovrà essere estesa alla nozione di complesso architettonico, unità più grande della casa attuale e che sarà l'unione di vari edifici - dall'esterno nettamente separati - contribuendo a creare un clima, o un contrasto tra vari climi. Utilizzando altre arti, a uno qualsiasi degli stadi del loro passato, come oggetti pratici di accompagnamento, l'architettura tornerà a essere quella sintesi delle arti che ha segnato le grandi epoche dell'Estetica. Tutti gli esempi già esistenti di questi complessi presentano un'architettura barocca: contro il genere «armoniosa presentazione delle forme» e contro il genere «massimo confort per tutti». (Come immagina i bisogni degli uomini Le Corbusier?)

L'Architettura in quanto arte esiste solo se evade dalla sua nozione utilitaristica di base: l'Habitat. È abbastanza automatico constatare che in questa disciplina, in cui tante opere sono state limitate da un'intenzione utilitaristica (buildings giganteschi per alloggiarvi più persone possibili o cattedrali per pregare), l'orientamento allo stesso tempo gratuito e influente di cui parlo è da qualche tempo annunciato dal meraviglioso palazzo ideale del Postino Cheval, certamente più importante del Partenone e di Notre Dame messi insieme; e dalle stupefacenti realizzazioni che permette la più avanzata tecnica dei materiali: muri ad aria compressa,tetti di vetro, eccetera. (...)

L'Urbanesimo, considerato come mezzo di conoscenza, annetterà tutti i campi minori che smetteranno da quel momento di interessarci in quanto tali. E utilizzerà allo stesso tempo l'ultimo stadio delle arti plastiche per decorare strade, piazze, terreni abbandonati, foreste improvvise - e gli esiti della poesia dismessa per nominarli (Viale Jack lo Squartatore, Quartiere Nobile e Tragico, Via dei Castelli di Luigi II di Baviera, Vicolo del Cane Andaluso, Palazzo di Gilles de Rais, Via Sbarrata, Cammino della Droga). Farà il miglior uso delle luci tramite le finestre, delle vie totalmente buie, dei fiumi dissimulati e dei labirinti aperti di notte.

Il problema dell'ozio

Il futuro è, se si vuole, nei Luna Park costruiti da grandi poeti. Per tornare al caso delle città esistenti, molti quartieri possono essere rapidamente sottratti al loro uso. A Parigi, l'Ile Saint Louis può essere conservata così com'è, ma facendo saltare i ponti e popolandola in tutto di una ventina di persone, nomadi tra gli appartamenti deserti. Ci sono anacronismi di lusso, oggi, che costano più cari. Una cosa ancora più rapida: utilizzare alcune sorprendenti insegne al neon come macello, aborto, ristorante pessimo. Perché mai si dovrebbe escludere il senso dell'umorismo? Va da sé che queste città si estenderanno con l'evoluzione della condizione attuale dell'Uomo, utilizzato e salariato.

Il Destino è Economico. La sorte degli uomini, i loro desideri, i loro «doveri» sono stati interamente condizionati da questioni di sussistenza. L'evoluzione macchinica e la moltiplicazione dei valori prodotti permetteranno nuove condizioni di comportamento e le reclamano fin da ora, quando il problema dell'ozio comincia a porsi con un'urgenza a tutti evidente. L'organizzazione dei divertimenti per una folla che è un po' meno assoggettata a un lavoro ininterrotto è già una necessità di Stato; anche quando queste persone si accontentano di divertimenti del tipo Parc des Princes per le loro domeniche sinistre.

Dopo qualche anno passato a non fare nulla nel senso comune del termine, potremo parlare del nostro atteggiamento sociale d'avanguardia, perché in una società ancora provvisoriamente fondata sulla produzione abbiamo voluto preoccuparci seriamente solo dei divertimenti. Persuasi che le sole questioni importanti del futuro riguarderanno il gioco via via che la disaffezione per i valori assoluti della morale e dei gesti crescerà, abbiamo giocato in questa attesa per le strade povere dei fatti permessi; nei boschetti di mattoni del quai Saint Bernard, di cui ricreiamo la foresta. Ma applicando a questi fatti nuove intenzioni di ricerca - un metodo il cui discorso non è ancora stato scritto - si potrà dedurne le leggi, vagamente intuite, delle sole costruzioni che in effetti ci importano: situazioni sconvolgenti di tutti gli istanti.

L'Internazionale Lettrista ha pubblicato nel febbraio del 1953 un volantino la cui aggressività disperata trovava giustificazione nell'ultima frase: «I rapporti umani devono avere a fondamento la passione, oppure il Terrore». Una passione che tuttavia è difficile trovare nelle nostre «frequentazioni» (...); noi vogliamo situarla nel rinnovamento costante del mondo dove sconosciuti si incontreranno ovunque, se ne andranno senza mai crederci, semplicemente tra il tragico e il meraviglioso delle loro passeggiate terrestri. (...) Sparsi nel secolo, si manifestano i segni di un nuovo comportamento. Gridano nel frastuono. A margine della Storia, di quelle bombe gettate dai piccoli nichilisti russi impiccati a quindici anni; o nel racconto chiuso dei Ragazzi terribili e del loro incesto incompiuto, o nel modo commovente e burlesco di vivere di qualche persona che ho conosciuto bene. Bisogna dare una descrizione completa di questi comportamenti e giungere fino alle loro regole. La pista di una vita gratuita è più volte emersa, e viaggiatori frettolosi l'hanno seguita senza più tornare indietro - come Jacques Vaché che scriveva: «Il mio obiettivo attuale è quello di portare una camicia rossa, un foulard...».

Traduzione di Monica Fiorini.



postilla

Perfettamente nel solco delle avanguardie del ‘900, anche questo testo coglie e anticipa al loro primo palesarsi alcune tendenze che, oggi, anche noi pecoroni vediamo mature ed evidenti, tanto evidenti da essere diventate vita quotidiana. Basta scorrere uno qualunque dei paragrafi per trovare immortalati i caratteri essenziali dei nostri ambienti commerciali, di intrattenimento, i territori-vetrina che ci scorrono costantemente davanti, direttamente o proiettati su qualche schermo reale (il finestrino dell’auto, della metropolitana) o catodico.

Nessuna sorpresa, visto che proprio lo stesso brodo di coltura delle avanguardie produce sia i percorsi individuali di resistenza alle nuove macchine dell’immaginario, sia quelli in grado di sfruttarlo con vari livelli e meccanismi di suggestione e dominio. Più interessante invece notare come nella fase più matura, almeno di consapevolezza, che stiamo attraversando oggi, in questo inizio di terzo millennio, inizino ad emergere più chiari i percorsi di resistenza diffusa alla trappola dell’immaginario etero diretto, di autogestione individuale dello spazio urbano reale e virtuale, in forme diverse da quelle della classica “riappropriazione” istituzionale, che però ne possono diventare un complemento.

Recentissimo esempio il conflitto, al tempo stesso giocato sul piano dell’immaginario più assoluto, e della concretezza istituzionale e ambientale, della Battaglia di Pinewood: il set cinematografico dentro/contro il territorio. Come recita qualunque locandina seria: “vedere per credere” (f.b.)

È possibile migliorare le nostre città? E renderle più competitive sul piano turistico e culturale? Sono domande su cui da anni, con le trasformazioni urbane del postfordismo, si concentrano le forze di sociologi e di esperti del cosiddetto city-marketing. Intanto, anche in Italia, come nel resto del mondo, qualcosa sta cambiando nel segno della riconversione. E i cittadini lo sanno, a giudicare da un’indagine coordinata da Ezio Marra dell’Università Bicocca di Milano con la collaborazione di altri atenei (Calabria, Torino, Piemonte Orientale). La ricerca verrà presentata in un convegno che si terrà oggi alla Bicocca e in cui confluiscono due sondaggi. Il primo, raccolto a Milano, Genova e Torino, si riassume in un’altra domanda: «Le piace vivere nella sua città?». Il secondo indaga sull’immagine dell’Italia da parte dei turisti francesi, tedeschi e britannici.

Soffermandosi sull’idea dell’Italia all’estero, non si può dire che resista lo stereotipo del Belpaese tutto sole, spiagge e mare se è vero che tedeschi, francesi e inglesi affermano di essere attratti ormai in gran parte dalle nostre città. Dunque, secondo gli studiosi è lì che bisogna puntare per un più efficace marketing turistico. Infatti, se si osservano quali sono i simboli associati ai singoli centri urbani non troviamo nulla che si discosti molto dai luoghi sacri tradizionali dell’arte e della cultura. Con qualche segnale incoraggiante che sa di novità: per esempio, a Genova ha fatto molto bene, fino a cambiarne la percezione anche all’estero, l’ideazione dell’Acquario in occasione delle Colombiadi (con un milione e centomila visitatori l’anno). E a Torino giova l'immagine di città del cinema, il cui Museo, all’interno della Mole, è la maggiore attrattiva per gli stranieri insieme con il Museo Egizio, specie dopo l’intervento di illuminazione artistica ad opera Dante Ferretti. Sono bastati pochi interventi mirati per raddoppiare le visite negli ultimi tempi.

Non altrettanto, come segnala Ezio Marra, si può dire di Milano, le cui potenzialità culturali si concentrano soprattutto sul Duomo (il 25 per cento dei turisti che sono arrivati nel capoluogo lombardo ricorda la Madonnina), ma non sul Cenacolo, i cui visitatori curiosamente non superano la metà di quelli (600 mila) che annualmente a Torino frequentano l’Egizio. Milano, però, a differenza delle altre città italiane, che godono essenzialmente delle attrazioni lasciate dal loro passato, ha una carta ben radicata nella contemporaneità commerciale. E se chiedete a cento stranieri che cosa evoca loro la città di Manzoni, 17 risponderanno lo shopping e 13 la moda. Il che in termini tecnici si definisce «riposizionamento».

In genere non sfiorisce la leggenda dell’Italia eden del cibo e del vino (da cui il 90 per cento dei forestieri sembra ampiamente appagato). Ma a questo proposito la domanda chiave, per lo straniero che già conosce le nostre città, è: ritornerebbe? E qui a volte sono dolori. Se 8 su dieci rispondono affermativamente per Venezia, Roma e Firenze, 7 per Milano e per Verona (le cui iniziative in ambito lirico o, ultimamente, lirico- pop sono fondamentali), per gli altri centri si scende tra le 5 e le 6 risposte positive. Ciò significa in tutta evidenza che gli altri non hanno gradito troppo. C’è poi una complicata tabella con ascisse e ordinate, definita tecnicamente «Matrice di similarità », che, adeguatamente interpretata (dallo stesso Marra), offre elementi interessanti: segnala, per esempio, che i tedeschi vorrebbero un’alleanza turistica Milano-Verona, mentre i francesi sarebbero più contenti se venisse loro offerto un pacchetto Milano-Torino.

E veniamo ai questionari rivolti agli autoctoni. Stando alle interviste realizzate dal gruppo di studio, emerge subito una consapevolezza impensabile solo una decina d’anni fa. Se prima i capoluoghi del Nord venivano definiti dai loro abitanti come centri esclusivamente industriali, oggi avanza la coscienza di vivere in città dalle forti potenzialità tecnologiche, artistiche e culturali. Lo spiega Chito Guala, professore di Sociologia a Torino: «I mega-eventi hanno rigenerato le città: le Colombiadi del ’92 e poi Genova Capitale europea della cultura nel 2004, ma soprattutto le Olimpiadi invernali a Torino nel 2006 hanno avuto un effetto determinante sull’immagine urbana. A Torino l’effetto è stato indubbiamente più duraturo, si pensi che in tre anni i biglietti venduti per l’accesso ai musei della zona centrale sono raddoppiati ». Non siamo al livello di Barcellona, su cui i Giochi Olimpici del ’92 hanno avuto risultati catartici. Ma qualcosa è successo se oggi oltre l’80 per cento dei torinesi e dei genovesi considera la propria città votata alla cultura e all’arte più che all’industria. «Succederà probabilmente anche a Milano con Expo 2015», auspica Guala. Ma su questo bisogna ancora lavorare: pochi all’estero sanno che Milano è destinata ad ospitare l’Expo, si va dal 3 per cento dei francesi al 10 per cento degli inglesi.

Vivibilità e attrattività future si giocheranno, sempre secondo i cittadini, su alcune iniziative-simbolo come la riqualificazione dell’acqua, un elemento su cui si investono molte speranze: basta vedere alla voce Navigli (Milano), sponde del Po (Torino), vecchio porto (Genova), che nove intervistati su dieci considerano luoghi-chiave di rilancio. E su percentuali di quasi unanime consenso si assestano le voci: musei, cultura locale, eventi e spettacoli. Insomma, se i cittadini dovessero scegliere su cosa puntare, si concentrerebbero a occhi chiusi sull'ambiente e sull'arte.

Se Milano è percepita da 6 abitanti su 10 come la città dei grandi eventi internazionali, è pochissimo apprezzata per la qualità della vita. Ma sette milanesi su dieci sono contenti di viverci, mentre solo due genovesi su dieci cambierebbero volentieri città, e quasi esclusivamente per motivi di lavoro. A smentire i cliché sulla sicurezza, arriva poi un’altra tabella, da cui si desume che solo il 20 per cento è preoccupato dalla criminalità: a Milano i problemi urbanistici più gravi sembrano essere, piuttosto, il traffico e l’inquinamento, più o meno come a Torino e a Genova.

Ma la percezione della propria città viene riassunta molto adeguatamente dalle coppie aggettivali che sono state sottoposte agli abitanti. Vediamo un po’. Milano per i milanesi e Torino per i torinesi sono città moderne. Vecchia è invece Genova per i genovesi. Nove milanesi su dieci ritengono di abitare nel caos e però in un luogo di ricchezza. A differenza dei torinesi che si considerano essenzialmente poveri. Milano è abbastanza organizzata, internazionale, soprattutto dinamica, poco solidale e un po’ triste oltre che pericolosa. I genovesi si percepiscono più allegri e solidali dei torinesi, ma quasi immobili. In compenso, l’allegria supera sempre la tristezza e la vivacità il grigiore. Chissà se all’estero sono d’accordo.

Spuntano come funghi e ridisegnano il territorio e le relazioni sociali, sono gli outlet e factory outlet center (Foc), per semplicità i grandi centri commerciali. Vere e proprie città dello shopping che invadono la campagna e relegano i paesi a periferie di borghi artificiali e immensi parcheggi.

In Italia l’apripista è stato nel 2000 il Foc di Serravalle Scrivia, in provincia di Alessandria. Con 180 negozi e tre milioni di visitatori all’anno è il più grande d’Europa, il primo aperto e gestito nel nostro paese da gruppo britannico McArthur Glen. In tutto sono 16 i megacentri che hanno visto la luce dal 2000 a oggi, entro la fine del 2008 saranno 24. E se oggi la superficie totale occupata da questi spazi è pari a 333.506 mq, le previsioni dicono che entro l’anno raddoppierà (Urb&Com, 2007).

Un mostro sta ad esempio per sorgere in Toscana, a Migliarino (Pi). Quelli che accompagnano gli imminenti lavori per la costruzione del “Parco Commerciale San Rossore”, nome che beffardamente evoca la vicina area protetta, sono numeri da capogiro: 222mila mq di superficie, senza considerare l’area dello svincolo autostradale di 33.600 mq, una superficie di vendita dedicata alla grande distribuzione di 31.500 mq (di cui 20mila concessi a Ikea), alla media di 8.500 mq e 1.500 dedicati alla piccola distribuzione. Il tutto per una superfici coperta di 48.800 mq e un bacino d’utenza di 1.200.000 persone.

Un centro enorme, se si considera che l’intero comune di Migliarino è pari a 35,37 kmq, abitati da poco più di 3.700 anime. “I 20mila visitatori medi giornalieri e i circa 200 mezzi pesanti per i rifornimenti merci previsti – denuncia il Movisati, movimento spontaneo di cittadini sorto per contrastare la nascita del parco commerciale – porteranno il paese al collasso”.

Costi ambientali

Dal punto di vista ambientale, il prezzo da pagare per la nascita di questi megacentri dello shopping è insostenibile. “Qualunque area vicina ai sistemi autostradali è ormai un patchwork sporco dove anche gli spazi non urbanizzati e impermeabilizzati sono comunque di bassissimo valore – sentenzia Fabrizio Bottini, urbanista e autore di I Nuovi Territori del Commercio (Alinea 2005) – Le acque si inquinano per il di lavaggio dei parcheggi e l’aria si riempie degli scarichi degli ingorghi. La nascita di questi centri consuma moltissimo suolo e impermeabilizza chilometri e chilometri quadrati di superficie”. Ne è un esempio il Foc di Noventa di Piave, di prossima realizzazione, che occuperà circa 16 ettari di terreno e, come tutte le opere superiori agli 8.000 mq, per essere attuato avrebbe bisogno della Via e della Vas. “In realtà costruendo a stralci di 4.500 mq per volta, si porta avanti una frode urbanistica legalizzata”, spiega Irene Rui, sociologa dell’ambiente e del lavoro. Come se non bastasse la nascita di questi centri porta anche un incremento vertiginoso degli spostamenti carrabili: scompaiono i “negozi di vicinato” e i consumatori sono costretti a utilizzare l’automobile.

Lavoro al centro

“Visto che nelle nostre desolate periferie sono spesso le attività commerciali di vicinato a svolgere una funzione di legante sociale, non c’è dubbio che in futuro aumenteranno i fenomeni di marginalità urbana – spiega l’ingegnere urbanista Paolo Berdini – Per ogni centro commerciale che apre sono circa 70 i negozi tradizionali costretti a chiudere. Le conseguenze urbane e sociali dell’apertura delle grandi superfici di vendita, a Roma in sette anni ne sono state aperte 28, saranno quelle di una rarefazione del tessuto commerciale, in particolare quello periferico”.

In molte regioni del centro-nord, secondo Luca Tamini, docente di Progettazione urbanistica di strutture commerciali al Politecnico di Milano, “si assiste a un’avanzata saturazione del mercato dei grandi insediamenti commerciali che, acquisendo gli elementi qualitativi presenti nella riforma del commercio Bersani del marzo 1998, ha incentivato politiche di refurbishment, cioè messa a nuovo, e progetti di riconversione di strutture esistenti con interventi di integrazione funzionale e di cooperazione con la rete del commercio locale. Il Sud Italia e le Isole – continua Tamini – rappresentano invece ancora un territorio in via di consolidamento. Sono previsti circa 2,3 milioni di mq di commercio nei prossimi anni, dove poter sperimentare modelli di sviluppo commerciale maggiormente compatibili con le diverse dinamiche socioeconomiche”.

C’è poi il caso degli outlet che nascono a pochi chilometri o poche centinaia di metri l’uno dall’altro. “Questi centri, quando vogliono e possono, si fanno concorrenza esattamente come due panettieri nella medesima via – riprende Bottini – non a caso se si confrontano i potenziali bacini d’utenza, esistono moltissime sovrapposizioni, e non di poco conto”.

Chi difende queste strutture dice che un nuovo centro commerciale porta nuovi posti di lavoro: è vero. Ma è altrettanto vero che la chiusura dei posti vendita tradizionali i posti di lavoro li toglie. Un esempio? Il nuovo outlet di Noventa di Piave (Ve) occuperà circa 500 persone, a fronte di 2.500 posti in meno causati dalla chiusura dei punti vendita vicini, secondo una stima del presidente della Federmoda provinciale Giannino Gabriel.

Super Luoghi

Da non luoghi a super luoghi. Stazioni ferroviarie, aeroporti, ma soprattutto centri commerciali e outlet, hanno ormai perso le caratteristiche di contenitori anonimi e senza identità descritte dal sociologo Marc Augé all’inizio degli anni Novanta, che definì questi spazi “non luoghi”. Così l’outlet di Serravalle oggi si propone come “un centro storico del tipico borgo ligure”; l’outlet di Barberino del Mugello è progettato come “un borgo rinascimentale”; quello di Castel Romano propone ai suoi visitatori uno shopping “passeggiando fra le vie dell’antca Roma”; il nuovo outlet in costruzione a Noventa di Piave prevede addirittura una “finta Venezia” e l’intero centro nascerà come “villaggio palladiano” con barchesse, palazzi in stile palladiano, veneziano e trevigiano, ampi portici e affreschi alle pareti.

“Non sono più semplici contenitori, ma prodotti essi stessi”, ha spiegato qualche tempo fa il professor Giandomenico Amendola, docente di Sociologia urbana all’università di Firenze. “Sono l’emblema della città che si disperde nel territorio – spiega Amendola – il centro che di solito manca in essa, vorrebbero rappresentare quello che erano le piazze italiane e infatti le imitano”.

E così sorgono centri commerciali e factory outlet curati nei minimi particolari, dalla fontana in stile neoclassico alla piazzetta attorniata da panchine sulle quali durante il week-end trascorrono felicemente le proprie giornate adolescenti, coppie e anziani.

“La cura del progetto spaziale degli outlet – riprende Bottini – ameno sul versante microurbanistico è estrema. Gli operatori gestiscono quantità enormi di risorse economiche, ed è giusto e doveroso che queste risorse si traducano nel costruire città, overo spazi anche e soprattutto pubblici che si sommano a quelli della tradizione. Così ci si allontana – continua Bottini – dall’idea di scatola con attorno un parcheggio, uno svincolo, e intorno l’aperta campagna”.

Se basta un trucco

Insomma, un po’ di maquillage e al peggio non c’è fine. Ma è possibile fermare la continua occupazione di nuovi spazi? “No – risponde secco l’urbanista Fabrizio Bottini – se si accetta come ineluttabile destino il modello insediativi che per comodità, interesse o pura cultura di impresa gli operatori continuano a proporci come immodificabile. Sì, se affrontiamo il tema dell’insediamento diffuso nel suo insieme”.

Riguardo alla qualità dei progetti, c’è una nota di tiepido ottimismo. “Negli ultimi 5-6 anni si è alzato il livello qualitativo nella realizzazione architettonica e urbanistica delle nuove grandi strutture di vendita – riprende Luca Tamini – Questo per effetto dell’orientamento delle politiche pubbliche di governo degli insediamenti commerciali, focalizzato sulla riduzione del consumo di suolo, sulla compatibilità ambientale e su una corretta accessibilità viabilistica. E anceh per via del carattere integrato e diversificato dei nuovi format commerciali”.

Qualche esempio? “Il progetto Portello a Milano, il Vulcano Buono a Nola-Napoli, il mercato di Santa Caterina a Barcellona, che oltre ad essere stati disegnati da attenti progettisti come Studio Valle o Renzo Piano building workshop, hanno contribuito a superare la monofunzionalità insediativi dei luoghi del commercio di prima e seconda generazione costruendo, spesso, relazioni virtuose con il contesto urbano e territoriale”.

Quello che è certo è che “piccolo è bello” non esiste più.

“Ma la domanda c’è” – parla il capo del Consiglio nazionale centri commerciali

Il presidente del consiglio nazionale dei centri commerciali, Pietro Malaspina, non ha dubbi: “I nuovi spazi di vendita sono richiesti dagli operatori”. Il fenomeno, insomma, non sembra andare incontro a crisi. Anche se urge una buona pianificazione del territorio.

Ma sono davvero necessarie così tante strutture?

Ogni centro commerciale ha un proprio “posizionamento” di mercato: per la gamma merceologica offerta, per il segmento di reddito o per lo stile di vita dei frequentatori cui si rivolge. La distribuzione non segue una logica spaziale, ma è dettata dalla presenza di un mercato. Aree metropolitane dense o forti addensamenti di piccoli centri urbani richiamano evidentemente maggiore attenzione da parte degli operatori.

Come mai si trovano grandi centri a pochi chilometri di distanza?

Ci sono situazioni irrazionali, di densità o rarefazione: la normativa per l’autorizzazione alla loro realizzazione non è mai stata completamente inquadrata in un’ottica di governo complessivo del territorio. Spesso sono stati realizzati dei centri commerciali dove era possibile farlo e non nelle posizioni che, idealmente, sarebbero state ottimali. Ma investimenti privati della dimensione di quelli necessari per realizzare un centro commerciale sono sempre decisi in base ad analisi accurate, che partono dal mercato potenziale e dal livello di servizio commerciale esistenti.

Quindi ne verranno costruiti altri?

In Italia i centri commerciai hanno livelli di frequentazione e di vendite soddisfacenti, quasi sempre superiori a quelli di altri mercati europei. I risultati economici delle operazioni di sviluppo dei nuovi centri sono buoni, come è dimostrato dall’interesse degli investitori istituzionali all’acquisto dei centri esistenti e in progetto. C’è un’evidente e documentata domanda: in un’economia di mercato una domanda genera sempre un’offerta. Si tratta quindi non di bloccare il mercato, caso mai di governarlo, inquadrando lo sviluppo di una formula commerciale che risulta nei fatti gradita, in una più ampia visione di governo del territorio”.

Alternativa a misura d’uomo - Nascono i “centri commerciali naturali”: reti organizzate di botteghe e negozi per rilanciare il commercio

Rilanciare l’economia del territorio mettendo in rete esercizi commerciali già esistenti, dando loro una regia unitaria nella promozione e nell’approvvigionamento delle merci. È la ricetta dei centri commerciali naturali, un’esperienza nuova che sta dando già i suoi buoni frutti, da Firenze a Torino, dalla Val d’Aosta alle Marche, sono ormai molti i centri commerciali naturali che operano oggi in maniera ottimale, mettendo in piedi vere e proprie campagne di fidelizzazione o limitandosi a manifestazioni a carattere di spot, giusto per attirare un maggior numero di consumatori.

In Toscana in particolare i centri commerciali naturali della provincia di Lucca stanno riscuotendo un certo successo: un’iniziativa nata per impulso di Ascom-Confcommercio e del Consorzio centro commerciale Città di Lucca e realizzato grazie al contributo della Regione Toscana. “La regione ha fortemente creduto nel progetto finanziandone sia lo start up che le successive azioni di rafforzamento e sviluppo – spiega Sara Giovannini della Confcommercio – La nostra realtà in particolare è poi riuscita a crescere, seppur con molte difficoltà, grazie soprattutto al sostegno di tutti gli enti, pubblici e privati, coinvolti: Provincia, Camera di Commercio, i Comuni interessati e la fondazioni bancarie”.

In Sardegna i primi centri commerciali naturali finanziati dalla Regione cominceranno invece a operare tra qualche mese. “Il loro successo – ha affermato il segretario regionale della Confesercenti, Carlo Abis – è una nuova stagione di rilancio per l’economia di Cagliari e potrà avvenire se ci sarà un modo nuovo di collaborare per il bene comune”. L’obiettivo è quello di dare un volto umano al commercio riscoprendo quello tradizionale all’interno dei centri urbani, rivalutando vie, piazze, gallerie, centri storici e quartieri in cui spontaneamente e storicamente si sono addensati negozi, botteghe, bar e ristoranti.

I vantaggi sono molteplici. I centri commerciali naturali, forme d’aggregazione spontanee e provviste di stato giuridico proprio, hanno una regia unitaria che coordina le iniziative correlate al commercio e risanano alcune inefficienze tipiche del commercio tradizionale, come la scarsa incisività della comunicazione e promozione. Ma soprattutto restituiscono ai consumatori il piacere dello shopping in un ambiente familiare e non artificiale, spesso anche all’aria aperta.

Da cittadini a clienti, di Sandro Polci (presidenza Comitato scientifico Legambiente)

Gli iperluoghi trionfano, punteggiando sempre più le aree periferiche delle città o, baricentricamente, estese aree semirurali. Sono le nuove centralità del consumo. Sono definiti democratici perché alla portata di molti, ma è più giusto parlare di “target commerciale esteso” perché la democrazia è altra cosa e riguarda valori che nella piazza, luogo per eccellenza della centralità urbana, trovano il gioco, lo “struscio”, il monumento, il municipio, il comizio, il giardino, la chiesa a non la sola funzione mercantile.

Meglio non giocarla sul piano economico. Se la regola è “dove c’è domanda si crea l’offerta” non c’è partita fra le multinazionali della grande distribuzione e una bottega di due vetrine. È invece indispensabile una ferrea programmazione, che contemperi esigenze e tipologie non essendo i mall commerciali integrativi ma quasi sempre completamente sostitutivi del tessuto mercantile esistente. E questo non per nostalgia ma perché il commercio urbano di piccolo taglio garantisce diversità, imprenditorialità, socialità e sicurezza.

La realizzazione degli iperluoghi, inoltre, impatta violentemente sul paesaggio ma non lo fa così direttamente sulla quotidianità e l’economia visiva delle aree urbane consolidate. Quindi paradossalmente danno meno fastidio. Come esiste la sindrome nimby esiste quella yiop, perdonate l’invenzione: “ yes in other place”, fate pure in altri luoghi che non tocchino la mia “caverna”, che va dal giardino al plasmaschermo. Il tram a Firenze che significa meno auto, meno inquinamento e meno costi fa inorridire i difensori dell’italica eccellenza artistica, mentre “Porta di Roma” crea il più grande mall commerciale d’Europa soltanto fra borbottii e malumori.

Gli operluoghi creano un’inarrestabile spinta centrifuga. Ne consegue una forte crescita degli spostamenti con il mezzo privato, e l’inquinamento continua a salire. Ogni anno percorriamo in automobile 528 miliardi di km producendo 79,2 milioni di tonnellate di CO2. Nel mondo? In Europa? No, in Italia. Ma dove andamo? Dei nostri 37 chilometri percorsi ogni giorno la maggioranza servono per divertirci. Tendiamo a disperderci sul territorio, consumandolo. Lo sprawl (dispersione urbanistica), la mancanza di infrastrutture, l’insufficienza di metropolitane, tram e ferrovie, uniti alla frenesia degli spostamenti in auto, ci porteranno alla felicità? Quando tutti si accentrano il problema è razionalizzare, se tutti si disperdono il problema diviene però enorme. Nessuno vuole tornare alla città multitask. Ma se rivisitato, il modello pedonale, relazionale, ergonomico non è poi così malvagio.

Se con le “tasse per costruire” si paga la pubblica illuminazione o l’asfalto delle strade, si incita il municipio a fare cassa con il rilascio delle concessioni edilizie. Una pratica da contrastare.

E poi basta con il consumo di paesaggio. Ma non solo quello collinare toscano, anche quello perimetropolitano, fruito da milioni di persone che lentamente si contaminano con la bruttezza come con le polveri sottili, Inoltre le nostre città sono quasi sempre centri d’arte da tutelare.

Guardiamo il meglio: in Germania e Gran Bretagna esistono leggi “no sprawl” che impongono il saldo zero (con debite eccezioni) nell’uso del territorio destinato alle costruzioni. Altrimenti trasferiamo qualche residua funzione pubblica all’interno degli iperluoghi e rottamiamo le città storiche, scrigni nostalgici per sola arte e pedoni.

Nota: Sandro Polci evidentemente non lo sa, e non è un frequentatore abituale del sito Mall, ma la sua “provocazione” finale sul trasferimento di funzioni pubbliche negli spazi del commercio non è affatto tale. Nel contesto nordamericano il fatto è diventato talmente patologico che nelle indicazioni anche manualistiche della “smart growth” (e dunque nei documenti guida urbanistici delle amministrazioni che la adottano) sono comprese prescrizioni alternative. In Italia, al contrario, in alcuni casi specie di outlet village viene presentato come un successo, dall’amministrazione locale, la presenza di propri uffici e spazi nei passeggi commerciali. Ne dobbiamo ancora fare, insomma, di strada … (f.b.) [scaricabile di seguito l'impaginato dell'articolo con le immagini]

La mafia è arrivata anche nei grandi centri commerciali della regione. Dopo la droga, l’usura, la prostituzione, il controllo del voto, le infiltrazioni negli appalti (uno su tutti quello per l’alta velocità Roma-Napoli),nelle attività economiche del porto di Civitavecchia, nel settore alberghiero e nel mercato ortofrutticolo di Fondi, la criminalità organizzata sta ora puntando la sua attenzione e i suoi capitali sulla distribuzione commerciale. È questo uno dei punti salienti del primo «Rapporto sulle presenze della criminalità organizzata a Roma e nel Lazio» presentato ieri dal presidente della Regione Marrazzo al Forum Pubblica Amministrazione in corso in questi giorni alla Nuova Fiera di Roma.

«La vera novità di queste migrazioni di capitali - si legge nella relazione - sta nel fatto che non si tratterebbe di investimenti a pioggia, ma di investimenti finalizzati - è il caso in particolare di uno o due clan della camorra - a creare reti commerciali, a condizionare settori, a stabilire prezzi, a ricollocare non solo capitali ma anche refurtiva. Questa preoccupante tendenza sta via via emergendo da indagini o segmenti di inchieste che abbiamo avuto modo di osservare e che ci permette di notare la ricostruzione di una vera e propria invasione - soprattutto nel settore dei grandi centri commerciali della regione -di sigle societarie provenienti tutte da aree geografiche omogenee per una migrazione che non può in nessun caso essere casuale».

Ma dal rapporto emerge anche una ramificazione e una invadenza delle organizzazioni mafiose che conta tra le 60 e le 70 cosche legate a ‘ndrangheta, camorra, cosa nostra e sacra corona unita. A queste sono da aggiungersi le organizzazioni locali (come la famiglia Nicoletti da un lato e dall'altro il network criminale rappresentato dalla galassia familiare dei Casamonica - Di Silvio) e quelle straniere di matrice cinese, rumena e nigeriana.

Un puzzle di attività illecite che fa domandare all’Osservatorio presieduto da Enzo Ciconte: «Il Lazio è solo infiltrato dalle formazioni criminali provenienti dalle regioni di origine delle criminalità mafiosa tradizionale o è stato già in parte occupato?».

Un allarmante quesito che fa lanciare a Marrazzo l’appello al ministro dell’Interno Maroni e al sindaco Alemanno: «Nessuno faccia finta che nel Lazio ci sono solo i problemi della microcriminalità: c'è anche quello della criminalità organizzata. Noi come Regione daremo tutte le risorse per assicurare la lotta alla criminalità e alla illegalità diffusa,ma che nessuno faccia finta che non ci sono altri problemi». Appello a cui per primi rispondono i consiglieri regionali Laurelli (Pd), Fontana (Verdi) e Robilotta (Sr) che chiedono una riunione straordinaria della Pisana sul tema criminalità organizzata. A contribuire però alla scarsa emersione delle ramificazioni mafiose contribuisce anche la relativa “stabilità” dell’attività criminale. Lo spiega approfonditamente il Rapporto: «Nonostante la dimensione della piazza e degli affari illegali non ci sono mattanze vere e proprie, al massimo operazioni chirurgiche, non solo perché non va suscitato allarme, ma anche perché vengono sostanzialmente rispettati precisi accordi di spartizione territoriale ». Ma il “governo” di realtà così complesse fa pensare all'esistenza «di una sorta di organismo che svolge non solo il ruolo di "camera di composizione" dei conflitti ma di vero e proprio regolatore degli interessi, degli affari e delle presenze, garantendo l'immutabilità della condizione di Roma "città aperta a tutte le mafie" che è la prima condizione perché avvengano e siano garantiti in sicurezza lucrosi guadagni per tutti» conclude la relazione.

1. Speculazioni. Sorgerà a Belpasso il centro commerciale più grande della Sicilia. Con un paio di deroghe al Prg

Catania. Volere è potere. Far sorgere un insediamento industriale grande circa 650mila metri quadrati in un’area a destinazione agricola potrebbe sembrare impossibile, soprattutto quando si parla di una cittadina che ha già due zone destinate allo sviluppo: la prima è quella dell’Asi, la seconda è quella del Piano regolatore. I cittadini non ne sono a conoscenza ed il caso, nel silenzio della grande stampa, lo segue solo un magazine guidato da giovani giornalisti: “Sciara”.

L’ombra della speculazione. Chi considera il centro commerciale Etnapolis come il più esteso della Sicilia, non ha fatto ancora i conti col nuovo centro logistico di Belpasso che sarà grande almeno il doppio. Si parla di 65 ettari sui quali non è possibile dire quanto cemento verrà armato tra uffici, capannoni e strutture che stando ai progetti ricordano molto quelle tipiche dei grandi insediamenti produttivi. Ma qui si parla di logistica, almeno sulla carta, almeno per adesso, ed è chiaro che i numerosi terreni acquistati come agricoli ad un certo prezzo dopo un passaggio in consiglio comunale valgono oro. Per un fatto semplicissimo. Stando al Prg vigente nessuno poteva pensare ad una loro rivalutazione.

La location. È strategica. La posizione del nuovo insediamento produttivo sembra non essere casuale. Da un lato ci sono lo svincolo autostradale della Catania-Palermo e la stazione ferroviaria di Motta S. Anastasia. Dall’altro sono presenti una azienda che produce prefabbricati per l’edilizia e qualche deposito del gruppo Ard Discount. Poi c’è il Simeto che lambisce gran parte dei 65 ettari in questione di cui 20 edificandi, con un gomito che regala una bellezza unica al paesaggio attuale fatto di aranceti a perdita d’occhio. L’arrivo delle ruspe è previsto entro pochi mesi.

L’iter. Nel novembre 2006 la General Costruzioni srl amministrata da Domenico Santonocito (sede legale Tremestieri Etneo) e la Gec amministrata da Salvatore Leotta (sede legale a Catania) presentano un progetto attraverso lo Sportello unico per le attività produttive guidato da Sebastiano Leonardi, dirigente del settore Urbanistica del comune di Belpasso. Pare che la società incaricata della progettazione del centro cercasse un’area di 61 ettari per l’insediamento produttivo. Ma questa non esisteva e non rientrava nelle prerogative del Prg all’interno di una cittadina di 24mila anime. È intervenuto così l’art. 5 del Dpr. 447/98 modificato dal Dpr 440/2000 che definisce, grazie allo Sportello unico, le modalità per le approvazioni in genere in materia di attività produttive. L’art. 5 prevede che, ove l’imprenditore proponga un insediamento in una localizzazione che non ha la compatibilità e la conformità con il Prg, l’amministrazione comunale, dopo averlo rigettato e valutate tutta una serie di indicazioni fornite dalla normativa, può convocare, su richiesta dell’azienda proponente, una conferenza di servizi. La normativa dice che, trascorsi i termini di legge, la conferenza di servizi approva favorevolmente l’iniziativa imprenditoriale. Per quanto riguarda la variante, la procedura è quella classica: pubblicità sulla Gazzetta Ufficiale e proposta di tutto il pacchetto al consiglio comunale, il quale ha 60 giorni di tempo per decidere in merito, adottando o meno la variante urbanistica. Quello che viene presentato di per sé è già un progetto edilizio esecutivo, con tanto di valutazione ambientale fatta dalla Regione. Il resto lo hanno fatto i dodici pareri favorevoli dopo che il 16 febbraio e il 24 settembre 2007 era stata riunita la conferenza dei servizi. Le società Gc e Sgc vengono inglobate in un’altra società, la Parco Mediterraneo srl che contemporaneamente diventa proprietaria di tutta l’area. A fine marzo del 2008 il consiglio comunale approva in nottata tutto il progetto con undici voti favorevoli, sei contrari e un astenuto.

Industrializzazione punto e basta. I territori situati a sud di Belpasso sono noti per le produzioni agrumicole. A forza di varianti e di insediamenti industriali più o meno controllati da qualche anno la classe politica ha scelto quello che deve essere il futuro di questa cittadina e ha scelto anche in quale maniera deve concretizzarsi questo futuro in assoluto disordine. Non c’è regola o programmazione urbanistica che tenga. Il discorso vale per l’insediamento di cui si parla ma anche per i numerosi capannoni industriali che continuano a sorgere sui terreni agricoli dapprima come strutture che dovrebbero ospitare attività connesse con la lavorazione della terra, poi, una volta realizzati, si preparano ad ospitare qualunque tipo di impresa. Un futuro di cementificazione che forse fa rima con speculazione, un futuro delineato nel chiuso delle stanze del palazzo municipale, mentre la cittadinanza dorme sonni tranquilli.

2. Enna. L’outlet targato Ciancio e Virlinzi

Enna. Metti Vincenzo Viola a capo di una cordata della quale fanno parte l’imprenditore Ennio Virlinzi e l’editore Mario Ciancio oltre che il costruttore sardo Gualtiero Cualbu e il torinese Riccardo Garosci, europarlamentare ed ex presidente della Federcom. Metti un paesino in provincia di Enna poco distante dall’unica arteria autostradale esistente, un progetto firmato da Guido Spadolini (lo stesso del primo outlet italiano a Serravalle Scrivia), ed un’area di 31 ettari sulla quale è concessa “carta bianca” dalla classe politica. Il gioco è fatto, potere è volere. Nasce così un’intera città destinata allo shopping fatta di strade, piazze, bar, ristoranti e alberghi di lusso, ma anche negozi di tutte le dimensioni e per i più tradizionalisti ci sarà anche un centro commerciale di 6.700 metri quadrati. Tutto questo ad Enna, cuore della Sicilia, città più povera d’Italia, dove però gli imprenditori in questione ritengono di poter pescare su un bacino che supera i tre milioni di abitanti.

Quando i poteri forti chiamano arrivano subito autorizzazioni e pareri favorevoli, ma anche infrastrutture più o meno grandi, ma sicuramente rilevanti, come la corsia di immissione e la rotatoria situate ad ovest dell’outlet sulla Sp 75. 32.000 metri quadrati coperti di cui 17.500 corrispondono alla superficie netta dei moduli in vendita ai quali si aggiungono le superfici dell’albergo di lusso e dell’ipermercato. 220 posti auto, autorizzazione rilasciata dalla Regione nel febbraio 2008. Consegna in 18 mesi, chiavi in mano. Altro che burocrazia e tempi lunghi.

Nota: va sottolineato, tra l’altro, il sostanziale silenzio della stampa mainstream, locale e non, su un tema così importante. La cosa si deve anche secondo molti osservatori al fatto che spesso gli interessi di chi possiede i mezzi di informazione coincidono con quelli che inducono certe trasformazioni territoriali, in Sicilia come altrove.

Partinico, 14 marzo 2008 – I posti di lavori promessi o prospettati per l’apertura di grandi centri commerciali in Italia sono sempre inferiori a quelli creati realmente. E’ una delle risultanze di uno studio realizzato dal blog Libera Mente (www.partinico.info) incrociando i dati del territorio e di altre esperienze italiane per capire quale può essere l’impatto sull’economia locale di un progetto della società Policentro Daunia srl di Agrate Brianza da realizzare a Partinico e che viene annunciato come uno dei più grandi d’Europa.

Oltre al bilancio tra posti creati e persi, dall’analisi costi-benefici e dai dati relativi ad altri centri commerciali aperti in Lombardia (province di Bergamo, Sondrio, Pavia, Cremona, Milano, Brescia), Puglia (Molfetta), Lazio (Valmontone) e Sardegna (Sestu, Cagliari) è emerso che: una buona parte dei lavoratori non vengono presi dal territorio dell’insediamento perché le aziende portano con sé personale specializzato di fiducia; spesso si segnalano alti livelli di precariato (soprattutto al sud) fra gli addetti degli outlet; il centro storico della città si svuota e si spostano le attività aggregative e di consumo verso l’outlet; l’impatto sulla viabilità locale è forte (+20-25% traffico, aumento scarichi auto in atmosfera); aumenta la pressione antropica nell’area dell’insediamento (rifiuti, consumi idrici, scarichi civili, ecc.).

L’analisi (scaricabile di seguito) ha registrato anche ricadute positive di questi insediamenti: il generale aumento dei valori immobiliari urbani e dei valori fondiari di terreni vicini all’outlet; la necessità di aumentare la capacità ricettiva; l’aumento del gettito fiscale per il comune dove è insediata la struttura.

Nel caso di Partinico, dove si discute e si polemizza dal 2000 su questo progetto, a fronte dei 2000 nuovi posti di lavoro più 2400 legati all’indotto prospettati dalla società brianzola l’analisi di partinico.info, su dati e statistiche ufficiali trattati dall’economista Giuseppe Nobile (responsabile del servizio statistica della Regione Sicilia), hanno registrato, invece, una media ottimistica di 393 nuovi occupati, indotto incluso.

Postilla

L’aspetto positivo, anche indipendentemente dal merito, dello studio allegato, è quello di affrontare in modo innovativo il tema della radicale trasformazione socioeconomica e territoriale indotta dalla grande distribuzione. Ovvero, nell’evitare l’abituale (ahimè) contrapposizione fra conservatorismo a oltranza e innovazione ad ogni costo, così come di norma viene proposta da stampa e comunicazione in genere: da un lato società e ambiente “locale”, dall’altro la new wave globalizzante rappresentata dai nuovi spazi della post-modernità.

Le cose non sono naturalmente mai così semplici, perché come si intuisce ogni trasformazione comporta dei costi, e ad esempio quelli per l’ambiente e il territorio sono irreversibili, hanno delle conseguenze anche sociali ed economiche di medio periodo, e via dicendo.

Ben venga, anche, questo modo innovativo e “di base” di approccio ai problemi, soprattutto per il contesto dell’Italia meridionale, sottoposto a fortissime pressioni insediative commerciali e a fronte di una debolezza culturale e istituzionale che rischia di ripetere, con impatti altrettanto devastanti, quanto già avvenuto nei casi delle opere di modernizzazione come strade, grandi impianti, complessi industriali ecc. Con la speranza di vederne ancora molti, e soprattutto di veder affiancarsi e convergere altri soggetti, come il mondo accademico e della ricerca istituzionale, o quello associativo: sia dal punto di vista della qualità, che dell’approccio, che della sua visibilità pubblica. E per un confronto, si vedano ad esempio i vari studi sugli effetti della WalMart proposti su eddyburg_Mall (f.b.)

Nel vasto altopiano vuoto della sociologia che si specializza sempre più nei dettagli e sembra aver perduto uno sguardo d’insieme (un fenomeno altrettanto evidente negli Stati Uniti come in Italia) sembra toccare ai giornalisti il compito di dare notizie sul paesaggio cambiato.

Outlet Italia. Viaggio nel paese in svendita, il nuovo libro di Aldo Cazzullo (Rizzoli, pp. 289, euro 16), è nato dal doppio sguardo di un giornalista colto che sa dedicarsi bene a un grande evento o a un minuto dettaglio, specialmente quando l’evento o il dettaglio hanno a che fare con la vita politica del momento. Ma continua a guardare intorno, nel paesaggio italiano e a vedere l’insieme. Quell’insieme lo intriga perché Cazzullo nota cambiamenti clamorosi.

Vede nascere in questo Paese, da un capo all’altro della penisola, una nuova religione. Vede un immenso pellegrinaggio verso e attraverso megacattedrali, si rende conto che, come in tutti i culti, ciascuno è da solo e ciascuno è raggiunto da solo dai messaggi del culto, anche se in apparenza la folla dei pellegrinaggi appare composta di orde (i più giovani) e da intere famiglie, con vecchi al seguito. Finora soltanto un narratore - Niccolò Ammaniti - aveva dedicato pagine che sono un vero e proprio documento, una sorta di film verità, alla vita-pellegrinaggio negli outlet italiani.

Nel romanzo Ti prendo e ti porto via prima, scortati e confortati anche da materiale documentario come Bowling at Columbine (il primo successo internazionale Di Michael Moore) avevamo pensato agli outlet come a immense stazioni di conforto nel mezzo delle praterie americane, ovvero in un mondo senza città, senza piazze, senza luoghi destinati nei secoli all’incontro in pubblico.

Cazzullo, con la sua dettagliata Esplorazione del fenomeno«outlet» in un territorio percorso e ripercorso dalla storia, fittamente popolato di piazze e di chiese, lungo catene quasi ininterrotte di piccole città con tante e profonde radici locali di tradizione e persino codici di comportamento sempre osservati, sempre rimbalzati tra le generazioni, dimostra al lettore che sciami di astronavi «outlet» si sono posate dovunque in Italia, larghi, solidi, chiusi, estranei alla storia, impermeabili (indifferenti) a qualunque cultura perché portano una cultura propria e diventa capace di travolgere, o meglio di cancellare tutto il prima.

Uno strano futuro è già cominciato. Ma, prima di tutto, che cosa è un outlet, che cosa ci fa in Italia, e perché è importante parlarne? Tecnicamente la parola outlet - che si potrebbe tradurre «fuori» o «altrove» - è diventata consueta negli Stati Uniti per indicare una combinazione virtuosa tra costo del terreno e dell’edificio,dislocazione lontana e inizialmente senza valore, del luogo in cui sorge l’emporio, la vastità della costruzione che consente, a costi bassi, di ospitare un numero altissimo di punti di vendita - o boutique - la disponibilità di parcheggi quasi senza limiti, e in molti casi il funzionamento di «navette» che facilitano l’accesso a giovanissimi e anziani, producendo una inedita, sconfinata potenzialità quanto al numero di visitatori, dunque di acquirenti.

Tutto è nato da una fuga delle imprese commerciali dalle città, dai costi di nuovi insediamenti metropolitani, sempre più inaccessibili, dalla ricerca di ampi e diversificati luoghi di vendita. L’origine degli outlet è dunque una ribellione tipicamente americana a situazioni apparentemente immutabili.

Ogni area urbana americana aveva da decenni le sue zone di vendita tipo supermercato, ipermercato e «department store» (grandi magazzini) definitivamente insediati, definitivamente al riparo da sfide e concorrenze nello stesso ambito urbano. Chi ha seguito il fenomeno dalla nascita di questi centri di megavendite ricorda che il primo «outlet» della vita commerciale americana - dunque del mondo - è stato il «Disney World» di Orlando, in Florida, una sgargiante, luminosa città del futuro costruita su terreni paludosi rifiutati, nonostante la rimozione di ogni limite o regola perle costruzioni, da qualunque acquirente (quel terreno non poteva avere neppure una destinazione agricola) e prescelta per il vasto progetto della Disney a causa della irrilevanza del costo del terreno e della offerta dello Stato della Florida di provvedere gratuitamente a tutti i collegamenti delle nuove strutture con le reti necessarie. «Disney World » di Orlando è stata una scossa per due settori chiave della economia americana: costruzioni e commercio. La rivelazione ha rovesciato il celebre detto del mondo immobiliare americano secondo cui i tre requisiti indispensabili di una costruzione di valore sono «location, location, location».

La rivelazione è stata: la location (il luogo) non conta più. Non solo. Ma la lontananza isolata e selvaggia e decisamente fuori mano diventava una attrazione in più, anzi l’attrazione principale: andare altrove, una sorta di avventuroso «out of the borders», fuori dai confini, di cui parlavano tante canzoni americane.

«L’altrove» che ha consacrato il successo degli outlet americani interpretati come una sorta di «gita a Chiasso»si è rapidamente trapiantato nel paesaggio italiano così profondamente diverso, dove un piccolo centro storico e con chiesa d’autore, mura romane e ruderi del castello, è a poca distanza da qualche intatto capolavoro della storia.

Tutto ciò dimostra che il viaggio di esplorazione di Aldo Cazzullo nella vita a avventure degli outlet italiani è una impresa assai più delicata, complessa e necessaria di un viaggio negli outlet americani. Là il vuoto, anche fisico, poggia sul vuoto storico e sul vuoto del territorio. Nel senso che una curiosa civiltà evanescente fatta di una massa di oggetti e nessun disegno, progetto o destinazione occupa vasti spazi di lande altrimenti abbandonate.

Al contrario una Italia affollata di storia, la storia delle città, dei rapporti, dei riti, delle celebrazioni, delle processioni, dei palii, dei santi protettori, vede depositarsi sulle sue radure tutt’altro che vuote i dischi volanti dei nuovi «outlet » carichi di oggetti da vendere già disponibili ovunque, salvo il prezzo che è, certo, conveniente ma non ha alcun rapporto con la necessità.

Qui torna utile una importante intuizione dell’esploratore Cazzullo negli outlet italiani: l’attrazione più grande non è la «la gita a Chiasso» (nella felice espressione di Arbasino anni Sessanta) ma l’esatto contrario: l’ingresso in una materializzazione fisica della televisione, spot e programmi.

Qui il senso di appartenenza non è dato dalla presenza dei divi o delle celebrità, ma dalla identificazione del territorio. È come nel gioco magico e fantasioso raccontato da Woody Allen La rosa purpurea del Cairo. Con una differenza importante: lo schermo del cinema è un mondo esotico, avventuroso, lontano, lo «outlet» è il passaggio di frontiera dal fuori al dentro del più domestico degli oggetti, lo schermo della televisione di casa. Là dentro sei più a casa che a casa. Sei nel territorio giusto in cui riconosci ogni oggetto, e ogni dettaglio. Quella immensità di oggetti in offerta ti appare familiare e quotidiana. Ma è davvero un’Italia in «svendita» (come dice il sottotitolo del libro di Cazzullo) quella dei vasti outlet affollata in cui si celebra, per numeri molto alti di cittadini, una «festa fredda» che da l’impressione (l’illusione) di essere senza fine? Forse è - piuttosto - uno strano museo di scienze naturali, in cui vengono esposti (ovvero si autoespongono) i cittadini tipo di un paese senza passioni, senza ideali comuni, senza un interesse che leghi tutti (una volta si diceva «interesse nazionale ») tranne un intenso,meticoloso, infaticabile acquisto di beni di consumo. Del resto, non viene detto anche da autorevoli voci politiche che«dobbiamo aumentare i consumi?» e il totem del Pil (il mitico prodotto interno lordo, non è il grande misuratore della nostra collettiva volontà di comprare ciò che la nostra volontà di comprare induce a produrre?

Dunque Aldo Cazzullo, nel suo libro documento che occupa, con la esplorazione giornalistica, lo spazio della scienza sociologica d’altri tempi ci porta in visita nella sala macchine del più strano strumento mobile della nostra età. Non arriva, non parte, non promette o permette alcuna avventura.

Produce una grande simulazione di sentimenti, entusiasmi, passioni, ideali, persino gioia, tutti antichi tratti umani che non esistono più in natura. Non negli outlet, immense piazzole di sosta di una civiltà interrotta.

postilla

Come probabilmente i lettori abituali di eddyburg avranno notato, molti dei temi toccati da Furio Colombo, e che evidentemente appaiono inediti a parte della cultura e del giornalismo italiano, sono da alcuni anni ricorrente oggetto di attenzione per questo sito. Vorrei qui sottolineare però come questa “scoperta giornalistica” del territorio del commercio e dell’intrattenimento, del suo successo in terra italiana anche in quanto spazio moderno di interazione sociale, abbia ahimè ancora un limite forse ineliminabile nell’essere a sua volta fenomeno di moda e costume. Non è un caso forse, se in rapidissima successione sono stati pubblicati oltre al fortunato libro di Cazzullo, anche quella specie di autobiografia “anticomunista” del patron Esselunga Bernardo Caprotti (Falce & Carrello), il più sistematico e storico La Spesa è Uguale per Tutti di Emanuela Scarpellini, e più di recente Autogrill. Una storia italiana, di Simone Colafranceschi.

Il fatto è che gli spazi del commercio e dell’intrattenimento sono sempre più la punta di un iceberg di una domanda sociale di modernità, e relativi ambienti, a cui pare proprio che il settore pubblico non voglia dare alcuna risposta. Da un lato delegando appunto gli operatori commercial-immobiliari a sostituire le piazze (pubbliche) coi propri complessi (certo collettivi, ma per definizione privati), dall’altro non percependo più come centrale la stessa idea di spazio pubblico. Come dimostrano ad esempio la scarsa sensibilità di quasi tutte le parti politiche in generale ai temi dello sprawl, o il tentativo ancora in corso di privatizzare le aree a standard, sposando la linea secondo cui si tratterebbe di “superfici inutilizzabili” in quanto non destinate allo sfruttamento edilizio, a quanto pare per alcuni unica funzione legittima dello spazio urbano.

In definitiva: ambienti del commercio o meno, pare impossibile tentare di capire il rapporto fra spazio, società, immaginario, se non si usa un approccio meno settoriale, proprio tentando di recuperare nel suo insieme quella “idea di città” che certo improvvisato azzonamento culturale vorrebbe farci perdere (f.b.)

Ne aveva parlato qualche giornale, dalla metà di settembre, così, quando l’ho visto nella vetrina della cartoleria del paese emiliano in cui vivo, non ho saputo trattenermi dal comperare il libro: è pubblicato nella collana “gli specchi” di Mondadori, scritto da Bernardo Caprotti, ottantenne imprenditore dei primi supermercati italiani.

Il sottotitolo “Le mani sulla spesa degli italiani”, rieccheggiante uno dei tormentoni preferiti dai politici di Destra, con il corredo di una prefazione di Germinello Alvi e di un allegato storico-documentario di Stefano Filippi, promette di rivelare i retroscena della diffusione della “grande distribuzione” nel nostro Paese, nel quale operano anche le Cooperative associate nella COOP Italia, con una quota di mercato di quasi il 18 per cento, mentre il restante 82 è coperto dal settore privato, e di questo l’8 spetta alla sua Esselunga.

Socio di cooperativa di consumo da più di 40 anni, ne ho seguito la trasformazione fin dagli striminziti spacci del dopoguerra, diffusi in ogni sobborgo della mia Regione e, a macchia di leopardo, in tanti altri luoghi e aziende d’Italia e di tanti altri Paesi. Ho seguito le prime introduzioni di locali a “libero servizio”, superettes e supermercati, poi da progettista ho praticato l’urbanistica commerciale degli anni ‘70 con i centri commerciali di quartiere, fino alle grandi strutture alternative: quella dell’Ipermercato “alla francese” e quella dello Shopping Center, che Victor Gruen ha imposto in America, e in tutto il mondo, dai primi anni ‘60 ad oggi.

Ho partecipato anch’io, con tanti altri, miei clienti, collaboratori, costruttori, allievi a quel febbrile impegno, a quello spirito di squadra, alla sensazione del rischio incombente e alla soddisfazione per il risultato, per la qualità conseguita, per i traguardi di efficacia raggiunti.

Lo stare nel mercato ha un suo innegabile fascino che si accresce quanto più si studia e si comprendono le sue dinamiche, la tensione fra i “central places”, la concorrenza Schumpeteriana fra le diverse tecniche di distribuzione, vecchie, nuove, rinnovate.

Comprendo quindi il calore con cui il vecchio leone parla delle sue imprese, delle difficoltà e delle durezze affrontate per farle diventare sempre più grandi, alla rabbia verso chi vi frappone ostacoli. La penetrazione nel mercato di una forma distributiva innovativa, che promette prezzi più bassi, ma che per farlo deve cambiare sia gli stili di consumo di moltitudini, che la stabilità dei ceti commerciali, non è certo “una passeggiata”. Nella polarizzazione e nella diffusione urbana necessaria alla espansione della grande distribuzione moderna, si scontrano il corporativismo delle categorie, l’arroganza dei burocrati e dei politici nazionali e locali, l’intermediazione parassitaria della rendita sui suoli, le “dazioni” ai potentati, fino al crimine in doppio petto e all’artiglio delle mafie.

Caprotti, che viene da una famiglia proprietaria di filande in Brianza, finisce quasi per caso (ma certo in virtù delle “entrature” e del capitale di famiglia) a lavorare nel commercio che si definisce “despecializzato”, soprattutto alimentare e impianta i primi punti di vendita a libero serizio derivati da modelli di grande successo oltre oceano.

Ma il nord Italia del miracolo, di vecchie città malamente ricostruite, di consumi meschini, di mercatini rionali e carrettini, di clientele affezionate alle storiche botteghe non assomiglia alle Grandi Pianure e la penetrazione è lenta e difficile, ostacolata da interessi e paure.

Solo quando, con le lotte di fabbrica degli anni ‘60, che Caprotti subisce e stigmatizza, cresceranno i salari e quindi i consumi, i suoi supermercati avranno un po’ più di clienti.

Negli anni ‘70 e ‘80 ci saranno altri, più duri scontri sindacali e sociali che, mentre si espande la società dei consumi, sempre più ricca. e sprecona, mentre il libero servizio si estende in sempre più vaste e periferiche superfici, innescano la ridda degli scioperi aziendali, delle assemblee, dei gatti selvaggi e incombe la minacia dell’esproprio proletario.

Alla pretesa di paghe più alte si risponde con l’innovazione tecnologica che aumenta la produttività del lavoro: Esselunga diviene leader nei sistemi di magazzinaggio automatizzati e nell’introduzione del codice a barre che riduce drasticamante il personale e la sua qualificazione. Ben scavato vecchia talpa, avrebbe esclamato qualcuno.

E da quel periodo che il marginale e frammentato arcipelago di spacci delle Cooperative di Consumo, sorge e ingrossa l’ondata di unificazioni, trasferimenti, ampliamenti che si conclude alla fine del secolo con la presenza sul mercato delle nove sorelle coordinate da COOP ITALIA.

A questo punto gli affari del nostro si scontrano ripetutamente con quelli della cooperazione che ha dalla sua, come cantava Majakowsky l’ “uragano di voci flebili e sottili”, il Gran Partito che amministra Regioni, Provincie e Comuni e spesso calca la mano pubblica per favorire le imprese sostenute dalla sua base popolare.

Caprotti questi episodi se li lega al dito e li racconta con ricca documentazione, poi allarga il tiro e scomoda tutto il repertorio delle ostilità per la cooperazione, i comunisti, il sindacato, tale e quale lo esternano, da qualche anno, Berlusconi e i suoi pubblicisti: evasione fiscale autorizzata, strumentalizzazione della base sociale, finanziamento del Partito, collateralismo con i poteri politici, sfruttamento del personale, uso spregiudicato delle opportunità fornite dalla normativa societaria.

Di suo ci aggiunge l’accusa di scarsa produttività e prezzi più alti rispetto a quella ottimale di un suo punto di vendita campione, in via Ripamonti a Milano. Tali differenze sono certificate da rilevamenti di un’agenzia indipendente francese, ma resta il dubbio sulla validità del confronto fra un solo punto di vendita ottimale e ricco e le medie di vari punti Coop, molti dei quali sono forzatamente peggio ubicati e organizzati, per la diffusione capillare su vasti territori.

Ciò che poi sembra particolarmente offensivo, per Caprotti, che si dilunga in dettagliate biografie, coadiuvato dall’appendice di Filippi, è il materiale umano che amministra le imprese cooperative: gentucola che viene dalle sezioni di base, dal sindacato, che talvolta si monta un po’ la testa a maneggiare tutto quel ben di Dio, talaltra si compiace di una grigia modestia, ma in complesso salvo rare eccezioni, manca di stile, anche quando indossa il blazer, o le mitiche braghe bianche.

E giù anche con le ultime di cronaca, dai patti coi furbetti alle intercettazioni telefoniche. Hanno perfino osato proporgli di comperare le Esselunga per metterci il marchio Coop, quello disegnato tanti anni fa dal compagno Steiner. Impudenti!

Ricordo vecchie caricature in cui la triade Cooperativa, Casa del Popolo, Camera del Lavoro, veniva additata come un insieme di piovre bolsceviche, da bruciare.

Non condivido gran parte di quel che oggi è diventato il movimento cooperativo italiano: le leggi accomodate, il controllo della base sociale dribblato da dirigenti arroganti, le spregiudicate alleanze ed avventure con soggetti poco raccomandabili, l’eccessiva concentrazione, l’esternalizzazione e il precariato. Sono particolarmente critico verso il settore della cooperazione di consumo per la sua indulgenza verso il consumismo, l’estromissione della base sociale dalle decisioni, la scarsa attenzione al corretto uso del territorio.

So che molti di sinistra, radicale o no, la pensano come me e si impegnerebbero per una riforma del movimento cooperativo sugli originari principi e su scelte più decise verso un nuovo mondo possibile e necessario.

Proprio per questo non posso seguire il vecchio capitano d’industria nella sua indignazione per le altrui scorrettezze, ne i suoi fiancheggiatori antipolitici e reazionari che pescano nel gossip.

La competizione per la conquista dei mercati, di posizioni e di rendite, è una lotta senza esclusione di colpi, fatta di pressioni, di scorrettezze, di finte e di favori. E’ una lotta di belve che, come i felini, possono apparire più eleganti di coccodrilli e iene, ma che mordono carni vive o putride, con pari, repellente avidità.

Ciò non toglie che i mezzi adottati dai dirigenti di alcune cooperative di consumo per prevalere in alcuni degli scontri descritti e documentati abbiano raggiunto durezze inaccettabili, compromettendo l’azione degli enti locali e l’etica stessa della politica. Chi fa le spese, in definitiva, di queste viscide lotte fra poteri, sono i cittadini e i consumatori che pagano con moneta sonante e spesso duramente guadagnata, le posizioni di monopolio e le lesioni ai diritti di una democrazia partecipata.

Forse con una pubblica denuncia, non così tardiva e di parte di alcuni di questi episodi si eviterebbero alcune di queste bassezze e si potrebbero allontanare i loro protagonisti. Forse questa denuncia permette di evitare che analoghe storture si manifestino oggi, in un epoca in cui gli ipermercati di cui parla Caprotti sembrano negozietti a confronto con i nuovi mega e outlet, “superluoghi” del consumo ritualizzato.. O forse sono troppo ingenuo?

Del racconto a me è rimasta particolarmente impressa la figura di un protagonista, il facchino ai formaggi, il compagno Bulgari che esclamando “Libertà è aderire alla maggioranza!” esprimeva, a modo suo, certo troppo sintetico, quello che è uno dei principi di base della democrazia, e anche della cooperazione: che ogni testa vale un voto e prevale la decisione più condivisa, alla quale poi ci si può liberamente adeguare, mantenendo la propria opinione da far valere quando serva.

Calderara di Reno BO, 14-10-2007

[…]

E poi avrei dovutoparlare della periferia in cui si svolge questa storia. Un brutto palazzo di ferro e vetro in un quartiere di centri commerciali, che poi è il posto dove io vivo e vado a passeggiare. Perché da noi si passa il tempo a Cinecittà Due o al centro commerciale Anagnina, da Carrefour o Leroy Merlin, da Decathlon o Mondo Convenienza. E se lo dici agli intellettuali ti prendono per scemo.Quelli ti rispondono chele passeggiate si fanno per le strade di Roma, a Trastevere, al limite a Testaccio. Che si va in villa, quella che fu dei Borghese, dei Torlonia. Ma in questo pezzo di Roma da cui cerchiamo di scappare ci stanno a malapena un po'di marciapiedi. E l'unico parco è uno dei posti più inquinati d'Europa visto che è a ridosso dell’aeroporto di Ciampino. Qui diciamo che è ma fortuna averci Ikea con la sua temperatura ideale d’estate e d'inverno, l'aria condizionata che è più pulita di quella che ci arriva dalla finestra. E se ci vai col pupo ti danno anche il menù baby all'angolo del fast food. Io lì non ci ho avuto ancora il coraggio di mangiare. Forse perché mio figlio c'ha meno di un anno e non ho ancora la scusa per farlo.

E infatti l'argomento che non ho considerato è forse il più importante. È il pensiero che ha permesso lo sviluppo di questi palazzi, la simbiosi tra il mobile componibile pensato in Svezia e costruito in Cina a basso costo e l'operatore a cui hanno fatto credere di aver raggiunto un traguardo acquistando una nuova libreria con il basso stipendio consentito dal suo lavoro quasi cinese. Il pensiero che accosta e mescola nella borgata il menù baby al precariato. Il pensiero che fa pensare al panino da 50 centesimi come a un'opportunità e invece è una galera. È l’impossibilità di permettersi un pranzo migliore, mettere i librii suscaffale fatto dal falegname con il legno vero, passeggiare ,n una strada del centro o in un parco silenzioso.

[…]

“Super” è un prefisso connesso alle immagini di superiore, eccessivo, straordinario, eccezionale. Un connotato che può essere assunto da oggetti, persone, situazioni, ma anche da “luoghi”, determinati non solo spazialmente, anche idealmente.

Il prefisso «super» è infatti ascrivibile non tanto all’elemento topografico del luogo, quanto al suo valore simbolico. Questo capita, ad esempio, per conseguenza di un’azione che innova radicalmente uno stato di fatto, tramite una realizzazione architettonica di impatto, capace di inserirsi con identità e singolarità: è il caso, per esempio, della nuova Fiera di Milano, dell’Auditorium Parco della Musica a Roma, di Eden-Olympia descritta da Ballard in Super Cannes[1].

I superluoghi trovano il loro spazio ideale nei “territori della globalizzazione”, dove si spostano le “folle solitarie” raccontate da David Riesman già negli anni ’50 del secolo scorso [2]. Territori i cui confini si rivelano sempre più incerti, perdendo progressivamente senso: un aeroporto non è più solo una piattaforma intermodale per mondi lontani, ma diventa oggi porta di scambio quotidiano tra città distanti migliaia di chilometri, dov’è consentito intrattenersi in spazi condizionati e cablati, accedere all’acquisto di prodotti costosi, alla moda, “tipici”, particolari, o godere di una campagna di saldi di fine stagione; l’aereo diventa così un mezzo di mobilità pubblica come un treno suburbano e l’aeroporto una fermata del vasto sistema metropolitano transnazionale.

Queste nuove pratiche di scambio sociale, economico e culturale, tra le moltitudini che vivono e frequentano i superluoghi, si manifestano con le stesse modalità e con le medesime intensità con cui tradizionalmente il cittadino vive lo spazio pubblico della sua città, con la differenza che ad essere sovvertito è il concetto di “prossimità”. Esemplare a questo proposito è appunto l’impatto che le compagnie di volo low cost e gli aeroporti “minori” da esse utilizzati, stanno producendo: una rilevante ridefinizione di reti di città e di economie a scala continentale, che stravolgono gli assetti tradizionali e la potenza dei sistemi urbani consolidati, a favore di “reti minori” e di città “marginali”, innescando trasformazioni sostanziali dei tessuti urbani di contorno; trasformazioni spesso casuali o demandate a scelte di pianificazione prive di studi comparativi e critici, che nei casi di insuccesso determinano condizioni di degrado e periferizzazione.

La localizzazione delle grandi strutture di vendita - per fare un altro esempio - con rilevanti bacini d’utenza, è – come noto - la conseguenza della diffusione del modello di mobilità privata, fondato sull’uso incessante dell’automobile. L’accessibilità al consumo è anche qui strategica; i nodi infrastrutturali sono allora nuove centralità, che addensano progressivamente grandi sistemi monofunzionali disgregati e disgreganti rispetto alla città consolidata, la cui esistenza sembra diventare più un ostacolo allo sviluppo che un opportunità: una opposizione che disegna un paesaggio pulviscolare, frutto di una “esplosione” [3] dei fattori urbani, tendenzialmente segnato da percorrenze erratiche.

La caratteristica più distintiva del superluogo è dunque la sua capacità di dominare il territorio a cui appartiene, generando fenomeni di forte urbanizzazione, attraendo a sé masse e flussi. Una capacità che deriva dalla sua potenza simbolica, dal suo peso economico, dal suo ruolo nella società moderna. Ma anche dalla sua velocità d’azione e adattamento: il “just in time” dell’urbanistica, il “prêt-à-porter” dell’architettura, seguono pedissequamente il dinamismo del mercato, la vacuità delle “tendenze”, le esigenze di una mai completamente definita società contemporanea, e assieme sono il vettore che materialmente trasforma il territorio metropolitano. In estrema sintesi, si tratta di un modello di produzione urbanistica di “massa standardizzata”, flessibile nelle forme e nei contenuti, veloce nell’adattarsi ai nuovi paradigmi di consumo.

Guardando ai territori colonizzati da questi fatti, appare ormai evidente come queste “strutture di massa”, musei, aeroporti, grandi stazioni ferroviarie, centri commerciali di prima generazione (i contenitori scatolari prefabbricati), centri commerciali di seconda generazione (città miniaturizzate a tema, tipo outlet, città della moda, città dell’elettronica, dell’arredamento, parchi ludici ecc.), multisala cinematografici, sembrano accomunate da un denominatore: una sostanziale disattenzione alla qualità del progetto e una (apparente) casualità dell’iniziativa, che – molto spesso - non rispondono ad alcuna razionalità collettiva; ad alcun interesse generale.

Sembra cioè di poter certificare - in generale - l’insufficienza o l’assenza di un progetto complessivo che contenga e contestualizzi, normalizzandoli, gli impatti di questi ambiti. Sembra che il territorio e le città siano ridotti al ruolo di spettatori, piuttosto che di attori, di questa ridefinizione delle funzioni, delle relazioni di vita e al ridisegno del paesaggio in senso lato.

Rimane il fatto che la nostra civiltà, orientata su abitudini, stili di vita, comportamenti di consumo e produzione, di massa e globali, sembra non poter fare a meno dei superluoghi. E’ intorno a questa necessità che occorre capire come formulare gli strumenti adatti per il governo e la progettazione della città futura.

Si tratta dunque di governare il fenomeno “superluoghi”; qui sta la questione centrale che, sia la ricerca promossa dalla Provincia di Bologna, sia le pagine di questo libro affrontano, per tentare di rispondere ad alcune principali domande: i «superluoghi» sono nuova città? Come si possono progettare sinergie utili ad evitarne la periferizzazione? A quali tecniche progettuali ricorrere per ridurre il conflitto causato dalla complessità che li rappresenta, tutelando il paesaggio storico e naturale? La qualità architettonica fino a quale livello è capace di incidere sull’immagine di ambienti pensati e cercati dai fruitori per la loro specializzazione tematica e per la loro offerta funzionale?

Le risposte desumibili dai contributi più avanti argomentati, non sono univoche né semplici. L’eterogeneità delle riflessioni e degli spunti contenuti in questo volume, testimoniano questa complessità.

Se una sintesi è possibile, va certamente ricercata nella necessità di governo e di progetto che la fenomenologia che abbiamo chiamato superluoghi esige oggi, per impedire che si intensifichi un pericoloso antagonismo: quando la città rifiuta (ignora o sottovaluta) un dialogo con un fenomeno emergente e di vasta portata – i superluoghi – si espone ad una frattura difficilmente sanabile. Periferie, metropolizzazioni del territorio, sfrangiamenti urbani, quando non vere devastazioni del paesaggio, sono l’esito di questa rinuncia.

Per molto tempo si è cercato di non “contaminare” la città – quella storica in particolare – con funzioni e attrezzature presuntamente disarmoniche, conflittuali o “incongrue”, sospinte dal mercato, o dalle esigenze sociali moderne; paradossalmente – spesso – si è ottenuto il risultato opposto. Allontanare il problema, o peggio ignorarlo nella speranza che si perda nello sterminato territorio metropolitano, non ha contribuito a “salvare la città”. La contaminazione è avvenuta, il contagio si è diffuso alla grande velocità cui il nostro tempo ci ha abituati. L’esito è evidente e documentato anche nelle pagine di questo libro.

Si tratta ora di riprendere un dialogo interrotto, tra la città così come l’abbiamo conosciuta nel secolo scorso, e le nuove forme del suo sviluppo. Non per essere subalterni al mercato, né alle pressioni speculative, né tanto meno alla fluttuazione delle “tendenze”. Bisogna riprendere questo dialogo per rimettere al centro della questione territoriale e urbana il governo pubblico e il progetto di qualità, con nuovi tentativi capaci di riconiugare pianificazione di lunga durata e progettazione architettonica. Una attività di ricerca e sperimentazione che deve partire soprattutto dagli enti territoriali: Comuni, Province, Città Metropolitane e Regioni possono trovare in quest’ambito d’innovazione le ragioni per un nuovo protagonismo.

[1] Nel suo noto romanzo (Super Cannes, Feltrinelli, Milano, 2002) Ballard descrive con acuta chiarezza le caratteristiche di questi luoghi dell’eccesso, soffermandosi in particolare sui quartieri privati e non accessibili della residenza di lusso.

[2] Riesman D., La folla solitaria, Il Mulino, Bologna, 1956.

[3] Ci si riferisce alle note conseguenze del così detto sprawl; si veda in particolare AA.VV., L’esplosione della città, Compositori, Bologna, 2004.

Postilla

Il testo costituisce l’introduzione al catalogo “La civiltà dei superluoghi. Notizie dalla metropoli quotidiana”, Damiani, Bologna, 2007, pp. 6-9.

Il volume rappresenta l’esito bibliografico di una ricerca condotta dalla Provincia di Bologna i cui risultati sono illustrati in queste settimane a Bologna nel corso di numerose manifestazioni al cui programma si rimanda.

In eddyburg, che da sempre segnala la pericolosità e la pervasività dei fenomeni urbani e non, connessi al moltiplicarsi dei "non luoghi", sono presenti un’ampia documentazione sull’argomento e alcuni interventi critici sull’iniziativa bolognese che, per l’importanza dei temi trattati, merita senz’altro di essere ripresa in una discussione più allargata alla quale invitiamo tutti i lettori di eddyburg (m.p.g.)

Su Mall, un interessante (ed eccentrico) saggio sui "sub-luoghi" non incluso nel catalogo (f.b.)

E’ stato molto difficile entrare, ieri sera, nella scuola elementare di Vecchiano dove si teneva il consiglio comunale aperto dedicato alla presentazione del progetto del nuovo insediamento Ikea a Migliarino, segno evidente dell’enorme interesse che questo ha provocato nella cittadinanza.

In più di quattro ore, tra presentazione dei tecnici Ikea, interventi e domande del pubblico e relative risposte (anche da parte del Sindaco), e nonostante non sia stato consegnato alcun materiale a stampa, ma solo proiettate delle slides, finalmente il quadro è divenuto più chiaro:

- è improprio chiamare questo “insediamento Ikea” o negozio Ikea: si tratta infatti di una proposta di trasformazione urbanistica della quale Ikea è solo una componente minoritaria, impegnando meno di un terzo dell’area;

- Si tratta di una trasformazione di una dimensione enorme, raggiungendo, tra aree destinate agli insediamenti, parcheggi e viabilità, circa 400.000 mq, come dire 40 ettari o anche 4 chilometri quadrati, più della dimensione dell’intera frazione di Migliarino e va a saldare quest’ultima con l’uscita dall’autostrada A11;

- Assieme al negozio Ikea, di dimensioni analoghe a quello di Sesto Fiorentino, vengono proposti insediamenti commerciali non meglio identificati per una superficie di vendita tra 20 e 30.000 mq e addirittura insediamenti abitativi per 22.000 mq di superficie utile (dati raccolti dall’esposizione);

- Le modifiche alla viabilità sono tutte locali, anche se ingenti e sono finalizzate a consentire un accesso diretto all’area dal casello autostradale;

- Ikea sbandiera, con una certa efficacia, soprattutto nei confronti degli amministratori, la prospettiva occupazionale, ieri sera addirittura portata a 800 unità, a fronte di un numero medio di addetti, negli altri centri esistenti, di 350-400 unità tra part-time, tempo determinato e tempo indeterminato pieno.

A detta di Ikea il sito prescelto è “perfetto” (commercialmente, s’intende) in quanto corrispondente ad un nodo viario (svincolo tra autostrada tirrenica e Firenze-Mare) e di bassa qualità paesaggistica. Una sorta di relitto agricolo destinato, prima o poi ad essere urbanizzato. Anzi la localizzazione è così “perfetta” che non è possibile spostare l’insediamento anche solo di un km, come in pratica avverrebbe localizzando – almeno il negozio Ikea – nella zona artigianale-commerciale di via Traversagna, a nord dell’autostrada A11.

Il bacino di utenza prefigurato riguarda tutta la fascia costiera che va dalla Foce del Magra a Piombino, corrispondente a circa 1.500.000 abitanti. Da questi dovrebbero venire circa l’80% dei clienti. Dunque, secondo i proponenti, il traffico indotto sarebbe sostanzialmente portato ad utilizzare l’autostrada.

Come è stato ampiamente sottolineato nel dibattito, la proposta appare:

- immotivata nella parte non-Ikea, laddove si propongono ulteriori superfici commerciali non previste dalla programmazione regionale, in quanto essa ritiene satura l’area pisana, Vecchiano compreso;

- generata da un movente meramente immobiliare, diretto alla valorizzazione economica dei terreni interessati, cosa che dà a tutta la proposta una insuperabile rigidità;

- in netto contrasto con le scelte del piano strutturale, il quale individua come vocazione generale del territorio la salvaguardia dell’identità storica e paesaggistica e la promozione di un turismo eco-compatibile;

- comunque diretta ad aggravare le condizioni critiche della circolazione in particolare sull’Aurelia, tenuto conto del traffico indotto non solo da Ikea, ma anche dall’altra offerta commerciale e conseguentemente a peggiorare la qualità ambientale, proprio a confine con il Parco Naturale di Migliarino, San Rossore, Massaciuccoli. Un indicatore in tal senso è dato dalla dimensione veramente enorme dei parcheggi previsti, pari a n.6.000 posti auto. Se consideriamo che il tempo di permanenza medio di un cliente è stimato in due ore, ed immaginando solo quattro ricambi al giorno, si raggiungono 24.000 auto/giorno di presenza!

Occorre aggiungere che la proposta appare in netto contrasto con i contenuti del nuovo Piano di Indirizzo Territoriale che la Giunta Regionale ha recentemente approvato come proposta al Consiglio, per cui appare difficile ipotizzare che con la Conferenza dei Servizi, cui i proponenti di appellano, come strumento di possibile modifica di tutti gli strumenti di programmazione/pianificazione, si possa conseguire questo obiettivo.

In sostanza, Ikea sembra tirata dentro una operazione non sua: in nessun altro insediamento che conosco è presente l’integrazione con altre tipologie commerciali, peraltro non precisate, qui dichiarata essenziale. Il suo prestigio, di azienda sana, in forte crescita e dotata di certificazioni di qualità ambientale e sociale appare in questo caso strumentalizzato a fini diversi, che purtroppo hanno il solito vecchio nome: la speculazione immobiliare.

Detto questo, come è stato detto da gran parte dei cittadini e anche degli esponenti politici intervenuti, una sola appare la soluzione politicamente sostenibile: il trasferimento del solo negozio Ikea nell’area produttiva di via Traversagna, cui comunque occorrerebbe associare un adeguamento dell’Aurelia da Madonna dell’Acqua a Torre del Lago.

Ma se le analisi sulla genesi della proposta sono corrette, di questo esito è lecito dubitare.

Migliarino, 6 febbraio 2007

Nell´illustrazione degli uomini Ikea e dei costruttori di Unieco, il centro commerciale progettato a Migliarino è apparso ancora più gigantesco di quanto annunciato. Roba mai vista: quasi 400.000 metri quadrati di superficie (110.000 di Ikea e gli altri concessi in franchising al bricolage e allo sport), 57.000 metri quadrati al coperto, un parcheggio per 6.500 auto e 150 appartamenti per i dipendenti. Ma già il nome scelto per il colosso, «Parco commerciale di San Rossore» - che è sembrato scimmiottare in modo equivoco e poco opportuno il confinante parco vero, quello fatto di alberi, acqua e natura invece che di cemento e asfalto - non ha messo di buon umore i trecento abitanti del comune di Vecchiano, quasi tutti di Migliarino, che lunedì sera hanno assistito al consiglio comunale aperto durante il quale Valerio Di Bussolo per Ikea e Attilio Grazioli per Unieco hanno presentato il progetto. Poi, una trentina di interventi, praticamente tutti «pollice verso», se si esclude quello del «comitato sviluppo e futuro» sorto per dar manforte ad un´opera che dovrebbe portare 850 posti di lavoro diretti più un centinaio nell´indotto. «Roba così in Toscana non si può fare» ha detto uno. «Ma guardate bene, tanto è grande l´opera quanto è piccolo Migliarino» ha protestato un altro indicando plastici e foto che palesano l´incredibile: il centro commerciale supera in dimensione il paese. «Così si decreta la fine del paese, così lo si uccide, Migliarino sarà periferia di Ikea».

Le preoccupazioni maggiori sono per l´impatto che provocherà il traffico e il conseguente inquinamento atmosferico. «Calcoliamo che ogni giorno raggiungerebbero il centro commerciale 20.000 auto, 30.000 nei giorni di punta, sono previsti solo aggiustamenti di viabilità, nessuna nuova strada, non un adeguato rafforzamento delle infrastrutture viarie» conferma il comitato di Migliarino per il parco. Ikea e Unieco - che prevedono per il colosso un bacino d´utenza di 1.200.000 persone, tutta la costa e l´interno fino a Montecatini - hanno progettato un raccordo diretto con lo svincolo autostradale e una bretella per aggirare Migliarino, ma irrisolto resta il nodo del collegamento con l´Aurelia. «Dicono che l´80% del traffico arriverà dall´autostrada, ma noi ne dubitiamo» sostiene il comitato. «Chi viene da Pisa e dal nord del capoluogo di provincia, chi viene da Massarosa, Torre del Lago, Cascina, continuerà a percorrere Aurelia e strade interne. E´ un impatto insostenibile».

Mentre il centrodestra si è schierato contro l´insediamento, che tra l´altro potrebbe essere autorizzato solo da una modifica delle norme regionali sulla grande distribuzione, il sindaco diessino Rodolfo Pardini rimane possibilista ma ha tenuto a precisare che nulla è stato ancora deciso. Si va avanti con le assemblee di frazione: Filettole, Avane, Nodica, il capoluogo Vecchiano. Qualcuno, forse, spera di mettere in minoranza gli «irriducibili» di Migliarino con le sirene dello sviluppo e del lavoro.

Alberto Annicchiarico,Ikea raddoppia entro il 2010 e sbarca in Sicilia, Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2006

Il signor Ikea, con la sua passione per brugole e viti, si sa, non è tipo da accontentarsi facilmente. Così se il fatturato italiano 2006 sale a 1,1 miliardi, in crescita del 24,3% e, quindi, fa anche meglio del +17% delle vendite in tutto il mondo (a 17,3 miliardi di euro), la multinazionale svedese dell'arredamento intende rafforzare a breve e medio termine la presa sul Belpaese. Il nostro mercato è maturo, ma ancora tra i più redditizi.

I mega-negozi gialli e blu che dai primi anni '90 hanno iniziato a popolare le periferie della grandi città, sono destinati a moltiplicarsi rapidamente. Di fatto è previsto un raddoppio, da 4.476 a 8.665 dipendenti, di qui al 2010, con otto nuovi punti vendita (Ancona-Camerano già a fine mese), compresa la relocation di Milano-Corsico, che diventerà il centro più grande d'Italia e tra maggiori in Europa. Nel Sud Napoli ha fatto da apripista nel 2004, a Bari l'inaugurazione è fissata per la metà di febbraio 2007. In gestazione, poi, ci sono Salerno e, tornando a Nord, Trieste e Parma. Spicca lo sbarco in Sicilia, con l'avvio del cantiere a dicembre e l'apertura entro il 2007 a Catania. Seguirà Palermo. Ancona e a Bari, intanto, si aggiungeranno agli 11 negozi già esistenti, e nel 2006-7 saranno creati circa mille nuovi posti di lavoro. Italia, insomma, al centro dei piani di espansione, alla pari di Giappone, Russia, Cina e Turchia. Dodici gli Ikea store aperti nel mondo negli ultimi sei mesi (il totale è di 237 in 34 Paesi) e altri 19 entro il 2007.

Il colosso fondato da Ingvar Kamprad nel 1943, diventato un brand mondiale di culto grazie alla formula del design alla portata di tutti, resterà solidamente ancorato al suo modello di crescita. Non sono alle viste acquisizioni né quotazioni in Borsa. «Il nostro core business - spiega al Sole24Ore.com l'amministratore delegato di Ikea Italia Retail, Roberto Monti, 45 anni - è e rimane l'home furnishing. Non abbiamo intenzione di ampliare il perimetro delle nostre attività, piuttosto opteremo per una copertura geografica sempre migliore attraverso i nuovi punti vendita. Il Giappone è un esempio in questo senso: è un mercato enorme, abbiamo inaugurato il primo negozio a Tokio in aprile». Manco a dirlo, è già un successo. «Le cose, in effetti, vanno già molto bene, questa settimana se ne aggiungerà un altro e contiamo di andare oltre la capitale. Lo stesso vale per Cina e Russia, senza dimenticare i paesi occidentali. Tra i paesi in fase di maggiore di sviluppo ci sono proprio l'Italia, che è il mercato a maggior crescita tra quelli consolidati, poi la Francia, gli Stati Uniti e, naturalmente, la Germania. Quanto alla Borsa, non è compatibile con la nostra filosofia di bassi margini uniti a forti economie di scala ed efficienza di gestione».

Tra i segreti della crescita in Italia, dove Ikea ha il 5,1% della quota di mercato, c'è, ovviamente, l'allargamento della base della clientela. È l'andamento a doppia cifra a sorprendere ancora. «Mantengono un andamento molto positivo del +10-15% - dice Monti - anche i punti vendita aperti da dieci o quindici anni. Un peso fondamentale ce l'ha la politica dei prezzi che serve a non perdere i clienti più fedeli e a portarne di nuovi». Fatto 100 nel 1994, l'indice dei prezzi al consumo, secondo i dati della società, arriverà a 134,4 nel 2007 contro l'88,5 del catalogo Ikea. Nel settembre 2005 la riduzione media dei prodotti è stata del 5,3% con investimenti per 57 milioni di euro. A settembre 2006 la politica di tagli al listino continua: -2% con un investimento di circa 23 milioni. «Il ceto medio ha sempre più bisogno di contare su un'offerta di arredamento adatta a mezzi economici più limitati, ma è anche vero che cambia l'attitudine dei consumatori (il 43% degli italiani che visitano Ikea è laureato, età media 40 anni, il 72% ha una casa di proprietà, ndr): oggi si lega meno il valore del marchio al costo del prodotto».

Tra le novità in vista, seppure in embrione, l'arrivo dei prebbricati BoKlok (circa 70 metri ad appartamento, si monta in un giorno, costo intorno ai 40mila euro) già inseriti in programmi di edilizia sociale in Scandinavia e in fase di consolidamento anche un primo esperimento in Gran Bretagna. «Non intendiamo correre - precisa Monti - BoKlok è un progetto prematuro per l'Italia. Abbiamo però accertato che l'interesse per abitazioni alternative c'è. Anche in questo caso l'Italia è tra i Paesi più interessanti: è ancora troppo bassa l'offerta di case di qualità a prezzi accessibili».

Il sito Infocommercio nella sua newsletter dell’ottobre 2006 precisa che:

La svedese Ikea, con la multinazionale delle costruzioni SkanSka, propone nel suo catalogo anche case prefabbricate (palazzine fino a 4 piani con appartamenti e villette) a prezzi varanti da 25.000 euro a 45.000 con il nome BoKlok (in svedese, “vivere in modo ecocompatibile”). All’interno di ogni appartamento una o due camere da letto, cucina arredata, bagno con doccia e ripostiglio. La costruzione/assemblaggio viene realizzata da operai specializzati in meno di un mese. Nel 2007 verrà costruito a Glasgow in Scozia un intero quartiere “povero” BoKlok.

[per inciso, si tratta di un intervento concordato con il locale Housing Council per la zona di Drumchapel: vedi l'ultimo articolo di questa rassegna]

Dal sito Boklokhttp://www.boklok.com/

L’idea generale

BoKlok offre buone case a basso prezzo per tutti. Abitazioni di alta qualità e ben progettate. Le case BoKlok sono uniche, per forma e funzione. Sono abitazioni smart, adatte ai bisogni quotidiani della famiglia moderna. Il nostro marchio di fabbrica sono ampi spazi interni luminosi con alti soffitti. E anche piccole zone residenziali ben concepite dove si conoscono i vicini e ci si sente tranquilli e sicuri.

Terreni

Per realizzare la nostra idea di bassi prezzi, non cerchiamo spazi nelle zone più esclusive. D’altra parte, sono indispensabili buoni accessi a comunicazioni e servizi. L’acquisizione delle aree si attua attraverso i nostri agenti nei rispettivi bacini geografici di mercato.

Caratteristiche dei luoghi [esempio dal caso Gran Bretagna]

BoKlok cerca di realizzare nuove abitazioni in tutta la Gran Bretagna. Siamo particolarmente interessati a localizzare i nostri interventi nelle zone della Grande Londra, in Kent, Surrey, Sussex, Hampshire, Yorkshire, Teeside, Tyneside e Scozia Centrale.

La linea di prodotti Boklok attualmente offre abitazioni nei formati di blocchi ad appartamenti da sei alloggi in su. Ciò premesso, siamo alla ricerca di aree adatte alla costruzione di complessi da 12 a 100 alloggi.

Prendiamo in considerazione aree sia già destinate dai piani che prive di destinazione, sia zone per case economiche che terreni disponibili sul libero mercato.

Abbiamo una buona disponibilità di risorse e possiamo agire rapidamente per quanto riguarda l’acquisto dei terreni.

Il prodotto BoKlok è particolarmente adatto a zone di proprietà degli organismi pubblici, dove l’edificazione può contribuire a realizzare case economiche per il segmento residenziale intermedio.

Prodotti

Gli edifici ad appartamentiBoKlok sono il massimo in quanto a sensazione di abitabilità, circondati da prati, alberi da frutto e arbusti. Gli appartamenti offrono soluzioni a pianta libera con alti soffitti e ampie finestre, spazio e luminosità.

La Villa BoKlok è di moderna progettazione, con due possibilità di facciata. Il pianterreno su 92 mq è a pianta libera, con zona notte a tre stanze. Il livello superiore è fornito non terminato.

Le case BoKlok sono progettate per dare la sensazione di abitare in una casa davvero propria. I complessi sono di pochi piani, con un numero di isolati contenuto. A completare il senso di comunità e l’ambiente sicuro, i cortili interni e gli spazi verdi con panchine e alberi da frutto.

Gli interni sono progettati accuratamente con una pianta aperta flessibile, alti soffitti e ampie finestre, che conferiscono agli appartamenti un carattere arioso e contemporaneo.

Il nostro cliente

BoKlok mira a rivolgersi a un pubblico più vasto possibile, nella fascia di reddito media e leggermente inferiore alla media.

Il nostro cliente sarà:

- il piccolo nucleo familiare

- la famiglia di lavoratori dipendenti con un reddito medio di circa 20.000-45.000 € l’anno

- persone che non possono accedere alle abitazioni sociali

- acquirenti della prima casa

- persone attualmente allontanate per motivi di prezzi, saturazione di proprietà, orientamento all’affitto, dalla zona scelta

E, per concludere, un estratto da un bollettino locale di Glasgow dell'anno scorso, che riassume l'ottima strategia di penetrazione del prodotto

(red.) Un nuovo quartiere, Drumchapel (bollettino locale dell’omonimo sobborgo di Glasgow), ottobre 2005 – http://www.drumchapel.org - Titolo originale: New Neighbourhood

Il consiglio comunale di Glasgow ha scelto il gruppo per il recupero di una superficie di 50 ettari a Drumchapel

Il consorzio vincente - New City Vision – è composto dai costruttori Bishopsloch, Cannon Kirk Homes e Laing O’Rourke.

Il progetti per Drumchapel riguardano la trasformazione di otto aree industriali dismesse. In un arco di cinque anni, saranno costruite 1.208 case per famiglie, e insieme negozi di quartiere, strade, percorsi pedonali, illuminazione, spazi verdi. Il presidente del consiglio municipale Steven Purcell, ha dichiarato: “Drumchapel si è davvero trasformata molto negli anni recenti, con nuove abitazioni, spazi per il tempo libero, verde, scuole e sport.

“Ma sappiamo ceh c’è ancora molto da fare.

“Questo nuovo intervento porterà veri vantaggi alla zona. Le nuove case contribuiranno ad attirare persne a vivere a Drumchapel assicurando un futuro da comunità vitale. Non si tratta semplicemente di nuove abitazioni: ne verranno anche posti di lavoro e occasioni di formazione professionale. É un processo di rinnovamento sociale, inserito in un programma che sto promuovendo in tutta Glasgow”.

Il consorzio ha anche precisato che collaborerà con IKEA, il produttore svedese di arredamenti, per realizzare case sperimentali standard in una parte dell’intervento. Anche la Royal Strathclyde Blindcraft Industries fornirà il 20% dei componenti del complesso, prodotti industrialmente altrove.

Il progetto, secondo le linee stabilite dal Consiglio municipale, deve essere un piano di realizzazione con priorità all’acquisto da parte di chi è in cerca di prima casa, e lavoratori nei settori chiave dei servizi. Altri importanti elementi del contratto fissati dall’amministrazione sono che il consorzio vincente dovrà collaborare con la Drumchapel Opportunities, agenzia di sviluppo locale, per gestire un processo di formazione e garantire posti di lavoro agli abitanti.

Il consorzio è andato anche oltre, impegnandosi a lavorare con l’impresa locale Blindcraft, creando altri 40 posti di formazione-lavoro e istituendo una propria agenzia di collocamento collegata alla Drumchapel Opportunities per dare lavoro sia nei cantieri che nei servizi di mensa istituiti per i lavoratori.

New City Vision ha dichiarato che una volta portato a termine il progetto, sarà messo a disposizione un fondo comune di un milione di sterline per contribuire alla manutenzione da parte degli abitanti.

Il consigliere Hanzala Malik, responsabile del Development and Regeneration Services Committee, ha dichiarato: “Questo programma di rigenerazione cambierà radicalmente l’aspetto di Drumchapel portando vantaggi economici e sociali alla comunità locale. Offrirà anche alle famiglie un’occasione per un salto qualitativo in termini di abitazione, con un’offerta che va dalle case economiche a quelle per il ceto medio superiore.

“Il Consiglio ha stabilito che l’impresa costruttrice prescelta deve creare posti di lavoro locali e formazione professionale. Siamo lieti di annunciare che la cosa durerà sia nel periodo di cinque anni della costruzione, che in un programma successivo”.

Le linee del Consiglio hanno espressamente richiesto che i progetti rappresentino un caso eccezionale di qualità, con ampia scelta di tipologie, ad assicurare a Glasgow un suburbio attraente, desiderabile e sostenibile. […]

Nota: è sorprendente - fatti i necessari aggiornamenti - la stretta analogia fra la proposta BoKlok, e il suburbio preconfezionato anni '50 alla Levittown; estratti e traduzioni dal sito BoKlok sono miei (f.b.)

Titolo originale: Change on the high street – Traduzione per Eddyburg Mall di Fabrizio Bottini

Lo Office of Fair Trading [autorità per la libera concorrenza] ha fatto benissimo ieri a raccomandare una nuova indagine sul potere di mercato dei supermercati britannici, anche se essi sono stati analizzati solo nel 2000. Sono successe tante cose da allora – come la marcia inarrestabile di Tesco e l’esplosione dei negozi di beni di prima necessità posseduti dalle grandi catene nei centri città – che una nuova inchiesta era più che necessaria da tempo. Anche l’atteggiamento della politica rispetto al mondo commerciale si è modificato, il che appare dal fatto che sia i Liberaldemocratici che i Conservatori hanno accolto con favore la decisione: i Tories hanno richiesto addirittura una indagine più approfondita sul futuro delle high streets, auspicio ripreso dalla New Economics Foundation che descrive i negozi di quartiere come “il collante sociale delle nostre comunità”.

Secondo lo OFT, il settore dei beni di prima necessità è cresciuto del 31% negli ultimi cinque anni (contro il 24% del commercio alimentare in genere) con i quattro giganti – ma principalmente Tesco e Sainsbury's – che hanno spinto i propri punti vendita a un’esplosione da 54 a 1.306. I supermercati ne escono molto bene. Lo OFT ha rilevato che c’è stato un significativo incremento nella varietà di prodotti venduti (il che non ha impedito che godessero di un boom i piccoli negozi di cibi naturali). Più in particolare, è emerso che i prezzi, al netto dell’inflazione, sono diminuiti del 7,3% negli ultimi cinque anni, a prima vista quindi nessun segno di abuso di monopolio. Ma questa è solo una parte della cosa, perché i supermercati sono accusati di price flexing (prezzi più alti dove la concorrenza è più debole) e vendite sottocosto per acquisire quote di mercato. Le imprese locali, che già trovano impossibile concorrere col sistema globale di approvvigionamento di entità come Tesco, non meritano di subire anche questi tagli di prezzo predatori. Lo OFT ritiene anche che il sistema di pianificazione urbanistica agisca contro i nuovi ingressi nel settore e che i grandi supermercati con le loro scorte di terreni rendano difficile l’insediamento a nuovi soggetti. I supermercati rispondono che le proprie scorte di terreni sono vaste solo perché i pubblici poteri non li lasciano crescere.

Cosa succederà ora? Il governo deve accogliere queste raccomandazioni, ma ampliare il campo. I supermercati non sono solo negozi alimentari, vendono un ventaglio sempre più ampio di prodotti di consumo, elettronici, farmaceutici, servizi finanziari, giornali, che stanno colpendo la vitalità di altri negozi delle vie commerciali. I poveri sono i soggetti colpiti più duramente, dato che non possiedono automobili per raggiungere i nuovi superstores. La questione centrale è se gli indubbi benefici e popolarità dei superstores siano superati dai gravi effetti che essi hanno su modi di vita che, una volta persi, saranno persi per sempre.

Nota: su queste pagine, anche estratti dal citato rapporto del New Economics Forum sulla "morte della diversità" e le Città-Clone, indotti dai monopoli della grande distribuzione in Gran Bretagna (f.b.)

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Titolo originale: Corporate Retailers and the American Ghetto: How Starbucks May Help Save South Central – Traduzione per Eddyburg Mall di Fabrizio Bottini

La recente apertura di uno Starbucks nel famigerato quartiere suburbano di Compton a Los Angeles può offrire agli abitanti moto più di un caffèlatte a tre dollari. Si tratta, naturalmente, di un altro esempio della tendenza che dura da un decennio, di rivolgersi da parte delle grandi catene commerciali americane ai “mercati urbani” delle minoranze più povere. Ma questo progetto, una joint venture con l’ambiziosa Johnson Development Corporation di Magic Johnson, può anche rappresentare la traccia per un modo completamente nuovo di pensare la rivitalizzazione della inner-city: un metodo che pone l’accento sull’aspetto civico tanto quanto usa percorsi più tradizionali di rivitalizzazione, come lo sviluppo economico.

Storia economica recente

Sin dagli anni ‘60, i decisori attenti ai gravi problemi degli afroamericani e alte minoranze hanno cercato di estendere sia le occasioni di lavoro che quelle di nei ghetti urbani. Ma, quattro decenni di iniziative benintenzionate per l’occupazione, a livello federale e locale, non sono riuscite a rallentare il declino della disponibilità di posti di lavoro dignitosi nei quartieri popolari.

A South Los Angeles, tradizionale zona della popolazione nera di L.A., questo declino è particolarmente evidente con la scomparsa di migliaia di posti di lavoro regolari nell’industria siderurgica e automobilistica nella regione. Se la base manifatturiera a South L.A. continua a crescere, non lo fa in modi che sappiano portare ad una rinascita economica regionale. Ben oltre la metà degli occupati nel settore manifatturiero dell’area lavora in imprese nel settore tessile e abbigliamento, posti non sindacalizzati e a bassi salari, e altre migliaia faticano negli impianti del settore alimentare. Molto peggio del livello inferiore dei lavori, la loro scarsità: il tasso di disoccupazione fra gli afroamericani ora è circa il doppio degli altri lavoratori, e molto più alto fra i giovani neri.

Sino a tempi recenti, le cose non andavano molto meglio per i consumatori della inner-city. Qui il commercio ha iniziato a declinare in tutta l’America negli anni ‘50, quando la dipartita dei bianchi e la decadenza urbana resero instabile il mercato. A Los Angeles, gli anni ’60 sono caratterizzati da violente rivolte, che spaventano molti dei commercianti bianchi rimasti. Quelli che resistevano tendevano a caricare il rischio di lavorare nel ghetto sui clienti, che non avevano la possibilità di far compere altrove. Questo problema colpì in modo particolarmente duro gli abitanti senza automobile, visto che Los Angeles storicamente offre poco trasporto pubblico per aumentare le occasioni di shopping nella periferia.

Non sorprende allora che gli abitanti di Watts, una delle comunità più difficili di South L.A., abbiano sempre lamentato l’inadeguatezza della scelta di consumi per tutta la zona. Né sorprende che furono i piccoli commercianti i bersagli principali delle distruzioni, sia nella rivolta del 1965 che in quella del 1992. Ma la situazione potrebbe cambiare, per gli abitanti di South L.A. e alte comunità di minoranze povere in tutto il paese. Un nuovo modello di intervento ha iniziato a modificare il modo in cui imprese, urbanisti e amministrazioni si avvicinano alla inner city. Una trasformazione necessaria da tempo, che ha il potenziale per modificare definitivamente il significato della parola “ ghetto”.

Uno sguardo alla Inner City

A partire dalla metà degli anni ‘90, le grandi catene di distribuzione hanno rivolto la propria attenzione alla “ultima frontiera commerciale”, il ghetto americano. Si trattava di un buon affare: secondo un “prudente” calcolo del 1998 effettuato dal Boston Consulting Group e della Initiative for a Competitive Inner City, queste inner cities rappresentano oltre 85 miliardi di dollari di potere d’acquisto annuo: l’equivalente di quello totale nazionale del Messico. Gli operatori sono stati incoraggiati dalla diminuzione generale della criminalità e dall’aumento di attrattiva delle città per le famiglie agiate, i gay, i frequentatori regolari. Tutti i giorni, Target, Home Depot, Wal-Mart, e dozzine di piccoli operatori iniziano a infiltrarsi negli storici ghetti neri.

Egualmente importante per questi quartieri nell’attirare le grandi catene verso la inner city è stata la fenomenale crescita e avanzamento economico della popolazione latina. Riflettendo una tendenza nazionale, la famosa “comunità nera” di South Central Los Angeles ora è per oltre il 55% latinoamericana. Cresce la popolazione latina e cresce anche il suo potere d’acquisto: una recente stima nazionale ha calcolato questo mercato per una valore di 400 miliardi di dollari. Nella California meridionale, questo potere d’acquisto si è reso evidente nel mercato della casa, dove la proprietà da parte di latini è lievitata di oltre il 50% nell’ultimo decennio.

Il marketing delle imprese si è messo sulla lunghezza d’onda di questa nuova demografia della inner-city: nel 1998, Target ha lanciato una rivista per la popolazione latina, Familia, inviata per posta a oltre 750.000 nuclei familiari latinoamericani in California. Un recente spot pubblicitario televisivo di Wal-Mart presenta una giovane donna afroamericana assunta da poco dal gigante commerciale, e che emozionata esprime la propria gratitudine.

L’ingresso delle grandi catene nel mercato della inner city, ad ogni modo, non è stato senza contrasti. In tutto il paese le minoranze – in particolare gli afroamericani – hanno protestato per quanto vedono come “colonialismo da ghetto”: grossi complessi che sviscerano i caratteri dei quartieri, sfruttano la povertà locale, sostituiscono all’assenza di lavoro cattivi lavori, colpiscono il sindacato, aggirano le tutele ambientali, aumentano la congestione da traffico. Dal South Side di Chicago all’est di Oakland, gli abitanti hanno sfilato, fatto picchetti, inviato petizioni ai consigli municipali per tenere lontano il commercio “big-box”.

Una discussione recente a Inglewood, suburbio prevalentemente di minoranze a sud di Los Angeles, esemplifica queste tensioni. Nell’aprile 2004, Wal-Mart ha speso 1 milione di dollari per una campagna a convincere gli elettori a sostenere una delibera cittadina favorevole a uno dei propri Super Centers (dimensioni: 17 campi da football) per aprirlo senza valutazione di impatto ambientale, studi sul traffico, assemblee pubbliche. Il referendum ha confermato la diffidenza di molti residenti, che clamorosamente lo hanno respinto dopo settimane di arroventate proteste. “Devono venire qui entrando dalla porta principale, alla luce del giorno” ha detto la consigliera di Inglewood Judy Dunlap, “non sgattaiolare dal retro di notte”.

La speranza in California meridionale

La sconfitta a Inglewood di Wal-Mart, comunque, non deve irrigidire decisori, urbanisti, attivisti sulle prospettive di investimenti di impresa nel ghetto. Come rivela il caso di Starbucks, alcuni investimenti possono rappresentare un ottimo affare sia per le compagnie che per gli abitanti.

Il nuovo Starbucks di Compton è una delle quasi settanta “ Urban Coffee Opportunities” (o UCO) aperte in tutto il paese dall’inizio della singolare collaborazione fra Starbucks e la Johnson Development Corporation nel 1998. oltre a fungere da attività anchor in zone commerciali difficili, la UCO offre disperatamente necessari posti di lavoro per giovani e disoccupati. E si offre qualcosa di più di un magro stipendio. A differenza di altre grosse compagnie, Starbucks fornisce copertura sanitaria completa anche ai dipendenti part-time. Insieme alla stock option dei nuovi dipendenti, il pacchetto previdenziale costituisce la base di una dignitosa, per quanto modesta, esistenza.

Due anni fa, ha aperto uno Starbucks in un nuovo centro commerciale da 60 milioni di dollari su 10 ettari chiamato Chesterfield Square, fra la Slauson e Western Street nel cuore di South Central. A circa un chilometro dal famigerato incrocio della Florence con Normandie Street, dove il camionista Reginald Denny fu brutalmente picchiato durante le rivolte del 1992, il nuovo centro commerciale offre anche un Home Depot, un Food 4 Less, e un punto vendita dei panini Subway. Il giorno dell’apertura, Starbucks ha ricevuto oltre duecento domande di assunzione: segno della grande richiesta di lavoro della zona.

Poco dopo l’inaugurazione del mall, Helen Wilkins, afroamericana da lungo tempo residente a South Central, ha detto a un giornalista del New York Times, “Ha davvero cambiato molto il quartiere. Da lavoro – molto lavoro – ai giovani, e li tiene lontani dalla strada”. Qualche tempo fa un sabato mattina neri e ispanici abitanti della zona di Chesterfield Square si sono affollati all’entrata di Home Depot, riempiendo i carrelli di attrezzi, ferramenta, piante in vaso. Significativamente, lo shopping potrebbe presto diventare uno dei pochi passatempi americani dove la razza non conta.

Ma vedere l’apertura della UCO Starbucks a Compton in soli termini economici significherebbe perdere molto del suo significato. Il coffee shop è importante anche per la semplice e non visibilissima ragione che è uno spazio sicuro, quasi pubblico, dove si può parlare. In California meridionale, la cronica carenza di spazi pubblici e l’uso eccessivo dei mezzi di locomozione privati ha lasciato la regione con una cittadinanza gravemente divisa e lontana. In alcune zone di Compton e più ampie aree di South Los Angeles, questo isolamento si unisce alla criminalità violenta. Qui, spazi verdi pubblici e strade sono il monopolio dei componenti delle bande che li considerano e difendono come “loro” territorio provato. Caffè e librerie sono una delle soluzioni a questo problema. Molto più di Wal-Mart o Target, il coffee shop – nei casi migliori – non è solo uno spazio per scambi di tipo commerciale, ma anche luogo dove si scambiano idee.

Tendenze nazionali

Gli abitanti sono sciamati volentieri verso i progetti della fondazione di Johnson, almeno in parte, perché li percepiscono come qualcosa che viene dall’interno della comunità, e la concreta presenza di Magic alle cerimonie del taglio del nastro lo riafferma ai potenziali clienti. Ma ci sono segni che gli afroamericani non abbiano bisogno dell’ imprimatur di celebrità nere, per accogliere i progetti delle imprese nelle proprie comunità. Chesterfield Square non è di proprietà nera, e nemmeno lo è l’impressionante complesso Harlem USA nell’omonimo quartiere, con un multisala nove schermi Magic Johnson, negozio di abbigliamento Old Navy, e parecchi altri punti vendita. Nè i consumatori neri sono interessati soltanto al commercio “pratico”, di beni esenziali per la casa. Nel 2003, le librerie Borders hanno aperto un nuovo negozio nel centro gravemente depresso di Detroit. Gli ottimi affari hanno sorpreso i gestori.

Dietro le quinte, ci sono anche organizzazioni che spingono per il tipo di investimento che ha reso di nuovo famoso Magic Johnson. Una delle più importanti è The Initiative for a Competitive Inner City (ICIC) di Boston, gruppo non-profit fondato dal professore della Harvard Business School Michael E. Porter. Porter e i suoi colleghi hanno condotto ricerche e sostenuto iniziative sull’investimento nella inner-city a livello nazionale sin dalla fondazione. Insoddisfatto dal persistere dell’ineguaglianza e dal fatto che “troppi nostri concittadini [non] godevano della ricchezza dell’America in quanto economia complessiva”, Porter ha fondato questa struttura per aprire un nuovo percorso nel 1994. “Senza una solida base economica” continua a predicare Porter dieci anni dopo” [non si può] avere una comunità sana e stabile”.

A San Francisco, Business for Social Responsibility (BSR), una associazione non-profit dedita a stimolare pratiche economiche etiche, lavora a portare sviluppo nelle comunità della inner-city dai primi anni ‘90. Matt Hirshland, direttore anziano per la comunicazione di BSR, è rincuorato da quanto vede nelle attività di Starbucks e Borders. Queste iniziative sono riuscite, premette, “perché fanno sentire agli abitanti di partecipare davvero all’attività”. È un investimento comune presente nel suo lavoro: “Aiutiamo le attività ad essere responsabili rispetto alle domande, ai valori, all’ambiente delle comunità dove operano”.

Forse è troppo presto per chiamare questi interventi “il futuro”, e non è per niente sicuro che gli investimenti nel ghetto saranno al centro della città americana a venire. Ma una cosa sembra chiara: Starbucks sta facendo di più per South Central di quanto chiunque si aspettasse. Oltre a portare attività commerciale in posti troppo a lungo abbandonati o sfruttati, questi interventi possono aiutare a porre fine alla sensazione debilitante di isolamento politico, sociale, economico, che ancora minaccia la vita del ghetto.

Nota: un ruolo analogo, della struttura commerciale privata con un funzioni fortemente "pubbliche" per lo sviluppo sociale e urbanistico dei quartieri con problemi anche gravissimi, è quello che ho riassunto su Eddyburg nel caso di Soweto (f.b.)

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Titolo originale: Housing above retail . Creating incentives for the replacement of single-story retail sites with mixed-use projects – Traduzione di Fabrizio Bottini

L’occasione

C’è l’occasione per realizzare una città più pedonale, accessibile, diversificata, a buon mercato, sostituendo agli spazi commerciali sottoutilizzati sparsi per tutti quartieri di San Francisco, complessi a funzioni miste ben concepiti, che uniscano commercio rivolto agli abitanti con residenza ai piani superiori.

In totale, i grandi spazi commerciali sottoutilizzati coprono quasi 40 ettari di terreni: in una città dove i terreni adatti a nuova residenza sono sempre più scarsi questa è una enorme occasione. Con un inserimento di abitazioni relativamente modesto (diciamo 100 alloggi ettaro) a livello cittadino si potrebbero realizzare sino a 4.500 nuove unità.

Questi spazi, che comprendono grossi supermercati alimentari, filiali di banche, fasce a negozi, e altri grossi complessi, sono caratteristici del periodo fra 20 e 50 anni fa, realizzati secondo il modello suburbano: vaste superfici per i parcheggi a livello attorno ad un edificio commerciale a un piano. Questi insediamenti occupano le nostre poche risorse di terreni, e alcuni sono brutti a vedersi, o posti poco sicuri, e ospitano vagabondi, soprattutto nei parcheggi. Se realizzato con attenzione, il riuso di questi siti può trasformarsi in un miglioramento dei quartieri, e in migliaia di nuove abitazioni, urgentemente necessarie.

Al momento, esistono numerosi ostacoli alle realizzazioni mixed-use a San Francisco, che rendono dubbiosi proprietari e commercianti. Questo documento prende in considerazione sia il punto di vista dei quartieri che quello dei commercianti sui riuso degli spazi, esamina le difficoltà, e propone alcuni incentivi che possano incoraggiare gli operatori a spostarsi verso formati più tradizionalmente urbani. Sono idee che possono essere immediatamente inserite nei piani di quartiere, e diventare specificazioni delle norme urbanistiche [ zoning overlay] per tutte le aree simili della città. Ci concentriamo qui sui negozi alimentari, ma le norme potrebbero applicarsi anche ad altri usi monopiano, come le sedi di filiali di banche.

Le possibilità per i quartieri

Il riuso attento di uno spazio commerciale obsoleto può trasformarsi in notevoli benefici per il quartiere circostante. Un nuovo insediamento a funzioni miste può aggiungere identità spaziale. Diventa possibile:

• Migliorare l’ambiente stradale allargando i marciapiedi, aumentando l’illuminazione, costruendo nuove piazze, piantando alberature, mettendo panchine all’aperto

• Attenuare i problemi del rumore tanto comuni attorno alle grandi superfici a parcheggio

• Aggiungere nuovi spazi aperti pubblici e visuali

• Realizzare strutture architettonicamente attraenti al posto degli scatoloni commerciali di tipo suburbano

• Ampliare le possibilità di scelta commerciale locali offrendo più spazi ai negozi

Dal punto di vista dei componenti la comunità, le proposte di nuove funzioni miste a densità superiore possono suscitare preoccupazioni riguardo alla qualità e dimensioni del progetto, degli impatti sul traffico e i parcheggi. La sfida è quella di individuare linee coerenti di progettazione e urbanistiche per rispondere a questi timori e assicurare che questo tipo di riuso degli spazi sia di beneficio per le comunità locali. Gli abitanti dei quartieri sono spesso diffidenti rispetto ai nuovi insediamenti, ma avere più negozi e di migliore qualità rappresenta un beneficio per la zona.

Le possibilità per i negozianti

I commercianti hanno le idee molto chiare su cosa funziona e cosa no, nella progettazione dei loro negozi. La complessità dei progetti mixed-use con abitazioni sopra gli spazi commerciali rende la realizzazione di un piano adatto sia al commercio, che alla residenza, che al quartiere una sfida: difficile, ma possibile.

Se l’obiettivo è di convincere i negozianti a costruire case, vanno compresi nella loro importanza gli ostacoli. In alcuni casi l’amministrazione municipale può aiutare i commercianti a superare l’ostacolo, in altri dobbiamo semplicemente riconoscere che ci dovranno essere forti incentivi per convincerli a spostarsi verso formati in cui non si trovano a proprio agio, attraverso:

• Controllare superfici ed edificazione significa entrare nella rete complessa di esercizi e affitti, i tempi di un progetto necessitano un coordinamento fra molti operatori, il che non sempre risulta fattibile. In modo simile, la proprietà di terreni e immobili in uno shopping center può essere frazionata, fra proprietari diversi che hanno diverse motivazioni, che possono richiedere ampio coordinamento e aggiustamenti.

• Alcuni proprietari possono non essere interessati all’investimento, ai rischi, oppure semplicemente percepire problemi in relazione ai progetti mixed-use, e possono non desiderare di vendere la proprietà a chi invece è interessato. Se c’è un negozio di successo nella loro proprietà, magari non risultano interessati a vendere o a cambiare.

• Alcune delle caratteristiche progettuali importanti per il commercio sono diverse da quanto considerato importante per la progettazione urbana. Per esempio, i commercianti di solito vogliono grandi dimensioni per i negozi, una buona visibilità, insegne evidenti, parcheggi ampi e visibili, una buona circolazione e un ambiente commerciale sicuro e accogliente.

• Dato che moltissime persone fanno gli acquisti alimentari in grandi quantità e usano l’auto per trasportare la spesa, la maggior parte dei commercianti rileva che un parcheggio facile è elemento di grossa attrazione per i clienti. Una delle tecniche promozionali utilizzate nei classici formati commerciali suburbani – il negozio alle spalle del parcheggio – serve a “pubblicizzare” la disponibilità di parcheggio ai potenziali clienti. La maggior parte del commercio alimentare, tende a innervosirsi molto facilmente all’idea di “nascondere” i parcheggi in un garage.

• Un esercizio di successo è riluttante a chiudere per il lungo periodo necessario a creare un complesso mixed-use perché il commerciante così perde in vendite, profitti, e rischia che il cliente si sposti in modo definitivo verso un altro esercizio.

• I costi di costruzione per i commercianti impegnati in una trasformazione verso il mixed-use sono elevati. Ciò significa che il costruttore dovrà chiedere in prestito più denaro e assumersi maggiori rischi. Lo farà solo se ci sono probabilità di profitti più alti di quanto accada rimanendo solo un esercizio alimentare. Pianta e planimetria nei progetti mixed-use sono rese complesse dalle necessità edilizie e di circolazione.

• Si possono verificare conflitti fra le funzioni di residenza e commercio, come i clienti che parcheggiano negli spazi per gli abitanti, o rumori o odori (in particolare per le consegne mattutine e la rimozione dei rifiuti). Questi e altri problemi connessi probabilmente preoccupano i promotori riguardo alla gestione dei complessi, e i commercianti per le questioni legali.

La maggior parte dei costruttori sono specializzati o in residenza, o in commercio. Molto pochi sanno come si gestiscono entrambe le funzioni. L’amministrazione cittadina deve trovare modi per indurre proprietari e commercianti a trasformare i propri spazi con abitazioni al di sopra dei negozi (o a costruire i nuovi negozi in questo modo), anche nonostante questi ostacoli. Dobbiamo rendere l’occasione tanto attraente da far loro desiderare di adottare nuovi formati, architettonici e commerciali.

Le pratiche del commercio nelle città stanno cambiando, e i progetti mixed-use possono rappresentare una strategia attraente per il grande commercio, specie alimentare. I negozi possono avere ciò di cui hanno bisogno – visibilità, parcheggi, sicurezza – e le comunità locali ottenere una migliore progettazione urbana e servizi commerciali per il quartiere.

Una buona progettazione urbana

Perché qualunque di questi aspetti possa svilupparsi, è fondamentale che gli aspetti architettonici e urbanistici vengano affrontati in modo corretto. Oltre a introdurre la residenza ai piani superiori, i nuovi interventi dovranno offrire parcheggi sotterranei (o comunque fuori vista) e spazi pubblici – come marciapiedi più larghi o piazze – oltre alle attività commerciali a livello strada. Questi spazi rivitalizzati dovrebbero essere altamente pedonalizzati, con un sistema commerciale molto inserito nel contesto. Nel caso ideale, il rinnovamento insieme all’incremento dell’attività commerciale che innesca dovrebbe incoraggiare interventi di rivitalizzazione delle vie commerciali adiacenti.

Le sfide maggiori per la progettazione urbana sono quelle che riguardano i grandi spazi. Per rendere operante questo formato mixed-use, sono necessarie altezze di almeno 15 metri. Allo stesso tempo, i negozi alimentari devono avere una pianta spaziosa per poter contenere spazio per le merci. (vedi Appendice I sulle linee guida progettuali per il mixed-use che propone alcuni spunti sull’argomento).

Modelli

Nelle città di tutta la costa occidentale – soprattutto a Portland, Seattle, e Vancouver – i grandi operatori commerciali si associano alle municipalità per ristrutturare spazi attraverso miscele di funzioni più complesse e attive, comprese notevoli quantità di residenza. Recentemente, San Francisco ha iniziato a trarre vantaggio dalle occasioni che questi siti offrono. Per esempio, il progetto Petrini Place all’angolo Fulton e Masonic comprende un supermercato Albertsons, parecchi altri negozi, e 135 alloggi in condominio a prezzi moderati. Tra poco saranno iniziati altri due interventi: residenze sopra a Faletti’s Market tra Fell e Baker, e altre case sopra un negozio alimentare al 450 di Rhode Island.

Questioni urbanistiche

Le attuali norme di zoning di San Francisco in generale non incoraggiano il riuso a funzioni miste su questi spazi. Ad esempio:

• Eccetto in luoghi a forte pendenza come Petrini Place , il limite dei 12 metri che prevale nelle zone commerciali di quartiere esterne al centro è troppo basso per poter contenere un ampio pianterreno commerciale con soffitto alto, e i tre piani residenziali in genere necessari a rendere economico un progetto.

• I limiti alle densità residenziali creano ostacoli inutili al numero di alloggi realizzabile, indipendentemente dai caratteri specifici del quartiere.

• Le norme urbanistiche per i progetti mixed-use significano incremento dei tempi, dei costi, delle incertezze nel riuso degli spazi. Allo stesso tempo, non abbiamo linee guida per il progetto che possano orientare architetti, urbanisti, cittadini rispetto ai caratteri che consentano agli interventi di migliorare i quartieri, oltre ad aumentare l’offerta di case.

Come risposta a tali difficoltà e alle preoccupazioni dei cittadini, la Housing Action Coalition e SPUR hanno tenuto delle charettes il 23 luglio 2003 e il 10 febbraio 2004 con architetti, costruttori, commercianti, urbanisti, funzionari comunali e altri per esaminare i problemi e proporre soluzioni che incoraggino i proprietari a prendere in considerazione l’intervento sui propri immobili, e rendano desiderabili e auspicabili per i vicini i vari progetti. Proponiamo che vengano sviluppate nuove norme di zoning e linee guida progettuali mirate a creare incentivi per proprietari e affittuari, a creare spazi mixed-use ben concepiti, in modo tale che quando si interviene sui siti per il rinnovo non vada persa l’occasione di creare nuove case (per maggior dettagli sulle proposte di nuove norme di zoning vedi Appendice II).

La nostra proposta

Abbiamo tentato di riflettere su una buona progettazione urbana, i caratteri dei quartieri, cosa potrebbe indurre i negozianti a spostarsi verso un formato mixed-use. Quelle che seguono sono le modifiche richieste alle norme urbanistiche e di zoning, per incoraggiare residenza sopra commercio. Le nuove norme e linee guida progettuali si applicano a qualunque spazio commerciale di grandi dimensioni (2.000 mq e oltre) nelle attuali zone omogenee Neighborhood Commercial (NC) – con l’eccezione di quelle classificate NC-1 - quando:

• il sito ospita un edificio commerciale a un solo piano (o è vuoto) e il proprietario propone un incremento del 20% o superiore di superficie commerciale

• il proprietario volontariamente sceglie di promuovere un progetto mixed-use con almeno due metri quadrati di residenza per ogni metro di commercio.

Se una proposta comprende residenza in un rapporto di 2:1 (residenza/commercio), suggeriamo i seguenti incentivi e modifiche alle norme urbanistiche esistenti:

• Aumentare di 3 metri l’altezza massima consentita nelle zone col massimo di 12 metri, se necessario a contenere un pianterreno a soffitti alti e tre piani residenziali al di sopra. Le funzioni di grande commercio abitualmente necessitano di uno spazio di 6 metri floor-to-floor al pianterreno. I tre livelli di residenza (tre metri ciascuno) sono necessari a rendere un progetto fattibile ed economico.

• Utilizzare le norme di controllo masse ed altezze per conformare i contenitori anziché limitare il numero degli alloggi. Al costruttore deve essere concessa flessibilità riguardo a quanti alloggi siano necessari entro quegli spazi.

• Consentire in qualche modo più parcheggi rispetto alla norma, per i grandi negozi. Più parcheggi sono di grande vantaggio per i commercianti, anche se devono accoppiarsi ad una buona progettazione urbana. Suggeriamo anche la rimozione della dotazione minima, in modo tale che sia il mercato a determinare quanti spazi sono necessari in una certa posizione, rimuovendo l’obbligo degli accessi indipendenti e incoraggiando il car-sharing.

• Consentire una maggiore flessibilità per le insegne. Ad esempio, se oggi il negozio ha un marchio visibile da molte direzioni, consentire una visibilità equivalente o una moltiplicazione dell’insegna.

• Consentire l’approvazione dei progetti anche senza la clausola del conditional-use se si tratta di un esercizio alimentare, oppure se nessun altro negozio non alimentare supera i 500 mq e non si tratta di un ristorante fast-food. Senza la clausola del conditional-use, i nuovi progetti potranno evitare il lungo e costoso iter delle audizioni. Per tutte le altre tipologie di commercio a grande superficie e i ristoranti fast-food restano invariate le norme esistenti.

• Emanare nuove norme sugli spazi aperti pubblici (interni o esterni al complesso). Oltre agli spazi aperti privati delle residenze ne devono essere realizzati anche entro o attorno ai complessi commerciali, sotto forma di interventi sull’ambiente stradale, spazi di sosta con posti a sedere, aree per il tempo libero. Un’altra possibilità per gli spazi esterni potrebbe essere il versamento di una cifra equivalente al costo stimato di acquisizione, allestimento e manutenzione di spazi, previsti nei pressi dell’intervento.

• Sviluppo di linee guida progettuali mixed-use per assicurare che gli interventi di maggiori dimensioni rappresentino un contributo positivo alla strada. Attualmente il Planning Department è dotato di linee guida per gli interventi residenziali, ma non per il mixed-use.

Se il progetto proposto non comprende una componente residenziale, e si tratta semplicemente dell’ampliamento di funzioni non residenziali esistenti (o di nuove costruzioni monofunzionali non residenziali) si applicano le norme attuali di zoning: riteniamo tuttavia che a chi fa domanda per un intervento non residenziale si debba richiedere di provare che è stata esaminata in buona fede la possibilità di un progetto mixed-use e concluso che tale progetto non è architettonicamente e/o economicamente fattibile. Questa dimostrazione non deve richiedere alla proprietà di fornire alcuna informazione finanziaria.

Sollecitiamo queste modifiche alle norme di zoning e la loro adozione da parte della Planning Commission e Board of Supervisors , insieme a linee guida obbligatorie per il mixed-use da utilizzarsi nell’iter di approvazione dei progetti. Perché queste modifiche urbanistiche possano applicarsi efficacemente in tutta la città, si deve aver cura di mantenere e sottolineare caratteri e rapporti spaziali delle zone circostanti. Le modifiche allo zoning devono accompagnarsi anche alla possibilità di intervento da parte di costruttori e cittadini, ad assicurare che i progetti aggiungano valore, sia da punto di vista dei promotori che del quartiere, e che il medesimo processo venga incoraggiato anche in altri casi.

È importante che i progetti mixed-use siano ben progettati. Una parte di ciò riguarda lo sviluppo delle linee guida. Un’altra parte è il contributo costruttivo dei quartieri.

Conclusioni

Le grandi città del mondo, compresa San Francisco, hanno fatto un attento uso del proprio spazio sovrapponendo le varie funzioni. Se esistono già piccoli e grandi esempi di magnifici progetti mixed-use in città, è nostra intenzione con questo documento incentivare le eccezioni (il commercio isolato su un solo piano) a spostarsi verso questo schema tradizionale. È tempo che queste eccezioni si allineino con la pratica consolidata dal tempo di costruire la città collocando le abitazioni sopra i negozi.

[Questo documento è stato redatto dallo Housing Committee dello SPUR: Martin Gellen e George Williams, co-presidenti; Kate White, direttore esecutivo della Housing Action Coalition,e principale autrice. Il documento è stato studiato, discusso e modificato dall’intero gruppo dello SPUR Board, e adottato come linea ufficiale dal 18 febbraio 2004]. here English version

APPENDICE 1: LINEE GUIDA PER LA PROGETTAZIONE DI SPAZI MIXED-USE

Allo scopo di assicurare una buona progettazione, il Planning Department deve sviluppare una serie di linee guida specifiche e diverse da quelle per le sole funzioni residenziali già disponibili. Le abitazioni sovrapposte al commercio pongono sfide particolari. Proponiamo alcune soluzione: altre devono ancora essere individuate. Di seguito, le nostre indicazioni per queste nuove linee guida mixed-use:

Inserimento. Gli spazi aperti comuni residenziali devono essere collocati lungo il previsto affaccio posteriore del complesso. Proponiamo nuove norme per spazi aperti nella zona commerciale, accessibili dal quartiere.

Altezze, masse e distribuzione. Per i progetti nelle zone omogenee con altezza massima 12 metri, il piano superiore adiacente a aree residenziali con edifici bassi dovrà essere arretrato, a garantire una transizione graduale.

Fronti commerciali. Il commercio, in genere, sarà al limite del lotto. I parcheggi saranno sviluppati lungo le vie commerciali, evitando pareti cieche più lunghe di 25 metri. Aggiungere ai punti vendita più grossi dei negozi minori “appesi” all’esterno, o aprire i negozi alla strada con vetrine e attività all’esterno come chioschi per la frutta o i fiori, può migliorare l’ambiente pedonale.

Fronti residenziali. Si devono incoraggiare ingressi multipli alle abitazioni, ad esempio le townhouses, per rendere più attiva la strada.

Ambiente stradale. Lo spazio pubblico circostante gli interventi deve comprendere elementi quali piazze, alberature, spazi di sosta con possibilità di sedersi, caffè all’aperto, un’illuminazione migliore, marciapiedi più ampi.

Materiali. I materiali costruttivi devono essere compatibili con quelli delle zone circostanti residenziali, commercio e residenza devono integrarsi in senso verticale, e l’organizzazione generale dell’edificio deve corrispondere ai rapporti dimensionali del quartiere.

Parcheggi – Carico-scarico. I parcheggi devono essere interrati, o avvolgenti rispetto ad altri spazi, l’ingresso al garage della funzione commerciale deve essere libero, le ribalte di carico recintate, le interruzioni del bordo stradale limitate, i posti a parcheggio possono essere condivisi fra clientela e residenti.

Insegne. Le insegne devono essere di dimensioni e quantità limitate ma offrire una chiara individuazione dei negozi.

APPENDICE II: PROPOSTA DI NORME URBANISTICHE PER MIXED-USE SU GRANDE DISTRIBUZIONE

Per spazi di superficie superiore ai 2.000 mq nelle zone omogenee NC (eccetto le NC-1) e proposte di aggiunta del 20% di nuovo commercio, o consistenti quantità di nuove abitazioni.


Controllo

Attuali zone NC-S Attuali zone NC-3 Norma proposta
Rapporto di superficie minimo Residenza/Commercio No No 2:1 (normalmente ciò significa tre piani residenziali sopra un livello commerciale). Il rapporto minimo residenza/commercio assicura che gli incentivi per questa composizione funzionale si rendano disponibili solo per i progetti mixed-use, non per quelli solo commerciali o a uffici.
Altezza 12 m. 12-25 m. Dove attualmente sono consentiti 12 metri, elevare a 15 se necessario a realizzare un livello terreno a soffitto alto. Dove attualmente sono consentiti 15-25 metri, aumentare a 27. La grande distribuzione commerciale in genere necessita di circa 6 metri floor-to-floor al pianterreno. Sono neccessari tre piani a residenza ( 3 metri ciascuno) per rendere i progetti attraenti ed economici. È possibile realizzare una edificazione di “Tipo III Modificato” (quattro piani di residenza su uno commerciale) sino a un’altezza di 20 metri; fabbricati economici in cemento possono essere elevati sino a 27 metri.
Densità residenziale 1:70 mq. di superficie del lotto; 1:55 mq. nelle zone a norme speciali 1:55 mq. di superficie del lotto; 1:35 mq. nelle zone a norme speciali Nessun limite. Entro i limiti di massa e altezza, al costruttore deve essere garantita la flessibilità per realizzare quante abitazioni desidera.
Spazi sul retro No 25% ai piani residenziali Nessuno. Sostituire il 75% massimo di copertura ai livelli residenziali e applicare le linee guida mixed-use per adeguare il sistema dell’isolato ai requisiti dia ria e luce. Ciò consente di ottenere almeno un 25% di cortile, coerente alle norme attuali per le zone NC senza prescrivere dove questo spazio debba essere collocato.
Spazi aperti residenziali 9 mq. privati/ 12 mq. comuni 7,2 mq. privati/ 10 mq. comuni 5,5 mq. privati/7,2 mq. comuni. Una balconata o loggia di 5,5 mq (poco meno di 3x2) è sufficiente per sedersi.
Spazi aperti commerciali No No Un metro quadrato di spazio aperto pubblico accessibile per ogni 50 di nuova superficie commerciale. Lo spazio aperto di pertinenza del commercio può essere realizzato nell’ambito dell’intervento oppure attraverso la costruzione e gestione di varie migliorie all’ambiente stradale, con spazi di sosta e riposo, secondo le linee guida delle Norme Urbanistiche Sezione 138, oppure in alternativa attraverso il versamento di una somma equivalente al costo stimato di acquisto, costruzione, gestione di spazi aperti simili previsti nei pressi, entro un raggio di 400 metri e un periodo di 5 anni.
Parcheggi residenziali 1:1 1:1 Nessuna quota minima. Rapporto massimo di 1:1 (quote determinate dalla domanda specifica dell’area). Eliminare la richiesta di spazi ad accesso indipendente. I posti a parcheggio possono essere condivisi fra le funzioni residenziali e commerciali. Si deve incoraggiare il car-sharing.
Indice di fabbricabilità commerciale 1,8:1 3,6:1 1:1 se il limite di altezza è di 15 metri o inferiore. 1,8:1 se il limite è superiore ai 15 metri.
Piani a uso commerciale 2 Sino al limite di altezza Due a funzioni commerciali.
Parcheggi per gli usi commerciali Minimo 1:45 sino a 1.800 mq.; Minimo 1:23 oltre i 1.800 mq; nessun tetto massimo Minimo 1:45 sino a 1.800 mq.; Minimo 1:23 oltre i 1.800 mq; nessun tetto massimo Nessun minimo: limite massimo di 1:23 caso per caso. Applicare i criteri standard progettuali a evitare gli impatti dei parcheggi sulle strade. I parcheggi devono essere collocati sotto terra o incorporati nelle funzioni. Sono consentiti sino a 1:230 mq. di posti a sosta breve per i negozi alimentari oltre i 2.700 mq. sempre che vengano rispettate le linee guida progettuali.
[...] [...] [...] [...]

Nota: questa tabella riguarda solo le norme di zoning: le indicazioni progettuali e architettoniche possono essere trattate approfonditamente nelle linee guida per progetti mixed-use.

A chi serve il polo multifunzionale di Sestu?

di Antonietta Mazzette

(coordinatrice del Centro di Studi Urbani dell’Università di Sassari)

A chi serve un centro Multifunzionale che ha già costruito oltre 60.000 mq ma che - come rilevato dal sito web SARDINIA OUTLET VILLAGE (gruppo Policentro) -, punta ad avere ben altre superfici di struttura commerciale, Factory Outlet, hotel (2), parcheggi (posti auto 3.046), attività comprendenti Shopping Center, attività di Entertainment, attività di ristorazione, e ancora, di Ipermercato, Parco commerciale, e così via?

Serve ad una regione che, in termini di consumo, può essere paragonata, dato lo scarso peso demografico, ad un quartiere di Roma? Certo anche la Sardegna, come il resto del Paese, ha assunto il consumo come tessuto connettivo principale (in molti casi come unico) della produzione, del lavoro e della vita sociale. Consumo peraltro alimentato dalle nuove cattedrali quali quella in oggetto e tante altre ancora: la Sardegna si colloca ai primi posti tra le regioni italiane per superficie di vendita per abitante.

Serve a riqualificare il territorio? Ricordiamo che gli insediamenti commerciali sono stati collocati prevalentemente nei pressi delle grandi arterie stradali, sulla scia di altre esperienze (Milano, Genova, Torino, Firenze, Roma), per beneficiare dei flussi di traffico dall’hinterland verso i sistemi urbani (è il caso di Cagliari e Sassari) e nelle città a forte espansione turistica (come Olbia).

Serve alle imprese minori? Che difficilmente possono contrastare l’azione della grande distribuzione nel ruolo di attrazione principale, sia perché non c’è una tradizione di consorzi e associazionismo tra piccole imprese, ma soprattutto perché è pressoché impossibile adeguarsi alle formule commerciali affermate in campo internazionale e che stanno in un contesto fortemente competitivo, come nei casi delle multinazionali che rappresentano la spinta alla internazionalizzazione della distribuzione in Sardegna.

Serve per risolvere i problemi dell’occupazione? Problemi che l’Isola si trascina con crescente fatica? I sostenitori del polo commerciale utilizzano, anch’essi come molti hanno fatto in passato, la bandiera dell’occupazione, dimenticandosi però che, a fronte di qualche centinaio di occupati oggi, migliaia di persone in quei territori domani perderebbero sicuramente il loro posto di lavoro se si desse luogo per davvero all’apertura della CORTE DEL SOLE. Nome intrigante questo, forse perchè con esso si è voluto rinviare all’artificio della Corte del Re Sole, o chissà alla stessa Città del Sole di Campanella. Rinviando, in entrambi i casi, ad un’utopia nel nome e ad un’illusione di città nella pratica.

Serve ai comuni che gravitano nel sud della Sardegna? Comuni che cercano faticosamente di conservare tutte le loro qualità di insediamenti urbani, compresa quella del commercio. Naturalmente no, e gli amministratori di questi comuni lo sanno talmente bene che hanno unito le loro forze per protestare contro l’apertura del polo commerciale di Sestu.

Serve alla città di Cagliari? Che in questi ultimi anni sta tentando di riassegnare qualità e funzioni al suo patrimonio storico-culturale; di ridare un volto nuovo al suo centro storico; di attrarre visitatori, consumatori, turisti; attività economiche per lo più legate allo svago seguendo i dettati della “ golden age of entertaninment”? Sembrerebbe di no, anche perché un’illusione di città dell’acquisto finirebbe inevitabilmente per svuotare la città reale.

Noi sappiamo che l’assunzione del consumo come funzione centrale e la marginalizzazione della produzione materiale, sono le prime cause della crisi delle nostre città e del resto dell’Isola. Ma il decollo di un ulteriore polo commerciale alimenterebbe la crescita disordinata e le numerose fratture di cui è piena la Sardegna.

Non voglio entrare nel contenzioso formale tra la Regione e la società, ma, lo confesso, ho salutato con gioia il decreto di sospensione dei nuovi mega insediamenti commerciali che la giunta Soru aveva così coraggiosamente istituito all’indomani della sua vittoria elettorale. E ciò innanzitutto perché la Sardegna troppo spesso e altrettanto troppo rapidamente ha trasformato vaste superfici a ridosso delle aree urbane e metropolitane in Centri Commerciali Integrati, parodie delle città del consumo e del divertimento del Nord-America. Questa presenza massiccia è stata realizzata in poco tempo, a fronte di una popolazione a dir poco esigua e che appare destinata a non aumentare. E proprio per questo, ogni volta che si è messo su un centro commerciale, lo si è fatto in riferimento ai milioni di turisti che assocerebbero il caldo sole delle spiagge con l’ombra ad aria condizionata di questi centri. Non è un caso che anche stavolta i rappresentanti del polo commerciale si siano riferiti ai 3.500.000 turisti potenziali consumatori e clienti della mitica Corte del Sole, perché se l’avessero dovuta riferire ai residenti di quell’area avrebbero avuto ben poche ragioni per investirvi.

Tutti questi interrogativi ci danno come unica risposta che nessuno degli interessi sopra richiamati riguarda l’isola, anzi ognuno di essi rappresenterebbe un ulteriore elemento di impoverimento per la Sardegna perché le ricchezze prodotte andrebbero comunque altrove.

Soru sta facendo il suo mestiere, quello che le regole valgano per tutti e quello di rappresentare gli interessi dei sardi.

Modello culturale e contesto ambientale dell'Outlet

di Sandro Roggio

(Centro di Studi Urbani- Università di Sassari)

L’evoluzione delle tipologie dei grandi centri commerciali si relaziona ai modi recenti di espansione della città, quindi allo “sprawl”: il fenomeno dell’insediamento diffuso, “sdraiato”, che ne ha agevolato la crescita.

Qualunque sia il loro carattere, i grandi centri commerciali sono in antitesi alle città . Non hanno interesse a mettersi in continuità con il racconto urbanistico perché non traggono vantaggio dai sistemi urbani coesi. Sono altro dalla città perché è nei territori incerti, postmoderni, che allignano facilmente. Sono estranei alla città anche quando cercano di darsi un’immagine che richiama le piazze e le strade dei vecchi centri abitati (che le denominazioni – il borgo, il villaggio, il vialetto, il portico – enfatizzano con vezzeggiativi : un indizio su cui occorre riflettere ).

Se il modello si è diffuso con un ritmo intenso negli ultimi decenni, si deve alle strategie del commercio(e ai modi, sempre accuratamente osservati, con cui cambiano i consumatori). E all’uso abnorme dell’ automobile, il mezzo che ha consentito alla città di estendersi e frammentarsi assumendo forme dilatate, tentacolari.

La tendenza ben nota in America (le cui esemplari espansioni “sdraiate”, la coppia drugstore- autostrada, sono scenari di tantissimi telefilm), è arrivata in Europa.

Così anche in Italia i supernegozi hanno attecchito e specializzato il loro multiforme modo di essere ( tante le tipologie: mall, lifestyle, big-box, outlet) con diverse misure e strategie di dislocazione (di scala urbana, di quartiere, regionale e interregionale). Le norme statali e regionali e i piani delle amministrazioni locali ne hanno assecondato a lungo e acriticamente la diffusione per dare risposte tempestive alle richieste di modernizzazione.

Grave errore. Il commercio, intrecciandosi con la vita di tutti i giorni ha dato vita a luoghi che sono tra le invenzioni più suggestive dell’umanità: le piazze pensate per lo scambio di merci sono diventati luoghi per la socialità, per l’incontro di culture e esperienze diverse. Quando poi il commercio si è separato dalle altre funzioni urbane c’è stato uno scadimento progressivo della vita nei vecchi centri

Oggi si parla di saturazione del fenomeno e qualche osservatore ritiene che il loro gradimento da parte del pubblico stia diminuendo, ma come tutte le cose ben avviate e vantaggiose per il mercato sembra difficile intervenire per fermarne l’ascesa.

Le grandi strutture di vendita sono arrivate in Sardegna e ogni città grande o media ha dovuto farci i conti. Ora è la volta di Sestu. “La corte del sole” è un intervento di scala regionale di oltre 60.000 mq. di negozi e subito fa riflettere la sua dimensione a fronte di un piccolo bacino di utenti. I consumatori, la quota del popolo sardo acchiappabile, sarebbero poco più 800.000, suddivisi per “ fasce di avvicinamento” , ossia “isocrone” come fa sapere il gruppo PoliCentro. Un target neppure ricco come si sa, ma si fa conto da parte di chi lo realizza, sulle molte presenze di villeggianti nel sud dell’isola.

Questa impresa globale ( la società ha realizzato e sta realizzando cose simili oltre che in Italia, in Russia, in Croazia) contribuirà a depotenziare la vitalità non solo dei centri dell’hinterland cagliaritano ma di quelli dell’intera isola, intercettando i flussi turistici meno propensi a entrare in contatto con la Sardegna vera. Contribuirà, ma a questo siamo abituati e un po’ rassegnati, a omologare la Sardegna a quei luoghi che invece sarebbe meglio non prendere ad esempio.

Per questo l’iniziativa di Soru (per gli aspetti relativi alle autorizzazioni comunali) assume un valore simbolico che si collega alle altre iniziative sul governo del territorio. Una linea che va sostenuta, perché bisogna almeno provarci a governare la globalizzazione.

Non si capisce il consenso che da qualche parte arriva a “La corte del sole” che sarebbe fondato sui livelli occupazionali garantiti, dimenticando che nella migliore delle ipotesi per ogni nuovo addetto nella grande distribuzione se ne perdono tre della rete tradizionale. Si capisce ancora meno o nulla se, come sembra, la realizzazione di questa struttura è stata resa possibile dalla trovata di sommare tante piccole autorizzazioni per piccoli negozi che tutti insieme sono un negozio di sei ettari.

Nota: sullo stesso tema (con link ai materiali) un recente articolo di Nicola Pisu su Il Sardegna (f.b.)

La partita tra la Corte del Sole di Sestu e la Regione si sposta in Procura. Dopo i tavoli di viale Trento ora i documenti del blocco dell'apertura del mega centro commerciale sono stati consegnati da Renato Soru al procuratore Carlo Piana. La Policentro fa sapere di aver dato mandato a Luigi Concas di analizzare il caso. E, se dovesse ravvisare violazioni che sconfinano nel penale, di intentare una causa milionaria alla Regione. Dal tribunale al palazzo di via Roma il passo è breve. La guerra ha fatto rumore anche lì: il capogruppo dei Ds Siro Marrocu dice che «sarà presente all'inaugurazione di questa sera». Il suo collega Antonio Biancu preferisce disertare. La maggioranza di governo si spacca. In ballo ci sono grossi interessi. A questi elementi si aggiungono i 73 sindaci del Campidano capeggiati dal primo cittadino di Guspini Francesco Marras: «Siamo contrari all'apertura e solidali con il governatore». Un braccio di ferro sempre più aspro alla vigilia dell'apertura al pubblico. Soru non vuole sentirne parlare. Non esclude l'intervento della Forestale per bloccare l'evento.

IL PRESIDENTE della Giunta, è andato ieri mattina negli uffici al terzo piano di piazza Repubblica. Soru ha consegnato a Piana i documenti di annullamento delle licenze edilizie e delle concessioni rilasciate dal Comune di Sestu per la Città dellaModa.Non solo: anche il prefetto è stato informato sulla decisione dello stop dell'agglomerato commerciale. Dall'altra parte Antonio Sardu e Lino Iemi, amministratore delegato e presidente della Domus de Janas, continuano a rivendicare la legalità delle loro azioni e poi annunciano di aver affidato a Luigi Concas il mandato di verificare i provvedimenti di sospensione delle concessioni edilizie relative al colosso sulla ex 131.

Nota: per qualche informazione e materiali scaricabili sul progetto Corte del Sole, si veda questa pagina del sito della Policentro (f.b.)

Negli ultimi anni l’accentuazione e l’attenzione posta al ruolo sociale, di relazione che viene sempre più attribuito alle strutture commerciali è oramai un dato di fatto.

Dopo la sbornia di “macchine per vendere” fatta negli anni 80’, vi è stato un graduale e progressivo spostamento verso una visione più umanizzante dell’attività del vendere e del modo in cui è considerato il punto vendita tout court che, ci si è accorti, mette i consumatori in relazione tra loro, facendoli sentire, appunto, persone. Ciò in realtà non viene ricercato, è una “conditio sine qua non”, lo si vuole piuttosto conosciuto e controllato, gestibile e condotto per mano, da fili invisibili, in cui marketing emozionale, marketing relazionale, antropologia del consumo sono solo alcuni tra gli strumenti che insieme ad altri scrutano dentro di noi e fuori di noi per vedere cosa facciamo, cosa pensiamo, cosa desideriamo ma soprattutto come, cosa, quando e quanto consumiamo.

Mettere a proprio agio il consumatore riuscendo a dare familiarità allo spazio di vendita ha permesso di sviluppare approcci in cui l’effetto mercato, il negozio nel negozio, la confusione programmata e pianificata, l’individuazione di spazi che ricordano i “vuoti” delle città, sono tutti tentativi , anche ben riusciti in molti casi, in cui si è cercato di dare risposte al bisogno emergente di semplicità., di genuinità. Ripresi questi argomenti dalla pubblicità più attenta ne assaporiamo la visione costellata di un’aurea ecologica armonicamente inserita in un mondo felice e rilassato.

Architettonicamente si sono sviluppati concept idonei e in particolare nel mondo dei centri commerciali o delle tipologie a loro assimilabili si è sempre più tentato di imitare l’atmosfera, il clima del paese, del borgo, in cui tutti si è amici e in cui si vive felici . Lo spazio commerciale diventa un falso luogo pubblico che permette solo comportamenti codificati e predeterminati. Bisogna acquistare, ci si può sedere in panchine strategicamente posizionate e non per troppo tempo, si può girovagare a vuoto, meno lo si fa meglio è, un centro commerciale con mall, oppure open air o life style o new town center o altro potrà essere visitato difficilmente potrà essere vissuto.

I tentativi sono molteplici e diffusi oramai in tutto il mondo occidentalizzato, è il trionfo, sembra, di un modello di sviluppo, di uno stile di vita, di una socialità che si ritrova alla fine solo in ciò che è predefinito predeterminato preconfezionato e previsto. Si assiste in questo ultimo periodo al tentativo di dare “risposte” ai problemi del centro storico, sembra un’operazione tautologica, si pongono al centro storico domande, o gli si attribuiscono problemi, ai quali si riesce a dare risposte preconfezionate con un unico intento: rendere il centro storico simile al centro commerciale, carpendone però il fascino che solo la sua storia può esprimere. Un artifizio, una piroetta per avvalorare la superiorità di un mercato che sembra oramai in grado di sussumere tutto, fagocitare tutto e apparentemente, non sembra a corto di idee e di novità.

Commercio e cultura, dopo il sopraffare del primo rispetto il secondo, devono, pena il reciproco decadimento, ricomporsi ad un livello in cui uno favorisce lo sviluppo dell’altro.

Il soddisfacimento dei bisogni è un’attività sociale e come tale può essere strumento per favorire il progressivo distacco da quella mostruosa macchina che è il consumismo tout court.

Non è che per caso che il commercio abbia perso la sua vocazione, e assieme ad essa anche la propria anima? Ritrovare il filo conduttore della sua funzione e della sua storia non per nostalgiche e romantiche reminescenze che non porterebbero a nulla ma la capacità di coniugare la funzione propria dello scambio con le esigenze del mondo di oggi sono più individuabili tra i cercatori di sogni e gli inguaribili utopisti.

Il commercio può e deve rappresentare il nuovo che avanza, il desiderio di cambiamento, l’aspirazione a un nuovo ordine del mondo, quello che faticosamente si esprime nelle molteplici forme del desiderio di affrancamento e di giustizia sociale, questo il commercio deve esprimere, perderà sicuramente in profitto a favore di pochi ma guadagnerà nel segno dell’equità a favore di tutti .

In effetti rappresenta una attività ineliminabile tra quelle umane perché è l’essenza stessa del rapporto sociale mi sia concessa da non marxista una piccola citazione in “lingua” quando si nota che il rapporto di produzione connatura di se il rapporto sociale che diventa rapporto sociale di produzione che, a sua volta riproduce rapporti sociali di produzione, è tutto qui. Rompere questa catena è l’aspirazione di ogni uomo che aneli al progresso individuale e sociale. Può il commercio e, in modo particolare le forme aggregative che lo hanno sempre accompagnato, nelle diverse forme e culture, essere strumento attivo di questo possibile cambiamento? Fortunatamente non pianificato ma semplicemente desiderato.

Penso di si, se è vero che sono stati abili a trasformare i bisogni primari una volta soddisfatti in desideri, camuffandoli a noi stessi in bisogni spesso inutili e deleteri; dobbiamo tutti imparare a desiderare il necessario .

Nuove forme aggregative del commercio devono al proprio interno comprendere quei prodotti che oltre ad essere commercializzabili, quindi utili, siano soprattutto realizzati in modo da non risultare soggiogati dal principio nefasto del profitto. E’ molto difficile perché, occorre sottolineare, il lavoro deve produrre ricchezza, per definizione, ma quando questa è sociale è molto meglio e sopratutto quando il momento transativo relaziona tra loro soggetti che hanno valori di riferimento più alti e più ampi, socialmente condivisi, si realizza un piccolo passo verso la emancipazione sociale, non necessariamente violenta, ma determinata si.

Si chiama "Policentro", ed è una società con sede ad Agrate Brianza, che ha già realizzato diversi centri commerciali in tutta Italia e all'estero, particolar­mente in Croazia e in Ungheria: attualmente sta indirizzandosi verso il mercato russo e quello cinese. Questa volta ha scelto Partinico per la realizzazione di quello che è preannunciato come uno dei centri com­merciali più grandi d'Europa. L'analisi di mercato ha rilevato che il posto è favorevole: è ubicato a 30 km da Palermo, a 15 dall'aeroporto di Punta Raisi, a tre dall'autostrada Palermo-Mazara del Vallo: intorno vi gravitano alcuni grossi centri urba­ni, come Alcamo, Castellammare del Golfo, l'area si estende sino a Trapani, per un'utenza stabile di circa 300.000 clienti, ove si escludano gli abitanti della capitale, per i quali è già in progettazione un altro centro che dovrebbe nascere in Viale della Regione Siciliana, in un'area di 95.200 mq. Il progetto originario ha previsto, su un'area di 361.311 mq., 4863 posti auto, due alberghi su 8.862 mq., un'area di ristorazione di 5.900 mq., una multisala (12 sale) su 7000 mq, dei quali 4.600 per tempo libero, sport e servizi vari: il tutto dovrebbe gravitare intorno al vero e proprio centro commerciale, che pre­vede 65 attività in 51.637 mq. e alla cittadella della moda, vera e propria factory outlet, che prevede 68 attività in 21.520 mq.

Nelle previsioni il centro dovrebbe occupare circa 4000 persone, avere una presenza giornaliera di 30.000 visitatori e un afflusso annuo da uno a due milioni di utenti. La struttura delle future attività commerciali dovrebbe essere nelle mani della COGEST, la quale si occuperebbe della gestione vendite e dell'affitto di spazi e stand a privati, per i quali si parla di 3000 euro al mese e di 750 euro a mq. per la vendita della super­ficie di uno stand.

Tutto è iniziato circa sei anni fa, allorché, dietro la sponsorizzazione di Marcello Dell'Utri e del proconso­le berlusconiano Giancarlo Miccichè, con la mobilitazione dei locali del partito, la Policentro, servendosi di intermediari, ha cominciato ad acquistare terreni in contrada Margi Soprano, pagandoli il doppio del loro valore di mercato. L'area era conti­gua al centro di controllo del territo­rio da parte della locale cosca mafio­sa dei Fardazza-Vitale, stretti alleati dei Corleonesi, che nell'ultimo decennio a Partinico hanno fatto il bello e il cattivo tempo, prima attra­verso Leonardo, poi attraverso il Fra­tello Vito e infine attraverso la sorella Giusy Vitale, esempio eccezionale di donna-boss, oggi pentita. Dalle inter­cettazioni fatte e dagli arresti eseguiti nel corso dell'operazione "Terra bru­ciata" si è appreso che il "pizzo" imposto sulla vendita dei terreni ha fruttato ai Fardazza 125.000 euro, su un ammontare di investimenti pari a 250 milioni di euro. Si può avere così un'idea chiara del perché tutti i pro­prietari hanno venduto senza battere ciglio, e delle prospettive di arricchi­mento che il futuro centro rappresen­tava per i mafiosi. E tuttavia il pro­getto andava incontro a una difficol­tà: l'area scelta era stata destinata, sin dal 1996, dal Piano Regolatore del Comune, ad insediamenti artigianali. Undici comuni del Golfo di Castellammare avevano costituito un patto territoriale e ottenuto, nel 1999 un finanziamento: tra i destinatari anche il "Cosar", un consorzio di artigiani partinicesi, che chiedeva e otteneva dal Comune l'esproprio di 26 mila mq. di terreno proprio in contrada Margi Soprano. Nel 1999 diventava sindaco di Partinico Giuseppe Giordano, sostenitore del­l'operazione centro commerciale. Primo atto del nuovo sindaco è stato quello di dichiarare illegittima la deli­bera del passato Consiglio Comunale, con la quale si destinava l'area agli artigiani; inoltre, sono seguiti ricorsi al TAR, occupazione dell'aula consiliare da parte degli artigiani; episodi inquietanti come mazzi di crisantemi e croci trovati davanti al portone di casa del presi­dente del Cosar, auto incendiate, sino ad arrivare al rinvenimento di un topo infiocchettato sul parabrezza dell'auto del sindaco, spacciato al quattro venti come minaccia terrori­stico-mafiosa. A questo punto è inter­venuto il plenipotenziario Miccichè a cercare una soluzione di compromes­so tra le richieste legittime degli arti­giani, che temevano di perdere il finanziamento, e quelle della "Policentro", che aveva fretta di ini­ziare e di concludere i contratti di compravendita prima della scadenza delle "caparre". L'accordo si è con­cluso con gli artigiani che ottenevano la loro area, che la Policentro avreb­be completato aggiungendo una parte della propria: l'insediamento artigianale diventava il cavallo di Troia, per ottenere dal Consiglio Comunale il cambio di destinazione del resto dell'area. Il progetto è stato esibito in pompa magna a tutto il paese, il quale è rimasto affascinato da tanto bagliore che prometteva di cambiarne il volto.

A questo punto i commercianti locali hanno fiutato il vento e si sono svegliati, rendendosi conto che: 1'insediamento del "mostro" avrebbe significato per loro la chiusura. Con le elezioni vicine nessuna forza politica ha osato schierarsi apertamente a favore del progetto "Policentro", che addirittura è stato respinto dal Consiglio Comunale, in attesa di tempi migliori. Gli artigiani e i com­mercianti si sono presentati con una lista, che si è schierata col centrosini­stra, mentre il centrodestra ha pro­posto un ridimensionamento del pro­getto, continuando a vendere pro­messe di lavoro per tutti. A sorpresa è stato eletto sindaco il candidato del centrosinistra Giuseppe Motisi, con un consiglio comunale espressione di un paese politicamente schierato, nella sua quasi totalità, col centrode­stra. La nuova leadership ha indotto il patron della "Policentro" ad elabo­rare una nuova strategia di contatti politici che è ancora in atto e che sta portando a un ammorbidimento delle parti, sia di destra che di centro, attraverso una scientifica divisione di competenze, di fette di torta, di futu­ri posti di lavoro, di rivalutazione delle aree circostanti. Tramontata l'era dei Fardazza-Vitale, tutti in car­cere, malgrado immediati tentativi di riorganizzazione sventati dalle forze dell'ordine, sembra che un nuovo astro si stia facendo spazio, cercando di pacificare le due violente fazioni dei filo-totò-riina e dei filo-binnu­-provenzano: si tratta di Mimiddu Raccuglia, detto "U Veterinariu", latitante da tempo e boss dell'area di Altofonte. Intanto, sul vicino fronte di Castellammare scalpitano già le motopale dei boss locali, pronte a ini­ziare i lavori di movimento terra per l'avvio della costruzione.

John A. Jakle, Keith A. Sculle, Lots of Parking. Land use in a car culture, University of Virginia Press, Charlottesville, London 2004; Capitolo 8: Parcheggiare per lo Shopping: lo sviluppo nell’ambiente suburbano; Traduzione di Fabrizio Bottini (parte I)



Il parcheggio è stato raramente considerato come fatto a sé. Molto più spesso è stato visto come facilitatore di altre attività. Urbanisti e ingegneri del traffico possono certo pensare ai parcheggi come questione centrale, ma l’utente normale di solito non lo fa. Come ci ha detto recentemente un esperto del settore, “il parcheggio è qualcosa che tutti si aspettano, ma a cui nessuno ha voglia di pensare” [1].

In questo capitolo trattiamo il ruolo al tempo stesso di servizio e centrale dei parcheggi per il commercio, per i clienti che cercano un posto dove fermarsi e i negozianti che ragionano su come offrirlo, spesso col pericolo di morte economica se non lo fanno. Quale è stata l’influenza del parcheggio nella transizione del ventesimo secolo, dal commercio nei negozi centrali urbani, ai complessi nei quartieri e infine ai centri commerciali suburbani? Quali configurazioni fisiche sono state proposte, per questo invisibile ma fondamentale elemento di forza? Quali alternative sono state prese in considerazione? Quali forme sono prevalse, e perché?

Guardiamo al parcheggio come un fattore essenziale integrato nell’insieme generale dell’insediamento commerciale. Vogliamo capire quali elementi hanno prevalso, nello stesso modo in cui vorrebbero capirlo la maggior parte delle persone se il parcheggio fosse qualcosa a cui si presta attenzione.

Le decisioni su come organizzare il parcheggio legato al commercio non nascono in modo razionale, se per “razionale” intendiamo consapevolezza, valutazione delle alternative, azioni intraprese nella prospettiva di un programma di lungo termine. I critici razionalisti del parcheggio commerciale – molti urbanisti e gli attivisti anti-automobile – ritengono la nazione colpevole di essere scivolata nelle conseguenze della mobilità automobilistica senza piana coscienza del suo significato o intenzioni che andassero oltre obiettivi di breve termine [2]. L’esperienza nel tempo dimostra che la stragrande maggioranza degli americani che in qualche modo si sono interessati del prodotto collaterale parcheggio, erano soddisfatti di come e dove parcheggiavano prima che la scarsità di spazi iniziasse ad essere un deterrente della mobilità, ed alcuni sollevassero dubbi, critiche, e suggerissero soluzioni ai problemi di parcheggio determinati anche dalle migliori intenzioni di chi li aveva preceduti.

Gli americani in generale hanno sempre colto le occasioni di massima mobilità fisica, individualismo, insediamento decentrato, di cui l’automobile ha stimolato le più recenti espressioni. I geografi hanno sottolineato la passione americana per il movimento attraverso il paesaggio, variamente alla ricerca di miglioramento economico, specie prima del XX secolo, nel quadro del processo di reinsediamento o del tempo libero attraverso il turismo. Più di recente gli studiosi di letteratura hanno evidenziato l’emergere di un genere della strada negli scritti americani, secondo varie dimensioni tutte tese a considerare le strade su cui si spostano le persone come “spazio sacro”. Gli scrittori, usando la strada come strumento o metafora, speculano su ciò che la cultura americana è stata, e dove ritengono stia andando. Gli storici hanno rintracciato l’emergere dell’industria automobilistica e dei settori ad essa dipendenti per affermare anch’essi che determina gran parte della vita nazionale e all’estero nel corso del XX secolo. Gli abitanti del Sud, spesso considerati la parte più conservatrice del paese, hanno comunemente modificato il loro stile di vita per inserirci la mobilità automobilistica. Gli americani hanno teso a riempire la vastità dello spazio nazionale continentale con edifici e strutture sovradimensionati, a contrassegnare il raggiungimento di un luogo definitivo, continuando nonostante questo a celebrare il politicamente incontrollato passaggio da un luogo all’altro. Le lunghe distanze da percorrere in automobile non scoraggiano gli americani. Gli spostamenti più brevi come quelli attraverso città e cittadine non hanno mai impressionato chi se lo poteva permettere, preferibilmente con mezzi personali. Il concetto di “strada del re”, che risale al Medio Evo, dava base giuridica alla credenza secondo cui le persone avevano il diritto di muoversi senza impedimenti attraverso un certo percorso. Nel XX secolo questo si unisce alla superiorità fisica dell’automobile rispetto alle altre forme di trasporto e alla mobilità pedonale, producendo una presunzione di superiorità dell’automobilista nell’uso della strada, e del parcheggio come sua estensione [3].

Gli americani hanno in genere opposto resistenza ai programmi governativi di aumento delle tasse, perché queste sono percepite come imposizioni che interferiscono con l’individualismo. L’assenza di un forte movimento socialista nella storia nazionale conferma la predilezione dell’individualismo. L’eccezione forse più degna di nota, è la rapida adozione delle imposte sulla benzina in tutti gli stati (a partire dall’Oregon nel 1919) per finanziare la costruzione di un sistema stradale in ogni stato, e l’emanazione di una serie di leggi federali di sostegno per le strade (a partire dal 1916) per costruire un sistema portante di grandi arterie nazionali. Anche nelle zone con valori più radicatamente anti-statalisti, furono tranquillamente accettate le norme sulle patenti di guida e i limiti di velocità. La vita in comune e urbana, è sempre stata minoritaria nell’ambienta americano [4].

Joseph Interrante ha attribuito il modo inconsueto in cui l’automobile influenza il tipo di insediamento al “metropolitanismo”, termine ripreso da Recent Social Trends della Commissione Hoover, 1933: “Riducendo le dimensioni delle distanze locali, il veicolo a motore allarga l’orizzonte della comunità e introduce una divisione territoriale del lavoro fra le istituzioni locali e le amministrazioni confinanti unica nella storia dell’insediamento. ... Inoltre, cittadine e villaggi un tempo indipendenti, e anche il territorio rurale, diventano parte del complesso urbano allargato”. Interrante, anche se non offre una spiegazione adeguata del perché l’automobile sia diventata un prerequisito di sopravvivenza in ambiente metropolitano, correttamente sottolinea come non si tratti di un percorso obbligato. La mobilità automobilistica avrebbe potuto essere riservata al tempo libero o agli spostamenti oltre le zone servite da ferrovie e tranvie [5].

Sono i ceti medi urbani a introdurre l’idea di usare l’automobile non solo per il tempo libero ma anche per risolvere una serie di problemi urbani che si erano accumulati alla fine del XIX secolo. Molte città all’epoca erano diventate luoghi poco piacevoli per vivere, e quelli che un tempo erano vantati come elementi di superiorità ora erano messi in dubbio. Molti riformatori sociali attribuivano alla città problemi sanitari e psicologici. Nella Progressive Era i suburbi erano proposti come panacea, e il trasporto a basso costo verso di essi divenne un importante obiettivo politico, contro le compagnie tranviarie che ne erano i principali gestori. È stato dimostrato come nell’importante caso di Chicago la corruzione, la cattiva gestione e il servizio carente abbiano indebolito il trasporto pubblico, mentre in contemporanea l’automobile migliorava il proprio servizio alla élite politica della città, diventando attraverso una serie di complessi sviluppi il modo dominante di trasporto. I particolari cambiano a seconda delle città e degli hinterland suburbani, ma la mobilità automobilistica e il suo risultato in termini di centri di popolazione a bassa densità rappresentano una forte componente delle soluzioni idealizzate da molti. Uno storico sostiene in modo convincente che i riformatori municipali avevano previsto almeno che l’auto avrebbe eliminato la vita della strada, ma non furono in grado di contenere l’alta opinione che avevano di essa i ceti medi urbani, che rappresentavano la loro base politica [6]. La mobilità automobilistica produceva alcuni problemi inattesi, come quello che sarebbe stato portato dal parcheggio, ma in un primo tempo la sua completa egemonia fu la benvenuta.

Furono concepite alcune alternative per evitare che il traffico urbano venisse ulteriormente congestionato dall’automobile, ma tutte presupponevano che si trattasse di un mezzo di soddisfazione sociale, rispetto al quale fosse possibile suscitare nei proprietari gli istinti verso un’armoniosa comunità. Chi pensava alle alternative, non previde come quasi tutti gli americani che potevano permettersi un veicolo a motore, almeno per la maggior parte del XX secolo, avrebbero agito secondo le proprie inclinazioni individualiste nella guida dei veicoli, e non secondo forze centripete nella costruzione della comunità, ma in modo centrifugo a spingere l’insediamento sempre più lontano dai nuclei densi. Le alternative, da quelle dei teorici a quelle dei costruttori di suburbi, illustrano una fede nelle possibilità di mettere le briglie all’automobile. Nel 1914, la filantropa Mary Emery progetta Mariemont, Ohio, a 30 chilometri da Cincinnati per i lavoratori urbani poveri. È un adattamento americano della città giardino inglese, un’alternativa pastorale alle grandi città sovrappopolate, inquinate, senza servizi; Mariemont adotta l’automobile, e una strada la collega a Cincinnati. “Le strade di cemento assicurano pulizia, levigatezza, durata” all’interno del villaggio, secondo una descrizione [7]. Nel 1932, la " Broadacre City" di Frank Lloyd Wright propone un modello per 1.400 famiglie di cui il trasporto automobilistico è parte integrante, e l’insediamento si stende su dieci chilometri quadrati. Ma non si pone enfasi sugli spostamenti fra i vari punti; la soddisfazione è spirituale e va cercata nella vita di una comunità autosufficiente [8]. Radburn, New Jersey, a una ventina di chilometri da New York City, è progettata per superare le crescenti opposizioni alle macchine rumorose per le strade di molti nuovi centri, ed essere comunque “la città dell’epoca dei motori”. Gli urbanisti di Radburn evitano la classica griglia stradale che consente l’attraversamento continuo da parte delle macchine, a favore di una serie di cul-de-sac in cui sono situate le case. Un sistema a verde completa l’insediamento pensato per una popolazione di 25.000 abitanti [9].

Luoghi del genere erano proposti nella convinzione che la mobilità automobilistica fosse un’aggiunta alla buona vita interna alla comunità, e si trattava di spazi antiurbani. I loro sostenitori presumevano che non ci fossero aumenti nel numero di persone all’interno di ciascun insediamento, e non si edificasse fra l’uno e l’altro. Si abbandonavano le città esistenti per trovare rifugio in nuovi spazi pionieri nell’aperta campagna, ovvero suburbi. Non prevedevano il livello a cui l’automobile, all’inizio solo un mezzo di trasporto, alla fine si sarebbe trasformata in un agente di modificazione, anziché di integrazione, delle potenzialità. Molte persone apprezzavano i viaggi in automobile, e gli spostamenti pendolari non li scoraggiavano dall’abitare nei suburbi e lavorare in città anche distanti. I sostenitori di un’organizzazione definitiva degli insediamenti lungo le strade nell’aperta campagna, e concentrazioni separate per centri, col commercio posto al di fuori del nucleo urbano, magnificavano a questo proposito la domanda di “comodità” da parte dei consumatori. In una indagine condotta dalla catena di giornali Scripps-Howard a oltre 53.000 casalinghe, e in un altro della Kroger Grocery and Bakery Company in 5 città, fu posta la domanda perché facessero spesa più frequentemente in un certo negozio alimentare. La risposta fu per comodità nel 27,2% del casi per l’indagine Scripps-Howard, e sempre per comodità nel 70,5% del sondaggio Kroger [10]. Chi se non qualcuno con interessi finanziari nell’insediamento di complessi decentrati forieri di nuove automobili poteva in un primo tempo verificare le preferenze della gente? Orientamenti verso la suburbanizzazione e conclusioni delle ricerche egualmente orientate.

Comodità è un termine pigliatutto, che maschera una convergenza di molte motivazioni particolari. La comodità è relativa. Ciò che conviene a una persona può non esserlo nel giudizio di un’altra. I dati empirici che hanno influenzato le decisioni nel modo degli affari sono insufficienti. Non sappiamo, soprattutto, quanto davvero la clientela di allora fosse disponibile a guidare per raggiungere la propria destinazione. I primi complessi commerciali di tipo drive-in a Los Angeles, quelli degli anni ‘20, potrebbero essere stati collocati secondo le impressioni del potenziale proprietario riguardo al volume di vendite e relativi profitti, in una località promettente. Non sembra ci siano stati studi sul traffico simili a quelli condotti dagli imprenditori dei garages a parcheggio. Le piccole dimensioni dei negozi e mercati drive-in possono giustificare l’assenza di dati, perché la rilevazione era considerata una spesa non necessaria. Uno studio per una catena alimentare pubblicato nel 1941 rivela che il 76% dei clienti che arrivano in automobile percorre più di 500 metri, e il 34% oltre un chilometro. Alcune persone, dunque, erano disponibili a guidare oltre una veloce passeggiata, sino alla loro destinazione. Questa comodità può anche essere stata gergo da piazzisti, ma la maggior parte delle persone arrivando aveva una certa serie di aspettative. Aspettative che sono state voluminosamente e ripetutamente elaborate dalla letteratura commerciale a partire dagli anni ‘20 [11].

Gli americani non volevano far compere nei negozi del centro dove la congestione assediava la loro meta. Una serie di valori giocarono un ruolo di primo piano, contribuendo a configurare aspetto e accessibilità delle destinazioni commerciali. Come era possibile riconciliare il gusto per l’espressione individuale, il fastidio per un’involontaria delega all’autorità, il desiderio di spazio, la fede nella libertà attraverso l’automobile, di fronte agli ingorghi da traffico? Lo stesso agire sincrono della propria esistenza rispetto a quella degli altri automobilisti aggirandosi per il centro a cercare un buon posto auto o a pagamento, su strada o in garage, qualcosa che molti ritenevano troppo dispendioso, qualunque fosse il prezzo, rappresentava un’intrusione nella vena libertaria di parecchi americani. Ci furono anche altri fattori ad allontanarli dallo shopping in centro: una scarsa scelta di beni e servizi, un ambiente poco piacevole e insicuro, la distanza dalle loro abitazioni suburbane. Ma molti americani si sentirono anche rapidamente troppo immersi nella folla in uno spazio ristretto, preferendo generose distanze fra sé e gli altri clienti. L’assenza di parcheggi abbondanti e gratuiti respingeva i consumatori; dunque anche il parcheggio stesso era un importante fattore. La mobilità automobilistica, scartando alternative intermedie come Broadacre City, Mariemont, o Radburn, trionfava negli insediamenti dispersi e fasce commerciali perché a molti non dispiaceva, o addirittura piaceva, spostarsi, per lo shopping come per il tempo libero, quando all’arrivo era promesso un rapido parcheggio e un’altrettanto rapida scappatoia se il posto si trovava molto al di fuori della serie di complessi commerciali congestionati nel centro o di quelli originari di prima fascia periferica. Riesaminando le origini della fascia commerciale e del suburbio, alcuni studiosi concordano sul fatto che luoghi-tipo del genere dimostrano come gli americani vogliano semplificare gli spazi in cui vivono, dove fanno acquisti, e il modo di arrivarci, adottando un tipo di insediamento meno formalizzato [12]. Ma questo è senno di poi.

Le conseguenze non furono né preordinate né ovvie a coloro che fecero evolvere il paradigma attuale. Nel 1927, John Ihlder, funzionario della United States Chamber of Commerce, apprezza l’importanza dei parcheggi, ma non capisce che una loro corretta organizzazione può attirare i clienti. Ihlder avverte che i centri città coi loro problemi di sosta non stimolano l’attività commerciale, ma non incoraggia la realizzazione di garages parcheggio – probabilmente perché si tratta secondo lui di innovazioni non sperimentate – e propone invece di aumentare lo spazio sulla strada regolamentando la disposizione planimetrica degli edifici. I parcheggi insufficienti nel decennio successivo danneggiano il commercio. Un’indagine della camera di commercio del 1944 sul centro di Montclair, New Jersey, per esempio, rivela che la città possiede il più alto potere d’acquisto per famiglia dell’Est, e il terzo a livello nazionale, eppure quasi la metà delle spese viene effettuata nelle città vicine [13].

Frank R. Hawkins, responsabile di Unterecker's, catena di vendita dolciumi di Buffalo, è uno degli imprenditori più immaginifici, e sa utilizzare il proprio metodo per tentativi e correzioni di organizzare le attività portate dall’automobile, a partire dagli anni ’20. Hawkins comprende che “oggi quasi tutti quelli che hanno voglia di comprare un dolce e di spendere denaro per questo, hanno anche un’automobile”. In un punto vendita nel centro città congestionato, di fianco a un cinema, dove ci si poteva aspettare un gran andirivieni, la maggior parte dei clienti arrivava di giorno, non nelle ore notturne in corrispondenza degli affollati spettacoli al cinema. In un altro negozio, fuori dalla zona congestionata del quartiere commerciale”i nostri clienti possono trovare quasi sempre un posto per parcheggiare di fronte al negozio, o molto vicino ad esso. Non devono venire a piedi o guidare una o due volte attorno all’isolato per trovare un parcheggio, come succede spesso nella parte congestionata di questa zona”. La differenza di frequentazione era dovuta alla disponibilità di parcheggio, e Hawkins astutamente preparò il futuro di Unterecker's, non solo con un prodotto di qualità, ma basandosi anche sulla geografia.

Nel futuro, le posizioni che sceglieremo saranno quelle che ci assicurano ampi spazi a parcheggio per i clienti, al centro di una buona comunità residenziale. Il numero di persone che passa dal negozio a piedi non conta molto in realtà, non quanto quello di chi passa in automobile, tende a fermarsi, e lo spazio a parcheggio che gli rende facile la sosta e l’acquisto”[14].

Il parcheggio, chiaramente visibile dall’auto e facilmente accessibile, era un incentivo. Hawkins è chiaro in modo disarmante, contro i numerosi commercianti che rivendicheranno poi la primogenitura dell’importanza del parcheggio, e fornisce un’immagine ravvicinata notevole della sensibilità dell’imprenditore ai nuovi orizzonti dell’attività.

Molta parte dell’evoluzione dei negozi verso modalità più comode per il parcheggio delle automobili, ad ogni modo, deve essere studiata attraverso la cultura materiale non scritta. Di fatto i fondatori delle attività sulle fasce stradali non hanno lasciato memorie. Dallas è uno dei primi ambienti in cui si sviluppa il parcheggio riservato a scopi commerciali, che in città comincia nel 1921 come scelta non originariamente pensata come tale da chi se ne avvantaggia. In mancanza di una norma urbanistica che proibisca i negozi di quartiere, molte attività si spostano verso gli incroci, dove arretrano almeno 7 metri dal bordo stradale per consentire il parcheggio perpendicolare. La successiva domanda di questa attrattiva spaziale per automobilisti da parte delle catene di distribuzione in cerca di immobili, la rende molto popolare fra i proprietari. Los Angeles contemporaneamente offre una gamma più vasta di tipi di negozio dipendenti dal parcheggio. Longstreth ha correttamente individuato nei negozi suburbani una frattura radicale rispetto al commercio tradizionale. Il parcheggio attira l’occhio dell’automobilista verso una serie di elementi architettonici del negozio [15].

La progettazione dei parcheggi entra rapidamente in quella degli shopping centers e gli imprenditori con essi lanciano l’esca per il cliente. Il Country Club Plaza a Kansas City, cominciato nel 1923, è il modello originario poi adattato da molti operatori. Il fondatore J. C. Nichols voleva che il parcheggio fosse più che non solo facilmente visibile e accessibile. Il parcheggio era un aspetto del flusso veicolare, calcolare gli angoli, carico e scarico merci, dimensioni dell’isolato, solo per nominare alcuni elementi. Gli imprenditori disposti a prendersi dei rischi iniziano ad apprezzare il potenziale del parcheggio nei tardi anni ‘20 [16].

La comodità inizia ad essere compresa intuitivamente, così come tante altre cose in questi shopping centers. Ne fanno parte certamente anche gli ampi, visibili e accessibili parcheggi. Non esiste nella letteratura commerciale uno spazio specifico per il ruolo del parcheggio, ma la sua frequente inclusione nelle dichiarazioni su cos’è buon commercio ne chiarisce le potenzialità. Commenti come "I visitatori hanno la comodità di parcheggiare di fronte ai negozi” o “questo crescente bisogno di comodi parcheggi” caratterizzano la letteratura dagli anni ‘30 [17]. “ Convenience goods” sta a significare articoli comprati per impulso, presumibilmente perché la situazione lo consente. Il parcheggio aiuta a indurre questo impulso. La posizione degli shopping centers, il loro progetto, quello dei singoli negozi all’interno, certo contribuiscono, ma il parcheggio è sempre a fianco, curiosamente poco amato. Un vuoto in attesa di frequentatori, implicitamente attrattivo, singolarmente diverso dagli altri elementi espliciti di attrazione geografica e architettonica degli shopping centers.

Torniamo brevemente a queste attrazioni, che completano l’immagine del cliente che arriva in automobile. Partiamo dalla geografia. I primi nodi commerciali suburbani possono essere chiamati “ shopping centers esterni”, un nome che J. C. Nichols contribuisce a rendere popolare, a sottolineare gli elementi di rottura rispetto agli spazi tradizionali del centro città [18]. La macro visione di questi centri esterni è già stata proposta molte volte ed esaurientemente. Possiamo tranquillamente generalizzare la descrizione fatta da un ingegnere del traffico nel 1942 di Los Angeles, panorama automobilistico per definizione. I centri terziari esterni cominciano a qualunque incrocio di traffico, seguendo o anticipano qualunque direzione dei flussi. “Lo sviluppo continua, e i bracci delle numerose croci sulla scacchiera delle strade principali si incrociano, così ogni via e arteria principale di Los Angeles è diventata o diventerà presto fittamente edificata con tutti i generi di strutture per attività” [19]. A livello del terreno, l’urbanista descrive le sezioni stradali come ridotte; gli incroci, aree a velocità limitata, segnali di Stop, come numerosi; gli affacci stradali pullulanti di piccoli negozi, le abitazioni in calo, i cartelloni; e poi i locali notturni, i chioschi, i depositi, a ricoprire qualunque sopravvivenza di aperta campagna. Gli shopping centers esterni colonizzano la fascia stradale [20].

Una volta attirato il cliente col parcheggio, me merci vengono mostrate nel modo che più probabilmente concluderà la vendita. Una visibilità chiara sembra rinforzare la capacità di discernimento del cliente. L’idea della chiara visibilità suggerisce anche affidabilità del prodotto; quello che si vede è quello che si acquista. Pesi, misure, limpidezza dei prodotti avevano da tempo creato problemi nei mercati. Il commercio nell’era dell’automobile provava con la certezza. Longstreth indica nella corte aperta dei mercati drive-in di Los Angeles una delle prime forme di commercio automobilistico. Le vetrine degli shopping centers esterni, più comuni a livello nazionale degli ingressi aperti di Los Angeles per motivi di condizioni atmosferiche e sicurezza, occasionalmente incoraggiano i proprietari di edifici “ taxpayer” sulle fasce stradali alla visibilità per pedoni e chi viaggi sui tram (gli edifici " taxpayer" sono realizzati per produrre il reddito necessario a pagare le tasse immobiliari, in attesa di guadagni più elevati dalla proprietà in un secondo tempo). Guardare le grandi vetrina passando in tramo a piedi diventa la chiave perché i " taxpayers" inizino ad aggregarsi in blocchi, arretrando e offrendo arcate sui fronti e vetrine, organizzati in “isole” realizzate a moltiplicare i preziosi affacci commerciali di tre o quattro volte. Le automobili che per parcheggiare sono orientate direttamente verso le vetrine offrono una drastica innovazione nella proposta delle merci a chi arriva, molto diversa dal parcheggio in senso parallelo. Il commerciante capisce immediatamente dagli arrivi dei clienti che i prodotti di fronte al vetro dell’abitacolo sono più desiderabili [21].

Però, tenendo il passo con la lentezza con cui i negozianti capiscono i potenziali del parcheggio fino ai tardi anni ’30, la maggior parte delle zone commerciali esterne offrono modesti spazi per la sosta. Molte uniscono agli isolati di taxpayer col loro parcheggio sul marciapiede qualche piazzale riservato di fronte all’esercizio che funge da anchor dell’insieme. La zona di Woodlawn a Chicago, South Side, nel 1940 ben rappresenta il problema del parcheggio per i più vecchi isolati di taxpayer; invece della quantità desiderata di 2:1 o 3:1 metri quadrati di parcheggio per ciascuna unità di superficie commerciale, Woodlawn soffre di una quota del solo 0,8 [22]. Alcuni di questi complessi taxpayer con parcheggi bloccati sopravvivono, e se ne realizzano anche di nuovi, grazie alla vicinanza di quartiere o a un negozio tradizionale a fare da anchor. Ma si tratta di un modesto orizzonte di affari.

I parcheggi contribuiscono a definire posizione e aspetto delle zone commerciali esterne, ma molto più spesso sono alcune tipologie di esercizio a guidarne lo sviluppo. Fanno da pionieri i grandi magazzini alimentari e i cinema, forse perché i grossi investimenti alle loro spalle riescono più facilmente a tentare maggiori profitti attraverso esperimenti di ampia portata.

Bastano, qui, i grocery stores a illustrare lo schema iniziale. Le persone prima degli anni ’30 spesso acquistano i generi alimentari in tre negozi diversi, uno per gli articoli da drogheria, uno per le carni e uno per ortofrutticoli. Le merci devono essere pesate e impacchettate dopo una scelta, e c’è un impiegato addetto a questo servizio, a mettere insieme il tutto e a concludere la vendita a ciascun cliente [23]. I commercianti nella loro ricerca di maggiori profitti ristrutturano la propria attività in vari modi. Lo spostamento verso spazi esterni al nucleo centrale congestionato è un elemento critico per trarre vantaggio da un consumatore che sempre più si muove in automobile, e che in quanto tale probabilmente avrà un reddito superiore a molti di quanti vivono nei confini tradizionali. Il caso di Atlanta dimostra quanto è vero anche a livello nazionale: dato che i clienti fanno spesa spesso e regolarmente ai grocery stores, questi negozi non possono sopravvivere alla congestione da traffico che funge da deterrente ai visitatori [24]. Nel 1925, il lungimirante direttore immobiliare dei Safeway Stores di Los Angeles descrive la posizione più auspicabile come vicina a un incrocio affollato, dove esiste un notevole volume di traffico ma al tempo stesso l’affitto è più economico che non in posizione d’angolo, e sullo stesso lato rispetto alla corsia di chi è diretto verso casa. “L’automobile sta diventando sempre più un problema commerciale” e “comodità e spazio nei parcheggi sono necessari, per questa attività”. [25] Gli operatori più aggressivi, di solito le nascenti grandi catene distributive, si interrogavano su come integrare pienamente ed efficacemente la mobilità automobilistica nei propri progetti.

Alcune immagini di una maggior motorizzazione, con diverse proposte di servizi, compaiono all’Automarket di Louisville nel 1927. Nel prototipo, i clienti guidano le loro macchine lungo una corsia con ai lati scaffali rotanti da cui si scelgono i prodotti. In varie proposte di nuovi grocery stores, la comodità comprende due elementi: l’acquisto di tutti i generi alimentari in un solo negozio – punti " one-stop", come vengono chiamati vari esercizi automobile-dipendenti – e il parcheggio: abbondante, con ampi spazi laterali, e vicino al negozio. La MacMarr Stores, con quartier generale a Portland, Oregon, rileva che il 70% della sua clientela arriva in macchina, e così la compagnia realizza dei " drive-in" con parcheggi immediatamente di fianco a ciascun esercizio [26].

Il commercio alimentare più innovativo a partire dagli anni ’20 unisce varie strategie, sia interne che esterne a ciascun punto vendita, come la pubblicità via stampa, ma diventa imperativo soprattutto attirare i clienti dal ciglio stradale. Il parcheggio si evolve per primo, forse perché a quanto pare non richiede grandi costi né immaginazione. Una rassegna a caso di progetti di negozi modello dagli anni ’30 agli anni ’50 comprende in modo uniforme i parcheggi [27]. I primi grocery stores sulla fascia stradale di solito limitano le insegne a cartelli sul margine del tetto o sulla striscia al di sopra delle vetrine. Segnali più grandi, sia su una torre all’angolo sopra o di fianco all’ingresso principale, verranno dopo. Verso gli anni ‘50, i progettisti calcolano in modo più preciso l’effetto desiderato. Un droghiere di Hot Springs, Arkansas, credeva inizialmente che i cartelli attirassero i clienti perché erano nuovi, facendo capire che i messaggi avrebbero dovuto continuamente essere rinnovati, per funzionare meglio. I passanti avrebbero creduto di perdersi qualcosa se non si fermavano, e molti facevano manovra per leggere attentamente la scritta dell’insegna [28].

Il parcheggio si evolve da forma di cortesia a strumento per aumentare le vendite e variabile per prevederle. Alcune particolarità locali nella correlazione fra negozi e parcheggio continuano sin dall’apparire dell’automobile. A Los Angeles si preferisce lo spazio davanti ai negozi, e a Houston quello sul retro. Un architetto di supermarket parla di utilizzare sia fronte che retro, a posti diagonali, a seconda di quante auto il commerciante intende sistemare. Il parcheggio diagonale è riconosciuto come quello a massima capacità. La stretta vicinanza è un dogma cardinale: la massima distanza fra auto e negozio è di 150 metri, preferibilmente 100. Il resto delle corpose elaborazioni sul tema comprende i particolari per gli accessi, le uscite, manutenzione e scarichi. Nel 1964, i supermercati colossali, quelli oltre i 2.000 metri quadrati e non inseriti in uno shopping center, avevano in media spazio per 400 auto; era più di quanto offrisse ai clienti un parcheggio multipiano nei garages delle zone centrali un quarto di secolo prima. Normalmente nei supermercati parcheggiavano 194 automobili [29]. Il parcheggio era diventato l’insegna di sé stesso, e pochi esercizi venivano considerati degni di essere frequentati senza parcheggi, in omaggio alla dipendenza dall’automobile di tanti consumatori.

Se cinema e supermercati attirano e radunano esercizi più piccoli verso particolari nodi delle zone commerciali esterne sulle arterie di traffico automobilistico alla fine degli anni ‘30, emerge un’altra conformazione tipo che usa il parcheggio in modo più spettacolare: la fascia stradale [ strip]. La strip si differenzia in modo notevole dai suoi predecessori orientati all’automobile. Le fasce sono più vaste e maggiormente dedicate in modo esplicito al commercio. I piccoli operatori, senza alcuna pretesa architettonica collocano i propri edifici l’uno di fianco all’altro in serie parallela alla strada, come in un bazaar per automobilisti. I raffinati critici del gusto d’élite se ne ritraggono con sdegno, e conducono campagne di abbellimento per regolamentare l’esistente e migliorare le attività per il futuro [30]. Il primo obiettivo di questi abbellitori non è il parcheggio, che rende gestibile il commercio; sono piuttosto i materiali che si accumulano nei piazzali dei rigattieri [31]. I teorici dell’architettura postmoderna che campionano gli aspetti visivi di questo commercio stradale di cascami alludono brevemente al contributo del parcheggio [32]. Puntualmente, piccoli imprenditori sul ciglio della strada colgono l’opportunità per scavarsi una nicchia con ampi e ovvi parcheggi. La nascente attività della distribuzione di petroli su strada a partire dai ‘10 e quella della ristorazione e alberghiera negli anni ’20 aprono la strada. La catena di motel Rodome per il suo lancio a Sacramento, California, nel 1922, ad esempio, annuncia il progetto di offrire in ogni punto garages deposito a ogni cliente e un “cortile centrale asfaltato”. In ciascun Rodome possono trovare posto 90 auto e 420 clienti [33]. Molti automobilisti possono parcheggiare e portare i bagagli in stanza senza facchini, facendo così diventare il parcheggio self-service accanto al proprio alloggio un tratto distintivo della catena di motel sempre più popolare [34]. Nel 1958, la catena Downtowner si allontana dal self-parking quando il fondatore, socio in due catene di servizi parcheggio a dimensione regionale, si affida ad un servizio esterno, non come elemento ornamentale ma per massimizzare le disponibilità di posti nei caratteristici piccoli lotti urbani dei Downtowner [35].

Le attività di tipo drive-in, alcune limitate a uno sportello di servizio dove gli automobilisti sostano brevemente per qualche transazione, e altre con un parcheggio aggiunto per soste più prolungate, fondano una strategia di vendita totalmente nuova. Le banche sono tra le prime a offrire uno sportello automobilistico di servizio [36]. Negozi di calzature e rilascio di biglietti aerei sono compresi nella pletora delle attività che seguono a ruota, coi loro punti di sosta momentanea o più prolungata, caratterizzando così in modo molto sostanziale la fascia stradale. [37]

Il commercio di veicoli e pezzi di ricambio, in particolare auto e camion, è forse fra tutti quello che più sconcerta l’élite estetizzante. I nuovi spazi espositivi si collocano dapprima in edifici adattati, poi attorno al 1910 alcuni commercianti cominciano a profondere grosse somme di denaro in saloni dove i nuovi modelli dell’anno sono circondati da ornamenti degni di un palazzo. Le auto in mostra sono parcheggiate, ma l’insieme dei molti veicoli invenduti e tenuto ai livelli superiori alla zona espositiva in forma di parti smontate negli imballaggi forniti dal produttore. Riducendo così la necessità di spazi magazzino. Numerose fotografie di autosaloni che mostrano gruppi dei modelli più vendibili in stretta formazione parcheggiati sul ciglio della strada, col muso rivolto verso l’obiettivo, fanno pensare alla possibilità di depositi esterni in terreni adiacenti. Quelli mostrati sono solo fantasiosi allestimenti. Negli anni ‘60, le auto parcheggiate in attesa di clienti nei piazzali vicini rivaleggiano con la vetrina del concessionario nell’attirare l’attenzione visiva. Comunque i venditori di auto usate si concedono spazi espositivi a parcheggio più grandi, e che costino il meno possibile. Solo di rado, in questo paesaggio vernacolare, si evolve qualche tipo di miglioramento [38].

Gli sfasciacarrozze operano in “cimiteri” che occupano il gradino più basso nella scala estetica del ciglio stradale, essendoci pochi motivi, oltre al rispetto delle norme urbanistiche, per organizzare i materiali di recupero in altro modo. Nel 1929, il Connecticut approva uno dei regolamenti più efficaci per i cimiteri delle automobili. Per quell’epoca, dall’altra parte, gli operatori del settore in altri stati sono considerati portatori di “una minaccia dei cimiteri di automobili” tale da deprimere i valori degli immobili vicini, secondo il parere di un costruttore di New York [39]. Carcasse di auto e parti smontate sono variamente impilate l’una sull’altra o sporgenti, su notevoli superfici di fianco alle strade o su piccoli lotti urbani. Variano le dimensioni, ma raramente cambia l’impatto visivo. Nonostante i veicoli nuovi accuratamente allineati nei parcheggi dei concessionari siano molto diversi dai gusci dei cimiteri, in entrambi i casi chi osserva passando per la strada vede prodotti automobilistici posti al di fuori di uffici o saloni proporzionalmente piccoli, in questo settore preminentemente basato sul parcheggio.

Le città continuano a reagire lentamente al potenziale dell’automobile. Arlington, Virginia, è considerata lungimirante per l’adozione di un’ordinanza del giugno 1938 che prevede parcheggi non su strada per tutte le abitazioni, ma cinque mesi più tardi sono già necessarie delle modifiche per evitare che i veicoli facciano retromarcia immettendosi sulla via, impedendo nel frattempo il flusso del traffico. Ulteriori emendamenti del 1941 stabiliscono che gli edifici residenziali non possono occupare più del 35% del lotto in modo che i veicoli riescano a manovrare al suo interno e spostarsi rapidamente nel flusso di traffico anziché interferire con altri veicoli parcheggiati. Infine, nel 1942, le norme sul parcheggio entrano a far parte delle norme urbanistiche per le zone destinate a commercio o attività produttive. Questi adeguamenti incrementali stanno a indicare la generale incapacità di cogliere in pieno il potenziale della mobilità automobilistica. I commercianti del centro hanno anche tra i vari motivi la lunga tradizione, per rimanere ostinatamente attaccati alle proprie abitudini. Ad esempio, i negozianti di Passaic, New Jersey, "centro di acquisti" per una enorme area metropolitana, non si convincono facilmente della necessità di attivare un’autorità cittadina di regolazione dei parcheggi col potere di acquisire spazi e realizzare tre garages ai margini del distretto commerciale. Esempio del mancato adeguamento a quanto sta cambiando, e di un approccio più positivo verso la clientela, un negoziante obbliga i clienti ad andare sul retro dell’esercizio e salire di un piano, per timbrare il tagliando del parcheggio e avere uno sconto sulla tariffa. Il caso di Atlanta, soggetto di uno studio particolareggiato su come la mobilità automobilistica abbia ricreato la struttura fisica di una città, mostra che un centro congestionato spinge i clienti verso le zone esterne. La domanda di parcheggi supera la capacità di molti vecchi settori commerciali esterni. I sostenitori del commercio main-street consigliarono di applicare una “chirurgia radicale” alle pratiche correnti [40]. Altri spostarono altrove le attività. (fine Parte I)

Nota: per lo sviluppo del "metropolitanismo" fra gli anni '20 e '30 e il ruolo dell'automobile, citato anche qui, si veda il saggio in tre parti di R. D. McKenzie, La Comunità Metropolitana (f.b.)

vai alla parte 2

[1]Jo Ann Whelan (Alco Parking, Pittsburgh), intervista telefonica a Keith A. Sculle, 3 febbraio 2000.

[2]Jane Holtz Kay, Asphalt Nation: How the Automobile Took Over America and How We Can Take It Back (Berkeley: University of California Press, 1997), 172-73.

[3]For geography, see John A. Jakle, The Tourist: Travel in Twentieth-Century North America (Lincoln: University of Nebraska Press, 1985). For literary studies, see Ronald Primeau, Romance of the Road: Literature of the American Highway (Bowling Green, Ohio: Bowling Green State University Press, 1996); Kris Lackey, Road Frames: The American Highway Narrative (Lincoln: University of Nebraska Press, 1997). For histories of the automobile industries and the infrastructure supporting their products, see James J. Flink, The Automobile Age (Cambridge: MIT Press, 1988); John B. Rae, The American Automobile (Chicago: University of Chicago Press, 1965). For the South's response, see Blaine E. Brownell, "A Symbol of Modernity: Attitudes toward the Automobile in Southern Cities in the 1920s," American Quarterly 24 (March 1972): 29, 44. Regarding the cultural significance of the automobile in America's vast space, see Karal Ann Marling, The Colossus of Roads: Myth and Symbol along the American Highway (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1984). For a history of the American highway system, see Tom Lewis, Divided Highways: Building the Interstate Highways, Transforming American Life (New York: Viking, 1997). For the concept of the "king's highway" see M. G. Lay, Ways of the World: A History of the Worlds Roads and the Vehicles That Used Them (Brunswick, NJ: Rutgers University Press, 1992),64-65, 299.

[4]Warren I. Susman, Culture as History: The Transformation of American Society in the Twentieth Century (New York: Pantheon Books, 1973), 75-85; John Chynoweth Burnham, "The Gasoline Tax and the Automobile Revolution," Mississippi Valley Historical Review 48 (dic. 1961): 445-47; Kenneth T. Jackson, Crabgrass Frontier: The Suburbanization of the United States (New York: Oxford University Press, 1985), 288. Per quanto riguarda la fede originaria nell’automobile come efficace panacea sociale senza alcun bisogno di intervento governativo, vedi James J. Flink, America Adopts the Automobile, 1895-1910 (Cambridge: MIT Press, 1970), 107-12. Per l’accettazione da parte di un importante direttore di un giornale del South Dakota, della necessità di patente di guida e limiti di velocità, vedi Keith A. Sculle, "An Editor Hails the Automobile: Al J. Adams and the Sisseton Courier," Great Plains Heritage 29, no.1 (primavera-estate 1996): 45.

[5]Citato in Joseph Interrante, "The Road to Autopia: The Automobile and the Spatial Transformation of American Culture," in The Automobile and American Culture, a cura di David L. Lewis e Laurence Goldstein (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1980), 91, 100.

[6]Martin Wachs, «Men, Women, and Urban Travel: The Persistence of Separate Spheres," in The Car and the City: The Automobile, The Built Environment, and Daily Urban Life, a cura di Martin Wachs e Margaret Crawford (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1992), 86-100; Paul Barrett, The Automobile and Urban Transit: The Foundation of Public Policy in Chicago, 1900 - 1930 (Philadelphia: Temple University Press, 1983); Clay McShane, Down the Asphalt Path: The Automobile and the American City (New York: Columbia University Press, 1994), 225-26. Il ruolo di avanguardia di Los Angeles nel decentramento si è meritato il classico studio di Scott L. Bottles Los Angeles and the Automobile: The Making of the Modem City (Berkeley: University of California Press, 1987).

[7]"This Is the 'Garden City' Idea," Building Age 51 (ago. 1929): 49.

[8]Frank Lloyd Wright, The Disappearing City (New York: William Farquar Payson, 1932).

[9]Joseph B. Mason, "Two Fronts for Every House," Building Age 52 (sett. 1929): 42-44,106.

[10]Joseph B. Hall, "What Makes the Hot Spot 'Hot'?" Appraisal Journal 7 (ott. 1939): 344.

[11]Richard Longstreth, The Drive-In, the Supermarket, and the Transformation of Commercial Space in Los Angeles, 1914-1941 (Cambridge: MIT Press, 1999),72-73; Harry E. Martin, «Trends in Decentralization of Shopping Centers," Chain Store Age 17 (apr. 1941): 39.

[12]Kent A. Robertson, Pedestrian Malls and Skywalks: Traffic Separation Strategies in American Downtowns (Aldershot, GB: Avebury, 1994), 24, 83; E. Relph, Place and Placelessness (London: Pion, 1976), 132.

[13]John Ihlder, "Coordination of Traffic Facilities: Annals of the American Academy of Political and Social Sciences 138 (sett. 1927): 5-6; Cleland Austin, "New Life for an Old Shopping Area," American City 63, ott. 1948, 106.

[14]Frank R. Hawkins, "Making It Easy for the Automobile Shopper," Chain Store Age 4 (apr. 1928): 17. Per un esempio di uomo d’affari che non solo aveva riconosciuto, ma anche documentato la scoperta del fatto che gli automobilisti preferivano guidare più a lungo per raggiungere parcheggi disponibili anziché percorrere distanze minori e dover andare a caccia di un posto, vedi F. R. Henry, "Changing Buying Habits Set Our Location Policies," Chain Store Age 10 (lug. 1934): 18.

[15]R. E. Wood, "Space for Head-in Parking Relieves Congestion and Facilitates Suburban Street Widening," American City 4° (feb. 1929): 127; Richard Longstreth, City Center to Regional Mall: Architecture, the Automobile, and Retailing in Los Angeles, 1920-1950 (Cambridge: MIT Press, 1997),46-47.

[16]J. C. Nichols, "Developing Outlying Shopping Centers:' American City, 42, lug. 1929, 99. La migliore storia delle realizzazioni di J. C. Nichols non spiega la ragioni della sua prescienza riguardo al potenziale commerciale dell’automobile e dei modi per rispondere nel caso del Country Club Plaza; si veda William S. Worley, J. C. Nichols and the Shaping of Kansas City: Innovation in Planned Residential Communities (Columbia: University of Missouri Press, 1990), 80, 254-55.

[17]"All-Chain Shopping Area," Chain Store Age 6 (dic. 1930): 58; "Taking Business out of Traffic," Chain Store Age 15 (dic. 1939): 23.

[18]J: C. Nichols, "Developing Outlying Shopping Centers," American City 41 (lug. 1929): 98-101.

[19]E. E. East, "Los Angeles' Street Traffic Problem," Civil Engineering, ago. 1942,437. Per una descrizione generale, vedi Gerald J. Foster and Howard J. Nelson, Ventura Boulevard: A String-Type Shopping Street (Los Angeles: Real Estate Research Program, Bureau of Business and Economic Research, University of California, Los Angeles, 1958), 7.

[20]L. Deming Tilton, "Roadside Control through Zoning," Civil Engineering 10, no.1 (gen. 1940): 11. Per un esempio di sviluppo di shopping center nella fascia occidentale di Cleveland, vedi "How Searstown Grew," Chain Store Age 24 (sett. 1958): 35.

[21]Longstreth, Drive-In, 46-47; Chester H. Liebs, Main Street to Miracle Mile: American Roadside Architecture (Boston: New York Graphic Society, 1985), 10-13; M. S. C., "Shop Fronts Must Advertise," Building Age 52 (gen. 1930): 40.

[22]"A Program for Community Conservation in Chicago and an Example: The Woodlawn Plan," ([Chicago]: Chicago Plan Commission, 1946),49.

[23]"Looking Backwards: 25 Years of Super Market Progress," Super Market Merchandising 20 (1955): 68-69.

[24]Howard L. Preston, Automobile Age Atlanta: The Making of a Southern Metropolis (Athens: University of Georgia Press, 1979), 131.

[25]H. S. Wright, "Locating Grocery Stores," Chain Store Age 1 (ago. 1925): 54-55.

[26]"Now Comes the 'Automarket,"' Chain Store Age 4 (giu. 1928): 49-53; "MacMarr Develops the 'Drive-In' Store," Chain Store Age 6 (ott. 1930): 59- 60, 62, 72.

[27]Ad esempio, vedi Andrew Williams, "Super Markets to Endure Must Excel in 5 Ways," Chain Store Age 13 (ago. 1937): 18; "All the Most Modern Red and White Food Store in the United States (Today)," Red and White Hy-Lites, ago. 1940, 3; "Include a New Store Front in Your Post-War Plans," Red and White Hy-Lites, gen. 1945, 6; "Tom's Quality Market," Monthly Bulletin, Michigan Society of Architects 23 (22 marzo 1949): 3; Samuel Shore, "How We Planned Our New Providence Unit," Super Market Merchandising 15 (mar. 1950): 43; "Supers Continue Forward March, Part I," Super Market Merchandising 19 (feb. 1954): 41.

[28]"Supers Emulate 'Great White Way,' Super Market Merchandising 19 (lug. 1954): 55.

[29]H. W. Underhill, "What It Costs to Build a Modern Super Market," Super Market Merchandising 19 (sett. 1954): 62-63, 66; "What Do You Think?" Super Market Merchandising 17 (feb. 1952): 124-25; "Shopping Centers - A Neighborhood Necessity," Urban Land: News and Trends in City Development, sett. 1944, 4; "The 1964 Model," Super Market Merchandising 33 (apr. 1965).

[30]Per un eccellente esame dei conflitti di lungo termine fra estetica elitaria e vernacolare riguardo alle fasce stradali, vedi Daniel M. Bluestone, "Roadside Blight and the Reform of Commercial Architecture," in Roadside America: The Automobile in Design and Culture, a cura di Jan Jennings (Ames: Iowa State University Press, 1990),170-84. Per un’attenta comprensione del significato della concorrenza sulle fasce stradali, vedi Richard P. Horwitz, The Strip: An American Place (Lincoln: University of Nebraska Press, 1985).

[31]J. M. Bennett, Roadsides: The Front Yard of the Nation (Boston: Statford, 1936), 165.

[32]Robert Venturi, Denise Scott Brown, Steven Izenour, Learning from Las Vegas: The Forgotten Symbolism of Architectural Form (Cambridge: MIT Press, 1997), 3.

[33]"Tourist Hotel Project Includes Maintenance and Accessory Sales," Buffalo Motorist 15 (ago. 1922): 30-31.

[34]Warren James Belasco, Americans on the Road: From Autocamp to Motel, 1910-1945 (Cambridge: MIT Press, 1979),139.

[35]George Thomason (architetto di Downtowner, 1958-c. 1971), intervista di Keith A. Sculle, Memphis, 22 maggio 2000.

[36]Per esempio, vedi "Bank Caters to Motorists Curb Service for Depositors," Hoosier Motorist 18 (mag. 1930): 15; "'Drive-In' Bank Opens New Field," American Builder 60 (feb. 1938): 52-53.

[37]"Ticket Office for an Airline," American Builder 77 (ago. 1955): 144- 45; "'Drive-In' Retailing Setting New Trend?" Chain Store Age 33 (lug. 1957): 32-33.

[38]"Something New in Selling Used Cars," Accessory and Garage Journal 19 (ago. 1929): 39. La storia del commercio di automobili si è concentrata da qui sia sulla storia delle architetture che più ampiamente sulle pratiche distributive. Per il primo aspetto, vedi Liebs, From Main Street to Miracle Mile, 75-93. Per il secondo, vedi Henry Dominguez, The Ford Agency (Osceola, WI: Motorbooks International, 1981), e Robert Genat, The American Car Dealership (Osceola, WI: MBI,1999).

[39]"Ways of Controlling Automobile 'Graveyards,"' American City 41 (ott. 1929): 171. Vedi anche "What Disposition of 'Junked' Automobiles," American City 43 (lug. 1930): 14.

[40]C. G. Stoneburner, "The Development of Off-Street Parking in Arlington, Va.," Trafiic Engineering 15 (mag. 1945): 309, 311; "Adequate Parking Holds Big Regional Retail Trade," American City 67 (nov. 1952): 155; Harold C. Frantzen, "The Speculative Stop-and-Shop," Appraisal Joumal 17 (gen. 1949): 98; Howard T. Fisher, "Can Main Street Compete? American City 65 (ott. 1950): 101; Preston, Automobile Age Atlanta, 130.

TRAPPOLE PER TOPI - Così nel gergo degli addetti ai lavori vengono definiti i centri commerciali . Chi siano i topi è facilmente intuibile, l’oggetto di ogni desiderio distributivo per i quali si declinano le più diversificate teorie che invitano a operare “per la loro massima soddisfazione”. E’ sintomatico che un intero settore con una fortissima valenza economica esprima una così irriverente definizione nei confronti di chi, tutto sommato, li mantiene. In ogni caso la comunità umana è un poco diversa da quella dei ratti ed è per questo che molte discipline si sono scomodate per meglio comprenderne le dinamiche relazionali, un lungo elenco con un unico denominatore comune: Pavlov.

Nel mondo distributivo tutti hanno “scientificamente” lavorato per individuare quali fossero i segnali che facessero scaturire il comportamento desiderato : l’acquisto. Ambienti che con la loro atmosfericità predispongono, colori che favoriscono, musiche e odori che inducono, analisi antropologiche che a dispetto delle più elementari forme di privacy guardano con telecamerine varie i comportamenti dei topi. Come si muovono, come guardano e muovono gli occhi quando sono nello spazio di consumo ed ora anche che cosa si dicono al telefonino avviene sistematicamente in molti spazi di vendita, soprattutto centri commerciali. Un approccio “scientifico” decisamente Galileiano, ma anche poco educato e al limite del lecito, anzi oltre il limite, ma da quando nell’economia il linguaggio si è radicato in forme e contenuti di tipo militare, esprimendo la dimensione ultima di questo tipo di economia: la guerra, con i topi tutto è lecito pur di vincere. Cioè vendere.

Noto che vi sono luoghi non ancora completamente pervasi da questa cultura in cui gli ammaestratori di topi potrebbero sbizzarrirsi oltre modo: Chiese e luoghi di culto dove si potrebbero sponsorizzare matrimoni, battesimi e funerali con un adeguato merchandising potrebbero ricavarsi profitti interessanti. Problemi con le gerarchie ecclesiali non ce ne sarebbero, loro, da tempo badano al sodo, purché renda. Ospedali dove ad ogni malato e tipo di malattia possono essere indirizzati specifici messaggi promozionali, dalla lungo degenza alla convalescenza le opportunità di vendita sarebbero molto ampie. Dal supporto psicologico alle vacanze ristabilizzatrici la gamma delle possibili offerte coinvolgerebbe molti.

Anche i cimiteri rappresentano luoghi in cui una costante presenza di consumatori è garantita, giorno e notte. Anche i topi morti possono avere un loro mercato. Coniugare la dilagante moda new age con un ritrovato culto dei defunti renderebbe tutti più in pace con la coscienza e darebbe una discreta scremata a tanti sensi di colpa che ogni decesso lascia a molti rimasti. Basta modernizzare un poco il bene dell’anima, o dell’energia vitale, o dell’afflato universale,il tutto rigorosamente post mortem, con beni di consumo hic et nunc che ne aiutino il trasmigrare, verso un altro corpo, il paradiso, il nirvana, al cospetto di vergini etc etc , ogni religione è buona pur di vendere. I costruttori di trappole sono abili , in particolare i cacciatori di topi sono i più ricercati, novelli pifferai magici sanno, perché spiano, quali sono i punti deboli del loro oggetto di studio e riescono abilmente a condurli là dove massimo si esprime il loro desiderio di consumo, anche quello latente ed inespresso.

Questi bracconieri passano dalla antropologia del consumo alla ermeneutica del profitto, tralasciando alcune categorie filosofiche quali la morale e l’etica che riconosca dignità ai topi i quali la acquisiscono solo quando acquistano, e basta. Consumo ERGO SUM Il loro ideale di consumatore è l’assuefatto che, senza alcun altro desiderio che “tutto consumare”, si aggira per le varie trappole in cerca della merce, che risulta preferita quando ha intrinsecamente le caratteristiche dell’eroina, ogni atto d’acquisto è propedeutico al successivo. Hanno elaborato una teoria, molto semplice ma efficace, adatta per i topi, la prima fase consiste nel creare il desiderio, successivamente trasformare questo desiderio in bisogno, di cosa è secondario, più sono inutili e più sono ricercati. Mode, tendenze, un dover essere come tutti, o diversi da tutti, che è la stessa cosa, sono le linee guida delle liste per la spesa per i topi, che in massima parte almeno tana e formaggio l’hanno assicurata. Ma non tutti.

Quanto può ancora durare?

La boutique di Banana Republic si affaccia su Main street, il “corso” di Crocker Park, che ora profuma di Natale, con addobbi fluorescenti e renne dipinte di neve, lucine e musiche sacre. Nello stesso isolato, Gap si presenta in varie incarnazioni (kids, baby), mentre le vetrine di Victoria’s Secret espongono mannequin in lingerie super-sexy.

Come si arriva nel cuore “ neo-con” (che in questo caso sta per neo-consumista) di questo angolo opulento dell’America? Con una passeggiata che, superata la fontana al di là del parcheggio, costeggia il parco degli Scacchi e prosegue lungo i marciapiedi di sei metri costruiti con pietre riciclate, non in cemento, per creare un’atmosfera di autenticità. Anche i lampioni di ghisa stile Ottocento servono a diffondere un clima d’altri tempi e d’altri luoghi. Chi non ha mai viaggiato all’estero - e qui sono in tanti - potrebbe credere di essere stato catapultato in un’elegante cittadina della provincia italiana.

“Ogni dettaglio è importante, perché non vogliamo che i nostri clienti si sentano come in uno dei tanti mall commerciali che già esistono in America”. spiega Paul Deutsch, dello studio di architettura Bialosky, che ha firmato il progetto di questo centro sorto pochi anni fa alle porte di Cleveland, nell’Ohio.

Fino al 1992 Crocker Park era una immensa azienda agricola specializzata nella produzione di granturco; adesso è uno dei 120 lifestyle centers nati in ogni angolo degli Stati Uniti per rispondere alle nuove tipologie del consumo. In questo pezzetto di Ohio, una volta, ruggivano trattori e mietitrebbia; adesso, di notte, arrivano i camion che scaricano tonnellate di abiti all’ultima moda (fabbricati in Cina), gamberetti e rucola per i ristoranti chic, bestellers di Patricia Cornwell e CD di 50 cents.

I lifestyle centers sono una delle ultime follie dell’America nell’era Bush. La terminologia non è ancora di uso comune, ma per sociologi e architetti, investitori immobiliari e capi del marketing identifica la risposta ai vecchi mall cioè ai mega centri commerciali che negli anni Ottanta-Novanta hanno invaso i suburbs con costruzioni orribili. a forma di scatola. La nuova generazione cambia impostazione: si avvicina di più al centro città - in alcuni casi, torna a farne parte - apre i tetti, raddoppia le passerelle, aggiunge piazze, parcheggi “integrati” e non più relegati sull’esterno: insomma, pur restando spazi privati, i nuovi centri per lo shopping stanno cercando di somigliare sempre di più a luoghi pubblici. Intendiamoci: i mall non sono ancora morti, anche se Roger Blackwell, professore di marketing alla Ohio State University, ne annuncia il tramonto. Sparsi negli States, ne esistono 1130 secondo le statistiche dell’International Council of Shopping Centers, l’organizzazione di categoria che ha sede a Manhattan. Ed è lì, nei mall, che l’americano medio sfoga il suo istinto al consumo, riportandosi a casa ogni sabato sera, con il fuoristrada Ford, o magari lo Humvie, centinaia di dollari di vestiti, elettronica, regali per i suoceri e vasi di cristallo.

Basta andare al Mall of the America, il più grande centro commerciale del Minnesota, degli Stati Uniti e del mondo, per rendersi conto che la “cultura del mall” non è ancora sepolta del tutto. A cinque minuti dall’aeroporto di Minneapolis, in mezzo ad autostrade a sei corsie e parcheggi chilometrici, ubriaca ogni settimana un milione di pellegrini con i suoi 520 negozi, 22 ristoranti, 27 fast-food, 14 cinema e 8 nightclub.

Ma quel modello di consumo - avverte Richard Feinberg, che alla università Purdue insegna un’insolita materia, “management degli esercizi commerciali” - sta cambiando velocemente, mettendo in crisi i mall tradizionali. All’origine della rivoluzione c’è l’uso crescente di Internet. La quota di compravendite nazionali on-line è passata dal 2, 7 per cento dell’ultimo trimestre 2003 al 3,1 degli ultimi tre mesi del 2004. E l’incidenza aumenta. Non solo basta un clic sul computer di casa per farsi arrivare in salotto, comodamente, in pochi giorni, l’ultimo oggetto del desiderio; molti consumatori, prima di andare al mall, paragonano sul web prezzi e qualità. Risultato: il tempo medio di permanenza al mega centro commerciale si è ridotto drasticamente, con contraccolpi sui volumi delle vendite.

La seconda ragione del declino del mall tradizionale è legata al costo del petrolio. L’impennata si è fatta sentire nei bilanci delle famiglie americane. E anche se la benzina continua a costare molto meno che in Europa, gli aumenti scoraggiano le gite al mall, che spesso, viste le distanze americane, richiedono un’ora di viaggio. Senza contare che le auto di Detroit non badano al risparmio energetico. Un terzo motivo di difficoltà è legato al successo della Wal-Mart. Fondata da Sam Walton in Arkansas nel 1962, la catena di ipermercati non solo è diventata la più grande società americana (1,6 milioni di dipendenti, 3700 punti vendita in Usa, 285 miliardi di fatturato), non solo è tra i primi partners commerciali della Cina (se fosse un paese la Wal-Mart verrebbe subito dopo la Germania nella lista dell’interscambio commerciale con Pechino), ma rappresenta anche la fonte di rifornimento base delle famiglie degli States. E quando l’amministratore delegato della Wal-Mart, Lee Scott, dice, come ha fatto a metà novembre, che il Natale 2005 promette bene, gli americani, da George Bush all’ultimo sfollato di New Orleans; si sono sentiti sollevati (un terzo delle vendite al dettaglio annuali si concentra a fine anno).

A questi mutamenti sociologici del consumatore d’oltreatlantico, le imprese rispondono ora con i lifestyle centers. L’obiettivo è attrarre gli acquirenti con la promessa di un’esperienza meno alienante, e più umana, divertente, che non quella di un banale ipermercato. A Green Valley Ranch, per esempio, alle porte di Las Vegas, c’è persino un casinò. A Glen Town, costruito su una ex base dell’Air Force, è stato mantenuto in piedi il radar: un tocco anticonformista. Tutti i nuovi lifestyle centers cercano ovviamente di avvicinarsi al modello tradizionale - e idealizzato -dell’elegante cittadina medievale, piena di negozi a gestione familiare: tavoli all’aperto e ombrelloni, come nelle piazze italiane. È un’illusione, naturalmente. A Crocker Park, tranne due boutique di commercianti locali, tutte le altre appartengono a catene nazionali e multinazionali. E i ristoranti non fanno eccezione.

Eppure gli esperimenti del neoconsumismo attraggono, al tempo stesso, acquirenti e investitori. Si calcola che mentre il fatturato medio annuo di un mall è di 3450 dollari a metro quadro, quello dei lifestyle centers raggiunge facilmente i 5 mila dollari. Un segno della maggiore propensione di chi li frequenta ad aprire il portafoglio. Gli operatori immobiliari lo hanno capito e non perdono tempo. L’anno scorso sono stati ultimati solo nove mall tradizionali, mentre sono nati 20 centri “ neo-con” e altrettanti ne sorgeranno quest’anno, non solo nelle periferie anonime delle città dell’Ohio, ma anche nell’aristocratico New England e persino alle porte di New York. A Yonkers, il Comune che confina con la Grande Mela e ne vive in simbiosi, la Forest City Ratner Company , il gruppo già impegnato nella costruzione del grattacielo del New York Times progettato da Renzo Piano, inaugurerà l’anno prossimo un lifestyle center chiamato Ridge Hill Village. Accanto a 130 mila metri quadri di negozi, cinema, ristoranti, alberghi e uffici, saranno messi in vendita mille appartamenti, con effetti economici e di costume che si faranno sentire al di là dell’East River. Cioè a New York. Negli ultimi mesi, del resto, le grandi catene di distribuzione, che nel passato non osavano mettere piede a Manhattan, hanno invaso l’isola. Home Depot, il gigante del fai-da-te, secondo gruppo della distribuzione in Usa, ha creato due punti vendita nel cuore della città. A Columbus Circle, nelle nuove torri di Time Warner, il più grande gruppo multimediale del mondo, vi è ormai un centro commerciale impreziosito da due statue di Botero. Per i newyorchesi doc il cambiamento ha un aspetto melanconico. Manhattan si era sempre vantata di essere autoreferenziale per gusti, stile, acquisti. Il rischio? Che d’ora in poi assomigli sempre più a un lifestyle center dell’Ohio.

Nota: molti altri articoli soprattutto internazionali sul tema, sia qui in MALL/Spazi del Consumo, che in Eddyburg/Territorio del Commercio (f.b.)

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