Presentato il dossier di Legambiente sulla valorizzazione e la tutela della risorsa paesaggistica, nella convinzione che la qualità del paesaggio è una carta fondamentale che l'Italia deve giocare per guardare con ottimismo al futuro.
Qualità. E' la parola d'ordine, il punto di partenza per un radicale cambio di direzione nelle politiche del territorio, la chiave imprescindibile quando si parla di turismo, infrastrutture, città, investimenti nell'innovazione. Perché la capacità di valorizzare le qualità del territorio italiano è una chiave imprescindibile per rispondere alle sfide della globalizzazione. Coste e turismo sostenibile, energie rinnovabili e infrastrutture integrate, politiche capaci di fare del paesaggio un valore aggiunto dello straordinario insieme di città, beni storici e artistici, culture materiali e immateriali che rende unico il Belpaese.
Il paesaggio italiano rischia di essere completamente stravolto da un processo di diffusione insediativa e di occupazione di suoli senza paragoni nella storia. E il patrimonio di bellezza, fatto di natura e arte, di genio urbanistico e architettonico, rischia di rimanere isolato in un mare di case, capannoni, infrastrutture senza nessun criterio basati su un'idea vecchia e sbagliata di sviluppo.
I numeri dei processi in corso sono impressionanti: oltre 3.231.000 nuovi appartamenti costruiti nell'ultimo decennio, il più lungo ciclo edilizio espansivo dagli anni della ricostruzione post bellica. Nel solo 2006 sono state edificate 331mila unità abitative, di cui 30mila abusive - un dato che non si registrava da almeno vent'anni - e 7.044 capannoni nel corso dell'anno 2005. Un ciclo del cemento che produce effetti devastanti nei confronti del paesaggio: con oltre 6.000 cave attive e circa 10.000 abbandonate lungo tutta la penisola. Uno dei fenomeni di trasformazione del paesaggio italiano di cui meno si parla, regolato ancora da una Legge nazionale del 1927, con molte Regioni ancora senza piani, norme o censimenti, che produce guadagni considerevoli e che spesso è gestito dalle ecomafie. Finora i Comuni hanno potuto scegliere se dare autorizzazioni alle attività estrattive senza alcun riferimento paesaggistico o normativo. E visto che il bilancio di molti di loro si regge ancora sui proventi dati dagli oneri di urbanizzazione o dalle attività di estrazione, non è difficile capire come abbiano agito. Sanare gli effetti delle tante trasformazioni, della colonizzazione sconnessa e dell'occupazione di suolo per fermare il degrado ambientale dei tanti paesaggi italiani: è questo, dunque, il primo obiettivo da perseguire.
Caro direttore, i milanesi come reagirebbero se dicessero loro che c’è un progetto avanzato di ricerche petrolifere proprio davanti al Duomo? Rifarebbero certo le cinque giornate. E i veneziani, se venissero a sapere che vorrebbero cominciare a carotare a San Marco? E i fiorentini, sopporterebbero le trivelle a Santa Croce? I rispettivi abitanti che ne direbbero di scavi per la ricerca del petrolio a Roma tra i Fori imperiali e il Colosseo, a piazza Di Grado a Genova, sulle colline di Torino, a piazza delle Erbe, a piazza Grande, lungo le rive del Garda?
Non si sentirebbero offesi e scempiati nel più profondo del loro essere? Ebbene, in Sicilia, e precisamente in una zona che è stata dichiarata dall’Unesco "patrimonio mondiale dell’umanità", il Val di Noto, dove il destino e la Storia hanno voluto radunare gli inestimabili, irrepetibili, immensi capolavori del tardo barocco, una società petrolifera americana, la "Panther Eureka", è stata qualche anno fa autorizzata, dall’ex assessore all’industria della Regione Sicilia, a compiervi trivellazioni e prospezioni per la ricerca di idrocarburi nel sottosuolo. In caso positivo (positivo per la "Panther Eureka", naturalmente) è già prevista la concessione per lo sfruttamento dell’eventuale giacimento.
In parole povere, questo significa distruggere, in un sol colpo e totalmente, paesaggio e storia, cultura e identità, bellezza e armonia, il meglio di noi insomma, a favore di una sordida manovra d’arricchimento di pochi spacciata come azione necessaria e indispensabile per tutti. E inoltre si darebbe un colpo mortale al rifiorente turismo, rendendo del tutto vane opere (come ad esempio l’aeroporto Pio La Torre di Comiso) e iniziative sorte in appoggio all’industria turistica, che in Sicilia è ancora tutta da sviluppare.
Poi l’inizio dei lavori è stato fermato, nel 2003, dal Governatore Cuffaro su proposta dell’allora assessore ai Beni Culturali Fabio Granata, di Alleanza nazionale, in prima fila in questa battaglia.
Ma è cominciato quel balletto tutto italiano fatto di ricorsi all’ineffabile Tar, rigetti, annullamenti, rinnovi, sospensioni temporanee, voti segreti, vizi di forma e via di questo passo ( ma anche di sotterranee manovre politiche che hanno sgombrato il campo dagli oppositori più impegnati).
E si sa purtroppo come in genere questi balletti vanno quasi sempre tristemente a concludersi da noi: con la vittoria dell’economicamente più forte a danno degli onesti, dei rispettosi dell’ambiente, di coloro che accettano le leggi. E i texani, dal punto di vista del denaro da spendere per ottenere i loro scopi, non scherzano.
Vogliamo, una volta tanto, ribaltare questo prevedibile risultato e far vincere lo sdegno, il rifiuto, la protesta, l’orrore (sì, l’orrore) di tutti, al di là delle personali idee politiche?
Per la nostra stessa dignità di italiani, adoperiamoci a che sia revocata in modo irreversibile quella contestata concessione e facciamo anche che sia per sempre resa impossibile ogni ulteriore iniziativa che possa in futuro violentare e distruggere, in ogni parte d’Italia, i nostri piccoli e splendidi paradisi. Nostri e non alienabili.
Abbiamo seguito con attenzione le polemiche e le prese di posizione relative alla relazione inviata dal Soprintendente Giorgio Rossini al ministro dei Beni Culturali Francesco Rutelli. E’ stato scritto che Italia Nostra ha considerato il rapporto una sorta di vangelo. Non siamo completamente d’accordo. Certamente concordiamo sulle criticità segnalate, ma non sono solo quelle riportate nella relazione del Soprintendente che ci preoccupano. Il territorio ligure oggi è il bersaglio di vere e proprie operazioni di aggressione che ci mettono in allarme, e che in parte hanno già avuto concreta realizzazione, a discapito dell’insostituibile bellezza dei luoghi. Così si rischia di stravolgere, senza possibilità di ritorno, i caratteri peculiari della costa ligure, degli antichi borghi e del radicamento umano in questa articolata morfologia del paesaggio. Nella relazione del Soprintendente non sono riportati progetti ed interventi sul territorio che noi non condividiamo e che ci rifiutiamo di accettare senza arrivare a compromessi. Troppe volte la soprintendenza si è espressa con pareri determinanti per l’avvio di progetti in chiaro contrasto con la conservazione del paesaggio. Troppe volte ha fornito pareri che negavano precedenti risoluzioni. Ci riferiamo in particolare ad edifici previsti in elevazione a Savona, ad Albenga, a Sarzana. Pensiamo ai progetti sproporzionati di darsene, di pianificazione nella piana di Marinella di Sarzana, di interventi sulle piccole isole presenti nel nostro territorio. E molto altro. Troppe volte nelle conferenze dei servizi la Soprintendenza ha fornito pareri che non assumevano il senso di prendere posizioni vincolanti.
Di una cosa siamo grati al Soprintendente. Avere messo la mano nella piaga in un momento in cui in Liguria le forze politiche hanno sferrato un attacco determinato per favorire la cementificazione, senza mostrare nessun riguardo a quel poco di costa o di collina che resta ancora allo stato naturale.
Italia Nostra anche in Liguria continuerà comunque ad agire per la tutela di tutti i beni naturali e culturali che non devono appartenere a pochi e non devono essere gestiti da pochi perché ci appartengono, sono nostri, di tutta la gente perché ne possa usufruire liberamente.
Giovanni Gabriele è il presidente regionale di Italia Nostra
Sollecitazioni di cautela e di maggiore attenzione per il paesaggio e per quanto ancora resta della Campagna romana, provenienti ormai insistentemente da più parti dell’opinione pubblica, cadono inascoltate per l’indifferenza di alcune delle amministrazioni alle quali spetta il compito di vigilare sull’uso corretto del territorio, ed alle quali va attribuita la maggiore responsabilità dei danni arrecati nel corso degli anni.
Il decadimento di aspetti non solo formali, quali il paesaggio, ma anche strutturali, come ad esempio quelli insiti nell’uso agricolo dei suoli, prosegue inesorabile con la cancellazione di quei caratteri storici, artistici e naturalistici che da sempre hanno costituito il fascino del suburbio romano.
Ad appena un mese dall’insediamento del Consiglio direttivo del parco regionale della via Appia, il Comune di Marino ha deciso di trasformare circa 70 ettari di suoli agricoli in zona artigianale, commerciale ed industriale ponendo così in serio pericolo ogni prospettiva di valorizzazione del territorio e di ampliamento del parco. È facile prevedere a quale svilimento della natura e del paesaggio si perverrà anche qui con la costruzione di centri commerciali, capannoni, depositi di materiali, e così via. A rischio di grave manomissione è parimenti un’altra area del Comune di Marino, ove è nota fin dall’Ottocento la presenza dei resti di una antica città, convenzionalmente indicata con il nome di Mugilla, uno dei tanti insediamenti non identificati dei popoli latini precocemente scomparsi in seguito alla dilagante espansione della potenza romana. La zona è ancora indenne da alterazioni, ed è di grande importanza archeologica.
Questi suoli, che mantengono intatto il fascino del paesaggio agrario, sono stati comunemente riconosciuti, nel mondo degli studi, negli ambienti della cultura internazionale e in ampi settori di opinione pubblica, di elevato pregio ambientale e di incomparabile interesse per la conoscenza del Latium Vetus, della storia di Roma e di altre comunità latine, fin dalle loro più antiche origini.
Una proposta di legge per l’ampliamento del parco regionale dell’Appia antica approvata all’unanimità dalla Giunta Regionale nel 2005, e tuttora all’esame del Consiglio Regionale, sta per essere vanificata dai ritardi, ed ha comunque escluso l’area di Mugilla, sulla cui salvaguardia si erano create notevoli aspettative con il piano di assetto del parco.
D’altra parte, il Ministero per i beni e le attività culturali, pur disponendo di ogni capacità di intervento e nonostante i ripetuti segnali di allarme succedutisi nel corso degli anni, non ha ancora assunto provvedimenti atti ad assicurare la corretta tutela del paesaggio, della fisionomia storica dei luoghi e del patrimonio archeologico in queste come in altre aree esposte al rischio di grave alterazione.
Se si vuole evitare l’ultimo misfatto ai danni della via Appia, occorre che ciascuno faccia la sua parte (la Regione, ma anche il Ministero dell’ambiente e della difesa del territorio, nonché il Ministero per i beni e le attività culturali) nell’adottare le misure idonee a mantenere intatti i caratteri naturali e storici di àmbiti territoriali gravitanti sul tracciato della antica strada, per i quali è già previsto o comunque è ancora possibile prevedere l’inserimento nel parco.
L’altro ieri era una casa colonica, con stalle, fienili e qualche baracca. Oggi sono 55 appartamenti divisi in dieci fabbricati. Una lottizzazione molto ampia quella che si è riusciti ad attuare in zona San Severo, nel comune di Casole d’Elsa. Sulla quale però il sostituto procuratore della Repubblica di Siena Mario Formisano ha voluto vederci chiaro. Da quando qualche mese fa un privato cittadino aveva presentato un esposto ritenendo ci che vedeva crescere nella zona una struttura troppo ampia rispetto ai volumi iniziali degli immobili preesistenti. Il magistrato ha quindi affidato gli accertamenti sul campo al Corpo forestale dello stato e ai carabinieri del nucleo di polizia giudiziaria. Risultato: ieri mattina gli uomini della forestale si sono presentati nella zona di San Severo ed hanno proceduto al sequestro dell’intera lottizzazione (operazione Monopoli). In totale 30 mila metri quadrati di territorio, per 10 milioni di euro di valore. Inoltre ci sarebbero anche sei avvisi di garanzia inviati ad altrettante persone di cui non si conoscono i nomi.
I reati che si ipotizzano per questo ennesimo e preoccupante episodio riguardante la gestione dell’appetibile ma delicato territorio senese (la vicenda di borgo di Monticchiello è ancora fresca) sono quelli di lottizzazione abusiva, uso di rifiuti speciali, modifica morfologica dei terreni, realizzazione di un invaso da 20 mila metri cubi d’acqua che sarebbe stato realizzato secondo il corpo forestale dello Stato senza le necessarie autorizzazioni. «Con il potenziale rischio - si sottolinea in una nota - che eccezionali eventi atmosferici possano far sondare le acque dallo sbarramento con pericoli per la pubblica utilità».
Ai 55 appartamenti al posto della casa colonica e annessi, per i quali la legge consente il recupero ma rispettandone le volumetrie di partenza, secondo le indagini si sarebbe arrivati aumentando appunto i volumi delle strutture che di notte sarebbero state tutte demolite. «Forse - ipotizza la Forestale - a mascherare l’operazione immobiliare non tanto legittima. E così vengono forniti alla pubblica amministrazione dati molto presumibilmente gonfiati». Però risulta dalle indagini che alcune concessioni edilizie siano state approvate in tutta fretta il che ha portato al «completo stravolgimento quello che era una vecchia cascina e un paesaggio invidiabile». Fin qui la storia. Le reazioni non si sono fatte attendere.«Occorre alzare la soglia dei controlli sulle speculazioni a danno del territorio toscano» rileva in una nota Legambiente «Gli speculatori immobiliari - dicono Roberto Della Seta, presidente nazionale di Legambiente e Fausto Ferruzza, direttore di Legambiente Toscana - devono tenere giù le mani dalla regione. Questo nuovo importante sequestro, che segue di pochi mesi quello di Monticchiello in Val d’Orcia, deve servire a porre fine all’azione dissennata di chi cerca di arricchirsi a danno di un patrimonio inestimabile, sia dal punto di vista ambientale, sia paesaggistico ed economico, come quello della campagna senese e di tutta la Toscana».
Prende posizione con una breve dichiarazione il sindaco di Casole Valetina Feti nella quale, mentre conferma fiducia nelle indagini della magistratura, si augura che «venga fatta presto chiarezza sulle presunte irregolarità riscontrate per l’intervento edilizio attuato a San Severo. Confermo inoltre l’assoluto interesse di questa amministrazione affinché lo svolgimento delle indagini possa contribuire a ripristinare quello stato di certezza che occorre per ben gestire la cosa pubblica, garantendo così il buongoverno di questo territorio».
Oggi e domani si tengono le Giornate del Fai di Primavera, con l'apertura di monumenti raramente visitabili. Un'occasione per mettere in luce i temi dell'ambiente e della cultura nel nostro paese. E proprio ora arriva sugli stessi temi un appello da parte del Comitato per la Bellezza per scongiurare «il saccheggio finale del paesaggio». L'appello del comitato – presieduto da Vittorio Emiliani - che si richiama ai dettati ecologisti di Antonio Cederna uno dei fondatori dell'ambientalismo italiano, è rivolto al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al presidente del Consiglio, Romano Prodi, ai ministri competenti, Francesco Rutelli e Alfonso Pecoraro Scanio, al presidente del Consiglio Superiore dei Beni culturali, Salvatore Settis.
L'obiettivo è quello di «uno strategico cambiamento di rotta che, nel rispetto del dettato costituzionale, eviti la definitiva rovina dell'Italia».
«Siamo all'ultimo assalto: il Belpaese - sostiene il Comitato - rischia di essere rovinato per sempre da una "febbre" edilizia senza tregua che sta spargendo cemento e asfalto anche nei più bei paesaggi, nei siti vincolati, nei parchi o ai loro margini. Il nostro è un drammatico, accorato, urgente appello: stiamo per approdare a quella "abrogazione del paesaggio italiano" predetta da Antonio Cederna in tempi già bui e che si rivelano comunque migliori degli attuali».
«Nella seconda metà del '900 - continuano i firmatari dell'appello - l'Italia ha divorato, spalmandoli di asfalto e cemento, oltre 11 milioni di ettari di su-perfici libere e quindi di paesaggi intoccati. Una superficie enorme, pari ad un terzo del territorio nazionale ancora libero nel 1951, pari cioè all'intero Nord del Paese».
«Bisogna, al più presto, con gesti coraggiosi, andare - sollecita il Comitato - a piani paesaggistici dettagliati e prescrittivi, destinare risorse meno avare alla tutela, ripotenziare i quadri delle Soprintendenze,
rendere stringente la normativa del Codice del paesaggio, ridare spazio all'edilizia economica e all'affitto, incoraggiare ogni forma corretta di restauro e di recupero del patrimonio vecchio e antico». IlComitato rivolge lo stesso appello ai media affinchè si facciano interpreti di questo che loro chiamano «autentico dramma nazionale che da un lato vede intaccata a colpi di speculazione il nostro Paese, un tempo bellissimo, e dall'altro condanna i più giovani, gli anziani economicamente deboli, i nuovi italiani dell'immigrazione a svenarsi per avere comunque un tetto».
E loro che credevano d'essere terra da zanzara tigre: un popolo di Tiger Woods, questi piacentini! Campioni in erba. Palline da green più abbondanti degli acini da Gutturnio. Il fairway al posto dei pisarèi. «Che dalle nostre parti ci fosse tutta questa passione per il golf, in effetti non ce n'eravamo mai accorti...», sorride l'avvocato Umberto Fantigrossi, che siede nelle consulta per l'ambiente del Comune di Piacenza e sfoglia le delibere, le varianti, la pianimetria dell'ennesimo ed erigendo diciottobuche di Borgo Tavernago: «Io sapevo che lì c'era un progetto per fare un maneggio, un centro ippico. Insomma, dovevano starci i cavalli. Da molti anni. E non erano previste nuove case. Anche perché quello è uno degli angoli più belli della vallata. E un golf club c'è già». Ce n'è una vendemmia. Uno si vede: circonda il castello della Bastardina, il davanti, e sta a un paio di chilometri da Borgo Tavernago, forse meno. Altri tre sono sparpagliati nella provincia, più in là ma neanche tanto. «Però questo campo bis di Borgo Tavernago, appiccicato, è una cosa mai vista — indica il responsabile locale di Legambiente, Giuseppe Castelnuovo —. Poco spiegabile da ogni punto di vista: ambientale e di mercato». Una buca ogni quattromila piacentini: roba da Scozia. O tutt'italiana: «E' un trucchetto facile e già visto — continua Castelnuovo —. Ci s'inventa un campo da golf dove non ce n'è bisogno. Si fa un bel piano d'urbanizzazione. Si costruisce. E magari, com'è successo in Sardegna o in Sicilia, si pigliano pure i contributi dell'Ue. A parte i problemi che un golf implica (tipo: dove si piglia l'acqua, in una zona dove i contadini già faticano a irrigare?), questa è una colonizzazione immobiliare molto pericolosa. Un conto è salvaguardare, un altro deturpare il paesaggio». Infatti: Borgo Tavernago è un clic, una meravigliosa e vincolata villa che fu dei Borromeo e oggi è del costruttore Pier Franco Pirovano, un oratorio ottocentesco con l'altare inserito nelle lesene, la memoria d'un castello del Trecento, intorno le colline con le vigne della Luretta e della Val Tidone che facevano godere il Redi («me ne strasecolo, me ne strabilio, e fatto estatico vo in visibilio»).
E' la cosa più simile alla Toscana vicino a Milano, si dice, e infatti è da queste parti che sono trasmigrati i venerabili milanesi del weekend: il finanziere Jody Vender, la pubblicitaria Annamaria Testa, la famiglia Etro, lo scrittore Gaetano Tumiati, l'editore Alessandro Dalai... Nessuno s'era mai sognato di toccarlo, quest'angolo di paradiso. Nessuno, fino a dicembre. Quando il piano regolatore decennale del Comune di Agazzano è stato cambiato di corsa: niente cavalli, si faccia anche lì e al più presto un bel golf club con annessi 150 appartamenti in villette a schiera, più albergo a 4 stelle, più ristorante, più centro convegni, più posti auto, più piscina, più asilo... Una piccola variante e via, undicimila metri quadrati da cementare, muri alti sette metri e passa. Un'altra Monticchiello? Un altro scempio stile Val d'Orcia, dov'è intervenuto Rutelli? «Ma no — è sicura la sindachessa, Lucia Bongiorni —. Non rifaremo gli errori della Toscana. Parliamoci chiaro: qui è tutta campagna, non si fanno danni gravi all'ambiente. E invece, lo sa cosa vogliono dire tutte queste case in un paesino di duemila abitanti? Una cascata di Ici per far funzionare le scuole e rifare le strade. Perché impedirci di crescere?». Una crescita rapida. A maggio, betoniere accese. I dépliant sono pronti: «Borgo Tavernago. Il verde, la quiete, la tua casa». Gl'immobiliaristi del Gruppo Maggi assicurano al telefono: «Fra un mese è possibile acquistare, la richiamiamo noi»; C'è pure il cartello d'appalto: Gruppo Pirovano costruzioni. Lo stesso Pirovano della villa. Lo stesso che otto mesi fa, a Milano, è stato condannato a tre anni di carcere per aver corrotto la giunta diessina di Peschiera Borromeo. Lo stesso che, dicono i giudici, aveva ottenuto (pure là) una variante al piano regolatore per costruire su un terreno agricolo. «Il solo citare quell'episodio è un'offesa a me e a tutto il comune di Agazzano! — s'indigna la sindachessa — Io ho fatto le battaglie contro le cave e le discariche. Non accetto simili accostamenti. Quello che è avvenuto in un altro paese, sono problemi che non mi riguardano». La Guerra del Golf però è già cominciata: in uno studio legale di Piacenza, una cinquantina di firmatari, è pronto un ricorso urgente per bloccare la variante al piano regolatore. «Le colline piacentine finora s'erano salvate dalle speculazione — dice Domenico Ferrari, presidente provinciale del Fai —, ma ora pagano la vicinanza di Milano. Ci sono stati scempi. Cose turche. Ad Agazzano non c'è nessuna pressione abitativa: fanno tutto di fretta perché fra qualche mese scade la giunta». Dicono che le nuove case saranno coperte dal verde e non si vedranno... «Per coprire 150 case alte più di sette metri, altro che verde. Ci vogliono i baobab».
Postilla
I campi da golf, ormai irrinunciabile status symbol delle nostre società opulente, si rivelano in realtà, nel piacentino come a Bologna, cavallo di Troia ecologicamente rispettabile (in fondo si tratta di prati!) per la speculazione immobiliare. Pur se idricamente costosissime e completamente incongrue, dal punto di vista culturale e botanico, ai nostri paesaggi, divengono strumento per "valorizzare" territori un po' "spenti".
Nelle parole del sindaco di Agazzano due snodi fondamentali:
- la perversione di un meccanismo istituzionale ed economico che rende l'ente comunale drammaticamente ricattabile (anche senza dolo) dal potere immobiliare.
- il perdurare di una concezione estetica del paesaggio che tende ad isolare le eccellenze da salvaguardare (Val d'Orcia), rispetto alla "banalità" della campagna considerata quale spazio disponibile per espansioni edilizie.
Oltre trent'anni fa c'era chi ci ricordava: "Se il paesaggio è un 'quadro', una labile e soggettiva parvenza, uno stato d'animo, la conseguenza ovvia è che, tra le esigenze della collettività e del contemplatore disinteressato (cittadino affamato di verde, escursionista, gente bisognosa di ricreazione all'aria aperta, ecc.) e le esigenze assai più pratiche delle società immobiliari, saranno sempre queste ultime a prevalere." Antonio Cederna , La distruzione della natura in Italia, 1975. (m.p.g.)
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VENEZIA.Coniugare lo sviluppo del territorio con la tutela del paesaggio. E’ il lavoro cui sono chiamati i 5 saggi - a vario titolo esperti di settore - che nei prossimi mesi lavoreranno per conto della Regione alla definizione di un nuovo modo di concepire il paesaggio veneto. Entro il 30 settembre la Commissione formata da Amerigo Restucci, Paolo Feltrin, Giampaolo Rallo, Marino Breganze e Francesco Curato, elaborerà il testo che costituirà l’elemento portante della pianificazione. Questo verrà quindi inserito nel testo di legge sul piano di prossima approvazione.
Il piano dovrà armonizzare tutti gli aspetti dello sviluppo (economia, infrastrutture, insediamenti produttivi ed abitativi) con quelli paesaggistici che assumono ora una nuova centralità. La normativa dovrà a sua volta essere rispettata dai piani territoriali realizzati dalle singole amministrazioni. Nelle prossime settimane la Commissione - presentata ieri mattina a palazzo Balbi - realizzerà un documento contenete scenari e strategie a tutela, valorizzazione e conoscenza del paesaggio. In questo scenario verranno individuate le macroaree di intervento, verosimilmente una decina, riunite in maniera omogenea in base alle rispettive peculiarità. Tra queste si configurano la Piana padovana, la Pedemontana, il Cadore e le aree costiere del Delta del Po. «Indagheremo sulla specifità di ciascuna zona sfruttando tutti gli elementi a disposizione, dalla toponomastica alla pittura fino alle relazioni dei viaggi del’700 - spiega l’architetto Restucci - penso ad esempio alla realtà della Piana padovana, con il problema delle cave: non dobbiamo demonizzare le situazioni, ma renderle compatibili con la realtà ricreando una continuità spesso interrotta. Il Veneto non è solo Venezia ed i Colli Euganei». Il 48% del territorio, circa 13.452 chilometri quadrati, è considerato patrimonio paesaggistico con 1.649 siti indicati come esmepio di bellezza naturale e 8.000 come elementi dal salvaguardare. Il piano coinvolgerà anche opere infrastrutturali importanti come la Pedemontana, la Valdastico ed il Passante in un lavoro di armonizzazione tra bello e utile. Il Codice Urbani invita le Regioni a collaborare con lo Stato nell’elaborazione di piani paesaggistici e urbanistico-territoriali. «La Regione ha colto l’opportunità di salvaguardare il territorio senza fermare lo sviluppo - sostiene il presidente della Regione Giancarlo Galan spalleggiato dagli assessori Marangon e Chisso, con delega rispettivamente a Politiche per il territorio e Infrastrutture - ma ci vuole coraggio per fare delle scelte in questo senso. Noi offriamo come laboratorio: il Terzo Veneto ha come obiettivo quello di coniugare natura, cultura ed economia». La Regione dovrà quindi svolgere la funzione di indirizzo e coordinamento delle azioni di valenza paesaggistica.
Per questo motivo, nei prossimi mesi sono in programma l’attivazione dell’Osservatorio del paesaggio, la promozione di alcune sperimentazioni prima della definizione del Pianto territoriale regionale di coordinamento, la sottoscrizione di un’intesa istituzionale tra ministeri e la valorizzazione delle progettualità urbanistiche attraverso il premio «Piccinato».
Sono almeno vent’anni che si elaborano in Italia piani paesaggistici: a partire dalla legge Galasso (n. 431 del 1985) e dai piani formati per prime dalle Regioni Emilia-Romagna, Liguria, Marche, e poi numerose altre, tra cui il Veneto. Prima ancora, ricordiamo il Piano urbanistico regionale del Friuli-Venezia Giulia nel 1978. Eppure, ogni volta si ricomincia da capo. Adesso l’occasione è fornita dal nuovo Codice del paesaggio (2004-2006), che riprende e completa la strategia e gli strumenti della legge del 1985, e soprattutto dal desiderio di emulare le “intese” stipulate con Rutelli da Martini e Illy e dimostrare così, davanti ai mass media, che anche nel Veneto si vuol bene all’ambiente e al paesaggio.
Ottima cosa. Ma sarebbe meglio se, invece di discettare su come “coniugare natura, cultura ed economia” ci si domandasse come mai, dopo tanti anni di tentativi, i nostri territori siano diventati quelli che sono, e che qualche giornalista emulo di Antonio Cederna ancora descrive (pensiamo al Veneto raccontato da Gian Antonio Stella). Magari ci si renderebbe conto che con questa economia natura e cultura saranno sempre valori marginali o strumentali,quindi sacrificabili, e che riescono a essere effettivamente tutelati solo se, come nella Sardegna di Soru, sono posti dalla politica come valori non negoziabili.
Non c’è niente da fare: quando arriva, arriva. Ovviamente ci stavo già dentro fino al collo, ma non saltava tanto all’occhio. Comincia allo svincolo delle due arterie principali, ancora nel fitto dell’area metropolitana. Si guida a zig-zag spostandosi fra le corsie per imboccare quella giusta, e nei varchi fra le rampe e gli angoli di motel e uffici si vede per la prima volta qualcosa di simile alla linea dell’orizzonte, tagliata dal grigio delle montagne, con qualche ciuffo bianco di neve o di nubi sulla cima.
Periodo natalizio, visite di cortesia, scambi di auguri e qualche regalino, si sa. Stavolta tocca alla coppia di amici di infanzia, con la variante che non passano le feste a casa, ma in quella che lui chiama la sua capanna di tronchi, in qualche posto là in fondo aggrappato alle montagne, un centinaio di chilometri più a nord. È in allegra e numerosa compagnia, a giudicare dal robusto traffico che mi accompagna per parecchie decine di chilometri, fino a raggiungere le prime alture e le gallerie, stipando tutte e quattro le corsie della superstrada di SUV, camion, pick-up, più qualche rara auto normale come la mia.
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Il corteo autorizzato di lamiere assortite si sposta verso nord, e inizia a dispiegarsi il classico miraggio suburbano. Le montagne stanno là in fondo, apparentemente vicinissime nella luce limpida del mattino, a dare un gran senso di respiro e spazio aperto. Quello in cui ci stiamo muovendo, però, è uno spazio assai poco aperto, per non dire claustrofobico: lottizzazioni di villette sparse su qualunque altura, balza, poggio; edifici industriali a gruppi attorno agli svincoli; mescolati a questi, ma raggiungibili da altre strade invisibili da qui, si intravedono gli scatoloni commerciali, qualcuno con insegne note di catene nazionali, altri a gestione locale; infine, le stazioni di servizio col bar fast food, l’angolo per le piccole riparazioni eccetera, accorpate al tracciato salvo una striscia di verde con qualche cespuglio. In breve, se è vero che per certi versi l’ambiente è assai poco “urbano”, non si vede per chilometri a occhio nudo alcuna traccia di qualcosa di diverso da edifici, strade, insegne, giardini privati, e qualche striscia di bosco lungo quello che, si indovina, deve essere il corso di un torrente.
La cosa, perfettamente identica salvo le indicazioni stradali e le insegne al neon (anche i nomi sui campanelli presumo, ma da qui non si leggono), continua per parecchie decine di minuti, fin quando le corsie della superstrada – ora sono solo tre – si infilano nel tunnel per superare la prima linea di crinale.
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L’uscita dalla serie di gallerie che bucano le montagne, coincide con un brusco cambio di paesaggio. Istintivamente, chiunque (soprattutto i potenziali acquirenti di prime e seconde case) qui inizia a pensare: “ci siamo”. E da un certo punto di vista, certamente, ci siamo. Finita la pianura in cui stavano sparpagliate la grande area metropolitana e le sue tentacolari propaggini, ora attorno a noi si vedono incombenti e a portata di mano quelle cime di montagna che prima si stagliavano all’orizzonte. Ma (e questo ai potenziali acquirenti di case non ditelo, se siete un agente immobiliare) la cosa davvero diversa è la nuova prospettiva di osservazione: la superstrada è finita insieme alla serie dei tunnel, e ora il traffico si muove lungo una serie di spezzoni locali e strade “urbane” che bene o male attraversano la valle. È questa a ben vedere la differenza fondamentale.
Perché se mi guardo attorno con un briciolo di attenzione rivedo tutti, ma proprio tutti, gli elementi già elencati, con la sola parziale esclusione dei palazzetti per uffici con vetri a specchio: capannoni con o senza insegne al neon, corsie di accelerazione e decelerazione separate da cespugli spinosi, gruppi di villette più o meno distanziate o colorate, a seconda della distanza dal tracciato e/o probabile epoca di costruzione. Non mancano neppure i centri commerciali, che qui saltano davvero all’occhio nella loro totale incongruenza.
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È vero che il verbo “progettare” si presta a innumerevoli tentativi di interpretazione. Dicevo che tutto, qui, è sostanzialmente identico a quanto visto dall’altra parte delle gallerie, salvo le due grandi determinanti geografiche: le montagne e la superstrada. Come si può agevolmente leggere sulle parecchie locandine della stampa locale (mentre si fanno interminabili file ai semafori, fra il parcheggio davanti alla chiesa locale e la facciata della banca annerita dagli scarichi), le montagne a quanto pare vanno benissimo così, mentre la realizzazione della strada multicorsie arroventa il dibattito locale da lustri. Nel frattempo, il mondo della “progettazione” si muove per conto proprio, apparentemente di concerto con la “pianificazione urbanistica” locale.
Progettazione e pianificazione virtualissime e fantasiose, che attingono a piene mani da sensazioni vaghe provate percorrendo il vasto mondo, riproposte qui in solido cemento e asfalto, con qualche spruzzatina di terriccio e arbusti. Brilla appunto per capacità di adattamento al contesto specifico, quella che si può certamente definire la “ virtual highway”: stazioni di servizio, lunghi affacci commerciali e relative sterminate superfici destinate alla grande distribuzione di ogni cosa, tutto allineato su entrambi i lati. Su entrambi i lati di cosa, si chiede ora il lettore più attento, se il tracciato multicorsia realizzato ce lo siamo lasciato alle spalle da decine di chilometri, e quello progettato per ora si limita a scaldare gli animi indigeni? Ma come: la virtual highway, appunto. Ognuno se la immagina come preferisce: sezione, arretramenti, arredi, gestione del traffico (che è rimasto quello sostenuto di SUV e pickup sbucati in valle dalla serie di gallerie) su rotatorie, incroci, accelerazione e decelerazione. Ma se la immagina comodamente per spezzoni il cui universo di riferimento comincia e finisce ai confini del lotto edificabile, ultima thule il cespuglio sempreverde a chiudere il parcheggio, o l’arco di legno grezzo che introduce a un rude mondo di salumi tipici o stivali in cuoio lavorazione artigianale.
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I centri commerciali sono forse l’esempio più fulgido di questa peculiare pianificazione/progettazione: tutto fatto secondo le regole certo, ma quali regole? Ce n’è un esempio mirabile proprio al centro esatto della valle, a ridosso del nucleo urbano più importante, anche se naturalmente appena fuori dai suoi confini amministrativi. Ci sono tutte le costanti del repertorio, dallo scatolone principale (relativamente piccolino, ma quanto basta), a quelli “indipendenti”, nel senso che non hanno coordinato accessi e parcheggi, alle corsie di ingresso e deflusso, alla via crucis automobilistica lungo centinaia e centinaia di metri di retropanorami: aree carico-scarico; scarico e basta (nel senso di spazzatura); ingressi secondari di emergenza; puzze assortite. Manca però una cosuccia, che i nostri baldi “progettisti” forse fotocopiando il manuale del perfetto mall-designer hanno saltato per risparmiare carta: la grande arteria di traffico e smistamento.
Così il complesso di scatoloni e parcheggi, poverino, si arrangia come può, ingurgitando nel suo sistema di circolazione interna …. tutto il traffico di attraversamento della valle!
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Traffico che comprende anche quello – relativamente molto corposo - generato direttamente da supermercato alimentari, sportelli bancari, lavanderia e lavasecco, bar ristoranti e fast food, ricambi auto, bowling, arredamento e arredobagno, calzature, abbigliamento … Praticamente tutto, come si capisce rapidamente una volta attraversate corsie e deflussi (percorso obbligatorio anche per chi non consuma). Imboccando una qualunque delle trasversali che si inerpicano verso il medio crinale, e i ciuffi di lottizzazioni che ci spuntano rigogliosi, si nota immediatamente e da vicino che il panorama è identico a quello intravisto dalla superstrada nelle frange esterne dell’area metropolitana.
Ovvero case, casine, casone, singole o a gruppi, con o senza garage, interrato, incorporato o aggiunto, singolo, doppio, triplo. A collegare i vari gruppi di case, una strada a sezione variabile, evidentemente concepita e realizzata a rate, rigorosamente priva di marciapiede. A parte gli edifici, i pochi spazi non dedicati ai giardini privati, o a qualche residuo praticello con pendenze impossibili (e possibilissimi cartelli di EDIFICABILE VENDESI), sono le aree di manovra davanti a qualche capannone industriale dalle funzioni non chiarissime. È un weekend di vacanze natalizie, ma non ci vuole molto a immaginare cosa deve succedere, fra la strada e quegli spazi di manovra, in un giorno qualunque, quando da lì entrano e escono mezzi pesanti, muletti, furgoni.
La capanna di tronchi degli amici di infanzia, si rivela un piccolo e grazioso ex edificio rurale a due piani in pietra, molto ben restaurato, sul ciglio del torrente. Peccato che, a parte appunto il ciglio del torrente, tutti gli altri confini del minuscolo lotto si affaccino su strisce d’asfalto, cordoli di cemento, filo spinato arrugginito, o direttamente su muri di edifici. Edifici che in un paio di casi sono da cinque piani, con buona pace dell’immaginario pionieristico, del vago odore di resina (forse è un solvente?), della mandria di SUV sparsi fra la strada e le corsie di accesso ai garage seminterrati che si sono presi tutto un ex pascolo.
Sulla porta della sedicente capanna di tronchi, un bigliettino mi avverte “SIAMO AL CENTRO COMMERCIALE”. Scoprirò più tardi che ci vanno in pratica ogni giorno: a passeggiare, a pranzare in qualche ristorante, insomma a vedere un po’ cosa offre questo ambiente di frontiera, a centoventi chilometri di fuoristrada dalla metropoli, tra le vette scintillanti che stanno a guardare.
Probabilmente aspettando che un lottizzatore valorizzi anche loro. Con materiali locali, ovvio.
Il paesaggio italiano rischia il degrado a causa del cemento che l´invade. È un´aggressione diventata negli ultimi anni impetuosa. Il valore del mattone cresce a rotta di collo e le amministrazioni pubbliche cedono con facilità alle pressioni degli immobiliaristi. Meno vistose, ma molto insidiose sono altre minacce: il paesaggio rurale italiano sta perdendo le caratteristiche che da secoli lo rendono riconoscibile anche per il modo in cui si sviluppano certe produzioni agricole e persino a causa di un´eccessiva invadenza di alcuni tipi di bosco che si espandono sui terreni un tempo coltivati e ora abbandonati, riducendo la varietà di colori, di profili e di vegetazione che l´Italia ha vantato per millenni. Il bosco che minaccia il paesaggio? Detta così brutalmente potrebbe sembrare una grottesca provocazione. Ma è una provocazione che Mauro Agnoletti accetta di chiarire.
Agnoletti è un professore fiorentino che insegna al dipartimento di Scienze e tecnologie ambientali e forestali. È il coordinatore di un gruppo di ricercatori che ha redatto il documento sul paesaggio per il Piano strategico nazionale di sviluppo rurale organizzato dal ministero dell´Agricoltura nell´ambito delle politiche comunitarie. E questa è già una novità. Per la prima volta nel fissare le politiche agricole del prossimo settennato (questa la durata del Piano presentato a Bruxelles) si è deciso, dopo molti contrasti, di includere anche il paesaggio. Stabilendo azioni finanziate con soldi europei (all´Italia spettano 8 miliardi di euro), la tutela del paesaggio assume un ruolo determinante: non è una battaglia in nome di valori estetici, pur fondamentali, ma un elemento essenziale per lo sviluppo economico dell´agricoltura.
Agnoletti e i suoi collaboratori (Biancamaria Torquati, Andrea Sisti, Giuseppe Barbera, Tommaso La Mantia, Paolo Nanni e Rossella Almanza) hanno tracciato un quadro storico del paesaggio italiano, dal 1870. Ne hanno definito le trasformazioni. E hanno indicato gesti concreti da compiere, che spetta alle Regioni mettere in pratica.
Soffre molto, professor Agnoletti, il paesaggio italiano?
«Soffre molto. Intanto accade ancora spesso di sentir descrivere il paesaggio come il frutto di una pura percezione soggettiva, priva di elementi oggettivi, quasi che i suoi valori fossero solo immateriali, senza concreta rappresentazione nella struttura del territorio. Manca per il paesaggio la stessa considerazione di cui godono i centri storici, una considerazione acquisita nel tempo, prodotto di una maturazione culturale che ancora stenta nei confronti di un terrazzamento, di un castagneto da frutto o di un filare di aceri e viti».
Quali sono i punti più critici?
«Per avere un quadro definito occorre ragionare regione per regione. Ma in linea generale nella maggior parte del nostro territorio il paesaggio rurale si è drammaticamente semplificato. Si è persa moltissima della biodiversità che l´ha distinto fino ad alcuni decenni fa rispetto al paesaggio di altri paesi europei e del mondo. Posso fare un esempio concreto?».
Certamente.
«In certe zone collinari della Toscana, fino a tutto l´Ottocento, in un´area di circa mille ettari si potevano contare almeno 24 tipi di seminativi arborati, 25 tipi fra pascoli e prati, 6 tipi di boschi, per un totale di 65 usi diversi del suolo organizzati in circa 600 "tessere" di un ricchissimo mosaico paesaggistico. Ora sa quanti diversi usi del suolo possiamo contare su quella stessa estensione? 18».
Cosa è cambiato?
«I pascoli e le colture promiscue sono quasi scomparsi. Fino ai primi del Novecento nella pianura padana si potevano avere anche 150-160 piante arboree per ettaro. Oggi in molte zone se ne possono notare solo alcune a bordo campo»
Questo fenomeno è causato da che cosa?
«In parte da un massiccio abbandono delle aree agricole e pastorali. Le estensioni coltivate sono passate da 23 milioni di ettari degli anni Trenta ai 13 milioni attuali. E poi dal procedere dell´agricoltura industriale, che impone coltivazioni specializzate, riducendo le colture promiscue, la varietà, appunto. A questo dobbiamo aggiungere l´intensificazione produttiva, cioè l´aumentata densità delle piantagioni oppure la trasformazione di ettari di terreno che prima ospitavano diverse coltivazioni in monoculture: tutto grano, tutto mais, tutto vite. Per non parlare delle produzioni non alimentari, la soia, la colza, il girasole, che hanno ulteriormente semplificato il mosaico paesistico».
Detta legge il mercato?
«L´aumento della produzione, attraverso la meccanizzazione e i concimi chimici, ha avuto effetti determinanti per l´abbandono delle aree agricole marginali. Su molte colline è diffusissimo il cosiddetto "rittochino": i trattori procedono per l´aratura in verticale, dal basso verso l´alto e viceversa. In questo modo tendono a sparire i terrazzamenti oppure le tradizionali coltivazioni che attraversano orizzontalmente le pendici collinari favorendo un migliore deflusso delle acque. Il risultato di questo modo di fare agricoltura sono state produzioni eccedenti e aiuti comunitari per ridurre le produzioni eccedenti...».
Un paradosso.
«Un paradosso che conferma il fallimento delle politiche impostate sulla quantità, che non reggono alla competizione internazionale».
E poi c´è il propagarsi spontaneo del bosco.
«Esattamente. Nei primi decenni del Novecento la superficie dei boschi in Italia era di circa 3 milioni e mezzo di ettari. Oggi i boschi occupano 10 milioni di ettari. È un fenomeno che ha cambiato il volto di intere regioni».
È quindi sbagliato parlare di deforestazione?
«I dati nazionali sono inequivocabili, anche se le realtà regionali sono diversificate».
E questa riforestazione non è un processo positivo? Non è un modo per arrestare comunque l´incedere del cemento?
«La riforestazione ha sicuramente portato vantaggi, non tanto economici quanto ambientali. Ricordiamoci però che il paesaggio rurale italiano reca fortissima l´impronta umana, è il luogo in cui la storia ha costruito un insieme di valori che la cultura occidentale gli ha riconosciuto almeno dal Settecento in poi. L´aumento del bosco è avvenuto soprattutto nelle regioni di montagna e di collina, su ex pascoli e terreni coltivati. Dei quali il bosco ha preso il posto, a causa dell´abbandono da parte di chi li lavorava. I vecchi boscaioli ci dicono che un tempo il bosco era coltivato come un giardino. È stato un processo di rinaturalizzazione spontanea. E spesso di banalizzazione paesaggistica. Non è utile avere boschi estesi, ma abbandonati. Negli ultimi anni si è spesso identificata la conservazione del paesaggio con la conservazione della natura, due questioni spesso coincidenti, ma che possono anche divergere».
Può spiegarsi meglio? Difendere un paesaggio non è la stessa cosa che difendere la natura?
«Può non essere la stessa cosa. Salvaguardare un paesaggio non significa ricercare il più alto grado di naturalità, ma piuttosto mantenere i rapporti uomo-ambiente, tipici delle identità culturali che il paesaggio rappresenta. Prenda, di nuovo, il caso della Toscana».
Cosa sta succedendo in Toscana?
«Abbiamo condotto un´indagine su 13 aree. In centosettant´anni si è perso circa il cinquanta per cento della biodiversità legata al paesaggio, in gran parte per effetto dell´abbandono, ma anche per l´avanzare delle monoculture. In pianura sono sparite molte alberature, mentre i vigneti che in certe aree di grande pregio non superavano i 20-25 ettari sono arrivati a costituire accorpamenti di più di 200 ettari, spesso eliminando terrazzamenti e alberature, considerati poco adeguati a moderni standard produttivi».
I vigneti sono una ricchezza.
«Certamente. Ma dal punto di vista paesaggistico il modo in cui li realizziamo rischia di deformare assetti consolidati nel tempo, di stravolgere un paesaggio la cui qualità è strettamente connessa alla qualità del prodotto».
È il rischio di tanta agricoltura industriale: molta quantità, fin oltre l´eccedenza, e poca qualità.
«Lo stesso si può dire degli uliveti, cresciuti di circa il 30 per cento, soprattutto dopo gli anni Sessanta. Grazie agli incentivi europei sono sorti uliveti con alberi fitti e disposti molto regolarmente, anche mille piante laddove ce n´erano alcune decine. Sostituiscono gli uliveti promiscui, nei quali l´ulivo si coltivava in filari, e fra un filare e l´altro si seminavano cereali e altre colture. Lungo il filare si associava la vite, qualche volta alberi da frutto a varie specie, i peschi, i peri, i meli, i gelsi. Questi sono esempi di paesaggi storici, in cui la presenza del lavoro umano definisce l´assetto del territorio. Non bisogna però generalizzare: in alcune regioni, come la Puglia o la Sicilia, densi uliveti ed estese monocolture a grano sono considerabili come paesaggi tradizionali».
Però il vino e l´olio toscano si vendono bene e in tutto il mondo. Come si fa a tornare indietro?
«La salvaguardia del paesaggio ha benefici proprio sul successo di alcuni prodotti. Chi negli Stati Uniti compra un vino del Chianti o della Sicilia lo compra anche perché attratto dai paesaggi legati a quelle produzioni».
Di recente ne ha parlato anche l´economista Francesco Giavazzi.
«Ma su questo non c´è sufficiente consapevolezza. Eppure si tratta di un elemento "competitivo" che l´Italia possiede e altri no. Mentre noi industrializziamo sempre di più l´agricoltura, altre regioni europee più avvedute, come il Tokaj ungherese, chiedono l´inserimento del loro paesaggio nelle liste dell´Unesco. Il Chianti non è ancora riuscito a trovare un accordo».
In concreto come si fa a salvaguardare queste diversità paesaggistiche? Pensate a dei vincoli?
«Niente vincoli. Dall´Europa arriveranno molti soldi, utilizziamoli intanto per sviluppare la conoscenza dei paesaggi locali e delle loro caratteristiche. E poi per incentivare chi favorisce il restauro di pratiche tradizionali, come le canalizzazioni, le sistemazioni del terreno, le siepi, gli edifici in pietra, i sentieri, i muretti a secco, i recinti, i pagliai e persino l´uso di materiali antichi, come il legno per la paleria o per le recinzioni. E per garantire un reddito a quegli imprenditori che rinunciano a certe produzioni, a chi pone limiti alle colture continue, a chi converte terreni in prati e pascoli di seminativo. Insomma a chi abbandona un´agricoltura industriale più orientata sulla quantità e certi ordinamenti delle colture non compatibili con i paesaggi tradizionali e tipici del luogo».
Trieste, 22 nov - L'intesa Stato-Regione che attribuisce valenza paesaggistica al Piano Territoriale Regionale (PTR, attualmente in corso di redazione) è stata sottoscritta oggi a Trieste dall'assessore regionale alla Pianificazione Territoriale, Lodovico Sonego, e dai sottosegretari ai Beni e alle Attività Culturali, Danielle Gattegno Mazzonis, e all'Ambiente, Tutela del Territorio e del Mare, Laura Marchetti.
Il Friuli Venezia Giulia è la prima Regione italiana a firmare tale intesa, che attua quanto indicato nel 'Codice Urbani' (decreto legislativo 42/2004 sulla tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico), ai sensi del quale è prevista l'attribuzione della valenza paesaggistica.
'Prima di arrivare a Trieste ho fatto un rapidissimo giro della regione - ha detto Gattegno Mazzonis - e mi sono resa conto di quanto sia accurata dal punto di vista paesaggistico, della qualità della manutenzione dei borghi rurali. In questo contesto aver firmato questo accordo per la definizione del Piano è ancora più importante, perché il Friuli Venezia Giulia merita di poter valorizzare appieno, con tutti gli interventi necessari, questo suo straordinario paesaggio, fatto di grande omogeneità tra insediamenti abitativi e aspetti naturali'.
A sua volta Laura Marchetti ha evidenziato la valenza di prototipo del documento, di cui ha auspicato la sottoscrizione anche da parte di altre Regioni. 'L'intesa estende la responsabilità di cura e di tutela - ha detto Marchetti - in quanto non sancisce solo la protezione del paesaggio cosi come viene assunto dai Beni Culturali, e cioè in quanto frutto di un'azione virtuosa dell'uomo, ma introduce la dimensione dell'ambiente, allargando il concetto di paesaggio all'intreccio tra gesto antropologico e valori naturalistici e riscattando il paesaggio minore'.
A sua volta l'assessore Sonego ha confermato che 'la valenza paesaggistica del PTR rappresenta un notevolissimo passo avanti per la semplificazione amministrativa e per una maggiore rapidità nel rilascio delle concessioni edilizie'.
Tre, ha detto Sonego, i principali vantaggi dalla valenza paesaggistica del PTR. Il primo sarà una maggiore efficacia nella tutela del valore paesaggio. Il secondo consiste nel fatto che, in caso di zone per le quali sia stato approvato un Piano struttura sovracomunale, il rilascio dei titoli abilitativi ad edificare non implicherà più la partecipazione della Sovrintendenza, né questa avrà più la facoltà di annullamento dei titoli medesimi entro novanta giorni dal loro rilascio. Tutto ciò sarà possibile nel pieno rispetto dell'obiettivo della tutela del paesaggio, perché lo strumento urbanistico provvederà da sé a svolgere la funzione oggi svolta dalla Sovrintendenza. Il terzo vantaggio consiste nel fatto che, stabilendo regole preordinate in sede di Piano Territoriale Regionale e di Piano struttura, casi identici verranno regolati in modo identico su tutto il territorio regionale.
Peraltro, nel caso che un Comune decida di approvare singolarmente il proprio Piano struttura, il rilascio dei titoli abilitativi all'edificazione dovrà vedere coinvolta la Sovrintendenza, che conserverà la facoltà di esprimere pareri vincolanti.
L'assessore Sonego ha concluso notando che il Piano Territoriale Regionale acquisirà valenza paesaggistica non solo per merito dell'intesa sottoscritta oggi, ma anche perché i contenuti paesaggistici dello strumento regionale saranno frutto di un lavoro comune degli uffici della Regione e di quelli dell'amministrazione periferica dei ministeri dei Beni Culturali ed Ambientali.
Postilla
E' utile precisare che il piano territoriale regionale cui attribuire valenza paesaggistica di cui si parla nell’intesa ancora non c'è, che non c'è nessun accordo tra Regione e Stato sul modo in cui dovrà essere redatto per avere tale valenza e che nel testo dell'Intesa sottoscritto dai rappresentanti dello Stato non c'è alcun riferimento né al Documento preliminare né agli altri documenti, di impostazione molto infrastrutturalista e poco paesaggistica, recentemente predisposti dalla Giunta regionale. Poiché non si può pensare che gli organi decentrati dei ministeri possano allontanarsi dai contenuti prescritti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, è lecito prevedere che il piano cui si riferisce l’assessore Sonego dovrà essere molto diverso da quello la cui formazione è stata avviata.
Il Comune di Fondi che non ha provveduto ad abbattere un ecomostro, una società che vuole raddoppiare il porto del Circeo e uno stabilimento balneare che minaccia di far scomparire uno dei rari fazzoletti di costa ancora intatti. Nel Lazio, sono loro i vincitori delle tre «bandiere nere» che Legambiente ha assegnato per il 2006 ai «nuovi pirati del mare». Due sono in provincia di Latina, una in quella di Roma, ad Anzio.
All'amministrazione comunale di Fondi l’associazione ambientalista ha affibbiato il vessillo nero per non aver ancora buttato giù l'ecomostro dell'isola dei Ciurli. Si tratta di «21 scheletri che da quasi quarant'anni occupano una meravigliosa area di agro pontino», spiega Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio. Il Comune «non l'ha ancora abbattuto - spiega Legambiente nel suo dossier - nonostante la recente sentenza del tribunale di Latina abbia condannato il costruttore ad un anno di arresto e deciso la confisca dei terreni per lottizzazione abusiva, affidando proprio all'amministrazione l'impegno all acquisizione dell’area ai fini della demolizione ». Per San Felice Circeo, la «bandiera nera» va invece alla «società Penta srl per la proposta di raddoppio del Porto». Secondo questo progetto, i posti barca «diventerebbero oltre 500, ovvero più del doppio di quelli esistenti, con una grave compromissione dello splendido ecosistema della zona del Parco Nazionale del Circeo». E per Parlati questa maglia nera costituisce un'indicazione «fortemente simbolica, per uno dei progetti di porto forse tra i più distruttivi nella nostra regione». L'ampliamento del porto, che è già stato bocciato una prima volta dal Tar, cui avevano fatto ricorso al ricorso Legambiente e alcuni comitati cittadini, secondo l’associazione «comporterebbe un enorme impatto sull'area, disturbando inoltre i numerosi cetacei avvistati nel braccio di mare compreso tra il Circeo e l'arcipelago Ponziano, che invece nello studio di impatto ambientale sono del tutto scomparsi». Infine, la bandiera nera assegnata allo stabilimento balneare “Sole e Luna” di Marechiaro, sulla costa di Anzio, che gli ambientalisti definiscono come un «nuovo potenziale eco-mostro» e che è stato messo sotto sequestro dalle forze dell'ordine dopo numerosi esposti, raccolte di firme e proteste da parte della stessa Legambiente. Secondo Parlati lo stabilimento ha «aggredito uno dei pochi lembi integri di costa nella zona della ex Fornace di Anzio »: per la sua realizzazione, infatti, sono iniziati da mesi i lavori che minacciano di sbancare le dune e una parete di argilla che sarebbe ormai a rischio frana.
Nessuno si sarebbe mai immaginato che potesse avverarsi ciò che sta accadendo nel Parco archeominerario di Rocca San Silvestro, uno fra i parchi archeologici più rilevanti d’Europa, che marca il paesaggio della costa Toscana e al cui interno sono conservati alcuni dei monumenti più significativi delle attività estrattive e metallurgiche dall’Età etrusca fin al Medioevo e all’età contemporanea, con un sistema minerario formidabile. Un intrigo di straordinaria potenza del rapporto fra uomo e ambiente, che attrae miglia di visitatori italiani ma soprattutto stranieri, scolaresche e studenti universitari.
LegaAmbiente della Val di Cornia ha denunziato, a seguito dell’incresciosa vicenda di giovedì scorso, la devastazione del territorio Campigliese a opera delle cave ancora attive, che la costruzione del Parco di San Silvestro, doveva, viceversa, contenere e portare a conclusione, sapendo bene che l’economia del territorio si può sviluppare soltanto in un quadro di conservazione dei valori ambientali e degli straordinari segni della storia: la Società Parchi Val di Cornia, che gestisce il sistema di valorizzazione dell’ambiente e delle risorse archeologiche dell’area, è un esempio nazionale di come operare per garantire conservazione e sviluppo di una economia del turismo di qualità in forme compatibili con la qualità della crescita della formazione e della ricerca.
Non è più possibile sopportare la distruzione di un patrimonio di aree archeologiche straordinarie, di quadri ambientali unici, musei, strutture di conservazione e di formazione perseguendo logiche di profitto a tempi brevi. Soprattutto dopo ciò che abbiamo visto accadere nel Monte Valerio, dove il sistema estrattivo della cassiterite, unico in Italia (da cui veniva probabilmente la materia prima per celebri bronzi etruschi), è già stato cancellato, e nella stessa area di San Silvestro, dove il calcare su cui si basa il monumentale castello è stato brutalmente tagliato per allargare la strada di cava e dove i danni ai ruderi monumentali provocati dalle esplosioni delle mine della cava stanno producendo un degrado pauroso che rischia in pochi decenni di cancellare l’esistente.
Ringraziando LegaAmbiente, lanciamo dalle pagine de “Il Tirreno”, un appello perché intervenga il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, e il Ministro Rutelli, che con Veltroni e Melandri, so che apprezza il Parco di San Silvestro e l’intero sistema della Val di Cornia, la Regione Toscana, la Provincia di Livorno, i Comuni del Comprensorio, tutte le autorità competenti, tutti i cittadini, gli specialisti e i ricercatori, che a centinaia hanno operato e stanno lavorando nell’area, perché si vada davvero verso la chiusura definitiva delle attività di cava e, nell’immediato, all’attuazione di piani che riducano fino da ora i danni possibili delle esplosioni a persone e cose. Non è immaginabile che le strutture pubbliche continuino da una parte ad investire in un progetto, che gioca un ruolo centrale per la salvaguardia del Patrimonio Culturale e Ambientale, ma anche per l’economia e lo sviluppo del territorio, e dall’altra si tolleri un’attività che distrugge alla base il motivo del suo esistere, mettendo a repentaglio, a quanto si legge sulla stampa, anche la vita dei cittadini, che proprio in quelle qualificate attività svolgono il proprio lavoro.
Mi permetto di chiedere alla redazione del “Il Tirreno” di ospitare la sottoscrizione di tutti coloro che vorranno aderire a questo appello.
Per sottoscrivere l'appello, inviare una e-mail di adesione a:
'n.stefanini@iltirreno.it'
«Con tutto il rispetto per chi si è innamorato del progetto del ponte sullo stretto di Messina le vere grandi opere pubbliche di cui ha bisogno il Paese sono altre: le depurazioni del mare, una politica nazionale sui rifiuti, la riduzione dell'aggressione al territorio e delle finanze dell'ecomafia». Altro che progetti faraonici di dubbio impatto ambientale: le vere priorità, ha detto ieri il ministro per l'Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, stanno altrove.
Per affrontarle senza timidezze («se non è pensabile risolvere tutti i problemi su alcune questioni cruciali, che stanno nel programma dell'Unione, mi batterò perché si aderisca agli accordi presi») occorre fare passi preparatori. Eccoli, con le parole del ministro: «Inserire i reati ambientali nel Codice penale, questa è la legislatura giusta»; «riscrivere il Codice dell'Ambiente cambiandolo anche radicalmente ma con la collaborazione delle imprese». E ancora: «Chiederò al ministro Amato più uomini e risorse per l'ecomafia che allunga le mani sul Nord», «le Regioni devono sbrigarsi ad approvare i piani ambientali anti-inquinamento, sulle emissioni rischiamo un "quote-latte" bis, con miliardi di euro di multe».
Ce n'è per tutti. Senza nulla trascurare e correndo dalla presentazione del dossier di Legambiente sull'ecomafia, dove ha ascoltato con allarme il volume d'affari stimato dall'associazione ambientalista sulla criminalità in materia di ambiente, non meno di 22 miliardi e mezzo di euro all'anno, all'assemblea dell'Unione petrolifera dove ha promesso a Confindustria che «non c'è indisponibilità a trovare formule che non danneggino le singole attività economiche, a patto che restiamo nei confini delle leggi europee e delle norme italiane di tutela». Una giornata densa. Eccesso di zelo? O bisogno di farsi sentire per scongiurare il rischio di resistenze nella maggioranza alle sue richieste di risorse?
Quel che è certo è che il dossier sull'ecomafia di Legambiente fa tremare: tre reati contro l'ambiente ogni ora, 202 clan coinvolti, il Nord preso di mira dalla mafia per i rifiuti, business cresciuto di quasi il 17 per cento.
Le ultime settimane hanno conosciuto il riaccendersi della discussione sulla tutela del nostro patrimonio culturale e paesaggistico ed in particolare sul ruolo delle regioni in questo ambito. L’annosa querelle, che si inserisce, a pieno titolo, nel più ampio dibattito del rapporto stato-regioni ha visto il coagularsi di due schieramenti, contrapposti quasi sempre in maniera molto netta, ed è stata rilanciata in tempi recenti dall’impugnazione, da parte del governo, del nuovo statuto regionale toscano che annoverava la tutela del patrimonio fra le finalità dell’amministrazione regionale e che ha provocato il riaccendersi di un dibattito mai sopito fra fautori del centralismo ministeriale e i federalisti culturali.
Tale dibattito ha accompagnato, con toni a volte aspri, anche la redazione del codice dei beni culturali e del paesaggio in vigore dallo scorso mese di maggio: le Regioni, come noto, sono state coinvolte solo in uno stato di elaborazione già avanzata dello strumento legislativo, quando l’ossatura del testo era già costituita, fatto tanto più grave in quanto uno degli obiettivi principali del codice stesso, anzi il principale, come più volte ribadito dallo stesso Ministro, era l’adeguamento legislativo, anche in questo settore, al mutato quadro costituzionale venutosi a creare con la riforma del titolo V della Costituzione.
Quietata ora, almeno parzialmente, l’animosità della discussione, accesissima in particolare nei mesi a ridosso dell’entrata in vigore del codice, è giunto il momento non più (o non solo) di criticare il codice, quanto di metterlo in atto, o meglio di esercitare una critica “pragmatica” tesa alla sperimentazione e all’enucleazione di eventuali elementi correttivi, tanto più che proprio per il carattere di legge delega che il provvedimento riveste, esiste ancora un margine per aggiustamenti e parziali ripensamenti. Molte, in effetti, permangono le incertezze interpretative sulle quali si dovrà lavorare.
In tale direzione, l’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia Romagna ha intrapreso un percorso di riflessione e di approfondimento sulle tematiche aperte dall’applicazione del codice che, oltre al confronto con le altre regioni impegnate nell’apposito gruppo di lavoro costituito all’interno della conferenza delle regioni, ha già condotto all’organizzazione di un convegno, svoltosi a Bologna lo scorso 28 maggio: regioni e ragioni nel nuovo codice dei beni culturali (sito IBC, sezione eventi – archivio). L’iniziativa, che si collocava all’interno del ciclo di manifestazioni organizzate per ricordare i 30 anni di attività dell’Istituto, era focalizzata proprio sul nuovo rapporto Stato-Regioni che il Codice inaugura, nella convinzione che proprio questo sia uno degli snodi più importanti, la verifica del quale ci accompagnerà per i mesi futuri e sul quale si collauderà la reale efficacia del codice come strumento di tutela e valorizzazione del nostro patrimonio culturale.
Lo stesso Sabino Cassese, fra gli estensori del decreto legislativo, ha affermato che i principi del codice possono essere riassunti in due grandi gruppi: quelli sui rapporti pubblico-privato e quelli sulla distribuzione delle funzioni fra Stato e Regioni.
In questo ambito, come noto, il principio cardine cui si sono attenuti i legislatori è il dualismo funzionale tutela / valorizzazione, attraverso il quale si è cercato di risolvere il dualismo istituzionale.
A livello introduttivo è utile comunque sottolineare alcuni aspetti sicuramente positivi introdotti dal nuovo codice, il principale dei quali va scorto nel tentativo complessivo di superare un regime emergenziale di esercizio della tutela.
Fra gli aspetti positivi va sicuramente annoverato anche lo sforzo definitorio: il codice ha lavorato sui concetti, anche se non poche perplessità sono state sollevate per quanto riguarda talune definizioni (ad esempio quella di museo, per la quale poteva essere compiuto un maggiore sforzo innovativo).
In generale, inoltre, si deve riconoscere che l’oggetto della tutela risulta piuttosto ampliato relativamente, ad esempio, alle categorie dei beni: nell’elenco (art.10) troviamo, per la prima volta, le piazze, le strade, gli spazi urbani, i siti minerari, le navi, le tipologie di architettura rurale. E sicuramente, rispetto alle ambiguità presenti nel titolo V della Costituzione, è chiarita la sovraordinazione della tutela rispetto alla valorizzazione.
La potestà legislativa in materia di tutela, come noto, è riservata allo Stato in maniera esclusiva per “garantire l’esercizio unitario delle funzioni”, anche se da più parti si è ribadito che l’unitarietà sarebbe piuttosto assicurata non da un esercizio di funzioni centralistico (peraltro sempre più velleitario in quanto ad una maggiore complessità delle funzioni stesse non paiono essere intervenuti ampliamenti sostanziali a livello di formazione o anche solo di numerosità degli addetti: in altre parole le funzioni si complicano e si differenziano e gli organici, le risorse in genere e gli strumenti rimangono al meglio inalterati), oltre che attraverso un sistema generale di garanzie legislative, con una serie di linee guida, standards, criteri: in sostanza elaborando, a livello centrale (e magari in collaborazione con le Regioni ed altre istituzioni, quali, ad esempio, Università) una unitarietà di regole e metodologie, di procedure e codici di comportamento e di indirizzo scientificamente mirati che, soli, possono decretare una reale unitarietà di obiettivi e di risultati.
Per quanto riguarda la tutela, quindi, il ruolo delle regioni è per il momento limitato ai beni librari ed al paesaggio, andrà però completato organicamente, come peraltro già previsto, per quanto riguarda i beni librari e potrebbe essere eventualmente esteso ad altre categorie di beni, anche se i termini di questa delega permangono del tutto vaghi.
In effetti, una lettura ‘ottimistica’ – in senso regionalistico – del codice porta a sottolineare larghi spazi per un decentramento possibile: quasi tutte le funzioni statali possono essere decentrate con accordi al sistema locale. Le forme di cooperazione Stato-Regione prefigurate dal codice sono amplissime, anche se le modalità di attuazione, rimangono completamente da definire.
A fronte di questi e altri aspetti positivi, il Codice presenta anche numerosi problemi tuttora aperti: primo fra tutti, a livello generale, la definizione di patrimonio nel suo complesso che dovrebbe essere intesa non come sommatoria casuale di individualità, ma con una connotazione di complesso d’insieme organico. Il persistere del riferimento esclusivo ai “beni” (culturali e paesaggistici: art. 2, c.1) rischia invece di ridurre il patrimonio a una pura collezione di oggetti indipendenti, ignorandone sia i sistemi di relazioni che lo strutturano e lo fanno vivere, sia il rapporto ineludibile con le comunità di appartenenza: ciò rimanda alle vecchie logiche degli elenchi purtroppo invocati anche per tentare di mitigare gli effetti devastanti dei condoni e della svendita dei beni pubblici (si vedano, ad esempio, le liste dei beni “non alienabili”), in contrasto con concezioni ormai saldamente acquisite a livello scientifico e culturale e soprattutto con la necessità di territorializzare la tutela e la valorizzazione del patrimonio, base imprescindibile di ogni autentico e sostenibile sviluppo economico, sociale e culturale.
Nel nuovo codice, quindi, il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici, anche se, come sottolineato, si tratta di una unificazione alquanto meccanica.
Per quanto riguarda il paesaggio, oltre al fatto, non secondario, che per la prima volta il paesaggio rientra nel patrimonio culturale, gli aspetti innovativi del codice vanno individuati soprattutto nell’estensione dell’azione di tutela all’intero territorio e nell’impegno a sviluppare il coordinamento e la collaborazione tra i diversi soggetti istituzionali.
In generale il codice sancisce, l’abbandono della logica binaria vincolo/non vincolo a favore di una disciplina estesa all’intero territorio e valorizza il piano paesaggistico affidato alle Regioni, quale strumento di gestione dinamica del territorio stesso e dei valori culturali che esso esprime.
Il piano paesaggistico, non limitato alla considerazione dei soli beni “vincolati” per legge, ma esteso appunto all’intero territorio, assume un’efficacia anche prescrittiva immediatamente prevalente sulla ordinaria pianificazione territoriale che, per conseguenza, è tenuta ad adeguarsi ad esso.
In questo senso col codice si modifica radicalmente l’impianto della “tutela per categorie” di beni ambientali introdotto dalla Galasso che scontava la frammentarietà e l’episodicità delle azioni di tutela.
Si tratta di un passaggio importante e non privo di rischi, laddove si pensi che nel 1985 l’introduzione delle categorie di beni ambientali e paesaggistici tutelati ope legis ha comportato l’estensione del vincolo paesaggistico a oltre il 50% del territorio nazionale, mentre i vincoli di tipo provvedimentale coprirebbero, attualmente, solo circa il 18% del territorio.
Altra lacuna importante sulla quale le regioni saranno chiamate, auspicabilmente, ad introdurre elementi correttivi, consiste nell’assenza, nel codice, di alcuni dei principali temi che la riflessione delle discipline del territorio ha invece messo in evidenza negli ultimi anni: la crisi del paesaggio agrario, lo sradicamento delle popolazioni insediate sul territorio dove si sono infrante le relazioni d’uso che legavano una comunità al suo ambiente, o ancora i diffusi processi di omologazione dei paesaggi, legati a forme di urbanizzazione estensiva che dissolvono il confine tra urbano e rurale e che tendono a ridurre sempre più il ruolo del paesaggio come elemento di riconoscimento identitario.
Per conseguenza, nelle definizioni delle categorie che connotano i beni ambientali prevalgono quasi esclusivamente i criteri ancora largamente improntati sui valori estetici, senza considerare che per il paesaggio si parla da tempo di biodiversità e naturalità diffusa.
Ancora, la ricordata cesura tra beni culturali e paesaggistici, pur essendo comprensibile alla luce delle tradizioni nazionali in materia di conservazione e purtroppo riprodotta quasi sempre anche a livello regionale, è difficilmente sostenibile non solo sul piano strettamente scientifico e culturale, ma, in taluni casi, anche sul piano applicativo: basti pensare ai centri storici, praticamente assenti dal Codice, se non ridotti alla figura di “monumenti complessi”: anche in questa direzione il ruolo delle regioni potrà risultare decisivo in senso migliorativo e la nostra, grazie anche al decennale apporto di ricerca dell’IBC, può sfruttare, in questo settore specifico, il vantaggio di un patrimonio di conoscenza e documentazione ampiamente riconosciuto.
Infine, a livello complessivo, fra gli elementi di perplessità sui quali occorrerà concentrare l’attenzione futura, è stata anche rilevata, da più parti, l’inadeguata formulazione del ruolo della pianificazione: praticamente assente nella prima parte (anche per il riferimento esclusivo al concetto di bene, a cui sfugge, come detto, la dimensione territoriale con tutti i suoi articolati rapporti tra istanze ambientali e interessi economici e sociali) nella quale si parla piuttosto di cooperazione, e concepito, nei confronti del patrimonio paesaggistico, in chiave essenzialmente protezionista, in cui si privilegia l’attenzione agli oggetti piuttosto che ai processi.
Quanto fin qui annotato, sottolinea, in sostanza, il carattere complessivo del codice come un congegno giuridico complesso, nel quale sono percepibili ancora tensioni irrisolte, derivate dal tentativo di mediazione fra istanze diverse e che, nella versione attuale, suscita numerose incertezze interpretative. Indecisioni e ambiguità sono inevitabili e in qualche misura utili perché consentono di dare vita alla legge interpretandola in modo “creativo”: fin d’ora occorre quindi lavorare nella direzione di un’integrazione propositiva rispetto alle lacune già evidenziate e di un adeguamento alle esigenzeche emergeranno,in un’ottica di reale sussidiarietà e cooperazione fra centro e periferie e richiamandosi ad un impegno storicamente ancor più appropriato.
Le Regioni vengono ad essere lo snodo fondamentale, in quanto impegnate sui due versanti: sia nei confronti dello Stato che nei rapporti con gli Enti locali: a loro spetterà, innanzi tutto, la disciplina dell’iniziativa degli altri enti pubblici in materia di gestione dei beni culturali e nell’organizzazione del territorio, poiché se, soprattutto in questo ambito, il principio dell’autorità viene sempre più sostituito da quello ispirato ad una responsabilità condivisa e partecipativa, questo non deve far derogare la pubblica amministrazione, in quanta unica a poter rappresentare bisogni ed esigenze dell’intera collettività, dall’azione regolatrice.
Il ruolo delle Regioni in materia di costruzione partecipata delle politiche per il territorio, viene ad essere determinante. Per portare solo qualche elemento esemplificativo, fra i tanti possibili, affinchè la pianificazione paesistica possa avere contenuti realmente innovativi, dovrebbe essere possibile con il piano paesistico regionale disciplinare, con gli strumenti della pianificazione ordinaria, gli immobili (suoli ed edifici) in nome del paesaggio, anche in assenza di vincolo, in quanto, accanto alla tutela dei paesaggi di valore, occorre promuovere e sostenere l’attribuzione di qualità paesaggistica alle parti di territorio che non ne hanno. I nostri paesaggi degli ultimi anni sono caratterizzati dall’espandersi esponenziale di contemporanei fenomeni di abbandono e di sovrautilizzo: vi è necessità di strumenti regionali di indirizzo, di coordinamento e di orientamento delle politiche settoriali e di equilibrio fra conservazione e trasformazione. E’ d’altro canto a livello regionale che diviene possibile promuovere l’integrazione tra politiche di spesa settoriali (agricoltura, turismo, ecc.) e paesaggio e promuovere adeguati, aggiornabili ed estesi sistemi unitari di conoscenza, di sperimentazione e di formazione.
Per quanto riguarda nello specifico la regione Emilia Romagna, il cammino, in ambito paesaggistico, è stato già intrapreso ed occorre almeno citare l’Accordo del 9 ottobre 2003 tra la Regione Emilia Romagna, il Ministero e l’Associazione delle autonomie locali in materia di gestione delle tutele paesaggistiche (v. IBC, n.1, 2004, pp. 9ss.), che, in maniera antesignana, ha cercato di porsi come strumento di sperimentazione e confronto e all’interno del quale, prima di tutto, sono fissate regole certe, ruoli definiti e strumenti condivisi da utilizzare nella progettazione e nella valutazione della compatibilità degli interventi in ambiti tutelati.
Al convegno IBC ricordato in apertura, Marco Cammelli oltre a ricordarci che da adesso, per tutti (stato - regioni - enti locali – privati) non sarà più possibile operare senza un sistema, affermava, in ottica positiva, che il codice persegue un allargamento complessivo della tutela, sottolineando però, al contempo, come, per estendersi senza allargare le maglie, quest’ultima debba poter contare su risorse rafforzate e reggersi su un’impalcatura “forte”, ovvero sia su strutture in grado di sostenerla.
Le politiche dei beni culturali, in buona sostanza, si fanno con le strutture, quali l’IBC: una delle più articolate nel panorama nazionale, se non altro per “anzianità”. Il nostro Istituto è chiamato ad un ruolo importante da questa legge e anche grazie all’esperienza trentennale può rappresentare nella sua natura tecnica e scientifica interdisciplinare, una formula efficace, un’authority ideale per la gestione dei temi trattati dal codice e sicuramente una delle strutture cardine, in collaborazione con altri settori dell’ente regionale, attraverso le quali la nostra Regione perseguirà quegli obiettivi di miglioramento complessivo della tutela del patrimonio, ribaditi, da ultimo, nei principi del suo nuovo statuto.
Il nuovo Codice dei beni culturali è troppo importante perché ci si possa accontentare di emettere spicciativi verdetti, sposando in blocco l’ottimismo del ministro o il catastrofismo dei suoi critici. Occorre invece analizzarlo punto per punto, tanto più che la legge delega prevede la possibilità di correggerlo entro due anni. L’analisi deve articolarsi su due domande cruciali: primo, dove innova il Codice rispetto alle norme pre-vigenti? E innova in meglio o in peggio? Secondo: in che cosa il testo finale si distingue dalle sue bozze precedenti? In altri termini: qualsiasi cosa dica il Codice, abbiamo rischiato di peggio?
Mi limiterò qui a due soli aspetti, la disciplina delle alienazioni dei beni culturali e il rapporto Stato-Regioni. Un discorso a parte meriteranno altri due punti, tutela del paesaggio e gestione (pubblica o privata) dei beni culturali. Ma non dimentichiamo che il Codice è nato in un contesto inquinato da due fattori di grande incidenza politica, i conflitti di competenza fra Stato e Regioni innescati dalla riforma del Titolo V della Costituzione e il disegno di massicce dismissioni del demanio culturale perseguito da Tremonti. Rispetto al primo fattore, bisogna chiedersi se il Codice favorisca o attenui il conflitto Stato-Regioni. Quanto al secondo fattore, la domanda è: il Codice dà una mano alle vendite e svendite di Tremonti, o cerca di porvi un freno?
Cominciamo dalle alienazioni. Non è vero che (come si è detto) il patrimonio culturale pubblico diventi alienabile col nuovo Codice. È vero invece che alienazioni sono sempre state possibili, cosa inevitabile dato che ogni edificio pubblico con più di 50 anni di vita è per legge "di interesse culturale". Si è in tal modo accumulato un patrimonio pubblico ingente e ingestibile, con l’identico regime di tutela per palazzi barocchi e cantoniere dismesse. La soluzione, mantenere inalienabile ciò che ha valore culturale distinguendolo da ciò che non ne ha, non è semplice, dato che un palazzo barocco è più appetibile sul mercato di una cantoniera, e Tremonti lo sa bene. Che cosa fa il Codice rispetto alle garanzie del Dpr 283/2000 (nato non per impedire, bensì per «disciplinare le alienazioni di beni immobili del demanio storico e artistico»)? Onde alienare il massimo, bisognava restringere la definizione di bene culturale, da «cose che presentano interesse artistico, storico, archeologico» (come nel Testo Unico) a «cose che presentano interesse.... particolarmente importante». Proprio così fu fatto nelle prime bozze del Codice (in tal modo, il Colosseo non si vende, un palazzo sì). La versione finale ha cancellato le sinistre parole "particolarmente importante": rallegriamocene, ma senza dimenticare il rischio che abbiamo corso.
La definizione di "bene culturale" (art. 10) è dunque rimasta immutata, e le opere di oltre 50 anni sono inalienabili fino a che non sia avvenuta la verifica del loro interesse culturale (art. 12). L’art. 54 ricalca la legislazione precedente, anzi aggiunge musei, archivi e biblioteche alle categorie di beni inalienabili del Dpr 283. Da lamentare è semmai che, rispetto all’art. 822 del Codice Civile, non siano fra i beni inalienabili anche «gli immobili di interesse storico e artistico»: limitazione assai discutibile, già avvenuta col Dpr 283. Rallegriamoci che su questo fronte il Codice innovi ben poco; ma non dimentichiamo che le sue bozze contenevano un articolo (il 53) che consentiva di trasferire alla Patrimonio S.p.A. tutti gli immobili del demanio culturale, compresi quelli di "interesse particolarmente importante". Si è dunque rischiato che la massima legge di tutela sancisse questa disfatta come se niente fosse. È assai positivo che quell’articolo sia stato eliminato dal Codice, anche se esso non ha abrogato la Patrimonio S.p.A. né le varie Scip che stanno già vendendo parte del patrimonio pubblico.
La situazione è paradossale: il Codice contiene buone norme di garanzia, ma esistono leggi di segno opposto, e altre ne arriveranno. Se Urbani rilancia la tutela del patrimonio, Tremonti punta su dismissioni indiscriminate. Le due visioni si sono scontrate al momento del "decretone", che contiene la pessima norma del "silenzio-assenso" (se le Soprintendenze non rispondono entro 120 giorni alla richiesta del Demanio, i beni in questione perdono ogni "interesse culturale" e diventano alienabili). Principio in tutto opposto all’impianto del Codice, e infatti assente in tutte le sue bozze; anzi, Senato e Camera, rilevandone l’incoerenza col Codice, ne hanno raccomandato l’abolizione. Ma a sorpresa è avvenuto il contrario, e ad opera di Tremonti il silenzio-assenso è ingloriosamente risorto nel Consiglio dei Ministri del 16 gennaio, con l’aggiunta di un comma all’art. 12. È vero che (art. 8 del decretone) il silenzio-assenso vale solo in prima applicazione; ma quanto a lungo durerà questa "prima applicazione"? L’art. 12 del Codice è dunque il frutto di un compromesso, a cui si è cercato di rimediare per decreto prevedendo una procedura congiunta Beni Culturali-Demanio: vedremo nei fatti se essa limiterà i danni, o se la mannaia del silenzio-assenso "in prima applicazione" scatenerà la corsa alle dismissioni indiscriminate.
Anche sul rapporto Stato-Regioni, il Codice è un compromesso fra un’impostazione iniziale più centralizzante e le norme devoluzionistiche emerse dalla conferenza Stato-Regioni. Radice del problema è il nuovo Titolo V della Costituzione, che ha introdotto una disfunzionale e infondata distinzione fra tutela e valorizzazione. Tutela, fruizione, valorizzazione sono un continuum che non si può tagliare a fette: ma il Titolo V dà la tutela allo Stato, la valorizzazione alle Regioni, e prospetta confusamente un coordinamento Stato-Regioni sulla tutela. Norme che il Codice non poteva modificare; ma l’esame comparato delle bozze mostra che dopo l’intervento delle Regioni le formulazioni sono peggiorate, creando un dannoso spazio di sovrapposizione fra tutela («esercizio delle funzioni e disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale e a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione»: art. 3) e valorizzazione («esercizio delle funzioni e disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica»: art. 6). Definizioni quasi coincidenti, in cui la delimitazione di competenze si gioca su una sottile linea di confine: lo Stato "individua" e la Regione "promuove", lo Stato "garantisce" e la Regione "assicura".
Nulla hanno dunque insegnato i numerosi conflitti di competenza scatenati dal Titolo V. Basti ricordare due sentenze della Corte Costituzionale, entrambe anteriori all’approvazione del Codice. La prima (9/2004), nel bocciare un ricorso della Toscana, riafferma «la competenza statale sulla tutela», in quanto «legata alla peculiarità del patrimonio storico-artistico italiano, da considerarsi nel suo complesso come un tutt’uno, anche a prescindere dal valore del singolo bene isolatamente considerato». Nella stessa direzione va la seconda sentenza (26/2004), anch’essa in piena coerenza con la linea della Corte, ben riassunta dal Presidente Ciampi: per «la stretta connessione tra i due commi dell’articolo 9, sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio formano un tutto inscindibile. Anche la tutela, dunque, dev’essere concepita non in senso di passiva protezione, ma in senso attivo, e cioè in funzione della cultura e della fruizione dei cittadini».
Quanto siano pesate le pressioni regionalistiche lo mostra la vicenda dell’art. 4, che fino alla vigilia dell’approvazione andava molto oltre il Titolo V, stabilendo che le funzioni di tutela, «al fine di garantirne l’esercizio unitario», spettano allo Stato, ma possono essere anche «conferite alle regioni»: come possa garantirsi il carattere unitario della tutela in Italia mediante devoluzione a venti regioni diverse, è un vero mistero. Su proposta della Camera, questa possibilità è stata attenuata riconducendola a «forme di intesa e coordinamento»: ma ognun vede che si era inteso forzare il Titolo V, in direzione diametralmente opposta alla Costituzione, nonché alle autorevolissime interpretazioni della Corte Costituzionale e del Capo dello Stato; e qualche traccia ne è rimasta.
Un ultimo punto: il Codice non affronta (né poteva farlo) un problema essenziale, la drammatica carenza di personale nelle nostre Soprintendenze. Decenni di inerzia (non si salva proprio nessun ministro) hanno provocato una drastica contrazione degli organici, oggi l’età media è sui 50-55 anni, e le nuove assunzioni sono inferiori a un decimo dei pensionamenti. Il ruolo dello Stato (rispetto a regioni e privati) è dunque in ritirata, qualsiasi cosa faccia il Codice per salvaguardarne la sostanza; anche la richiesta di veloci pareri sotto la minaccia del silenzio-assenso suona come una beffa. La Finanziaria 2004, nel ribadire il blocco delle assunzioni, ha previsto espressamente una deroga per gli addetti alla tutela dei beni culturali (art. 55 c. 2). Certo, un successo del ministro Urbani: ma esso sarà pieno solo se e quando avranno luogo nuove assunzioni, con concorsi seri e non quiz farseschi. È un segnale importante che tutti ci attendiamo.
Per discutere dei rischi che il nostro patrimonio sta correndo ma, soprattutto, di quel che si può fare per la loro tutela, abbiamo invitato in redazione a parlarne con noi il vicepresidente del Senato Domenico Fisichella, l’ex ministro dei Beni culturali Giovanna Melandri, il presidente del Comitato per la Bellezza Vittorio Emiliani e Giuseppe Chiarante, fondatore dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli. Il varo del nuovo Codice per i beni culturali e paesaggistici viene vantato dal ministro Giuliano Urbani come una conquista per «il tesoro degli italiani», come recita il titolo di un suo libro. Le associazioni che si battono per la tutela del nostro patrimonio culturale e del nostro paesaggio, invece, dicono che il Codice spalanca l’ultima porta al saccheggio. Il cittadino comune è lecito che si chieda, allora: due anni e otto mesi di governo di centrodestra cosa hanno prodotto in questo campo? Oggi il nostro patrimonio comune è più tutelato o meno?
GIOVANNA MELANDRI. Io do un giudizio fortemente critico sul Codice. Il problema, però, è che questo Codice arriva a valle di una complessiva iniziativa legislativa del governo Berlusconi. C’è un piccone che sta demolendo quei principi su cui per due secoli si è fondata la cultura della tutela nel nostro Paese: dall’istituzione di Patrimonio Spa ai meccanismi di cartolarizzazione del patrimonio dello Stato, Legge 112 del 2002, il famoso art. 33 della Finanziaria 2002, quello che, nella sua prima versione, privatizzava di fatto la gestione dei musei; ci metterei anche la legge obiettivo Lunardi; poi c’è la Finanziaria 2002, quella che ha tagliato risorse più di altre, perché la tutela si fa anche destinando risorse pubbliche al restauro e alla conservazione; c’è la norma del silenzio-assenso per la vendita del patrimonio culturale prevista nella Finanziaria e ora assunta nel Codice; c’è il condono edilizio; c’è il provvedimento sulla depenalizzazione delle costruzioni abusive in aree protette. Il Codice Urbani non sbuca dal cilindro.
GIUSEPPE CHIARANTE. Mi sono riletto proprio ieri il bel volume che il Servizio Archivi del Senato ha pubblicato sulla legge del 1909, la prima legge dello Stato italiano, in questo campo, di una certa organicità. Il primo articolo pone il principio fondamentale per la tutela, cioè dice: «I beni storici, artistici, archeologici, etc. sono assolutamente inalienabili». E da lì seguono le altre norme. La preoccupazione di fronte al nuovo Codice e, più in generale, anche per le altre leggi che ne hanno preparato la stesura è che, invece, si registra uno spostamento del rapporto Stato mercato. Dal 1909 alla Legge Bottai al Testo Unico, dopo la definizione di che cosa è «bene culturale» venivano le norme sulla conservazione, sulla prevenzione, sul restauro, sulle varie forme di manutenzione e, solo poi, sull’eventuale alienazione: nel Testo Unico all’art. 55. Qui, invece, e ogni volta che leggo il testo del nuovo Codice resto stupefatto, subito dopo le definizioni di che cosa è «bene culturale» troviamo la norma che spiega come si deve fare per alienarli. Per di più aggravata dall’introduzione nel Codice del principio del silenzio-assenso. Questo è uno spostamento di ottica tra il valore culturale e scientifico della politica di tutela e, invece, l’intervento mercantile.
DOMENICO FISICHELLA. In questo periodo più recente, effettivamente ma, debbo dire, non tutto è cominciato in questa legislatura , si è avviato un processo che ha teso a modificare il ruolo dello Stato nei confronti della tutela ipotizzando crescenti forme di intervento di una logica privatistica e di mercato, in un quadro nel quale il ruolo dello Stato deve essere, viceversa, eminente e preminente. Ho ricordato più di una volta che il mercato è il luogo nel quale si immettono beni caratterizzati da serialità e, quindi, sotto questo profilo, da fungibilità: possiamo produrre due milioni di automobili uguali tra loro, e come tali fungibili, dieci milioni di frigoriferi e lavatrici e così via. E un pezzo può essere sostituito dall’altro pezzo, perché appartengono ad una serie e le uniche differenze riguardano taluni optional. Ed è in ragione di questo che il bene è liberamente vendibile. Il bene culturale, invece, è caratterizzato dalla sua unicità e la cultura di un Paese è il prodotto della rete che si intreccia fra questa straordinaria pluralità di beni singoli infungibili.
Ciò che va messo in evidenza, però, è che questa contrazione crescente del ruolo dello Stato si è avviata già, per un verso, con i processi di regionalizzazione del nostro assetto istituzionale e oggi rischia di accentuarsi fortemente, sia in seguito alle modifiche costituzionali attuate nella precedente legislatura dal centrosinistra e sia, ancor più, con le modifiche costituzionali in via di discussione parlamentare su iniziativa del centrodestra. C’è, quindi, un lavoro complessivo che viene condotto ai fianchi dello Stato: per un verso, la riduzione del ruolo dello Stato a vantaggio di altre istituzioni di tipo locale rispetto alle quali l’influenza degli interessi particolari può farsi più forte, e, per l’altro verso, l’imporsi di questa visione mercantile. Ed è su questo terreno che il silenzio-assenso rischia di diventare dirompente, perché in assenza di strutture adeguate, di personale quantitativamente e qualitativamente all’altezza, rischia di diventare una pratica attraverso la quale può passare una molteplicità crescente di provvedimenti che finiranno per ridurre il quadro dei beni davvero sottoposti a tutela a poca cosa. Non c’è solo il problema del Colosseo, c’è il problema di un Paese che, avendo più di ottomila Comuni, ha un tessuto fitto, che costituisce la sua specificità.
VITTORIO EMILIANI. Ho sotto gli occhi una circolare del 1857 del granduca Leopoldo di Toscana che, per altro, richiama leggi del 1754 e potrebbe richiamare anche il testamento dell’ultima de’ Medici che dispone la inalienabilità «degli stabilimenti delle comunità e dei luoghi pii, delle Chiese, delle Corporazioni religiose, dei Conservatori, delle opere delle Compagnie, Confraternite e Spedali»; parallelamente faceva lo Stato Pontificio: prima con Benedetto XIV, poi con Pio VII; e poi, via via, le leggi citate, fino alla legge del 1909 Rosa di Rava, il cui regolamento Bottai assume per la sua, del ’39. Dall’altra parte la legge sulle bellezze naturali firmata da Benedetto Croce nel 1922, in parallelo con l’istituzione dei primi due Parchi Nazionali, quello d’Abruzzo e quello del Gran Paradiso, pure ripresa da Bottai nella 1497, giovandosi anche del contributo di due giovani che si chiamavano Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan. Avanti ancora: la legge urbanistica del ’41, le leggi sulla casa, e la legge Galasso, alla fine, che aveva dato una normazione del paesaggio molto più stringente. Qui siamo ad un continuo decalage rispetto a questa normativa che ci aveva, certo, messo in una situazione di avanguardia. In una conferenza stampa abbiamo adottato lo slogan «Ridateci Bottai», a voler dire: ridateci una legislazione inadeguata, sì, rispetto all’oggi, tuttavia assai più tutelatrice di quella attuale. Che, tra l’altro, introduce e sancisce in maniera ufficiale la scissione fra tutela e valorizzazione. E questo è gravissimo.
Ma, se la tutela è nel Dna del nostro Paese, come è possibile che oggi una cultura, oltre che sbagliata, anche minoritaria, come quella espressa dal ministro Urbani, abbia la meglio?
EMILIANI. Ha ragione il presidente Fisichella quando dice che già precedentemente si erano aperti dei varchi. La Melandri era ministro quando, sciaguratamente, la Camera approvò nella finanziaria 2000 un emendamento della Lega Nord che già ribaltava il criterio: i beni culturali e demaniali non sono più tutti inalienabili salvo eccezioni, ma sono tutti alienabili salvo eccezioni. Si dovette provvedere con un regolamento ad hoc che corresse ampiamente: è il regolamento 283 del settembre 2000, oggi abrogato con il nuovo Codice. Anche sul voto dei sovrintendenti nelle conferenze di servizi per le grandi opere, c’era già stato un tentativo, in parte riuscito, di equiparare il loro voto e di non dargli più la possibilità di veto. Il veto, per esempio, opposto da Adriano La Regina al sottopasso di Castel Sant’Angelo...
MELANDRI. Intanto vorrei continuare a rispondere alla domanda iniziale: il complesso di norme che è stato approvato dall’attuale governo costituisce una rottura della cultura giuridica del nostro Paese? La mia risposta è sì. La nostra Costituzione all’art. 9 cristallizza l’idea della tutela e la sovradetermina su tutte le altre esigenze, anche quelle della valorizzazione. Questo principio ha ispirato decenni di legislazione. Questo, naturalmente, non toglie che nel corso della legislatura di governo dell’Ulivo, ci siano state incursioni. Incursioni però firmate quasi tutte da forze dell’opposizione dell’epoca su cui, poi, convergevano settori della maggioranza. Incursioni però tutte rimandate al mittente. Rimediate e riparate, tranne una: il Titolo Quinto. Oggi, però, siamo di fronte ad una rottura di cultura giuridica. Viene da citare Keynes: «Voi spegnereste il sole e le stelle, perché non danno dividendi». Non voglio polemizzare a distanza con il ministro Urbani, però il problema è che, se puntiamo la luce sulle sue iniziative, l’ombra che si proietta sul muro è sempre quella di Giulio Tremonti: la politica culturale, ambientale, paesaggistica di questo governo non la fa Urbani. Poi lui tampona e perde regolarmente.
In base all’articolo 9 della Costituzione e alla sovradeterminazione della tutela, fino al Codice, tutti i beni culturali di natura pubblica erano inalienabili, tranne eccezioni, quelle definite dal famoso regolamento 283 del 2000 che definimmo insieme alle associazioni di tutela e agli enti locali. Perché in alcuni casi eccezionali, definiti volta per volta dalle sovrintendenze, è possibile che il trasferimento del titolo di proprietà sia una forma attiva di tutela. Ora, invece, che cosa succede? Esattamente l’opposto: i beni sono tutti alienabili. Primo punto di rottura su cui si innesta il meccanismo pesantissimo del silenzio assenso.
Secondo punto: il ministro Urbani, nel presentare il Codice, ha valorizzato l’aspetto, a mio giudizio, solo formale della tutela del bene paesaggistico. Se si va però a leggere bene, si scopre che, in realtà, il Codice azzera la politica di tutela del paesaggio. Perché? Prima lo Stato poteva impedire l’edificazione di costruzioni, anche laddove fossero state autorizzate dagli Enti locali (che sono, come è noto, titolari del potere di concessione edilizia), quando la sovrintendenza ritenesse che minacciavano l’integrità delle zone sottoposte a vincolo paesaggistico. Questo meccanismo, che veniva dalla legge Galasso, ha dei limiti.
Qual è l’inconveniente? È che le sovrintendenze arrivano a valle del processo di pianificazione. Motivo per cui il ministro Melandri, nel 1998, promosse una Conferenza nazionale sul paesaggio, da cui derivò un atto di indirizzo che venne emanato dal ministero e concertato con tutte le Regioni, anche governate dal centrodestra, in cui si diceva: verificate a monte e non a valle con gli Enti locali ciò che può essere autorizzato, in modo che le sovrintendenze non siano costrette, poi, ad annullare le autorizzazioni concesse. Che cosa fa Urbani? Cancella il potere di annullamento delle sovrintendenze. Prima le sovrintendenze erano le depositarie delle chiavi della tutela, sia per il trasferimento del titolo di proprietà, nel caso del bene culturale, che per la tutela del paesaggio. Ora, con l’introduzione del silenzio assenso, l’indebolimento delle strutture del ministero e la controriforma del Codice, non hanno più né risorse né voce in capitolo.
Voglio aggiungere una cosa: da più parti viene mossa ai governi dell’Ulivo, ed anche a prima, alla legge Ronchey, la critica di avere aperto il vaso di Pandora. Questa è un’accusa che non accetto. La legge Ronchey interveniva con una chiarissima distinzione tra le funzioni di gestione del patrimonio del museo e i «servizi di accoglienza», che, per loro natura possono essere forniti meglio da un privato che dallo Stato. E vorrei ricordare che, viceversa, il governo Berlusconi, nella Finanziaria del 2002, provò a introdurre il famoso art. 33 per cui l’intera gestione museale era affidata ai privati: quello, sì, era uno strappo giuridico. Urbani difese quel provvedimento. Ci fu una sollevazione nel mondo dell’arte che portò il governo a modificare in corsa gli aspetti più perniciosi di quella norma. E ora la ritroviamo in parte nel Codice. C’è, poi, la questione dell’alienazione del patrimonio. Si è già detto: il Regolamento 283 del 2000 che noi emanammo partiva dal principio che i beni erano inalienabili salvo casi specifici e secondo modalità stabilite dal regolamento e, comunque, l’obiettivo era sempre quello della tutela/valorizzazione del bene. Il nostro obiettivo non era fare cassa. Con il vincolo, pena la recessione del contratto di alienabilità, del godimento pubblico: il bene non veniva privatizzato, doveva essere restituito alla comunità. Con la Finanziaria 2004, invece, si introduce la tagliola del silenzio assenso.
C’è poi un punto su cui è stata introdotta un’ambivalenza che oggi rischia di essere travolta dalla devolution di Bossi. È la riforma del Titolo Quinto approvata dall’Ulivo (con il mio dissenso formale nel Consiglio dei Ministri, ma questo non conta) che non ha chiarito a fondo come sarebbe stato doveroso il tema dell’attribuzione delle competenze alle Regioni: tutela e valorizzazione sono le due facce della stessa medaglia, una separazione meccanica dei due aspetti non aiuta. Oggi si sta parlando ecco dove c’è il salto, di nuovo, di cultura giuridica di uno Stato che vende e mercifica, non investe risorse pubbliche e intanto affida totalmente, esclusivamente alle Regioni il compito.
CHIARANTE. Io torno alla seconda domanda, perché credo che serpeggi nell’opinione pubblica. Sono d’accordo con Giovanna Melandri: la politica del governo dell’Ulivo sostanzialmente è continuata nel solco di una cultura giuridica secolare. Invece vedo un’offensiva che parte da lontano, l’offensiva economicistica mercantilista che, in campo di beni culturali, si manifesta la prima volta negli anni ’80 con la parola d’ordine dei «giacimenti culturali». Estremamente pericolosa, perché confonde due cose che devono essere ben distinte: il fatto che il bene culturale certamente può essere un fattore di ricchezza anche economica, come lo è per l’Italia, il nostro patrimonio è uno dei motivi di richiamo per il turismo, ma in un senso radicalmente diverso da quello che si intende a proposito di giacimenti. Dai «giacimenti», siano di petrolio, di carbone, di ferro, si estrae materia da consumare. Bisogna, invece, mantenere fermissimo il concetto che il patrimonio culturale è un tessuto che deve essere garantito proprio nella sua complessità. Non si può dire: «In questo Museo abbiamo tante copie, vendiamole!».
E qui vorrei aggiungere anche la preoccupazione per il disegno di legge sulla riforma del Ministero. Qui si colpisce duramente il personale di carattere scientifico e tecnico: quando, per compensare la creazione di una quarantina di direttori generali, si dice che si tagliano sedici posti di dirigenti di seconda fascia, significa che si tagliano sovrintendenti archeologi, storico-artistici, architetti, archivisti, bibliotecari. E, con poche forze, è chiaro che i pericoli insiti nel silenzio/assenso si moltiplicano. E qui voglio sottolineare una cosa, che non è stata abbastanza notata: nel recepimento nel Codice della norma sul silenzio/assenso c’è stato un grave peggioramento, perché è stato soppresso il comma 9 di quell’articolo del decreto. In pratica il silenzio/assenso entra come norma ordinaria, non più come norma di prima esecuzione, nell’ambito della normativa di tutela.
FISICHELLA. La domanda che ci avete fatto è: «C’è un’opinione pubblica maggioritaria nel Paese che può contrastare queste linee di tendenza?». Forse potrebbe esserci, se nell’opinione pubblica si dibattesse con riferimento alla realtà effettiva. Invece le grandi questioni che investono questo Paese hanno a che vedere troppo spesso con la realtà virtuale. Io credo che, se i cittadini fossero adeguatamente informati di ciò che si sta affrontando, ci potrebbe essere forse la possibilità di opporre una resistenza adeguata. Non ne sono sicurissimo, perché è intervenuto un mutamento di approccio culturale che privilegia oggi la dimensione privatistica, il fare cassa. Noi, tuttavia, parliamo di cose che non hanno una vera corrispondenza con le esigenze reali del Paese: si potrebbe fare l’esempio clamoroso del federalismo, al quale stiamo rivolgendo tanta parte della nostra attenzione, mentre le vere questioni che oggi investono i cittadini riguardano le difficoltà economiche, la flessibilità che ha una sua plausibilità, se si iscrive in un quadro di sviluppo e di dinamismo positivo della società, non se si iscrive in un quadro di ristagno e di declino economico. Detto questo, però, non si può fare a meno di notare che c’è una continuità nel meccanismo logico che in questi anni è stato adottato, nell’affrontare questioni pure apparentemente distanti.
Cosa diceva, prima, l’art.117 della Costituzione quanto al rapporto tra Stato e Regioni? Le competenze sono tutte dello Stato, tranne i casi espressamente e tassativamente elencati in maniera finita. Oggi, nella sua nuova formulazione, si è ribaltato questo impianto: «Le competenze dello Stato sono elencate in maniera finita, per tutte le altre competenze è la Regione il soggetto sovrano». Questo è esattamente lo stesso tipo di ribaltamento che si è verificato, dal punto di vista logico, nell’impostazione sui beni culturali: prima erano tutti inalienabili tranne le eccezioni, quindi lo Stato era il custode di tutto, oggi è esattamente il contrario. Il discorso, allora, si fa difficile e lo è tanto più in un quadro nel quale, oggi, noi siamo in presenza di una classe dirigente governativa che non ama lo Stato, che ha una sua pulsione tendenzialmente antistatale. Non antistatalista, perché le obiezioni allo statalismo le hanno mosse prima di altri gli uomini di cultura di ispirazione liberale, laddove erano statalisti tutti, in questo Paese: era statalista la sinistra, era statalista la Democrazia cristiana, era statalista, socializzatore, corporativista il vecchio Movimento sociale italiano. Questo è ciò che caratterizza questo passaggio delicatissimo della nostra vita pubblica ed in questo io posso convenire su quello che è stato definito il «salto di qualità», c’è un atteggiamento che cambia in maniera drastica nei confronti dello Stato. Si considera la società in posizione primaria rispetto allo Stato.
Ma poi la società in che cosa si concreta se non in quell’insieme di forze economiche e tecnocratiche, e di forze culturali che fanno da supporto alle altre due, che vedono nello Stato una forza di tendenziale prevaricazione? È da qui che noi dobbiamo cercare di uscire. Perché, rispetto allo Stato, c’è stato un atteggiamento che ha lunghe radici: si chiedeva allo Stato una serie di prestazioni che potevano essere date da altri soggetti. Allo Stato abbiamo chiesto tutto, lo Stato ha fatto tutto, ha fatto i panettoni. Ma con il sovraccarico delle funzioni, e il sovraccarico della finanza pubblica, lo Stato ha finito per fare praticamente tutto male! Anche da questa situazione è emerso un atteggiamento di ripulsa sostanziale nei confronti dello Stato. Ma si sarebbero dovute individuare le funzioni che, viceversa, lo Stato non può demandare ad altri e che deve, in prima persona, gestire perché appartengono all’essenza stessa del suo ruolo. E la tutela dei Beni Culturali era uno di questi grandi temi. L’antipolitica, di cui tanto oggi si parla, non è altro che una delle tante facce in cui si esprime l’antistatualità.
La partita è difficile, tutti hanno compiuto e sbagliato delle mosse senza vederne adeguatamente le conseguenze. E, in questo senso, ogni forza politica ed ogni coalizione che si disperde in polemiche interne, infinite, che riguardano persone, simboli, forme organizzative, compie un’opera di distorsione che non aiuta i cittadini a fare chiarezza sulle questioni fondamentali.
EMILIANI. Vorrei dare un dato: negli anni scorsi le sovrintendenze, sia pure a valle, evitavano all’anno circa 3.000 scempi, un 2% circa delle istruttorie, che erano 150 mila. Con mezzi di fortuna: 300 architetti in tutto sparsi per l’Italia. Ed è su queste forze che ora si scarica il silenzio/assenso. Oggi le autorizzazioni delle Regioni e dei comuni prevalgono sul parere dell’organismo tecnico scientifico statale, incaricato di dire di sì o di no. Molte Regioni hanno subdelegato i comuni, quindi i comuni diventano i certificatori di sé stessi, sono controllori e controllati e vi assicuro che, anche in quella che viene chiamata la «Toscana Felix», dove c’è la subdelega per i piani paesistici, stanno succedendo cose da matti! Con il Codice il ruolo del sovrintendente diventa un ruolo «politico», senza poteri reali di intervento. Quanto alla sordità dell’opinione pubblica, bisogna tener conto del livello culturale basso del nostro Paese: il 35% della popolazione oltre i 60 anni ha la V elementare o neanche quella, sono dati impressionanti; c’è un 6% solo di laureati, circa la metà della media europea; un altro 30% ha finito le scuole dell’obbligo e lì si è fermato. Siamo, quindi, a una maggioranza in condizione di semianalfabetismo, con pochissima pratica di musei e con l’idea che il paesaggio può essere sfigurato . Perché, se c’è tanto abusivismo, ci sarà pure un’iniziativa selvaggia dei singoli. Convalidata dal terzo condono in meno di venti anni, che significa la morte del diritto urbanistico.
Il Codice, quindi, va oltre il Titolo V ed i pericoli ed i varchi che già esso apriva. Altra cosa: da chi è stato discusso questo Codice? È stato discusso soltanto dal Ministro con i suoi esperti. Non c’è stata nessuna convocazione del Consiglio Nazionale: è stato rieletto e rinominato 7 mesi fa, ma non è stato mai convocato dal ministro e quello era il luogo dove discutevano i rappresentanti dell’amministrazione, delle autonomie locali e regionali, degli storici dell’arte, degli urbanisti, degli architetti. Nessuna riunione, neanche per un’ora! È passato dal Senato alla Camera, con la discussione di poche ore, soltanto per un parere. E poi ha continuato il suo cammino, sempre con l’idea che poteva essere aggiustato nelle segrete stanze da questo o quell’esperto che garantiva, fino all’ultimo, che il silenzio/assenso non ci sarebbe stato. Ed è rimasto sorpreso il professor Settis, quando ha visto che, invece, alla fine il silenzio/assenso era corpo vivo, sangue e carne di questo Codice.
Ora, per ciò che riguarda il paesaggio, il signor Ministro ha sostenuto che così lui ha completato la legge Galasso. È una colossale bugia, però, sul Corriere della Sera è uscito un suo articolo, non contestato da nessuno, mentre io credo che un giornale debba fare anche il suo mestiere e vedere se uno dice la verità o meno. Io ho scritto una lettera che non è stata pubblicata, in cui cercavo di dire le ragioni: 1) i piani paesaggistici, secondo la Galasso, avevano una scadenza precisa, e qui non c’è nessuna scadenza; 2) c’era un potere di sostituzione del Ministero, ora non c’è più; 3) terza cosa, e Urbani lo sottolinea come un passo avanti, e lo è, la fine delle scandalose autorizzazioni in sanatoria, che in effetti vengono rilasciate, molto spesso, dopo l’esecuzione anche parziale dei lavori. Questo è giustissimo, ma parallelamente lo stesso governo ha varato il condono edilizio.
FISICHELLA. Vorrei chiosare in tre secondi quello che è stato detto circa il ruolo politico, forse sarebbe meglio dire «negoziale», dei sovrintendenti. Il loro sarà un ruolo necessariamente ridotto, perché l’atmosfera nella quale viviamo è questa: il magistrato, ma chi è il magistrato? È solo un signore che ha vinto un concorso, mentre noi siamo i rappresentanti del popolo! Il prefetto? Ma chi è il prefetto? È solo uno che ha vinto un concorso, mentre noi siamo i rappresentanti del popolo! Quando ci sarà la polizia locale, con la devoluzione, inevitabilmente il presidente della Regione finirà per essere il presidente del Comitato per l’ordine e la sicurezza della Regione e cosa potranno opporre i prefetti ad un signore eletto dal popolo? Cosa potranno opporre i funzionari tecnicoscientifici, cioè i sovrintendenti, a signori eletti dal popolo? Questa è l’atmosfera al cui interno ci muoviamo. La partita è complicata, ma va combattuta. Questo quadro parte da lontano e vede responsabilità plurime, tra le quali certamente quelle del centrodestra sono particolarmente gravi, non fosse altro perché il centrodestra include una formazione politica, come An, che avrebbe dovuto assumere un atteggiamento di contrapposizione a certe posizioni e di difesa di certi valori e prospettive. Però è una battaglia che bisogna condurre. Ma è la filosofia complessiva che si è modificata ed è lì che bisogna incidere, su questa logica di elettoralismo populistico e di demagogia della sovranità popolare. Ma allora cosa si può fare? Cosa possono fare delle forze anche di diverso colore politico, per impedire che questo scempio venga perpetrato?
MELANDRI. Vorrei dire al presidente Fisichella: è molto vero ciò che dici sulla visione antistatuale, però aggiungerei un aspetto, c’è una visione anche proprietaria dello Stato, e c’è, in questi ambiti della vita politica, io assocerei a questa riflessione ciò che sta accadendo nella scuola e nella sanità, voglio dire che le politiche culturali sono un pezzo del Welfare, c’è l’idea di voler dimostrare che lo Stato non può farcela. Ora una riflessione per il centrosinistra: io penso che noi abbiamo combattuto nella scorsa legislatura dure battaglie, che sostanzialmente le abbiamo vinte, con l’eccezione dell’ambivalente soluzione sulla scissione tra valorizzazione e tutela, presente nel Titolo V. Io, però, non mi ritengo soddisfatta e penso che il fatto che i governi dell’Ulivo, in cinque anni, abbiamo fatto del «mai più un condono edilizio» una stella polare ed abbiano abbattuto alcuni ecomostri, anche se simbolicamente; il fatto che fossero stanziati, anche in un’epoca difficile per la congiuntura economica e finanziaria del nostro Paese, risorse consistenti per il restauro, per la valorizzazione, insomma centinaia di cantieri aperti e chiusi un po’ in tutta Italia, tutti fatti che oggi noi vediamo azzerati, penso che il centrosinistra, che oggi è alle prese con il progetto alternativo di governo, di tuto questo debba far tesoro. E affermare senza tentennamenti che ci vuole più spazio pubblico, ci vuole una forte mano pubblica nel rilancio del Welfare e nel rilancio delle politiche culturali italiane. E che i privati posso associarsi ad uno Stato forte, non ad uno Stato debole. Ora, mi ha colpito che su queste tematiche, ad eccezione della tua autorevolissima voce, non si sia levata una voce di dissenso nel dibattito parlamentare. Ultimissima cosa: la mortificazione delle competenze tecniche. Che cosa si può fare? Di fronte al silenzio/assenso come strumento perentorio di esercizio della propria funzione, queste sovrintendenze mortificate hanno uno strumento che è quello di dissentire, dissentire sempre e comunque.
CHIARANTE. Occorre ripartire con la battaglia che riaffermi in tutto il campo del Welfare il fatto che ci sono settori in cui c’è un compito pubblico che è preminente. Anche come sinistra dobbiamo assumerci in pieno le nostre responsabilità per certe concessioni eccessive al privatismo, alla teoria del libero mercato.
FISICHELLA. Se dovessi indicare un punto sul quale potrebbe avviarsi un lavoro in positivo molto importante è quello relativo alle riforme costituzionali che oggi sono in discussione in Parlamento: fermare questa riforma costituzionale avrebbe un valore simbolico dal punto di vista politico straordinario. Se si riuscisse a fare esplodere, come si diceva una volta nel linguaggio del marxismo, le contraddizioni all’interno della coalizione di centrodestra, e far venire allo scoperto e ci sono forze che rispetto a questa maniera di intendere il federalismo hanno un atteggiamento critico, io credo che davvero si potrebbe riaprire tutta una importante partita.
EMILIANI. Noi siamo, dico noi in generale, stati in questi due anni e mezzo sotto una sorta di bombardamento che ha colpito e, ahimé, demolito spesso presidi e persone della tutela. C’è stata certamente una intensificazione dei movimenti, per esempio le 19 Associazioni hanno costituito un tavolo comune presso il WWF. Ci sono dei siti, per esempio Patrimonio Sos, che stanno lavorando molto.
Però io a questo punto mi chiedo che cosa ne pensino i partiti, anzitutto quelli del centrosinistra. Che posizione hanno i Ds? C’è un progetto della Regione Toscana, che io valuto negativamente, per una attribuzione regionale della tutela. La Regione Toscana, se non avesse subdelegato i Comuni in materia paesistica, forse avrebbe avuto titoli migliori per esibire questo progetto. E poi eravamo contro lo spezzatino dei beni culturali ed ambientali ai tempi del Titolo V e lo siamo ancora oggi. Qui, poi, non si è potuto parlare perché è mancato il tempo, e anche perché c’è una specie di sonno inquieto e malato, dei parchi: parchi nazionali, regionali, le aree protette. Negli anni Novanta siamo arrivati con fatica e con dolore a 17 parchi nazionali, al 10% del territorio tutelato; oggi i parchi vengono visti anche essi come una specie di luogo di turismo, di gioco, di lunapark, magari da riaprire un po’ alla caccia, dove si può, si affaccia, anche qui, una visione mercantile. Noi dobbiamo ridisegnare una politica alternativa e discutere di questo. Battiamoci per qualche cosa di veramente alternativo, con tutte le forze possibili che ci sono, anche a destra.
(a cura di Maria Serena Palieri)
Giuseppe Campos Venuti, che cosa pensa del piano della giunta che secondo molti aprirà la strada alla cementificazione della collina?
«Non l´ho ancora letto. Lo spirito però mi pare giusto».
Giusto? Il padre della tutela della collina è per aprire crepe nella diga?
«Al contrario. Proprio perché voglio difendere l´integrità del verde, sono favorevole a un piano generale che lo renda vivibile. Ma dobbiamo chiederci che cosa vogliamo farci con quei seimila ettari. Un altro parco? Ne abbiamo bisogno? Pensiamo che Bologna possa permetterselo? O è un´altra favola come la metropolitana?»
Per Fanti e Cervellati con quel piano la collina è in pericolo.
«Così impostata, è una battaglia da esibizionisti. Se vogliamo salvare la collina, occorrono attività compatibili con la sua salvaguardia: sport, agriturismo, qualche servizio».
Se non si è costruito è perché lei 40 anni fa la vincolò.
«Quarant´anni fa c´era ancora l´agricoltura, l´attività che poteva preservare il verde nella Bologna alta. Ma oggi? Possiamo scommettere sull´agricoltura?»
Lei su che cosa punterebbe?
«Su un progetto generale di conservazione e insieme di vitalizzazione. Non si tratta di attribuire indici di edificabilità, ma di non escludere un utilizzo naturale».
Naturale?
«Certo, penso ad attività sportive, ricreative e turistiche con forte presenza di verde. Pensare di salvare la collina soltanto con dei vincoli è grottesco».
Chi le dice che una serie di permessi non siano il cavallo di Troia per chi vuole speculare e cementificare?
«Il cavallo di Troia funziona quando non c´è un progetto chiaro e certo. Ecco la sfida da lanciare all´assessore all´Urbanistica. Ogni intervento andrà vagliato con grande attenzione. Ma se un ristorante mi fa la manutenzione di una strada e un´azienda agrituristica, o persino un albergo, garantisce la cura di un´enorme estensione di verde, perché impedirlo?»
Perché si comincia dalle piccole cose.
«Tante piccole cose sono già accadute in questi anni. E molte di più ne accadrebbero in assenza di un piano generale».
A che cosa si riferisce?
«Il mio piano di quarant´anni fa era drastico, ma inevitabilmente un po´ rozzo. Conteneva piccole smagliature che in questi anni sono state sfruttate. Si è costruito sia al tempo di Imbeni, che con Vitali e, con qualche compiacimento, durante il mandato di Guazzaloca».
Vuole dire che il suo piano è un colabrodo?
«Per fortuna non lo è. Non è stata fatta l´ira di Dio. Bologna ha ancora l´unica collina urbana salva. Ma oggi va salvata in maniera organica. Serve una cura sistematica, programmata, generale. E magari è possibile qualche piccolo do ut des, purché sia fatto con persone serie».
Ha ragione Merola, allora?
«Non c´è dubbio. La strada è quella giusta. Se non si interviene con uno strumento generale più moderno e sofisticato, in quelle crepe si infileranno in tanti. Ecco che cosa non vedono le battaglie emblematiche e un po´ esibizionistiche su oggetti sbagliati».
Si riferisce al golf?
«Proprio così. E´ un falso obiettivo. Il vero problema di quel golf semmai è un altro».
Quale?
«E´ piccolo. Un campo scuola di poche migliaia di metri non protegge tantissimo. Diciotto buche avrebbero preservato un´area vastissima».
Che fa, professore, l´apologia del green?
«Solo in Italia parlando di golf si pensa ai ricchi, altro ve si fanno golf pubblici. Nessuno si scandalizzerebbe ad Amsterdam o Rotterdam. Chi va a Zola Predosa scopre che il territorio sopra è bellissimo da vedere. Peccato che ci giochino in pochi e che, per questo, costi una bancata di soldi».
Postilla
Le sirene dell'ambientalismo "a-vincolistico e valorizzatore" e di un uso del territorio "aggiornato e riformista" raccolgono schiere di adepti sempre più numerosi e agguerriti, anche se non sempre di logica ineccepibile.
La battaglia sulla tutela della collina bolognese - ammesso che la si possa ancora combattere - è davvero emblematica dello scontro profondo fra chi crede che paesaggio, territorio, ambiente siano beni comuni preziosi perchè irriproducibili, da proteggere in sé perchè come li abbiamo ereditati, così andrebbero affidati alle generazioni che seguiranno e coloro che li considerano beni di consumo che possono anche essere 'snaturati' ove ciò serva alla loro 'vitalizzazione' (new-entry nella galassia salvifica della 'valorizzazione').
Questa vicenda in pieno svolgimento, molto ci racconta della cattiva coscienza di una giunta frenata nel disinvolto ricorso a varianti e perequazioni da un manipolo di 'esibizionisti' old-style e da una disdicevole fuga di notizie.
E Cofferati, che dice Cofferati? Ah, già anche oggi è troppo impegnato a discettare di partito democratico in cronaca nazionale...(m.p.g.)
L'appello per la tutela della collina bolognese in eddyburg
Attaccano il campo da golf con ristorante sui colli—votato lunedì tra le polemiche in consiglio comunale — non tanto perché si tratta di uno sport per ricchi, ma perché questa concessione apre la strada a «speculazioni edilizie» e alla«privatizzazione del verde». Sono firme illustri quelle che accusano la giunta di «interventi sconsiderati». Sono l'ex assessore regionale all'Urbanistica Felicia Bottino, la docente di Geografia della comunicazione Paola Bonora, l'ex sindaco Guido Fanti, l'ex direttore della Pinacoteca Andrea Emiliani e l'urbanista ed ex assessore (con Renato Zangheri) Pierluigi Cervellati. Hanno scritto una nota durissima.
«Con la salvaguardia della collina bolognese— è il testo— il Comune alla fine degli anni '60 ha fatto della pianificazione il baluardo della sua politica. Oggi l'integrità della collina è minacciata da sconsiderati interventi. E' di pochi mesi fa la decisione di sostituire le ex Officine Rizzoli, da considerare opera di archeologia industriale, con villette a schiera. Di questi giorni la scelta di costruire un campo da golf. Interventi che si ritengono di non rilevante dimensione. Al contrario sono la premessa per sconvolgere il verde collinare— parte integrante della qualità della vita bolognese — per far breccia all'ulteriore speculazione edilizia». Cervellati spiega così il senso dell'iniziativa.
«E' una questione di pianificazione. Non si può dire che si sta facendo la variante per la tutela della collina e poi nel quotidiano si fanno scelte diverse — dice Cervellati — a fatica negli anni '60-‘70 noi "vecchi" cercammo di far passare questo concetto: la collina andava considerata un bene collettivo e quindi salvaguardata. Costruire un ristorante, costruire delle villette è un modo per far aumentare il valore di quell'area col risultato di "privatizzare" quel bene che doveva essere di tutti. Così si stravolge tutto. Pensiamo ai nostri centri storici trasformati in "Store" con la gente che preferisce affittare e andare ad abitare altrove. Vogliamo questo anche per i colli?». Lunedì è stata approvata in consiglio comunale la delibera per la realizzazione in via Siepelunga di un campo scuola da golf (una buca sola) di 4000 metri quadrati, un ristorante da 570 metri quadrati e relativi parcheggi.
Il progetto è stato approvato con i voti decisivi dei Ds e per la Margherita del solo capogruppo Giovanni Maria Mazzanti. Si sono astenuti la Tua Bologna e Alleanza nazionale (il campo da golf è"figlio" della giunta Guaz-zaloca e solo in seguito è stato ridimensionato da Sergio Cofferati), contrari Prc, Verdi, Cantiere e Forza Italia. A parlare di «speculazione» erano stati per primi Verdi e Cantiere, mentre il capogruppo di Rifondazione comunista Roberto Sconciaforni aveva detto: «Non si tratta di stabilire se il golf sia sport di destra o di sinistra. Si tratta di opporsi alla costruzione di un ristorante in un'area verde». «Ho sottovalutato il campo da golf in termini di informazioni — aveva ammesso l'assessore ds all'Urbanistica Virginio Merola — sulla variante collinare ci saranno passaggi in maggioranza prima di arrivare in consiglio comunale».
La Corte Costituzionale ha sospeso il decreto del 24 novembre 2005 con cui il ministro dell’Ambiente Altero Matteoli aveva confermato a Ruggero Barbetti l’incarico di commissario straordinario dell’Ente Parco nazionale dell’Arcipelago toscano. La Regione Toscana aveva sollevato in quella circostanza un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, lamentando anche l’assenza di trattative tra ministero e Regione: la Consulta ha dato ragione alla Toscana, rilevando la mancanza di «una apprezzabile attività» per giungere all’intesa.
«Ancora una volta la Corte Costituzionale smentisce il Governo - ha commentato Vannino Chiti, capolista dell’Ulivo in Toscana - ed in primo luogo il ministro Matteoli, e dà ragione alla Toscana. In questi anni il governo di destra ha calpestato leggi e principi costituzionali per imporre, nei porti e nei parchi, suoi fidi emissari. La Regione e gli enti locali hanno fatto valere le loro prerogative: il governo ed il ministro Matteoli hanno invece fatto l’ennesima brutta figura - ha concluso - ma anche causato dei danni importanti alla Toscana». Esulta anche il presidente della Regione, Claudio Martini: «Un’altra bella soddisfazione!». Anche perchè - sottolinea il governatore - è la prima volta che viene accolta una richiesta di sospensiva assunta da una Regione a statuto ordinario. «Ciò dimostra - ha precidato - l’assoluta fondatezza delle nostre obiezioni e l’illegittimo comportamento del ministero».
L’atto del la Corte chiude la vicenda che ha causato tre anni e mezzo di immobilismo. Il Parco dell’Arcipelago si ritrova senza guida: «Occorre assicurare immediatamente un commissario tecnico», ha concluso Martini.
Non commenta per ora il ministro dell’Ambiente: «Ho appreso la notizia dalle agenzie. Posso commentare a ragion veduta - ha detto - solo dopo aver letto la sentenza». Mentre per la «sonora bocciatura» del ministro esulta anche Fabrizio Vigni, portavoce di Sinistra ecologista e candidato al Senato per i Ds: «Toccherà al nuovo governo far ripartire una politica seria per la corretta gestione e lo sviluppo sostenibile del parco che in questi anni è stato paralizzato per responsabilità della destra». E Fabio Mussi: «Non c’è due senza tre. Ancora una volta - dopo le sentenze n.27 del 2004 e n.21 del 2006 - è toccato alla Corte Costituzionale bocciare l’arroganza del ministro per la nomina di un commissario senza competenza scientifica».
I «nostri gioielli», così Maria Giulia Crespi, Presidente del Fondo Italiano per l´Ambiente, ha definito il patrimonio artistico italiano, aggiungendo che «se vengono venduti o distrutti, questi gioielli non ci sono più, né per noi, né per i nostri figli, né per i nostri nipoti. Mai più».
Una lettera-appello quella scritta dal Presidente del Fai e letta ieri pomeriggio nel Teatro Quirino di Roma, giornata conclusiva del progetto «Italia Giardino d´Europa», appello che si unisce idealmente alla proposta di «Patto Nazionale per la Tutela», una sorta di vademecum per il Presidente del Consiglio del futuro Governo e per i futuri ministri dei Beni culturali e dell´Ambiente. Nel documento, diviso in sette capitoli, si sottolinea, tra l´altro, la necessità di identificare il patrimonio del nostro paese nella sua unicità, di usarlo - valorizzandolo - per sviluppare altri settori economici, di «sveltire» il Ministero addetto, affaticato di un numero sproporzionato di dirigenti generali, di riscrivere le norme della delega ambientale.
«Sui nostri paesaggi gravano tremendi pericoli», ha scritto Maria Giulia Crespi, «pericoli di sfruttatori, speculatori, egoisti imprenditori che pensano soltanto al guadagno, oppure, per entrare nella sfera privata, che pensano all´appagamento delle proprie necessità, dei propri bisogni e comodità. Queste schiere di persone», scrive ancora la Crespi, «sono come cieche, non sanno che una delle missioni dell´uomo è quella di agire e di lavorare per stabilire un´armonia tra il creato e le opere dell´uomo. Ogni trasgressione, dissonanza e selvaggio sfruttamento cozza contro l´armonia e crea disordine, disorientamento, angoscia, genera cattiveria».
Nella lettera Giulia Maria Crespi ha ricordato che «l´Italia in questi ultimi anni è scesa al sesto posto nel turismo europeo, dunque la nostra arte, la nostra campagna, i nostri fiumi, laghi, palazzi, borghi, golfi, giardini, possono, insieme ad altre coraggiose iniziative, diventare uno dei nuovi punti trainanti per l´economia e l´occupazione, purché certe regole vengano rispettate». E tra le iniziative del Fai, già in parte finanziate, c´è da segnalare il restauro di Villa dei Vescovi a Padova (costruita per volontà del porporato Zeno nel 1474, iniziata dal Falconetto, terminata da Andrea Della Valle, con affreschi cinquecenteschi attribuiti al fiammingo Lambert Sustris), ultima acquisizione in ordine di tempo i cui lavori inizieranno a luglio e, ancora, il seguito dei cantieri a Villa Gregoriana (Tivoli) con l´apertura di nuovi percorsi.
È in corso una vertenza piuttosto aspra nella zona fra Voghera e Alessandria per la salvezza dello zuccherificio di Casei Gerola (Pv) posto praticamente all'incrocio fra le autostrade MI-GE e TO-PC. Nel corso di un servizio tv (Tg3 mi pare) ho sentito affermare che lo zuccherificio di Casei è uno dei migliori e dei più produttivi e che la barbabietola della zona è fra le più qualitative d'Italia. E non ho ragioni per dubitarne. Da anni però la nostra produzione di zucchero da barbabietola viene ritenuta eccessivamente elevata dall'UE. Inoltre, tutta la produzione europea del ramo saccarifero è altamente protetta. Credo (a spanne) che lo zucchero bianco europeo regga il mercato rispetto allo zucchero da canna dei Paesi del Terzo Mondo solo in quanto risulti fortemente tutelat dai dazi, e però l'ombrello della protezione UE è già enorme, e pesantissimo da tenere aperto per i prodotti agricoli generici. Inoltre, se non allarghiamo i nostri ingressi per alcune produzioni di massa dei Paesi sottosviluppati, questi rimarranno tali ancora per secoli. Con enormi sofferenze per loro e con grandi rischi per tutti. Ciò vuol dire che la nostra agricoltura di pianura la quale, a differenza di quella collinare e montana, non può vantare, praticamente, prodotti tipici o tipizzabili (vino, olio, formaggi, salumi, conserve,ecc.), dovrà subire una riconversione molto incisiva? Sono soltanto un cronista, ma credo proprio di sì.
Essa, nonostante le tecnologie immesse e una irrigazione costosissima (per l'ambiente anzitutto), rende ormai così poco che numerosi imprenditori agricoli della Bassa padana sono andati, non a caso, a fare profitti a Timisoara, in Romania. E' dunque finita l'epica stagione delle bonifiche, in atto dall'Evo dei Benedettini, accelerata grandemente con la legge Baccarini di fine '800 e sviluppate sia in epoca giolittiana che fascista che postbellica. Con grandissimi sconquassi (grazie ai continui pompaggi d' acqua) nei livelli e nell'assetto dei terreni, con autentici sprofondamenti, per esempio nel Bolognese. Quale sarà allora il futuro della agricoltura di pianura, in specie nella Valle del Po? Paradossalmente (ma non tanto), è ipotizzabile che, in parte, vi tornino il bosco, anticamente presente, e l'acqua prosciugata dalle bonifiche di fine '800, primi '900. Oppure essa va, in buona misura, utilizzata per produrre materia prima energetica: biomasse, barbabietola per etanolo, semi oleosi per il biodiesel. Dal "Sole 24 Ore" vedo che questi programmi vanno avanti, in Europa più che da noi, ma persino da noi.
"Debuttano i carburanti biologici. Da luglio dei distributori benzine con miscele di colza e girasole" (titolo di sabato 11 febbraio, a pagina 17, Agroindustria, dove c'è anche un foto-servizio sulla protesta per Casei Gerola). Bisogna pur rifare i conti in questa agro-industria sin qui tanto protetta verso (contro?) il resto più povero del mondo. Rifare i conti e pensare a qualcosa di diverso. Altrimenti, a forza di buoni sonni, ci pensano gli altri...Già nella lucida introduzione a quello straordinario monumento all'Italia unita che fu l'Inchiesta Agraria, Stefano Jacini scriveva che l'Italia avrebbe dovuto dedicarsi alle produzioni per le quali era vocata ed importare invece quelle (a partire dal grano) per le quali erano più vocati altri Paesi come la Russia, pagando con le esportazioni quegli acquisti. Si era nel 1882, e quel grande agricoltore, cattolico-liberale, antiveggente, vedeva giusto non tanto per i suoi quanto per i nostri tempi (all'Inchiesta Agraria dedicò uno dei suoi libri più acuti Alberto Caracciolo). O, da semplice cronista di cose ambientali e agricole, prendo un abbaglio? A me pare un bel tema sul quale chinarsi a riflettere criticamente, e propositivamente.
Un sentiero di terra battuta, a destra prati e case basse sullo sfondo, a sinistra un filare di alberi e il verde che digrada verso l’acqua della roggia.
Dopo la svolta che fiancheggia una piccola chiusa appaiono un pioppeto, un tratto coltivato, di nuovo un prato, una staccionata. Sono due dei sette chilometri già percorribili di una strada che, quando sarà finita, ne conterà i 120 - tutti da fare a piedi, in bicicletta, a tratti anche a cavallo, fra Milano e Varzi, nell’Oltrepò. Un progetto che ha un nome evocativo, Greenway; un’autrice, l’architetta del paesaggio Caterina Ziman; l’imprimatur dell’università di Pavia e la sponsorizzazione della Banca del Monte di Lombardia. Perché anche un semplice sentiero come questo, un tempo normale presenza vicino a qualsiasi paesino italiano, oggi è frutto di un’operazione altamente specializzata the richiede, come dice Ziman, “molto studio, molta ricerca, molta elaborazione. Sono questi gli ingredienti giusti per arrivare a fare la cosa più semplice” .Peccato solo che al momento il percorso fuori dal tempo sbuchi in un grande e inutile spiazzo di cemento davanti a un gruppo di villette a schiera: periferia di San Genesio, periferia di Pavia.
Poche decine di chilometri più avanti, però, c’è dell’altro, di nuovo e di sorprendentemente bello - sì, bello - da vedere. Oltre la strada, dietro un filare di alberi, strisce color cobalto, azzurro, turchese e acquamarina che si alternano fino a una torretta color tortora. È uno dei due depuratori di Milano, il San Rocco, un bestione che smaltisce fra i 4 e i 12 metri cubi al secondo di acque reflue, a seconda delle piogge.
Costruito dalla società Degremont su progetto degli architetti Quattroassociati, è in funzione dalla fine 2004. Dietro la parete colorata, l’impianto prosegue con una serie di vasche all’aperto. Dalla tangenziale, che quasi le affianca sfiorando l’intero complesso, si vede ben poco: tutto è circondato da un terrapieno verde.
A svegliarci dal sogno di un’altra Italia possibile ci pensano un fiorellone gigante e i tubi che reggono lui e la relativa insegna dell’imperdibile centro commerciale. Cielo cancellato, non esattamente un piacere per gli occhi. Periferia di Rozzano, periferia di Milano: viene voglia di mettere in moto ruspe, martelli idraulici, palle d’acciaio, qualsiasi cosa possa aiutare a ripulire. Tornano in mente Sgarbi e Agrigento da bombardare, e scatta inesorabile la tentazione di dare sempre e comunque ragione a chi si batte contro inceneritori e alte velocità -di cui pure oggi abbiamo bisogno. Ma anche la ruspa, senza un pensiero costruttivo che possa far ridiventare il paesaggio patrimonio di tutti invece di terra di nessuno che è, potrebbe rivelarsi un’arma inutile.
Il depuratore di San Rocco aveva un obiettivo preciso: ripulire le acque senza invadere il territorio. E ci è riuscito, tanto che insieme alla Greenway viene citato come caso positivo nella mostra fotografica Paesaggio tradito che apre oggi a Milano, un’occasione per denunciare e riflettere sugli orrori, spesso perfettamente legali, che hanno invaso 1’Italia; e soprattutto e per dimostrare che anche un depuratore o una passeggiata possono aiutare a immaginare, per il futuro, un paesaggio migliore.
STRADE OPPOSTE - Fra gli architetti e gli urbanisti italiani, Pierluigi Cervellati e Stefano Boeri, entrambi docenti a Venezia, quanto al futuro da immaginare sono agli antipodi. Detta in modo grossolano, uno vorrebbe cancellare tutte le “villettopoli”, mentre l’altro insegue prospettive positive perfino in quell’edificio-mostro che va sotto il nome di Corviale.
“II paesaggio è un bene comune come l’aria o l’acqua”, esordisce Cervellati, “e le responsabilità del “ tradimento”, oltre che di geometri e costruttori, sono anche di architetti, ingegneri, urbanisti, amministratori, soprintendenze ai Beni culturali. Del resto bisogna pur ricordare che vogliamo tutti l’auto, e la Fiat ha assicurato tanti posti di lavoro. E che se da una parte la storica lotta per la casa ha prodotto mostri urbanistici, dall’altra, secondo l’inchiesta de1 1951-52 per il primo Rapporto parlamentare sulla miseria in Italia, su 48 milioni di abitanti nove vivevano in “ baracche, catapecchie o grotte”: quasi un italiano su cinque”. Secondo Cervellati la situazione oggi è ancora peggiore che negli anni ‘60 e ‘70 degli scempi: lo Stato che vende le case popolari, 1’80% degli italiani costretto a comprarsi casa da affitti più alti dei mutui, la campagna abbandonata, i beni culturali visti solo come fonte di profitti, l’uso forzato dell’auto per carenza di trasporti pubblici. “E in questo quadro”, prosegue, “ci sono urbanisti e architetti che difendono il concetto di città diffusa e la villetta come luogo di socializzazione. Senza vedere che proprio queste aree, né città né campagna, sono quelle più a rischio d’implosione”.
A ogni inizio di corso Cervellati chiede ai nuovi allievi dove vivono: “Dei circa ottanta di quest’anno solo tre abitano in condominio. Gli altri stanno quasi tutti fuori città, in villette monofamiliari, qualcuno in case bifamiliari o a schiera. È una tendenza che va frenata. L’ambiente agricolo non è un’area dismessa da occupare, ma il parco del futuro, un bene collettivo”. E quindi, che fare? “Basterebbe applicare le leggi che ci sono, penso per esempio ai piani paesaggistici previsti vent’anni fa dalla Galasso”. O impedire nuovi scempi: “Guardi questa storia della Tav. Io sono assolutamente schierato con i valligiani piemontesi: perché non potenziare la ferrovia che già c’è?”.
Stefano Boeri - proprio uno di quelli che si rifanno al concetto di città diffusa - guarda oltre l’Italia, all’Europa, e propone di osservarla come dal finestrino di un aereo: Tutto il continente si percepisce come un’unica grande città: vedi ovunque spazi costruiti”, spiega. “Oggi, poi ci si sposta rapidamente: grazie al low cost possiamo vivere a Torino, lavorare a Monaco, vedere uno spettacolo a Londra. La percezione della dimensione urbana ne risulta dilatata”. E il paesaggio? Ovviamente anche Boeri pensa che sia stato distrutto da “un’edilizia folle”, ma avverte: “La nostalgia è un pessimo alleato e quell’edilizia è pur sempre il riflesso di una società: basti pensare al quanto è aumentato Il numero delle persone che possono permettersi di costruirsi una casa. Preso atto del fenomeno, il problema è uno solo: dove e come costruire”. E le tanto odiate villettopoli? “Bisogna osservare e studiare l’intero corpo urbanistico e poi intervenire in un punto preciso, un po’ come si fa con l’agopuntura. Prendiamo una famiglia con villetta in Brianza: il padre lavora a Milano, la madre a Varese, un figlio studia a Castellanza, l’altra a Pavia. Usano il centro commerciale di Desio, la sera vanno al cinema al multisala di Melzo. È una monade su cui bisogna lavorare innanzitutto culturalmente”, non serve demonizzarla ma occorre farci i conti: “Oggi l’architettura non ha bisogno di opere autografe, deve invece produrre “dispositivi” da inserire nei punti giusti perché continuino a lavorare nello spazio producendo effetti sociali”. Ancora un esempio: “Ha presente i ragazzi che via sms si danno appuntamento la sera vicino ai caselli delle autostrade? Bene: io organizzo un concorso per creare nuovi spazi, accanto a quei caselli”.
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NÈ CITTÀ NÈ CAMPAGNA - Dalla cronaca delle ultime settimane. A Sedrina, paese montano della VaL Brembana, nel Bergamasco, le case, costruite quando i terreni al sole servivano per coltivare, sono tutte in ombra. Ora il Comune chiede al ministero dell’Ambiente se si può spostare una cava per abbassare un monte di venti metri. E sole sarà. “Non conosco i dettagli dell’operazione”, dice l’architetto e docente di urbanistica al Politecnico di Milano Luigi Mazza, “ma in generale l’idea di una decisione collettiva sul proprio paesaggio non mi dispiace affatto”. Ciò che l’architetto non digerisce è invece “una certa intellettualità molto italiana, pericolosamente narcisista, fortemente orientata in senso estetico”. Quanto alla discussione su dove finisca il paesaggio artificiale della città e cominci quello naturale della campagna, la trova oziosa: “Cerdà, l’autore di Barcellona, fu il primo a dire, a metà ottocento, che non esiste un oggetto chiamato città, ma un intersecarsi dì costruzione urbana e costruzione progettata della campagna”. E oggi? “Che oggi questo confine sia inesistente è chiaro a tutti, o quasi. Lo svuotamento di senso è palese, a cominciare dalle piazze per finire con le aree pedonali che servono soprattutto a facilitare i consumi. Del resto è ovvio che sia così: il potere si esprime nello spazio, e dato che oggi il potere non è riconoscibile, non lo è neppure la città”.
UN GARANTE DELLA QUALITÀ - Torniamo dunque al “ che fare”. Nella tabella di marcia ideale di Salvatore Settis, storico dell’arte e direttore della Normale di Pisa, la priorità è “aprire un dibattito il più pubblico possibile, coinvolgendo università, scuola, cittadini ma anche con l’impegno delle varie associazioni per la tutela del paesaggio. Passare insomma da una fase in cui si dicono solo dei no a quella delle proposte. Per esempio portando a compimento l’iter parlamentare del disegno di legge sulla qualità architettonica”, che guarda al paesaggio - urbano ed extraurbano -come parte del patrimonio da tutelare. “Garante delle norme di tutela deve essere un’alta professionalità con totale neutralità di giudizio. A ricoprire questo ruolo possono anche non essere i soprintendenti ai Beni culturali, ma devono essere figure con le stesse doti e totalmente indipendenti dal potere politico immediato. L’essenziale è non dover più assistere alla deriva degli ultimi anni, in cui il potere decisionale è passato sempre più nelle mani di istanze politiche comunali e regionali. Succede in Sicilia, che ha in ciò piena autonomia, ma anche in Toscana. E ciò significa che ogni Comune in fase preelettorale allenta il controllo sui permessi edilizi”.
Anche l’urbanista Antonello Boatti, del Politecnico dì Milano, ha nel cassetto proposte operative e una certa dose di speranza: “Risanare è possibile, creando poli decentrati dotati delle risorse proprie di una città moderna. Fuori Milano, a pochi chilometri da molti scempi, c’è Buccinasco: un buon esempio di come andare avanti. Ha 2.500 abitanti per chilometro quadrato, 25 mila persone in tutto. Il paese è bello, con piazza, cinema, verde e servizi pubblici, oltre a un bravo sindaco”. Peccato che sia minacciato dai mafiosi in soggiorno obbligato.
La tutela e la valorizzazione del paesaggio dei sistemi tradizionali dell’olivo in Italia.
Barbera, Giuseppe; Inglese, Paolo; La Mantia, Tommaso
Pubblicato su “Estimo e Territorio”, Anno LXVIII, n°2 Febbraio 2005, Il Sole24ore, Ed agricole
Da qualunque punto di vista si guardi al paesaggio mediterraneo– da quello delle scienze naturali, agronomiche e del territorio, dell’economia o delle lettere e delle arti- non si può non incontrare, con una evidenza innegabile nel tempo e nello spazio, l’olivo. Per i geografi, anzi, è proprio la sua presenza a definire i confini dell’area mediterranea e Fernand Braudel (1986), in fondamentali pagine di storia ambientale, scrive di una “civiltà dell’olivo” nel “mare degli oliveti” e osserva che ovunque nel Mediterraneo “si ritrova la medesima trinità, figlia del clima e della storia: il grano, l’olivo, la vite, ossia la stessa civiltà agraria, la medesima vittoria degli uomini sull’ambiente fisico”. La Grecia antica e quindi la storia occidentale fin dal suo sorgere non può essere immaginata senza quello che era considerato l’albero della civiltà come la quercia lo era della mitica età dell’oro; abbatterlo o bruciarlo era reato punito dagli uomini e soprattutto dagli dei (Brosse, 1991). Non solo l’economia agricola e il paesaggio ne sono stati permeati ma anche la cultura fin nelle espressioni e nei significati più profondi, quelli del mito e della religione: Predrag Matvejevic (1998), altro grande studioso del Mediterraneo, ricorda che ”la produzione dell’olio non è solo un mestiere è anche una tradizione. L’oliva non è solo un frutto: è anche una reliquia.”.
L’olivo è un elemento fortemente caratterizzante la vegetazione naturale mediterranea dando il nome ad una alleanza, l’ Oleo ceratonion, costituita da 9 associazioni e ad una associazione, l’ Oleo-quercetum virgiliane, dell’alleanza Quercion ilicis. L’olivo partecipa quindi alla formazione del paesaggio mediterraneo, naturale e, almeno dal IV millennio a.c. (Zohary e Hopf, 1993), a quello antropico, sia con la forma selvatica ( Olea europea var. sylvestris, oleastro) che con quella domestica ( Olea europea var. sativa) ampiamente diffusi nei sistemi naturali e colturali agrari e agroforestali.
E’ specie che, grazie anche all’opera di selezione svolta nei secoli dagli olivicoltori ed alla relativa stabilità genetica, adattandosi alle condizioni ecologiche anche più estreme delle regioni mediterranee (prolungate e intense carenze idriche, con piogge di 200-300 mm/a, spesso coniugate ad elevate temperature, scarso spessore e salinità nel terreno, frequenza di incendi e di basse temperature che, ogni 25-40 anni, ricorrono distruttive soprattutto in Toscana ed Umbria), è presente in coltura in 18 regioni italiane, con l’eccezione della Val d’Aosta e del Piemonte, formando in ognuna di esse sistemi colturali e, quindi, paesaggi specificamente adattati e, in definitiva, molto diversificati che possono ritenersi i più antichi del nostro Paese perché sostanzialmente immutati in termini sia biologici (genetici) che strutturali (modelli di impianto, forme di allevamento) e di distribuzione territoriale rispetto agli altri sistemi che partecipano alla sua tradizione agraria e paesaggistica. Ciò nonostante, per ragioni storiche ed ecologiche è comunque difficile definire un modello olivicolo “italiano”, al punto che è proprio la diversificazione a costituire la prima e principale caratteristica dei sistemi e dei paesaggi olivicoli del nostro Paese, individuando sia i tratti comuni che i segni di diversità, nell’eterogeneità del patrimonio varietale e nell’adattarsi secolare delle tecniche colturali alle condizioni ambientali, siano esse legate alla struttura aziendale e alle condizioni edafiche e climatiche o alla struttura economica e sociale. Tale diversità ha portato gli agricoltori anche ad intraprendere imponenti trasformazioni fondiarie fino a rendere coltivabili - con le sistemazioni del suolo nelle aree montane e collinari ma anche in pianura per ridurre i rischi dell’asfissia radicale a cui l’albero è particolarmente sensibile - territori altrimenti non utilizzabili e a portare la coltura quasi oltre i suoi limiti ecologici, o più semplicemente agronomici. Le ragioni di così grande impegno risiedono certamente nel valore alimentare ed economico del prodotto principale, l’olio, che ha nei secoli costituito oggetto di lucrosi commerci verso paesi sempre più lontani che lo richiedevano per diverse utilizzazioni industriali prima ancora che alimentari; queste ultime, un tempo quasi esclusivo privilegio dei popoli produttori, sono oggi universalmente apprezzate per i caratteri organolettici e le proprietà salutistiche.
Da circa 50 anni, in Italia come negli altri paesi mediterranei europei, è in atto quel processo di polarizzazione che vede, nelle aree più favorite per caratteri ambientali e idonee a ospitare i sistemi colturali propri dell’agricoltura industriale, affermarsi processi di intensificazione e semplificazione produttiva e diffondersi gli ordinamenti monoculturali. Al polo opposto, nelle aree marginali, come nei territori di montagna o di collina, si verifica un processo di abbandono colturale con la diffusione di fenomeni, in dipendenza delle locali condizioni ambientali e sociali, di degrado idrogeologico o di rinaturalizzazione.
Anche in questo quadro generale, l’olivicoltura tende a differenziarsi. Nelle aree di pianura, nelle quali la monocoltura olivicola non è certamente una novità - basti pensare al Salento ed alle piane calabresi di Lamezia e Gioia Tauro – si pone ancora la possibilità o la necessità di “un definitivo ammodernamento degli impianti e dei sistemi di conduzione degli oliveti” (Bartolozzi, 1998a) ponendo, nell’affermare modelli olivicoli nuovi ed intensivi (impianti fitti, portinnesti a basso vigore, irrigazione, meccanizzazione integrale della raccolta e della potatura), il problema della conservazione del paesaggio storico. Nelle pianure vocate, dove si concentra il 10% degli impianti, insistono alcuni dei più importanti sistemi storici dell’olivicoltura italiana. In questo caso, si tratta di scegliere, nel caso di ”strutture poco produttive o comunque inefficienti rispetto ai moderni criteri di coltivazione”, tra ”un intervento strutturale di estirpazione del vecchio uliveto e successivo reimpianto” (cifr. Fontanazza in Bartolozzi, 1998a) finalizzato a realizzare “un’olivicoltura intensiva che, oltre a perseguire l’obiettivo di una meccanizzazione integrale, accetta i criteri della frutticoltura industriale” e interventi, peraltro poco studiati sul piano tecnico ed economico-legislativo, di conservazione attiva del paesaggio e dei sistemi tradizionali (Bartolozzi, 1998b).
Nelle zone collinari, dove le condizioni sono favorevoli a processi di razionalizzazione produttiva (infittimenti, ceduazioni per nuove forme di allevamento, inerbimenti), si afferma un’olivicoltura semi-intensiva che solo in parte mantiene i caratteri propri del sistema e del paesaggio tradizionale. In essa, le innovazioni di successo hanno riguardato interventi conservativi (nel senso di mantenimento in vita delle piante) e di innovazione basati sulla riduzione dei costi e sull’incremento di produttività degli impianti. Il primo aspetto è stato perseguito mirando soprattutto al contenimento del volume e dell’altezza della chioma, per favorire le pratiche di difesa e la meccanizzazione della potatura e della raccolta o l’introduzione delle reti che oggi, per la loro diffusione, sono divenute un tratto specifico del paesaggio olivicolo, almeno durante il periodo di raccolta; il secondo concerne la possibilità di aumentare la produttività degli impianti, attraverso interventi strutturali, come possono essere quelli di infittimento, l’introduzione dell’irrigazione, nuove tecniche di gestione del suolo, concimazione e difesa. Interventi, tutto sommato, che hanno comportato ridotte modifiche del modello colturale - almeno fino agli anni più recenti - al punto che si può affermare che i cambiamenti più rilevanti si sono realizzati nell’elaiotecnica e nei processi di estrazione dell’olio che si è evoluto, in termini di processo e di prodotto, con il progressivo e costante affermarsi dell’olio extravergine. Nelle condizioni di maggiore marginalità, nei terreni più declivi, sui terrazzamenti più stretti, l’olivo partecipa invece alla formazione dei sistemi e dei paesaggi della cultura promiscua, dove questi sopravvivono all’esodo rurale ed alla sottoremunerazione degli agricoltori, o si avvia, lasciato a condizioni di seminaturalità, alla formazione di veri e propri boschi (Vos et al., 1999; Loumou e Gourga, 2003).
All’origine della crisi dell’olivicoltura tradizionale italiana – almeno della sua parte storicamente e paesaggisticamente più significativa, la coltura promiscua collinare- sono proprio le modificazioni sociali che nell’ultimo dopoguerra hanno portato all’abbandono delle campagne ed all’inurbamento. Crisi per la cui soluzione si è invocato e in parte perseguito un profondo rinnovamento tecnico al quale molto ha contribuito il pensiero agronomico e l’incitamento di Alessandro Morettini, maestro dell’olivicoltura italiana, perché si comprendesse che “viviamo in un periodo rivoluzionario nel quale rapidamente si evolvono le condizioni economiche e quelle sociali” (era il 1968 del resto!) e che, per tutta risposta, “è essenziale, innanzi tutto, specializzare”. Morettini individuò nella coltura consociata il “nemico da combattere”, indicazione ineccepibile, dal punto di vista di un’olivicoltura che voleva andare “dalla tradizione alla realtà economica”, come sottotitolava in un suo importante contributo (1968). In quegli anni, del resto, non si aveva piena e diffusa consapevolezza (anche nel mondo della ricerca), del ruolo non solo economico ma sistemico e multifunzionale dei sistemi e dei paesaggi della tradizione agricola ed agro-forestale, del risultare questi il prodotto di un progetto collettivo che misurava la necessità del produrre con le risorse native disponibili e con i caratteri dell’ambiente e che forniva non solo preziosi prodotti per l’autoconsumo o i commerci ma anche paesaggi che garantivano salvaguardia ambientale, arricchimento culturale e benessere spirituale: “la più commovente campagna che esiste” definisce Braudel (1986) il paesaggio collinare toscano dell’olivo.
Molti anni dopo l’appello di Morettini, gran parte dell’olivicoltura italiana ha, in effetti, perso il carattere promiscuo - tra il 1955 e il 1974 la superficie così utilizzata è diminuita del 75% - ma nondimeno molte aree indipendentemente dal sistema colturale adottato, mantengono caratteri di marginalità. In ragione della multifunzionalità che si riconosce ai paesaggi agrari tradizionali giungono però da differenti settori della società e non più soltanto dal mondo agricolo (cfr. la Convenzione del Paesaggio firmata nel 2000 a Firenze dai Ministri alla Cultura della UE) richieste volte a sollecitare politiche per la loro sopravvivenza. Cresce la consapevolezza che l’olivicoltura marginale, per sopravvivere, deve sviluppare, a partire dalle costitutive funzioni produttive, funzioni ambientali e culturali. I sistemi olivicoli della tradizione agraria italiana, depositari nell’intreccio millenario tra storia e natura che li ha formati di ricchezza biologica, di antichi saperi tecnici, di valori produttivi e culturali, possono solo così essere tutelati e valorizzati.
Sistemi e paesaggi dell’olivicoltura tradizionale
In conseguenza dell’interazione millenaria tra fattori ambientali, sociali e culturali differenti, pur all’interno di un grande unico scenario territoriale e nella grande varibilità genetica di cui l’Italia dispone, è possibile ancora oggi in Italia ritrovare i numerosi sistemi e paesaggi dell’olivo che ne hanno accompagnato la storia. Un’ampia variabilità – si va dalle condizioni di seminaturalità di molti terrazzamenti, alla coltura promiscua di collina, alla monocoltura di pianura- che distingue l’olivo dalle altre colture arboree che, per ragioni biologiche od agronomiche, non sono state in grado di adattarsi a condizioni ecologiche e sociali molto differenziate e mutevoli.
Le diversità sono evidenti sia a livello di paesaggio (considerando la “forma” del territorio ma anche, nell’accezione dell’ecologia del paesaggio, il rappresentare tessere di più ampi mosaici) che di sistema produttivo, considerando in tal caso anche i rapporti esistenti tra fattori ambientali, scelte agronomiche e habitus degli alberi.
Per una prima definizione dei differenti paesaggi dell’olivicoltura italiana è necessario procedere, secondo i metodi della landscape ecology, ad una lettura dell’ecotessuto paesaggistico che, considerando gli impianti di olivo “tessere” o “corridoi” (quando presentano struttura lineare come le piantate arboree o le barriere frangivento) di un tessuto costituito da ecosistemi in relazione ecologica (per flussi di energia, cicli di materia, movimenti di specie animali e vegetali …), consente una distinzione in base ai caratteri morfofunzionali del paesaggio. Analisi di questo tipo sono state condotte ma su aree ancora limitate (vedi ad es. Agnoletti e Paci, 1999; Corona et al., 2001) e mostrano evidenti le grandi differenze in termini di diversità paesaggistica che si riconducono, semplificando al massimo il numero di classi e tipi di uso del suolo, a quella esistente tra sistemi policolturali e monoculturali. Partendo da questa distinzione di base si può provare a percorrere la storia dell’olivicoltura e definire i principali caratteri dei paesaggi colturali tradizionali.
Gli agrosistemi olivicoli possono così differenziarsi in funzione dei caratteri dell’ambiente, delle risorse disponibili e del modello colturale (promiscuo o specializzato) già a partire dal progetto di piantagione. Si possono così avere, come nei sistemi promiscui, impianti dove gli olivi sono rappresentati da poche piante ad ettaro, e impianti con densità di 200-400 alberi in coltura specializzata fino a giungere a 600 e anche 1000, come proposto in alcuni innovativi sistemi intensivi a sesto variabile. In conseguenza della densità e delle scelte tecniche ad essa collegate variano le distanze e il sesto d’impianto fino a definire oliveti geometricamente molto diversi. In non pochi casi, il modello di impianto e il suo impatto paesaggistico dipendono dal genotipo e, in particolare, dal portamento delle piante, dal loro vigore oltre che da caratteri morfologici, quali la forma, la dimensione e lo stesso colore delle foglie. Basti pensare, ad esempio, al vigore ed al portamento delle cultivar che caratterizzano l’olivicoltura calabrese, come l’”Ottobratica” e la “Sinopolese”, che caratterizzano il paesaggio in termini del tutto diversi da quanto avviene in Sicilia con cultivar di vigore e portamento del tutto diversi, come sono la “Biancolilla” e la “Nocellara del Belice”.
Concorrono a differenziarli le forme di allevamento adoperate che vengono scelte in funzione dei genotipi utilizzati e dei modelli colturali dettati anche dalle condizioni ambientali. Allo stato selvatico l’olivo ha aspetto cespuglioso, in coltura può presentarsi in forma “libera” (che asseconda l’habitus naturale) o “obbligata”, come anche senza fusto (“globo”, “vaso” e “vaso policonico”e “monocono”), con più fusti, (vecchio “vaso cespugliato”) e la chioma può assumere portamento differente anche in relazione all’habitus della varietà impiegata. Le dimensioni degli alberi possono risultare estremamente variabili: si può andare dai 15-20 m in altezza degli olivi calabresi ai 50-100 cm che raggiungono gli olivi con le branche poggiate al suolo caratteristici dell’isola di Pantelleria (Baratta e Barbera, 1981). Tale variabilità è anche in dipendenza dei caratteri ambientali che, quando limitanti (freddo, estrema siccità, forte ventosità) determinano dimensioni più ridotte.
All’inizio della storia colturale, e per molti secoli successivi, c’è certamente, la riduzione in coltura dell’oleastro. La forme selvatica abbondantemente presente nella macchia foresta mediterranea è stata “pioniere silenzioso nella conquista di nuovi spazi coltivabili” (Bevilacqua, 1996). Ben presto dall’impiego dei frutti dell’oleastro (utilizzati in Italia secondo le risultanze della paleobotanica, almeno dal IV millennio) si deve essere passati all’innesto in posto con varietà selezionate. La pratica era condotta su ampia scala: nel 1624, in Sardegna, un provvedimento del vicerè obbligava ad innestare gli oleastri, dando il diritto di proprietà a chi interveniva e ordinando di realizzare un frantoio ogni 500 alberi trasformati (Imberciadori, 1980).
La tecnica dell’innesto degli oleastri si manifestava in disordinati oliveti le cui tracce sono ancora oggi visibili nel paesaggio agroforestale con la sopravvivenza di piante secolari disposte al di fuori di ogni simmetrico disegno d’impianto. L’innesto di olivastri e oleastri, ma anche le antichissime tecniche di moltiplicazione che utilizzano la capacità di radicazione diretta da parte di porzioni della parte aerea e che rendevano inutile il ricorso all’innesto possono aver dato origine ad alberi il cui tronco di dimensioni straordinarie li fa classificare oggi come “monumentali” (“olivi memorabili”, li definiva Morettini, 1963), perpetuando anche così e per il sovrapporsi nei secoli di storie, leggende, riti il valore sacro della specie. In Italia tra gli olivi monumentali più conosciuti si annoverano quello di Pian del Quercine a Massarosa con ceppaia di 10,40 m, quello “della Strega” a Magliano in Toscana, di Sant’Emiliano a Bovara di Trevi, dell’Alberobello presso Tivoli e di Canneto a Fara Sabina, considerato il più grande esemplare italiano per il tronco di 6,10 m. di circonferenza (Pavolini, 1999). L’età di questi alberi è certamente considerevole ma la sua determinazione è molto difficile perché i caratteri del legno e dell’accrescimento annuale, non consentono di adoperare i metodi classici della dendrocronologia. I nuovi fusti che si producono annualmente dalle gemme avventizie di cui sono ricche le formazioni neoplasiche (conosciute comunemente come ovoli) che si trovano alla base del tronco (il pedale o ciocco) e che si sovrappongono fino a sostituire quello originario nelle piante molto vecchie sono all’origine della sua particolare forma contorta e della sopravvivenza millenaria dell’albero. Morettini (1950) assegna all’olivo addirittura la qualifica di perenne osservando che “non è perenne la porzione aerea … lo è invece la parte interrata, il pedale cioè che, dilatandosi nei pedali formati dai nuovi tronchi succedentisi nei secoli, in sostituzione dei più vecchi, conserva la vitalità ed un insieme di generazioni di altri olivi più giovani”.
L’olivicoltura tradizionale è, almeno fino al secondo dopoguerra, quando (1947) prevaleva con 1.392 milioni di ha contro 835.000 in coltura specializzata, in larga misura promiscua. Nell’Italia centrale il suo luogo privilegiato era l’azienda mezzadrile, nell’Italia meridionale le aziende agroforestali e agrosilvopastorali o i frutteti promiscui non irrigui tipici degli spazi periurbani (Cullotta et al., 1998). Gli olivi si consociavano con piante legnose (nel caso più frequente la vite), con specie erbacee di pieno campo o da orto (diverse in dipendenza della natura continua o discontinua dell’avvicendamento), o con entrambe (lungo il filare principale si ponevano le altre specie arboree e nell’interfilare le erbacee). Comune, in Sicilia e Calabria, è la consociazione con gli agrumi anche se con genesi e motivazioni del tutto diverse. In Sicilia, nella Piana di Catania la “Nocellara Etnea” fa da cornice agli aranceti, associando alla funzione di frangivento la duplice funzione produttiva, di olive da mensa e olio, oggi, solo in parte, sostituita in questo compito dalla “Frangivento”, che non ha, però, una spiccata funzione produttiva. In Calabria, l’arancio è piantato invece nell’interfila degli oliveti della Piana di Gioia Tauro e, sporadicamente, di Lamezia.
La coltura promiscua rispondeva perfettamente all’esigenza di diversificare la produzione e le specie venivano scelte anche in modo di non sovrapporre nel calendario dei lavori, incrementando l’efficienza del lavoro del mezzadro e della famiglia, le esigenze colturali. Le regioni dell’Italia centrale sono quelle che più e meglio hanno sviluppato la coltura promiscua, il cui paesaggio Meuus et al. (1990) indica tra i più importanti a rischio di scomparsa in Europa. Celeberrimo è il paesaggio dell’olivicoltura promiscua toscana di cui Morettini, in anni (1950) nei quali era alle porte il declino, sottolineava il carattere policolturale : “l’olivo si coltiva in filari; negli interfilari si praticano, in avvicendamento, le comuni colture erbacee da granella, da foraggio ed ortive. Lungo il filare, all’olivo si associa ordinariamente la vite, più raramente alberi da frutto a varie specie. Talora la vite e i frutteti si coltivano anche in filari intramezzati a quelli dell’olivo. Non sempre la distinzione dell’area occupata dalle piante arboree e dalle erbacee è ben netta, essendo in genere la coltura di quest’ultime estesa uniformemente su tutta l’area. Nei dintorni di Firenze si riscontrano i tipi più complessi ed intricati di consociazione dell’olivo con altre piante arboree ed in pari tempo con l’erbacee. Infatti, all’olivo si consociano, oltre che le piante erbacee, la vite, i peschi, i peri, i meli, i gelsi ecc. con una promiscuità spinta al massimo”.
Sistemi policolturali basati sull’olivo sono però presenti in altre regioni italiane come seminativi arborati o arboreti asciutti consociati: esemplare è il sistema pugliese nella sua evoluzione temporale: ”ordinariamente, nell’impianto, all’olivo si associano la vite allevata ad alberello, il mandorlo, oppure il fico; raramente il carrubo. Entro il primo quarantennio dall’impianto dell’oliveto, la vite, gradualmente, deperisce e si estirpa; nei successivi 20-30 anni anche il mandorlo compie il suo ciclo produttivo, dimodochè, verso il 70°-80° anno l’olivo, ormai in piena produzione, si consocia ancora con piante erbacee avvicendate con il riposo e quindi con il pascolo” (Morettini, 1950). E’ il paesaggio degli oliveti specializzati della Conca d’Oro di Palermo alla metà del XV secolo (Barbera, 2000) e delle “gran selve di olivi” che, un secolo più tardi, Leandro Alberti vedrà in Puglia (Bevilacqua, in AA.VV., 2000): ”si veggono tanti olivi e tante mandorle piantate con tal’ordine, che è cosa meravigliosa da considerare, come sia stato possibile ad esser piantati tanti alberi da li huomeni”. L’olivicoltura pugliese già nel XVIII secolo e in buona parte ancora oggi appare in effetti “un continuo bosco di olivi interrotto solo di quando in quando da piccole porzioni di terreno aperto e giardini” (Girelli, 1853, cit. in Costantini, 2002). Allo stesso secolo si fa risalire l’affermazione dell’olivicoltura calabrese di Gioia Tauro che da oliveti “disposti senza alcun ordine” e dalla convinzione “che non abbisognano di coltivazione alcuna” (Grimaldi, 1770 cit. in Inglese e Calabrò, 2002) si trasforma in piantagioni “regolari e belle”, che compieranno nel secolo successivo, nel rapporto virtuoso che tra l’arboricoltura meridionale e la rivoluzione industriale europea, “uno dei più grandiosi processi di riorganizzazione del paesaggio agrario che abbia interessato le campagne del Mezzogiorno in epoca contemporanea “ (Bevilacqua, 1996). Gli oliveti calabresi sono “monocolture estensive”; sono in grande scala ciò che dovevano apparire gli oliveti protetti dal pascolo e dal furto da muri o siepi “a chiudenda” tipici dell’Italia centrale e le chesure della Puglia medievale. Ai caratteri di rusticità della specie ed alle ridotte esigenze colturali rispondevano anche gli oliveti toscani di inizio ottocento, definiti “a bosco” o “alla pisana”, con una densità che giungeva a 700 piante per ettaro (ben più alta di quella calabrese dove gli impianti erano costituita anche da 40-50 piante per ettaro, determinando comunque a maturità una completa e uniforme copertura del suolo) e quelli della tradizione ligure che, soprattutto in provincia di Imperia, prendono l’aspetto di vere boscaglie (Morettini, 1950).
In risposta a specifiche esigenze ecologiche, a ridotte esigenze agronomiche, per il grande valore alimentare (pane ed olio: base dell’alimentazione contadina mediterranea) rivestito nelle economie di autoconsumo e per l’interesse industriale (l’olivo serviva essenzialmente a rendere filabili lane e cotoni, a fabbricare saponi e ad alimentare gli impianti di illuminazione urbana) si operano trasformazioni territoriali che hanno profondamente modificato il paesaggio della collina e della montagna italiana creando le condizioni (immagazzinamento dell’acqua nel suolo nei climi siccitosi o, dove in eccesso, il rapido deflusso per proteggere le pendici dall’erosione e dai dissesti idrogeologici, realizzazione con i ripiani delle terrazze di nuove superfici coltivabili) per l’esercizio dell’olivicoltura in territori altrimenti negati.
La ricerca di sistemazioni sempre più efficienti attraversa la storia dell’agricoltura e del paesaggio italiano. Le prime tappe sono testimoniate da Emilio Sereni (1961) per la collina toscana nell’arte figurativa medievale e rinascimentale: nel XII secolo un mosaico nella navata di san Marco a Venezia, il “Giardino degli Ulivi”, mostra un “informe” paesaggio arboreo con piante sparse in un contesto non sistemato; in un quadro omonimo dei primi del secolo XIV di Duccio di Buoninsegna gli olivi sono chiaramente coltivati e disposti in un qualche ordine culturale e in una più tarda (metà del XIV sec.) “Orazione nel giardino degli ulivi”di Barna Senese la sistemazione è a ciglioni con alberi ordinatamente disposti. Dal ciglione, nell’Appennino tosco-umbro-marchigiano, si passerà al gradone sostenuto da ciglioni erbosi o, come è caratteristico, ma non esclusivo, dell’Appennino centro-meridionale e delle isole, da muri in pietra a secco a costituire terrazzamenti realizzati con una fatica tale che spesso solo un albero come l’olivo e un prodotto come l’olio giungono a giustificare.
L’olivicoltura tradizionale è multifunzionale. La finalità produttiva per la legna, i frutti o le frasche per il foraggio animale è quella fondante ed è stata esercitata nei limiti, alcune volte drammatici, della ridotta disponibilità di risorse o di avverse condizioni economiche e sociali contribuendo a garantire un’alimentazione sana, un prodotto apprezzato dai mercati ma anche salvaguardia ambientale e qualità paesaggistica. Il modello colturale tradizionale, era volto ad obiettivi produttivi attraverso il ricorso a processi riproducibili che annullavano o riducevano la necessità di risorse esterne all’agrosistema e assicuravano la conservazione e la fertilità del suolo. L’olivo, del resto, per i suoi caratteri bio-agronomici ben si presta alla coltura in sistemi complessi in termini strutturali e funzionali: “cresce in intima relazione con una serie di fattori biotici e abiotici che costituiscono un agroecosistema” (Barranco et al., 2001). La stabilità ecologica che ne deriva è evidente dal punto di vista fitosanitario, in considerazione del fatto che solo pochi insetti risultano dannosi oltre la soglia di tolleranza, e della difesa del suolo visto che, anche quando si sono intraprese onerose trasformazioni fondiarie queste, pur avendo profondamente alterato le condizioni ecologiche di base, sono risultate sostenibili; lo dimostra la secolare sopravvivenza di imponenti terrazzamenti sui fianchi di tante colline e montagne italiane.
La sostenibilità dell’olivicoltura tradizionale si fonda sul mantenimento di elevati livelli di biodiversità sia a livello di agrosistema (ad esempio con il ricorso alle consociazioni) che a livello aziendale (nell’integrazione con la zootecnia) e di paesaggio (nel rapporto territoriale tra sistemi agrari e seminaturali diversi). Si dispone così di un sistema che ricorre a risorse e processi endogeni (fissazione dell’azoto atmosferico, controllo biologico …), risulta autonomo dal punto di vista energetico ed è in grado, nel caso di stress biotici o abiotici, di mantenere o recuperare facilmente le sue funzioni.
Gli agrosistemi olivicoli tradizionali, costituiscono frequentemente tessere all’interno di un mosaico formato da sistemi agrari e seminaturali di diversa tipologia molto frammentati e con alta diversità paesaggistica. Anche a livello aziendale, la diversità biologica si mantiene elevata sia nel caso che l’olivo faccia parte di un sistema policolturale sia che si tratti di oliveti condotti in condizioni prossime alla seminaturaltà con minimo apporto di cure colturali. Nella coltura promiscua la biodiversità si manifesta elevata a livello specifico anche per la presenza di numerose specie animali (Loumou e Giourga, 2003) richiamate da una grande disponibilità di risorse alimentari -per l’abbondanza di insetti e di frutti altamente energetici disponibili nei mesi invernali- e sostenute da un ecosistema complesso e stabile a meno che precedenti interventi (ad es. fitosanitari) non siano intervenuti a turbarne l’equilibrio. Anche i frangivento di olivo che tanto caratterizzano la nostra penisola con l’adozione di varietà apposite (Barbera e La Mantia, 1991) contribuiscono all’aumento della biodiversità come accertato in uno dei pochi lavori specifici condotti su questo aspetto (Lo Verde et al., 2002).
Soprattutto l’avifauna degli uliveti è ricca di specie -alcune delle quali ormai in declino nel Mediterraneo- e a confronto con quella di altri agrosistemi risulta più vicina, in termini quali-quantitativi, a quella presente negli ambienti naturali (Massa e La Mantia, 1997; La Mantia, 2002). La riduzione della superficie occupati dagli oliveti e l’evoluzione verso una maggiore boscosità determina nei casi studiati da Farina (1993), addirittura, una riduzione della diversità avifaunistica. Il rapporto tra avifauna e ulivo è di reciproco vantaggio, gli uccelli, infatti, rappresentano i più validi disseminatori di un albero che viene appunto definito “bird-dispersed” (Alcantara e Rey, 2003). Oltre agli usuali Turdidae (tordo, merlo...) e Sylvidae (capinera, occhiocotto...) anche i columbiformi come il colombaccio ( Columba palumbus) possono svolgere il ruolo di disseminatori nutrendosi anche di semi di grande dimensione presenti, quindi, in aree dove l’olivo selvatico è sostituito dalle varietà domestiche con nocciolo grosso.
Oltre alle funzioni produttive e ambientali i paesaggi dell’olivicoltura tradizionale hanno anche una evidente funzione culturale determinata da una forte identità estetica ed etica (Barbera, 2003). Sono il risultato –che mirabilmente ha espresso la pittura o la letteratura e che appartiene all’immaginario europeo (l’olivo richiama i paesaggi del sud e dell’eterna primavera)- di una natura disegnata dal lavoro dell’uomo e resa da questo armoniosa e amichevole: Henri Desplanques (1977), geografo francese, ha scritto che i paesaggi agrari della collina tosco-umbro-marchigiana sono stati costruiti come se non si avesse “altra preoccupazione che la bellezza”. In un olivo secolare, in un terrazzamento che ha trasformato “le montagne in pianura”, si ritrova la fatica, il lavoro, i sentimenti di una comunità e di chi ci ha preceduto: il paesaggio è rappresentazione della memoria, quando per festeggiare una nascita si pianta un albero di olivo -come è costume in gran parte d’Italia– si compie un gesto che rimanda alla sacralità primigenia dell’albero.
Nel 1990 è stato autorevolmente scritto che il paesaggio della cultura promiscua, considerato uno dei più importanti paesaggi storici europei, sarebbe presto esistito solo nei libri di scuola, nei parchi nazionali o nei musei all’aperto (Meuus et al., 1990). La crisi dell’olivicoltura marginale per ragioni che non risiedono semplicemente nei limiti fisici ed agronomici che determinano l’impossibilità di meccanizzare o di confrontarsi con la scarsa e alternante produttività, ma che riguardano anche il successo di forme di sviluppo e di modelli sociali alternativi a quelli rurali, sta in effetti portando alla scomparsa dei sistemi e dei paesaggi tradizionali. Questi vengono definiti “né attualmente né potenzialmente economicamente validi” (AA.VV., 2003): un destino segnato se si guarda unicamente alla funzione produttiva ma che può essere positivamente mutato di segno con il riconoscimento della multifunzionalità e del valore di bene collettivo per i benefici ambientali che determinano e il valore culturale che rappresentano..
Tralasciando i piccoli appezzamenti a conduzione diretta o part-time che continuano a costituire parte importante del tessuto proprio del paesaggio rurale marginale, i paesaggi tradizionali si difendono, prima di tutto, opponendosi al diffondersi di un’urbanizzazione incontrollata (molti terrazzamenti delle regioni costiere mediterranee ne sono vittime) od alla spoliazione degli elementi costitutivi (è quasi di ogni giorno il trasporto clandestino, cui si oppongono con scarsa efficacia leggi di tutela, di olivi secolari dalle campagne pugliesi, siciliane o calabre verso i giardini privati). Va quindi salvaguardata e valorizzata la funzione produttiva, incrementando i risultati produttivi, se non in termini di resa– cosa difficile a farsi nelle condizioni limitanti della olivicoltura marginale- in termini di qualità: è la strada degli oli di qualità e del riconoscimento (marchi di tipicità, denominazioni comunali) del loro legame con il territorio. La salvaguardia della funzione produttiva necessita, inoltre, del contenimento dei costi di produzione attraverso la diffusione di tecnologie appropriate ai caratteri limitanti dell’ambiente e rispettose del paesaggio: macchine adeguate alla viabilità ed alle sistemazioni collinari, inerbimenti, efficaci strategie di controllo fitosanitario sono già disponibili ma molto ancora può fare la ricerca. Va, comunque tenuto presente che, soprattutto in ragione della ridotta dimensione aziendale - il 40% delle aziende ha una superficie inferiore ad 1 ha – l’impresa olivicola mostra mediamente una ridotta capacità di innovazione, risultando generalmente duttile solo nei confronti di adattamenti che necessitano di poco impegno economico e che si risolvono al massimo in piccole modifiche del processo colturale, in genere funzionali ad adattare la gestione dell'oliveto alle risorse economiche ed umane di cui si dispone.
Il problema più rilevante è quello dei grandi impianti olivicoli di pianura, pugliesi e calabresi soprattutto, che soffrono di una marginalità strutturale per la quale è difficile pensare soluzioni che siano solo agronomiche, legate sia alla produttività sia alla qualità del prodotto. Non è un problema di facile soluzione sia per la difficoltà di individuare tecniche innovative compatibili con la struttura degli impianti e l’architettura degli alberi sia perchè, in molti contesti non sempre, per ragioni strutturali e varietali, è possibile perseguire strategie di qualità del prodotto. La possibilità di conservare almeno parte dei sistemi tradizionali pone il problema della coesistenza tra il vecchio ed il nuovo paesaggio olivicolo, quello che deriverebbe dall’impianto di nuovi oliveti.
Negli oliveti abbandonati, di collina o di montagna, vanno guidati i processi di rinaturalizzazione anche al fine di ridurre i rischi di incendio, dei fenomeni erosivi e di desertificazione. Quando si verifica l’abbandono colturale degli oliveti, si determina una diminuzione della diversità paesaggistica, in conseguenza dell’aumento di superficie di cespuglieti e boschi su spazi che un tempo competevano alle colture e ai pascoli (Agnoletti e Paci, 1999) ma, al contrario, un incremento di quella specifica. Questo è evidente fin dai primi stadi della successione secondaria quando dall’insediamento di un piano arbustivo si passa ad arbusteti densi e macchie e, infine a formazioni prossime al bosco. I caratteri dell’ambiente, le condizioni colturali prima dell’abbandono, la presenza o meno di sistemazioni (le terrazze offrono condizioni migliori in termini di fertilità e disponibilità di umidità) determinano tempi e modi della colonizzazione e quindi dell’insediamento delle nuove specie. In media in 30-40 anni si passa da oliveto a un vero bosco con l’insediamento di specie che provengono dall’avanzamento del fronte del bosco eventualmente contiguo, dalla diffusione a partire da alberi isolati che erano coltivati negli impianti promiscui, dal mantello di vegetazione arbustiva che costituisce lo spazio ecotonale tra il bosco e i coltivi in abbandono.
Le specie che partecipano alla successione possono essere diverse in funzione alle caratteristiche stazionali, alla stagione dell’abbandono, alla storia dell’ultimo periodo di utilizzazione (Petrocelli et al., 2003). Se la coltivazione è rispondente ai caratteri ambientali, in seguito all’abbandono è proprio l’olivo, disseminato naturalmente, ad accompagnare il processo di rinaturalizzazione. Il fenomeno, frequente in Sicilia anche nei rimboschimenti effettuati con specie alloctone quali eucalitti e pini (La Mantia e Pasta, 2001), è dovuto alla plasticità “sinecologica”, determinata dalle caratteristiche autoecologiche, della specie. Per Blasi et al. (1997) “l’oliveto è una coltivazione che mantiene il collegamento dinamico con la vegetazione naturale potenziale”. Fortemente significativa in questo senso è l’osservazione compiuta in Maremma dove in seguito alla ceduazione della macchia effettuata per studiare le capacità rigenerative di questa tipologia di vegetazione (Giovannini et al., 1992), si scoprì che l’ulivo, non rilevato durante i tagli era in realtà presente e disposto a sesto testimoniando che trattavasi di una macchia secondaria insediatasi in un ex oliveto (Salbitano, 1992).
La rinaturalizzazione degli ex oliveti ha indubbia efficacia ambientale soprattutto in termini di salvaguardia idrogeologica. Bisogna però evitare fattori perturbativi come il sovrapascolamento e l’incendio, che possono fortemente ridurre il numero di specie presenti e il grado di copertura del suolo, determinando forti perdite per erosione e vanificando quella funzione di difesa dai dissesti che è propria delle sistemazioni collinari e dei terrazzamenti. Si ricordano in proposito alcuni dati tratti dalla letteratura internazionale che evidenziano come dopo 30 anni dall’abbandono per il sovrapascolamento la copertura del suolo diminuisca, piuttosto che aumentare, dall’81,2 al 29,6%, come l’erosione possa risultare molto elevata, come i parametri fisico-chimici che definiscono le qualità del suolo peggiorino fortemente dopo gli incendi (Loumou e Giourga, 2003; Pardini et al., 2004).
I sistemi e i paesaggi dell’olivicoltura tradizionale, dove ancora permangono, sono spesso mantenuti vitali da agricoltori non professionisti o part time che coltivano per ragioni legati alla al tempo libero, alla residenza stagionale, all’autoconsumo, all’integrazione di reddito. Riescono ad essere remunerativi solo quando alla formazione del reddito concorrono insieme il contenimento dei costi di produzione (cui la coltura tradizionale si presta per le ridotte esigenze colturali in termini di potatura –biennale- e di interventi antiparassitari), l’ottenimento di un prodotto di qualità ben apprezzato, la fornitura di servizi. L’economia dei sistemi olivicoli tradizionali va infatti sostenuta attraverso attività non direttamente legate alla produzione ma ai servizi culturali e turistici. E’ esemplare, in proposito, il successo dell’agriturismo, dell’ecoturismo, del turismo gastronomico e culturale nella collina toscana (Agnoletti, 2002; AA.VV., 1993). E vanno nella stessa direzione altre regioni con iniziative come la tutela e la valorizzazione degli olivi monumentali, la costituzione delle “vie dell’olio”, l’apertura di “musei dell’olivo” (Oneglia in Liguria, Torgiano in Umbria, ecc.); recentemente da associazioni agricole e professionali e da enti locali è stata stilata una Carta dei paesaggi dell’olivo e dell’olio (Caiazzo, febbraiio, 2004).
Molte delle iniziative volte a salvaguardare e valorizzare i sistemi e i paesaggi dell’olivicoltura tradizionale sono in linea con la nuova PAC, che nel 2004 è stata finalmente ampliata al settore olivicolo. In effetti la politica dovrebbe con maggior forza sostenere le funzioni non produttive dell’agricoltura tradizionale riconoscendo e sostenendo il ruolo degli agricoltori nel tutelare, con il loro lavoro, beni e valori che sono di interesse collettivo. Serve per questo una politica territoriale, ambientale e agraria (e un piano olivicolo nazionale e una pianificazione territoriale!) che guardi di più e meglio anche a questa olivicoltura, -un ruolo di avanguardia svolge in tal senso la regione Toscana con specifico riferimento al paesaggio degli oliveti (Agnoletti., 2004) - che salvaguardi il paesaggio agrario tradizionale come bene e risorsa impedendo la cancellazione di paesaggi storici. Serve una ricerca che guardi con maggiore attenzione all’olivicoltura tradizionale. Serve, prima ancora, una conoscenza dei paesaggi della tradizione olivicola italiana, una valutazione della loro diversità, tipicità, integrità, rarità fino a disporre di un inventario dei paesaggi attraverso il quale sia possibile individuare quali devono essere conservati come “paesaggio museo”, testimonianze viventi della civiltà agricola italiana, quali invece vanno guidati nella loro evoluzione tecnica mantenendo quella multifunzionalità produttiva, ambientale e culturale che è propria della loro storia (AA.VV., 2001; Barbera 2003) e quali infine possano essere destinati al reimpianto. Servono indirizzi “di buona gestione” volti a tutelare e valorizzare la multifunzionalità dei sistemi tradizionali come sta accadendo per la selvicoltura. Con la definitiva scomparsa dei sistemi e dei paesaggi dell’olivicoltura tradizionale si finirebbe col dare ragione a chi per l’incertezza produttiva della coltura, i suoi costi, la concorrenza esercitata da altri oli e altri paesi, la considera “un paradosso” (Grove e Rackham, 2001) segnandone, prima o poi, il destino.
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