La via Appia sembra ormai l’ultima posizione su cui si attesta nel suburbio romano la difesa del paesaggio archeologico dall’aggressione di trasformazioni pesanti e volgari. Gli abusi, che pure non mancano, sono stati contenuti dal vecchio piano regolatore, che destinava l’area a parco pubblico, e dalla tutela esercitata dallo stato tramite le soprintendenze; sono poi intervenute la vigilanza ambientale e l’intensa attività di conservazione naturalistica svolte da parte del Parco regionale dell’Appia antica, istituito nel 1988; nella repressione di ogni illecito attentato all’integrità dei luoghi si manifesta ora, con nuova sensibilità, anche una più incisiva azione giudiziaria.
La disfatta è altrove evidente non solo per l’offesa ai caratteri formali del territorio, ma anche per l’insipiente spreco di risorse naturali. Una politica accomodante nei confronti di ogni abuso, riproposta con periodica insistenza mediante condoni edilizi e riforme intese ad affievolire la tutela del patrimonio storico artistico e del paesaggio, ha favorito e persino indotto a teorizzare spregiudicate forme di gestione urbanistica di cui si vedono i risultati su ampia parte del territorio italiano.
Ai danni inflitti alla città di Roma negli anni Cinquanta con lo squallore dei quartieri periferici, che con tanta fatica si vanno risanando, si sommano quelli arrecati più estesamente all’agro romano, da oltre un ventennio preda di disordinate mire edificatorie. Malamente alterato e spesso inutilmente svilito anche nella sua vocazione produttiva agricola è ormai il versante orientale del suburbio romano, interessato da strade anch’esse ricche di storia, segnate da complessi monumentali come la villa di Adriano sulla Tiburtina, la villa dei Gordiani e la città di Gabii sulla Prenestina, il mausoleo di Sant’Elena e le ville della tenuta imperiale ad duas lauros sull’antica via Labicana (ora Casilina), la villa dei Sette Bassi sulla Tuscolana. I monumenti principali si sono salvati, ma il paesaggio di cui fanno parte è perduto oppure è già gravemente a rischio. Basti vedere le offese arrecate alle monumentali rovine dei Sette Bassi, assediate da palazzi di vetro che ne deturpano le prospettive sullo sfondo della campagna romana.
Negli atti della Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, istituita con una legge del 1964, per invocare la protezione del contesto ambientale dei monumenti è usata una bella similitudine: «Come il fondo di un quadro sulle figure, l’ambiente influisce sull’aspetto di un monumento architettonico, ossia sull’effetto che esso produce in noi. Pure rimanendo identiche, le figure del quadro ci darebbero un’impressione diversa ad ogni cambiamento del fondo, ossia del loro ambiente; e così un monumento, qualora si cambiassero, anche in parte, gli elementi della composizione ambientale cui appartiene». Non a caso si richiamava un’immagine pittorica: della commissione facevano parte maestri come lo storico dell’arte Carlo Ludovico Ragghianti, l’archeologo Massimo Pallottino, il filologo Augusto Campana, il pittore Mino Maccari.
Le raccomandazioni di allora sono state purtroppo quasi dovunque disattese, ma non per la via Appia. Il paesaggio archeologico è qui ancora quasi del tutto integro. Si giustificano così da una parte la particolarissima attenzione posta dalle istituzioni alla sua migliore conservazione e dall’altra il consenso dell’opinione pubblica verso la repressione di illeciti perpetrati con ogni sorta di furbizia, sotterfugi, falsificazioni e connivenze.
Si sentono pronunciare sovente giudizi assai riduttivi sulle cause di decadimento del paesaggio italiano. Il più comune, espresso anche da uno dei passati ministri dei beni culturali, vorrebbe attribuire la responsabilità dei guasti all’edilizia sciatta, alla diffusa incapacità di progettare il bello, ma il problema non può essere ridotto nei termini di una questione meramente formale. La perdita dei caratteri storici del territorio è dovuta soprattutto a motivi di natura strutturale, ossia alla sottrazione di suoli pregiati alla produzione agricola per esigenze che invece potrebbero essere soddisfatte facilmente con un razionale uso delle aree già destinate ad attività incongrue o dismesse. Tutto ciò si traduce peraltro in un vero e proprio danneggiamento delle naturali fonti di ricchezza. Il Parco dell’Appia antica ha infatti posto nei suoi programmi il mantenimento delle attività agricole nei comprensori già pervenuti nella proprietà pubblica, quali le tenute di Tormarancia e della Caffarella, e in quelle che vi potranno ancora pervenire, come la Farnesiana.
MILANO — Il paesaggio italiano? In serio pericolo. Affidarsi a politici ed amministratori? Neanche per idea. Il poco edificante quadro sullo stato ambientale del Bel Paese emerge da una ricerca sui giovani e il paesaggio, realizzata dal Fai (Fondo per l'ambiente italiano, presidente Giulia Maria Crespi) e l'Università Iulm. Un lavoro, per certi versi inedito, svolto con il più classico dei metodi sociologici: il sondaggio. A rispondere a 12 domande sono stati 3000 studenti di tutta Italia tra i 15 e i 18 anni. La ricerca ha messo in evidenza diversi aspetti. Tuttavia, dice il sociologo Mauro Ferraresi, «il dato più significativo è stato scoprire l'impotenza dei liceali. Almeno il 62% si sente responsabile di fronte ad episodi classificabili come danni ambientali. Ma non sa a chi rivolgersi». Giulia Maria Crespi, se la prende con le speculazioni immobiliari: «L'unica politica di sviluppo pare essere quella dei centri commerciali». Giorni fa, dice, ha fatto l'ennesima scoperta. «Sono stata chiamata dal sindaco di Mantova. In area di pregio (450 ettari) al confine tra Lombardia e Veneto, vogliono costruire un autodromo e il più grande centro commerciale d'Italia. Si può andare avanti così?».
La denuncia della signora Crespi, in realtà, nasconde un inno d'amore per l'Italia: «Nessuno ha tante bellezze a così poca distanza. Pure da una disgraziata città inquinata come Milano in un'ora è possibile raggiungere il mare o montagne bellissime».
Nota: di seguito scaricabile una breve sintesi della ricerca (f.b.)
La valutazione di impatto ambientale (VIA) dovrebbe essere uno strumento a garanzia di un serio esame preventivo degli impatti che determinati progetti possono avere sull’ambiente (vale a dire sul paesaggio, sugli ecosistemi naturali, sulla salute pubblica, ecc.), con la conseguente possibilità di impedire la realizzazione delle opere nocive. La competenza della Commissione VIA concerne tutte le opere di maggiori dimensioni: autostrade, linee ferroviarie, porti, centrali elettriche, grandi impianti industriali, rigassificatori, ecc. Sembra ovvio che, per essere credibili, le procedure di VIA debbano fondarsi su analisi e valutazioni tecniche approfondite ed interdisciplinari, non manipolate da interessi e pressioni politiche e/o affaristiche.
In Italia, il compito di effettuare queste analisi spetta da sempre, in base alla legge vigente – e in assenza di una struttura tecnica ad hoc – alla Commissione VIA, costituita da esperti (molti i docenti universitari) di tutte le materie implicate, mentre soltanto la segreteria è fornita da funzionari del ministero dell’ambiente e per la tutela del territorio e del mare (Mattm, secondo l’acronimo ormai invalso).
E’ noto che in passato non sono mancati i “rimaneggiamenti” nella composizione della Commissione, da parte di ministri desiderosi di ottenere responsi favorevoli ai progetti di amici e clienti. Così fu, ad esempio, per il “siluramento” dell’ex presidente della Commissione VIA, Maria Rosa Vittadini, poco dopo l’entrata in carica dell’allora ministro Matteoli, “colpevole” di aver espresso (tra l’altro) una valutazione negativa sul progetto del MOSE veneziano. Non va neppure dimenticata la “Commissione speciale VIA”, istituita ad hoc – a fianco di quella “normale” – dal Governo Berlusconi allo scopo di valutare le opere inserite negli elenchi di quelle “strategiche” in base alla legge Obiettivo (L. 443/2001).
E’ evidente, quindi, la strategicità – in senso positivo – di una Commissione autorevole ed indipendente, ovvero – in senso negativo – di una Commissione dequalificata e/o arrendevole rispetto alle pressioni. Ecco perché fu salutata con grande favore l’estate scorsa, da chi ha a cuore la tutela dell’ambiente, la nomina a presidente della Commissione VIA del prof. Stefano Rodotà. Pochi altri, in effetti, avrebbero potuto dare maggiori garanzie di rettitudine, autorevolezza e indipendenza. Ecco perché grave sconcerto suscita invece la notizia recente – passata quasi inosservata dai mezzi d’informazione – delle dimissioni definitive di Rodotà dal suo incarico.
Secondo quanto riferisce “il Sole 24 Ore”, unico quotidiano nazionale a quanto risulta ad aver ripreso la notizia (anche questo un segno dei tempi), le dimissioni sono state motivate principalmente dalle condizioni miserevoli in cui la Commissione è stata costretta ad operare: i commissari sono ridotti a pagare di tasca propria missioni e spese vive, le attrezzature a disposizione sono misere, ecc. Difficoltà che, a quanto risulta, Rodotà aveva segnalato già tempo addietro, senza ottenere esito alcuno. Donde le dimissioni, accolte dal ministro Pecoraro Scanio, che ha nominato un nuovo presidente nella persona di un ex magistrato della Corte dei Conti.
La vicenda pare emblematica del degrado in cui versano tante strutture pubbliche di questo disgraziato Paese. E’ infatti particolarmente grave che avvenga proprio nel momento in cui – per i rifiuti della Campania come per le tante altre vicende di cui la stampa non parla – le questioni ambientali avrebbero bisogno di un approccio finalmente serio ed autorevole da parte dei pubblici poteri (mentre invece sono quasi scomparse, ad esempio dalla campagna elettorale).
E’ anche gravissimo che, nominato Rodotà e malgrado le sollecitazioni di quest’ultimo, Governo e ministro abbiano “dimenticato” un organo fondamentale come la Commissione VIA e non lo abbiano messo nelle condizioni di lavorare decentemente, negandogli anche le risorse elementari. Sarà dipeso dalla scarsità di fondi del Mattm? O dallo scarso peso politico del ministro Pecoraro Scanio rispetto ai colleghi? O al fatto che le risorse del ministero sono state riservate ad altri impieghi politicamente più gratificanti? Sarebbe interessante ottenere qualche risposta da chi può darla, anche se temo che – complice la campagna elettorale – non se ne farà nulla.
Continua implacabile, anzi cresce ogni giorno, l´ondata di cemento che sta seppellendo il paesaggio italiano. Di fronte a questo irresponsabile suicidio, è il momento di chiedersi se le correzioni apportate al Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, che entrano in vigore in questi giorni, saranno un presidio sufficiente. Il ministro Rutelli ha condotto in porto con determinazione una normativa che afferma principi capitali, ispirati alla priorità della tutela del paesaggio (competenza esclusiva dello Stato) sulla gestione del territorio (affidata a Regioni ed enti locali). Nulla di più di quanto dice l´art. 9 della Costituzione: ma i conflitti insorti fra Stato e Regioni e alcune recenti, importanti sentenze della Corte Costituzionale hanno consentito di riformulare questi principi con maggior rigore. Si è così potuto disciplinare la co-pianificazione obbligatoria Stato-Regioni, reintrodurre il parere vincolante delle strutture ministeriali per ogni intervento sul paesaggio protetto, commisurare il peso degli enti locali alle competenze di cui sapranno dotarsi e alla loro capacità di progettare il futuro del proprio territorio. Queste ed altre modifiche intervengono su un impianto del Codice già stabilito da altri ministri di altre maggioranze (Urbani e Buttiglione): c´è dunque speranza che un tema di tanta importanza venga affrontato anche dal prossimo governo, di qualunque colore, con spirito di fedeltà alla Costituzione e agli interessi del Paese.
Questo non vuol dire, ahinoi, che possiamo dormire sonni tranquilli. Le leggi, anche quelle ottime, restano lettera morta se non ci si mette in condizione di applicarle, e se non si modificano le condizioni che hanno determinato l´insorgere dei relativi problemi. Almeno tre punti vanno citati in questo contesto: gli organici delle Soprintendenze, lo stato della normativa regionale e le incertezze finanziarie degli enti locali. Si sa che il blocco delle assunzioni ha colpito duramente la funzionalità delle Soprintendenze (l´età media degli addetti si aggira oggi sui 55 anni); si spera che venga portato a termine un piano di nuove assunzioni lanciato da Rutelli, ma non basta. A quelle poche centinaia di nuovi posti si deve aggiungere, se si vuole che lo Stato risponda con efficacia ai compiti che con questa legge si è dato, un reclutamento straordinario, di giovani e competenti funzionari, assunti sulla base esclusiva della competenza e del merito. Non meno grave è il blocco all´applicazione del Codice che può insorgere se le Regioni non provvederanno rapidamente a modificare le proprie normative, che troppo spesso prevedono la sub-delega ai Comuni di ogni autorizzazione paesaggistica: è così che sono nati non uno, ma centinaia di "casi Monticchiello". Il nuovo Codice rende illegittimo questo meccanismo di sub-delega, ma è necessario adeguare la legislazione regionale, nonché prevedere un opportuno regime transitorio.
Più gravi sono i problemi che derivano dallo stato delle finanze comunali. Si sa che, in una condizione generale di sofferenza, gli oneri di urbanizzazione sono diventati per i Comuni una delle principali fonti di introito, se non la principale. Queste tasse, dovute ai Comuni per ogni nuovo insediamento o edificio, erano destinate in origine alle opere pubbliche di volta in volta necessarie (strade, fognature, ecc.); ma da qualche anno, entrando nel bilancio comunale, sono utilizzabili per spese di ogni natura. Si spiega così che Comuni e sindaci anche "virtuosi" si lascino tentare dal consumo indiscriminato del territorio, pur di assicurare introiti adeguati alle loro casse altrimenti vuote. Su questo tema non è certo un Codice dei Beni Culturali che può intervenire: esso richiede una assai più attenta e vasta analisi e condivisione, prima di essere affrontato in modo efficace.
Il paesaggio è uno dei pilastri della storia e dell´identità del nostro Paese, nella diversità e varietà straordinaria delle sue città e delle sue regioni. E´ una delle massime ragioni di attrattività del nostro Paese, concorre a costituirne l´immagine e l´anima per gli italiani e per chi non lo è. Dopo una serie di leggi (la prima delle quali proposta nel 1920 dal ministro Benedetto Croce), la sua tutela ha raggiunto rango costituzionale con l´avvento della Repubblica. La nostra Costituzione è stata anzi la prima al mondo a collegare organicamente tutela del patrimonio storico, artistico e archeologico e tutela del paesaggio; e a porla fra i principi fondamentali della Repubblica. Di questi precedenti storici, giuridici, istituzionali e civili dovremo saperci ricordare, se non vogliamo che la crisi delle attività produttive lasci spazio solo a un´edilizia di basso livello che consuma il paesaggio, a un turismo becero che, indirizzandosi nei luoghi più decantati del Paese, li aggredisce e li distrugge. Se vogliamo che il nuovo Codice non sia una vana proclamazione di buone volontà, ma un importante passo avanti nell´attuazione della Costituzione repubblicana. Può esserlo, dipende da noi.
Il Consiglio dei ministri ha approvato, il 18 novembre 2005, uno "schema di Decreto legislativo recante disposizioni correttive e integrative del Codice dei beni culturali e del paesaggio [...], in relazione al paesaggio" (d'ora in poi "nuovo schema di decreto"), come comunicato nella lettera di trasmissione di tale provvedimento al fine di acquisire il prescritto parere della cosiddetta "Conferenza unificata" Stato, Regioni, enti locali. Ciò sulla base dell'articolo 10 della Legge 6 luglio 2002, n. 137, con cui si è emanato il Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 ("Codice dei beni culturali e del paesaggio"). Infatti il medesimo articolo 10 conferisce al Governo la delega ad adottare disposizioni correttive e integrative dei decreti emanati, dovendosi tale delega esercitare entro due anni dall'entrata in vigore dei predetti atti legislativi, e quindi, per quanto riguarda il Codice dei beni culturali e del paesaggio, entro l'1 maggio 2006.
Le modifiche e le integrazioni che il nuovo schema di decreto prevede di introdurre nel Codice sono, a mio parere, nel complesso e singolarmente considerate, migliorative del provvedimento legislativo sul quale intervengono: talvolta rilevantemente migliorative, talaltra volta più apparentemente che sostanzialmente tali, più spesso appena correttive, quasi mai peggiorative, e in tali casi in termini marginali e agevolmente correggibili.
In questo intervento mi limiterò a fare presenti, a grandi linee e con qualche ineluttabile apoditticità valutativa, le più consistenti modifiche e integrazioni che il nuovo schema di decreto prevede di introdurre nel Codice.
Correzione di errori materiali
Si propone, innanzitutto, di correggere alcuni veri e propri errori materiali, presenti nel Codice, e derivanti da sciatteria, imprecisione, difetti di coordinamento finale tra i diversi passaggi del testo. Errori largamente e abbastanza facilmente ovviabili in sede interpretativa, ma che ciononostante avevano suscitato gravi equivoci e accese polemiche.
Vale la pena di citare, quale esempio particolarmente significativo, l'infelicissima espressione del comma 1 dell'articolo 142 del Codice per cui i beni enumerati nel medesimo comma sarebbero stati sottoposti ope legis alle disposizioni del Titolo del Codice recante "Tutela e valorizzazione" dei "beni paesaggistici" soltanto "fino all'approvazione del piano paesaggistico ai sensi dell'articolo 156". Anche esponenti di organizzazioni e movimenti che operano per la tutela del patrimonio culturale hanno sospettato, o dato addirittura per scontato, che l'espressione sopra riportata implicasse la possibilità, per il piano paesaggistico, di abrogare tout court la qualità di "beni paesaggistici" di taluni degli elementi territoriali enumerati, o di loro parti. Con ciò privilegiando l'interpretazione maggiormente capace di stimolare lo sdegno verso gli atti e le intenzioni vandaliche e criminogene del Governo, anziché quella più suscettibile di garantire la tutela dei beni per cui si faceva mostra di battersi. A ogni buon conto, il nuovo schema di decreto propone, puramente e semplicemente, la soppressione dell'espressione dianzi riportata, con ciò risolvendo drasticamente equivoci e polemiche.
Ritocchi integrativi
Tale è, a mio parere, quello che il nuovo schema di decreto propone di operare all'articolo 136 del Codice, nel quale vengono delineate (in termini pressoché letteralmente identici all'articolo 1 della Legge 29 giugno 1939, n. 1497) le categorie di beni che possono essere qualificati "beni paesaggistici" attraverso specifici provvedimenti e atti amministrativi singolarmente afferenti a ognuno di essi. Il nuovo schema di decreto prevede di inserire espressamente, tra "gli immobili e le aree" definibili "beni paesaggistici", i "centri storici" e le "zone di interesse archeologico". Quest'ultima categoria è stata indicata, essenzialmente, per sovvenire a (veri o supposti) problemi individuativi, e non rileva granché darne conto. Mentre può dare la sensazione di una forte innovazione l'esplicita citazione dei "centri storici". A una riflessione appena più attenta, invece, questa citazione finisce con il doversi considerare assai modesta (la stessa relazione illustrativa del nuovo schema di decreto riconosce trattarsi nulla più che del chiarimento di una possibilità già suggerita addirittura dall'articolo 9 del Regio Decreto 3 giugno 1940, n. 1357, recante il regolamento di attuazione della Legge 1497/1939, e comunque "già ampiamente praticata dalla prassi amministrativa degli ultimi decenni") e forse addirittura foriera di rischi. Mi riferisco al fatto che la sottolineatura della prospettiva di definizione dei "centri storici" quali "beni paesaggistici" può stimolare una concezione della tutela dei medesimi "centri storici", e delle unità di spazio che li compongono (unità edilizie e unità di spazio scoperto), limitata alla preservazione dell'"aspetto esteriore", ignorando le elaborazioni e le centinaia (almeno) di discipline pianificatorie e regolamentari definite in Italia negli ultimi quattro o cinque decenni, volte a garantire la conservazione delle caratteristiche tipologiche strutturali delle unità di spazio, con particolare riferimento, tra l'altro, agli assetti distributivi interni delle unità edilizie.
Miglioramenti sui contenuti della pianificazione paesaggistica
Più rilevanti e positive ritengo siano le correzioni che il nuovo schema di decreto prevede di apportare agli articoli 135 e 143 del Codice, i quali, nel loro insieme, definiscono innanzitutto i contenuti della pianificazione paesaggistica. Tali correzioni possono infatti sortire l'effetto di attutire, e di rendere evitabili (pur senza escluderli del tutto) i rischi di dare luogo a una pianificazione paesaggistica del tutto priva di reale pregnanza e incisività precettiva, rischi insiti nelle norme dell'originaria, e vigente, stesura del Codice.
Queste ultime norme, infatti, pretendono la costruzione di astratte categorie di "trasformabilità", relazionate a presumibilmente assai soggettivi "gradi di valore", attribuiti ad "ambiti omogenei": la qual cosa porterebbe quasi inevitabilmente, se non attraverso scappatoie sostanzialmente elusive del dettato legislativo, a dettare disposizioni assai poco, o per nulla, relazionate alle specifiche e peculiari caratteristiche conformative, meritevoli di tutela conservativa, delle concrete componenti territoriali considerate.
In altri termini, laddove, in sede di redazione di uno strumento di pianificazione paesaggistica si sia individuato un "ambito" di "elevatissimo pregio paesaggistico" - racchiudente, per esempio, un'area boscata, una prateria montana sommitale, qualche corso d'acqua torrentizio, un'area di interesse archeologico - si potrebbe sfidare chiunque a dettare precetti pregnanti circa le trasformazioni, le attività, le utilizzazioni ammissibili, anziché vaghi e vacui auspici, con riferimento all'"ambito" in quanto tale. Mentre, per converso, da un lato sarebbe estremamente agevole stabilire prescrizioni conformative precise per ognuno degli elementi territoriali presenti, dall'altro sarebbe certamente auspicabile, e da perseguire, quand'anche più complesso, modulare tali prescrizioni conformative sia in relazione agli intrinseci gradi di valore di ognuno di tali elementi territoriali, sia in relazione alle reciproche interrelazioni degli specifici elementi territoriali presenti.
Il controllo e la gestione dei beni tutelati
Ma le modifiche e integrazioni più consistentemente innovative riguardano, per il vero, il controllo e la gestione dei beni (paesaggistici) soggetti a tutela. Si prevede, infatti, di stabilire la vincolatività del parere del competente soprintendente in merito al rilascio, o meno, delle speciali autorizzazioni alle quali è subordinata l'effettuabilità di trasformazioni dei beni soggetti a tutela (modifiche e integrazioni proposte dal nuovo schema di decreto all'articolo 146 e passim).
Si badi bene che non è minimamente intaccata la previsione del Codice (articolo 143) per cui la pianificazione paesaggistica, qualora sia formata congiuntamente e concordemente dalle Regioni e dalle amministrazioni statali competenti, può sottrarre taluni elementi territoriali riconosciuti quali "beni paesaggistici", o parti di essi, all'ordinario regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in esse operabili all'ottenimento di speciali autorizzazioni. Venendo queste ultime, per così dire, "assorbite" negli ordinari provvedimenti abilitativi delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata.
Ciò, peraltro, viene considerato ammissibile solamente con riferimento ai "beni paesaggistici" così qualificati ope legis (e, a mio parere, con riferimento ai "beni paesaggistici" qualificati come tali dalla stessa pianificazione paesaggistica). Sono esplicitamente esclusi da tale possibilità i "beni paesaggistici" definiti come tali con specifici provvedimenti amministrativi, evidentemente ritenendosi (per quanto opinabile e discutibile possa essere tale convinzione) che il pregio intrinseco posseduto da questi ultimi beni esiga un controllo puntuale e discrezionale della coerenza con esso delle trasformazioni via via proposte, non bastando alla bisogna la verifica della conformità di tali trasformazioni alle regole definite dalla pianificazione.
E si badi altresì che la vincolatività del parere del competente soprintendente in merito al rilascio, o meno, delle speciali autorizzazioni, è esclusa (comma 4 dell'articolo 143 come risulterebbe dalle modifiche e integrazioni proposte dal nuovo schema di decreto) in tutti i casi in cui la pianificazione paesaggistica sia formata congiuntamente e concordemente dalle Regioni e dalle amministrazioni statali competenti. Quantomeno laddove le Regioni stabiliscano di esercitare direttamente la funzione autorizzatoria, o di delegarne l'esercizio alle Province, viene stabilito (comma 3 dell'articolo 146 come risulterebbe dalle modifiche e integrazioni proposte dal nuovo schema di decreto) che, ove invece intendano delegare tale esercizio ai Comuni, da un lato possono farlo soltanto ove sia stata approvata la pianificazione paesaggistica formata congiuntamente e concordemente dalle Regioni e dalle amministrazioni statali competenti e i Comuni vi abbiano adeguato i propri strumenti urbanistici (il che ritengo assolutamente sensato e condivisibile), da un altro lato permarrebbe comunque la vincolatività del parere della competente soprintendenza sulla rilasciabilità delle autorizzazioni (il che, invece, propendo a ritenere scarsamente giustificato).
In buona sostanza, e in estrema sintesi, l'assunto concettuale fondamentale della più rilevante innovazione proposta dal nuovo schema di decreto, è quello per cui - ove e fino a quando i beni (paesaggistici) soggetti a tutela non siano disciplinati da regole conformative, immediatamente precettive e direttamente operative, definite d'intesa tra tutti i soggetti istituzionali che costituiscono la Repubblica, ivi compreso lo Stato, e per esso la sua amministrazione specialisticamente competente - non può essere escluso un ruolo decisionale di quest'ultima amministrazione nell'apprezzamento discrezionale, caso per caso, delle trasformazioni ammissibili dei predetti beni soggetti a tutela.
Proteste delle Regioni e degli enti locali
Non si vuole minimamente negare che l'assunto concettuale qui sintetizzato sia stato tradotto, dal nuovo schema di decreto, in concrete disposizioni, e in combinati disposti precettivi, tutt'altro che privi di sbavature, di particolari discutibili, di eccessi scarsamente giustificati di cautele: criticabili, ovviabili, correggibili.
Così come l'intero nuovo schema di decreto avrebbe potuto dar luogo - in primis proprio nella sede deputata a esprimere il primo parere in merito a esso, cioè nell'ambito della cosiddetta "Conferenza unificata" Stato, Regioni, enti locali - a un approfondito confronto rivolto a perfezionarne i contenuti, e quindi a ottimizzare il modello giuridico e operativo della concorrenza dei soggetti che costituiscono la Repubblica (comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato) in quella tutela del paesaggio che della Repubblica è un compito indeclinabile secondo il relativo "principio fondamentale" proclamato dall'articolo 9 della Costituzione. Avendo ben chiaro che, in questa come in consimili fattispecie, il termine "concorrenza" (purtroppo di non univoco significato anche nel nostro dovizioso lessico italiano) significa collaborazione compartecipativa con altri soggetti alla realizzazione di un fine comune, e non, come (sacrosantamente) in altri contesti, confronto competitivo con altri soggetti nell'acquisizione, produzione e vendita di beni.
Risulta invece che, una volta approdato il nuovo schema di decreto nella cosiddetta "Conferenza unificata" Stato, Regioni, enti locali, esso sia stato dichiarato - dal "fronte" delle Regioni e degli enti locali, con prontezza scarsamente ricorrente, e con raramente tanto piena convergenza trasversale (rispetto alle formazioni e alle coalizioni politiche di appartenenza dei rappresentanti dei soggetti istituzionali partecipanti) - assolutamente inaccettabile e inemendabile.
Ritengo non accettabile l'atteggiamento del "fronte" delle Regioni e degli enti locali, il quale, proprio per il suo rifiuto a entrare dettagliatamente nel merito di ogni singolo punto, si appalesa come uno "sgomitare" rivolto a ridurre entro termini irrisori, se non ad azzerare, il ruolo dello Stato nella tutela dei "beni paesaggistici".
Con ciò mostrandosi altrettanto (pur se su posizioni simmetriche) estraneo allo spirito e alla lettera di quel, già ricordato, "principio fondamentale" di cui all'articolo 9 della Costituzione del 1948, per cui la tutela del paesaggio (e del patrimonio storico e artistico) compete alla Repubblica, e quindi alla totalità delle sue articolazioni, nessuna potendo esserne esclusa.
Per questo, cioè per la profonda aspirazione a una riscoperta della "forza propulsiva" della Costituzione del 1948, oltre che per i profili più strettamente di merito, ritengo altresì, e per concludere, che i problemi posti dalle vicende qui sommariamente esposte esigeranno l'assunzione di chiare prese di posizione da parte dell'attuale Governo.
Pubblicato in versione elettronica il giorno: 20/06/2006; pubblicato in versione cartacea in "IBC", XIV, 2006, 2
Relazione tenuta al convegno dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti,
“La trasformazione dei paesaggi e il caso veneto”, Venezia, 6–7 marzo 2008.
Alla rassegna che ci eravamo proposti sulla sequenza da costituzione a codice dei beni culturali e del paesaggio manca, si deve subito dire, la certezza del termine conclusivo di riferimento.
Non è ad oggi dato conoscere infatti quale risulterà dalla seconda e conclusiva operazione di correzione-integrazione del codice dei beni culturali e del paesaggio (emanato nel 2004 e fatto oggetto di una prima revisione nel 2006, mentre la delega per quest’ultima deve essere perentoriamente esaurita entro il prossimo primo maggio) l’assetto delle rispettive responsabilità delle istituzioni statali della tutela (ministero e soprintendenze) e delle regioni (con il sistema delle autonomie locali) quanto alla salvaguardia del paesaggio. Sul testo elaborato dalla commissione ministeriale presieduta da Salvatore Settis è stata nei giorni scorsi sentita, come vuole il formale procedimento, la conferenza unificata stato-regioni; e se ho ben letto il comunicato diffuso dal fronte regionalista, il ministro avrebbe infine dimostrato indulgenza alla rivendicazione riproposta dalle regioni perché nella valutazione di compatibilità di ogni nuovo intervento negli ambiti di tutela, nel rilascio cioè della autorizzazione paesaggistica (che è compito della regione o dell’ente sottoordinato da essa delegato), non sia vincolante l’apprezzamento di merito della soprintendenza cui dunque rimarrebbe assegnato un ruolo subordinato. Quanto un simile assetto delle competenze sia conforme alle implicazioni del principio fondamentale dell’art. 9 costituzione ci verrà modo di dire nello sviluppo del nostro discorso. Che subito deve registrare come nella sua genesi quel principio sia espressione della ferma convinzione della dimensione unitaria e nazionale dei valori così del patrimonio storico e artistico come del paesaggio.
E’ opportuno dunque ricordarlo ancor oggi: il germe di questo articolo 9 fu concepito da Concetto Marchesi che sulla sua proposta di un articolo 29 ottenne il voto unanime della commissione dei 75 “nella previsione [sono sue parole] che la raffica regionalista avrebbe investito anche questo campo delicato del nostro patrimonio nazionale” e preoccupato che lo statuto siciliano come quello della Val d’Aosta già affidassero alla competenza esclusiva della regione la difesa di paesaggio e patrimonio storico e artistico. Qualche difficoltà Marchesi incontrò nella discussione in assemblea, dove gli fu obbiettato che non era appropriata la sede dei rapporti etico-sociali; e se era implicata la questione delle autonomie regionali la norma doveva trovar posto là dove la costituzione avrebbe disciplinato la potestà normativa delle regioni. L’assemblea approvò infine l’emendamento proposto da Lussu che imputa alla Repubblica - e così massimamente valorizza - la tutela di patrimonio e paesaggio, ponendo quindi la premessa per la conversione di quell’articolo 29 in principio fondamentale. E’ vero che nel dibattito dell’assemblea costituente l’interesse è orientato al patrimonio storico e artistico della nazione e alla avvertita esigenza della sua considerazione unitaria, ma neppure è messo in discussione che le medesime ragioni debbano valere per il paesaggio accomunato nella identica disciplina costituzionale. Il lessico dei costituenti è innovativo: patrimonio storico e artistico della nazione in luogo delle “cose di interesse storico e artistico” della pur gloriosa legge n. 1089 del 1939; paesaggio in luogo delle analitiche “bellezze naturali” della coeva legge n. 1497 del 1939. E consapevolmente innovativo, come è confermato dal voto che aveva bocciato la proposta soppressiva dell’articolo voluto da Marchesi, motivata da asserite adeguatezza e sufficienza della due leggi speciali. Paesaggio, in particolare, come inteso da Marchesi, Lussu, Codignola, Moro (tra i costituenti i più interessati al tema), è nozione che non si identifica certo nelle categorie di bellezze naturali “individue” e “di insieme” minutamente e diligentemente elaborate dalla burocrazia che dettò la legge 1497 del 1939. E’ la nozione dunque della comune, se così si può dire, buona cultura (come alimentata e aggiornata dalle discipline specialistiche che considerano le forme dell’ambiente fisico di vita delle comunità) entrata nel linguaggio normativo e divenuta l’oggetto della disciplina costituzionale.
Converrà ancora ripetere che la collocazione di paesaggio e patrimonio tra i principi fondamentali della costituzione (tra i quali non ha ingresso il “terribile diritto” di proprietà) li configura come elementi costitutivi dell’identità del paese; e la funzione di tutela solennemente imputata alla repubblica (che la esercita attraverso tutti i soggetti dell’ordinamento che la compongono, secondo la nuova formulazione dell’art. 114) è assunta come pervasiva, essenziale, primaria e qualificante del suo modo stesso di essere e di operare.
Che poi il legislatore ordinario e l’amministrazione attiva abbiano preso immediata coscienza di questa innovazione e delle responsabilità pubbliche che ne derivavano si può escludere con certezza e i modi della ricostruzione postbellica e dello sviluppo economico del paese nel consecutivo ventennio stanno lì a documentarlo. L’applicazione della stessa legge speciale del 1939, la 1497 con il suo regolamento del 1940, rimasta travolta dalla guerra, stentò poi a rianimarsi ed ebbe un’attuazione episodica e del tutto marginale nei vasti processi di trasformazione territoriale.
La legge “ponte” del 1967 (verso l’ancora attesa riforma urbanistica, primo centrosinistra, ministro Mancini: ieri Vezio De Lucia ha evocato con grande efficacia quel clima di speranza andato ben presto deluso), che aveva reso obbligatoria per ogni comune la regolamentazione urbanistica, che aveva introdotto il principio degli “standards” - vero e proprio diritto dei cittadini ai servizi -, che aveva dettato la disciplina conservativa dei centri storici prescrivendone la delimitazione, avvertì l’esigenza di coordinare con la pianificazione territoriale le competenze speciali del ministero allora della pubblica istruzione (cui faceva capo la direzione generale delle belle arti) nelle materie al ministero affidate delle bellezze naturali e delle cose di interesse storico e artistico. Rese perciò soprintendenze e ministero partecipi dei procedimenti di approvazione degli strumenti urbanistici con potere di introdurre d’ufficio le “modifiche riconosciute indispensabili per assicurare la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici”. Per la prima volta (1967) dunque l’espressione paesaggio della costituzione entra nella legge ordinaria e l’azione di tutela al riguardo è esercitata anche in via di controllo sulla pianificazione territoriale e a sua integrazione estrinseca. E con la legge dell’anno successivo, la n. 1187 del 1968, al piano regolatore è infine affidato il compito essenziale di disciplinare in proprio (e quindi previamente anche in via autonoma identificare) “le zone di carattere storico, ambientale e paesistico”, dettando al riguardo “i vincoli da osservare”. Se il paesaggio è la forma sensibile del paese e dunque qualità perseguita in ogni parte del territorio, il paesaggio entra in diretto rapporto con la pianificazione urbanistica, alla quale si volle allora che concorressero in funzione integrativa le istituzioni della tutela statale. Con l’attuazione dell’ordinamento regionale pure queste funzioni esercitate dalle soprintendenze furono trasferite alle regioni e così si concluse allora il tentativo di raccordare le competenze specialistiche della tutela statale con quelle di disciplina generale del territorio. Con il decreto delegato del 1972 è trasferito alle regioni il piano paesaggistico che la legge 1497 del 1939 prevede, ma facoltativamente, a regolare le più vaste zone dichiarate come bellezze di insieme; e con il completamento dell’ordinamento regionale del 1978, in ragione della attinenza alla urbanistica, materia di potestà esclusiva delle regioni, le funzioni di tutela delle bellezze naturali come organizzate nella legge 1497 del 1939 facenti capo allora al ministero per i beni culturali (costituito nel 1975) sono delegate alle regioni, alle quali dunque spetta di rilasciare le autorizzazioni paesaggistiche (già di competenza del soprintendente). La regionalizzazione della tutela del paesaggio può dirsi completa, rimanendo al ministero un potere straordinario di integrazione ed interdizione, in pratica rarissimamente esercitato.
Nel 1985, l’anno del turpe condono edilizio, il sottosegretario, lo storico Giuseppe Galasso, verificata la impossibilità di introdurre per via di provvedimenti amministrativi tutele generalizzate in ragione di obbiettivi caratteri morfologici del territorio, si fece promotore della legge che ben può dirsi diretta attuazione dell’art. 9 della costituzione (non solo perché essa stessa dichiara di portare norme fondamentali di riforma economico-sociale e perciò ha l’efficacia di imporsi pure sulle regioni a statuto speciale). La legge “Galasso” dunque assoggetta direttamente a tutela paesaggistica gli elementi fisici strutturanti del territorio, spazialmente definiti secondo misure inevitabilmente convenzionali (ne fu grandemente irritato, ricordo, Lucio Gambi che le bollò come del tutto arbitrarie e prive di alcun fondamento scientifico: i territori costieri nella fascia di profondità di trecento metri, i territori contermini ai laghi per la medesima profondità, i corsi d’acqua pubblici e le relative sponde per la fascia di centocinquanta metri, le montagne per la parte eccedente i 1600 metri sul livello del mare per la catena alpina e i 1200 metri per la catena appenninica e per le isole, ghiacciai e circhi glaciali, territori coperti da foreste e boschi, vulcani, zone umide censite, e pure le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici (dunque terreni conformati da regimi secolari di gestione collettiva), oltre a parchi e riserve naturali, e zone di interesse archeologico (esempio saliente, la centuriazione). La innovazione rispetto alle “bellezze naturali” “individue” e “di insieme”, incluse negli appositi elenchi faticosamente formati dalle commissioni provinciali attraverso complessi e attardanti procedimenti amministrativi, è di immediata percezione. E pure i modi della disciplina sono innovativi: ogni regione è tenuta a darsi un piano paesaggistico (sul modello di quello della legge 1497, concepito per specifiche aree e inidoneo però a regolare così vaste estensioni) o di un piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori da tutelare. Alle soprintendenze rimaneva attribuito il potere di controllo sulla gestione della disciplina di tutela attraverso l’annullamento delle autorizzazioni paesaggistiche. Immediata, come è noto, fu la risentita reazione delle regioni che fecero questione di indebita invasione delle attribuzioni urbanistiche e sollevarono conflitto davanti alla corte costituzionale che con alcune esemplari sentenze lo rigettarono, dettando il principio di primarietà e assolutezza dei valori di tutela del paesaggio, insuscettibili quindi di essere posti in bilanciamento con altri interessi pure di rilievo pubblico, dovendo su di essi prevalere, come sulla disciplina territoriale perseguita attraverso la pianificazione urbanistica, piegata a dare attuazione prioritaria ai valori del paesaggio. Che come complessivo bene unitario è imputabile alla comunità nazionale, sicché a fronte di registrate diversità di apprezzamento sui modi in concreto della tutela deve necessariamente prevalere quello della amministrazione statale, rappresentativa della dimensione nazionale e unitaria di valori del paesaggio non affidati alla disponibilità delle regioni.
Che poi a questo rinnovato modello normativo abbia corrisposto una adeguata prassi operosa di tutela non è dato di constatare. L’imperativo dei piani paesaggistici come autonomi strumenti di tutela immediatamente prescrittivi e prevalenti sulla disciplina urbanistica eventualmente in contrasto è stato diffusamente eluso, rimanendo la disciplina del paesaggio in pratica attratta, e spesso dissolta, entro il sistema della pianificazione territoriale attraverso i differenziati livelli di piani, come si dice, a cascata, dalla dimensione territoriale regionale a quella di coordinamento provinciale e infine comunale alla quale ultima è riconosciuto un ampio ambito di autonoma determinazione. Mentre ancora patrimonio e paesaggio rimangono oggetto della contesa tra stato e regione e il criterio risolutivo per dirimere il conflitto di attribuzione dei poteri al riguardo si è creduto che potesse fondarsi sulla rottura della endiadi, invece concettualmente inscindibile, tutela e valorizzazione. (E a questo criterio per la verità offriva un sostegno testuale la costituzione del ministero dei beni culturali – 1975 - cui sono affidati i compiti di tutela e valorizzazione, mentre alla attività di valorizzazione è previsto che concorrano le regioni). Dapprima il decreto legislativo n. 112 del 1998 (in attuazione della “Bassanini 1”) nel conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello stato a regioni ed enti locali si muove su questo discrimine e infine la stessa riforma del titolo V della costituzione sanziona l’espediente artificioso, scorporando dalla unitaria nozione della tutela dell’art. 9 (la valorizzazione è funzione interna e propria di una tutela strumento di promozione della cultura : primo comma) la valorizzazione appunto, per affidare alla potestà legislativa esclusiva dello stato la tutela e facendo la valorizzazione materia di legislazione concorrente tra regioni e stato (cui è dato soltanto di fissare i principi fondamentali al riguardo). Non è qui il caso di sottolineare la sciatteria nell’impiego del lessico normativo, non essendosi i riformatori del titolo V preoccupati di uniformare le espressioni testuali nella contrapposizione di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” (lettera s del secondo comma dell’art. 117) riservata alla potestà legislativa esclusiva dello stato, a “valorizzazione dei beni culturali e ambientali” (terzo comma dello stesso articolo) affidata alla potestà concorrente, espressioni che per altro neppure riprendono quelle di sintesi dell’art. 9 (patrimonio e paesaggio).
E’ ben noto come si sia giunti infine alla redazione del codice dei beni culturali e del paesaggio attraverso una legge delega del tutto priva di “principi e criteri direttivi”, sicché, al di là delle ambizioni sbagliate di cui il ministro di allora (umiliato dalle intemperanze del collega della finanza creativa che aveva tentato di sottrargli una buona parte del patrimonio culturale per metterlo in vendita) aveva inteso caricare l’operazione, non v’era spazio in pratica che per la riscrittura del compilativo testo unico del 1999, di cui per altro era in corso l’aggiornamento. Dalla versione del 2004 del “codice” e dalla prima revisione del 2006 non può dirsi che esca alcuna sostanziale riforma dell’assetto disciplinare ancora fondato sul sistema binario della legge sulle bellezze naturali del 1939 (e sull’apparato organizzativo delle commissioni provinciali incaricate di formare e integrare gli elenchi delle c.d. bellezze di insieme e individue, rimasto inalterato anche con il trasferimento alle regioni del 1978) e della legge “Galasso” del 1985 che vuole protette le vaste zone identificate per i fondanti caratteri morfologici, prescrivendo i piani paesaggistici come speciali strumenti di diretta e prevalente disciplina, con l’innovazione (l’unica significativa) che “la specifica considerazione dei valori paesaggistici” deve “concernere l’intero territorio regionale”. Questo “codice” neppure è stato capace di dare riconoscimento di bene culturale a quello che massimamente concorre a definire l’identità del nostro paese: l’insediamento urbano storico, come unitario bene culturale appunto, cui si addicono, con gli ovvi adattamenti alla sua specialissima e complessa natura di organismo -se così si può dire- vivente, i metodi del restauro e del risanamento conservativo. Né la commissione preposta a questa definitiva revisione ha inteso accogliere la proposta di Italia Nostra di riconoscere il centro storico, come definito nei vigenti piani regolatori, quale bene paesaggistico soggetto ad automatica tutela, sul modello - nuova autonoma categoria normativa - della legge Galasso. Ma si è limitata a inutilmente confermare che nella categoria di “bellezza di insieme”, come “complesso di cose immobili che compongono un caratteristicoaspetto avente valore estetico e tradizionale” (secondo il lessico datato pur se suggestivo della legge n. 1497 del 1939), può intendersi compreso pure il centro storico, sempre che la commissione provinciale, attraverso il complesso procedimento che già abbiamo ricordato, vi riconosca notevole interesse pubblico.
Né può dirsi che il codice abbia operato, come vantò il ministro di allora, “il pieno recupero del paesaggio nell’ambito del patrimonio culturale, del quale costituisce parte integrante alla pari degli altri beni culturali del nostro paese” sol perché impegnato nella ambiziosa inutile definizione - manifesto (art. 131) che riprendeva pressoché alla lettera quella della mediocre (benché generalmente celebrata ma del tutto priva di contenuti prescrittivi) convenzione europea del paesaggio (2000, ratificata dal nostro paese nel 2006), ma prudentemente per la verità tralasciava l’equivoco riferimento, come a criterio di identificazione di quella determinata zona designata come paesaggio, alla percezione che ne abbiano gli abitanti del luogo o i visitatori. Si deve però dare atto che la nuova versione dell’articolo 131, come risulta dalla revisione ancora in corso e solo ufficiosamente conosciuta, si impegna in una definizione di paesaggio fondata sulla riconosciuta attitudine espressiva dei valori di cultura; valorizza il ruolo di funzione della identità nazionale, mentre finalizza la tutela a salvaguardia e recupero dei valori culturali espressi dal paesaggio, affermando dunque la prevalenza della istanza conservativa. Non può dirsi invece che costituisca un recupero sul testo della prima versione la superflua riaffermazione della potestà legislativa esclusiva dello stato nella materia della tutela del paesaggio, secondo il letterale disposto dell’art. 117 della costituzione.
Ma una assai incisiva innovazione aveva introdotto il codice, sul punto non corretta con il decreto del 2006, per corrispondere alla rivendicazione delle regioni che avevano inteso come lesiva della loro autonomia (ma anche una recentissima decisione della corte costituzionale – n. 378 del 2007 - lo ha tornato a negare) il potere riconosciuto alle soprintendenze di annullamento delle autorizzazioni paesaggistiche date delle stesse regioni o dai comuni da esse delegati. Escluso a regime questo potere di annullamento, la partecipazione delle soprintendenze all’esercizio in concreto della tutela (alla gestione dei vincoli) è configurata come parere interno al procedimento, obbligatorio, ma non vincolante. E’ ben vero che della impegnativa facoltà di annullamento le soprintendenze si sono avvalse (per indirizzo generale per certo dettato dal ministero) con parsimonia anche in ragione della strutturale inadeguatezza di mezzi e risorse professionali di quegli uffici (le autorizzazioni di Monticchiello passarono indenni alla soprintendenza e di recente l’annullamento della autorizzazione all’insediamento alberghiero nella baia sistiana sul golfo di Trieste è stato fatto revocare, convocato il soprintendente al ministero), ma rimane il nodo di un rapporto che non può registrare il ruolo subordinato della istituzione di tutela adeguata alla dimensione nazionale e unitaria del paesaggio.
La riforma del titolo V della Costituzione ha introdotto, lo ricordiamo, il nuovo criterio secondo cui l’attribuzione delle funzioni amministrative a stato, regioni ed enti locali prescinde dalla corrispondenza alla potestà legislativa nella specifica materia, per essere invece fondata sui principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. Sicché in linea di quei principi nulla si oppone a che pure l’esercizio di compiti di tutela sia assunto dalla regione e dallo stesso comune, sempre che il suo apparato organizzativo lo renda adeguato a un compito che trascende la dimensione locale e che dunque svolge nell’interesse della comunità nazionale. Ma quando si registri diversità di apprezzamento deve necessariamente prevalere quello espresso dalla istituzione che riflette la dimensione unitaria - nazionale - dell’interesse in concreto curato.
E’ il tema cruciale sul quale ancora si è attardato in extremis, e nella sede formale della conferenza unificata, il confronto tra ministro e regioni sul testo definitivo del codice dei beni culturali e del paesaggio. E se nelle dichiarate intenzioni del ministro la conclusiva correzione del codice avrebbe dovuto recuperare un ruolo più incisivo delle istituzioni statali di tutela del paesaggio, a queste intenzioni non sembra che corrisponda il testo delle modifiche portato dalle regioni alla conferenza e sul quale il ministero avrebbe dato il suo assenso (così disattesi dunque i ripetuti appelli che le associazioni di cultura hanno pubblicamente e di recente rivolto al ministro). Converrà dunque attendere di conoscere l’esito di quel confronto conclusivo e sospendiamo sul punto il giudizio definitivo.
Certamente il necessario recupero di responsabilità in ordine alla tutela del paesaggio da parte delle istituzioni statali comporta un impegno straordinario di mezzi e di energie professionali che l’attuale assetto delle soprintendenze non è in grado di assicurare ed esige perciò una fermissima volontà politica di cui si stenta a vedere i segni; mentre la linea della dovuta collaborazione con le regioni così come espressa nelle intese recentemente siglate dal ministero, se non sia sostenuta dalla capacità di offrire un contributo di qualificate competenze di merito, si riduce in pratica ad una ampia delega alla pianificazione territoriale come la sola sede effettivamente deputata, con i suoi tipici strumenti, alla tutela del paesaggio, svalutato in concreto lo speciale piano paesaggistico per il quale il codice si attarda a disegnare una minutissima, assai complessa e impegnativa, disciplina attuativa. E se poi la “valenza paesaggistica” delle previsioni del piano territoriale (come disciplinato dalla legge regionale di riferimento, pur se in concreto espressione in ipotesi dell’esercizio di quell’intesa) dovesse intendersi come alternativa al piano paesaggistico, ne risulterebbe una palese violazione dello stesso codice, con la intenzionale disapplicazione del vincolante modello normativo, l’istituto più significativo ereditato dalla legge “Galasso”.
E diversi motivi di preoccupazione sono per altro legittimati dalla recente riforma del regolamento di organizzazione del ministero per i beni e le attività culturali dove al livello degli uffici dirigenziali centrali il paesaggio ha subito una singolare traslazione, essendo stato sottratto alla direzione generale per i beni architettonici (cui sono stati annessi a compensazione i beni storici, artistici ed etnoantropologici, giudicati non più degni di un autonomo ufficio apicale) per essere assegnato alla direzione generale per l’architettura e l’arte contemporanee, che assume quindi la nuova denominazione di direzione generale per la qualità e la tutela del paesaggio, l’architettura e l’arte contemporanee. L’aver creato una direzione generale per architettura ed arte contemporanee (cui non avrebbero corrisposto per quella specifica competenza uffici periferici) si era allora esposto a non infondate riserve (e alla ferma opposizione di Italia Nostra) non solo perché concettualmente priva di fondamento quella separazione da architettura ed arte non contemporanee, ma per la più preoccupante ragione che una istituzione del ministero veniva caricata della funzione di promozione e giudice della qualità della progettazione del nuovo. (Questa la tavola fondativa della direzione: “promozione della qualità del progetto e dell’opera architettonica ed urbanistica anche mediante ideazione e, d’intesa con le amministrazioni interessate, consulenza alla progettazione di opere pubbliche di rilevante interesse architettonico con particolare riguardo alle opere destinate a ad attività culturali, ovvero che incidano in modo particolare sulla qualità del contesto storico, artistico e paesaggistico ambientale”). Con la sfida della qualità, alla cui insegna ha operato quella direzione, sono stati legittimati interventi innovativi in ambienti monumentali, garantiti dalla selezione per concorso e dalla autorevolezza intimidatrice della archistar internazionale (la pensilina che Arata Isozaki ha immaginato dietro gli Uffizi, come - dice lui - moderna versione della loggia dei Lanzi; la grande teca di Meier per l’Ara Pacis che soffoca le monumentali chiese di san Rocco e san Girolamo degli illirici). Anche per il paesaggio dunque la sfida della qualità, che è l’indice di una preoccupante nozione della tutela, indulgente ad ogni trasformazione se sia affidata al pregio delle innovazioni garantito da una incontrollabile discrezionalità. Il paesaggio insomma come campo degli esercizi di stile della architettura di qualità. L’ovvia considerazione che il paesaggio (come lo spazio fisico in cui si registrano i sempre mutevoli equilibri tra i molteplici fattori che vi operano) è necessariamente sede di incontenibili trasformazioni, non contraddice la prima istanza, quella conservativa, della tutela (di fronte a rapidità di impiego ed efficacia dei mezzi di trasformazione che la tecnica ha oggi, come mai nel passato, messo a disposizione) e non vale a legittimare l’affermazione che è solo questione della qualità formale dell’intervento, chiamata a presiedere i processi del cambiamento anche radicale cui nessun luogo può essere sottratto. Fu giusto, io credo, negare a Renzo Piano il pur raffinatissimo intervento insediativo nella baia sistiana lungo il percorso rilkiano dei canti luinesi. Né il recente cedimento del soprintendente su un diverso progetto, proprio lì, di ben minore qualità può valere a riabilitare l’originaria idea inventiva di Piano. Come la qualità di Piano non è sufficiente a legittimare l’inserto della torre che si eleva ad oltre duecento metri (non vogliamo chiamarla grattacielo) nel paesaggio di Torino di cui diverrebbe il principale fulcro visivo anche a contrappunto della mole antonelliana, modificando il disegno urbano nella prospettiva aperta verso il vicino ambiente montano di sfondo. E se a questo proposito (e ad altri analoghi) è stato evocato il nesso tra tutela del paesaggio come disciplina dell’intervento umano negli ambienti naturali e urbani e la libertà dell’arte garantita dall’art. 33, primo comma, della costituzione, è agevole opporre che anche la libertà di espressione artistica è necessariamente limitata dall’esercizio di quella funzione della repubblica che è posta con rilievo preminente tra i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale.
Vorrà pur dire qualcosa se ancora oggi, nello sfondo della Gioconda di Leonardo da Vinci, più d’un ricercatore vede un rimando al medioevale ponte a Buriano che dal 200 in val di Chiana attraversa l’Arno. Vuol dire che il paesaggio innestato con equilibrio dagli interventi umani è uno degli elementi fondanti del territorio italiano e una delle ragioni per cui tanti stranieri affollano, durante l’anno, le campagne toscane o altri territori scampati a scempi o a troppe fabbricazioni. È soprattutto da spunti come questi e dall’articolo 9 della Costituzione, quello che affida allo Stato la tutela del patrimonio artistico e paesaggistico, che, su delega governativa del 2006 e su spinta dell’ex ministro Rutelli, la commissione guidata da Salvatore Settis ha riscritto il Codice dei beni culturali del 2004 (rivisto 2 anni fa, lo chiameremo Codice Urbani). Il consiglio dei ministri lo ha approvato prima di cadere, le commissioni di Camera e Senato devono dare il loro giudizio e il testo può tranquillamente diventare operativo perché a questo punto rientra nell’ordinaria amministrazione di un governo anche decaduto. Basta sia approvato entro il 30 aprile.
Come viene valutato dalle organizzazioni ambientaliste? Intervengono qui tre delle principali associazioni: Legambiente, il Fondo per l’ambiente italiano - Fai, Italia Nostra che sta conoscendo una nuova attività avendo una nuova presidenza e avendo superato lacerazioni e faide interne su cui non stiamo a ritornare. Per sintetizzarvi subito cosa ne pensano: anche se con sfumature a volte diverse, i tre gruppi danno un giudizio di massima positivo perché nella tutela del paesaggio lo Stato recupera un ruolo vincolante e limita quello delle amministrazioni regionali o locali e questo, secondo loro, protegge meglio colline, vallate e quant’altro non sia stato ancora devastato.
Per Italia Nostra parla il nuovo presidente, l’ex giudice di cassazione esperto in beni culturali Giovanni Losavio: «Nella precedente versione le soprintendenze davano pareri meramente consultivi nei procedimenti di approvazione dei piani paesaggistici e di gestione dei vincoli. Invece ora hanno un ruolo decisivo, esprimono pareri vincolanti e soprattutto il paesaggio è un bene culturale unitario e nazionale».
«Valutiamo molto bene il testo - commenta il direttore generale e culturale del Fai Marco Magnifico - perché la tutela del paesaggio è in capo allo Stato. Così è un evidente tema nazionale e non regionale come sancisce l’articolo 9 della Costituzione e come ha dovuto ribadire la Corte costituzionale a novembre. Questo testo riequilibra le funzioni degli organi dello Stato: non esclude certo Comuni, Province e Regioni. Piuttosto il paesaggio è inteso come il corpo umano dove ogni parte, dalle mani allo stomaco, fa la sua parte ma è una cosa unica e indivisibile».
«Per la fretta di dover approvare il Codice, purtroppo è mancato un confronto pubblico e con le Regioni e da questo sono derivate polemiche - nota Edoardo Zanchini, dirigente di Legambiente esperto della materia - È però una buona base di partenza per rimettere il paesaggio al centro della tutela».
Tuttavia le Regioni si sono arrabbiate. A cominciare dalla Toscana. Perché - sostengono - l’impostazione del codice Settis minerebbe i principi di autonomia a favore di un centralismo statalista. «Il paesaggio può e va tutelato attraverso le soprintendenze e quindi lo Stato, non è nelle disponibilità delle Regioni, altrimenti si viola la Costituzione», commenta Losavio. Ma perché insistere su questo tasto? «Il problema sono principalmente i piccoli Comuni - risponde Magnifico - Lo Stato da anni toglie loro soldi per coprire i servizi che devono coprire. Perciò l’unico modo che hanno per finanziarsi è ricorrere all’Ici e, con percentuale arrivata anche al 50%, agli oneri di urbanizzazione, ovvero devono far costruire. Non parlo del malcostume di eventuali sindaci magari imparentati a chi vuole edificare un capannone dove non dovrebbe. Parlo di chi è benintenzionato: deve arrangiarsi. Aggiungo che sulla tutela ritengo più competente l’architetto di una soprintendenza del geometra di un Comune, il cui mestiere è un po’ diverso. Stupisce però, e negativamente, come Regioni di destra e di sinistra si scaglino contro questo Codice: evidentemente non vogliono il ministero nella gestione perché forse considerano il territorio più una risorsa economica che da tutelare. Lo trovo un ragionamento miope». Un esempio aiuta a capire. «Eccolo: ingrandire il piccolo aeroporto di Siena come taluni vogliono danneggerà il paesaggio, porterà un turismo mordi e fuggi e alla lunga ne allontanerà un altro, più stanziale. Dove sarà il guadagno?». «Il rischio non sono necessariamente le Regioni, la Sardegna con Soru ha approvato il cosiddetto piano salva-coste con regole precise. Il rischio sono i Comuni ai quali le amministrazioni regionali hanno trasferito la gestione del bene paesaggistico - rincara Zanchini - Il Comune guadagna con gli oneri di urbanizzazione e ha fortissime pressioni per dire, ad esempio, che una schiera di villette è compatibile con il paesaggio».
«Lo Stato fa prevalere l’interesse nazionale su quello locale», insiste Losavio che però introduce un problema serio: «Le soprintendenze non hanno le strutture sufficienti per rispondere alla tutela per cui il ministro, chiunque sarà, avrà il dovere di renderle adeguate». A volte però anche le soprintendenze hanno rilasciato permessi che non dovevano rilasciare. Hanno dormito o peggio. «Nella valle dei templi ad Agrigento si sono visti soprintendenti chiudere gli occhi, altri dare autorizzazioni sbagliate, altri molto bravi», ricorda Zanchini. «In genere le soprintendenze non dormono però non hanno personale e mezzi per coprire un lavoro che si è decuplicato - annota Magnifico - Sì, il problema è grosso».
In maniera non convenzionale voglio parlare di una iniziativa interessante a cui mi è capitato di partecipare e intervenire, il convegno «Ambientalismo del fare» organizzato dal Pd a Firenze. Credo sia importante un’impostazione “positiva” delle politiche ambientali, in un clima innovativo, di svolta, che qualifica e riscatta la politica riformista da un ambientalismo ristretto e localistico con cui ci troviamo troppo spesso a fare i conti e che tende a esprimersi in cartelli del no. Tuttavia, mi pare che si debbano rilevare due problemi su cui è bene proseguire la discussione.
Il primo, di carattere generale, riguarda le politiche sui beni paesaggistici e il codice Settis, positivo per alcuni, assolutamente da rigettare per altri in quanto - cito le parole del presidente della Regione Toscana Claudio Martini - «un micidiale passo indietro che ci condanna all’arretratezza». Siccome le posizioni di Claudio Martini sono anche quelle delle altre Regioni e delle autonomie locali, credo sia giusto che il Pd apra una seria discussione, senza abbandonarsi a visioni e a timori centralistici.
La seconda questione riguarda una discussione più specifica sulla Toscana e i gruppi dirigenti del Pd e un rilievo critico su alcune dichiarazioni di Dario Franceschini che, a me che ho sostenuto che la Toscana non vuole essere solo la regione del “lardo di Colonnata”, ha ribattuto che gli imprenditori che fanno prodotti di nicchia rappresentano il nostro biglietto da visita vincente, lardo di Colonnata in testa. Ora, lasciamo in pace il lardo che è innocente, attività benemerita e gradita, ma se Franceschini, ferrarese, si sentisse dire che il biglietto da visita dell’economia emiliana è rappresentato dall’aceto balsamico, forse avrebbe anche lui da obiettare.
Dietro la discussione “lardo di Colonnata e sviluppo toscano”, si nasconde un problema che trovo utile riproporre quale riflessione a proposito del rapporto tra Pd toscano e nazionale. La Toscana non è l’Arcadia, terra di buen retiro, buona solo per i fine settimana di turisti d’elite e ospiti illustri, ma una regione moderna. Che vanta eccellenze di tipo industriale, dal Nuovo Pignone alle imprese postindustriali e postdistrettuali fino al polo siderurgico di Piombino.
Intorno a Firenze esiste il terzo polo metalmeccanico del Paese, tra Firenze e Pisa si trova il secondo polo della ricerca scientifica italiana. La parola chiave a me pare "innovazione" e ciò riguarda il complesso della regione: produzioni tipiche, industria, terziario. Aggiungo anche innovazione ecologica e ambientale. Siamo un pezzo di Italia di oggi e solo con una iniezione di dinamismo potremo fare buone politiche per un territorio capace, in grado di porsi in modo sostenibile e competitivo in Europa e nel mondo.
In ampi settori dell’opinione pubblica progressista invece, e anche nel Pd, esistono della Toscana immagini lusinghiere ma troppo ristrette e contemplative che alla fine rischiano di creare qualche equivoco di non poco conto con i ceti più dinamici della cultura, del lavoro, dell’impresa.
Attenzione, il punto è politico. Perché in Toscana siamo in grado di esprimere opinioni e azioni guidate da strategie alte e complesse - il Piano regionale di sviluppo, il Piano di indirizzo territoriale - e, se non è chiedere troppo, quando si parla di Toscana, i dirigenti del Pd potrebbero tenerne conto. Perché la nostra collocazione nella divisione del lavoro la scegliamo noi toscani. E ci piacerebbe fosse apprezzato l’atteggiamento riformista del Pd toscano e dei suoi dirigenti che potrebbero amministrare una posizione di rendita anche elettorale, e invece hanno scelto di mettersi in discussione con visioni innovative e coraggiose che tengono insieme città d'arte e grandi centri industriali, porti e centri di ricerca, tutela e sviluppo.
Come ha scritto su Repubblica Ilvo Diamanti, il contraccolpo di una politica troppo “romana” in certe zone come la Toscana, abituate a una politica partecipata, attiva, dotata di “autonomia”, potrebbe far correre il rischio non solo di impoverimento politico e culturale, ma di perdita di egemonia fino a pericolose derive elettorali.
Assessore al territorio e alle infrastrutture
Regione Toscana
Quel che temevamo sta purtroppo accadendo, il fronte regionale, già ostile ai pur cauti emendamenti al Codice introdotti da Buttiglione nel 2006, si sta ricompattando su un'opposizione netta e senza margini di discussione nei confronti di quello che, probabilmente in dispregio nei confronti del ministero, viene definito “codice Settis”, il quale, senza mezze misure, è bollato da Martini come «un micidiale passo indietro che ci condanna all’arretratezza».
Lo scontro era prevedibile e costituisce, in fondo, lo sbocco di una stagione di contrapposizione istituzionale strisciante della quale, già in altre occasioni, abbiamo sottolineato la sterilità, ma che rientrava, a pieno titolo, in una pratica non negativa e trasparente dell'agire democratico.
In tutto l'articolo, però, al di là della solita polemica nei confronti del turismo elitario della domenica, ritenuto quindi uno dei pericoli maggiori per l'agognato sviluppo del territorio, non è dato riscontrare il minimo rilievo di merito ai contenuti degli emendamenti licenziati dal Consiglio dei Ministri. La solita sequenza di parole d'ordine quali “innovazione”, “iniezione di dinamismo”, "strategie alte e complesse" che avevano connotato il P.I.T. Toscano e sulla cui pochezza culturale eddyburg si era già espresso.
Ma l'opposizione al Codice si ammanta ora, nelle parole di Conti, di aspetti davvero inquietanti, che è lo stesso autore a sottolineare con un richiamo: “Attenzione, il punto è politico” e che culminano in quelle “pericolose derive elettorali” evocate in explicit. L'intervento nel suo insieme si pone come un messaggio esplicito nei confronti dei propri referenti politici nazionali affinchè intervengano contro la visione “centralistica” propugnata dal Codice, a meno che non vogliano rischiare un “impoverimento politico e culturale” che una regione “dotata di autonomia” come la Toscana potrebbe essere tentata di attivare.
Che il Codice possa essere criticato, nel merito e nel metodo di elaborazione, non si discute, ma che invece di affrontare una confronto pur acceso nelle sedi deputate (Conferenza Stato regioni) e con gli interlocutori istituzionalmente preposti (Ministero beni culturali in primis) si preferisca inviare messaggi trasversali per via partitica è un ennesimo tristissimo segnale della deriva della nostra vita democratica. (m.p.g.)
A chi appartiene il paesaggio? Chi è il legittimo “proprietario” del territorio, cioè di quel patrimonio costituito nel tempo dalla natura e dalla storia? Le popolazioni che lo abitano oppure l’intera nazione?
Di fronte allo scempio del Belpaese, consumato dalla distruzione dell’ambiente, dalla cementificazione selvaggia, dagli abusi edilizi, dall’inquinamento dell’aria e dell’acqua, la tutela del paesaggio assume un valore culturale determinante per la difesa della nostra identità collettiva. E nel pieno dell’emergenza rifiuti che sta deturpando agli occhi del mondo l’immagine di Napoli, della Campania e purtroppo di tutta l’Italia, diventa una priorità nazionale per salvaguardare – oltre alla salute pubblica – anche gli interessi sociali ed economici dei cittadini, delle generazioni presenti e di quelle future.
La riforma del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio predisposta dal ministro Francesco Rutelli e varata in extremis dal governo uscente, a quattro anni dalla legge-delega dell’ex ministro Giuliano Urbani, rappresenta perciò un’occasione decisiva per segnare una svolta nella vita della nostra collettività. Può essere, insomma, l’inizio di una rifondazione ecologica del Paese, la prima pietra di una “nuova Italia”, più ordinata, più pulita e dunque più vivibile. Se le Commissioni parlamentari a cui spetta ratificare entro tre mesi i 184 articoli del decreto legislativo avranno la capacità di approvarlo integralmente, magari al di là della logica degli schieramenti contrapposti, forse potrà partire proprio da qui un moderno “rinascimento” civile o quantomeno una fase virtuosa nella gestione dell’ambiente, inteso nel senso più largo come sistema di relazioni con la natura e con il prossimo.
Fondato sull’articolo 9 della Costituzione, in cui si sancisce in modo solenne che la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, il Codice interviene opportunamente sul nodo dei rapporti tra governo centrale ed enti locali, per riportare questa responsabilità nell’ambito di una visione più generale. Si riduce così un eccesso di delega che, in questo come in altri campi, ha prodotto una sovrapposizione e frammentazione di poteri decisionali tra Regioni, Province e Comuni, spesso a danno della trasparenza, della legalità e soprattutto dell’interesse collettivo. Se la salvaguardia del lago di Garda coinvolge contemporaneamente la Lombardia, il Veneto e il Trentino; o quella del lago Trasimeno riguarda la Toscana e l’Umbria; se l’infausto progetto dell’autostrada della Maremma attraversa (speriamo solo sulla carta) la Toscana e il Lazio; se la difesa della Sila, del Pollino o delle Murge chiama in causa la Calabria, la Basilicata e la Puglia, evidentemente l’unica autorità in grado di provvedere adeguatamente è proprio quella statale come punto di riferimento e di mediazione.
Al contrario, un malinteso federalismo può solo alimentare gli egoismi e i particolarismi, disgregando ulteriormente il territorio, il paesaggio e il tessuto civile del Paese. Dall’ambiente al fisco, passando per la scuola, la sanità e la spazzatura, l’autonomia delle amministrazioni locali non deve confliggere con una politica organica di programmazione e di solidarietà. Il federalismo, d’altronde, nasce storicamente per unire e non per dividere, serve per crescere e non per regredire.
Elaborata da una commissione speciale che ha lavorato per un anno e due mesi, sotto l’autorevole presidenza del professor Salvatore Settis, la riscrittura del Codice è stata avallata in corso d’opera dalla stessa Corte costituzionale, con un’importante sentenza del novembre scorso (n.367/2007). La tutela del paesaggio, come ha ribadito la Consulta, costituisce un valore primario e assoluto. E perciò, rientra nella competenza “esclusiva” dello Stato, precedendo e limitando il governo del territorio attribuito agli enti locali.
Da qui, appunto, l’obbligo di elaborare i piani paesaggistici con una pianificazione congiunta fra Stato e Regioni. In questo iter amministrativo, è previsto poi il parere vincolante delle Sovrintendenze su qualsiasi intervento urbanistico o paesaggistico che incida su territori vincolati. Mentre la sub-delega dalle Regioni ai Comuni, per i piani e le licenze edilizie, è subordinata all’istituzione di uffici con competenze specifiche.
Un’altra rilevante novità contenuta nel Codice riguarda il potere attribuito al ministero dei Beni e delle Attività culturali di apporre vincoli paesaggistici “ex novo”. Al momento, il territorio italiano è già protetto per il 47% dell’estensione complessiva. Ma la sua particolare configurazione, prodotta storicamente dall’intreccio fra la natura e la mano dell’uomo, richiede in effetti un’ulteriore tutela per salvaguardarne la straordinaria identità: con ottomila nuclei storici, il nostro è – come si dice in linguaggio tecnico – il Paese più “antropizzato” del mondo. Sono numerosi e frequenti, tuttavia, i casi in cui l’urbanizzazione provoca un “consumo del territorio” senza incorrere formalmente nell’abusivismo, producendo costruzioni legali con tanto di autorizzazioni e licenze edilizie in quelle che Rutelli definisce le “aree grigie”. E a parte alcune iniziative esemplari, come quella che ha ridimensionato in corso d’opera la “villettopoli” di Monticchiello in Val d’Orcia, gli interventi postumi risultano comunque più limitati e laboriosi. Carte bollate alla mano, non sempre si riesce ad abbattere gli ecomostri che proliferano da Nord a Sud, sull’esempio di quello che s’è fatto a Punta Perotti, sul lungomare di Bari.
Il paesaggio appartiene dunque a tutti. Non è né di destra né di sinistra. È una grande risorsa collettiva, ambientale e anche economica, da cui dipendono la salute dei cittadini, lo sviluppo del turismo e la stessa occupazione del settore, oltre all’identità e all’immagine del Paese. C’è da auspicare perciò che, nonostante le convulsioni della politica nazionale, la riforma del Codice venga approvata in tempo utile, quale che sia il governo in carica e la maggioranza parlamentare che lo sostiene.
Leggo sul “Tirreno” del 25 che l’assessore regionale Riccardo Conti ha definito, bontà sua, le Soprintendenze “non attrezzate culturalmente” per affrontare i problemi della pianificazione del territorio e del paesaggio. Mentre lo sono le Regioni che, avuta la competenza urbanistica e paesaggistica nel 1977, per otto anni si disinteressarono della seconda costringendo il Parlamento a varare la legge Galasso poi disattesa dalle Regioni medesime (per poi sub-delegare ai Comuni coi risultati che si vedono, a occhio nudo).
Leader in Parlamento fu un certo Giulio Carlo Argan che, si sa, non era “attrezzato culturalmente”. Ma nell’articolo c’è di peggio, nel senso che viene riferita l’opinione del presidente dell’INU, Oliva, il quale dice in sostanza che le Soprintendenze non sono adeguate perché costituite nel 1939, da Bottai, cioè in pieno fascismo. Abbiamo conosciuto, per fortuna, altri presidenti dell’INU, che si chiamavano, per esempio, Edoardo Detti, il quale non avrebbe mai commesso un simile clamoroso errore. Le Soprintendenze furono infatti create nel 1904, in piena era giolittiana, cioè in uno dei momenti più alti del riformismo italiano. Quanto a Bottai, ebbe l’intelligenza politica di prendere le due leggi, la Rosadi sul patrimonio storico-artistico (1909) e la Croce sulle bellezze naturali (giugno 1922, prima della marcia su Roma), riverniciarle con un po’ di centralismo in più e riproporle.
Se sono durate fino agli anni 80-90 dovevano essere proprio ben fatte. Difatti risalivano nella struttura al miglior riformismo. Non al pseudofederalismo in cui stiamo precipitando grazie anche ai pasticci inverecondi del Titolo V della Costituzione varato per compiacere la Lega Nord. Ma che tristezza.
L'autore è Presidente del “Comitato per la Bellezza”
Le modifiche riguardano sia la parte Beni culturali sia la parte Paesaggio.
Queste le maggiori novità.
Beni Culturali
- più efficace coordinamento tra disposizioni comunitarie, accordi internazionali e normativa interna per assicurare il controllo sulla circolazione internazionale dei beni appartenente al patrimonio culturale specificando che questi non sono assimilabili a merci;
- conferma della disciplina della Convenzione Unesco del 1970 sulla illecita esportazione dei beni culturali e sulle azioni per ottenerne la restituzione;
- salvaguardia del patrimonio culturale immobiliare di proprietà pubblica nell’ipotesi di dismissione o utilizzazione a scopo di valorizzazione economica mediante il ripristino dell’impianto normativo del DPR n. 23 del 2000 (cosiddetto Decreto Melandri) allo scopo di scongiurare la dispersione di immobili pubblici di rilevanza culturale e previsione di una clausola risolutiva automatica degli atti di dismissione per il caso di mancato rispetto delle nuove regole. Le modifiche tendono pertanto a porre riparo agli effetti all’epoca tanto contestati della normativa Urbani sulla dismissione del patrimonio immobiliare pubblico.
Paesaggio
Le modifiche alla parte Terza del Codice riguardante il paesaggio muovono dalla considerazione, di recente ribadita dalla Corte Costituzionale con sentenza 14 novembre 2007 n. 367, che il paesaggio è un valore “primario e assoluto” che deve essere tutelato dallo Stato prevalente rispetto agli altri interessi pubblici in materia di governo e di valorizzazione del territorio.
Partendo da questo presupposto le novità introdotte dal provvedimento rafforzano la tutela del paesaggio a vari livelli:
- definizione di paesaggio. Sulla scorta dei principi espressi dalla Corte Costituzionale è stata formulata una nuova definizione di “paesaggio” adeguata ai principi della Convenzione Europea ratificata nel 2004 nonchè alle finalità di tutela del Codice.
- pianificazione paesaggistica. Viene ribadita la priorità della pianificazione come strumento di tutela e di disciplina del territorio. Pur rientrando la redazione del piano tra le competenze delle regioni è riconosciuta al Ministero dei beni culturali la partecipazione obbligatoria alla elaborazione congiunta con le regioni di quelle parti del piano che riguardano beni paesaggistici (vincolati in base alla Legge Galasso o in base ad atti amministrativi di vincolo). Ciò dovrebbe servire a stabilire fin da principio delle regole certe e univoche dalle quali non possono sottrarsi gli strumenti urbanistici e gli atti di autorizzazione alla realizzazione di interventi sul paesaggio. La finalità è anche quella di eliminare, data la certezza delle regole, un inutile e attualmente cospicuo contenzioso sulle autorizzazioni richieste attualmente in base all’insussistenza di regole.
- autorizzazione degli interventi sul paesaggio. Attualmente le Soprintendenze rivestono un ruolo marginale essendogli consentito un mero controllo di legittimità successivo sull’autorizzazione rilasciata dai comuni. Col nuovo Codice le Soprintendenze dovranno emettere un parere vincolante preventivo sulla conformità dell’intervento ai piani paesaggistici ed ai vincoli così rafforzando la tutela del paesaggio.
Nel senso della semplificazione e della accelerazione del procedimento amministrativo viene abbreviato il termine che le Soprintendenze hanno a disposizione per emettere il parere, portato da sessanta a quarantacinque giorni. Scaduto tale termine, viene indetta una conferenza di servizi nell’ambito della quale il soprintendente ha ancora 15 giorni per emettere il proprio parere. In mancanza, decide la regione o il comune delegato. Infine, la delegabilità ai comuni del potere di autorizzazione è limitata ai casi in cui i comuni dispongano di adeguati uffici tecnici ed assicurino la separazione tra gli uffici che valutano gli aspetti urbanistici e quelli che valutano gli aspetti paesaggistici;
- revisione dei vincoli. Viene introdotto l’obbligo di rivedere entro un anno i vincoli esistenti, allo scopo di specificare le regole che devono essere osservate in virtù del vincolo (inedificabilità assoluta, ovvero edificabilità entro limiti e con prescrizioni precise e certe);
- demolizioni. Viene prevista l’istituzione di un’apposita struttura tecnica presso il MIBAC incaricata di assistere i comuni e di intervenire quando necessario direttamente, per la demolizione degli ecomostri. La disposizione va letta congiuntamente con la disposizione contenuta nella Legge finanziaria 2008 (art. 2, comma 404 e 405) che stanzia 15 milioni di Euro all’anno a partire dal 2008 per gli interventi di recupero del paesaggio.
Facile dire che non inanella colpi di scena come l’ipercitato Codice da Vinci, ciononostante la rivisitazione del Codice dei beni culturali voluta dal ministro Rutelli e coordinata dal presidente del consiglio superiore Settis riserva qualche sorpresa di peso, a una prima lettura.
A partire dal paesaggio, si può sintetizzare che Rutelli corregge Urbani.
Che ora risponde con più chiarezza a una concezione unitaria per l’intero Paese. Ad esempio, se una Regione approva un piano paesistico, sarà più difficile «infilare» localmente interventi urbanistici che da quel programma svicolano: questo è importante, poiché in Italia è grazie a modifiche a posteriori che spesso uno scempio bloccato alla porta rientra dalla finestra. Il documento su come gestire e difendere il patrimonio artistico è pronto. Sorti governative permettendo, dovrebbe andare nel primo consiglio dei ministri utile prima di passare al parere delle commissioni competenti di Camera e Senato. In quanto modifica di un decreto legislativo il testo non deve attraversare l’aula del Parlamento e cambia l’ultima versione del famoso Codice Urbani approvata il 2 marzo 2006 (quella già priva, per chiarire, dell’originaria e devastante norma del «silenzio-assenso» sulla vendita di beni).
Nella sua gestazione, il documento, lungo quasi 100 cartelle, ha visto alcune Regioni opporre resistenza su alcuni passaggi su tutela e salvaguardia, resistenza alla quale Settis si è però a sua volta opposto. Il Codice conta 184 articoli.
Sul paesaggio (o «beni paesaggistici »), il clou parte dal 131. Urbani aveva saputo inserire il paesaggio in modo più organico tra i beni culturali, ma alle poche striminzite e insufficienti righe di articoli, come il 131, la versione 2008 non allunga il brodo bensì puntualizza, ne estende la concezione. Su un punto-chiave il testo chiarisce che è lo Stato a definire «in via esclusiva» la tutela paesaggistica e che entro i limiti di questa definizione le Regioni devono stare. Inoltre la tutela non serve solo a «riconoscere e salvaguardare» ma anche «ove necessario a recuperare i valori culturali che esso esprime». Dove la chiave di volta è il verbo «recuperare» poiché indica che eventuali disastri non sono flagelli ineluttabili bensì vanno riparati (aiuterà qui ricordare che il governo Prodi ha dato a Rutelli 15 milioni di euro per demolire abusi edilizi in zone di pregio).
Saltellando di poche righe, con l’articolo 135 i piani paesaggistici e di competenza delle Regioni estendono la salvaguardia, oltre che ai siti scelti dall’Unesco, ai «paesaggi rurali» e non solo alle «aree agricole»: un concetto sicuramente più vasto.
Ancora: quei piani che spettano alle Regioni e - altra aggiunta - che«si riferiscono all’intero territorio considerato», devono stabilire criteri e limiti con cui si può costruire qualcosa, poi devono anche riqualificare «aree compromesse o degradate».
Il Codice Rutelli-Settis quindi insiste su una filosofia nuova: un guasto si può (e si deve) riparare. Qualche altra innovazione: una cosa «di interesse pubblico», una volta parte integrante del piano paesistico, non può essere rimossa né modificata; città, aree metropolitane ed enti quando fanno una pianificazione urbanistica devono adeguarla al piano paesaggistico della Regione; e ancora, quel piano non può essere cambiato se il mutamento fa a pugni con le prescrizioni di tutela che il piano stesso contiene.
Non è chiaro viceversa perché, mentre i centri storici entrano nelle aree di forte interesse pubblico, quelle archeologiche vi vengano estromesse. L’articolo146 chiarisce bene e con forza che nessun privato può toccare alcunché, anche di suo, se non ottiene l’autorizzazione.
Qualche perplessità può suscitarla la scansione dei tempi: il/la soprintendente deve dare il parere entro 45 giorni e non più 60. Però se il giudizio non arriva non scatta un «silenzio-assenso »: servono altri 15 giorni e alla fine la palla passa alla Regione. C’è molto altro, naturalmente (come un riconoscimento al ruolo dei disabili). Uno dei pochi ad aver letto il Codice rivisitato, il segretario nazionale sui beni culturali della Uil Cerasoli, intanto esprime «una prima valutazione positiva con la speranza che tutti i soggetti coinvolti lo applichino».
Governo colpevole. Solo da oggi? Solo lui? Bello, intenso l’Eddytoriale 109 del 15 dicembre. Tempestiva la protesta del Comitato per la bellezza circa la finanziaria che non solo conferma la nota schifezza ma la prolunga di tre anni, fino al 2010.
Ma.
Dopo la cancellazione nel 2001 della norma voluta da Pietro Bucalossi (nessuno più dei milanesi può rimpiangere questa figura), per cinque anni il centrosinistra all’opposizione ha taciuto. Non ha protestato, non ha smascherato la malefatta, non ha nemmeno spiegato agli ingenui, se mai ce ne fossero, che cosa c’era dietro il finanziamento dei bilanci mediante gli oneri di urbanizzazione: l’ultima mazzata sulla “speranza di salvezza per il già intaccato e manomesso paesaggio italiano” (Vittorio Emiliani, documento del Comitato per la bellezza, in eddyburg). Poi, conquistato il governo, il centrosinistra non ha fatto altro che procedere, come in merito a tanta altra materia di interesse culturale e sociale, copiando il centrodestra. ( l’Unità, 16 dicembre, cita il ministro Livia Turco che, riguardo al tema della laicità, afferma che “il Pd non deve essere una brutta copia di Forza Italia” (p. 4) – pensate, una copia addirittura brutta).
E perché tanto scalpore adesso? Non da oggi i Comuni, più o meno quatti dapprima e poi senza remore circa paesaggio e bellezza, effettiva utilità comunitaria, insomma cautela urbanistica, dispensano ad arte concessioni edilizie che, oltre a distribuire ingiuste ma apprezzate da loro extrarendite, mettono qualche puntello a bilanci magari mal costruiti. Il governo è colpevole. Ma troppi sindaci mostrano una tale propensione a edificare in qualsiasi maniera il territorio che il loro pianto per dover ricorrere agli oneri di urbanizzazione ai fini di bilancio è sospetto. Un’infinità di episodi raccontati anche in eddyburg hanno mostrato il fastidio dei sindaci verso i mezzi, costituzionali o consuetudinari o culturali, atti a difendere il paesaggio italiano dai noti aggressori; a curarlo, mantenerlo per le generazioni future.
Quante volte abbiamo protestato contro la rivendicazione capziosa dell’autonomia locale consistente da una decina d’anni nel super-potere di sindaci e giunte e nella debilitazione dei Consigli comunali? Quante contro il trasferimento da Regione ai Comuni delle competenze relative al paesaggio, come se questo fosse un dato, un problema localistico? Cosa c’entravano gli oneri di urbanizzazione con il caso Monticchiello (Regione Toscana, Comune di Pienza)? Fin troppo discusso a dir il vero, però emblematico stante che la Val d’Orcia con le nuove lottizzazioni (seconde case, peraltro) è a un tiro di schioppo dalla piazza Pio II dovuta al più eminente progetto urbanistico della storia italiana. Che dire oggi dell’altra alleanza fra il governatore della Toscana Martini e il sindaco di Montaione per concedere a una multinazionale tedesca una colossale speculazione territoriale nel borgo di Castelfalfi ( l’Unità del 16.12, intervista a Claudio Martini di V. Frulletti)? Oneri o no, questo volevano ad ogni modo; la notizia è apparsa mesi fa sui quotidiani. Campione di gesuitismo, Martini, che taccia di burocratismo “il controllo centralizzato nel governo del territorio, estromettendo le comunità locali” a fronte, per mirabile esempio, del consenso espresso al sindaco in una riunione notturna di trecento persone. Tra l’altro il giornale scrive spensieratamente di “insediamento turistico”. Sappiamo che il gruppo tedesco prevedrebbe, oltre a una cosiddetta valorizzazione dell’antico borgo, un campo di golf nientemeno che doppio, 18 + 18 buche, con l’immancabile contorno. D’altronde, cosa potrebbe fare una multinazionale se non fregarsene totalmente del paesaggio toscano in un ampio tratto collinare fra i pochi quasi intatti del nostro paese? (Per memoria: a sud di Castelfiorentino, a ovest di Certaldo; San Gimignano è un po’ più lontana a sud-est – circa 20 km – e ci si può andare attraverso splendide tortuose stradette secondarie).
Toscana di là, Lombardia di qua. I Comuni che vogliono costruire nel territorio vincolato del Parco Sud milanese giustificano la violazione anzitutto non con esigenze del bilancio ma con la presunta necessità di urgente espansione edilizia. Motivata come? Non si sa, oppure l’urgenza riconosciuta è quella degli imprenditori speculatori. La Regione concede, e vara opportune norme. Anzi, l’edificazione nelle aree verdi vincolate (agricoltura, parchi, riserve ambientali…) sta diventando la nozione, la pratica usuale indipendentemente dalla questione degli oneri, giusto in tempo per varare nuovi piani d’espansione edilizia coerenti (sigla P… a scelta) o per sbeffeggiare l’eventuale opposizione alla costruzione di autostrade nei parchi (esempio il povero parco del Ticino che sarà scassato verso sud dall’autostrada di settanta chilometri Broni-Stroppiana e verso nord dalla bretella per l‘aeroporto della Malpensa). Se poi l’abuso avviene per cause diciamo socio-sanitarie di speciale risonanza, come la prevista costruzione del nuovo centro oncologico di Veronesi, enorme insediamento comprendente ricche abitazioni dei medici, servizi extra-ospedalieri e tutto quanto d’inutile al giorno d’oggi usa infilare in ogni progetto, è vietata ogni critica. Anche se, in questo caso milanese, parlar male di Garibaldi vorrebbe dire non solo farlo verso Veronesi, il presidente della Provincia ex Ds Penati e il sindaco, ma anche verso lo “storico”, per così dire, speculatore immobiliare Ligresti, famosissimo trasgressore di leggi e norme urbanistiche ed edilizie.
Potrei proseguire oltre la Toscana e la Lombardia e disegnare una fitta mappa della mia disperazione provocata dalle scelte di Regioni di destra e di sinistra, di Comuni idem, infine e di più da troppe decisioni del governo nulla c’entranti con le nostre speranze di cambiamento: riguardo alla generalità dei problemi e, particolarmente, alla difesa e al restauro del poco territorio sfuggito alla congiura dei suoi diversi assassini.
Bellezza e relativo comitato. Mi sembra maturo il momento per mutarne il nome in un altro meno insensato, giacché è difficile negare che non abbia vinto il contrario, della bellezza d’Italia decantata primatista mondiale.
Milano, 17 dicembre 2007
La consapevolezza del valore dell’ambiente, della storia, dell’interesse collettivo, sembra essere estranea alla cultura della classe dirigente attuale.Un comunicato stampa del Gruppo Consiliare Verdi per la Pace della Regione Lombardia ci informa che il 7 novembre scorso l’assessore all’Urbanistica della Regione Lombardia Davide Boni, nella seduta della V Commissione consiliare convocata per discutere le proposte di modifica della legge regionale di governo del territorio (n.12/2005), ha annunciato un ulteriore emendamento della maggioranza che potrebbe generare gravissime conseguenze sulla tutela e gestione delle risorse territoriali e sul sistema della pianificazione.
La modifica annunciata consentirebbe ai Comuni di introdurre, mediante i propri Piani di Governo del Territorio e grazie a procedure semplificate attribuite per competenza alla Regione, espansioni insediative all’interno dei perimetri dei Parchi Regionali. Gli ingenti consumi di suolo che si continuano a registrare anche negli ultimi anni nella regione padana, la crescente compromissione delle risorse territoriali ed ambientali, l’importanza dei territori dei Parchi come presidi per la conservazione di ecosistemi naturali e per la realizzazione di reti ecologiche in contesti fortemente urbanizzati (tutte questioni che sono state, ad esempio, assunte come cruciali nella recente proposta di revisione del Piano territoriale della Provincia di Milano) non sembrano preoccupare il governo regionale. Nell’ipotesi avanzata dalla maggioranza lombarda, l’espansione dei singoli Comuni, sottratta a logiche di coordinamento anche nei territori dei Parchi, potrà depauperare gli spazi naturali e le aree dedicate all’agricoltura non solo delle superfici direttamente coinvolte dal processo di trasformazione urbanistica ma anche della loro compattezza, continuità e, in definitiva, della loro effettiva capacità di rigenerazione ecologica.
Tutto ciò avviene mentre il Comune di Milano e la Regione Lombardia, nella promozione dei grandi progetti e dei grandi eventi internazionali, aspirano a diffondere e consolidare una immagine di lungimirante attenzione alla tutela e alla riqualificazione dell’ambiente.
E’ necessario che questo emendamento, palesemente contraddittorio rispetto ad altre ambiziose iniziative attualmente in corso ed inaccettabile per gli effetti territoriali che potrebbe determinare, venga immediatamente ritirato.
Eddyburg si rivolge al mondo della cultura e delle professioni, alle istituzioni e ai comitati per la difesa del territorio affinché venga sottoscritto questo appello.
[in fondo alla pagina è disponibile il pdf col proposto emendamento, e un comunicato stampa di Legambiente che lo commenta]
Hanno sottoscritto:
Mauro Agnoletti, Alberto Asor Rosa, Paolo Baldeschi, Silvano Bassetti, Piero Bevilacqua, Stefano Boato, Fabrizio Bottini , Roberto Camagni, Piero Cavalcoli, Giancarlo Consonni, Jacopo Corsentino, Luisa De Biasio Calimani, Stefano Deliperi, Vezio De Lucia, Damiano Di Simine, Vittorio Emiliani, Roberto Gambino, Maria Cristina Gibelli, Maria Pia Guermandi, Francesco Indovina, Alberto Magnaghi, Anna Marson, Lodovico Meneghetti, Luca Mercalli, Pietro Mezzi, Antonio Monestiroli, Carlo Monguzzi, Carla Ravaioli, Edoardo Salzano, Marcello Saponaro, Graziella Tonon, Sauro Turroni, Elio Veltri
Di seguito, in ordine alfabetico, alcune fra le prime adesioni
Mario Agostinelli, Capogruppo PRC Consiglio Regionale Lombardia
Gastone Ave, docente, Università di Ferrara
Gianni Beltrame, urbanista, Milano
Maria Berrini, presidente di Ambiente Italia
Carlo Bertelli, professore emerito, Università di Losanna
Rossana Bettinelli, architetto, vicepresidente nazionale, presidente sez. Brescia, Italia Nostra
Bianca Bottero, professore ordinario di progettazione ambientale (ora in pensione), Politecnico di Milano
Sergio Brenna, professore straordinario di urbanistica, facoltà di Architettura civile del Politecnico di Milano
Aurelio Bruzzo, professore ordinario, Università di Ferrara, Facoltà di Economia
Teresa Cannarozzo, ordinario di Urbanistica, Università di Palermo
Eva Cantarella, ordinaria di Diritto greco, Università Statale di Milano
Luca Carra, giornalista, presidente di Italia Nostra, Milano
Alessandro Cecchi Paone, giornalista, Milano
Rita Cellerino, professore ordinario, Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione e Università del Molise
Marco Cipriano, Vicepresidente Consiglio Regionale della Lombardia
Don Virgilio Colmegna, presidente della Casa della Carità, Milano
Attilio Dadda , Presidente Coordinamento dei Parchi della Lombardia, Presidente Parco Regionale Adda Sud
Alessandro Dal Piaz, docente ordinario ICAR 21, Università Federico II di Napoli
Silvano D’Aprile, responsabile della Comunità Sostare, Milano
Inge Feltrinelli, editrice, Milano
Giampietro Ferri, professore di Diritto costituzionale, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Verona
Dario Fo, premio Nobel per la letteratura
Francesco Forte, professore ordinario di Urbanistica, direttore del Dipt. di Conservazione, Università degli Studi di Napoli Federico II
Jacopo Gardella, architetto, Milano
Gioia Gibelli, presidente Società Italiana Ecologia del Paesaggio
Tommaso Giura Longo, professore, Università di Palermo
Paolo Hutter, giornalista, Milano
Giuseppe Las Casas, prof. ordinario, Università degli Studi della Basilicata, Facoltà di Ingegneria di Potenza
Fabio Lopez Nunes, membro della Commissione mondiale per le Aree Protette dell'Unione Internazionale per la conservazione della Natura (UICN)
Guido Martinotti, ordinario di Sociologia urbana, Università degli Studi – Bicocca
Antonietta Mazzette, professore ordinario di Sociologia Urbana, Università di Sassari
Alberto Mioni, professore ordinario di Tecnica urbanistica, Politecnico di Milano
Mario Morganti e Maria Campidoglio, Presidente e segretaria del Circolo Polis - Gruppo di studio sul territorio, Milano
Milly Bossi Moratti, Presidente di ChiamaMilano
Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente FAI Fondo per l' Ambiente Italiano
Federico Oliva, presidente INU, professore ordinario di urbanistica, Politecnico di Milano
Raffaele Paloscia, professore ordinario,Università di Firenze, Direttore del Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio
Tomaso Pompili, ordinario di Economia territoriale, Università Bicocca, Milano
Franca Rame, senatrice
Augusto Rossari, docente di Storia dell'Architettura, Politecnico di Milano
Maurizio Sali, Vice Presidente Parco Regionale del Mincio, Mantova
Riccardi Sarfatti, coordinatore dell'Unione in Regione Lombardia
Gianni Scudo, professore ordinario, Dip BEST, Politecnico di Milano
Elenco delle adesioni (prima parte)
Elenco delle adesioni (seconda parte)
Sulla Repubblica del 19 novembre Mario Pirani ha attirato l'attenzione sull'assalto al paesaggio italiano, e sull'intreccio di norme e competenze che lo incoraggia. Per cercare una soluzione, auspicata sullo stesso giornale da Francesco Rutelli (15 novembre) con dure parole contro «i programmi di edificazione che possono irreversibilmente far male al Paese», è bene richiamare i "precedenti" del problema.
La tutela del paesaggio in Italia è più recente di quella del patrimonio culturale, ma si innesta sullo stesso tessuto etico, giuridico, civile e politico. Difesa dei monumenti e difesa del paesaggio si legano nel primo Novecento: un articolo di Corrado Ricci su Emporium (1905) mette insieme il tentativo di aprire una nuova porta nelle mura di Lucca (battuto da una campagna di opinione, che incluse Pascoli e D'Annunzio) e le minacciate distruzioni della cascata delle Marmore e della pineta di Ravenna, poco dopo protetta da apposita legge. Ma la prima legge sul paesaggio fu presentata nel 1920 da Benedetto Croce, ministro della Pubblica Istruzione nell'ultimo governo Giolitti.
La relazione Croce invoca «un argine alle devastazioni contro le caratteristiche più note e più amate del nostro suolo», perché la necessità di «difendere e mettere in valore le maggiori bellezze d'Italia, naturali e artistiche» risponde ad «alte ragioni morali e non meno importanti ragioni di pubblica economia». Il paesaggio «altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari (...), formati e pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli». Si nasconde qui una citazione della formula di Ruskin, il paesaggio come «volto amato della Patria»; ma ancor più notevole è che Croce cercasse precedenti nella legislazione degli antichi Stati italiani, trovandoli nei «Rescritti Borbonici del 1841, 1842 e 1843», che «vietavano di alzare fabbriche, che togliessero amenità o veduta lungo Mergellina, Posillipo, Capodimonte». È sui principi della legge Croce (778/1922) che si fondò la legge Bottai 1497/1939 sulla «protezione delle bellezze naturali», non a caso emanata poco dopo la parallela legge 1089/1939 per la tutela del patrimonio culturale.
La legge Bottai fissa due strumenti per la tutela del paesaggio: l'identificazione delle aree protette «a causa del loro notevole interesse pubblico» e la redazione per cura del Ministero di «piani territoriali paesistici», da depositarsi nei singoli Comuni.
Questo sistema centralizzato non poteva resistere all'impetuoso sviluppo abitativo dopo la guerra. Già la legge urbanistica del 1942 aveva introdotto percorsi misti, aggiungendo ai «piani regolatori territoriali di coordinamento», in capo al Ministero dei Lavori Pubblici, i piani regolatori di iniziativa comunale, da approvarsi oltre che dai Lavori Pubblici, dagli Interni e dalla Pubblica Istruzione. L'art. 117 della Costituzione repubblicana (nella sua versione originaria) previde fra le potestà legislative delle Regioni anche l'urbanistica.
Questo passaggio di competenza avvenne tardi e lentamente, con leggi e decreti dal 1970 al 1977, lasciando allo Stato funzioni di indirizzo e coordinamento. In questo iter desultorio la materia urbanistica, che nella Costituzione e nelle leggi si riferiva solo a quanto coperto dalla legge del 1942, finì per ingoiare i «piani territoriali e paesistici» che la legge Bottai riservava alla tutela dello Stato. Il DPR 8/1972, presumibilmente oltrepassando i limiti della delega al governo, trasferì alle Regioni redazione e approvazione dei piani paesistici; il DPR 616/1977 attribuì alle Regioni «la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali, nonché la protezione dell'ambiente».
Il peccato d'origine del sistema legislativo di epoca fascista, che aveva separato la materia paesaggistica da quella urbanistica senza prevedere alcun raccordo e anzi sottoponendole a regimi differenziati, finiva dunque col provocare una strisciante annessione del paesaggio all'urbanistica, ambito controllato da istanze locali e meno soggetto ai principi della tutela.
Ma lo spostamento del paesaggio in capo alle Regioni contrasta con l'art. 9 della Costituzione, che è fra i principi fondamentali dello Stato: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Esso riflette l'intimo legame fra tutela del paesaggio e tutela del patrimonio culturale, anticipando gli sviluppi del costituzionalismo europeo, secondo cui «il territorio dello Stato è reso unico dalla cultura specifica del Paese; va inteso come uno spazio culturale, non un factum brutum» (così Peter Hüberle), e la tutela in capo allo Stato ne rappresenta un valore primario e un elemento altamente simbolico.
L'art. 9 della Costituzione impedisce il trasferimento delle competenze sul paesaggio a Regioni ed enti locali. È per questo che nelle norme del 1972 e del 1977 la parola "paesaggio" è rimossa e sostituita con "ambiente" o "beni ambientali", senza precisare che cosa li distingua da "paesaggio" o "beni paesaggistici". L'istituzione (1975) del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali presupponeva anzi la coincidenza delle due nozioni giuridiche, annientata però con l´istituzione del Ministero per l'Ambiente (1985). Questa incoerenza fu avvertita da Giovanni Urbani: l'istituzione del Ministero dell'Ambiente, egli scrisse allora, comporta «la rinuncia a una politica di tutela fondata sul rapporto organico tra beni culturali e ambientali»: meglio sarebbe stato (e sarebbe ancora) creare un unico ministero per i beni culturali, il paesaggio e l'ambiente.
È in questo quadro che si innestò la legge Galasso (431/1985), che impose alle Regioni sia l'immediata redazione (spesso disattesa) di piani paesistici o urbanistico-territoriali, sia un controllo sulla gestione delle aree vincolate, affidato ai poteri sostitutivi del Ministero (mai messi in atto). Di fatto, le Regioni hanno sub-delegato ai Comuni le competenze paesaggistiche, cancellando ogni unitarietà nella tutela del paesaggio. La crescita del fabbisogno e la diminuzione delle entrate ha spinto i Comuni a cercare nuovi introiti dagli oneri di urbanizzazione, «dilatando i permessi di lottizzazione e di costruzione per far cassa subito» (così Gilberto Muraro), e provocando un'ondata di cemento senza precedenti. La stessa nozione di paesaggio, nonostante l'art. 9 della Costituzione, è stata sepolta sotto norme che sovrappongono piani urbanistico-territoriali e piani territoriali paesistici, per giunta introducendo anche la nozione di "beni ambientali".
Ognun vede quanto sia incerto il confine fra paesaggio, territorio e urbanistica, ambiente. La riforma del Titolo V della Costituzione (2001) rimuove completamente la nozione di paesaggio, pur così importante nell´art. 9. Essa assegna alle Regioni il «governo del territorio» (competenze urbanistiche), e riserva allo Stato la potestà esclusiva di legislazione su «tutela dell´ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali», lasciando indeterminata la nozione di "beni ambientali" e dunque la delimitazione di competenze fra i due ministeri. Il Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici (che Francesco Rutelli intende ora modificare secondo rigorosi principi di tutela e di pianificazione) ha ereditato questa vasta panoplia di problemi irrisolti.
Davanti allo scempio del paesaggio a cui assistiamo, sempre più chiara è la debolezza di questo sistema normativo. Non giova l'intrico di norme e competenze, che non chiarisce se "territorio", "ambiente" e "paesaggio", ambiti regolati da diverse normative e sotto diverse responsabilità, siano tre cose o una sola. Esiste un "territorio" senza paesaggio e senza ambiente? Esiste un "ambiente" senza territorio e senza paesaggio? Esiste un "paesaggio" senza territorio e senza ambiente? Eppure "paesaggio" e "ambiente" sono prevalentemente sul versante delle competenze statali (ma di due diversi ministeri), mentre il governo del territorio spetta a Regioni ed enti locali. Una ricomposizione normativa, per cui le tre Italie del paesaggio, del territorio e dell'ambiente ridiventino una sola, è al tempo stesso ardua e necessaria.
Il conflitto fra tutela paesaggistica e urbanizzazione si è intrecciato con quello fra Stato e Regioni e coi problemi della finanza comunale, provocando le ferite al paesaggio che sono sotto gli occhi di tutti, e che richiedono con urgenza quella leale intesa, che cento norme declamatorie dichiarano e mille fatti smentiscono ogni giorno. Come ha scritto Giacomo Vaciago, «il nostro "federalismo" invece di "specializzare" ciascun livello (...), coinvolge tutti e ciascuno in varie parti dei relativi processi decisionali ed esecutivi, aumentando così le probabilità di fallimento».
Abbiamo finito col porre al centro del sistema di quella che fu la tutela del paesaggio (materia fragile e cruciale) non la certezza della norma e delle responsabilità istituzionali e personali, bensì la perpetua conflittualità fra regole parziali, ora carenti ora ridondanti, privilegiando de facto gli interstizi dell'interpretazione, che per sua natura è soggetta a ideologismi, contingenze politiche, interessi speculativi e pressioni di parte. Benvenuta è perciò la sentenza della Corte Costituzionale del 7 novembre (nr. 367), che ribadisce la tutela sul paesaggio come «un valore primario ed assoluto, che rientra nella competenza esclusiva dello Stato», e dunque «precede e limita il governo del territorio».
Lo scontro fra normative incoerenti fra loro e fra le interpretazioni rese possibili dall'analisi giuridica formale non conduce in nessun luogo, se non all'ingorgo che sta travolgendo il paesaggio italiano. È ora di tornare a un'alta consapevolezza della dimensione storica, etica e civile della tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, che l'art. 9 della Costituzione ha fissato con lungimiranza; è ora di ricordarsi, secondo una sentenza della Corte (341/1996) «che il paesaggio costituisce, nel nostro sistema costituzionale, un valore etico-culturale (...) nella cui realizzazione sono impegnate tutte le pubbliche amministrazioni, e in primo luogo lo Stato e le Regioni, in un vincolo reciproco di cooperazione leale».
Primo successo della mobilitazione a tutela dei parchi e contro la modifica della legge urbanistica proposta dall´assessore al Territorio leghista Davide Boni. L´emendamento che dava l´ultima parola alla Regione sui nuovi progetti edilizi nelle aree protette è stato bloccato e rinviato alla prossima settimana, dopo che ieri in commissione Territorio il relatore Giulio De Capitani della Lega Nord, lo stesso partito dell´assessore Boni, ha annunciato una serie di emendamenti e affermato che «ci sono errori da recuperare». Dopo due ore di dibattito sotto il tiro incrociato dell´opposizione, il presidente della commissione Marcello Raimondi di Forza Italia ha dovuto prendere atto dello stallo e ha ammesso: «Ci saranno modifiche all´emendamento Boni sui comuni situati nei parchi».
Il centrosinistra e gli ambientalisti cantano vittoria. «Dopo la commissione di oggi (ieri ndr) - sottolinea Franco Mirabelli del Pd - sorge spontaneo un dubbio: c´è una politica della giunta e di questa maggioranza sull´urbanistica? Sembra di no, e da qui nascono i pasticci, le norme ad hoc, che accentrano sulla Regione le scelte come quella sui parchi». Rincara la dose il verde Carlo Monguzzi: «È stata sicuramente una vittoria. La maggioranza era decisa ad approvare tutto, ma ha dovuto arrendersi all´evidenza. Anche se passasse la prossima settimana, ormai l´emendamento non potrebbe essere più quello di prima». Poi una precisazione per fugare ogni dubbio: «Noi Verdi avremmo preferito che il Cerba fosse costruito da un´altra parte, ma ora che è stato deciso dove farlo non ci sogneremmo mai di dire no alla cittadella della salute». Affermazioni importanti a una settimana dalla giunta provinciale che dovrebbe dare il via libera all´ambizioso progetto che sorgerà dentro il Parco sud. Di diverso avviso Legambiente che denuncia: «Sul cemento Regione e Provincia hanno firmato un patto scellerato. La Lombardia ha bisogno di politiche per tutelare il suolo». L´assessore provinciale al Territorio, Pietro Mezzi, è soddisfatto: «Ora bisogna andare avanti». Mario Agostinelli di Rifondazione comunista pure: «Formigoni ritiri il progetto».
L´assessore lombardo all´Urbanistica Davide Boni, però, si difende: «Sono pronto ad accogliere emendamenti migliorativi. Se poi questa modifica non passasse in Consiglio non ne farei una guerra di religione». Il Carroccio vorrebbe far salire da 30 a 60 giorni il limite entro il quale i parchi possono dare le loro risposte ai comuni, oltre alla garanzia del pieno rispetto del piano parchi. Scende in campo anche il governatore Roberto Formigoni: «Siamo orgogliosi dei nostri parchi e vogliamo migliorarne la loro qualità. Chi parla di speculazione è totalmente fuori strada». Ma sulla garanzia che nel Parco sud sorga solo il Cerba aggiunge: «I parchi non sono sotto la nostra amministrazione».
COMUNICATO STAMPA
Milano, 21.11.2007
Primo successo della mobilitazione contro lo scempio dei parchi: Ora bisogna andare avanti
Oggi si registra un primo successo della mobilitazione che nei giorni scorsi ha visto esponenti della società civile e della politica, intellettuali, urbanisti schierarsi contro la volontà della Regione Lombardia di cancellare nei fatti l’autonomia dei Parchi in Lombardia. È stata infatti rinviata la votazione sull’emendamento, presentato dall’assessore Davide Boni, che, se approvato, avrebbe permesso la rapida cementificazione di parti consistenti di aree protette.
“Siamo soddisfatti di questo risultato – afferma Pietro Mezzi, assessore al territorio e parchi della Provincia di Milano – e di avere sostenuto la riuscitissima raccolta di firme avviata sul sito http://eddyburg.it che ha raggiunto le 600 adesioni. Ma non dobbiamo fermarci qui. La mobilitazione deve continuare e coinvolgere quanti più settori sociali è possibile. Perché gli appetiti insediativi sono ampi. Dobbiamo incalzare la Regione affinché abbandoni del tutto questo sciagurato proposito”.
Pietro Mezzi
Assessore alla politica del territorio e parchi, Agenda 21, mobilità ciclabile, diritti degli animali
Postilla:
pare un ragionevole aggiustamento, di fronte alla inquietante prospettiva di una gestione "bricolage" degli spazi aperti naturali della regione, cercare una linea morbida sulla collocazione del famigerato (da questo punto di vista) Cerba sognato da Umberto Veronesi. Rischia invece di risultare, oltre che di apparire, un compromesso inaccettabile: nel metodo e nel merito. Nel metodo, perché comunque l'immagine proposta è quella di aver ceduto qualcosa - e qualcosa di abbastanza importante come 620.000 mq di spazi aperti in città - al grande fuoco di sbarramento della propaganda ideologica sull'eccellenza, la ricerca ecc., così come in parte documentato su queste pagine, secondo una logica che accantona procedure e obiettivi della pianificazione territoriale di area vasta. Nel merito, perché comunque sia quelle individuate per il Cerba sono aree preziosissime e ambientalmente strategiche per l'area "densa" milanese, fra le poche che ancora in qualche modo si collegano senza soluzione al sistema padano nel suo complesso. L' "andare avanti" auspicato nel comunicato di Pietro Mezzi, è auspicabile si muova anche in questo senso. Speriamo che Eddyburg riesca a comunicare meglio in futuro anche questi aspetti, e intanto l'appello è sempre valido: continuate ad aderire anche mandando il vostro nome, qualifica, città a
fabrizio.bottini@polimi.it ; per chi non avesse seguito passo dopo passo la questione, si vedano almeno l'articolo di Eddyburg sul Cerba, e relativi allegati o quello analogo pubblicato sul sito Megachip (f.b.)
Il comunicato stampa del gruppo PRC alla Regione Lombardia - riportato qui sotto - conferma quelle che sinora erano soltanto voci giornalistiche, poco più che sensazioni e intuizioni. Certo non si può lanciarsi in trionfalismi, ma almeno tirare il fiato sì: per adesso, i parchi ce li lasciano.
Acciaccati, spesso assediati e pieni di problemi, ma non ancora ridotti a riserva di caccia per piccoli e grandi (soprattutto grandi) interessi.
La redazione di eddyburg.it in questa piccola grande battaglia per il diritto al territorio ha ancora una volta, dopo il caso della "Legge Lupi", svolto un ruolo importante, ma è stata soprattutto la straordinaria partecipazione di centinaia e centinaia di cittadini, di firme e messaggi che continuano ad arrivare a ritmi sostenuti, a caratterizzare queste intense giornate.
Si era partiti in sordina, con qualche scambio di opinioni interno al gruppo di lavoro, e una prima sottolineatura dei rischi del paventato "emendamento Boni" che vanificava in un colpo solo sia il ruolo dei parchi che l'idea stessa di pianificazione di area vasta e tutela dell'ambiente.
Il problema aveva poi cominciato ad assumere forme più chiare, e contemporaneamente più inquientanti, quando se ne chiarivano via via, con la pubblicazione di nuovi contributi sul sito, i caratteri di attacco deciso alla cultura e alle conquiste di decenni, a partire dall'unica esperienza di "green belt" italiana, il Parco Sud Milano nel solco della tradizione internazionale.
E qui comincia a svilupparsi, con un po’ di (credo legittimo) orgoglio, il ruolo specifico di eddyburg.it che non ha nel Dna un ruolo “politico” in senso stretto. È stata questa posizione, molto probabilmente, a porre le nostre pagine culturali, di dibattito, al centro di un piccolo evento, proprio per il loro essere altro, per il loro contributo soprattutto informativo e critico.
Senza nulla togliere all’amplificazione e diffusione esercitata dalle rete di persone, siti, associazioni nonché dalla stampa tradizionale, che a cerchi concentrici hanno iniziato ad allargare quanto su queste pagine è pane quotidiano e scontato senso comune: ambiente, territorio, diritti, cittadinanza non sono affatto parole vuote, ma poggiano solidamente sulle spalle di persone in carne e ossa.
Le stesse che, direttamente o attraverso siti, associazioni, partiti, organi di stampa, ci hanno manifestato chiaramente di essere sulla medesima “lunghezza d’onda”.
Nei parchi lombardi, e presumibilmente anche negli altri, il cemento per ora non dilagherà col beneplacito delle istituzioni. Il miserabile meccanismo per forzare la mano stavolta non ha funzionato.
Ovviamente torneranno, come fanno sempre. Ma adesso hanno cominciato a muoversi anche tutti coloro a cui ripetiamo per l’ennesima volta: grazie.
(le informazioni di questi giorni sull'inziativa sono tutte in questa stessa sezione "Il Pasesaggio e Noi"; segue comunicato del gruppo PRC, che riassume gli ultimi eventi interni al dibattito politico sul tema; naturalmente chi volesse aderire all'appello può ancora farlo)
Comunicato stampa parchi
Norma per edificare sul verde protetto è impantanata. Formigoni la ritiri o sarà ostruuziznismo
Dichiarazione di Mario Agostinelli e Luciano Muhlbauer, consiglieri regionali Prc-Se
“L’emendamento dell’assessore Boni, che intende aprire i parchi regionali lombardi all’edificazione si è impantanato e il voto, anche in V Commissione, è stato rimandato alla seduta della prossima settimana.
Il pretesto per il rinvio è stato offerto dalla protesta della Commissione VI, competente per i parchi, che non era stata nemmeno interpellata. Ma è sotto gli occhi di tutti che le vere ragioni stanno da un’altra parte, cioè nelle pesanti critiche di questi giorni da parte di Federparchi, Anci e associazioni della società civile. La stessa Lega Nord è stata costretta a prendere le distanze dal suo assessore, annunciando la presentazione di emendamenti.
Tuttavia, qui non si tratta di rendere il rospo un po’ meno indigesto e un po’ meno brutto, bensì di stralciare l’intera norma, che è semplicemente inemendabile.
Infatti, il cuore del provvedimento è rappresentato dall’esautorazione degli enti gestori dei parchi e dell’insieme dei Comuni interessati, a favore di un eventuale accordo privato tra anche un solo Comune e il Presidente della Regione Lombardia, che potrebbero così decidere autonomamente di avviare l’edificazione nei parchi regionali.
Quindi, chiediamo nuovamente di stralciare quell’emendamento, nel nome del senso di responsabilità e del rispetto dei compiti delle istituzioni, cioè difendere gli interessi collettivi e non quelli particolari di alcuni costruttori. Se saremo ascoltati, bene. Altrimenti, ci predisporremo all’ostruzionismo insieme a molta parte delle opposizioni”.
Milano, 21 novembre 2007
Ancora una volta eddyburg.it ha svolto un ruolo civile che è andato al di là della diffusione di informazioni corrette e della promozione di un dibattito sui temi della città e della società. Grazie all'iniziativa e al faticoso lavoro di Fabrizio Bottini e di Maria Cristina Gibelli, che per molti giorni si sono dedicati full-time all'iniziativa, siamo riusciti a mobilitare alcune centinaia di persone, associazioni, premi Nobel e mamme e papà, esperti di urbanistica e cittadini in altre faccende affaccendati, docenti universitari e gruppi di animazione sociale. Ci hanno aiutato a divugare la nostra protesta, a diffondere le ragioni della nostra critica, e hanno consentito a tanti di partecipare a un'azione che ha trovato echi importanti sulla stampa e in molti blog di giornalisti e associazioni.
La mobilitazione non è cessata, perchè il pericolo è ancora imminente. Ma aver raggiunto un primo obiettivo è importante non solo per il rinvio della decisione da parte della maggioranza e per la dichiarata volontà di ostacolare l'insano progetto manifestato da alcuni gruppi politici, ma anche (e forse soprattutto) per la sensiibilità dimostrata dal "popolo" (non ci costringeranno ad abbandonare anche questa parola!) a impegnarsi in una battaglia comune per un obiettivo comune.
Grazie a Fabrizio e a Maria Cristina, e grazie a tutti quanti ci hanno aiutato e ci aiuteranno ancora. (e.s.)
Cresce la mobilitazione contro il pericolo che la speculazione edilizia faccia scempio dei parchi lombardi. Con il titolo provocatorio "La Lombardia può fare a meno dei parchi?" quattrocento personalità del mondo della cultura, dell’urbanistica, della comunicazione e della politica hanno lanciato un appello sul sito Internet eddyburg.it contro l’emendamento alla legge urbanistica regionale proposto dall’assessore lombardo leghista al Territorio Davide Boni, il quale prevede che la Regione abbia l’ultima parola per decidere insediamenti nei parchi. La discussione riprenderà domani in commissione Territorio. Tra i firmatari dell’appello, Alberto Asor Rosa, Dario Fo, Franca Rame, Vittorio Emiliani, Luca Mercalli, Guido Martinotti, Eva Cantarella, Alessandro Cecchi Paone, l’assessore provinciale al Territorio Pietro Mezzi, i consiglieri regionali Carlo Monguzzi, Marcello Saponaro e Mario Agostinelli, la consigliere comunale Milly Moratti, oltre a Roberto Camagni, Maria Cristina Gibelli, Maria Berrini, Damiano Di Simine, Paolo Hutter, Vezio De Lucia, Francesco Indovina, Lodovico Mereghetti, Antonio Monestiroli, Edoardo Salzano, Sauro Turroni, Elio Veltri, Attilio Dadda, Jacopo Gardella e Federico Oliva.
«L’Italia - si legge nell’appello - aveva a Milano un’esperienza di parco di cintura metropolitano sul modello delle greenbelt affermate da quasi un secolo a livello internazionale. Ora anche la pubblica amministrazione sembra essersi accodata agli interessi di chi da lustri continua a considerare la presenza del verde metropolitano come un ostacolo alle proprie manovre». Sullo sfondo il rischio che la realizzazione del progetto del nuovo Cerba (Centro europeo di ricerca biomedica avanzata) sostenuto dal professor Umberto Veronesi dentro il Parco sud possa essere strumentalizzato per dare il via a nuove colate di cemento in Lombardia. «Mi auguro che i partiti del centrosinistra sappiano contrastare questo disegno raccogliendo il nostro appello» spiega l’assessore provinciale verde Pietro Mezzi. L’Ulivo lombardo risponde promettendo battaglia domani in Commissione.
L’assessore regionale al Territorio Davide Boni respinge le accuse. «I parchi come sono stati vissuti finora hanno fatto il loro tempo. Ma questo non vuol dire che saranno tutti urbanizzati. Con mia proposta la Regione si farà garante che non ci sarà alcuno scempio. In questi anni, per la verità, ho visto fare molte operazioni di questo tipo con il benestare di comuni e province. In una lettera mi hanno segnalato un caso in cui sono stati necessari 39 accordi di programma con 39 amministrazioni diverse. Non si può andare avanti cosi». Quanto al progetto Cerba, Boni aggiunge: «Garantisco che questa operazione non favorirà la speculazione. Ci opporremo alle modifiche dei vincoli nel rispetto delle vocazioni del territorio».
Luca Mercalli, Ho firmato ispirandomi a Cattaneo, la Repubblica, ed. Milano, 20 novembre 2007
Poco più di un secolo e mezzo fa, nelle «Notizie naturali e civili su la Lombardia» il grande intellettuale milanese Carlo Cattaneo celebrava l’agricoltura lombarda come la più evoluta d’Europa: «Noi possiamo mostrare agli stranieri la nostra pianura tutta smossa e quasi rifatta dalle nostre mani [..] Una parte del piano, per arte che é tutta nostra, verdeggia anche nel verno, quando all’intorno ogni cosa è neve e gelo. Le terre più uliginose sono mutate in risaie». Cattaneo osserva con grande acume come la città sia intimamente unita alla sua periferia rurale.
Le cascine, grazie alla geniale e millenaria rete irrigua, producono cibo e materie prime per Milano, che a sua volta provvede capitali e lavoro, inteso anche come intelligenza. È una simbiosi delicata che viene rotta di colpo nel secondo Novecento, quando l’industrializzazione spinta, le dinamiche della finanza, i commerci internazionali e i trasporti schizofrenici, cancellano il rapporto della città con la sua cintura verde. Spavalda, prima la Milano da bere ed ora quella da mangiare, crede di poter fare a meno dei suoi polmoni verdi, cementifica, stupra ogni minima area di terreno agricolo, nel segno di una miracolosa trasformazione dei metri quadri di antica terra in metri cubi di redditizio volume edificato.
Ma provate per un momento a staccare la spina del brulicante fiume di merci ed energia che alimenta Milano: petrolio, gas, elettricità, oggetti utili (pochi) e inutili (tanti), cibo. Tutto arriva da lontano, tutto è appeso al filo del petrolio: sarebbe la catastrofe, una città in ginocchio, priva di mezzi di sostentamento, suicida nel giro di pochi giorni. Fuori dalle periferie, negletta e destituita di ogni ruolo primario, la gloriosa agricoltura lombarda vivacchia, non ha diritto a figurare tra moda e finanza, anzi è d’impiccio: se tutti questi prati potessero essere trasformati in centri commerciali, parcheggi, grattacieli e villette, sai che affari? Gorgonzola? Risotto allo zafferano con l’osso buco? Chissenefrega, oggi c’è il sushi che arriva in aereo da Tokio. Ma non può durare per sempre. Una città deve conservare i propri gioielli verdi per l’anima e per lo stomaco. Serviranno per non intristirci al brutto, per donare refrigerio nelle estati del riscaldamento globale, per assorbire anidride carbonica, per nutrire foraggi e cereali quando la Cina non ne esporterà più, per far crescere legna con cui scaldarci quando Putin chiuderà il gas. Il suolo agrario è il nostro paracadute. Ecco perché ho firmato contro l’edificabilità dei parchi regionali.
Nota: in una vecchia vignetta di BC, uno dei cavernicoli diceva a un altro: "il successo non ti ha cambiato, sei rimasto il solito stronzo". Questo per dire che continuiamo a chiedere a chi non ha ancora aderito all'Appello di farlo al più presto visto che giochi sono ancora assai aperti ed esistono ampi spazi per influire sulle decisioni.
Per non affaticare troppo Maria Cristina Gibelli che sinora ha smistato tutti i messaggi, è possibile anche mandare le adesioni al sottoscritto all'indirizzo
fabrizio.bottini@polimi.it specificando sempre per favore città e professione (f.b.)
L’ultimo scempio annunciato e paventato in ordine di tempo - ma a quest’ora sarà già il penultimo - è quello, denunciato giovedì dalla edizione toscana de l’Unità a Montaione (Firenze), a ovest di Certaldo: ben 162 ettari di colline a bosco, a uliveti e altri coltivi che diventano campo di golf da 36 buche (ce n’è già uno da 18), parcheggi per 700 (settecento) nuove case ad un passo dal borgo di Castelfafi, l’antico Castrum Faolfi, di origine longobarda, anno 754. Talmente integro che Roberto Benigni lo scelse per girarvi alcune scene del suo «Pinocchio». Il progetto viene avanzato dalla società tedesca Tui, una delle più potenti multinazionali del turismo, che ha acquistato da tempo la splendida tenuta di oltre 11 chilometri quadrati. Essa, stando alle cronache, ha lanciato un vero e proprio ultimatum al Comune di Montaione: o quelle cubature o niente 250 milioni di euro di investimento.
Mentre, con una lettera, Wwf, Italia Nostra, Legambiente Toscana hanno chiesto, anzitutto alla Regione, di rifiutare qualsiasi consumo di suolo (e quindi di paesaggio) che esuli dal recupero e dalla riqualificazione del già esistente: 233.900 metri cubi, non una inezia, che la multinazionale vuole invece raddoppiare. Un campo di prova decisamente impegnativo per la Regione Toscana e per il suo Piano di Indirizzo Territoriale nel quale il sistema collinare regionale viene identificato come «un complesso e irripetibile intreccio di storia, paesaggio, natura e cultura, che caratterizza l’immagine della nostra Regione nel mondo, ecc.ecc.». Ora si vedrà se sono soltanto parole.
Il consumo di suolo, anche nella bella e sino ieri abbastanza conservata Toscana ha assunto ritmi inaccettabili, da autentica follia. Nel quindicennio 1990-2005 l’accoppiata “cemento & asfalto” si è “mangiata” 265.650 ettari di terreni a verde, a coltivo, a bosco, quasi il 16 per cento della superficie libera nel 1990, appena un punto percentuale sotto la spaventosa media nazionale. Ma negli ultimi cinque anni considerati quella corsa ha subito una ulteriore accelerazione: se nel decennio 1990-2000 in Toscana si sono consumati suoli liberi al ritmo di 15.000 ettari l’anno, nel quinquennio 2000-2005 tale ritmo è balzato a 20.279 ettari l’anno. Ciò vuol dire che in questi ultimi cinque anni considerati una delle più belle e integre regioni italiane si è “mangiata” un altro 12,5 per cento di superfici ancora libere. Con una speculazione che ormai risale dalla costa verso l’interno collinare e montano. Un processo che ormai interessa anche le contigue Marche e Umbria, pure bellissime.
In Toscana sono sorti ben 162 comitati in altrettanti luoghi di “sofferenza”: da Monticchiello, ormai “storica”, a Bagno a Ripoli, da Fiesole a Casole d’Elsa, con interventi, spesso, della magistratura a seguito di documentate denunce. Con Montaione uno dei “casi” più recenti è quello di piazza Montanelli a Fucecchio dove domenica si svolge un convegno sulle piazze minacciate di stravolgimento in Toscana (Fiesole, Prato, ecc.). Coordinati da Alberto Asor Rosa, i Comitati si riuniscono invece oggi a Firenze per consolidare una rete che sta diventando un fatto nazionale ed un esempio. Anche nelle Marche, meno colpite della confinante Toscana e tuttavia minacciate, si sono mossi comitati spontanei e associazioni, da Colli del Tronto (dove è coinvolto l’ascolano-milanese Tullio Pericoli ormai votatosi alla sola pittura di paesaggio) a Pesaro e a Urbino. Anche qui appelli firmati da personaggi che certo non fanno parte del movimentismo radicale (come Zucconi Galli Fonseca, già procuratore della Cassazione, molto legato alla sua Camerino). Anche qui, come a Roma al recente convegno organizzato dalla presidenza del Consiglio Provinciale e dal Comitato per la Bellezza, figura in prima fila la Coldiretti. La quale ha capito che agricoltura tipica di qualità e paesaggio tutelato vanno di pari passo, che vino, olio, salumi e formaggi “dop” si producono, si vendono e si esportano meglio se vengono da paesaggi integri. È la ragione che ha portato Jacopo Biondi Santi ad opporsi alle pale eoliche sopra la Rocca e i vigneti di Scansano. Giustamente, in quel caso.
C’è ormai anche una accentuata preoccupazione per i terreni agricoli, o a bosco o a pascolo, sempre più sottratti alle colture e agli allevamenti: nel decennio 1990-2000 la superficie italiana libera si è ridotta di altri 3,1 milioni di ettari e 1,8 milioni di essi erano “Sau”, superifici agrarie utilizzate. Che sono sparite, inghiottite in una periferia senza verde, nei centri commerciali, negli outlet, nelle multisala e così via. I terreni agricoli, anche i più produttivi, sono dunque terreni in attesa di reddito edilizio. La campagna è in attesa di diventare periferia. O di venire lottizzata per seconde e terze case. Per operazioni tipo Montaione. Ne esce una Italia sfigurata per sempre. Sorte tremenda se pensiamo che appena due secoli fa (un soffio per la storia) Wolfgang Goethe era ammirato degli italiani i quali avevano saputo “costruire” paesaggi mirabili, agendo con spirito e cultura da artisti - anche se erano contadini, mezzadri, capimastri - una “seconda natura” intrecciata a quella originaria, abbellendola persino: era la “natura naturata”, cioè antropizzata, identificata da Averroè e che non si contrapponeva ma si fondeva alla “natura naturans”, a quella cioè primordiale. Ancora nel dopoguerra Emilio Sereni, grande studioso di agricoltura e di paesaggio, oltre che antifascista e comunista importante, di cui ricorre un poco ricordato centenario, scriveva che il contadino toscano aveva una idea del paesaggio e della sua bellezza che rimontava a quella degli affreschi di Benozzo Gozzoli e del “Ninfale fiesolano” del Boccaccio. Una cultura alta, demolita, distrutta da una idea bassa di “sviluppo” a tutti i costi, di mercato senza freni, da una sorta di paleo-capitalismo che dissipa brutalmente beni primari irriproducibili, fondamentali per la vita degli individui e delle comunità, ma anche per quel turismo culturale e naturalistico che è il solo che “tira” ormai e che ha prospettive di lungo periodo. Se non si semina cemento appena fuori dalle mura delle città d’arte.
In questa cultura sviluppistica non c’è quasi più distinzione fra centrosinistra e centrodestra, salvo rare eccezioni come Mantova, dove il sindaco Fiorenza Brioni si batte lucidamente contro la lottizzazione in riva ai laghi promossa dalla giunta precedente, anch’essa di centrosinistra. Ha ragioni da vendere Fulco Pratesi, fondatore del Wwf, quando dice: «Una volta sapevamo che a sinistra ci avrebbero dato ascolto. Adesso non ne siamo affatto sicuri». Anch’io - che mi occupo di questi problemi dalla prima giovinezza - ricordo sindaci di sinistra che erano operai, falegnami, ex muratori, i quali amavano profondamente le loro città, la loro terra, e ascoltavano spesso le richieste degli intellettuali locali, delle associazioni. Ora non è più così. C’è stata una mutazione genetica. Perché?
In parte perché i Comuni, vistisi tagliati i fondi provenienti dai trasferimenti statali, hanno colto nella febbre edilizia una occasione per turare le falle di bilancio. La illuminata legge Bucalossi sui suoli degli anni ‘70 prescriveva che gli introiti provenienti dagli oneri di urbanizzazione potessero venire impiegati soltanto per spese di investimento. Ma una sciagurata Finanziaria ha consentito loro di impiegarli anche come spesa corrente. Ecco una delle ragioni di fondo del favore col quale tanti Comuni guardano allo “sviluppo”, finto, di una edilizia speculativa e rinunciano a tutelare il paesaggio. Sciaguratamente, dico io, perché in tale conflitto di interessi la tutela paesaggistica viene di necessità sacrificata alla utilità di fare cassa, di introitare denari. Poi vi sono “liberalizzazioni” sbagliate, anche nei decreti Bersani (che non distinguono fra centri storici e nuovi quartieri, ad esempio), o nella incombente legge Capezzone che consentirebbe alle aziende di aprire attività, capannoni, fabbriche e fabbrichette ovunque, in pochi giorni. Come se dopo Villettopoli, non vi fossero già Fabbricopoli e poi Commerciopoli. Grandi Comuni come Roma - l’ha ben documentato l’urbanista Paolo Berdini al Convegno del 25 ottobre in Provincia - da una parte investono nel trasporto pubblico su ferro, ma dall’altro lasciano libero campo ad enormi centri commerciali i quali esigono l’auto privata e collassano la rete viaria: 28 centri commerciali aperti vicino al GRA, con almeno 50.000 posti auto e con un consumo di suolo di centinaia di ettari. Fenomeni ai quali il grande architetto inglese, di origine italiana, sir Richard Rogers, guarda come ad un nostro impazzimento, frutto di una americanizzazione d’accatto, la peggiore. «A Londra - ha detto recentemente in una intervista a Violante Pallavicino uscita sul Terzo Occhio - negli ultimi dieci anni non abbiamo consumato un solo metro quadrato delle “green belts, delle cinture verdi». Di più, proprio Rogers ha approntato per Tony Blair una legge la quale, approvata nel 2001, prescrive che soltanto il 30 per cento delle nuove edificazioni possa sorgere su aree libere, ex agricole, mentre il 70 per cento deve sorgere su aree già costruite o su ex aree industriali. «E a Londra - fa notare Rogers - il sindaco Ken Livingstone si propone di concentrare il cento per cento dell’edilizia nuova nelle “brown belts”, cioè nelle aree già edificate». C’è ancora differenza, dunque, fra destra e sinistra. In Germania la stessa Angela Merkel, quando era nel 1998, ministro dell’Ambiente ha varato una legge che limita nei Laender il consumo di suolo a 30 ettari al giorno, cioè a meno di 10.000 ettari l’anno. Un sogno per noi che ne consumiamo 244.000... E la Merkel non è certo una massimalista.
Siamo stati ammirati nel mondo come il Giardino verde d’Europa e lo siamo sempre meno: la cartina dell’Istat ci mostra che le zone libere si riducono ormai alle vette alpine, all’Appennino più alto, all’interno di alcune regioni (Basilicata, Toscana), mentre fra Venezia e Milano prevale il colore bruno di una conurbazione continua, senza più distinzione fra città e campagna. Nonostante ciò si comincia a costruire nei parchi regionali, vedi il caso a Pavia della Vernavola o, a Milano, il Parco Sud, e l’assessore alle Infrastrutture della Regione Lombardia (la più “deregolata”, con costi sociali enormi) propone una legge che consentirà di alzare capannoni industriali praticamente ovunque lungo strade e autostrade. Capannoni che sono già tanti e spesso vuoti, frutto di speculazioni cieche e fallite, pegni per le banche e così via. In spregio al paesaggio, all’agricoltura, alle future generazioni condannate alla bruttezza diffusa. «La bellezza è anche un fattore di coesione sociale», ha affermato il sindaco di Mantova, Brioni, al convegno di Roma. Chi sosterrà con forza nel centrosinistra questa bandiera?
È un onore essere stato invitato, e colgo l’occasione per rendere omaggio a Renato Soru, l’uomo che ha restituito a tanti come me la speranza che il nostro paese si possa salvare. Mi riferisco proprio alla salvezza della patria, come la intendeva Benedetto Croce ministro della Pubblica istruzione dell’ultimo governo Giolitti, nel 1920, quando scrisse che
il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti semplici e vari del suo suolo […], il presupposto di ogni azione di tutela delle bellezze naturali che in Germania fu detta “difesa della patria” ( Heimatschuz). Difesa cioè di quel che costituisce la fisionomia, la caratteristica, la singolarità per cui una nazione si differenzia dall’altra, nell’aspetto delle sue città, nelle linee del suo suolo.
Non credevo ai miei occhi – e mi sono ricordato subito di Benedetto Croce – quando Eddy Salzano mi ha fatto leggere le parole pronunciate da Soru all’atto dell’insediamento della commissione di esperti per il piano paesaggistico della Sardegna:
Che cosa vorremmo ottenere con il piano paesaggistico regionale? Innanzitutto vorremmo difendere la natura, il territorio e le sue risorse, la Sardegna. La “valorizzazione” non ci interessa affatto. Vorremmo partire dalle coste, perché sono le più a rischio. Vorremmo che le coste della Sardegna esistessero ancora fra 100 anni. Vorremmo che ci fossero pezzi del territorio vergine che ci sopravvivano. Vorremmo che fosse mantenuta la diversità, perché è un valore. Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra Isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. Non siamo interessati a standard europei. Siamo interessati invece alla conservazione di tutti i segni, anche quelli deboli, che testimoniano la nostra storia e la nostra natura: i muretti a secco, i terrazzamenti, gli alberi, i percorsi - tutto quello che rappresenta il nostro paesaggio. Così come siamo interessati a esaltare la flora e la fauna della nostra Isola. Siamo interessati a un turismo che sappia utilizzare un paesaggio di questo tipo: non siamo interessati al turismo come elemento del mercato mondiale.
Perché vogliamo questo? Intanto perché pensiamo che va fatto, ma anche perchè pensiamo che sia giusto dal punto di vista economico. La Sardegna non vuole competere con quel turismo che è uguale in ogni parte del mondo (in Indonesia come nelle Maldive, nei Caraibi come nelle Isole del Pacifico), ma vede la sua particolare specifica natura come una risorsa unica al mondo perché diversa da tutte la altre.
Non credevo ai miei occhi quando ho letto le parole che ho trascritto Non potevo crederci, perché sono parole in netta controtendenza con la cultura politica dominante, ormai quasi tutta d’accordo con un’idea di sviluppo che coincide con l’avanzata del cemento armato e dell’asfalto, con la distruzione del paesaggio. Una cultura che non ha il coraggio di assumere come prioritaria la difesa dei beni pubblici e, fra questi, la qualità e la bellezza del territorio.
Il mio intervento è perciò un omaggio a Renato Soru, che ci ha restituito la speranza. Un omaggio che vorrei privo di retorica, non fine a sé stesso, non meramente celebrativo. La sua nomina da parte dell’Unep ad ambasciatore delle coste del Mediterraneo – insieme a Predrag Matvejevic, autore del famoso Breviario Mediterraneo, e a Chérif Rahmani, ministro dell’Ambiente algerino che ha promosso la legge per la tutela delle coste del suo paese – vorrei interpretarla come un incarico operativo, volto a sollecitare e promuovere – con il ricorso agli esempi da imitare, ma anche alla denuncia, e all’indignazione – il miglior uso delle coste e, più in generale, delle risorse ambientali e paesaggistiche del nostro paese e di tutti paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Per quanto riguarda le coste italiane, mi permetto di ricordare al presidente Soru che più volte nei decenni del dopoguerra si è discusso della loro tutela, con alterne vicende, ma l’esito è stato alla lunga disastroso. Non tratto qui della Sardegna, di cui diranno altri, e Maria Pia Guermandi ricorderà l’amara vicenda di Antonio Cederna, chiamato in giudizio dall’Aga Khan e condannato insieme al Corriere della Sera per aver denunciato la rovina della costa Smeralda per opera del magnate ismailita. Mi pare giusto ricordare invece, brevemente, l’esperienza positiva delle coste della Maremma livornese. All’origine ci fu la determinazione di un uomo politico, Silvano Filippelli, presidente della provincia di Livorno, una specie antesignano di Soru, che promosse nel 1963 un convegno il cui titolo diventò famoso: Il mare in gabbia. Aveva per tema la denuncia della privatizzazione delle coste e la ricerca di soluzioni politiche ed amministrative per restituirle all’uso pubblico. Ebbe inizio da allora l’impegno degli enti locali contro le lottizzazioni costiere, impegno che non si è mai interrotto, anche se recentemente emergono fattori di crisi.
Quasi tutto il resto è in condizioni indegne, con livelli estremi nel Mezzogiorno, in particolare lungo la costa tirrenica della Calabria e lungo i mille chilometri della costa siciliana, soprattutto per via di un’attività abusiva che non si arresta e che è stata agevolata da tre condoni in 18 anni (1985, 1994 e 2003).
In particolare, in questa circostanza, non posso non denunciare la situazione della penisola sorrentina e della costiera amalfitana [cfr. immagini], un territorio celeberrimo da secoli, dalla scoperta dei templi di Paestum alla metà del XVIII secolo, quando entrò a far parte del Grand Tour, diventando “la terra delle sirene”, il paradigma della mediterraneità. È stato il lavoro secolare di generazioni di contadini che ha strutturato nel tempo un sistema di terrazzamenti e di giardini pensili, grazie ai quali gli abitati si sono sviluppati insieme alla campagna e l’architettura del giardino ha superato per magnificenza quella della casa. Nella penisola sorrentina sopravvivono ancora in parte le “terre murate”, sorprendenti costruzioni di giardini incassati nell’abitato con coltivazioni a più strati: l’olivo (oppure il noce o il nespolo) formano lo strato più alto, l’arancio quello inferiore, più sotto l’orto. Il sistema dei terrazzamenti, dei giardini e degli abitati, è solo uno degli elementi di un paesaggio dominato da coste rocciose, falesie, montagne dolomitiche, spiagge, pascoli, luoghi delle solitudini e di vertiginosi orizzonti marini.
Questo paesaggio è ora devastato da un’attività abusiva che si estende senza tregua e in ogni dove. Anche qui “comandano degrado ambientale, inquinamenti sordidi, iniziative selvagge, … corruzioni nel senso letterale e figurato” (Predrag Matvejevic). Eppure, penisola sorrentina e costiera amalfitana sono protette da 20 anni da un rigorosissimo piano paesistico, la cui storia cominciò all’inizio degli anni Sessanta, quando Italia nostra raccolse i pressanti appelli di esponenti della cultura nazionale preoccupati per le dissennate proposte sostenute da autorevoli uomini politici locali Ma solo a seguito della benemerita legge Galasso, e di fronte all’indignazione dell’opinione pubblica, nel 1987 la regione Campania approvò infine, addirittura con legge regionale, un piano paesistico che per anni era stato chiuso in un cassetto.
Da allora si è determinato sicuramente un contenimento degli assalti speculativi, ma negli anni più recenti la tutela ha finito per essere soverchiata dagli scempi, nonostante che Carabinieri, Guardia di Finanza, magistratura cercano di intervenire e operano centinaia di sequestri ogni anno.
Il 9 di ottobre, a Napoli, all’Istituto degli studi filosofici, in occasione di un convegno di Italia nostra proprio sulla costiera amalfitana e la penisola sorrentina, Giovanni Conso, procuratore antimafia, ha raccontato che ogni intervento abusivo, anche in quei luoghi prestigiosi, è riconducibile al clan dei Casalesi (il clan di Casal di Principe, il comune capitale mondiale della camorra descritto in Gomorra, il libro ormai famosissimo di Roberto Saviano).
In tutta la Campania, anche in costiera amalfitana e in penisola sorrentina, il controllo territorio è insomma nelle mani della malavita. Forse per questo, demolizioni non se ne vedono. L’unico esempio resta il mostro di Fuenti, demolito dopo 31 anni di accanita insistenza da parte soprattutto di Italia nostra.
In alcuni comuni della costiera amalfitana ci sono domande di condono più numerose degli abitanti. Un terzo dei comuni è sfornito di piano regolatore.
L’estate scorsa, a Conca dei Marini, è crollata una terrazza (abusiva) con un morto e molti feriti. Per qualche giorno, le pagine dei giornali sono state attraversate da lampi di indignazione e da promesse di interventi repressivi esemplari. Ma mi pare che già tutto sia rientrato in un’ordinaria e indifferente tolleranza.
Il comune più tartassato dall’abusivismo è Ravello. Dov’è in costruzione il famigerato auditorium, un’opera esplicitamente proibita dal piano paesistico, ma poteri pubblici stolti e arroganti se ne infischiano della legalità e sono cominciati i lavori.
L’operazione è stata accompagnata da un’invadente campagna di stampa, con la quale si è tentato di tacitare le critiche sulla legittimità dell’intervento e sull’opportunità di costruire un auditorium in un luogo della costiera amalfitana già congestionato dal turismo, mentre a Napoli, a Salerno e in tutta la Campania mancano spazi per la musica.
Il deterioramento del paesaggio è tale che, nel corso del dibattito sviluppato nell’estate scorsa dopo il crollo di Conca dei Marini, è stato anche chiesto, come forma estrema di appello al governo nazionale e ai poteri locali, che la costiera amalfitana e la penisola sorrentina siano depennate dalla lista dei siti tutelati dall’Unesco. Credo che proprio a partire da questa richiesta, potrebbe essere decisivo un intervento del presidente Soru e degli altri ambasciatori delle coste del Mediterraneo, nei modi che riterranno più opportuni, per sollecitare un’inversione di rotta rispetto all’attuale, insostenibile situazione.
Nel 1985, intervenendo al Senato, Giulio Carlo Argan, grande storico dell’arte e già sindaco di Roma, sostenne che
La cosiddetta bellezza della natura è in realtà il prodotto dell’intelligenza, del pensiero e del lavoro umano nel corso di più millenni: è un immenso libro, un palinsesto in cui sono scritti millenni di storia. È desiderabile che il mondo umano non bruci, non lasci bruciare fino in fondo questo libro, che impari a leggerlo, a servirsi dell’esperienza del passato per progettare il futuro.
Il libro della penisola sorrentina e della costiera amalfitana non deve bruciare, e grazie anche all’impegno dei nuovi ambasciatori del Mediterraneo deve ancora insegnare a milioni di cittadini del mondo a leggere la bellezza e la storia.
In allegato il testo integrale con numerose tabelle
L’Italia sta vivendo una contraddizione stridente. Una delle tante, e però questa colpisce ad un tempo l’integrità già così intaccata del paesaggio italiano e la qualità già mediocre della condizione abitativa dei redditi più bassi. Registriamo infatti ad un tempo un consumo di suolo libero (e quindi di paesaggio) letteralmente dissennato e una vera e propria emergenza-alloggi per i ceti medi, mediobassi e bassi. Segno evidente che la frenetica attività edilizia che si è andata dispiegando negli ultimi anni riguarda costruzioni destinate quasi unicamente al mercato, per lo più alla speculazione, sovente nelle zone turistiche costiere e montane, con una risalita, ora, dal mare verso l’interno, cioè verso zone di grande pregio e bellezza come ad esempio, le valli toscane, marchigiane e umbre.
Basta guardare la cartina – tratta da un Annuario dell’ISTAT – che vi abbiamo offerto, la quale fissa la situazione dell’Italia a pochi anni or sono. In essa vedete come il colore marrone scuro identifichi le zone più edificate e il colore verde quelle più libere o libere dal cemento: ebbene fra Venezia e Milano il verde è già sparito e domina il marrone. Ma è solo un esempio fra i tanti possibili. Le cifre che riporto in allegato sul consumo di suolo libero in Italia sono infatti le più drammatiche che il Belpaese abbia mai allineato in materia di aggressione al paesaggio e alla straordinaria bellezza italiana. Sono le più drammatiche di tutta Europa, senza confronto. Riguardano l’ultimo quindicennio lungo il quale il ritmo di cementificazione e di asfaltatura dei suoli ancora liberi da infrastrutture e da costruzioni ha marciato al ritmo di oltre 244.000 ettari l’anno. Come non mai. In quindici anni abbiamo così consumato altri 3 milioni 663 mila ettari, cioè una regione grande più del Lazio e dell’Abruzzo messi assieme. Dal 195o una regione più grande dell’intera Italia Settentrionale. Con i ritmi più recenti si può prevedere che in capo a pochi decenni, intere regioni – comprese la Toscana e il Lazio – saranno in pratica un deserto di asfalto&cemento. Ciò non avverrà in questi termini e però l’erosione di un patrimonio immenso e irriproducibile (se non a costi enormi) è sin da ora garantita. Un’autentica pazzia. Che peserà inesorabilmente sui nostri figli, nipoti e pronipoti. In termini di imbruttimento, di involgarimento, di peggioramento dell’ambiente della vita, individuale e collettiva, di dissipazione di un patrimonio nazionale per secoli ammirato, la più formidabile, fra l’altro, attrattiva turistico-culturale da noi posseduta.
Non per caso siamo al primo posto, con la Spagna nella produzione e nel consumo di cemento, quindi con un’altra pesantissima ricaduta paesaggistica causata da cave legali e abusive per ogni dove. Nel Veneto si salvano a stento i Colli Euganei, protetti da un Parco regionale, ma altrove è un massacro, con cifre da primato. Dopo Spagna e Italia viene la Germania ma a grande distanza. Per non parlare della Francia.
Questo consumo di paesaggio – a base di cemento, asfalto e cave – non ha riscontri in Europa tranne, ripeto, che in Spagna (dove la “febbre” edilizia si sta raffreddando con pesanti contraccolpi sull’economia in generale). Esso infatti è reso impossibile da leggi illuminate nel Regno Unito (addirittura dagli anni ’30), in Germania o in Francia. E’ uscito in proposito nel luglio 2006 dall’editore Alinea un eccellente libro a cura di Maria Cristina Gibelli e di Edoardo Salzano “NO SPRAWL” che, in vari saggi, dà conto della situazione europea e nordamericana e della nostra arretratezza sul piano del dibattito e quindi delle misure da adottare. Possiamo dire che, a livello nazionale, soltanto nel programma dell’Unione c’è un accenno ad una legislazione che consenta di combattere, assieme allo sprawl, cioè al disordine urbano, il dissennato consumo di suolo. Nel citato volume Maria Cristina Gibelli espone i dati di una ricerca statunitense svolta fra Contee sprawl e no sprawl da un eminente specialista, Richard Burchell, in base alla quale una “crescita controllata” fa risparmiare un 25 per cento dei suoli (senza che l’attività edilizia ne risenta), 12,6 miliardi di dollari di risorse e allacciamenti idrici, fognature,ecc.(con la Villettopoli italiana tali l’acqua viene invece dissipata), un 11,8 per cento nelle infrastrutture stradali, un 7 per cento nei costi dei servizi locali e un 6 per cento nei costi di sviluppo immobiliare. In Germania, come testimonia nello stesso libro, Georg Josef Frisch, “la necessità di invertire la tendenza di sottrazione di suolo al territorio aperto e rurale è stata riconosciuta per la prima volta dal governo tedesco nel 1985 nell’ambito dei principi di tutela del suolo”, ma nel 1998 l’allora ministro per l’Ambiente, Angela Merkel, oggi Cancelliere, ha posto l’obiettivo di una riduzione quantitativa dell’occupazione di suolo libero a fini urbani fissando la soglia a 30 ettari al giorno, cioè ad un quarto dei consumi in atto. Obiettivo ripreso dal successivo governo rossoverde. E in Germania il consumo di suolo, si badi bene, viaggiava allora al ritmo di 120 ettari al giorno, cioè di 43-44.000 ettari all’anno, un sesto appena dei nostri consumi più recenti. Certo, il modello inglese di risparmio del suolo è il più antico e collaudato essendo il Regno Unito, del resto, il Paese nel quale è stata più forte e precoce la diffusione urbana. Ma l’allarme per l’erosione dei suoli liberi e/o agricoli venne fatto suonare oltre Manica già negli anni ’30 del ‘900 e si concretizzò nel 1946 col New Towns Act e l’anno seguente col Town and Countries Planning Act. Restrizione della crescita fisica potenziata– nota sempre Frisch – dalla individuazione delle “green belts”, cioè delle cinture verdi. Per cui dalla punta di 25.000 ettari consumati in dodici mesi negli anni ‘30 (un’inezia paragonata alle nostre cifre) Inghilterra e Galles sono scesi ad appena 8.000 ettari annui nel decennio 1985-96. Meno della metà di quanto da noi consuma in un anno la sola Toscana, tanto amata, e abitata, dagli inglesi. In una intervista che comparirà sul numero in distribuzione del trimestrale d’arte e cultura il “Terzo Occhio”, da me diretto, e redatta da Violante Pallavicino, sir Richard Rogers, celebre architetto, con origini italiane, gran consulente di Tony Blair, fa rimarcare: “Ci tengo a dire che a Londra abbiamo avuto un incremento di popolazione di 1 milione di persone in 10 anni e non abbiamo toccato un solo metro quadrato di green field, la campagna intorno alla città. Abbiamo costruito su brown field, le ex aree industriali. Dal 2001 è legge nazionale: il 70 per cento di ciò che si decide di costruire, laddove esiste, deve essere su brown field, e a Londra il sindaco Livingstone sta arrivando al 100 per cento”. Un sogno per noi italiani proiettati in tutt’altra direzione. Sciaguratamente.
La classifica delle nostre regioni in cui questa devastazione ha corso più dissennatamente lascia trasecolati. Al primo posto infatti c’è la Liguria per la quale, già negli ’60, Giorgio Bocca coniò le espressioni “Lambrate sul Tigullio” e “rapallizzazione”. Ebbene, nel quindicennio 1990-2005, la già disastrosamente cementificata Liguria è riuscita nell’impresa di “mangiarsi” quasi la metà delle superfici ancora libere. Seguita dalla Calabria che l’edilizia aveva già massacrato, specie lungo le coste, e che ha fatto fuori un quarto abbondante del territorio ancora libero. Si badi bene: le statistiche ufficiali non possono tener conto di quanto, in Calabria e nel Sud, si è divorato il cemento abusivo…Lo stesso in Campania, dove temo che si sia perduto ben più del 15,5 per cento (140mila ettari comunque) dei suoli liberi. Una ricerca pubblicata nel già citato volume “NO SPRAWL” (Antonio De Gennaro e Francesco P.Innamorato) parla di un aumento della superficie urbanizzata in quella regione pari al 321 per cento contro il 21,6 per cento di incremento della popolazione nel periodo 1960-98. In Sicilia ci si è “mangiati” oltre un quinto di territorio non ancora occupato, per cui l’isola risulta quarta in questa nera classifica, preceduta dall’Emilia-Romagna dove negli ultimi anni le gru sono fitte come una foresta, anche in zone collinari pregiate (come Bertinoro). Questa era stata una delle poche regioni a varare il piano paesaggistico voluto dalla illuminata legge Galasso del 1985. Cos’è successo da allora ad oggi? Quale mutazione genetica? Non scherzano nemmeno la Sardegna (nella quale l’attuale giunta Soru sta correndo, caso raro, ai ripari), il Lazio dove l’Agro Romano appare sempre sotto tiro, il Piemonte, la deregolata Lombardia, Abruzzo e Molise, la stessa Toscana. Ovunque vengono erosi terreni agricoli importanti, spesso i più fertili in pianura e nella prima collina per cui in tutta Italia le aree a coltivo o a prato o a bosco non costruite appaiono come terreni in attesa di reddito edilizio e non altro. La campagna diventa così periferia urbana. Fra i censimenti agricoli del 1990 e del 2000 la superficie totale, cioè libera da costruzioni e infrastrutture, è diminuita di 3,1 milioni di ettari nell’ambito dei quali 1,8 milioni erano SAU, cioè superfici agricole utilizzate.
Questa situazione di grande allarme viene puntualmente confermata dalle statistiche – peraltro ferme al 2003 purtroppo – sui permessi di costruzione, quindi sull’edilizia legale, i quali per le sole residenze ammontano in quell’annata a più di 800.000 stanze, contro le 695.000 di due anni avanti. Il trend dell’industria delle costruzioni è risultato in continua ascesa nell’ultimo periodo: dal 2001 ad oggi il suo indice destagionalizzato è balzato da 106,37 a quasi 129 con un incremento superiore al 21 per cento. Ed è stato tale da influire sul PIL in misura decisiva. Senza questo “boom” diffuso di gru edilizie per ogni dove, non ci sarebbe stata infatti alcuna crescita del Prodotto Interno Lordo o, nel 2003 e nel 2005, il segno sarebbe stato addirittura negativo.
E’ cresciuto enormemente il volume degli investimenti nell’edilizia residenziale (da 58 ad oltre 71 miliardi di euro nel periodo 1999-2005) e lo stock di seconde e terze case è arrivato a rappresentare 1/5 di tutte le abitazioni esistenti: quasi 6 milioni su di un totale di 28,7 milioni di abitazioni. Fenomeno incoraggiato – ne parlerà poi più diffusamente Paolo Berdini – dal favore col quale i Comuni hanno guardato a questa “febbre” edilizia. Favore causato dai pingui introiti che, almeno provvisoriamente (alla lunga si vedrà), le nuove costruzioni residenziali e non hanno loro consentito e che una sciagurata Finanziaria del 2001 (fissiamo bene questa data) ha loro permesso di impiegare come spesa corrente e non più soltanto come spesa per investimenti. Come prima era previsto, saggiamente dalla legge Bucalossi, e come si dovrebbe tornare a fare. Ma come per ora non si fa. Gioco pericolosissimo soprattutto in quelle regioni, come la Toscana, dove i Comuni sono stati sub-delegati alla tutela del paesaggio, loro che – soprattutto col taglio di risorse prima aflluenti dal centro – hanno tutto l’interesse ad usare l’acceleratore per le nuove costruzioni e a lasciare inutilizzato il freno della tutela del paesaggio. Un conflitto schiacciante di interessi nel quale finisce in mezzo, stritolato, il bene comune del paesaggio.
Tutto ciò avviene con una popolazione italiana che cresce pochissimo e che reclama, semmai (giovani coppie, immigrati, ecc.), alloggi economici. Ecco insorgere la nuova emergenza-casa. Gli 11 milioni di italiani che vivono in case d’affitto – e i molti altri che vorrebbero viverci - sono infatti vittime di una politica che ha praticamente abbandonato da anni a se stessi i ceti più deboli senza più investire nell’edilizia sociale, economica o comunque convenzionata (soltanto ora il governo Prodi vara un piano-casa da 550 milioni di euro, ma per il solito acquisto affannoso di alloggi nuovi già costruiti da destinare, in primo luogo, alle migliaia di famiglie sfrattate). Siamo lontani, ancora una volta, dall’Europa più civile e avanzata. Se avrete la pazienza di scorrere l’allegato statistico, vedrete come l’Italia sia ad uno degli ultimi posti come disponibilità di alloggi in locazione: terz’ultima col 19 per cento sul totale contro il 31 per cento del Regno Unito, il 38 della Francia, il 39 di Austria e Svezia, il 45 dell’Olanda e addirittura il 55 per cento della Germania. Discorso del tutto simile per gli alloggi sociali che da noi rappresentano appena il 4 per cento dello stock di alloggi contro il 18 della Francia, il 21 di Svezia e Regno Unito e il 35 dell’Olanda. E anche sul complesso delle locazioni, ovviamente, la nostra quota di alloggi sociali è fra le più modeste.
Del resto, i promotori delle nuove iniziative immobiliari sono oggi soprattutto le imprese stesse, seguite dai privati singoli, con le cooperative la cui presenza risulta però dimezzata rispetto a qualche anno addietro, mentre l’intervento pubblico precipitato nel 2004 ad un vergognoso 1 per cento. Sembrano remoti gli anni ’70, quelli della “casa vertenza di massa” e della legge sulla casa, per l’appunto.
Parallelamente galoppano gli sfratti. Governo e Comuni tamponano le ferite sociali coi “bonus” (che vanno in tasca ai proprietari di case). L’indebitamento bancario degli italiani e degli immigrati è salito a passi da gigante per l’acquisto forzoso di alloggi: dai 41 miliardi di euro del ’97 agli 80 miliardi del 2000 per balzare a 160 miliardi di euro nel 2004. Con molte sofferenze nel versamento delle rate (circa il 20 per cento) e non poche ripercussioni per la crisi ora in atto. Non come in Spagna e però con scricchiolii preoccupanti. Una massa enorme di risparmi convogliata forzosamente sull’edilizia di mercato o speculativa per mancanza di valide alternative praticabili nel settore degli affitti e dell’edilizia economica e popolare. Un risparmio che in altri Paesi più avanzati e moderni è stato canalizzato verso impieghi ben più producenti: per l’economia in generale e per i risparmiatori. Qui costretti per una vita a pagare la casa di proprietà. Coicontraccolpi che sappiamo sul paesaggio, anche su quello più conservato.
Come rimediare? Anzitutto prendendo coscienza di questa folle corsa all’autodistruzione del Belpaese, e poi varando leggi severe per il consumo di suolo, agevolando grandemente il restauro e il recupero dell’edilizia già esistente, redigendo, e soprattutto applicando, piani paesaggistici dettagliati e prescrittivi (altro che i piani di indirizzo della Regione Toscana), togliendo ai Comuni la delega alla tutela del paesaggio accordata loro, improvvidamente, da alcune Regioni (che si vantano così di essere molto “democratiche”), cancellando la possibilità, per gli stessi Comuni, di usare gli introiti da concessione edilizia, da spese di urbanizzazione, ecc. per finanziare la loro spesa corrente, tornando cioè alla legge Bucalossi la quale ne consentiva l’impiego soltanto per investimenti. Diversamente, coi ritmi e coi meccanismi perversi attuali, nel giro di mezzo secolo, avremo coperto tutta l’Italia di cemento e di asfalto. Bella prospettiva davvero, per tutti. E anche un bell’affare per quanti vivono di turismo culturale e ambientale, di agriturismo, di prodotti agricoli tipici “spinti” indubitabilmente sui mercati esteri anche dai bei paesaggi in cui sono collocati. Un bell’affare per milioni di persone, per tutti. Tranne che per gli speculatori immobiliari Una corsa dissennata che la semplice conoscenza della letteratura “no sprawl” ormai divulgata anche da noi, al di qua di Chiasso (ricordate la famosa gita di Arbasino a Chiasso per sprovincializzarsi un po’?), dovrebbe portare a ridurre puntando sul recupero e sul riuso abitativo corretto dei centri storici a volte semivuoti o riempiti di residenze precarie e speculative, di locali e localetti, sull’utilizzo attento delle ex aree industriali dismesse o comunque del già costruito, e così via. E’ vero che siamo ormai “un Paese spaesato” – come noi del Comitato per la Bellezza chiamammo l’Italia nel Libro Bianco del 2001 pubblicato col Touring Club Italiano, quando ancora era seriamente impegnato su questi temi – ma c’è un limite anche allo spaesamento e all’autodistruzione. C’è un limite alla follia e alla speculazione, alla cancellazione della storia.
1. Cronache del disastro immanente
1.1. Comincio con il disegno di legge, in discussione al Senato, che riguarda le modifiche alla normativa sul cosiddetto sportello unico per le imprese, primo firmatario Daniele Capezzone. Il ddl, già approvato dalla Camera dei deputati il 24 aprile nel più assoluto silenzio, è sintetizzabile nello slogan: un’impresa, ovunque e comunque in soli 7 giorni. Lo slogan contiene i due maggiori pericoli: la collocazione di impianti produttivi anche in deroga alle norme urbanistiche e paesaggistiche e l’eccezionale esiguità dei tempi. Gli impianti produttivi oggetti del disegno di legge sono tutte le attività: beni e servizi, agricoltura, commercio e artigianato, turismo, intermediazione finanziaria, telecomunicazioni. Si prevede per ogni Comune l’istituzione dello sportello unico e ad esso sono attribuite tutte le competenze inerenti ai titoli autorizzativi.
Se il progetto contrasta con lo strumento urbanistico, lo sportello unico convoca (entro 7 gg. dalla presentazione della documentazione) la conferenza di servizi degli organismi interessati in seduta pubblica. Quando la verifica di conformità comporta valutazioni discrezionali, ad es. per i profili attinenti alla tutela del patrimonio culturale e paesaggistico, la difesa nazionale, la tutela dell’ambiente, le amministrazioni competenti hanno 30 gg. per manifestare l’eventuale “motivato dissenso”. Se è espresso da amministrazioni in merito alla tutela paesaggistica, ambientale, della salute, la decisione finale è rimessa al Consiglio dei ministri o ai competenti organi collegiali degli enti territoriali cui appartiene l’amministrazione dissenziente. Questi organismi hanno a disposizione 30 gg. per deliberare. Immaginiamo cosa può succedere nei palazzi romani subissati dalle pratiche affluite dai comuni!
La variante allo strumento urbanistico può essere decisa dalla conferenza di servizi. La partecipazione dovrebbe essere garantita dal fatto che la conferenza è pubblica e che ad essa possono partecipare, senza diritto di voto, i soggetti portatori di interessi pubblici o privati, individuali o collettivi, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o in comitati che vi abbiano interesse e che possono proporre osservazioni in tale contesto. Ma in quale modo potranno essere avvisati e coinvolti tutti questi portatori di interessi privati o diffusi nell’inesistente tempo a disposizione? Quali Comuni, grandi e piccoli, avranno la capacità di anteporre l’interesse del territorio, resistendo alle sirene occupazionali?
1.2. L’abusivismo non finisce mai.
[Ultimi dati del Cresme: il 10% della produzione edilizia è ancora abusiva].
L’abusivismo in costiera amalfitana.
Da quasi venti anni, vige un rigorosissimo piano paesistico approvato addirittura con legge regionale. Ciò nonostante, la costiera è ormai coperta da un’edificazione abusiva che continua impunemente.
Martedì 9 ottobre, a Napoli, all’Istituto degli studi filosofici, nel corso del convegno di Italia nostra proprio sulla costiera amalfitana, Giovanni Conso, procuratore dell’antimafia, ha raccontato che ogni intervento abusivo è riconducibile al clan dei Casalesi (Casal di Principe, è la capitale mondiale della camorra, cfr. Gomorra, di Roberto Saviano). Il controllo del territorio è insomma nelle mani della malavita, anche in costiera amalfitana.
Carabinieri, Guardia di Finanza, magistratura cercano di intervenire e operano centinaia di sequestri ogni anno. Ma demolizioni non se ne vedono. L’unico esempio resta il mostro di Fuenti, demolito dopo 31 anni di accanita insistenza da parte soprattutto di Italia nostra [Antonio Iannello]
Quest’estate a Conca dei Marini è crollata una terrazza (abusiva) con un morto e molti feriti. Per qualche giorno le pagine dei giornali sono state attraversate da lampi di indignazione e da promesse di interventi repressivi esemplari. È stato denunciato dalla stampa che in alcuni comuni della costiera amalfitana (1/3 dei comuni sfornito di PRG) ci sono domande di condono più numerose degli abitanti.
È stato anche chiesto che l’Unesco rinunci a tutelare quel territorio.
Ma mi pare che già tutto sia rientrato in un’ordinaria e indifferente tolleranza.
Il comune più tartassato dall’abusivismo è Ravello, dov’è in corso di realizzazione il famigerato auditorium, un’opera esplicitamente proibita dal piano paesistico, ma poteri pubblici stolti e arroganti se ne sono infischiati della legalità.
Il progetto dell’auditorium è redatto dagli uffici comunali (arch. Rosa Zeccato) sulla base di schizzi del celeberrimo architetto brasiliano Oscar Niemayer.
L’operazione è stata accompagnata da un’invadente campagna di stampa, purtroppo sostenuta da oltre 200 importanti politici e intellettuali, ambientalisti, giornalisti, con la quale si è tentato di tacitare le critiche sulla legittimità dell’intervento e sull’opportunità di costruire un auditorium in un luogo della costiera amalfitana già congestionato dal turismo, mentre a Napoli, a Salerno e in tutta la Campania mancano spazi per la musica.
1.3.La regione Umbria autorizza e agevola la manomissione dei centri storici.
Un disegno di legge recentemente approvato dalla giunta regionale si pone l’obiettivo soprattutto di rivitalizzare, riqualificare e valorizzare i tessuti storici. L’esito è inaudito, gli interventi che si prevedono sono in netto contrasto con i principi fondamentali che hanno ispirato la cultura italiana del recupero (unico vanto del nostro paese). Trovo sconcertante che la proposta venga dall’Umbria, cioè dalla regione dove sta Gubbio, la città nella quale, nel 1960, fu approvata l’omonima Carta, un documento d’importanza enorme, che stabilì il carattere unitariamente monumentale dei centri storici (prima non era così, prima si consideravano solo i singoli monumenti, o i complessi di monumenti, a parte il tessuto anodino che li circondava). La Carta di Gubbio, com’è noto, ispirò anche la legge ponte del 1967 e il successivo decreto ministeriale sugli standard urbanistici (allora le leggi si rifacevano al meglio delle elaborazioni culturali).
Il disegno di legge dell’Umbria muove in dichiarata controtendenza con la nostra nobile tradizione, consentendo addirittura che si possa operare in deroga al decreto sugli standard del 1968, laddove non consente, nei centri storici, di superare le densità edilizie preesistenti [ma c’è un refuso nel testo del ddl]. Invece, secondo la regione Umbria, nei centri storici, o meglio nelle Aree di rivitalizzazione prioritaria (ARP), sono consentiti, fra l’altro, sopraelevazioni e ampliamenti, fino al 10% delle superfici preesistenti (e quindi, anche migliaia di mq aggiuntivi).
Non è questa la sede per un’analisi puntuale del testo, che inanella l’intero repertorio delle deregolamentazioni. Per ora propongo solo un appello per contrastare con determinazione l’iniziativa umbra, coinvolgendo le altre associazioni, intervenendo sulla stampa, chiedendo al governo nazionale che ai sensi dell’art. 9 della Costituzione impedisca che lo scempio vada in porto.
1.4. Concludo il panorama dei disastri immanenti citando per memoria due interventi gravissimi:
Dell’aeroporto di Siena si sono recentemente occupati i giornali. Il piccolo scalo di Ampugnano attualmente serve circa 13.000 passeggeri all’anno. Con l’ampliamento previsto dovrebbero diventare 500.000. “Un progetto così – ha dichiarato Alberto Asor Rosa – non può che portare alla distruzione di questa terra bellissima”.
Del parcheggio del Pincio tratterà Paolo Berdini, in prima linea nell’opposizione allo scempio.
2. Restituire allo Stato centrale i poteri di tutela
Sono tante le direzioni che si possono prendere per tentare di contrastare con qualche efficacia l’assalto che sta definitivamente distruggendo il nostro territorio. In questa sede mi sembra che meriti di essere assunta come prioritaria l’opposizione al trionfante oltranzismo regionalista, che non viene solo dalla Lega, restituendo importanza ai poteri centrali dello Stato, che invece irresponsabilmente e pavidamente cedono alle richieste di disarticolazione.
2.1. Cominciamo dal Codice del paesaggio. Fra le modifiche proposte dalla cosiddetta Commissione Settis che sta rivedendo il Codice del paesaggio è prevista la cancellazione del primo comma dell’art. 145 del Codice. Il testo che si chiede di cancellare è il seguente:
“Il Ministero individua ai sensi dell'articolo 52 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 le linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione”.
Penso che alcuni di voi riconoscano il lessico (risalente a Massimo Severo Giannini) del glorioso e da trenta anni disatteso art. 81 del DPR 616 del 1977, quando ancora esisteva la funzione centrale di indirizzo e coordinamento che opportunamente il Codice aveva recuperato, limitandola alla tutela.
Non so quali sono le ragioni che motivano la scelta, secondo me gravissima, che viene assunta proprio quando si contesta la mancanza di indirizzi unitari nelle intese sottoscritte fra ministero e regioni (Toscana, Campania, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, eccetera), giustamente temendo un’insostenibile frantumazione della strategia di tutela fra regione e regione o, ancora peggio, fra provincia e provincia, laddove, con artifici formali, si sta procedendo alla formazione di piani paesaggistici coincidenti con i piani territoriali di coordinamento.
La norma in bilico è tra l’altro l’unica che imporrebbe di dotare il ministero di una struttura apposita e di alto profilo scientifico – di cui oggi non c’è traccia – per l’indispensabile coordinamento dell’attività delle direzioni regionali in materia di pianificazione paesaggistica e per il raccordo con le altre pianificazioni di settore (difesa del suolo e parchi). E sarebbe una garanzia per le regioni.
2.2. No alla c onvenzione europea del paesaggio. Com’è noto, secondo la Convenzione europea del paesaggio – predisposta dal Congresso dei poteri locali regionali del Consiglio d’Europa, firmata dal governo italiano a Firenze il 20 ottobre 2000, approvata con legge 9 gennaio 2006, n. 14 – il paesaggio è una determinata parte del territorio, così com’è percepita dalle popolazioni; inoltre, secondo la Convenzione, il paesaggio costituisce una risorsa favorevole all’attività economica e può contribuire alla creazione di posti di lavoro (le citazioni sono tratte dal Preambolo e dall’art. 1).
Questi e altri enunciati della Convenzione non convincono, in quanto la subordinazione del valore paesaggistico alle percezioni dei cittadini direttamente interessati a eventuali trasformazioni e, ancor più, la funzionalizzazione del paesaggio allo sviluppo economico sono obiettivi evidentemente in contrasto con l’assunzione della tutela del paesaggio fra i principi della Costituzione repubblicana (art. 9) e con la tradizione della legislazione e delle politiche di settore, anche prima dell’unità d’Italia. Insomma, almeno in teoria, nel nostro paese il paesaggio è sempre stato inteso come la fisionomia del territorio, la sua forma, la sua qualità estetica. Un paesaggio può essere più o meno bello, oppure brutto, ma il termine è sempre espressione di un giudizio estetico. Comunque, un valore in sé, svincolato da ogni subordinazione, soprattutto dalle convenienze locali, e quest’impianto concettuale è opportunamente ricordato in ogni occasione di dibattito su attentati alla bellezza del territorio.
2.3. Serve una legge per i centri storici. Walter Veltroni quando era ministro dei Beni culturali propose un ottimo ddl per i centri storici (come definiti dai piani comunali) da sottoporre, ope legis, a vincolo di tutela ai sensi della legge 1497/1939. La proposta era stata studiata da Antonio Iannello nel 1997, poco prima della sua scomparsa, e fatta propria dal ministro. Lo stesso Veltroni ha dichiarato pubblicamente che ritirò la proposta dopo aver raccolto un parere nettamente negativo dell’INU. È bene ricordarselo.
2.4. Serve una legge per il contenimento del consumo del suolo. La proliferazione urbana – si legge in un documento dell’UE del 2004 – aumenta la necessità di spostamento e la dipendenza dal trasporto privato, che a sua volta provoca una maggiore congestione del traffico, un più elevato consumo di energia e l’aumento delle emissioni inquinanti. In questo campo l’Italia è assente, mentre in tutti i più importanti paesi europei nell’ultimo decennio sono state avviate politiche concretamente mirate a impedire la dissipazione del territorio:
- la Germania, nel 1998, governo Kohl, ministro dell’Ambiente Angela Merkel, ha elaborato un piano nazionale per la riduzione del consumo del suolo da 130 a30 ettari giornalieri
- la Gran Bretagna, che protegge da quasi settanta anni con le sue green belt un milione e mezzo di ettari – il 12 per cento del paese –, ha scelto una strada differente, fissando l’obiettivo di soddisfare, mediante riciclo delle aree urbane esistenti, una quota di nuova edificazione, definita localmente, e comunque non inferiore al 50-60 per cento
- per evitare la dispersione urbana, in Francia, le leggi sul paesaggio rurale e la montagna impongono che le nuove edificazioni avvengano esclusivamente in continuità con i nuclei insediativi esistenti.
Per approfondire il tema del consumo del suolo cfr. No Sprawl, Alinea, 2006.
In Italia, non se ne parla nemmeno, e infatti il consumo del suolo continua in modo sfrenato.
È stato calcolato che se nel PRG di Roma si fosse applicato il modello tedesco, l’espansione massima sarebbe stata di 3.350 e non di 15.000 ettari!
Il ritardo della situazione italiana è presente nel programma del governo Prodi che propone di varare una nuova legge quadro per il governo del territorio che operi secondo i seguenti criteri: evitare il consumo di nuovo territorio senza aver prima verificato tutte le possibilità di recupero, di riutilizzazione e di sostituzione.
Ma finora il programma è disatteso.
3. Politica, antipolitica e movimenti. Poi una bella notizia
3.1. La nostra discussione si svolge mentre è vivace il dibattito sulle questioni che per comodità possiamo chiamare della politica e dell’antipolitica.
Mi guardo bene dall’inoltrarmi in un campo che professionalmente non mi appartiene e che tratterei in modo inevitabilmente dilettantesco, non posso tuttavia non dichiarare che il “vaffanculo” non può essere un’espressione dell’impegno civile . Come se cambiare l’Italia fosse impossibile o, peggio, inutile.
In un suo recente intervento su Carta di Edoardo Salzano ha scritto che “la pressione spontanea che nasce dal basso non può durare, non può raggiungere risultati efficaci se non incontra le istituzioni: per utilizzarle, per trasformarle o per formarne di nuove”. Sono pienamente d’accordo. Guai se le associazioni storiche e più importanti, e quelle più recenti come il nostro comitato, si atteggiassero a contropotere. Un contropotere che sarebbe inevitabilmente autoreferenziale. Le istituzioni non possono essere considerate pregiudizialmente un avversario.
Vanno benissimo, insomma, i confronti critici , anche aspri , finalizzati però alla soluzione dei problemi, senza inconcludenti fughe in avanti.
[Ok al coordinamento dei comitati toscani, cfr. Violante Pallavicino. Il prologo e i 10 punti del coordinamento].
Nel documento dei 10 punti sta scritto con chiarezza che bisogna “tenere sotto controllo il territorio prima che gli interventi siano realizzati, prima che siano decisi. Ciò richiede la capacità tecnico-disciplinare e soprattutto la capacità militante di filtrare anzitempo tutte le decisioni dei consigli comunali, provinciali e regionali”.
Ciò comporta, soprattutto, una presenza puntuale nella fase della formazione degli strumenti urbanistici non solo quando quegli strumenti vanno in attuazione e ci si accorge che ci sono cose che non vanno o che sono affrontate in modo sbagliato. Fondamentale è perciò la fase delle osservazioni agli strumenti urbanistici. Almeno per quanto riguarda la mia esperienza, le osservazioni ai piani riguardano quasi esclusivamente il territorio murativo, come si dice in Toscana, sono presentate cioè quasi esclusivamente da parte degli interessi fondiari, quasi mai da parte di chi si propone di collaborare nell’interesse pubblico.
3.2. Dulcis in fundo. Concludo, a proposito di movimenti e di partecipazione, con una splendida notizia che viene, nientemeno, da Caserta e riguarda la destinazione a parco pubblico dell’area Macrico.
Il Macrico, come sanno molti di voi, è un'area centralissima, circa 35 ettari, nel pieno centro di Caserta, fino al 2001 utilizzata dall’esercito per la manutenzione dei mezzi corazzati. Subito dopo la dismissione si è costituito un Comitato per contrastare le speculazioni edilizie in agguato e per fare del Macrico il primo parco pubblico della città, senza neppure un metro cubo di cemento, recuperando solo il costruito esistente.
Il Comitato ha agito in modo esemplare. [A proposito di antipolitica]
Furono raccolte in poche settimane 10.000 firme. Nel 2002 il Comitato, non riuscendo ad avere valide risposte dall’amministrazione comunale e dai partiti, costituiva una lista civica, “Macrico verde”, che eleggeva al consiglio comunale Maria Carmela Caiola, presidente di Italia nostra.
In risposta al Comune che dichiarava di non avere i fondi per l’esproprio, il Comitato lanciò l’idea di un azionariato popolare per l’acquisto del Macrico con lo slogan 50 euro per rimanere al verde (50 euro per un metro quadro di parco) e la campagna fu sostenuta a livello nazionale da Italia Nostra.
Il 19 gennaio 2007 si è svolta una grande manifestazione – con la proiezione del film I have a green realizzato da un centro sociale – che ha visto l’auditorium pieno in ogni ordine di posti, gente in piedi, pubblico entusiasta e variegato: scolaresche, insegnanti, madri, anziani, esponenti delle associazioni cittadine, professionisti, migranti, tutti a testimoniare la grande voglia di verde.
Nei giorni scorsi la grande svolta. Il Comune acquista il Macrico. Un colpo da 185 milioni di euro, reso noto nei giorni scorsi dal sindaco.
Il merito pare che sia del ministro Rutelli. Una prima tranche di 150 milioni sarà possibile grazie al Tesoretto, i restanti 35 milioni divisi tra finanziamenti regionali sulla programmazione 2007/13 e contributi statali. Definiti anche i tempi di inizio e fine del progetto che dovrà essere completato entro il 2011. L’opportunità sta infatti nella celebrazione del 150mo anniversario dell’Unità nazionale (1861-2011), evento per il quale sono previsti progetti speciali in tutto il Paese di concerto tra governo, regioni ed enti locali. Tra le idee approvate la costruzione del Parco dell’Unità d’Italia all’interno dell’area Macrico.
Una svolta storica.
Duecentoquarantamila ettari ogni anno. Che moltiplicato per quindici fa tre milioni e seicentomila. Un territorio grande quanto Lazio e Abruzzo messi insieme. Ecco quanto suolo libero da costruzioni ha perso l’Italia fra il 1990 e il 2005. Le cifre danno noia, ma rendono meglio delle parole. Le fornisce l’Istat e le cita Vittorio Emiliani in un convegno organizzato questa mattina dalla Provincia di Roma e dal Comitato per la bellezza (Paesaggio italiano aggredito: che fare?, ore 9,30, Palazzo Valentini).
Il convegno vuole guardare avanti. Proporre strategie. Ma intanto sono i numeri che danno la dimensione dell’espansione edilizia, che in Italia convive paradossalmente con un’allarmante emergenza casa. Si costruisce tanto, ma soprattutto abitazioni private, costose e in zone pregiate. Non si soddisfa un bisogno crescente e si aggredisce il paesaggio: fino ad alcuni anni fa prevalentemente quello costiero, ora quello dell’interno. Sempre sulla base dei rilievi Istat, citati da Emiliani, si scopre che è la Liguria la regione che ha consumato più suolo in quei quindici anni: il quarantacinque per cento dell’intero suo territorio. Seguono la Calabria (ventisei), l’Emilia Romagna e la Sicilia (ventidue), la Sardegna (ventuno), il Lazio (diciannove). La media italiana è diciassette, ma va aggiunto che dal calcolo è esclusa l’edilizia abusiva, che è ancora un dieci per cento di tutto quello che si costruisce, soprattutto nelle regioni meridionali.
Una delle vie indicate dal convegno è quella di una legge che ponga un limite al consumo di suolo. È una prassi europea, spiega nel suo intervento l’urbanista Vezio De Lucia citando gli studi contenuti in No Sprawl, un libro curato da Maria Cristina Gibelli ed Edoardo Salzano (Alinea). Altre cifre: in Germania è in vigore dal 1998 una norma che ha fissato una soglia di trenta ettari al giorno, un quarto di quanto effettivamente si costruisse a quel tempo, vale a dire quarantaquattromila ettari l’anno che era pur sempre un sesto di quanto si costruisca oggi in Italia. La legge fu voluta dall’allora ministro dell’Ambiente, che si chiamava Angela Merkel. Più antica è la tradizione inglese. Racconta l’architetto Richard Rogers (in un’intervista al trimestrale Terzo Occhio): «A Londra abbiamo avuto un incremento di popolazione di un milione di persone in dieci anni e non abbiamo toccato un solo metro quadrato di green field, la campagna intorno alla città». In Gran Bretagna si è stabilito che per almeno il settanta per cento le nuove costruzioni devono sorgere riciclando aree urbane esistenti, per esempio ex stabilimenti industriali. «A Londra», aggiunge Rogers, «il sindaco Ken Livingstone ha portato la quota al cento per cento».
L’assalto al paesaggio ha condizioni politiche e finanziarie. L’urbanista Paolo Berdini ricorda che le entrate dei comuni italiani derivano, per una media del sessanta per cento, dall’Ici e dagli oneri che pagano i costruttori. Il che significa che per fare cassa i comuni trovano conveniente dare concessioni edilizie e sprecare territorio. Come? Per esempio a Roma «sono stati aperti ventotto grandi centri commerciali con superficie superiore a un ettaro». Poi ci si accorge che provocano paurosi intasamenti di traffico (accade per l’immenso insediamento chiamato Porta di Roma est, definito il più grande d’Europa) e allora si decide di costruire due corsie autostradali accanto a quelle già esistenti: «Chilometri di asfalto, altre migliaia di ettari di campagna romana cancellati».
Con la fine della stagione estiva l’Italia esce da una grave emergenza ambientale dovuta alla recrudescenza degli incendi che hanno prodotto gravi danni a cose e persone percorrendo migliaia ettari di territorio. All’argomento hanno dedicato ampio spazio tutti i mezzi di informazione, con una crescita esponenziale della tensione mediatica e prese di posizione che andavano dal catastrofismo ambientale, ormai diventato prassi corrente, fino alla “taglia” per i piromani proposta dal Prof. Sartori sul Corriere della Sera. Sembra quindi giunto il momento di riportare il dibattito su un livello accettabile di sobrietà e di correttezza dell’informazione, prendendo anche spunto da quanto affermato in questi giorni dal Presidente della Repubblica, che ha invitato ad evitare la continua esasperazione dei toni che avviene ormai sui più vari argomenti della vita nazionale.
Fatta questa premessa, osserviamo che nel corrente anno sono bruciati circa 127.000 ettari di territorio, un dato che inverte la tendenza degli ultimi anni. La massima estensione degli incendi registrata dagli anni ’60 ad oggi si è verificata infatti nell’anno 1993, con circa 210.000 ettari, mentre da allora ad oggi vi è stata una riduzione quasi continua, sia della superficie percorsa dal fuoco, sia del numero degli incendi. La diminuzione è senz’altro da addebitarsi anche all’aumentata efficienza dei servizi antincendio, che hanno visto un notevole incremento sia dei mezzi che degli uomini impiegati, con una contemporanea crescita dei costi economici degli incendi. Il fenomeno deve essere però analizzato più nel dettaglio. Infatti, solo la metà degli incendi riguarda i boschi, mentre il resto interessa quasi interamente terreni agricoli e pascoli, negli ultimi anni sono bruciati in media fra i 25.000 e i 50.000 ettari di boschi all’anno. Detto questo, dobbiamo tenere presente che il bosco cresce in Italia di circa 72.000 ettari all’anno, fenomeno dovuto soprattutto alla sua continua avanzata sui pascoli e i terreni agricoli in abbandono, che sommata alle attività di rimboschimento ha portato ad aumentare la sua estensione di quasi tre volte nell’ultimo secolo. Senza sottovalutare i gravi danni e lo sconvolgimento del territorio che gli incendi boschivi causano, soprattutto in certe aree del paese particolarmente critiche dal punto di vista ambientale, non bisogna quindi temere per la consistenza del nostro patrimonio forestale, il quale non appare seriamente minacciato ne da processi di desertificazione o riscaldamento climatico, ne dagli incendi, che sono soprattutto un pericolo per l’uomo.
Al di là dei semplici dati di estensione è però importante analizzare anche l’origine degli incendi. Nel 2005, un dossier prodotto dal Corpo Forestale dello Stato mostrava che fra le cause accertate gli incendi colposi per circa il 43% erano dovuti alla eliminazione degli scarti delle lavorazioni agricole, per il 16% alla bruciatura delle stoppie e per il 9% alla ripulitura della vegetazione infestante. Al contrario, gli incendi classificati come dolosi, con una distinzione per la verità abbastanza sottile, venivano per la maggior parte attribuiti a pastori, che usano il fuoco per rinnovare o espandere i pascoli, collocando il fenomeno al terzo posto come causa degli incendi. Seguono, molto distanziati, gli incendi appiccati dai “volontari” che dovrebbero invece spegnerli, i conflitti sociali locali, gli atti diretti contro il Corpo Forestale dello Stato.
Appare evidente che la cause degli incendi non sono dovute ad attività associabili alla criminalità organizzata, come proposto da molti organi di informazione, ma soprattutto a pratiche, certamente incaute nella loro esecuzione, ma legate a 5000 anni di storia del paesaggio mediterraneo, e della mancata comprensione che il fuoco, oltre ad un fattore di rischio ambientale, è anche un fattore ecologico, che fa parte della vita degli ecosistemi terrestri da sempre. E’ noto ad esempio che alcune specie vegetali si rigenerano, o addirittura germinano, solo con le alte temperature prodotte dal fuoco e che la rinnovazione naturale di molte specie vegetali può avvenire solo dopo il passaggio di un fuoco, o in conseguenza di eventi catastrofici che ugualmente eliminano la vegetazione preesistente. Lo sviluppo dell’agricoltura, così come quello della pastorizia, è avvenuto tramite l’incendio delle selvagge ed inospitali foreste che un tempo ricoprivano le montagne e le pianure, consentendo la costruzione di un paesaggio in cui il mantenimento dell’equilibrio fra spazi aperti e spazi chiusi, spazi coltivati e spazi boscati è fondamentale, dal punto di vista economico, culturale e biologico.
Come osservato in una recente ricerca sulle trasformazioni del paesaggio in toscana negli ultimi due secoli, non solo i pascoli si sono ridotti quasi dell’80%, ma sono fondamentali per la biodiversità, come affermano anche gli indirizzi di conservazione di molte aree protette italiane. Sembra però difficile trovare un mezzo economicamente e legalmente sostenibile, per recuperare le superfici pascolive interessate da una riduzione che va di pari passo con quella dell’agricoltura. Negli ultimi 80 anni abbiamo infatti perso circa 16.000.000 di ettari di terreni coltivati con un danno evidente alla qualità del paesaggio italiano, e per la cui conservazione il Piano Strategico Nazionale 2007-2013 ha destinato ingenti risorse economiche ora a disposizione delle regioni.
Se quindi, per una volta, vogliamo uscire dalla retorica e da paradigmi ideologici, dovremmo cercare di risolvere semplici questioni, quali la modalità di ripulitura dei campi dalle stoppie, l’eliminazione dei resti delle potature, la ripulitura dei pascoli dalla vegetazione infestante, piuttosto che proporre “taglie” e altre iniziative di tipo repressivo che tendono a criminalizzare soprattutto contadini e pastori. I nostri cugini francesi, sui Pirenei, usano ormai regolarmente i “fuochi controllati” per mantenere e rinnovare il paesaggio dei pascoli, facendo tesoro di quei saperi tradizionali, risultato di un secolare adattamento delle popolazioni locali alle caratteristiche ambientali, e utilizzando le moderne tecnologie per evitare rischi di incendi incontrollati su vaste superfici. La raccolta delle stoppie potrebbe invece essere organizzata localmente e destinata alla produzione di biomasse a scopo combustibile. Ciò potrebbe risolvere il problema dei residui delle colture agricole, che certamente non possono essere trattati come rifiuti speciali, tassando gli agricoltori per il loro smaltimento. Si tratta di non scoraggiare ulteriormente la presenza dell’uomo nel territorio rurale, facilitando le colture agricole tradizionali e limitando i processi di degrado ed omogeneizzazione che interessano ciò che resta del paesaggio italiano, stretto fra la morsa di politiche inadeguate, paradigmi ambientali e molta disinformazione.
Mauro Agnoletti, ordinario alla vacoltà di Agraria di Firenze, è coordinatore della Commissione paesaggio per il Piano strategico nazionale 2007-2013 e vice presidente della Società europea di storia ambientale
Sull'argomento si veda anche la lettera dal Gargano