Il commento di Giovanni Losavio, fra i massimi esperti nazionali di legislazione in materia di beni culturali e paesaggio, nella sua acribia giuridica rileva puntualmente gli elementi fortissimi di criticità che il regolamento attualmente in discussione in sede di Commissioni parlamentari e che riportiamo in allegato, presenta.
Già in altre occasioni eddyburg ha sottolineato come la vulgata della “semplificazione” sia usata con disinvoltura a sostegno di provvedimenti che di fatto sanciscono deroghe pericolose dalle norme vigenti e garantiscono per atti, gare, assegnazioni e quant’altro percorsi privilegiati al riparo da meccanismi di controllo.
Anche in questo caso, il sospetto che si riaffaccia in più di un articolo, laddove, ad esempio, vengono distorti e snaturati ruolo e funzioni delle soprintendenze e delle commissioni locali, è che con questo strumento si contribuisca all’affossamento dell’operazione di copianificazione paesaggistica sancita dal Codice come passaggio ineludibile per una tutela condivisa del nostro paesaggio.
Maria Pia Guermandi
Osservazioni allo schema di Regolamento deliberato dal Consiglio dei Ministri in tema di procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità.
L’articolo 146, comma 9, del Codice dei beni culturali e del paesaggio rimette ad un Regolamento la disciplina di procedure semplificate di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica per interventi di lieve entità “in base a criteri di snellimento e concentrazione dei procedimenti”, che tuttavia non possono contraddire la prioritaria esigenza della adeguatezza del provvedimento abilitativo all’interesse di tutela in concreto perseguito pur in relazione a minori trasformazioni dell’assetto fisico dei luoghi protetti.
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Essenziale contenuto del proposto regolamento è innanzitutto la definizione degli “interventi di lieve entità”, indicati nella minuta casistica dell’allegato elenco, le cui “specificazioni, rettificazioni ed integrazioni” il comma 2 dell’art.1 rimette ad un decreto del Ministro per i beni e le attività culturali di concerto con i Ministri dello sviluppo economico e dell’ambiente. La definizione degli interventi di minore entità è materia correttamente assunta dal presente Regolamento adottato a norma dell’art. 17, comma 2, della legge n.400 del 1988 e dunque soltanto al livello di quella formale fonte normativa può essere modificata.
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Alla esigenza di celerità non può essere sacrificata l’adeguatezza dell’esercizio della funzione di verifica e il termine (sessanta giorni) prescritto dall’art. 3, comma 1, per la conclusione del procedimento non può ritenersi appropriato se comporta la riduzione a venticinque giorni (rispetto ai quarantacinque della procedura ordinaria) del termine dato al soprintendente per esprimere il suo parere, come prevede il successivo art. 4, comma 6. Obbiettive esigenze funzionali non consentono di ridurre, neppure nella procedura semplificata, il già contenuto termine di
quarantacinque giorni, sicché conseguentemente si impone la dilatazione del termine complessivo fissato nell’art.3 (da sessanta a novanta giorni).
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Criticammo a suo tempo la previsione dell’art. 146, comma 9, del “Codice” che rende meramente facoltativa la convocazione della conferenza di servizi nella ipotesi in cui il soprintendente non abbia reso il parere nel prescritto termine. Escludere del tutto tale facoltà nel procedimento semplificato (comma 6 dell’art.4) sembra disposto che incide senza obbiettiva ragione sull’esercizio di una facoltà discrezionale la cui opportunità può essere apprezzata in concreto, rispetto alla particolarità del singolo caso, dalla “amministrazione competente”.
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Il comma 5 dello stesso art. 4 prevede il ricorso amministrativo improprio al soprintendente contro il rigetto della domanda pronunciato dalla “autorità competente” nel caso di preliminare “valutazione negativa” (precedente comma 4). Contro l’esigenza di speditezza si pone un simile rimedio, che impropriamente conferisce al soprintendente un potere censorio tipico del rapporto di supremazia gerarchica. Si impone quindi la soppressione di un simile ricorso che snatura la figura istituzionale dell’organo della tutela statale, partecipe con diverso ruolo del procedimento.
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Così come del tutto impropria è l’attribuzione (comma 8 dell’art. 4) al soprintendente, nella ipotesi in cui abbia espresso parere divergente dalla determinazione della “amministrazione competente”, della competenza alla pronuncia del conclusivo provvedimento di rigetto. E’ attribuzione che essenzialmente modifica il ruolo dell’organo della tutela statale (consultivo pur se con espressione di parere vincolante) nel procedimento di rilascio della autorizzazione paesaggistica, così come è concepito dall’art. 146 del “Codice”.
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Assolutamente in conflitto con la disciplina, vincolante al riguardo, del “Codice” è il disposto del comma 10 dell’art.4 che declassa a meramente obbligatorio, non vincolante, il parere del soprintendente in tutte le ipotesi in cui il luogo sul quale debba cadere l’autorizzazione sia oggetto di una specifica disciplina, normalmente dettata dal piano paesaggistico, dunque si deve ritenere presente nella quasi generalità dei casi. Nessuna analogia sussiste tra questa disposizione e quella del comma 5 dell’art. 146 del “Codice” (criticata per altro da Italia Nostra) che configura come non vincolante il parere del soprintendente soltanto a conclusione, non solo del procedimento di revisione dei vigenti piani paesaggistici, ma pure dell’attuato adeguamento ad essi degli strumenti urbanistici applicabili nella specie, adeguamento infine oggetto di positiva verifica da parte del ministero, su richiesta della regione.
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Non può non rimanere obbligatorio il parere delle “commissioni locali per il paesaggio” che invece il comma 12 dell’art. 4 declassa a meramente facoltativo. Basterà rilevare che la istituzione delle commissioni locali volute dall’art.148 del Codice assicura presso l’”autorità competente” quell’”adeguato livello di competenza tecnico-scientifica” cui è condizionata la delega da Regione ad ente locale in ordine all’esercizio del potere di rilascio della autorizzazione paesaggistica.
Roma, maggio 2010.
«Secondo le stime dell'Unesco, l'Italia possiede fra il 60 e il 70 per cento dei beni culturali mondiali» così recita il rapporto Eurispes 2006. «Il 72 per cento del patrimonio culturale in Europa si trova in Italia e ben il 50 per cento di quello mondiale sta nel nostro Paese» così ha dichiarato il presidente Berlusconi in una conferenza stampa a Londra il 10 settembre 2008.
Secondo un ministro siciliano «il 60 per cento dei beni culturali mondiali ha sede in Italia e, fra questi, il 60 per cento in Magna Grecia e, fra questi ultimi ancora, il 60 per cento in Sicilia».
Ma secondo un assessore toscano «l'Italia ha da sola il 60 per cento dei beni culturali del mondo, ma il 50 per cento dei beni culturali italiani è concentrato in Toscana». Secondo il vice sindaco di Roma, l'Urbe da sola «ha il 30-40 per cento dei beni culturali del mondo». Sommando queste percentuali, risulta che l'Italia da sola supera di gran lunga il 100 per cento dei beni culturali del pianeta.
Ovviamente questi dati Unesco non esistono e le cifre vengono di volta in volta improvvisate: sintomo forse di orgoglio nazionale, certo di superficialità.
Eppure, l'Italia è davvero molto importante sotto il profilo del patrimonio culturale. Ma la sua centralità non risiede nella quantità bensì nella qualità del suo patrimonio, e in particolare in tre diversi fattori: la secolare armonia fra le città e il paesaggio, la diffusione capillare del patrimonio e dei valori ambientali, la continuità d'uso in situ di chiese, palazzi, statue, dipinti. In Italia i musei contengono solo una piccola parte del patrimonio artistico, che è sparso per le città e le campagne: in questo insieme, che è il prodotto di un accumulo plurisecolare di ricchezza e di civiltà, il totale è maggiore della somma delle sue parti. C'è tuttavia un quarto fattore non meno importante, il "modello Italia" nella cultura della conservazione.
Il principio della "pubblica utilità" del patrimonio culturale è un forte elemento di continuità della storia nazionale italiana e la legge del 1909 stabilì la preminenza del pubblico interesse sulla proprietà privata per tutte "le cose immobili e mobili che abbiano interesse storico, archeologico, paletnologico o artistico", vietandone l'alienazione quando siano di proprietà pubblica, e dando al ministero della Pubblica Istruzione compiti di sorveglianza e conservazione.
L'originario disegno di legge conteneva inoltre altri principi fra cui la tutela del paesaggio, che venne cancellata dal Senato, dove siedevano molti rappresentanti dell'aristocrazia e della grande proprietà fondiaria.
Ma di tutela del paesaggio si parlava ormai molto anche in Italia per influenza di altre esperienze, fra cui importantissime quelle degli Stati Uniti. Durante la presidenza di Theodore Roosevelt (1901-1909) si era svolta la più vasta campagna della storia per la protezione dell'ambiente naturale, con la creazione di sei National Parks, diciotto National Monuments, cinquantuno Federal Bird Reservations e centocinquanta National Forests. Fra i pionieri del conservationism americano c'era stato George Perkins Marsh, primo ambasciatore americano in Italia per vent'anni (1861-1882), che in Italia scrisse il suo libro Man and Nature (1864), subito tradotto anche in italiano.
La tutela della natura come obbligo morale verso le generazioni future e il forte legame fra la salvaguardia della natura e l'identità nazionale furono caratteristici non solo del conservationism americano, ma anche di simili movimenti in Europa, per esempio in Germania, in Francia, nel Regno Unito. Specialmente eloquente nel contesto inglese fu John Ruskin: secondo lui, il paesaggio va tutelato in quanto è fonte di intense esperienze etiche ed estetiche non solo per il singolo, ma per la collettività dei cittadini.
Col crescere dell'industrializzazione, crebbero i pericoli per il paesaggio italiano, e si sviluppò il movimento protezionistico: nacquero associazioni e movimenti d'opinione, e si arrivò nel 1905 a una norma ad hoc per proteggere la pineta di Ravenna. Ma la prima legge organica fu promossa nel 1920 dal ministro della Pubblica Istruzione, Benedetto Croce.
«Un altissimo interesse morale e artistico legittima l'intervento dello Stato» scrive Croce, poiché il paesaggio «altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della patria». La legge Croce fu approvata nel 1922, pochi mesi prima dell'avvento del Fascismo. Per 17 anni, il regime di Mussolini non cambiò nulla nelle norme di tutela, ma nel 1939 il ministro Giuseppe Bottai ne avviò un'organica riforma, e promosse due leggi parallele sulla tutela del patrimonio e sulla tutela del paesaggio. Quelle leggi, anche se opera di un governo fascista, di specificamente fascista non ebbero nulla: furono, anzi, una nuova scrittura più dettagliata e completa delle norme dell'Italia liberale, la legge Rava del 1909 e la legge Croce del 1920-22.
Tanto poco "fasciste" furono le due leggi Bottai che, dopo la guerra e la rovinosa caduta del Fascismo, la Repubblica ne collocò il nucleo generatore fra i principi fondamentali dello Stato. L'articolo 9 della Costituzione dice infatti: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». La perfetta continuità fra le leggi di tutela dell'Italia liberale, le due leggi approvate da un governo Mussolini, e infine l'articolo 9 della Costituzione repubblicana sorprenderà solo chi ragiona per etichette e appartenenze, e non calandosi nelle complessità della storia delle idee. Ancor più sorprendente potrebbe essere l'evidente continuità fra le norme di tutela degli Stati italiani di antico regime (per esempio Roma e Napoli) e la cultura del patrimonio e della conservazione che si diffonde in Europa dopo la rivoluzione francese.
Ho fin qui raccontato una storia tutta "in crescendo" e potrei continuarla ancora aggiungendo leggi e norme più recenti, in particolare la fondazione del ministero dei Beni Culturali (1975) e, più recentemente, il Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici (2004, con modifiche del 2008), che ho contribuito a scrivere, e che ha modificato le leggi del 1939, mantenendone tuttavia la sostanza e lo spirito.
Devo però finire su un tono completamente diverso, dichiarando senza mezzi termini che questo complesso sistema di tutela (il più antico e probabilmente ancor oggi, sulla carta, fra i migliori del mondo) funziona oggi sempre meno. Qualche dato può aiutarci a capire quel che accade oggi in Italia. Sempre più drammatica è la devastazione del paesaggio, e basti ricordare che in 15 anni, dal 1990 al 2005, il 17 per cento delle campagne italiane è stato coperto di nuove costruzioni; che ogni anno si costruiscono in media fabbricati per oltre 250 milioni di metri cubi; infine, che la crescita degli insediamenti mediante nuove costruzioni è quasi 40 volte maggiore del modestissimo incremento demografico (pari solo allo 0.4 per cento).
L'armonico rapporto città-campagna costruito attraverso i secoli sta cedendo terreno a un incontrollato urban sprawl, che ospita ormai circa un quarto della popolazione e delle attività produttive. L'antica forma urbis sta esplodendo, e la sua espansione indefinita ne vanifica non solo i confini, ma anche il centro. Nel nuovo paesaggio di suburbi, lo spazio restante tra gli agglomerati perde il carattere di filtro e assume quello di terra di nessuno, mentre il terreno delle campagne, coperto dal cemento, perde per sempre le funzioni ecologiche che aveva esercitato. Un territorio eccezionalmente fragile, soggetto a frane, inondazioni e terremoti, viene sempre più abbandonato a se stesso, e mentre si avviano gigantesche opere pubbliche (per esempio il ponte sullo Stretto di Messina) quasi nulla vien fatto per consolidare le aree più a rischio.
Mentre restano in vigore le leggi di tutela, che anzi vengono via via migliorate nel tempo, si creano di quando in quando "deroghe" ed "eccezioni", oppure condoni: in tal modo, chi ha compiuto un reato distruggendo una porzione di paesaggio può estinguerlo pagando allo Stato o al Comune una piccola multa. Poiché questi condoni sono fatti periodicamente (specialmente dai governi di destra), chiunque sa che può violare impunemente la legge, aspettando solo pochi anni prima di "mettersi in regola" con una multa.
Sul fronte della tutela del patrimonio culturale, si registra una profonda crisi di risorse umane e finanziarie. Da molti anni non si fanno più nuove assunzioni di personale, e gli addetti delle Soprintendenze hanno oggi un'età media di 55 anni, cioè sono destinati ad andare in pensione nei prossimi 5-10 anni al massimo. Nel 2008, il governo Berlusconi ha tagliato i fondi del ministero dei Beni Culturali di circa un miliardo e mezzo di euro, rendendo quasi impossibile ogni intervento, anche i restauri d'urgenza resi spesso necessari (per esempio, dopo il crollo di una volta della Domus Aurea di Nerone lo scorso 30 marzo). Di fronte a queste carenze, si è diffusa l'idea di "privatizzare" il patrimonio culturale o di vendere una parte dei monumenti, sulla base di un preteso "modello americano" che molti menzionano e quasi nessuno conosce davvero.
Intanto, il crescente peso politico della Lega Nord, un partito nato con il progetto di operare la secessione delle regioni del Nord dal resto d'Italia, rende sempre più probabile una riforma costituzionale in senso "federalista", i cui enormi costi per il cittadino nessuno si ferma a calcolare.
Per tracciare il perimetro di questa crisi, almeno un terzo punto dev'essere velocemente accennato. Fra le ragioni della continua distruzione del paesaggio e del patrimonio italiano non c'è la carenza di leggi; al contrario, vige in questo campo una sorta di "accanimento terapeutico", per cui le leggi sono anche troppe, e per questo è difficile osservarle, anche perché spesso si sono sedimentate nel tempo in modo incoerente, creando un labirinto di conflitti di competenza. Citerò a tal proposito il caso più grave, il caos terminologico che si è venuto a creare intorno alle tre parole-chiave "paesaggio", "territorio", "ambiente".
Il "paesaggio", lo dice l'articolo 9 della Costituzione come abbiamo visto, deve essere tutelato dallo Stato, e in particolare dal ministero dei Beni Culturali; ma il "territorio", dice l'articolo 117 della Costituzione, dev'essere regolato e pianificato non dallo Stato centrale, bensì dalle Regioni e dai Comuni; infine, l'"ambiente" è di competenza mista, e comunque a livello dello Stato centrale se ne occupa un altro ministero, detto appunto "dell'Ambiente".
Non si tratta di una dispiuta astratta. Se, per esempio, si deve decidere se distruggere o no una grande pineta sulle coste del Tirreno, chi dovrà prendere le decisioni in merito, e dare i relativi permessi? Lo Stato, la Regione, il Comune? La normativa è talmente intricata, specialmente dopo la riforma costituzionale del 2001, che vi sono ogni anno numerosi casi di conflitto di competenza davanti alla Corte Costituzionale.
Nessun partito politico oggi attivo in Italia, senza nessuna eccezione, ha posto questo tema al centro dell'attenzione, per esempio in occasione delle elezioni politiche del 2008 o delle elezioni regionali del 2010. Eppure sono sorte in questi anni in Italia centinaia, forse migliaia di associazioni di cittadini, piccole e grandi, che fanno campagne di informazione e di difesa dei rispettivi territori. Questo "particolarismo italiano", che oggi sembra aggiungersi alle tante altre forze di disgregazione del Paese, potrebbe forse avere in sé -io lo spero- qualità positive, ma certamente non basta.
Per salvaguardare il prezioso patrimonio italiano, per evitare che quanto resta del paesaggio possa esser distrutto, occorre ripartire dai diritti delle generazioni future, e sulla base di quelli costruire (o ri-costruire) un quadro istituzionale e legislativo credibile, funzionale, efficace.
La legge regionale non può rinviare il termine di entrata a regime della nuova autorizzazione paesaggistica. E' quanto stabilito dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 101, depositata il 17 marzo scorso, con cui è stata dichiarata l'illegittimità di alcune norme contenute nella legge regionale n. 5/2007 del Friuli Venezia Giulia (così come modificate dalla legge n. 12/2008). Secondo i giudici della Consulta, le norme nazionali in questa materia, di competenza legislativa statale esclusiva fissano «standard minimi di tutela», che non possono essere intaccati dalle Regioni, ordinarie o a statuto speciale, né dalle Province autonome.
Le norme bocciate sono l'articolo 8, commi 1 e 2, e l'articolo 60, comma 1, della legge friulana. Per capire le ragioni della decisione, però, occorre fare un passo indietro. Il nuovo iter definito dall'articolo 146 del Dlgs n. 42/2004 - entrato a regime dal 1° gennaio 2010, dopo vari differimenti e la fase transitoria disciplinata dall'articolo 159 del Codice Urbani prevede che la regione, o il comune da essa delegato, prima di pronunciarsi su un'istanza riguardante un bene sottoposto a vincolo paesistico, acquisisca il parere del soprintendente. Parere che, oltre a essere obbligatorio, è anche vincolante nelle ipotesi in cui i piani paesaggistici non siano stati ancora adeguati dalle regioni alle nuove previsioni in tema di pianificazione introdotte nel codice dal Dlgs n. 63/2008.
Il legislatore friulano, invece, aveva disposto che il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica da parte dei comuni delegati avvenisse secondo la disciplina transitoria dettata dal Codice Urbani «sino all'adeguamento dei loro strumenti di pianificazione al piano paesaggistico regionale». Una scelta bocciata dalla Corte, secondo cui la disposizione regionale non solo rende incerto il momento iniziale della nuova disciplina, ma, soprattutto, «modifica la decorrenza del termine fissato dal legislatore statale» dettata a livello nazionale, con «una illegittima riduzione della tutela del paesaggio imposta dalla legislazione statale». Il termine statale, sottolinea la Consulta, ha valore cogente.
E cogente è anche il termine assegnato alle regioni per verificare la sussistenza dei requisiti di organizzazione e di competenza tecnico- scientifica in capo ai soggetti delegati all'esercizio della funzione autorizzatoria, pena la decadenza delle deleghe già conferite. Quanto ai comuni, fino all'adeguamento dei loro strumenti di pianificazione al piano paesaggistico regionale, essi sono tenuti ad applicare il comma 9 dell'articolo 143, che, a far data dall'adozione del piano paesaggistico, preclude la realizzazione su immobili e aree vincolate di interventi in contrasto con le prescrizioni di tutela previste nel piano stesso. La stessa norma sancisce altresì che dopo l'approvazione del piano, le relative previsioni e prescrizioni siano immediatamente applicabili e prevalenti sulle previsioni dei piani territoriali ed urbanistici. Anche sotto questi profili, quindi, le disposizioni regionali vengono ritenute costituzionalmente illegittime dalla Corte, poiché lo slittamento temporale del nuovo regime determina un'inammissibile restrizione della tutela dettata a livello statale.
L'entrata in vigore da inizio anno del nuovo procedimento autorizzativo, dopo che la proroga del regime transitorio non è stata inserita nel Dl milleproroghe di fine anno, cambia il ruolo delle soprintendenze.
Il loro parere, infatti, non è più dato a valle, dopo che il progetto ha già ottenuto il via libera dall' ente delegato (di solito i Comuni), ma a monte, nel pieno della procedura di autorizzazione paesistica.
E resta vincolante fino all'adeguamento al Codice dei Beni culturali (Dlgs 42/2004) dei piani paesaggistici regionali e degli strumenti urbanistici di Comuni e Province.
E' questa la rivoluzione introdotta dal procedimento previsto dall'articolo 146 del Codice Urbani.
Una norma finora sempre rinviata e ora entrata in vigore dal primo gennaio. Interessate alla proroga non erano solo le soprintendenze, investite di un ruolo più impegnativo al quale non tutte sono preparate, ma soprattutto le Regioni, che in molti casi vedono tornare al mittente le competenze sulle autorizzazioni, che loro stesse avevano delegato agli enti locali. Sono oltre 2.600, infatti, i municipi a non avere più le carte in regola per il rilascio dei nullaosta.
Il Codice prevede che ogni ente, per mantenere la delega, debba differenziare le attività di tutela paesaggistica da quelle urbanistico-edilizie e disporre di una commissione tecnica per valutare gli interventi in aree vincolate.
Adempimenti che mettono in difficoltà i Comuni più piccoli. Il soprintendente, come detto, può ora valutare le richieste nel merito, mentre fino al 31 dicembre scorso poteva solo annullare le autorizzazioni per vizi di legittimità. Un ruolo più centrale che dovrebbe contribuire a tagliare i contenziosi presso i tribunali amministrativi: sul totale degli atti vagliati dalle soprintendenze, gli annullamenti si fermano intorno al 2% e, di questi, gran parte viene impugnata. Il parere del soprintendente diverrà obbligatorio ma non vincolante solo quando saranno adeguati piani regionali e strumenti urbanistici. Obiettivo da raggiungere attraverso la copianificazione Ministero-Regioni.
L'ADEGUAMENTO
Un processo che però va a rilento. Sono soltanto nove, infatti, le amministrazioni che hanno siglato finora un'intesa per scrivere le norme di tutela del paesaggio insieme al Ministero. Si tratta di Abruzzo, Campania, Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Puglia, Sardegna, Veneto e da ultimo la Calabria (si veda la tabella in pagina). Per altre, come Lazio e Umbria, il protocollo è pronto, ma non firmato. L'elaborazione congiunta deve riguardare i beni vincolati con atti amministrativi ad hoc o ricadenti nelle aree tutelate ope legis, ma può estendersi anche all'intero territorio regionale. Nessuna annninistrazione, va detto, ha centrato l'obiettivo di approvare un piano adeguato al Codice dei Beni culturali entro la fine del 2009. Le Regioni hanno comunque ottenuto dal Ministero rassicurazioni sull'intenzione di semplificare il rilascio dei permessi in zone vincolate.
Già sono stati individuati 42 interventi di lieve entità per i quali snellire le pratiche, dagli aumenti di volume fino al 10% alla realizzazione di manufatti accessori. Il regolamento è ora all'esame del Consiglio di Stato. L'obiettivo è arrivare entro febbraio all' approvazione definitiva. La portata delle semplificazionii, tuttavia, andrà oltre gli interventi minori: il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, ha infatti annunciato nuove norme per rimodulare tutte le procedure dli autorizzazione paesaggistica. Il sistema appena entrato in vigore, al netto delle annunciate modifiche, prevede un termine di conclusione per ottenere un permesso di 105 giorni, che diventano 120 in caso di mancato parere della soprintendenza (dopo i quali l'amministrazione competente deve decidere). A temere un allungamento dei tempi sono per proprio i professionisti coinvolti nella progettazione, come architetti e geometri, che puntano il dito sulla scarsa preparazione di Regioni e soprintendenze alle nuove regole.
Con il 31 dicembre 2009 è dunque cessato il regime transitorio della autorizzazione paesaggistica ed è scaduto il temine dato alle regioni per l’adeguamento dei piani paesaggistici alla nuova disciplina del codice dei beni culturali e del paesaggio.
1. L’art.156 del “codice”assegna alle regioni il compito di verificare la rispondenza dei piani paesaggistici alla più stringente disciplina dettata al riguardo dall’art.143 e di provvedere al conseguente adeguamento. E se la regione non abbia in quel termine adempiuto, “il ministero provvede in via sostitutiva”. L’adempimento poteva essere attuato in accordo tra regione e ministero, essendo quindi rimessa alla relativa intesa la determinazione dei termini di completamento per verifica e adeguamento e per la conclusiva approvazione della regione. E il secondo comma dell’art. 156 dava al ministero (che però non vi ha provveduto) il compito di predisporre entro 180 giorni, in accordo con la conferenza stato – regioni, lo schema generale di quell’intesa. Secondo il dato riferito dal Sole – XXIV Ore, solo otto regioni hanno stipulato la specifica intesa. Italia Nostra aveva espresso riserve sulla norma che non prescriveva come necessaria la copianificazione anche per l’essenziale fase dell’adeguamento dei vigenti piani paesaggistici alla nuova disciplina. Ma poiché nessuna regione è stata capace di provvedere autonomamente nel termine, né è pensabile che il ministero sia in grado (per carenza di mezzi e di energie professionali) di provvedere in via sostitutiva, per tutte le regioni (anche per quelle che non hanno stipulato la preliminare intesa) in pratica diverrà ineludibile la copianificazione pure per la fase dell’adeguamento dei piani paesaggistici vigenti.
2. Quanto al ruolo della soprintendenza nel procedimento per il rilascio della autorizzazione paesaggistica si deve registrare la essenziale innovazione operante appunto dal primo gennaio 2010. Non più il potere successivo di annullamento della autorizzazione regionale (per motivi di legittimità, che però comprendono la verifica della adeguatezza della motivazione), ma una competenza consultiva interna al procedimento, essendo il parere dato al riguardo non solo obbligatorio ma vincolante nel merito. Con l’espressione del comma 8 dell’art. 146 (che riflette il proposito di indulgere alla rivendicazione delle regioni, fatta valere nella sede della conclusiva revisione del “codice”) si è inteso restringere l’ambito del potere consultivo del soprintendente, il cui apprezzamento è dunque limitato alla “compatibilità paesaggistica del progettato intervento nel suo complesso ed alla conformità dello stesso alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico”.
Formulazione dettata dalla preoccupazione di escludere l’esercizio di una incontrollabile discrezionalità, ma che non sembra espressione della consapevolezza che il piano paesaggistico, se corrisponde al vincolante modello dell’art. 143, deve dettare specifiche prescrizioni. La soprintendenza è dunque tenuta a dare il suo parere entro quarantacinque giorni, termine che in realtà non sarà agevole osservare per le fragili strutture organizzative e operative di quell’ufficio; e “l’amministrazione competente” (la regione o l’ente delegato) se pure si sia avvalsa della facoltà di indire una conferenza dei servizi, in ogni caso provvede decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte della soprintendenza.
Non si conosce se le soprintendenze si siano attrezzate per far fronte alla nuova competenza o se già si siano rassegnate a lasciar trascorrere nella più parte dei casi gli assegnati quarantacinque giorni, con l’effetto del silenzio assenso (o ad adeguarsi pedissequamente alla valutazione espressa nella relazione tecnica illustrativa trasmessa dalla “amministrazione” con la richiesta di parere); così come nella quasi generalità dei casi fino ad oggi le soprintendenze hanno lasciato trascorrere il termine di sessanta giorni, rinunciando ad esercitare la facoltà di annullamento delle rilasciate autorizzazioni. Un’ultima considerazione: il regime del parere vincolante delle soprintendenze è destinato a protrarsi nel tempo, perché quella consulenza diverrà liberamente apprezzabile (obbligatoria ancora, ma non più vincolante) soltanto quando i piani paesaggistici saranno stati adeguati alla nuova disciplina; gli strumenti urbanistici a loro volta saranno stati adeguati ai piani paesaggistici così adeguati; infine il ministero, su richiesta della regione, avrà verificato il positivo adeguamento.
3. Nell’ultima revisione del Codice si è inteso presidiare con più efficaci garanzie (art. 146) l’esercizio del potere regionale di delega agli enti locali della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio e l’art. 159 in sede di prima attuazione ha onerato le regioni di verificare la sussistenza nei “soggetti” già delegati dei requisiti di organizzazione funzionale e di competenza tecnico-scientifica prescritti dall’art. 146, comma 6, “apportando le eventuali necessarie modificazioni all’assetto della funzione delegata”. E per tale adempimento il termine indicato al 31 dicembre 2008 era stato prorogato al 30 giugno 2009 dal D.L.30 dicembre 2008, n.207. Per quanto è dato conoscere, tutte le regioni sono rimaste inadempienti a quella impegnativa verifica (che comporta una valutazione in concreto per ogni specifico ufficio) e dunque già si è prodotto il previsto effetto automatico della decadenza delle deleghe (“il mancato adempimento, da parte delle regioni, di quanto prescritto […] determina la decadenze delle deleghe in essere alla data del 31 dicembre 2009”), con il risultato del generale “ritorno” alla regione dell’esercizio del potere autorizzatorio.
Non è noto (ma tutto induce ad escluderlo) se le regioni abbiano registrato questa conseguenza, provvedendo in concreto a revocare le deleghe date ad enti locali la cui competenza tecnico scientifica non ha verificato e se abbiano predisposto adeguate strutture organizzative per far fronte in proprio al nuovo assai gravoso compito. Né il ministero si è preoccupato di pretendere l’osservanza di quella decadenza, disponendo innanzitutto che fossero annullate dalle soprintendenze per incompetenza le autorizzazioni tuttavia rilasciate da enti ormai privi di potere al riguardo per decadenza dalla delega. Certamente le soprintendenze, cui saranno richiesti i pareri vincolanti (nel nuovo regime entrato in vigore con il primo gennaio 2010) sul rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche, sono tenute, se il procedimento sia rimasto incardinato presso l’ente locale delegato, ad accertarne la competenza, confermata soltanto nella ipotesi in cui la regione abbia in concreto verificato tempestivamente ( entro il 30 giugno 2009) la sussistenza dei requisiti di adeguatezza organizzativa e tecnico-scientifica voluti dall’art. 146.
Una considerazione conclusiva. Non è arbitrario affermare che né il ministero, né le regioni si sono attrezzati per rispondere responsabilmente agli impegnativi adempimenti imposti dalla messa a regime della disciplina della terza parte del codice dei beni culturali e del paesaggio.
Costruzioni con il sì del soprintendente
Antonello Cherchi, Francesco Nariello - Il Sole 24 Ore
Metà del nostro territorio è sottoposto a vincoli paesaggistici: si va da oltre il 90% di Trentino-Alto Adige e Liguria, al 19% della Puglia.
Al di là delle differenze regionali, il 47% dell'Italia è protetto. Almeno in teoria.
In realtà, le tutele hanno funzionato solo in parte e il paesaggio è stato e continua a essere oggetto di pesanti abusi.
In nome di una salvaguardia più stringente, dal 1° gennaio ogni intervento di qualsiasi tipo sulle aree vincolate, a iniziare da quelli edilizi, deve prima passare per il parere della soprintendenza. Che diventa preliminare e vincolante.
Un totale ribaltamento di prospettiva rispetto a quanto avvenuto finora, perché il soprintendente interveniva a cose fatte quando il progetto era già stato approvato dal comune - e poteva contare su un potere di annullamento degli atti solo per vizi di legittimità. Le nuove regole sono chiamate anche a favorire un uso più razionale del suolo, che negli ultimi anni in Italia è stato occupato con velocità crescente dalle nuove costruzioni: dieci ettari al giorno, per esempio, in Lombardia.
Sono il Trentino, la Liguria e la Valle d'Aosta le regioni più verdi: il loro territorio è per la maggior parte sottoposto a vincoli paesaggistici. Fa da contraltare la Puglia, la regione con meno aree tutelate (solo il 19 per cento).
Differenze regionali a parte, quasi metà dell'Italia è protetta. Si sfiora, infatti, il 50% per cento. Dalla legge 431 del 1985 (la Galasso) in poi il paesaggio è stato messo sotto chiave. Almeno sulla carta.
Nella realtà, il sacco del territorio è continuato e continua. Da venerdì scorso, in realtà da oggi, considerato il fine settimana festivo si cambia passo. Tutti gli interventi sulle aree vincolate, a partire da quelli edilizi, devono prima essere approvati dalla soprintendenza.
Dal 1° gennaio il parere del soprintendente, che fino all'altro ieri veniva espresso sul progetto già approvato dal comune e poteva fare leva solo su un potere di annullamento per vizi di legittimità degli atti, è diventato preliminare e vincolante.
Se l'ufficio dei Beni culturali dice «no», non si può andare avanti. In questo modo lo Stato si riappropria dell'ultima parola sul paesaggio, funzione finora delegata alle regioni, le quali l'avevano a loro volta sub-delegata, quasi sempre ai comuni, ma in alcune realtà anche a province e comunità montane.
Una novità prevista dal codice dei beni culturali e del paesaggio (il decreto legislativo 42/2004, cosiddetto codice Urbani) e rinviata per effetto di varie proroghe. Le regioni infatti, hanno ottenuto più volte che la nuova procedura delle autorizzazioni venisse posticipata. Anche perché il processo di predisposizione dei piani paesaggistici da realizzare insieme al ministero, operazione che a quel punto renderebbe obbligatorio ma non vincolante il parere del soprintendente, va a rilento.
Sono soltanto otto, infatti, le regioni che hanno siglato finora un'intesa per scrivere le norme di tutela del paesaggio insieme ai Beni culturali. Si tratta di Abruzzo, Campania, Friuli, Piemonte, Puglia, Sardegna e Veneto.
Per altre, come Lazio, Umbria e Calabria, il protocollo è pronto, ma non firmato. Se questa volta la proroga che, seppure osteggiata dal ministero, era tuttavia nell'aria, non c'è stata è anche perché le regioni hanno ottenuto dai Beni culturali l'assicurazione che l'intera procedura di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica verrà semplificata.
Già si è messo mano agli interventi di lieve entità e il regolamento che snellisce le pratiche, dopo il «sì» della conferenza Stato- regioni, è ora all'esame del consiglio di Stato. Dopodiché sarà la volta delle commissioni parlamentari competenti e del via libera definitivo di palazzo Chigi.
Al ministero confidano che entro febbraio il regolamento arrivi al traguardo, tanto più ora che c'è la nuova autorizzazione paesaggistica.
I due processi sono, infatti, legati: la semplificazione si applica solo ai permessi rilasciati con le nuove procedure.
Il nuovo anno, però, porterà un taglio agli adempimenti anche per tutte le altre autorizzazioni paesaggistiche (dunque, non solo quelle relative a interventi minori).
La commissione Amorosino, che ha messo a punto le prime semplificazioni, è stata infatti nuovamente insediata dal ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, con il compito di ripensare tutte le procedure dei permessi per i progetti da realizzare su aree vincolate.
Con l'arrivo del nuovo regime, per le regioni c'è da affrontare anche il problema delle deleghe. Con le nuove procedure di autorizzazione, infatti, oltre 2.600 comuni non hanno più le carte in regola per rilasciare i nullaosta.
In tali casi il codice Urbani prevede che le competenze tornino al mittente, cioè alle regioni, che rischiano così di vedersi sommerse di pratiche sul paesaggio, senza esserne attrezzate.
Stesso rischio corrono, seppure per altri, motivi anche le soprintendenze. Ne è convinto Massimo Gallione, presidente del consiglio nazionale degli architetti, una delle categorie dei professionisti interessati dal nuovo regime di autorizzazioni paesaggistiche: «Per quanto mi risulta - afferma - sia le soprintendenze sia le regioni non sono attrezzate al cambiamento. Le prime lamentano una carenza di personale; le seconde sono, in gran parte, ancora indietro sulle deleghe. Il tutto si tradurrà in un forte rallentamento del rilascio dei permessi. In alcuni casi si rischia il blocco».
«E' vero che la nuova disciplina - gli fa eco Fausto Savoldi, presidente del consiglio nazionale dei geometri - dà maggiori garanzie sulla tutela del paesaggio. Le soprintendenze dovranno, però, fare uno sforzo per rispondere alla chiamata, anche se porteranno un valore aggiunto di competenza. Vedo, invece, più complesso l'adeguamento da parte dei comuni e degli altri enti delegati».
Proposte e non solo divieti
Fulvio Irace - Il Sole 24 Ore
Da venerdì è scattata l'ora X per la nuova legge sulla tutela del paesaggio.
Non è sbagliato chiedersi cosa ci si possa aspettare da questa mini-rivoluzione, che rende operativi i propositi di tutela del codice dei beni culturali e del paesaggio (il cosiddetto codice Urbani), e quali prospettive si aprano concretamente per il nostro martoriato ma ancora salvabile territorio.
Tra le regole appena entrate in vigore riveste un'importanza centrale la nuova attribuzione di competenze in materia di autorizzazioni paesistiche e pianificazione paesaggistica: se in precedenza tra i soggetti competenti figuravano le regioni e le soprintendenze con la possibilità di annullare le autorizzazioni, con le nuove norme queste ultime sono chiamate a formulare un parere vincolante che possibilmente dia certezza sui tempi e risposte preventive alle iniziative di project financing.
Un ruolo assolutamente centrale, dunque. Che però sembra mettere d'accordo sia i beni culturali sia i costruttori, che sottolineano il giro di boa voluto per la figura del soprintendente che smette, finalmente, la giacca di signor no. Alle soprintendenze viene infatti attribuita una funzione propulsiva e non più di vincolo a iniziative già avviate, quanto piuttosto di autorizzazione preventiva per un'azione coordinata tra progettisti, enti pubblici e privati e promotori finanziari.
Lo conferma a chiare lettere, ad esempio, Carla Di Francesco, attuale direttore regionale per i Beni culturali dell'Emilia Romagna che aveva ricoperto fino a due anni fa lo stesso incarico per la Lombardia, in uno dei momenti cruciali per la storia dello sviluppo di questa regione. E lo sottolinea anche il presidente di Ance Milano, Claudio De Albertis. Che tuttavia avverte come il vero problema sia quello di rivedere il concetto di tutela imperniato esclusivamente sulla conservazione e assicurare una formazione dei funzionari che tenga conto del dibattito contemporaneo, così da non essere arroccata su una visione solamente proibitiva. Anche attraverso confronti sul tema, conferenze, tavoli di discussione e iniziative pubbliche come quelli promossi dalla stessa Ance.
Il problema, dunque, prima di essere normativo è culturale; non a caso la nuova legge recepisce le direttive europee sulla definizione del paesaggio, che viene integrata con quella di «identità nazionale» e di «rappresentazione materiale e visibile».
La preoccupazione, se mai, riguarda la maniera in cui questa nozione allargata verrà recepita anche dai progettisti cui compete professionalmente l'obbligo di redigere la relazione paesaggistica destinata ad accompagnare la richiesta di autorizzazione dei progetti di intervento in ambito vincolato.
Tant'è che alcune regioni, come ad esempio la Lombardia, hanno cominciato a organizzare con università e ordini professionali corsi di formazione per esperti ambientali da inserire nelle commissioni edilizie integrate, mentre istituti universitari di ricerca ed enti culturali, come l'Inu, Legambiente e il Politecnico di Milano, hanno varato l'Osservatorio nazionale sui consumi di suolo, con l'intenzione di rimettere in agenda il tema sostanziale sotteso a ogni problema di valorizzazione e tutela: la questione del suolo e del suo utilizzo.
Se da una parte infatti si accumulano le iniziative sulla trasformazione dei territori e delle aree urbane come motori di sviluppo economico e di potenziamento delle risorse, dall'altra appare evidente la sottovalutazione del suolo come risorsa finita.
Non a caso, l'osservazione e il monitoraggio del fenomeno come dice il presidente dell'Inu, Federico Oliva sono ancora oggi privi dei più basilari armamentari di analisi e di ricerca, in assenza di dati affidabili e di una reale possibilità di confrontarli e montarli in un ordine che dia il senso delle reali trasformazioni del Paese e dei suoi bisogni. L'idea che la terra non sia un dono ma il frutto - precario - di secoli di fatica e di impegno dell'uomo ci coglie impreparati, come di fronte ai dissesti geologici e ambientali che anche in queste ore stanno frantumando l'Italia. Proprio per questo, la necessità di stabilire un patto è cruciale al pari di quella di creare condizioni e strutture perché ci avvenga. Le condizioni, con il varo delle nuove norme, sembrerebbero esserci. Mancano ancora però, le strutture, che devono essere potenziate attribuendo più risorse alle soprintendenze, chiamate a svolgere la funzione di ago della bilancia.
Sui piani di salvaguardia in ritardo tutte le regioni
Francesco Nariello - Il Sole 24 Ore
La copianificazione segna il passo.
Sono soltanto otto le regioni che hanno siglato un'intesa col ministero dei Beni culturali per la stesura congiunta dei piani paesaggistici.
Il codice dei beni culturali e del paesaggio riconosce, infatti, alle regioni la competenza sulla pianificazione in aree vincolate, ma al tempo stesso assegna al ministero la partecipazione obbligatoria alla scrittura del piano.
Ed è proprio allo scopo di avviare la pianifìcazione congiunta che regioni e ministero possono stipulare intese per definire le modalità di elaborazione dei piani.
Finora le amministrazioni che hanno sottoscritto tali protocolli sono soltanto Otto: Abruzzo, Campania, Friuli Venezia Giuliia, Piemonte, Puglia, Sardegna e Veneto.
L'accordo è stato invece predisposto, ma si attende la sottoscrizione, per Calabria, Lazio e Marche.
In altri casi, come per l'Emilia Romagna, è in atto il tavolo di copianificazione in base a un accordo precedente al varo del codice e si dovrà, dunque, procedere alla sottoscrizione di una nuova intesa. In attesa anche l'Umbria, mentre in Liguria e Lombardia sono in corso trattative per la stesura di un protocollo condiviso. Fanno eccezione Sicilia, Valle D'Aosta e Trentino Alto Adige, che hanno piena autonomia in materia di paesaggio in virtù delle disposizioni dello statuto speciale.
Nessuna regione ha, insomma, centrato l'obiettivo dell'approvazione di un piano adeguato al codice entro la fine dello scorso anno (con il ministero che ora potrebbe, ipoteticamente, intervenire in via sostitutiva).
La legislazione sulle aree tutelate rimane, pertanto, un mosaico: dalla Calabria, che ha firmato l'intesa con i Beni culturali, ma è tuttora sprovvista di una disciplina di tutela, all'Emilia Romagna, che ha appena ridisegnato, con legge varata a fine novembre, la gestione dei vincoli sul proprio territorio.
La Lombardia, invece, dove a luglio è stato adottato in Consiglio regionale il piano paesaggistico (Ppr), attende da mesi una risposta sulla bozza di intesa per la copianificazione inviata al ministero. L'adeguamento degli strumenti di tutela paesaggistica è, in ogni caso, un processo lungo, che dovrà concludersi con il recepimento, entro due anni dalla definizione del piano, delle nuove prescrizioni negli strumenti urbanistici vigenti. Il cerchio si chiuderà poi con la con la verifica da parte del ministero circa l'adeguamento dell'intero sistema. Alla fine del processo, le autorizzazioni paesaggistiche nelle regioni adeguate potranno svincolarsi dal parere vincolante delle soprintendenze.
L'ente locale perde la delega
Francesco Nariello - Il Sole 24 Ore, Norme e Tributi
A rischio più di una delega su tre.
Sono oltre 2.600 i comuni che, con l'entrata in vigore delle nuove regole, non hanno più i requisiti per rilasciare le autorizzazioni paesaggistiche. E' lo scenario emerso dalle verifiche effettuate dalle Regioni, considerando solo quelle a statuto ordinario, sugli enti delegati (i comuni, in quasi la totalità dei casi) a rilasciare i nullaosta per gli interventi in aree vincolate.
Da accertare, entro il 31 dicembre scorso, era la conformità delle strutture municipali con i requisiti di adeguatezza dettati dall'articolo 146 del codice dei beni culturali e del paesaggio, che prevede, da una parte, la presenza di una commissione tecnica in grado di valutare le richieste e, dall'altra, la differenziazione tra le attività di tutela paesaggistica e quelle in materia urbanistico-edilizia.
Alla prova dei fatti, ora, a essere inadeguati sono centinaia di enti, in particolare i comuni più piccoli, le cui competenze tornano al mittente: le regioni che le avevano delegate.
La situazione sul territorio nazionale è tuttavia molto frammentata. Quasi tutte le regioni, non certo ansiose di riappropriarsi delle pratiche sul paesaggio, hanno avviato le verifiche, cercando in alcuni casi di indirizzare i comuni sulla strada dell'adeguamento.
I riscontri sono stati per molto diversi. Le maggiori difficoltà si ritrovano laddove i municipi sono più numerosi. E' il caso del Piemonte, dove l'ultimo monitoraggio ha segnalato 738 amministrazioni in regola su 1.208: circa il 40%, quindi, dovrà adeguarsi. Per molti piccoli o piccolissimi comuni piemontesi l'unica strada percorribile è apparsa l'aggregazione.
Nella stessa direzione è andata la Puglia, dove con la legge regionale 20/2009 sulla pianificazione paesaggistica, spiega l'assessore all'assetto del territorio, Angela Barbanente, «si è stabilito il mantenimento diretto della delega soltanto per i Comuni superiori ai l5mila abitanti, mentre per quelli più piccoli la strada maestra indicata è quella dell'associazione».
In Lombardia a rilasciare le autorizzazioni sul paesaggio, oltre ai comuni, sono le province (su interventi specifici), le comunità montane (per i boschi) e i parchi (per competenza territoriale). In totale, si tratta di oltre 1.600 enti, di cui circa un quarto è ancora inadeguato.
«Negli ultimi mesi afferma Diego Terruzzi, responsabile paesaggio della direzione territorio e urbanistica della regione - abbiamo fatto passi avanti e sono più di 1.100 gli enti che potranno continuare a operare». A fare eccezione è solo la Toscana, dove tutti 287 comuni, sostengono i tecnici regionali, sono attrezzati con una commissione per il paesaggio e con la separazione tra i responsabili incaricati al rilascio delle autorizzazioni in aree tutelate e quelli per gli altri interventi.
Molte regioni, invece, per evitare di dover fare i conti con i nullaosta, tentano di rendere più facile l'istituzione delle strutture tecniche richieste dal codice.
Come nel Lazio, «dove - conferma Daniele Iacovoe, alla guida della direzione regionale territorio e urbanistica si è deciso di aprire le porte delle commissioni non solo a ingegneri e architetti, ma a tutti coloro che hanno i requisiti di legge».
In Calabria, invece, il problema è stato risolto alla radice delegando il rilascio dei permessi alle province.
Autorizzazione paesaggistica più pesante
Mauro Cavicchini - Il Sole 24 Ore, Norme e Tributi
L'autorizzazione paesaggistica chiama all'appello le soprintendenze.
Da venerdì scorso, infatti, il loro ruolo nel rilascio dei permessi diventa decisivo. Finora la soprintendenza interveniva successivamente al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica e soltanto nel caso ritenesse di annullarla.
Dal 1° gennaio, invece, scende in campo prima del rilascio dell'autorizzazione: deve, infatti, esprimere un parere vincolante sulla compatibilità paesaggistica dell'intervento. Dunque, la soprintendenza è chiamata, insieme all'amministrazione competente, a esprimere una valutazione di merito sul permesso, mentre finora poteva annullare l'autorizzazione solo per vizi di legittimità.
Le nuove regole.
Considerate le festività e il fine settimana, è in pratica a partire da oggi che sull'autorizzazione paesaggistica si cambia regime.
La nuova procedura prevede che l'amministrazione che riceve la domanda di autorizzazione paesaggistica, verificata la completezza della documentazione, compiuta l'istruttoria non c'è il silenzio assenso ma deve essere convocata una conferenza di servizi e acquisito il parere della commissione per il paesaggio, trasmetta la domanda e la documentazione allegata alla soprintendenza entro 40 giorni dal ricevimento, accompagnando i documenti con una relazione tecnica illustrativa.
Il parere della soprintendenza deve essere reso entro 45 giorni dalla ricezione degli atti. Nei successivi 20 giorni l'amministrazione competente deve rilasciare l'autorizzazione paesaggistica o comunicare il preavviso di diniego. Se la soprintendenza non rende il suo parere nel termine indicato, l'amministrazione competente può (si sottolinea può, che è diverso da deve) convocare una conferenza di servizi, alla quale la soprintendenza partecipa o manda un parere scritto, che deve concludersi entro il termine di 15 giorni.
«In ogni caso» (questa è l'espressione usata dal codice dei beni culturali e del paesaggio) se la soprintendenza non rende il suo parere entro 60 giorni, l'amministrazione competente è tenuta comunque a pronunciarsi sulla domanda di autorizzazione paesaggistica.
Non vi può essere dubbio che «in ogni caso» significa che l'amministrazione competente ha l'obbligo di assumere un provvedimentc finale e non può attendere oltre il parere della soprintendenza.
Riassumendo: la nuova procedura ha un termine di conclusione fisiologico (se tutto va come dovrebbe andare) di 105 giorni.
Il termine diventa, senza considerare i tempi morti, di 120 giorni quando si ricorre alla conferenza di servizi e rimane tale anche quando non si ricorre alla conferenza di servizi o, comunque, quando la soprintendenza non rende il suo parere.
Anche la nuova procedura, così come quella seguita fino al 31 dicembre scorso, non prevede alcun meccanismo di silenzio-assenso: il superamento del termine fisiologico di 105 giorni produce un silenzio-inadempimento che abilita l'interessato a presentare ricorso al Tar per rimuoverlo o a proporre la domanda di autorizzazione paesaggistica direttamente alla Regione. Il parere della soprintendenza ha, tuttavia, in sé una stranezza: è, infatti, vincolante, ma non obbligatorio, nel senso che, se espresso, obbliga l'amministrazione competente a emanare un provvedimento conforme al parere, ma, se non espresso, impone all'amministrazione di assumere comunque un provvedimento, prescindendo dal parere.
Il cambio di marcia.
Fino al 31 dicembre scorso la domanda di autorizzazione paesaggistica doveva essere presentata all'amministrazione competente, che era tenuta a rilasciarla o a negarla, una volta acquisito il parere della commissione per il paesaggio, entro 60 giorni dalla richiesta (fatta salva una sola sospensione del termine per acquisire integrazioni documentali o eseguire accertamenti).
L'autorizzazione paesaggistica veniva poi inviata, con la relativa documentazione, alla soprintendenza competente per territorio, che poteva eventualmente annullarla, entro 60 giorni, soltanto in presenza di vizi di legittimità.
La sanatoria.
C'è da registrare un altro tipo di autorizzazione paesaggistica, introdotta nel codice dei beni culturali nel corso di una delle sue numerose modifiche. Si tratta dell'autorizzazione paesaggistica in sanatoria, cioè un'autorizzazione che può essere conseguita successivamente alla realizzazione degli interventi. L'autorizzazione in sanatoria riguarda un ventaglio di interventi molto ristretto (anche se almeno una pronuncia del Tar Lombardia lo ha allargato, se pure con paletti molto specifici).
Non si tratta di un atto dovuto, perché presuppone l'accertamento di compatibilità paesaggistica dell'intervento realizzato (che può sussistere, ma anche no). Il permesso è subordinato a un parere vincolante della soprintendenza (che deve sempre essere acquisito) e comporta il pagamento di una somma pari al maggior importo tra danno arrecato e profitto conseguito. L'autorizzazione è rilasciata in 180 giorni.
Le sanzioni.
Qualsiasi intervento realizzato in assenza o in difformità dall'autorizzazione paesaggistica (fatti salvi i casi in cui è possibile conseguire l'autorizzazione in sanatoria, e fatto salvo il caso in cui l'interessato provveda autonomamente alla rimessa in pristino) comporta sempre l'applicazione di una doppia sanzione: la sanzione penale e la sanzione amministrativa che può essere, a seconda dei casi, una sanzione pecuniaria e la sanzione della rimessa in pristino dello stato dei luoghi.
Semplificazione in vista per 42 piccoli interventi
Mauro Cavicchini - Il Sole 24 Ore Norme e Tributi
Autorizzazione paesaggistica in forma semplificata. Per ora si tratta solo di un obiettivo, che però potrebbe a breve trasformarsi in realtà. Il regolamento licenziato in prima lettura in autunno dal consiglio dei ministri sta percorrendo ora tutte le tappe previste e, dopo il via libera della conferenza unificata Stato-regioni, è approdato al consiglio di Stato. Con il regolamento, il ministero dei Beni culturali intende dare attuazione a quella norma del codice dei beni culturali e del paesaggio che prevede un'autorizzazione paesaggistica semplificata, distinta dall'autorizzazione ordinaria, riservando il permesso snello agli interventi di lieve entità. Nello stesso tempo, si vuole onorare, seppure con grandissimo ritardo, l'impegno assunto con l'intesa Stato-regioni-enti locali, che ha dato il via all'operazione piani casa regionali con l'obiettivo di contrastare la crisi economica anche attraverso la semplificazione delle procedure di competenza statale.
La semplificazione annunciata sul versante del paesaggio suscita per qualche perplessità, perché se tocca il nervo molto sensibile delle procedure di rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche, lascia invece scoperto quello, altrettanto dolente, delle procedure edilizie di cui al testo unico. Il tema richiede invece un approccio sistematico e in questo senso è difficile capire perché il Governo abbia messo da parte l'idea molto interessante di allargare il campo della cosiddetta attività edilizia libera, cioè dell'attività edilizia che può essere svolta senza acquisire nessun titolo abitativo. Il problema esiste e bisogna trovare il modo giusto di risolverlo. Anche per quel che riguarda le autorizzazioni paesaggistiche, comunque, non si può fare a meno di mettere in evidenza che il regolamento di semplificazione si troverà collocato in un contesto molto critico, segnato soprattutto dal nuovo ruolo delle soprintendenze, che sono chiamate a rendere un parere su tutte le domande di autorizzazione (quelle ordinarie e quelle semplificate), e nel quale le norme di semplificazione non avranno certamente vita facile.
E con ciò diventa chiaro che, aldilà dei profili procedurali, rimane da affrontare il problema di fondo di far crescere, con iniziative adeguate, e con tanta pazienza, una cultura paesaggistica che oggi è ancora molto carente, al punto tale che l'autorizzazione paesaggistica è vissuta dai più non come uno strumento che può aiutare a governare la qualità degli interventi edilizi, ma come l'ennesimo inutile adempimento burocratico. Detto tutto questo, il regolamento sulle autorizzazioni semplificate è un atto importante e utile, a partire dal fatto che elenca quali interventi devono ritenersi di lieve entità (si veda l'elenco a fianco). Se qualcuno si aspettava, o temeva, una lista striminzita, deve invece ricredersi, e non solo perché le opere di lieve entità elencate sono 42, ma soprattutto perché a esse sono ricondotti, oltre che interventi minori ma frequentissimi, anche interventi molto significativi, come gli ampliamenti, se pure modesti, e le demolizioni e ricostruzioni nel rispetto della volumetria e della sagoma.
Caso mai, l'elenco è per qualche verso problematico in quanto per molti interventi sono indicate soglie quantitative eccessivamente basse o eccezioni che, oltre a depotenziare la semplificazione, formano una zona grigia che renderà molto più difficile capire quando è necessaria l'autorizzazione ordinaria e quando quella semplificata. L'autorizzazione paesaggistica del regolamento si deve considerare semplificata soprattutto in ragione del termine massimo indicato per il suo rilascio, che è fissato in 60 giorni (rispetto ai 105 e ai 120 dell'autorizzazione ordinaria; si veda la pagina a fianco). Una volta che l'amministrazione competente in materia paesaggistica ha ricevuto la domanda, accompagnata dalla relazione paesaggistica anch'essa semplificata, ne ha verificato la completezza, ha accertato la conformità urbanistico-edilizia e la compatibilità paesaggistica del progetto, è tenuta à inviarla, entro trenta giorni, insieme a una proposta di provvedimento, alla soprintendenza, che è titolare di un parere vincolante da rendere entro 25 giorni.
Nei successivi 5 giorni (e siamo così a 6o), l'amministrazione competente rilascia l'autorizzazione. Non è necessario acquisire il parere della commissione per il paesaggio, a meno che la legislazione regionale non lo preveda. E' probabile che questa incalzante progressione temporale lasci molti dubbi a chi ha qualche esperienza di procedimenti amministrativi. Li rende però meno angoscianti una norma del regolamento, che legittima esplicitamente l'amministrazione competente a rilasciare l'autorizzazione paesaggistica prescindendo dal parere della soprintendenza nel caso questa non abbia reso il parere nel termine fissato di 25 giorni e senza che sia necessario convocare alcuna conferenza di servizi.
La conclusione in senso negativo del procedimento semplificato è prevista dal regolamento in termini ancora più brevi: se non sussiste la conformità urbanistico-edilizia, l'amministrazione competente dichiara entro 30 giorni l'improcedibilità della domanda; se sussiste la conformità urbanistico-edilizia, ma l'intervento è valutato come incompatibile sotto il profilo paesaggistico, l'amministrazione competente, nello stesso termine di 30 giorni, emana il preavviso di diniego; se è la soprintendenza che valuta negativamente la domanda, è essa stessa a emanare, nel termine di 55 giorni, il preavviso di diniego.
Per i "no" rischio di aumento
Mauro Cavicchini - Il Sole 24 Ore, Norme e Tributi
Il 2010 rischia di essere un anno difficile per le autorizzazioni paesaggistiche, con inevitabili ricadute per i professionisti che devono presentare i progetti di intervento sulle aree vincolate.
Intanto, perché l'aumento dei soggetti che concorrono al procedimento di rilascio dei permessi non porta con sé alla semplificazione e all'accelerazione delle procedure; rischia anzi, come insegna l'esperienza, di complicarli e di ritardarli.
Dal 1° gennaio, inoltre, in diverse realtà le funzioni paesaggistiche sono ritornate direttamente nelle mani delle regioni, cioè di amministrazioni più lontane dal cittadino interessato al permesso. Il che contribuisce ad aggravare i procedimenti.
Questo riappropriarsi di competenze in materia di paesaggio da parte delle regioni è dovuto al fatto che le deleghe affidate dalle amministrazioni regionali soprattutto a comuni o associazioni di comuni, ma anche a province e parchi regionali, possono continuare a essere esercitate soltanto se quei soggetti possiedono i requisiti di organizzazione di competenza tecnico-scientifica in materia paesaggistica.
Criteri che devono essere verificati dalle regioni, le quali, se riscontrano lacune, devono riappropriarsi delle competenze sul paesaggio. Questi elementi, uniti al fatto che le soprintendenze sono ora diventate titolari di una valutazione paesaggistica di merito, rischiano di produrre una quantità di dinieghi superiore al passato.
C'è solo un modo per evitarlo: dare più qualità al lavoro di tutti, professionisti privati nonché tecnici e funzionari pubblici. Una maggiore qualità fondata soprattutto sulla consapevolezza che il progetto paeggistico è radicalmente diverso dal progetto edilizio e richiede un linguaggio e una forma del tutto specifici.
La necessità di una maggiore qualità riguarda anche la documentazione e gli elaborati grafici che tutti insieme compongono e motivano il progetto paesaggistico. Sul punto, si tratta di superare una superficialità molto diffusa. Ad esempio, non è proprio possibile, come invece avviene spesso, compilare o valutare un progetto paesaggistico senza sapere con precisione quale sia il tipo di vincolo che interessa l'area, e quali eventualmente i suoi contenuti specifici, o senza una adeguata indagine dello stato dei luoghi in cui si colloca l'intervento e una prefigurazione dei suoi effetti, oppure ritenendo che gli aspetti di conformità urbanistico-edilizia prevalgano sugli aspetti più qualitativi (le forme, i materiali, i colori, eccetera) e sulla contestualizzazione.
Un paesagio accerchiato dagli abusi duri a morire
Francesco Nariello - Il Sole 24 Ore
Non si ferma il sacco del paesaggio italiano.
Megastrutture abusive e scheletri di cemento continuano a invadere senza sosta alcuni dei luoghi più belli della Penisola.
E una volta realizzati, ci vogliono anni, a volte decenni, perché vengano demoliti. Uno degli ultimi a cadere è stato l'abbozzo di albergo/residence in cemento armato a Palmaria, in Liguria: ottomila metri cubi di calcestruzzo che sfregiavano il parco regionale di Portovenere. Una vicenda iniziata quarant'anni fa.
Gli abbattimenti più noti, tuttavia, si contano sulle dita, come quello del Fuenti in costiera amalfitana o della saracinesca di Punta Perotti, sul litorale di Bari.
Mentre è ben più lunga la lista d'attesa dei mostri ancora in piedi, dallo scheletro in cemento di Alimuri a Vico Equense (Napoli) alle palazzine di Lido Rossello a Realmonte (Agrigento), dalla palafitta sulla spiaggia a Falerna (Catanzaro) fino alle costruzioni sulle rive del Lago di Garda. Ma sono migliaia gli sfregi, grandi e piccoli, perpetrati sul territorio nazionale.
A tenere aggiornate le liste dei danni al paesaggio, paradossalmente sottoposto per circa il 47% a tutela, ci pensa Legambiente.
«A fronte di aree così ampie da salvaguardare afferma Edoardo Zanchini, responsabile del settore urbanistica dell'associazione ambientalista, a essere debole è proprio la gestione dei vincoli. Sono più di vent'anni che le regioni avrebbero dovuto elaborare i piani paesaggistici: invece, nel centro-sud non ci sono e nel centro-nord sono, quasi ovunque, descrittivi. La gestione del vincolo resta così affidata ai comuni, che decidono sia sulla parte urbanistica che sul paesaggio. Mentre debole è stato il ruolo delle soprintendenze».
Da Nord a Sud i danni al territorio non risparmiano alcuna regione, anche se l'incidenza è più alta nel Meridione. E i pericoli non accennano a diminuire. E' il caso del'Isola d'Elba (Livorno), dove si attende l'esito dell'ultima asta indetta dall'agenzia del demanio (al ribasso rispetto alle precedenti, andate deserte) per capire cosa ne sarà delle ex strutture minerarie di Vigneria a Rio Marina Zona dove dovrebbero sorgere i 47mila metri cubi del Villaggio paese, struttura turistico-ricettiva Il termine per l'invio delle offerte è il 15 febbraio.
Oggi la pausa pranzo - siamo ideologicamente contrari all’abolizione proposta dal ministro Rotondi - è a Villa Necchi Campiglio, un gioiello incastonato nel centro di Milano, appena dietro corso Venezia, dove una volta abitavano i grandi signori come gli Invernizzi della «Mucca Carolina» che allevavano i fenicotteri in giardino e noi bambini proletari ci fermavano oltre i cancelli a guardare quanto erano fortunati i padroni. Adesso gli storici palazzi sono occupati soprattutto da grandi studi di avvocati e commercialisti o dai nuovi ricchi come Diego della Valle entrato addirittura alla Rizzoli. Un segno dei tempi.
L’invito è della signora Giulia Maria Mozzoni Crespi, erede di una dinastia di industriali cotonieri e già proprietaria del Corriere della Sera fino a metà degli anni Settanta, che annuncia le dimissioni dalla presidenza del Fai dopo 35 anni di vigorose battaglie per la tutela del patrimonio culturale e per l’ambiente italiano. Le redini passano a Ilaria Buitoni Borletti, che porta nel nome l’identità di un’altra famiglia industriale lombarda. Ma la signora Crespi rimane in pista: assume la presidenza onoraria e mantiene la delega per l’ambiente.
Il menù, così lombardo e rassicurante in questa giornata grigia: brodo in tazza e pesce persico con risotto, favorisce la conversazione con la signora Crespi che ha il privilegio di tagliare giudizi precisi con la leggerezza e la cattiveria di chi ha ormai raggiunto da tempo l’età della saggezza.
Signora Crespi, perchè si dimette?
«Bisogna dare l’esempio e passare il testimone ai più giovani. Ilaria farà bene e raggiungerà traguardi ancora più importanti di quelli già conseguiti. Io mi dedicherò soprattutto alle battaglie per l’ambiente in Italia.... a proposito: c’è ancora Soru all’Unità? ».
Certo, Renato Soru è ancora editore dell’Unità. Perchè?
«Mi dispiace che abbia perso le elezioni in Sardegna. Soru è stato l’unico che si è opposto alla speculazione e alla cementificazione delle coste della Sardegna, un patrimonio straordinario del paese che va salvato ad ogni costo. Anche Soru dovrebbe essere recuperato alla politica, non si può fare qualcosa? L’ambiente è una priorità, se non lo comprendiamo siamo finiti. Basta guardare cosa succede a Milano».
Cosa succede a Milano?
«In questi giorni non si può camminare per strada. Milano è inquinata da far spavento, ma nessuno dice niente. Quando esco mi si irrita la pelle, mi piangono gli occhi.Michiedo chissà cosa devono soffrire i bambini in questa città. Ma non è solo l’inquinamento, è tutto l’insieme di come viene governata Milano che non funziona. L’amministrazione comunale si distingue solo quando c’è da sgomberare qualche famiglia di rom».
Non le è piaciuto cosa è successo ai rom di via Rubattino?
«No, è una cosa indegna. Non si possono spedire le famiglie e i bambini sotto i ponti, sgomberati dalla polizia, senza dare un rifugio alle famiglie. Se dobbiamo sgomberare, se ci sono problemi di sicurezza, pensiamo prima a una soluzione, a uno sbocco per tutti. Milano ha una storia, una tradizione di accoglienza, di ospitalità che riguarda laici e cattolici. Possibile che dobbiamo subire l’arroganza della Lega? Il nostro comune non è mai stato così mal ridotto».
E il sindaco Letizia Moratti?
«Mi hanno detto che in un anno è stata solo tre volte in consiglio comunale. Evidentemente non considera il confronto un suo dovere di sindaco. Pare che in tv non sapesse cosa rispondere... Guardi, a volte mi viene un brutto pensiero e provo qualche nostalgia per i sindaci socialisti, penso a Pillitteri e anche a quell’altro, quello più basso...».
Tognoli?
«Ecco, anche lui. Mettiamola così: si facevano molte cose per la città, la politica era presente forse anche troppo e poi è finita come sappiamo con le tangenti e la corruzione. Ma c’erano dei progetti, la gente poteva discuterne. Adesso tutti vogliono costruire, sono lavori che spesso non vengono finiti, ma non c’è nessuno che governa questi cambiamenti, non c’è un’idea credibile di cosa sarà Milano tra dieci o vent’anni. Tutti pensano solo a costruire e a far soldi».
Lei conosce bene gli imprenditori lombardi, saprebbe dire oggi dov’è finita la leggendaria borghesia milanese?
«Non c’è più, è scomparsa da anni. È inutile farsi illusioni. Sono diventati tutti berlusconiani ».
Adesso c’è il grande affare dell’Expo 2015.
«Vedremo. Io sono scettica, non mi piace, per ora vedo solo progetti vuoti e tante polemiche. Mi dispiace che c’è dentro anche l’architetto Boeri. Vogliono solo mettere altro cemento. Basta vedere quello che stanno combinando all’Isola, il vecchio quartiere popolare lo stanno distruggendo».
Non ha mai pensato di buttarsi in politica, di fare il sindaco di Milano?
«No, non ho un padre da portare in carrozzella al corteo del 25 aprile (come fece Letizia Moratti, una sola volta, ndr). Sono i giovani che dovrebbero impegnarsi. A mio figlio che si occupa di agricoltura ho detto di candidarsi a sindaco del suo paese, mi ha risposto che non se ne parla nemmeno. Tutti vogliono star lontani dalla politica. Il figlio di Leopoldo Pirelli si occupa di pesci».
Avrebbe un candidato sindaco, qualche progetto per cambiare Milano?
«Qualche idea ce l’avrei. Ma un nome non ce l’ho. Basta. In passato avevo puntato su Aldo Fumagalli ed è andata male. Poi ho appoggiato Bruno Ferrante, ma ho scoperto che era a vicino a Ligresti. Mi batto per l’ambiente e per valorizzare la società civile che voi giornalisti trascurate».
Non le piacciono i giornali?
«No. Sono anche spaventata perchè mio figlio mi dice che libri e giornali sono destinati a morire. Ma io non ci credo. I giornali parlano solo di escort e trans per vendere qualche copia in più, mentre ci sono tante storie positive da raccontare».
Signora Crespi, lei è azionista Del gruppo Espresso-Repubblica: potrebbe parlarne con Carlo De Benedetti ed EzioMauro, sono persone così sensibili, capirebbero.
«Chissà, forse ha ragione».
Arriva il gelato. La signora fa il bis:«È buonissino, lo riferisca di là» dice al cameriere. Poi tutti via, la pausa-pranzo è finita
La terza proroga fa già capolino. Nel consistente pacchetto di emendamenti al decreto legge salva-infrazioni (Dl 135), in discussione presso la commissione Affari costituzionali del Senato, ce n'è uno a firma Lega che propone di spostare di altri sei mesi, cioè fino al 30 giugno 2010, il termine per le nuove procedure sull'autorizzazione paesaggistica. Quelle che, in buona sostanza, richiamano in campo le regioni, ma soprattutto affidano al soprintendente il potere di esprimere un parere preliminare e vincolante sulle richieste di interventi in aree protette, che ricoprono circa il 50% del territorio nazionale.
L'attuale regime transitorio che riproduce i meccanismi introdotti nel 1985 dalla legge Galasso (si veda lo schema a fianco) dovrebbe (e a questo punto il condizionale è d'obbligo) cessare a fine anno per lasciare il posto alle nuove procedure volute dal codice dei beni culturali. Passaggio di testimone che sarebbe dovuto avvenire il primo gennaio di quest'anno, ma che poi è stato fatto slittare a giugno e successivamente a fine dicembre. Il ministero dei Beni culturali, chiamato nei giorni scorsi, come è prassi, a esprimere un parere sull'emendamento leghista, si è detto nettamente contrario all'ulteriore proroga. Per sapere chi l'avrà vinta, però, bisognerà aspettare giovedì, quando la Affari costituzionali inizierà a votare gli emendamenti.
Ma anche l'eventuale bocciatura dell'emendamento non esclude visti i precedenti che da qui a fine dicembre si riaffacci l'ipotesi della proroga. In ballo c'è non solo il nuovo profilo dell'autorizzazione paesaggistica, con il conseguente impegno delle regioni a portare a termine i piani di intervento sulle aree vincolate (compito su cui la stragrande maggioranza delle amministrazioni è in ritardo), ma anche le recenti misure di semplificazione per il rilascio del via libera a modifiche di lieve entità da realizzare nelle zone protette. Il provvedimento, approvato in prima lettura dal consiglio dei ministri, sta ora iniziando l'iter Conferenza unificata, Consiglio di Stato e commissioni parlamentari, per poi ritornare a Palazzo Chigi per il varo definitivo in modo da poter essere pronto a dispiegare gli effetti dal I° gennaio prossimo. Il progetto di semplificazione, infatti, si innesterà sul regime dell'autorizzazione paesaggistica che partirà con il nuovo anno. Se non ci sarà il secondo, perché ancora soggetto a proroga, dovrà, giocoforza, attendere anche il primo.
L'obiettivo del ministero dei Beni culturali è di far procedere in parallelo, senza nuovi slittamenti, i due meccanismi, anche perché con le procedure semplificate si potrebbe affrontare almeno il 70% delle circa 300mila pratiche di autorizzazione paesaggistica che arrivano ogni anno sui tavoli di enti locali e soprintendenze e che quasi sempre riguardano interventi di lieve entità. Uno degli sforzi della commissione ministeriale che ha messo a punto il testo, insieme ai rappresentanti delle regioni e dei comuni,è stato proprio quello diindividuare 42 tipologie di lavori di lieve entità, così che le amministrazioni locali e le soprintendenze abbiano una base uniforme per decidere se rilasciare o meno il nullaosta paesaggistico.
Altri elementi di semplificazione riguardano la documentazione da presentare - è prevista una sola relazione paesaggistica al posto della mole di carte richieste per gli interventi ordinari - e le modalità di invio (si dovrà privilegiare la trasmissione telematica). Una volta ricevuta la pratica, l'amministrazione - gli enti interessati sono soprattutto i comuni, delegati in tal senso dalle regioni - verificherà in via preliminare la fondatezza della richiesta, ovvero se l'intervento è in linea con gli strumenti urbanistici ed è di lieve entità. Nel caso, infatti, sia invasivo, si dovrà seguire la nuova procedura ordinaria. Tutto questo comporterà un sensibile risparmio di tempo: gli attuali 120 giorni (60 per l'istruttoria del comune e 60 per il parere del soprintendente), da gennaio diventeranno 105 (40 per la valutazione dell'ente locale, 45 per il parere vincolante della soprintendenza e 20 per il rilascio dell'autorizzazione) per le procedure ordinarie e si ridurranno a 60 con la procedura semplificata: 30 giorni per l'esame dell'amministrazione, 25 per quello del soprintendente e 5 per l'emissione del provvedimento.
L’art. 158 del Codice dei beni culturali e del paesaggio rimette alle Regioni l’emanazione di “apposite disposizioni di attuazione”. Si tratta dunque della disciplina regolamentare in materia – la tutela del paesaggio – di potestà legislativa esclusiva dello Stato. La Regione Emilia-Romagna si accinge ad esercitare quella attribuzione e presso l’assemblea è in discussione la relativa proposta di legge di iniziativa della giunta. Pubblichiamo le osservazioni che Italia Nostra, associazione nazionale, ha presentato nella audizione promossa dalla competente commissione consiliare, rilevando nella proposta preoccupanti profili di contrasto con i vincolanti modelli della pianificazione paesaggistica come dettati dal Codice. Se così approvata, la legge, a giudizio di Italia Nostra, si esporrebbe a rilievi di legittimità costituzionale.
OSSERVAZIONI DI ITALIA NOSTRA ALLA PROPOSTA DI MODIFICA DELLA LEGGE DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA N. 20 DEL 2000 CON INSERIMENTO DEL “TITOLO III-BIS” “TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PAESAGGIO”.
Si deve rilevare in premessa che l’analitica disciplina della “Parte terza”del Codice dei beni culturali e del paesaggio (come definita con la conclusiva revisione del 2008) lascia margini assai ristretti per più specifiche disposizioni applicative attraverso la legislazione regionale. E non può stupire che il testo normativo qui in esame per la gran parte delle sue prescrizioni sia meramente ripetitivo della disciplina del “Codice”, sicché risulta infine per quella parte superfluo rispetto alla completezza della normazione statale di riferimento.
I
Ma sul punto essenziale della pianificazione paesaggistica la proposta di legge regionale, in luogo di dettare (nei pur ristretti limiti di una praticabile specificazione) le prescrizioni attuative del “Codice”, prospetta uno strumento normativo e procedimentale essenzialmente diverso, dunque alternativo, rispetto al vincolante modello come disegnato nell’art. 143 dello stesso “Codice”. Il quale articolo vuole un unitario piano speciale esteso all’intero territorio regionale dove, alla esauriente ricognizione analitica dei molteplici valori paesaggistici, identificati precisamente attraverso una apposita rappresentazione cartografica “in scala idonea”, corrisponda una disciplina immediatamente applicativa con la “determinazione delle specifiche prescrizioni d’uso” per le singole aree e i singoli immobili considerati. Un piano, in conclusione, le cui necessariamente specifiche “previsioni e prescrizioni sono immediatamente cogenti e prevalenti sulle previsioni dei piani territoriali ed urbanistici”.
Ebbene, il PTPR (piano territoriale paesaggistico regionale) della proposta di legge è strumento essenzialmente diverso, che dà “direttive” (art. 40-bis) alla pianificazione di province e comuni, limitandosi a stabilire “prescrizioni generali di tutela” per gli individuati “sistemi”, “zone”, “elementi territoriali meritevoli di tutela” “come aspetti e riferimenti strutturanti del territorio” (art. 40-quater, c. 2), si limita a definire “i criteri per l’apposizione, la verifica e l’aggiornamento dei vincoli paesaggistici” (art. 40-quater, c. 5), in luogo di apporli esso stesso, nonché “i criteri di rappresentazione, specificazione e articolazione dei sistemi, delle zone e degli elementi ai fini dell’elaborazione della cartografia dei PTCP e dei PSC” (art. 40-quater, c. 3). E infatti l’unico riferimento cartografico per l’attuazione delle funzioni di gestione in concreto di tutela, delegate ai comuni, è costituito dai PTCP che danno attuazione alle disposizioni del PTPR (art.40-bis, c. 5), essendo rimesso appunto alle province, attraverso i piani di coordinamento, il compito di fornire la rappresentazione grafica dei vincoli sulla base della metodologia fissata dal piano territoriale (art. 40-novies). E dunque al PTPR, privo di una esauriente e prescrittiva rappresentazione cartografica, non può certo riconoscersi natura di piano paesaggistico come voluto dal “Codice”.
In conclusione la proposta di legge qui in esame, coerente con il procedimento di pianificazione territoriale disciplinato nella legge regionale urbanistica n. 20 del 2000, è però in aperto contrasto con lo speciale vincolante modello unitario dell’art. 143 del “Codice”, al quale oppone il sistema a cascata, dove il piano paesaggistico risulta infine costituito dall’insieme dei piani di coordinamento provinciale e anzi dal mosaico dei piani strutturali comunali.
E poiché il piano paesaggistico rientra per certo nella materia della “tutela” rimessa alla legislazione esclusiva dello Stato, la disciplina al riguardo proposta dalla Giunta Regionale sembra a Italia Nostra che si esponga a insuperabili rilievi di legittimità costituzionale.
II
Allo stesso rilievo si espone, per contrasto con la vincolante disciplina degli artt. da 137 a 140 del “Codice”, la normativa degli artt. 40- duodecies e 40- terdecies in tema di istituzione, composizione, procedimenti di competenza, delle commissioni regionali che l’art. 137 pone appunto al livello della istituzione regionale, coerentemente con la riserva regionale della pianificazione paesaggistica. E dunque alla regione, non alla provincia, deve spettare la nomina della commissione (nella vincolata composizione) e non al consiglio provinciale la dichiarazione di notevole interesse pubblico (in accoglimento della proposta della commissione), con la specifica disciplina per il territorio considerato che “costituisce parte integrante del piano paesaggistico” (art. 140).
III
L’art. 40- quinquies limita la prescritta copianificazione a un accordo preliminare sui contenuti condivisi del PTPR, escludendo l’istituzione statale della tutela dalla consecutiva elaborazione del piano che l’art. 143, c. 2 del “Codice” vuole invece “congiunta”, sicché l’approvazione conclusiva del procedimento deve necessariamente avvenire, prima della sanzione formale per atto della assemblea legislativa, nei modi del concerto sul modello dell’art. 15 della legge 241/1990.
IV
L’art. 40-decies, definendo i compiti dei comuni, attribuisce loro quello di “rettificare le delimitazioni dei sistemi, delle zone e degli elementi operate dal PTCP fino a portarle a coincidere con le suddivisioni reali rilevabili sul territorio”. Si tratta di una discrezione non soggetta a verifica che ben potrebbe essere esercitata per contrarre arbitrariamente l’efficacia dei vincoli di tutela. E perciò deve essere negata.
V
Una disposizione che esige una specificazione attuativa è per certo quella (art. 146, c. 6 del “Codice”) che impone alle regioni di condizionare la delega della funzione autorizzatoria alla dotazione negli enti destinatari di strutture analoghe a quelle regionali in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche. Sicché non può certo costituire valido adempimento di tale previsione la generale delega ai comuni o alle unioni di comuni disposta dall’art. 40- decies, con la
generica prescrizione di assicurare quell’adeguato livello di competenza, quando invece si impone di definire normativamente i requisiti specifici di organizzazione e competenza degli uffici tecnici dell’ente destinatario. E ciò anche al fine di dare adempimento alla disposizione di regime transitorio (art. 159 del “Codice”) che impone alle regioni di verificare la sussistenza attuale di quei requisiti negli enti già delegati secondo la previgente disciplina, sotto sanzione di decadenza della stessa delega.
VI
Sembra infine che l’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali (IBACN) della Regione Emilia-Romagna, in ragione dello straordinario patrimonio di competenze e conoscenze acquisite negli anni, indiscutibilmente si candidi a costituire all’interno delle proprie strutture l’Osservatorio regionale per la qualità del paesaggio per il quale invece l’art. 40- octies prevede un ruolo del tutto marginale dello stesso Istituto.
Roma – Bologna, 15 settembre 2009.
Sorprendono le parole di Riccardo Conti e Maria Rita Lorenzetti in polemica con Settis. Il quale di sicuro interpreta soggettivamente le cose ( e ci mancherebbe che non fosse così). E non è il solo a pensarla in questo modo. Quanto alla confusione nella lettura della vicenda si vorrà convenire che è la vicenda a essere molto confusa. Non la critica di Settis. Perchè tutto si confonde quando a partire dal piano casa di Berlusconi ( quello che gli chiedevano da tutta Europa) le Regioni gli vanno appresso. E si mettono in quel solco profondo di arretratezza scavato da Berlusconi, seppure differenziandosi mediante l'etica discutibile del male minore, come ha osservato Settis. Stanno più in alto, in quel solco, ma è chiaro che senza la sparata di Berlusconi nessuna Regione avrebbe preso una iniziativa per legiferare sul tema. E infatti nessuna Regione ne aveva fatto cenno prima. Parte Berlusconi e, oplà, tutti dietro.
Le Regioni da sole hanno contrastato Berlusconi – scrivono Conti e Lorenzetti. Ma quali? La Campania? O i presidenti di Veneto e Sardegna che hanno concordato fino all'ultima riga il primo scandaloso disegno e quello successivo. Sono presenti a Palazzo Grazioli tutti e due quando la proposta è messa a punto; e in Sardegna arriva Ghedini per un incontro a Villa Certosa (in una stanza riordinata per l'occasione) dove si decidono le regole per l'isola tanto amata dal presidente. Basta dare un'occhiata al piano di Cappellacci e si capirà lo spirito che lo anima. Generalizzare sulle Regioni è quindi un po' azzardato.
Nessuno toglie il grande merito alle comunità che nel centro Italia – nelle Regioni “perle” - hanno in modo programmatico difeso il paesaggio e aggiunto bellezza al patrimonio. Ma si vorrà riconoscere che da un po' di tempo c'è qualche fondata e diffusa preoccupazione sulla tenuta di quel programma ? O sono una invenzione – per stare alla Toscana – i brutti propositi urbanistici nella Piana di Castello ( nella città grande Firenze) e attorno a Castelfalfi (piccolissimo delicato borgo agricolo nei pressi di Montaione)? I “dolci profili della Toscana” sono in pericolo pure con le norme vigenti, immaginiamoci con il “fai da te” che rosicchierà il paesaggio dappertutto e non risparmierà luoghi di pregio.
Si convincano Conti e Lorenzetti che l'idea dell'edilizia volano della ripresa economica è di destra. E che la loro affermazione va in quella direzione, seppure nella versione di sinistra che reclama “attenzione per gli edili che perdono il posto di lavoro”.
Osservo da molti anni la crescita delle case in Sardegna ( il 25% del totale sono vuote). Nel dibattito che accompagna il processo decisionale – alto il grido:“più case sulle coste” - la litania dei lavoratori dell'edilizia da tutelare si ripete costantemente. Insieme a quell'altra che il territorio non è un museo. “Una società moderna, dinamica, che chiude i beni culturali e ambientali in una illusoria teca di vetro”. Pena il loro deperimento – è la conclusione di Conti e Lorenzetti.
Una vecchia concezione, molto ambigua, estranea alla tradizione della sinistra che attraverso prestigiosi intellettuali l'ha contestata con decisione. Quella sinistra che ogni tanto compare puntualmente intralciata ( ha provato a fare cose buone Renato Soru in Sardegna, e sappiamo dove stavano i suoi avversari).
Per questo la preoccupazione sui programmi recenti delle Regioni di sinistra non solo non si dissolve, ma con l'articolo in risposta a Settis si precisa e si aggrava.
Temo che sia vero. Il brutto messaggio degli anni Ottanta è penetrato, a disorientare quelli orgogliosi della diversità di sinistra, nonostante Berlinguer, la cui intransigenza ( il richiamo all’austerità fu associato all’urbanistica nei titoli di qualche libro) è apparsa estremista pure a sinistra. Poi le cose sono andate come sappiamo e oggi temiamo soprattutto le linee accomodanti, bipartisan, molto ma molto pericolose. Io, lo dico sbrigativamente, vorrei non avere dubbi sulla diversità della sinistra.
Nota: qui l'articolo di Conti e Lorenzetti citato da Sandro Roggio, e qui un primo commento di eddyburg.it affidato al vicedirettore Maria Pia Guermandi (f.b.)
A rilento la collaborazione Stato-Regioni sul paesaggio. Sono soltanto otto, infatti, le amministrazioni che hanno già siglato un'intesa di copianificazione col ministero per i Beni e le attività culturali (secondo le informazioni fornite dalla direzione generale paesaggio, Parc) per l'elaborazione congiunta del piano paesistico o, quantomeno, per fissare insieme la disciplina di tutela per le aree vincolate. Il codice Urbani (Dlgs 42/2004) prevede infatti che le Regioni possano seguire un doppio binario per adeguare la propria normativa in materia di paesaggio: siglare un'intesa più ampia, per scrivere insieme al ministero Beni culturali e all'Ambiente il nuovo piano, oppure decidere di limitare la copianificazione alle sole aree vincolate. Le amministrazioni che hanno finora siglato un accordo col Mibac sono Abruzzo, Campania, Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Puglia, Sardegna. Toscana e, dallo scorso 15 luglio, il Veneto.
Il protocollo d'intesa è stato invece predisposto, ma attende la sottoscrizione, per Calabria, Lazio e Marche. In altri casi, come per Emilia Romagna e Umbria, è in atto il tavolo di copianificazione, mentre per Lombardia e Liguria sono in corso le trattative per la stesura di un accordo condiviso. Sicilia, Valle d'Aosta e Trentino Alto Adige, infine, fanno eccezione perché seguono procedure ad hoc legate allo statuto speciale. Le Regioni possono inoltre stipulare intese col ministero anche per disciplinare lo svolgimento congiunto della verifica e dell'adeguamento dei piani al codice. Un processo al termine del quale, dopo la verifica degli strumenti urbanistici, le autorizzazioni paesaggistiche potranno "svincolarsi" dal parere delle soprintendente, che resterà obbligatorio, ma non più vincolante, L'intesa su questo punto (ex art. 156 del codice) è in alcuni casi andata avanti di pari passo con l'accordo sulla copianificazione (art. 143). Fanno eccezione Campania, Friuli Venezia Giulia e Veneto, che hanno firmato soltanto il secondo.
Le differenze tra Regioni nella road map sulla copianificazione si inseriscono in un quadro, quello della tutela del paesaggio in Italia, che già si presenta molto frammentato. Con la maggior parte delle amministrazioni molto lontana dal centrare l'obiettivo di adeguare, o realizzare, i piani paesistici entro il temine fissato dal codice con successive proroghe al 31 dicembre 2009. ll tutto senza contare il successivo recepimento (delle prescrizioni d'uso su zone vincolate) da parte degli enti locali attraverso i propri strumenti di governo del territorio. La legislazione sul paesaggio appare un mosaico con tessere tutte diverse tra loro.
Il Piemonte è riuscito ad adottare il Piano in Giunta il 3 agosto (con pubblicazione sul Bollettino il 6 agosto, data dalla quale le prescrizioni entrano in salvaguardia). La Calabria, invece, è tuttora sprovvista di una disciplina ad hoc, ma ha siglato l'intesa col Mibac. In Lombardia è in vigore il Ptpr (Piano territoriale paesistico regionale) del 2001, aggiornato lo scorso anno, ma il 30 luglio scorso è stato adottato dal Consiglio regionale il Piano territoriale regionale (Ptr), al cui interno c'è il nuovo piano paesistico lombardo. La Giunta dell'Emilia Romagna ha appena dato il via libera alla legge di "Tutela e valorizzazione del paesaggio" (che ora passa al consiglio) per l'adeguamento del piano regionale, mentre nel Lazio le nuove norme, adottate nel 2007, sono in via di approvazione. La tutela di cipressi e colline in Toscana sarà affidata al piano adottato lo scorso 16 giugno e che dovrebbe entrare in vigore entro fine anno. In Sardegna, invece, si è chiuso il giro di conferenze territoriali sul paesaggio, organizzate dall'assessorato Urbanistica in vista della riforma delle norme di tutela (che a oggi non coprono l'intero territorio ma solo il primo ambito "costiero").
Poche certezze, dunque, per il paesaggio italiano. Una situazione precaria aggravata da ulteriori fattori di instabilità. Come le continue proroghe per il regime transitorio dell'autorizzazione, da ultimo reso valido fino al 31 dicembre prossimo.
Lo stato del paesaggio italiano, e in particolare di quello ligure, nel recentissimo rapporto della Società Geografica Italiana. Da Il Secolo XIX, 31 luglio 2009 (m.p.g.)
Ogni anno la Società Geografica italiana pubblica un Rapporto in cui si raccolgono i risultati di una ricerca. Nel 2009 il tema scelto è stato "Paesaggi italiani. Fra nostalgia e trasformazione", per curare il Rapporto è stato scelto Massimo Quaini, uno dei più importanti geografi italiani, docente all'università di Genova. Il ritratto che emerge dalle cento pagine del prezioso volume è complessivamente desolante. In Italia prosegue inarrestabile l'avanzata del cemento senza che nessuno sia in grado di controllarla. Ogni anno nel nostro Paese le superfici agricole si riducono di 190 chilometri quadrati e le zone rurali che non vengono invase dal dilagare delle aree urbane restano abbandonate al degrado.
Anche la Liguria - che nel Rapporto viene analizzata come caso emblematico, insieme alla Sardegna - non sfugge a questa logica, anche se il Rapporto chiarisce che presunti record di cementificazione, che negli anni scorsi erano stati attribuiti alla Liguria, si basavano su dati del tutto sbagliati. Doveroso scrupolo scientifico, ma magra consolazione per chi vede la regione stretta in una morsa fatta di "rapallizzazione" della costa e di inselvatichimento dell'entroterra. Un amaro bilancio in cui la nozione di tutela del paesaggio rischia di diventare una formula vuota e da cui sorge il dubbio che il paesaggio da tutelare stia scomparendo. "In effetti sono quasi cent'anni che nel nostro paese si parla di tutela del paesaggio e a giudicare dalle discussioni e dall'insoddisfazione in sede culturale e politica non sembra che si siano fatti molti progressi" spiega Quaini "ma forse per trovare le risposte giuste più che domandarsi se esiste ancora un paesaggio da tutelare ci si dovrebbe chiedere perché si deve tutelare il paesaggio. Che senso ha farlo oggi dopo un secolo di profonde trasformazioni negli usi del suolo? Trasformazioni in gran parte inevitabili e che non si possono certo fermare, ma solo guidare meglio. Salvaguardare i paesaggi non significa infatti imbalsamarli e neppure tenerli in piedi artificialmente.
Il fatto è che la nostra concezione del paesaggio è profondamente cambiata rispetto a quella dei ministri che da Benedetto Croce a Galasso, da Urbani a Rutelli (si noti la progressiva decadenza!) hanno introdotto nuove leggi e codici. In breve, siamo passati da una concezione piuttosto aristocratica, che vincolava le "bellezze naturali" e i panorami, a una assai più democratica che avvicina il paesaggio alla percezione e al senso comune dell'abitante, del cittadino, nella convinzione, sancita soprattutto dalla Convenzione europea (ma implicita anche nell'art. 9 della nostra Costituzione), che tutti abbiamo bisogno di riconoscerci in un paesaggio, in un orizzonte geografico al quale ci lega la nascita, la memoria familiare e storica e anche la nostra vita quotidiana e lavorativa. Quindi, se un logoramento c'è stato questo non ha riguardato le ragioni del paesaggio, che anzi sono cresciute e oggi ci sembrano irrinunciabili, ma piuttosto i vari livelli di gestione e cura istituzionale del paesaggio e del patrimonio culturale che ancora lasciano molto a desiderare".
Il Rapporto mostra con molti esempi come, soprattutto a scala locale, non si sia ancora trovato l'equilibrio fra le esigenze della valorizzazione economica e quelle della tutela dei paesaggi. In Italia sembra sia stata ormai abbandonata ogni forma di pianificazione. Gli urbanisti hanno ceduto il passo alle archistar che pensano in termini di edifici e non di territorio. i piani regolatori si fondano sulle deroghe e il cemento non trova più ostacoli.
"La vicenda della pianificazione paesaggistica in Italia ha risentito di una situazione ancora molto confusa sul piano istituzionale e normativo e perciò scarsamente efficace nella tutela" prosegue Quaini "è chiaro a tutti come nei varchi lasciati aperti, talvolta spalancati. nel controllo e nella gestione del territorio la speculazione edilizia, che in Liguria ha avuto una ricca fenomenologia descritta da scrittori e giornalisti famosi, continua a infiltrarsi e prosperare. Oggi dovremmo tutti essere convinti che la speculazione edilizia non è una "valorizzazione" del paesaggio, per la semplice ragione che si basa sul consumo irreversibile di quelle risorse di immagine e anche economiche sulle quali soltanto possiamo ricostruire il nostro futuro. E tuttavia come il giornalismo di inchiesta continua a denunciare non mancano le operazioni meramente speculative.
Da che cosa deriva questa debolezza della pianificazione? Le archistar, ovvero la rincorsa agli edifici-simbolo di alcune grandi firme è certamente una delle cause. Lo è soprattutto perché svaluta il lavoro paziente e sistematico della pianificazione contestuale, i piani che trovano la loro efficacia nella capacità di conoscere e valorizzare l'intero contesto di vita di una comunità e di controllarne quotidianamente i piccoli e i grandi interventi su un bene comune. Solo attraverso questo tipo di pianificazione coinvolgente e "partecipata" si può pensare di tutelare il paesaggio. Il vero controllo e alla fine anche la gestione del territorio e del paesaggio devono farli i cittadini, andando se necessario anche contro i loro rappresentanti. Anche se questi ultimi non sembrano essersene molto accorti questo modo democratico e dal basso di gestire il territorio e i paesaggi è diventato un'esigenza sempre più sentita. Forse, un giorno, quando gli abitanti prenderanno nelle loro mani il destino e l'amministrazione di questi loro beni comuni si potrà pensare di abolire la pianificazione dall'alto, quella che è competenza solo dei tecnici e dei loro incomprensibili linguaggi".
Il Rapporto si occupa principalmente del paesaggio rurale dove la Liguria è considerata un caso esemplare di territorio fortemente urbanizzato sulla costa e con un entroterra che rischia abbandono e degrado. "L'utopia che ho appena descritto sembra lontana anni luce da questo nostro presente e invece se volgiamo le spalle al mondo della costa, come ci hanno insegnato a fare Calvino e Biamonti, e guardiamo all'entroterra, al mondo della collina e della montagna ci rendiamo conto che qui, in questi territori, alcuni brani di questa utopia si stanno realizzando" conclude Quaini "Questi territori non sono forse stati abbandonati dalle istituzioni e non sono abituati a fare da sé, a difendere da soli le loro risorse? Non stanno forse riscoprendo le ricchezze del loro passato anche istituzionale - per esempio le comunaglie: beni da amministrare e godere in comune - e soprattutto le potenzialità di risorse agro-silvo-pastorali e di saperi ambientali legati a mestieri di cui fino a ieri ci si vergognava? Non si muovono in un'altra logica rispetto a quella della costa? Sempre più mi convinco che il futuro della nostra regione si gioca soprattutto in questi territori che il Terzo valico, che peraltro i genovesi vedranno fra trent'anni, vorrebbe bypassare. E non solo perché costituiscono la più grande riserva di paesaggi, ma anche perché la costa è stata così densamente urbanizzata da essere diventata qualcosa di diverso dal paesaggio".
Dal 1995 al 2006 i Comuni italiani (il dato è dell’Istat) hanno concesso autorizzazioni per tre miliardi di metri cubi di edilizia residenziale e non residenziale. Un’autentica colata di cemento che, secondo alcuni, si traduce in sviluppo. Per altri rappresenta in molti casi, certo non in tutti, una ferita indelebile al Paesaggio italiano, vera carta d’identità del nostro Paese che nei propri Beni culturali potrebbe avere un futuro assicurato grazie a un turismo internazionale sempre più colto, sensibile, consapevole. E capace di confronti.
Dunque, troppi sfregi. Eppure l’articolo 9 della Costituzione repubblicana parla chiaro. Lo Stato è obbligato alla tutela del "paesaggio e del patrimonio storico e artistico". Non parliamo insomma di un optional, né di un lusso riservato a pochi raffinati ecologisti. Riguarda la collettività. Ma la cementificazione selvaggia del Centro-Nord, del Sud, della stessa Toscana dimostra che quell’obbligo spesso rimane carta stampata: la rete dei Comitati spontanei toscani guidata da Alberto Asor Rosa dà voce a una protesta contro un centrosinistra al potere molto legato al "partito del fare". Il Codice dei Beni culturali firmato da Giuliano Urbani, nelle sue ultime varianti volute sia da Rocco Buttiglione che da Francesco Rutelli (con una preoccupazione evidentemente bipartisan) ha introdotto una grossa novità: all’articolo 146 si prevede il "parere preventivo, obbligatorio e vincolante" delle Soprintendenze su ogni progetto per le aree tutelate. Ovvero quel 40% di territorio nazionale che costituisce il paesaggio-bene culturale.
Per parlare con chiarezza: se il soprintendente dice no a un intervento su un’area vincolata (diniego motivato, non suggerito da personali snobismi estetici) niente da fare. Ovviamente c’è un "ma", tipicamente italiano. L’articolo 146 non è ancora in vigore perché, dal 2008, siamo in un regime transitorio con l’articolo 159. Prima prorogato al 31 dicembre 2008, poi al 31 dicembre 2009. L’articolo 159, la proroga, nasceva dall’esigenza di adeguare strutture e prassi alle nuove procedure, per abituare al nuovo ritmo Soprintendenze e uffici comunali e regionali. Per ora resta in vigore la vecchia norma che concede al soprintendente solo il potere di annullare entro sessanta giorni l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune e della Regione. Col risultato che in passato solo tre autorizzazioni su cento, in media, sono state bloccate e la metà di quelle annullate dai Tar.
Naturalmente il regime di proroga è visto con immenso favore dai Comuni. I permessi edilizi producono oneri di urbanizzazione, ovvero denaro fresco che può (ancora) finire nei bilanci correnti in un momento in cui sono poverissimi. Altrettanto favore viene dal partito trasversale del mattone, dell’"impresa in un giorno", molto potente sia in Toscana che nel Nord-Est dove "l’intera pedemontana lombardo-veneta è una continua conurbazione edilizia ", come lamenta Vittorio Emiliani presidente del Comitato per la Bellezza. L’Italia così come ancora la conosciamo è, insomma, sempre più in pericolo. E troppo spesso gli interventi edilizi sono di qualità scadente, in contrasto con il "linguaggio " dei nostri panorami. L’Italia è un "museo diffuso", un tutt’uno tra Paesaggio e patrimonio artistico, concetto caro a Cesare Brandi come a Federico Zeri.
Sono in molti ad attendere dal ministro Sandro Bondi un gesto coraggioso di governo: far sì che questa sia l’ultima proroga, dando via libera all'articolo 146. E alla pienezza della tutela, soprattutto ora che siamo a un passo dal Piano casa. Preoccupazione notoriamente condivisa da Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei beni culturali.
Stanno per finire i lavori della commissione di semplificazione dell’articolo 146, voluta da Bondi e presieduta dal professor Sandro Amorosino, esperto di diritto urbanistico. Si tratta di distinguere il banale permesso per l’apertura di una finestra, mettiamo, in una casa di Ischia (zona tutelata) da una costruzione vera e propria. Lo strumento libererà Soprintendenze e Comuni da molti vincoli lasciando sul tavolo i problemi veri del Paesaggio. Chiusa l’operazione, occorre un gesto forte, il varo dell’articolo 146. Altrimenti la tutela, nei prossimi anni, rischia di essere pura finzione burocratica. Non realtà politica e culturale.
«Un grande piano di restauro e di manutenzione dell’ambiente e dei paesaggi italiani». Il rapporto che ogni anno la Società Geografica Italiana elabora sullo stato, appunto, dei paesaggi italiani, si condensa in un appello. Che ha i toni ultimativi. Una specie di manifesto rivolto alle tante istituzioni, c’è chi dice troppe, che intrecciandosi fra loro e spesso confliggendo hanno in mano la cura di quello che Massimo Quaini, geografo dell’Università di Genova e coordinatore del gruppo di lavoro che ha elaborato il rapporto del 2009, definisce «il nostro più grande patrimonio».
Il documento verrà presentato stamattina a Roma, a Montecitorio. E insieme alle duecento pagine del rapporto (intitolato I paesaggi italiani. Fra nostalgia e trasformazione), verrà illustrato anche un decalogo di buone politiche a difesa di un paesaggio aggredito da un’urbanizzazione dissennata e disordinata, ma anche da trasformazioni agricole incongrue oppure dall’abbandono sempre più vorticoso di estese aree rurali.
Le buone politiche riguardano intanto la conoscenza analitica dello stratificato mosaico di paesaggi di cui è ricca l’Italia, "area per area", insistono i geografi, "sito per sito". Il decalogo poi sottolinea che il paesaggio è "un bene comune" e che va considerato, e quindi tutelato, come "un complesso unitario", senza spezzettamenti tra enti pubblici, sovente contrapposti. Di qui si passa a imporre il paesaggio e la sua protezione come "un limite invalicabile" di ogni intervento sul territorio, sia esso un insediamento edilizio, sia essa un’infrastruttura.
La Società Geografica Italiana è un istituto culturale (è nata a Firenze nel 1867), ma sulla base di analisi, di riflessioni scientifiche, ogni anno rende pubbliche questioni scottanti. E chiama alla mobilitazione. Nell’Italia di oggi, si legge nel rapporto 2009, «il disastro ai danni del paesaggio non sta tanto nello scandalo dei grandi abusi e nei mostri edilizi, quanto piuttosto nell’erosione continua, quotidiana, che si consuma sotto ai nostri occhi, e minaccia di cancellare del tutto il confine fra città e campagna». Il disastro, poi, è ingrandito dal ritardo del nostro Paese: «Confrontandoci per esempio con la Francia, ci è mancato il senso vivo e diffuso di un’identità rurale non meno forte dell’identità urbana, che concorre, a pieno titolo, alla costituzione dell’identità nazionale».
Fra i casi più eclatanti di avvelenamento da parte della città nei confronti della campagna, il Rapporto cita Malagrotta, vicino a Roma, e le aree appena esterne a Napoli e a Caserta, dove si sversano tonnellate di rifiuti. E invece proprio le aree periurbane vengono ritenute dalla Convenzione Europea del Paesaggio come le più delicate e quelle degne di maggior salvaguardia. Il Rapporto indica come esemplare il Parco Sud di Milano, minacciato da interventi speculativi, come una delle aree in cui si tenta «di bloccare l’informe espansione della città diffusa» e «di salvare e ricostituire in forme nuove il paesaggio agrario storico».
Uno dei punti deboli italiani, sottolinea il Rapporto, resta la conoscenza. Per esempio si assiste a disinvolti balletti di cifre sul consumo di suolo. Mentre in altri paesi, come la Gran Bretagna, esistono sistemi di monitoraggio affidabili e costantemente aggiornati, in Italia si annaspa. Si passa da valutazioni allarmistiche (i 3 milioni di ettari persi dall’agricoltura in dieci anni vengono tout court assegnati al cemento) a cifre tranquillizzanti, però molto sospette (fondate sulla rilevazione satellitare, alla quale sfuggono le villette con un ettaro di giardino intorno). Ma per tutelare il paesaggio, sostengono i geografi, occorre prima sapere di cosa si parla.
Sull’inaffidabilità delle cifre “sparate” sul consumo di suolo vedi l’eddytoriale n. 108 del 26 novembre 2007 e gli altri documenti ivi citati in calce
Fra 1996 e 2005 i Comuni – spesso delegati alla tutela paesaggistica dalle pigre Regioni – hanno autorizzato 3,2 miliardi di metri cubi di nuova edilizia, con consumi folli di suoli e di paesaggi. Così l’Annuario Istat. Che ci racconta di un cemento ormai ininterrotto fra Veneto e Lombardia. Dove si stanno varando Piani Casa, ben prima di un testo nazionale che non contrasti con l’art. 9 della Costituzione (“La Repubblica tutela il paesaggio”). L’assessore lombardo Davide Boni giura che consentirà interventi anche nei centri storici e nei parchi infischiandosene delle Soprintendenze.
Il ministro Bondi le sa queste cose? Cosa intende fare dell’articolo 9? Ha accettato tagli mortali ed ha voluto una riorganizzazione del Ministero, che crea un super-direttore generale destinato a «fare profitti» coi beni culturali e indebolisce proprio ora la direzione generale per la tutela del paesaggio. Forti le critiche in commissione Cultura della Camera (non soltanto da un battagliero Pd) e dimissioni del relatore, on. Fabio Granata, ex An. Alla fine un “sì” molto sofferto, con la presidente, on. Valentina Aprea, ad invocare, un tragicomico voto di fiducia.
Se ne è parlato mercoledì, a Roma, nell’incisivo convegno di Assotecnici dopo la riuscita, compatta protesta degli archeologi romani contro il commissariamento. Leit-motiv della riunione aperta da Irene Berlingò e da Giuseppe Chiarante: «Ridare centralità alla tutela e all’articolo 9».
Pienamente condiviso dallo stesso on. Granata («La difesa del paesaggio viene prima di tutto»), dall’on. Giulietti («La commercializzazione ha già devastato la tv»), dall’on. Melandri («Minacciato lo stesso Ministero»), dal giurista Giuseppe Severini («Desolante la corsa regionale ai piani-casa»). Nasce un progetto trasversale di difesa attiva del paesaggio, della Costituzione. Ne parleranno i giornali? In maggioranza, fateci caso, sono in mano a grandi costruttori.
"Bisogna riaccendere la fiammella dell’edilizia per riavviare lo sviluppo economico nella nostra regione". Poche parole sintetizzano un clima politico. Quelle che ha pronunciato qualche giorno fa il presidente della Sardegna, Ugo Cappellacci, disegnano lo scenario del presente e del prossimo futuro. In Sardegna si chiude la stagione di un rigoroso controllo dell’espansione edilizia e si apre quella di una riscossa del cemento. Il piano paesaggistico di Renato Soru era considerato il baluardo a difesa di un paesaggio costiero violentato da un tappeto di villette e di villaggi turistici. E la base di partenza per uno sviluppo non segnato dallo spreco di suolo. Ma alle elezioni regionali di febbraio, in 67 dei 72 Comuni sardi affacciati sul mare ha vinto il centrodestra: si è valutato che è meglio l’utile a breve assicurato dal tirar su case usate un mese l’anno, anziché la risorsa che garantisce a lungo termine la stessa economia turistica.
Molta parte del discorso sul paesaggio risponde a una strategia schiacciata sul presente, elevato a misura dell’agire politico. Non è una novità nella nostra storia recente. La politica, le amministrazioni pubbliche, faticano a contenere gli interessi che si condensano intorno all’edilizia e non riescono a governare le trasformazioni che investono il territorio. Il cosiddetto piano-casa, di cui si stanno perdendo le tracce, non si propone di rimettere in sesto le parti di città in cui la qualità urbana è smarrita, di ricostituire spazi e dimensione pubblica nei quartieri costruiti dagli anni Cinquanta in poi, cioè quasi i nove decimi di quel che vediamo edificato intorno a noi. E invece incentiva l’ampliamento degli appartamenti, come se il benessere dell’abitare fosse solo un affare privato.
I regali di cubature non sono un salto di qualità nell’atteggiamento culturale verso territorio e paesaggio. Proseguono e intensificano un indirizzo sperimentato. Negli ultimi dieci anni si sono costruiti 3 milioni e mezzo di appartamenti, come nel dopoguerra. 340 mila appartamenti nel 2007, di cui 30 mila abusivi. E poi gli stabilimenti (7 mila nel 2005, tanti quelli già sfitti) e le cave (6 mila attive e circa 10 mila dismesse). Tutto questo cemento non risponde a necessità se non degli immobiliaristi. Non intacca il fabbisogno di case (che, per un numero crescente di italiani, è una tragedia). Inoltre si abbandona a se stesso il fenomeno della dispersione abitativa.
In tutta Europa - la vicenda è ampiamente analizzata - le città perdono i caratteri di finitezza e vedono svanire ovunque la loro forma. Gli insediamenti si spalmano e si riaddensano. Ma in Italia, a differenza che altrove, questo processo è regolato prevalentemente dalla rendita, che mira ai luoghi più preziosi, scardinando anche consolidate tradizioni di buongoverno: ogni giorno in Emilia Romagna viene consumato l’equivalente di 11 campi di calcio. Ogni giorno. Anche la progressione storica indica un fenomeno travolgente. A metà dell’Ottocento le aree urbanizzate della pianura erano l’1,5 per cento del totale. Negli anni Cinquanta del Novecento erano il 2,5, diventato il 7,5 negli anni Settanta e il 13 nel 2001. Praticamente il raddoppio dell’edificato in trent’anni.
Sotto i colpi di questa cavalcata si banalizzano, si riempiono di detriti o semplicemente spariscono molti paesaggi italiani, teoricamente protetti da una maglia di norme fitta al centro che perde densità più si scende nella dimensione locale. I paesaggi italiani - dicono storici, agronomi, urbanisti - hanno poco di naturale e sono fortemente caratterizzati dalle manipolazioni dell’uomo. Tanti studiosi parlano di paesaggi culturali, raffigurando così l’intreccio di questioni fisiche e antropologiche che ne stabiliscono gli assetti: dal Delta del Po ai terrazzamenti della Costiera Amalfitana. Eppure, scrive Rosario Assunto in un libro uscito a metà degli anni Novanta, gli italiani sono còlti da una specie di "voluttà sostitutiva, derivata dal sentirsi artefici di una vera e propria rivoluzione culturale, al negativo, che si avventa contro il paesaggio della memoria e della fantasia per ridurlo a semplice spazio della geometria". Quando si parla di trasformazioni del paesaggio è prevalentemente al cemento che si pensa. Perché, per una consolidata opinione, è la potenziale trasformazione edilizia il diritto più vantaggioso iscritto nel possesso di un suolo: altra anomalia italiana.
Il paesaggio non è solo una "veduta", è piuttosto una dimensione complessa che spiega la nostra cultura, la nostra politica, il nostro essere comunità e cittadini. Secondo Luis Fernàndez-Galiano, architetto madrileno, "avremo il paesaggio che ci meritiamo, perché il paesaggio è una geografia volontaria". Il paesaggio si presta a essere laboratorio di idee e di progetti, sempre che non venga considerato come puro spazio da riempire e se interpretato come vera risorsa. Per molti, fortunatamente, resta questo il punto su cui agire per una difesa attiva dei paesaggi, vincolando, ma andando anche oltre: conoscerli, analizzarne il rapporto con le comunità, individuarne gli statuti, pianificarne l´organizzazione e stabilire quali usi siano compatibili e quali no, quali risorse essi producono e quanto valga il loro essere concepiti come un sistema. Era, più o meno, quello che si è tentato di fare in Sardegna.
"Per uno sviluppo sostenibile e durevole del territorio" è il tema della tavola rotonda coordinata da che si tiene alle 17 al centro congressi in via Partenope 36, a cui partecipano Alberto Asor Rosa (presidente della rete dei comitati toscani per la difesa del territorio), Paolo Maddalena (giudice della Corte costituzionale), Michele Scudiero (ordinario di Diritto costituzionale nella Federico II), Salvatore Settis (direttore della scuola Normale superiore di Pisa), Massimo Marrelli (presidente del Polo scienze umane e sociali della Federico II) e Mirella Stampa Barracco (presidente della fondazione Napoli Novantanove)
Il paesaggio, che faticosamente pareva essere entrato nel novero dei beni comuni e con orientamenti bipartisan, ogni tanto viene rimesso in mezzo come un anfratto ideologico visto in maniera predatoria, in particolare da una precisa parte politica. E, soprattutto, la tutela del paesaggio rappresenta, ad occhi non scevri da interessi di piccolo cabotaggio, un esproprio anti-liberale che contrasta con le proprie, comode, concezioni di sviluppo.
Non è un caso che la prima dichiarazione del neo-presidente della Regione Sardegna Cappellacci è stata quella, incontenibile, sulla necessità di modificare l’odiato piano paesaggistico e l’armatura delle tutele messe in piedi dalla giunta Soru.
Dalla Campania viene un messaggio a volte contraddittorio e, soprattutto, subdolo perché nascosto dietro il fragile paravento del tradizionale ambientalismo di sinistra. Negli ultimi anni, infatti, si è forgiata una strisciante serie di leggi e norme regionali che in molti casi hanno, di fatto, deregolato buona parte della materia paesaggistica, affidandone la tutela non tanto alla norma tout-court, chiara, sufficientemente vincolante e inserita in un quadro pianificatorio nitido e di medio-lungo periodo, ma ad un farisaico sistema di verifiche ex-ante (di tipo auto-certificativo) e controlli ex-post, che nessuno tra Comuni, Province e Regione si prende la briga di fare concretamente e che si espone a cavillosità di tipo giuridico che molto spesso favorisce lo speculatore. Il caso della Penisola Sorrentina erosa dai parcheggi interrati è un esempio di incredibile attualità e affogato, tra l’altro, in un silenzio delle istituzioni colpevole e complice.
Tuttavia, almeno a parole, pochi a sinistra mettono in discussione acquisizioni fondamentali come piani paesistici, vincoli ambientali, tutela del verde residuo, ricostruzioni di ecologie urbane e di ecosistemi rurali, e così via. Ma secondo quali paradigmi, in questo campo, il centrodestra campano si candida a governare? Ad oggi non è noto un programma compiuto sui percorsi di sviluppo e di tutela del territorio che il centro-destra ritiene prioritari e intende applicare nell’eventualità di una vittoria. Un vuoto di idee e proposte che, in attesa che qualcuno si decida a colmarlo, non fa ben sperare, soprattutto se si fa riferimento ad alcune esperienze di governo locale.
A Roma, ad esempio, l’avvento della giunta Alemanno ha intensificato quanto già veniva in parte contestato a quella precedente: la saturazione edilizia dell’Agro romano, con venticinquemila nuovi appartamenti e 9 milioni di metri cubi, da costruire ancora su altri 750 ettari di quel che resta dell’Agro. Nella Milano della Moratti (opere per l’Expo a parte) siamo in piena epopea dei parcheggi interrati: si scava ovunque, in suoli pubblici e privati, nel centro città, con modifiche e varianti al programma parcheggi, in un processo continuo di privatizzazione del bene pubblico e con la nascita di comitati di cittadini spaventati da questa invasione nella loro quotidianità. L’assessore milanese allo sviluppo del territorio, Carlo Masseroli, ipotizza con un po’ di fantasia, 700.000 abitanti in più nella città e paventa la necessità di un aumento dell´indice di fabbricazione da 0,65 a 1 mq/mq (fonti: Eddyburg.it).
Le dichiarazioni del neopresidente della Regione Sardegna sono chiare, ma anche nell’altra isola a gestione centrodestra, la Sicilia, le idee sullo "sviluppo" sono associate a gestioni private di beni pubblici, alla "valorizzazione" di aree tutelate (valorizzazione che in genere implica la "necessaria" costruzione di strade, locali di accoglienza, strutture "provvisorie", aree di ristoro, eccetera.), come si è ipotizzato, tanto per fare un esempio, per la Valle dei Templi di Agrigento. A livello governativo, poi, le leggi sul condono edilizio sono una specialità berlusconiana che non trova riscontro in altri Paesi d’Europa. Su questo breve sfondo dovrebbero innestarsi le candidature locali del centrodestra e i loro programmi, ancora taciuti, per il territorio e per il paesaggio. A cominciare dalla Provincia di Napoli. Sarebbe utile saperne qualcosa in più.
Il punto di partenza non possono che essere le immagini e il testo di Aldo Sestini nella collana Conosci l’Italia del Touring del 1963. I tipi di paesaggio individuati nell’Italia centrale sono una ventina, dalle colline dell’Umbria ai massicci dell’Appennino abruzzese, dai monti calcarei del Lazio a isole, spiagge e promontori tirrenici. La descrizione si sofferma in particolare sui caratteri naturali e sulle coltivazioni che allora occupavano la maggior parte del territorio, mentre l’insediamento umano è trattato molto succintamente. Il paesaggio delle colline toscane sembra ancora quello attraversato da Guidoriccio da Fogliano. Sestini non sembra preoccupato da quella che definisce “la questione dell’armonia dell’impronta umana nel paesaggio” e dalle “lagnanze che spesso si muovono a riguardo della deturpazione di paesaggi di particolare bellezza o specialmente caratteristici”. Solo in Versilia l’urbanizzazione è già allora dominante: “un susseguirsi quasi continuo di abitazioni, di ville e villette d’ogni tipo, di alberghi, di grandi edifici per colonie, di giardini privati e pubblici, di viali, d’impianti balneari”.
Che è successo nel meno di mezzo secolo trascorso dalla pubblicazione del volume del Touring? È successo che il paesaggio descritto da Sestini non esiste più. Fatte salve, in parte, le montagne, il restante territorio è irriconoscibile. È diverso il paesaggio agrario, non ci sono più la mezzadria, i coltivi promiscui, le minute reti infrastrutturali. Ma, soprattutto, l’urbanizzazione è dilagata in ogni direzione. Un paesaggio rimasto sostanzialmente stabile per secoli, nel giro di pochi decenni è stato annientato. Il dato che più di ogni altro descrive la rovina è la dissipazione del suolo agricolo o in condizioni naturali. Mentre in Italia la popolazione è cresciuta, più o meno, del venti per cento, in alcuni luoghi la superficie urbanizzata è aumentata anche di più del mille per cento (a differenza di altri paesi europei, da noi non esistono dati ufficiali e si moltiplicano le stime dilettantesche o di comodo).
In Toscana, nella maggior parte del territorio collinare e montano, gli insediamenti sono tuttora radi, ma nei fondovalle, lungo la costa settentrionale e nelle pianure principali l’occupazione del suolo ha superato il livello di guardia. Firenze e la sua sterminata periferia sono ormai connesse a tutti i capoluoghi provinciali, con la sola eccezione di Grosseto, in un unico, continuo sistema insediativo regionale (e anche interregionale, verso La Spezia).
Ma il peggio succede nell’Agro romano, il paesaggio forse più celebre dell’Italia centrale. “I pini a ombrello solitari o i ciuffi di eucalipti […] ne costituiscono un ornamento di maggior risalto, insieme alle suggestive arcate degli antichi acquedotti, alle rovine di ville e di monumenti sepolcrali romani”: così lo descrive Sestini, non diverso da quello che videro i viaggiatori del Gran Tour. Negli ultimi quarant’anni quel paesaggio è stato massacrato, e il nuovo piano regolatore della capitale ha sferrato il colpo di grazia prevedendo ancora espansioni per almeno 15 mila ettari, in tutte le direzioni, fino alla saldatura con i comuni limitrofi. Un’espansione a bassa densità, che in alcuni nuovi quartieri si ferma a tredici abitanti per ettaro. Un dato delittuoso, una periferia che non sarà mai città, dominata da ben trentuno giganteschi nuovi centri commerciali, tutti costruiti negli ultimi dieci anni.
Così è finita la più importante risorsa archeologica del mondo, lo spazio che da millenni isolava Roma dal resto del Lazio. Dapprima fu solo Italia Nostra, con Paolo Berdini e pochi altri benemeriti, a denunciare il sacco della capitale (con Legambiente che ci accusava di essere quelli che sanno dire solo no). Poi, seppure in ritardo, soprattutto dopo un ottimo servizio di Report, anche la stampa benpensante ha cominciato a raccontare la verità.
Dobbiamo insistere, estendere e rafforzare la contestazione al modo con il quale si distrugge il nostro paesaggio, la nostra storia, il nostro futuro. Non solo a Roma. Dalla nostra parte ci sono tutte le ragioni e le condizioni per pretendere che si ponga fine alla catastrofe. A Londra un incremento della popolazione di un milione di persone in dieci anni è stato fronteggiato senza consumare neanche un metro quadrato di green field, solo recupero di aree dismesse. Severissime politiche di consumo del suolo sono perseguite in Germania e in altri paesi europei.
L’Italia procede invece nella direzione opposta. Alla Camera dei Deputati è ripreso il dibattito sul famigerato disegno di legge Lupi, che incentiva il consumo del suolo, obbliga i pubblici poteri a negoziare con la proprietà fondiaria, elimina gli standard urbanistici. Estende insomma a tutt’Italia il modello milanese. Quella proposta era già stata approvata dalla Camera nel giugno 2005, con il voto favorevole anche di alcuni parlamentari del centro sinistra. Per fortuna, smentendo tutte le aspettative, non fu approvata dal Senato. Adesso torna nelle aule parlamentari, e per Italia Nostra diventa indispensabile promuovere la stessa mobilitazione che, all’inizio del 2006, scongiurò la tragedia.
"Trasformate le vecchie ferrovie abbandonate in piste ciclabili e itinerari turistici". La proposta - che verrà rilanciata domani in un convegno di Italia Nostra, Società geografica italiana e Associazione Greenways - ha l’obiettivo di recuperare una rete lunga oltre cinquemila chilometri e di valorizzarla dal punto di vista paesaggistico. "Quei binari - dicono gli organizzatori - sono un bene culturale del nostro Paese. Non è un’operazione nostalgia ma un modo per costruire nuovi percorsi "verdi" alternativi alla rete autostradale dominio delle automobili".
Sono migliaia di chilometri, attraversano ordinatamente campagne e vallate, s´inerpicano con discrezione sulle montagne, si affacciano appena visibili sulle coste. Sono vecchie ferrovie, formano una rete di binari dismessi, sono il paesaggio ferroviario abbandonato, rimasto in balìa della natura che lentamente se ne riappropria.
Un convegno nella sede della "Società geografica italiana", "Ferrovie e paesaggio", ricorda domani l’Italia dei treni, quando non esisteva l’Alta velocità e viaggiare era un rito forse lento, un po’ scomodo, ma che aveva le sue emozioni e la sua mitologia. Soprattutto permetteva, prima dei display di cellulari e computer, prima delle gallerie infinite e dei finestrini sbarrati, di godere di paesaggi suggestivi, di vagare distrattamente con lo sguardo così che lo spostamento non fosse solo un vuoto tra una destinazione e l’altra, un tempo morto. Il convegno, organizzato da Italia Nostra, Società Geografica italiana, Associazione Greenways, è il primo appuntamento della "Giornata delle ferrovie dimenticate" che verrà celebrata il primo marzo.
"Riteniamo che il patrimonio ferroviario storico, il suo capitale fisso e mobile, che è stato parte della nostra vicenda moderna di nazione, che è stato frutto di ingegneria innovativa, che ancora segna molte parti del nostro territorio, non debba essere abbandonato", spiega Albano Marcarini, presidente di Co. Mo. Do., Confederazione per la mobilità dolce. "Forse non avrà il credito e l’altezza culturale di un grande dipinto, di una celebre chiesa, ma è certamente qualcosa che è entrato fortemente nella vita di tutti noi. Pensiamo che il ‘paesaggio ferroviario italiano’ debba essere recuperato e valorizzato in qualità di bene culturale".
Quello delle ferrovie dismesse è un patrimonio che attraversa l’Italia, collega città, paesi, borghi, è fatto anche di ponti, viadotti, gallerie, stazioni e caselli, architetture del secolo appena passato collocate in posizioni strategiche, che lentamente si sgretolano. Con il progetto di legge 1140, Co.Mo.Do, grazie alla senatrice verde Anna Donati, aveva presentato nella scorsa legislatura, una proposta per il "riuso delle linee ferroviarie definitivamente abbandonate sotto forma di piste ciclo-pedonali, la loro concessione agli Enti pubblici, l’idea di uno schema di rete di mobilità dolce, fondata proprio sull’impiego di questo patrimonio che, ricordiamo, si aggira oggi intorno ai 5600 km in tutta Italia", dice Marcarini. Un progetto che non è un’"operazione nostalgia" ma un modo per costruire una rete di percorsi "verdi" alternativi alla rete stradale diventata dominio delle automobili. "Ora occorre ripresentare il ddl nella sede parlamentare".
Al centro del convegno di domani anche una riflessione sui "paesaggi sensibili". "Forse abbiamo ancora tutti presente certe scene che sono entrate nell’immaginario collettivo della ferrovia: i saluti dal finestrino, il carico delle valigie, gli scappellotti di "Amici miei", Don Camillo che dal finestrino riassapora gli odori della pianura del Po", dice Marcarini. "Ma pochi oggi sembrano realmente interessati al paesaggio che scorre accanto. A volte chi fissa il finestrino, fissa il vuoto. Occorrerebbe lanciare una campagna per una nuova educazione al paesaggio. Un ruolo che la nostra rete ferroviaria minore potrebbe svolgere. Anche una linea abbandonata potrebbe diventare un museo del paesaggio all’aria aperta".
«Il deposito di una poderosa attività edilizia, che si sovrappone senza remore al paesaggio ereditato, spesso ne cancella ogni traccia, senza riuscire a "fare nuovo paesaggio", a creare "nuovi mondi" ... in cui vecchie nuovi individui e attività si relazionino e coesistano, seppure con regole diverse dal passato».
Così scrive Arturo Lanzani, uno dei più acuti osservatori delle relazioni tra crescita urbana e paesaggio, in un rapporto che l’ultimo numero della rivista «Urbanistica» ha dedicato a questo tema («L’urbanistica per il paesaggio», a cura di Mariavaleria Mininni) e che si apre con un articolo di Paolo Avarello significativamente titolato «Un mare di case». Lanzani sottolinea, ed è importante, che a fronte della continuità di un impetuoso sviluppo edilizio dal secondo dopoguerra a oggi, sono radicalmente mutati i fattori causali. Ieri erano i movimenti migratori, i grandi inurbamenti, l’evoluzione degli stili di vita, l’emergere di nuove formazioni territoriali. Oggi si tratta dei consumi abitativi «che comportano maggiori volumi pro capite», ma soprattutto dell’intreccio tra rendita immobiliare e speculazione finanziaria, che investe e condiziona anche gli altri aspetti del fenomeno: l’esplodere di nuove forme e spazi di distribuzione commerciale e l’elevatissima crescita di seconde case. Abusi ambientali ormai macroscopici comportano oltre tutto disastri idrogeologici sempre più frequenti e devastanti, come hanno dimostrato le recenti «calamità», che si sono abbattute sulla Calabria e in tutto il Mezzogiorno. E proprio per denunciare la necessità, ormai urgentissima, di evitare che il Bel Paese con i suoi ecosistemi venga distrutto da parte di un’edificazione finora inarrestabile, a gennaio è partita la campagna nazionale «Stop al consumo di suolo», promossa da diverse organizzazioni, tra cui la Rete del Nuovo Municipio.
Che gli effetti nefasti della diffusione insediativa e delle infinite cementificazioni richiedano risposte immediate, è certo. Sono tuttavia più di vent’anni che la distruzione dell’ambiente da parte della crescente urbanizzazione è una emergenza riconosciuta non solo in ambito urbanistico.
Risale infatti al 1985 la legge Galasso e l’idea di pianificazione paesistica (oggi paesaggistica), che metteva al centro «i valori verticali», ambientali e naturali, dei luoghi, invece della dialettica «domanda sociale/offerta di trasformazione», strutturante per i piani urbanistici. E già allora norme e strumenti «nuovi» nascevano da una situazione di emergenza, che è oggi assai più grave. Una circostanza che non andrebbe dimenticata, o banalizzata, specie allorché si tenta - come avviene in diverse regioni - di affinare sulle condizioni attuali lo specifico strumento di formalizzazione delle politiche: appunto il piano paesaggistico. Ma non è soltanto una questione di consumo di suolo (anche se forse basterebbe) a riavvicinare i termini «paesaggio», «ambiente» e «territorio»: tre modi di guardare allo stesso corpo che, come sottolineava Vittorio Horsle, nella modernità, quando «l’ambiente naturale è fuoriuscito dall’ambiente sociale», sono via via cresciuti come discipline indipendenti. Processo invertito dalla crisi ambientale che ha costretto a riprendere, nelle prospettive come nei fatti, le relazioni «tra ecofunzionamento dello spazio fisico, percezione e suggestioni delle sue forme, organizzazione dei suo uso sociale». Una impostazione che ha ricevuto un riconoscimento forse decisivo dalla Convenzione Europea del paesaggio, approvata nel 2000, e soprattutto dalle sue ricadute politico-culturali e istituzionali.
Una urbanistica consapevole della propria metamorfosi - non più arte di costruire nuove città ma progetto di riqualificazione ecologica della megaurbanizzazione moderna - si accosta quindi al paesaggio con l’obiettivo di costruire una continuità di orientamenti, metodi e contenuti che vadano al di là della mera tutela, pure assai importante. Scrive ancora Lanzani: «Un’idea e una pratica di politiche del paesaggio, del territorio e dell’ambiente come politica di welfare positivo, capace di prendere le distanze sia dalle versioni assistenziali, monetarie e familistiche, sia dall’idea di sviluppo come crescita puramente quantitativa... pone al centro del proprio lavoro la riqualificazione del paesaggio ordinario di tutto il territorio».
Identità di luoghi e territori In questo scenario stretto tra «le due solide rive di paesaggi cartolina, tutelati e di nuova formazione, e di ammassi edilizi senza paesaggio», Lanzani (così come Alberto Clementi) propone i «progetti di paesaggio» sui quali sperimentare strategie di ricomposizione di ecologie e territori al di fuori dalle retoriche «eccessive e fuorvianti» e lontani da posizioni estreme che - se offrono spunti di analisi interessanti nella loro nitida «denuncia delle trasformazioni» - di rado offrono prospettive concretamente proponibili.
Così, a Piercarlo Palermo che lancia uno stimolante interrogativo, «II paesaggio si vive o si contempla?», sembra in qualche modo rispondere Paolo Baldeschi sul numero più recente di «Contesti», la rivista del Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del territorio della Facoltà di Architettura di Firenze: «Nel paese-paesaggio - afferma Baldeschi - la contemplazione non si rende autonoma, bensì costituisce il presupposto di un agire pratico che esplora nuove direzioni nella costruzione del territorio».
In ogni caso, qualsiasi prospettiva di ricomposizione e di riqualificazione dei caratteri paesaggistici del territorio non sembra poter prescindere da una rottura chiara con gli obiettivi e gli interessi che hanno portato all’attuale degrado. Non solo: va anche ridiscusso criticamente il modello di sviluppo, di cui tale degrado è il portato. A questo proposito, Alberto Magnaghi ha parlato delle identità di paesaggi, territori, luoghi, ancora prima che simili concetti venissero in qualche modo istituzionalizzati dalla Convenzione Europea del Paesaggio.
Sia la Cep sia il progetto territorialista di Magnaghi, però, fanno riferimento a identità non statiche, ma evolutive, che cambiano con lo stesso concetto di abitante, dal soggetto stanziale delle comunità rurali descritto da Agnes Heller agli attuali abitanti nomadi individuati da Guattari e Deleuze. E ancora: non esiste un solo paesaggio, ma vanno individuati i diversi tipi di contesti che formano un territorio regionale, di area vasta o locale, e su questi mirare strumenti e azioni. Su tale punto c’è una assoluta convergenza tra i diversi filoni disciplinari, il «progetto riformista di paesaggio» proposto dal programma della ricerca Siti (Società italiana degli urbanisti), coordinata da Clementi, e il progetto territorialista. Ambedue infatti usano gli atlanti per individuare i «diversi paesaggi» nei quali di volta in volta possono «dominare» alcuni orientamenti strategici: la tutela, la valorizzazione plurale dell’identità, le regole per la trasformazione.
Gli effetti di un’azione debole. Esistono tuttavia dei nodi problematici, che non vanno banalizzati o sottovalutati, quale che sia l’impostazione che sorregge il progetto e l`azione per il paesaggio. Le attuali condizioni di parossistico consumo di suolo sono anche l’esito del fallimento di numerosi progetti di «urbanistica concertata», dovuti principalmente alla deformazione della «governance di riferimento», ridotta spesso al ruolo di «piazzista locale» delle forme con cui, come ha scritto Zygmunt Bauman, «atterrano interessi globalizzati». Deriva da qui la produzione di junkspace o di bigness senza (o fuori) contesto, una questione posta non soltanto da antropologi (Franco La Cecla) o da territorialisti (Giorgio Ferraresi), ma anche da prestigiosi architetti della città come Vittorio Gregotti. Salvo un numero limitato di significative eccezioni, infatti, il quadro istituzionale costituisce oggi un referente assai problematico, ben lontano dall’essere quell’attore sociale forte, capace di visioni strategiche e di partecipazione attenta e orientativa di cui ci sarebbe bisogno. Viceversa, sia pure con le novità comportate dalle tendenze (ancora Bauman) a (ri)trovarsi «individualmente insieme» o dalle tracce di «comunità consapevoli» (come gli oltre duecento comitati toscani per la difesa di territorio e paesaggio e i movimenti di difesa da opere inutili o inquinanti) il quadro prevalente oggi è ancora quello di una «società liquida» con forti propensioni al consumo. La ricerca territorialista, però, mostra come non sia necessario prefigurare sempre e comunque una «partecipazione alta», spesso evanescente, e possa essere invece utile considerare gli effetti, anche ridotti, di un’azione sociale debole. In questa chiave si rivelano importanti le regole riscontrate rivisitando l’influenza dei valori «endogeni» nella progettazione dei luoghi, per esempio nei paesaggi rurali tuttora di buona qualità.
Non è dunque casuale che tanto il dossier di «Urbanistica» come quello di «Contesti» prestino al rapporto con l’agricoltura un’attenzione particolare, marcata dalla presenza su entrambe le riviste della firma di uno studioso dell’organizzazione delle campagne urbanizzate contemporanee, come Pierre Donadieu, con contributi che vanno dalla formazione degli urbanisti-paesaggisti alla riqualificazione progettuale degli spazi aperti. Lontano dagli interessi locali.
L’«emergenza paesaggio» si rivela insomma una ulteriore occasione per spostare il dibattito, e le scelte che ne conseguono, da una logica economicista a un orientamento più consono a ricostituire luoghi e stili di vita qualitativamente migliori. In questo senso è importante quanto di recente ha affermato la Corte Costituzionale, ricordando che la pianificazione paesaggistica e le politiche di tutela vedono quale titolare lo stesso Stato e, in cooperazione, le Regioni, mentre gli enti più decentrati possono «applicare, ma non creare» la regola paesaggistica (e difatti il piano costituisce l’esito di una copianificazione Stato-Regione, anche se quasi sempre, nella prassi, il vero attore è quest’ultima). Questo stare «lontani» degli interessi, che più che locali sono localmente subalterni, può facilitare scelte altrimenti scomode, ma oggi giustificate da un uso opportuno e non eccessivo della «retorica dell’emergenza». La scommessa, conclude Lanzani, «è forse allora questa: non perdere la dimensione politica del paesaggio, in quanto visione... ma sviluppare questa tensione fuori dalle grandi narrazioni del secolo scorso, nella dimensione quotidiana del vivere, in quel paesaggio ordinario che per tutti è ambiente di vita, apertura al mondo e contatto muto con le cose, quando non sono ancora dette».
Chi sperava davvero che la nuova Giunta romana avrebbe posto un freno all'occupazione massiccia dell'Agro Romano, inizia a preoccuparsi.
Nonostante le dichiarazioni del sindaco Gianni Alemanno in campagna elettorale che criticavano l'eccessiva urbanizzazione dei terreni ancora verdi che circondano la nostra capitale, i progetti di cui si ventila la prossima approvazione non lasciano per nulla tranquilli. Anche perché andrebbero ad aggravare il già pesante stato di sofferenza per l'eccessiva impermeabilizzazione dei suoli che le recenti esondazioni hanno messo in luce e sottrarrebbero altro terreno agricolo nella fertile piana del Tevere.
Nonostante Roma possa vantare un maestoso Stadio Olimpico, migliorato e perfezionato non più di qualche anno fa, e generalmente considerato uno dei migliori d'Europa, le due squadre capitoline aspirerebbero ad averne uno per ciascuna, da gestire privatamente.
Lo stadio della Lazio sorgerebbe all'interno di un nuovo complesso residenziale di decine di ettari di proprietà del presidente della squadra Claudio Lotito, che sorge tra la Via Tiberina e il Tevere. Questo progetto, già drasticamente bocciato dalla precedente Giunta, sarebbe incompatibile con le destinazioni del Piano Regolatore e, oltretutto presenterebbe problemi di ordine idrogeologico. data la vicinanza con il fiume che nel corso delle recenti piogge ha esondato proprio in quella zona.
Sul luogo in cui dovrebbe sorgere il futuro stadio giallorosso le decisioni non sono ancora state rese note. Un'ipotesi avanzata è quella di realizzarlo all'interno di una tenuta di circa 100 ettari di proprietà della famiglia Sensi, nella valle del Tevere nei pressi dell'autostrada Roma Fiumicino.
A questi progetti si aggiunge quello di altri 15,6 ettari da cementificare per il più grande centro di rottamazione e demolizione (leggi "sfasciacarrozze" ), su una collina attualmente coperta di sughere e lecci nel cuore della Riserva Naturale Regionale Tenuta dei Massimi.
Si tratta di iniziative che, ove attuate, avrebbero inevitabilmente l'effetto di ridurre ancora, su vaste aree, la funzione di mitigazione e assorbimento delle acque meteoriche esercitata dal terreno. Senza dimenticare un'altra grave conseguenza di tali eventuali decisioni: quella, naturalmente, di eliminare, per sempre, una buona fetta di terreni agricoli di grande importanza in un Paese che, stando alle ultime statistiche, nei 35 anni che vanno dal 1970 al 2005 ha perso suoli coltivabili per 7,3 milioni di ettari, ad un ritmo sconosciuto in altri Paesi d'Europa. Vale davvero la pena di farlo?
L’autore è presidente onorario Wwf Italia
L’autorizzazione paesaggistica fai conti con il regime transitorio per altri sei mesi. Slitta ancora l’iter definitivo delle pratiche: il decreto legge "milleproroghe" (207/2008), nell’articolo 38, ha posticipato dal 1° gennaio al 30 giugno 2009 il regime transitorio. Il rinvio presenta luci e ombre.
Da un lato, ritarda la piena efficacia di uno strumento destinato a portare ordine nel governo del territorio, spesso disordinato e selvaggio, strumento che però di fatto - affida alle soprintendenze un ruolo che rischia di essere superiore alle risorse disponibili. Dall’altro, offre un vantaggio ai cittadini e alle imprese, che si confronteranno con una burocrazia più leggera, ma anche agli enti locali, Regioni e Comuni in testa. Le prime perché non sempre avevano messo a punto il meccanismo delle deleghe a Comuni e Province e approvato definitivamente i piani paesaggistici; i secondi perché spesso non avevano ancora adeguato gli strumenti urbanistici ai Piani e varato le Commissioni paesaggistiche locali, che hanno un ruolo chiave nella nuova procedura prevista dal decreto legislativo 42/2004.
Il percorso
Oggi il rilascio di un’autorizzazione che non incontri particolari inciampi prevede un tempo massimo di quattro mesi (vedi tabella) e vede coinvolti la Regione o l’ente da essa delegato e la Soprintendenza ai beni paesaggistici. Quest`ultima ha due poteri: il primo, di annullamento dell`autorizzazione, in caso di contrasto con le prescrizione di tutela del paesaggio; il secondo, sostitutivo dell’autorità competente se essa è inadempiente nel rilasciare l’utorizzazione entro i termini previsti (60 giorni). Da luglio di quest’anno entreranno invece in scena nuovi attori. Innanzitutto, le Commissioni paesaggistiche locali, che hanno l’obbligo di fornire pareri non vincolanti sulle richieste. A seconda dei casi si può trattare di quelle regionali, provinciali o comunali: conta l’ente che ha ricevuto la delega regionale per quel particolare assenso. Poi debutterà un commissario ad acta, che erediterà dalla Soprintendenza il potere sostitutivo in caso di inadempienza. La Soprintendenza al paesaggio stessa serba ancora tale potere solo nel caso in cui la Regione non abbia delegato ai Comuni l’autorizzazione ed è comunque membro di diritto delle Commissioni paesaggistiche regionali insieme alla Soprintendenza ai beni archeologici. Con il complicarsi delle procedure, i tempi massimi per ottenere il via libera a un’opera edile cresceranno di almeno un mese.
I ritardi
Entro il 30 giugno le Regioni dovranno verificare i requisiti di organizzazione e di competenza tecnico-scientifica degli enti delegati a concedere l’autorizzazione - Comuni in primis - che comprendono anche l`applicazione sul loro territorio del piano paesaggistico approvato.
In mancanza di tale verifica, le deleghe in essere al 30 giugno 2009 decadono e la Regione deve riassumersi in pieno tutti i compiti. Si tratta di una disposizione che si rivelerà di difficile applicazione, anche perché non è ben chiaro quale sia l’ente delegato ai controlli e, soprattutto, come possa materialmente esercitarli. Le previsioni dei piani paesaggistici prevalgono sulle norme difformi contenute negli strumenti urbanistici comunali che non siano stati adeguati alla data del 1° giugno 2008 (termine non prorogato). Le discussioni sul nuovo iter riguardano soprattutto il grande potere concesso alle Soprintendenze, enti - rilevano i critici spesso dotati di scarso personale e caratterizzate da iter burocratici lunghi. In assenza di piani paesaggistici che definiscano in modo puntuale i criteri per il rilascio o il diniego dell’autorizzazione, il parere della Soprintendenza sarà vincolante: un punto che potrebbe sfociare in un eccesso di discrezionalità, in violazione del principi del decentramento. Infatti tale parere è soggetto solo alle regole dei singoli vincoli, che spesso non contengono prescrizioni precise.
Per le Regioni e i Comuni che per inefficienza o per mancanza di strutture o mezzi finanziari non hanno saputo varare i piani paesaggistici o non hanno potuto adeguarsi ad essi, si configura perciò un ulteriore periodo transitorio anche dopo il 30 giugno 2009, in cui le Soprintendenze avranno un ruolo molto forte.
I parchi sono di destra o di sinistra?
Naturalmente si tratta – come al solito maneggiando i due mistici concetti - di una domanda piuttosto cretina e mal posta, ma è innegabile che si tratti di un argomento tale da sollevare immediatamente la questione: conservare o innovare, proteggere lo status quo o cercare equilibri più avanzati? E apparentemente la risposta “di sinistra” potrebbe suonare più o meno: ma è ovvio, si tutela la condizione materiale dell’ambiente, e si innova la sua funzione sociale, non più spazio per pochi privilegiati, ma luogo accessibile a tutti gli strati sociali, spazio di salute, ricreazione del corpo e dell’anima, contemplazione …
Qualcosa non torna, eh? Queste sono le caratteristiche di alcuni tipi di parco, ma non riassumono affatto la grande complessità che questa parola assume all’alba del XXI secolo, dopo quasi due secoli di evoluzione e articolazione delle esperienze. Forse, è il caso di fare un passo indietro.
Anche limitandosi al tipo di parco più convenzionale, ovvero quello che vede una forte compresenza di elementi naturali, più o meno addomesticati, e attività umane, esistono almeno due grandi percorsi distinti per la formazione delle idee di oggi: quello che vede al centro dell’attenzione la città, e quello che privilegia invece la campagna. Naturalmente si tratta di “città” e di “campagna” nell’accezione più generale e storica dei termini, ovvero da un lato il luogo della grande concentrazione umana, della produzione di ricchezza, di scambi, di cultura, di socialità; dall’altro l’ambiente degli spazi aperti incontaminati, del rapporto diretto con la natura, della solitudine. E anche, è il caso di ricordarlo, spazio privilegiato di quello che la premiata ditta Marx & Engels non del tutto a torto etichettava “idiotismo della vita rustica”.
È comunque dalla città, non dalla campagna, che partono le idee di parco moderno. L’accoppiata fra le rivoluzioni borghesi del XIX secolo e il poderoso avanzamento tecnico della produzione industriale, se da un lato produce i leggendari orrori di elefantiasi urbana così ben raccontati da generazioni di romanzieri (ivi compresi in epoca recentissima anche l’ex cyberpunk Bruce Sterling o il campione di vendite globalpopolari Michel Faber, con la sua prostituta vagante nei quartieri vittoriani), vede anche la nascita del modello dell’attuale grande parco di città: quello a cui in sostanza alla fin fine spontaneamente pensano tutti, quando si tratta di parchi. Sono, in Europa, le tenute private della nobiltà e delle varie Corone, o più tardi le vecchie fortificazioni militari di ex potenze, o gli spazi dismessi per le esercitazioni dei soldati, a riempirsi di nuova vita e natura. In qualche caso si aprono semplicemente i cancelli, e il popolo degli esclusi inizia a riscoprire l’odore dell’erba e delle piante. In altri l’operazione è un pochino più complessa, come nel caso del Central Park di New York, realizzato pensando ai grandi modelli parigini o londinesi, ma che ha una storia emblematica.
Non nasce infatti dal semplice e “spontaneo” accerchiamento da parte della città di una grande proprietà a spazi aperti, ma da un preciso progetto culturale e urbanistico, come forse si può intuire dalla forma esattamente rettangolare, l’opposto di qualunque idea di natura. Il Central Park nasce dall’idea di natura sapientemente addomesticata di un ex giardiniere, Andrew Jackson Downing, e dall’impegno di un giornalista, William C. Bryant. Che insieme riescono a suscitare un vasto movimento di opinione pubblica favorevole al grande progetto: espropriare il rettangolo compreso fra la 59° e la 110° Strada, e la Quinta e Ottava Avenue, per farne appunto il grande polmone verde di cui Manhattan aveva bisogno. Sono, letteralmente, centinaia di isolati urbani strappati all’edificazione così come prevista dal piano urbanistico del 1810, ovvero quello che traccia la famosa griglia ortogonale delle strade. L’operazione si rende possibile, sia perché si tratta di aree poco pregiate, e in parte già di proprietà di enti pubblici, sia perché il movimento di opinione rende chiara una cosa: quel parco sarà un grande elemento di identità comunitaria; tutti i cittadini lo sentiranno come proprio, e diventerà (come poi puntualmente accaduto) simbolo e orgoglio della città. Uno dei motivi, se non il motivo, per cui a nessuno, anche nella città patria della speculazione edilizia e dei grattacieli a vanvera, ha mai pensato né penserebbe mai di costruirci dentro, al Central Park.
La cultura di cui era portatrice Andrew Jackson Downing, era però più complessa di quella di un semplice progettista di giardini, con la scelta delle essenze e composizione spaziale. Downing, e dopo di lui il suo successore al Central Park, Frederick Law Olmsted, danno un contributo fondamentale all’idea di territorio moderno: il concetto di spazio aperto naturale in una grande regione metropolitana, inteso come mescolanza di elementi del parco cittadino (a partire dall’idea di accesso pubblico), dell’ambiente rurale, e infine della grande riserva naturale. Si affermano, nella nascente pianificazione territoriale dei primi grandi spazi metropolitani, i concetti base di green wedge, il cuneo verde che collega radialmente gli spazi aperti più interni alla città con l’area rurale, e la green belt, concetto di origine biblica, a impedire che la metropoli consumi tutto il territorio che le dà vita. Una versione intermedia di questo tipo di spazi verdi è quella proposta da Olmsted nella cosiddetta Emerald Necklace (Collana di Smeraldi) a Boston, e più ancora nel grandioso piano regolatore proposto da Daniel Burnham per Chicago nel 1909.
In questo caso, si mescolano organicamente nella progettazione della metropoli tutti i tipi di spazio a parco: il polmone verde urbano per il passeggio e la sosta di tradizione europea, una sua versione allargata e molto naturalistica (che anticipa certe soluzioni moderne di verde metropolitano) sulla sponda del lago, con bacini per la navigazione a vela, oasi naturali ecc; infine i collegamenti a cuneo verde verso le aree naturali regionali esterne alla formazione urbana-ferroviaria-portuale. Il verde rappresenta (come nel caso del Mall di Washington, progettato dal medesimo Burnham sulla base dell’idea originale di l’Enfant) la struttura fondamentale della città: a collegare tutti i parchi urbani, e poi il più all’esterno il verde regionale, c’è l’enorme semicerchio della parkway, vera e propria “autostrada nel verde” che unisce all’infrastruttura stradale per le prime automobili (nel 1909!) ampie strisce alberate e piantumate destinate alla sosta e al passeggio.
Ma l’idea più nota, e giustamente tale, di green belt, è quella proposta dal britannico Ebenezer Howard nel suo fortunatissimo libretto di riforma sociale del 1898: To-morrow, a peaceful path to real reform. Qui, nel tentativo di porre rimedio alle penose condizioni abitative della classe operaia urbana inglese, realizzando nella campagna grandi insediamenti integrati cooperativi di abitazioni, industrie, servizi, si individua proprio nella green belt lo strumento fondamentale di soluzione del conflitto fra città e mondo rurale/naturale.
Il territorio più giusto ed equo del domani, secondo Howard, dovrà comporsi di una serie di Città Giardino sparse nel contado, ciascuna autosufficiente anche dal punto di vista alimentare grazie ad una ampia area di verde destinata alla coltivazione, alla contemplazione, alla tutela dell’ambiente e del paesaggio tradizionale. Si recupera così in pieno anche il senso dell’identità locale e dell’attaccamento alla terra, caratteristico dell’origine biblica del concetto di green belt, allontanandosi con l’idea di Città Giardino dalla contrapposizione urbano rurale bollata dai marxisti con lo “idiotismo della vita rustica”.
E non a caso sarà questa idea di massima “riformista”, di moderato ritorno alla natura compatibile con lo sviluppo industriale nonché coi meccanismi di mercato, a imporsi via via in Gran Bretagna nel periodo tra le due guerre mondiali, fino a sfociare dopo il 1945 nella politica delle nuove città pianificate, e di istituzionalizzazione nazionale della green belt, soprattutto come forma di separazione fra le principali aree metropolitane del paese.
È anche il concetto generale che viene introdotto in Italia pochi anni più tardi, quando la rapidissima e incontrollata crescita urbana del boom economico pone la questione del governo dei grandi spazi regionali, soprattutto nell’area strategica dello sviluppo industriale del “triangolo” Milano-Torino-Genova.
È attorno al capoluogo lombardo, nella sua regione urbana che di lì a poco inizierà a colmarsi dello spillover produttivo e insediativo, che nascono le esperienze originali in questo senso. I cunei verdi che dovrebbero collegare il nucleo denso metropolitano centrale a nord alla fascia prealpina, e a sud alla pianura agricola irrigua, sono la struttura portante della cosiddetta “turbina” del Piano Intercomunale Milanese. Il parco fluviale della valle del Ticino, nato dalla consapevolezza della precarietà del sistema naturale di fronte alla crescita industriale e urbana, della quale vuole anche inconsapevolmente costituire una “frontiera”, si forma attraverso un inedito processo partecipativo di base, che troverà la prima sanzione ufficiale in una affollatissima storica assemblea al Civico Teatro Fraschini di Pavia il 2 marzo 1967. Il processo di riorganizzazione della tutela degli spazi verdi di area vasta, si completa con l’istituzione della prima vera green belt agricola, ovvero il Parco Sud Milano, alcuni anni più tardi.
È in questo sistema complesso di identità, struttura istituzionale, relativa consapevolezza e consuetudine da parte dei cittadini, che irrompe negli anni più recenti l’attacco alle radici fondative, così come si è cercato di descriverle brevemente, da parte di alcune forze – fra le più retrive, è il caso di sottolinearlo – del nostrano centrodestra. Ma, almeno in parte, la vicenda del cosiddetto emendamento “ammazzaparchi”, e dei vari tentativi paralleli di sradicare un’idea di pianificazione e uso del territorio che viene da molto lontano (e non è affatto un’invenzione “comunista” o di epoche di decisionismo politico per qualche motivo tramontate) ci fa tornare alla domanda di partenza: i parchi sono di destra o di sinistra?
E la risposta a questo punto può dirsi, se non bi-partisan come usa oggi, almeno storicamente motivata. Se per conservazione intendiamo il mondo della campagna, emendato grazie all’innovazione tecnologica e sociale da ogni “idiotismo della vita rustica”. Se per progresso intendiamo il mondo della metropoli, inteso nel senso ampio, partecipativo, sostenibile che ha assunto nella progettualità diffusa degli anni più recenti. Se accettiamo queste due prospettive, allora la risposta la troveremo facilmente solo guardandoci attorno, ovvero costruendo qualcosa che si avvicini il più possibile a una identità urbano-rurale.
Tanti dei solenni personaggi citati nei paragrafi precedenti, ci guarderanno (per dirla con Horatio Nelson) “dall’alto dei secoli della storia”.
Deve essere stato il peso di quello sguardo, ad aver spinto anche qualche sindaco leghista sconfessare l’assessore pezzo da novanta del partito, quando ha provato l’ultima volta ad ammazzare i parchi. Si saranno chiesti: vado, l’ammazzo, ma poi dove diavolo torno?
(*) Questo articolo è nato come Traccia di intervento al convegno: Grandi opere, aree protette e tutela del territorio, Albugnano (At), Abbazia di Vezzolano, 14 giugno 2008
Molti paesaggi italiani sono minacciati, ma dieci lo sono più di tutti. Italia Nostra li ha selezionati in base al rischio che corrono e anche perché rappresentativi della grande varietà che la penisola può sfoggiare. Una specie di evidenziatore per segnalare quanto perderebbe l’Italia intera se le alterazioni di questi luoghi fossero irreversibili. Paesaggi naturali, paesaggi culturali, paesaggi urbani. Diversi i pericoli, ma prevalente è l’espansione edilizia. Ci sono lo Stretto di Messina e la Murgia materana. L’Appia antica a Roma e la necropoli punica di Tuvixeddu a Cagliari.
La vasta campagna senese e il centro storico di Torino. Il Delta del Po e l’area delle Ville venete. Il Parco di Monza e il Lago di Garda.
La campagna dell’associazione di tutela si intitola "Paesaggi sensibili" ed è illustrata da un dipinto di Tullio Pericoli (stamattina la presentazione nella sede di Italia Nostra a Roma). Dal 20 settembre si terranno in questi luoghi una serie di iniziative - dibattiti, escursioni, mostre - che si estenderanno a circa una cinquantina di altri siti, tutti insidiati da manipolazioni che vistosamente o subdolamente ne brutalizzano i caratteri. «Non è una selezione di paesaggi eccellenti», spiega Giovanni Losavio, magistrato di Cassazione, presidente di Italia Nostra. Sono luoghi in cui si manifestano le tante forme che assume, agli occhi di un visitatore, «il volto della patria», sottolinea Losavio citando Benedetto Croce che da ministro propose nel 1920 la prima legge a difesa del paesaggio.
Il lembo di mare chiuso fra la costa calabrese e quella siciliana verrebbe radicalmente alterato dal Ponte. Ma già ora gli incendi hanno inaridito e reso irriconoscibili le colline della sponda reggina, mentre le costruzioni abusive si sono spinte fino alle foci e ai greti dei torrenti e si sono spalmate caoticamente lungo tutto il litorale. Il parco dell’Appia antica è invaso dalle macchine, che lo usano come via d’accesso a Roma. È punteggiato da costruzioni abusive, molte delle quali sfacciate (ville, capannoni industriali, stand commerciali, piscine) e questo fenomeno stenta ad arrestarsi. L’area è abbandonata in una situazione di grande incertezza, non è ancora approvato il piano d’assetto, mentre le ipotesi di allargamento dei suoi confini, che scongiurerebbero alcune lottizzazioni o la costruzione di centri commerciali, stentano a realizzarsi.
Un altro gioiello archeologico vilipeso è la necropoli punica di Tuvixeddu a Cagliari, con oltre duemila tombe, molte delle quali sono trattate come una discarica, assediate da edifici a sei piani. Intorno alle sepolture potrebbe sorgere un intero quartiere. La vicenda è tormentata e ora è a un punto morto: il Consiglio di Stato ha bocciato i vincoli imposti dalla Regione, che, insieme alla Direzione regionale dei Beni Culturali, intende comunque evitare la lottizzazione. Anche la campagna senese è fra i paesaggi a rischio, minacciata da piccoli e grandi insediamenti: ma molte preoccupazioni desta l’ampliamento del piccolo aeroporto di Ampugnano che dovrebbe diventare uno scalo internazionale, moltiplicando le presenze turistiche e deformando l’equilibrio di un territorio fatto di colli, di pievi medioevali, di borghi, di boschi e di macchie. Altro equilibrio fragilissimo è nel Delta del Po, dove si intrecciano paesaggi di terra e d’acqua, ma sul quale incombe un’urbanizzazione fatta di seconde case che negli ultimi anni è diventata impetuosa. Come impetuoso è il consumo di suolo nel Veneto centrale, il Veneto palladiano, nei luoghi eletti dalla nobiltà veneziana per il loro loisir.
Losavio disegna uno scenario preoccupante: «Si estende in quasi tutto il paese la prassi dell’urbanistica contrattata, con le amministrazioni pubbliche che negoziano con i privati la trasformazione di un’area, siglando varianti o accordi di programma e travolgendo ogni idea di pianificazione. La deregulation è diventata la norma. Tanto più lo sarà se viene ripresentato il disegno di legge Lupi che durante il governo Berlusconi dal 2001 al 2006 proponeva di fatto di sottrarre alla mano pubblica il controllo dell’urbanistica».
Ahimè, il disegno di legge Lupi è stato ripresentato, ed è avviata a discussione nella Commissione parlamentare. Vedere qui (n.d.r.)
Il programma completo delle iniziative del 20 settembre dal sito di Italia Nostra