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La storia comincia 8 anni fa, venerdì primo luglio 1995, quando F. G., pubblico ministero milanese, ascolta S. A., futura testimone velata dal nome criptico "Omega". I colloqui seguenti evocano un mercato romano della giustizia venale, contiguo al serraglio politico-affaristico; e dialoghi intercettati forniscono conferme, specie su una toga capitolina, ex consigliere a Palazzo Chigi (sub B. Craxi), poi al Quirinale (sub F. Cossiga), ora preposto ai giudici delle indagini preliminari. L’arrestano martedì 12 marzo 1996. Da settembre, sul registro milanese delle notitiae criminis figura B., in compagnia dell’avvocato d’affari P., già suo ministro della Difesa, ed era destinato alla Giustizia o agli Interni, autore dell’icastica battuta: «Stavolta non faremo prigionieri»; siamo nel preludio alla campagna elettorale. L’uomo d’Arcore non lesina i fendenti verbali. Quarantott’ore dopo paragona gli inquirenti alla banda assassina della Uno bianca (14 marzo); indi presenta alla stampa i professori reclutati nel pensatoio forzaitaliota: inter quos l’attuale presidente del Senato stronca «la cultura liberale falsa e imbelle impersonata dal senatore a vita Norberto Bobbio» (i curiosi consultino Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio, Mani pulite, Editori Riuniti, 2002, 419-45). I reperti alimentano tre filoni. Seguiamone due.
Nino Rovelli, petroliere, litiga con l’Imi: un collegio del tribunale presieduto da F. V., ora coimputato, gli dà partita vinta nell’an debeatur (siamo nel 1996); un altro deciderà sul quantum; l’udienza conclusiva è fissata al 4 aprile 1989. Il presidente C. M. vuol disporre una consulenza e l’ha incautamente confidato in alto loco. Quel mattino gli arriva una chiamata perentoria dal ministero, dove F. V. funge da capo-gabinetto: venga subito; e corre, spiegando a chi lo sostituisce che l’udienza va sospesa finché lui torni; in via Arenula perde un’ora conversando sul niente; quando torna, actum est; hanno deciso liquidando 650 miliardi al fortunato litigante. Davanti alla Corte d’appello i miliardi diventano 1000, interessi e spese inclusi. Scrive la sentenza V. M., novembre 1990. L’Imi ricorre: ricorso inammissibile, obietta l’appellato, perché nel fascicolo manca la procura speciale (come se uno uscisse nudo, avendo dimenticato gli abiti); la procura c’era, replica il ricorrente; e l’episodio muore nella solita inchiesta contro ignoti. Senonché M. C., relatore, ritiene ammissibile il ricorso e predispone un appunto segreto: qualcuno lo fotocopia mandando le copie ai quattro colleghi; e un corvo scrive al primo presidente, nonché all’interessato, avvertendolo d’essere ricusabile perché ha scoperto anzitempo quel che pensava.
Lo spiato offre l’astensione, sicuro della risposta negativa: «No, resta, è scrupolo fuori luogo»; nient’affatto, il superiore lo sostituisce. Com’era in votis, la Corte dichiara inammissibile il ricorso. Chiude l’intrigo un gesto schernevole: primo presidente, procuratore generale e l’astenuto ricevono copia della procura sparita; mancano margine sinistro e lembo superiore, dove un timbro suole attestare il deposito. Graziosa historiette. Così i pirati intendono l’arte forense. Sui conti esteri dei tre coimputati affluiscono 67 miliardi, pari al 10% del bottino (Barbacetto-Gomez-Travaglio, 466 ss.).
Qui B. era assente, mentre figura nel secondo caso: contendeva a C. D. B. il controllo della Mondadori e soccombente nel giudizio arbitrale, impugna; la Corte d’appello romana decide a suo favore lunedì 14 gennaio. L’indomani salta fuori la sentenza manoscritta, 168 pagine: vi riuscirebbe sì e no Balzac, scrittore dalla mano miracolosa; l’arto de quo, invece, appartiene al V. M. che abbiamo visto nel caso Imi-Sir, uno le cui gestazioni letterarie durano mediamente dai 2 ai 3 mesi; solo 9 volte su 56 scende sotto tale soglia, scrivendo poche pagine, mentre stavolta consuma un calamaio; donde l’ipotesi che il capolavoro preesistesse (Barbacetto-Gomez-Travaglio, 475 ss.). Secondo dicerie avvocatesche, sarebbe nato nello studio d’uno degl’imputati: i vecchi retori li chiamavano "rumores" e sul tavolo istruttorio valgono pochissimo, anzi niente; ma l’erculeo motivatore commette una seconda gaffe quando esce dalla magistratura collocandosi nello studio P.
Non è affare mio stabilire se le prove raccolte bastino alla condanna. Certo, bastano a «sostenere l’accusa» (art. 125 att.), al qual proposito B. appare benedetto dalla sorte: figura tra gl’imputati; il pubblico ministero ha chiesto il rinvio a giudizio. Imprevedibilmente, il giudice dell’udienza preliminare dichiara non doversi procedere: secondo lui, manca la prova che li inchiodi; può darsi ma deve stabilirlo un dibattimento. Su appello del pubblico ministero la Corte li rinvia a giudizio, salvo B., favorito da una svista legislativa stavolta solo colposa: la l. 26 aprile 1990 n. 86 calca la mano sulla corruzione nel processo (art. 319-ter c.p.), poi dimentica l’art. 321 (pene del corruttore); è «errore materiale» da compilatori disattenti; e vi rimediano con l’art. 2 l. 7 febbraio n. 1992 n. 181. Ora, risultando anteriori i fatti sub iudice, la Corte reputa applicabile l’art - 319-ter solo al corrotto e ai mediatori organicamente insediati nel malaffare togato: grazie alle attenuanti generiche, B. risponde dell’ipotetico delitto meno grave, ormai prescritto; ed esce dal processo quale probabile corruttore esente da pena. Poteva rinunciare alla prescrizione, scegliendo l’alternativa secca condannato-assolto: gli innocenti orgogliosi rifiutano un proscioglimento avvilente; lui se lo tiene stretto.
I due filoni, Imi-Sir e lodo Mondadori, confluiscono. Superfluo raccontare cos’avvenga nelle udienze preliminari, poi al dibattimento aperto tre anni fa: sarabande mai viste d’ostruzionismi, cavilli, tempo perso, leggi ad personam, tempeste mediatiche, fino al tentativo d’una fuga preclusa dalle Sezioni unite (28 gennaio 2003). Dopo tre anni, il dibattimento pare concluso. Nel calendario la decisione è attesa giovedì 27 marzo ma solo l’ottimista Candide poteva aspettarsi un P. rassegnato. Infatti, ripete l’antica mossa, ricusando i tre giudici: è l’ennesima volta; li ricusava uno a uno, poi tutti, d’un colpo. L’ordalia diventa farsa. La ricusazione richiede casi tassativi; uno è l’«inimicizia grave» col giudice; e lui ha tre nemici seduti al banco. Ah sì? Crudelissimi, tanto da negargli quel che chiede. Glielo spieghino i consulenti: sono innumerevoli le questioni controvertibili, seriamente o no; una decisione le risolve; il rimedio all’eventuale errore sta nell’impugnarla; altrimenti i giudizi diventano eterni; chiedo cose stravaganti e me le concedono o li ricuso. A sentire lui, il Tribunale sarebbe incompetente perché la notitia criminis appare a Perugia, 25 ottobre 1994, mentre nel registro milanese arriva 11 mesi dopo. Argomento risibile sotto almeno tre aspetti. Primo, l’ipotesi perugina era che qualcuno avesse svelato segreti d’ufficio: qui è in ballo una sentenza venduta; due avvenimenti piuttosto diversi; e nell’ottobre 1994 solo Nostradamus poteva sapere che 9 mesi dopo, sarebbe trapelato l’allegro mercato romano. Secondo: l’«esposto» invocato dal ricusante come fondamento della competenza umbra figurava nel «registro degli atti non costituenti notizia di reato», alias «modello 44» (art.1 d.m. 30 settembre 1989), mentre l’art. 9, c. 3, contempla il «registro previsto dall’art. 335» o «delle notizie di reato», modello 21 o 44 (contro ignoti). Terzo: quando anche fosse la stessa notizia, iscritta nel posto giusto, contro l’identica persona, da sola non basta: ci vuole un séguito qualunque; e se vi fosse, risulterebbe archiviata o verrebbe sulla scena un imputato. I procedimenti aperti dal pubblico ministero indagante non spariscono nell’aria. Sono cose elementari, procedura piatta. Il Tribunale, longanime, rinvia al 2 aprile. Cosa declamerà P. mercoledì prossimo?
La mattinata di ieri l’hanno trascorsa schiacciando i tasti “Stop” e “Play” del videoregistratore nella stanza del direttore Antonio Di Bella. I due ispettori Rai inviati a compiere “accertamenti amministrativi” (come da nota aziendale, ndr) nella redazione del Tg3 hanno svolto scrupolosamente il loro lavoro. Tutto ha avuto inizio due giorni fa con un’intervista rilasciata a Radio Anch'io da Silvio Berlusconi. A proposito delle contestazioni subite mentre usciva dal processo Sme, il premier ha parlato di "agguato studiato, preparato, da parte di uno di questi signori che con a fianco le telecamere, una di una Tv privata, l'altra del Tg3, evidentemente d'accordo, è venuto vicino a me e mi ha dato del buffone". Tanto è bastato perché il direttore generale della Rai Flavio Cattaneo richiedesse un’ispezione sull’operato dei giornalisti del Tg3.
Così, gli ispettori Rai si sono presentati a Saxa Rubra verso le 10.30 di ieri, sono andati dal direttore Antonio Di Bella e, in sua presenza, oltre ad aver visionato le cassette con i servizi mandati in onda dal Tg, hanno interrogato vari redattori. O direttamente o facendoli rintracciare per telefono. Gli interrogatori non sono stati per nulla superficiali. Gli ispettori sono entrati minuziosamente nei dettagli. “Si sono fermati per più di due ore - raccontano al Barbiere dalla redazione - a vari giornalisti hanno chiesto quali e quante troupes fossero presenti quel giorno. Hanno chiesto precisazioni sulla veridicità della ricostruzione dei flussi finanziari di cui si parla nel processo Sme (“Queste cifre chi ve le ha date? Sono corrette?“). Sono stati molto pignoli sugli orari della contestazione e sul numero delle telecamere presenti nel corridoio in cui passava Berlusconi. Oltre al Tg3, c’erano La7, Mediaset, TeleLombardia?“. Durante la visione di uno dei servizi, lo stesso Di Bella ha indicato la presenza di più telecamere ad uno degli ispettori: “Nell'inquadratura se ne vedono cinque. Non eravamo soli. Nessun agguato, vede” Non era concertato da noi”. Mariella Venditti, tra i giornalisti che quel giorno hanno confezionato un servizio sull”argomento in questione, è stata interrogata per un”ora e mezza. “Le hanno fatto visionare il filmato con il direttore, chiedendole come avesse lavorato. Lei ha spiegato che la sua telecamera era spenta ed ha perso anche alcuni minuti del passaggio di Berlusconi”. L”ispezione è poi proseguita scandagliando la successione temporale di quel giorno: dove si trovavano esattamente gli inviati durante la contestazione a Berlusconi, chi tra loro ha chiamato la redazione, con chi hanno parlato, chi ha preso la decisione sulla messa in onda dei servizi. Fotogramma per fotogramma, i servizi andati in onda sono stati vivisezionati arrivando perfino a chiedere lumi sull’impaginazione del tg (cioè la successione dei servizi per importanza), sul perché era stato messo prima un pezzo e poi un altro. Tutte cose che decide il direttore.
La radiografia della normale macchina redazionale da parte degli ispettori è risultata intollerabile agli organismi dei giornalisti, Ordine e Federazione della Stampa, che hanno contestato via agenzie la pesante intromissione. Al pari di ogni grande azienda, anche la Rai ha un “ispettorato”. L”“Internal auditing”, come viene chiamato, è una struttura aziendale che in Rai fa capo alle Risorse Umane. Ma, come precisa il segretario dellUsigrai Roberto Natale “si occupa di accertamenti di varia natura, ma non editoriali. Può verificare ad esempio se qualcuno gonfia le fatture o le note spese, non entrare nel merito delle scelte giornalistiche. Gli ispettori invece hanno travalicato i limiti, assumendo funzioni e ruoli impropri. La cosa giusta da fare era chiedere al direttore di testata una nota sulla vicenda”. L'irritazione di Natale è largamente condivisa tra i dipendenti della Rai: “Siamo tutti sconcertati. Non ricordiamo sia mai accaduto niente di simile”. Insomma, ai giornalisti è parso che di amministrativo in questo accertamento ci fosse ben poco. Nel frattempo il Cdr del Tg3, dopo aver indetto una giornata di sciopero e proclamato lo stato di agitazione togliendo le firme dalle edizioni del telegiornale, aspetta l’assemblea convocata alle 14.30 di oggi a Saxa Rubra, a cui parteciperanno tutti i giornalisti Rai, i rappresentanti dell”Ordine e della Fnsi ed anche il presidente Lucia Annunziata.
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A GUERRA finita, Berlusconi mette fuori la testa dalla trincea del silenzio, si guarda intorno, indossa la divisa del vincitore e rilancia l’eterna, miserabile, piccola guerra civile contro l’altra metà del paese. L’ultima trovata del premier, esalata durante la campagna elettorale nel Bresciano, è che la sinistra avrebbe confermato con l’impegno per la pace «l’insopprimibile attrazione per le dittature e i dittatori».
Ora, sarebbe facile ricordare a Berlusconi che la moderna sinistra italiana si fonda sui valori della resistenza a una dittatura feroce che la cultura di governo s’incarica ogni giorno di sdoganare, dopo aver portato al potere i nipotini del Duce. Si potrebbe anche aggiungere venendo a tempi recenti, che l’unico leader politico ad aver manifestato attrazione per Saddam è stato il suo attuale vice Gianfranco Fini, nel '91 in missione a Bagdad in compagnia di Le Pen per stringere la mano all’assassino. E infine, perché mai Berlusconi, che parla sempre come lo Schifani di Bush e ora perfino di Rumsfeld, non ha fatto partire i soldati italiani se era tanto convinto delle ragioni americane? Tutti questi argomenti, per quanto ovvi, sarebbero però inutili. Le sparate ignoranti di Berlusconi sulla storia patria non vanno prese sul serio, sono un modo avvilente d’usare una grande tragedia per rimontare un paio di punti nel voto di Brescia e dintorni. La politica, secondo Carl Schmitt, è anzitutto l’individuazione di un nemico. Secondo Berlusconi, è soltanto questo. D’altra parte tutte le promesse del berlusconismo, dal miracolo economico alla nuova missione nazionale, sono miseramente falliti. In due anni di governo la lobby di Arcore si è mostrata una poderosa macchina affaristica calibrata sugli interessi del padrone, un moltiplicatore delle fortune di Mediaset e della galassia finanziaria berlusconiana. Ma si rivela ogni giorno di più un pessimo affare per il paese avviato a un declino economico, politico e civile.
L’Italietta di Berlusconi accumula da debiti a ritardi che un giorno qualcuno dovrà pagare, mentre il suo ruolo in Europa e nel mondo si riduce alle dimensioni folcloristiche del "vorrei ma non posso" cui è improntata la politica estera di cartapesta del premier.
È comprensibile allora che Berlusconi si rifugi nella solita Jihad anticomunista. Il comunismo è l’unico problema sul quale il governo può vantare buoni risultati, essendo morto da una quindicina d’anni. È giusto anche che l’opposizione non perda tempo a replicare alle provocazioni del premier. Abbassare il livello della politica alla polemica sadomaso è un errore di prospettiva: un giorno si dovrà ricostruire un tessuto civile fra le due parti politiche del paese. L’avventura berlusconiana è il punto più basso del fallimento storico, dell’incapacità italiana di darsi una classe dirigente di livello internazionale dopo la caduta del muro e alle viste di un nuovo ordine mondiale. Come si è visto bene anche nel corso della crisi bellica, quando l’Italietta della destra si è nascosta nella nebbia di confine del confronto fra l’asse angloamericano e quello franco-tedesco. Le chiacchiere e le vanterie del Cavaliere, le ossessione e le provocazioni, l’opportunismo di giornata, saranno tratti psicologici bizzarri ma sono storicamente irrilevanti rispetto all’impegno futuro di restituire dignità e grandezza internazionale all’Italia.
L’ABC DELLA DEMOCRAZIA
COMINCIANO a fare una certa impressione, i terremoti che il presidente Ciampi provoca ormai sistematicamente con gli appelli contenuti nei suoi discorsi o nelle sue risposte ai giornalisti. Sono appelli a principi fondamentali del convivere civile, che in una democrazia sviluppata vanno generalmente da sé. I Capi di Stato o i monarchi li evocano di tanto in tanto perché così ordinano la tradizione, l’etichetta, e il prestigio connesso alla natura morale del loro magistero. In alcuni momenti difficili questi appelli si fanno più intensi, ma i momenti sono scelti con sobria sapienza e senso del risparmio verbale. Invece in Italia è oggi tutto diverso: ogni giorno, ogni ora il Capo dello Stato è chiamato a recitare il decalogo che fonda la democrazia, come se si trovasse di fronte a edifici in rovina. Deve ricordare a tutti che «in democrazia è indispensabile il rispetto reciproco», che «la collaborazione non esclude ma richiede un dibattito forte e schietto», che stampa e televisione devono essere libere di criticare, che i giudici obbediscono solo alla legge. E ancora: che le contrapposizioni sono lecite ma non devono superare il limite del rispetto dovuto alle «opinioni altrui: anche le opinioni diverse, profondamente diverse dalle nostre». Che le opposizioni e minoranze devono avere un ruolo riconosciuto, e uno statuto. Queste cose, in una democrazia sviluppata, fanno parte degli esordi: sono lo strato primitivo della sua geologia. Sono spiegate nelle sue scuole elementari, nei suoi giardini di infanzia. Non si rompe il giocattolo del vicino perché è più bello. Non si sputa né sul compagno né sulla maestra né sul bidello. Non si ruba e non si traduce l’invidia in odio. Imparate una volta, queste regole diventano leggi che si conoscono a memoria. Ciampi non ha dunque torto, quando al giornalista accalorato replica: «Ma quale terremoto? Io cerco solo di portare un po’ di tranquillità».
Eppure ogni volta è scossa tellurica, quando il Presidente evoca le norme imprescindibili della disputa politica, e prima o poi verrà il momento di domandarsi perché. Perché questa singolare sensazione di trovarsi in un paese dove tutto ogni volta deve ricominciare da zero, come nelle nazioni appena uscite da guerre, carestie o dispotismi. Un paese che non vive nella sua tangibile realtà e nella sua storia effettiva, ma nel «come se». Come se fosse una dittatura, come se la Costituzione dovesse essere redatta per la prima volta dopo decenni di regime, come se le sue istituzioni giacessero, a pezzi, sotto bombardamenti. Di questi tempi abbiamo sentito parlare spesso di paesi simili: sono paesi come l’Iraq o la Russia, nei quali occorre ricostruire non solo la nazione e lo Stato ma la rule of law, l’imperio della legge. Nel linguaggio degli specialisti quest’opera di civilizzazione si chiama nation-building, riedificazione della nazione: in Italia siamo ancora a questo livello. Stiamo facendo nation-building, non diversamente dall’Iraq, e come il Presidente Karzai in Afghanistan Ciampi deve intervenire ogni giorno, per mettere pace tra i clan ed evitare che la società politica torni alla guerra permanente che caratterizza il primevo stato di natura. Tra le varie ragioni di questo primitivismo politico, e del suo abnorme dilatarsi odierno, vorremmo citarne solo due. Primo: l’assenza o la carenza di un controllo sociale che selezioni e vagli in modo continuo i comportamenti: nel mondo delle istituzioni come in quello economico e scientifico. Un homo novus della politica come Berlusconi ha potuto compiere la sua ascesa senza che fossero prima vagliati la sua correttezza, il suo passato di cittadino e imprenditore, la sua effettiva indipendenza. Il processo contro la presunta sua corruzione dei giudici, risalente ai tempi in cui non era un politico ma un privato cittadino, avrebbe dovuto svolgersi prima che accedesse alle massime cariche dello Stato e non dopo, come si è unanimemente accettato che avvenisse. Lo stesso si può dire per l’esame critico del conflitto d’interessi. Mancato all’inizio, il controllo sociale occorre adesso esercitarlo in vivo. L’intero ceto politico - e non solo il Quirinale - è chiamato a riportare ordine nel rapporto fra legge e cosa pubblica: sono chiamati gli oppositori ma anche gli alleati riformisti di Berlusconi, la stampa, la televisione. Altrimenti si accetta che la democrazia venga corrotta da dentro, sia riportata al grado zero, e si avalla la norma secondo cui un uomo privato può usarla piuttosto che servirla, una volta abbattute le prime barriere del controllo sociale e ottenuta l’acclamazione delle urne. Quando Berlusconi si scaglia contro i giudici e li definisce golpisti e criminali, o quando accusa la stampa di tendergli «agguati», egli fa propria una concezione della democrazia che non conviene a nessuno, neppure a lui: se consiste solo nel verdetto degli elettori - verdetto che prevale su ogni altra cosa, compresi tribunali e imperio della legge - la democrazia può divenire facilmente dittatura della maggioranza. Qualsiasi controllo è inviso, tra due scadenze elettorali, se mette in causa quel primitivo verdetto di cui non si vuol vedere l’insufficienza. In particolare, sono invisi i controlli che più impauriscono i governi autoritari: la magistratura e l’informazione. La giustizia e il pluralismo d’opinione non sono più valori esterni al potere contingente, che perdurano anche quando i governi cambiano: sono oggetti di rissa politica, dunque sono valori mutevoli, sporadici, e mercanteggiabili. La seconda ragione è la tendenza, vigorosa in Italia, alla smemoratezza politica. Qui si dimentica, ogni mattina, quel che si è detto la sera prima. Qui il logos comincia ogni giorno da capo, senza rapporto con la realtà e la storia ma con un rapporto tanto più forte con le convenienze del momento. Anche questo è caratteristico del nation-building successivo alle guerre o alle tirannidi. Nei giorni scorsi, ad esempio, si è parlato molto di immunità per le cariche dello Stato o i parlamentari. Si è parlato dei danni inferti da Mani Pulite negli anni Novanta, degli eccessi di una parte della magistratura e dell’uso che la sinistra ha fatto di Tangentopoli. Si è parlato assai di meno di come la destra formatasi attorno a Berlusconi preparò oltre dieci anni fa il terreno per la rivoluzione giudiziaria italiana, di come la Lega e Alleanza Nazionale si trovarono allora ad attaccare, con virulenza estrema, chiunque criticasse il pool di Milano o consigliasse il ritorno alla protezione immunitaria delle cariche dello Stato. C’è qualcosa di indecente, in quest’oblio sistematico di sé e di quel che si è detto pochi mesi o anni prima. Qualcosa che corrompe le menti di un’intera classe dirigente (politici e imprenditori, giornalisti e studiosi). Qui in Italia non si riscrivono solo la storia e le colpe passate. Qui si riscrive sfacciatamente la storia nel momento stesso in cui essa si fa. I moderati di destra, le persone indipendenti nel governo e nel parlamento non possono a lungo mortificarsi, in questo degrado del senso della verità. Se vogliono avere attorno a sé cittadini non primitivi, dovranno ritrovare un loro rapporto civile con la giustizia, la storia e la stessa verità. Il male che affligge l’Italia non è solo la corruzione sanzionabile nelle aule giudiziarie. E’ la corruzione dei cervelli, è il guasto arrecato alla facoltà di ragionare, giudicare, ricordare. Magistrati e giornalisti non osano più parlare a chiare lettere, e lasciano questo compito ai giornali stranieri. All’Economist che giudica Berlusconi inadatto a guidare la presidenza dell’Unione Europa. Alla Frankfurter Allgemeine, che paragona la paura suscitata nei nostri governanti da magistratura e stampa alla paura provata dai dittatori. La corruzione dell’intelligenza e la primitivizzazione della politica conducono a guasti che sono poi difficili da sanare: al tumulto disordinato, o a un’obbedienza cieca verso il capo che svaluta la virtù stessa dell’obbedire e servire. I tedeschi danno a questa falsa docilità il nome di vorauseilende Gehorsamkeit: l’obbedienza che si affretta a precedere l’immaginato ordine del capo. La nostra televisione pubblica già si affretta - più ancora di quella posseduta in prima persona da Berlusconi - offrendo impropriamente la propria arena a imputati politici alle prese con la giustizia ordinaria: a Previti prima e a Berlusconi poi, rispettivamente a Porta a Porta e a Excalibur. La democrazia è in pericolo quando l’autocensura interviene prima ancora della censura. Quando è costretta ad accordarsi intorno a leggi dell’immunità che si rivelano necessarie per proteggere molto più le maggioranze che le minoranze. Quando le maggioranze fingono di essere opposizioni, e i regimi si difendono dall’accusa di prepotenza lamentandosi di essere essi stessi vittime di un regime. Tutti noi - cittadini e giornalisti, politici e magistrati italiani - siamo a questo grado zero della cultura politica. Ed è difficile non provare una certa vergogna, quando Ciampi ci ricorda l’abbiccì della civiltà e ci tratta, di fatto, non già come adulti ma come scolari di un ineducabile, screanzato, vociferante giardino d’infanzia.
MA L’ITALIA CONTA DI PIU’
di SERGIO ROMANO
Berlusconi e Prodi sono nemici politici. Si sono battuti nel 1996 e potrebbero affrontarsi nuovamente nelle prossime elezioni. Sono diversi per cultura, formazione, stile personale. Ed è probabile che i loro rapporti siano ispirati a reciproca antipatia. Ma hanno contribuito insieme all’unico vero mutamento emerso dalla crisi degli anni Novanta. Se Berlusconi non avesse raggruppato intorno a un partito nuovo le forze del centrodestra e se Prodi non avesse fatto altrettanto nel centrosinistra creando l’Ulivo, gli italiani sarebbero ancora costretti a mettere nell’urna una procura in bianco. Se possiamo scegliere da chi essere governati, lo dobbiamo a questa coppia di eterni duellanti. Ma il duello, con gioia di chi vorrebbe tornare al vecchio trasformismo nazionale, rischia di mandare all’aria il bipolarismo. I primi errori, nell’ultimo round, sono stati commessi da Berlusconi. Quando è apparso di fronte al tribunale di Milano, il premier ha creduto che la condizione di imputato gli desse il diritto di chiamare in causa l’ex presidente dell’Iri. Ma l’insinuazione colpiva il presidente della Commissione e pregiudicava i rapporti istituzionali che i due dovranno avere nel semestre italiano. Il presidente del Consiglio credeva di difendersi e ha fornito armi ai suoi critici. Lo abbiamo constatato quando un settimanale inglese, che Berlusconi aveva querelato per un precedente articolo, lo ha definito unfit (inadatto) a presiedere l’Europa. Non basta. Avant’ieri, con l’intervista in tv ad Antonio Socci, il presidente del Consiglio ha commesso un altro errore. Poteva parlare «a reti unificate», come Scalfaro nel ’93. Poteva indirizzarsi al Paese come Chirac all’epoca degli scandali in cui fu coinvolto. Poteva persino servirsi di una spalla amica, come faceva il generale de Gaulle. Ma non doveva, mi sembra, occupare buona parte di un talk show della tv di Stato senza accettare le regole del confronto.
Prodi, dal canto suo, ha rotto il riserbo che si era imposto. Incoraggiato forse dalle critiche dell’ Economist e dalla gaffe televisiva del suo avversario, ha approfittato di un convegno a Siena per leggere una fulminante dichiarazione contro Berlusconi. Non si è reso conto che il presidente della Commissione è, a tempo pieno, un uomo dell’Europa e, benché attaccato, dovrebbe astenersi da dichiarazioni sulla situazione politica del suo Paese. Ha dimenticato che anche lui, per ragioni diverse, è poco amato dalla stampa britannica e che qualche giornalista potrebbe definirlo unfit a presiedere la Commissione.
Gli effetti di questa baruffa cadranno tutti sulle nostre spalle. Berlusconi e Prodi avranno rapporti freddi, formali, inconcludenti. Gli interessi nazionali ne saranno danneggiati. L’Italia verrà definita ancora una volta pasticciona, rissosa, ingovernabile. La presidenza italiana del semestre sarà priva di credibilità internazionale. E i nemici del bipolarismo ne approfitteranno per sostenere che è meglio tornare al vecchio proporzionalismo, quando i governi venivano cambiati, mediamente, ogni anno. Chi riuscirà a difenderci da questo insensato duello? Non lo chiediamo al capo dello Stato che continuerà a instillare un po’ di buon senso nella testa della classe politica. Lo chiediamo agli esponenti più intelligenti della maggioranza e ai veri amici di Prodi. Cerchino di ricordare ai duellanti che l’Italia conta più delle loro beghe.
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TORINO - Un Silvio Berlusconi come sempre a tutto campo, quello che si presenta - tra gli applausi - sul palco torinese di Confindustria. Il premier, con una mossa a sorpresa, straccia le 26 pagine del suo discorso, e dice alla platea di voler trasformare il suo intervento in un botta e risposta con i suoi interlocutori: "Fatemi domande birichine", chiede agli imprenditori presenti (tra cui Umberto Agnelli). Ne segue un fiume di dichiarazioni sugli argomenti più vari, con alcuni passaggi destinati a fare impennare la polemica politica: come quello in cui il capo del governo definisce "di ispirazione sovetica" alcuni passaggi della nostra Costituzione. Un'opinione che non può certo passare inosservata. Ma il presidente del Consiglio parla anche d'altro: dall'annuncio di una "Maastricht del Welfare" nel semestre di presidenza italiana della Ue, alla difesa dei "pianisti" in Parlamento; dalla futura abolizione dell'Irap al fatto che la Camere saranno convocate già la prossima settimana per esprimersi sull'invio di truppe in Iraq. La
Costituzione "sovietica". Ecco le precise parole di Berlusconi: "Mi sono più volte anche pubblicamente lamentato, del fatto che la nostra legge fondamentale dà alle imprese poco spazio". E ancora: "La formulazione dell'articolo 41 e seguenti risente delle implicazioni sovietiche che fanno riferimento alla cultura e alla costituzione sovietica da parte dei padri che hanno scritto la Costituzione". Lui non cita il contenuto dell'articolo 41; ma per i lettori che vogliono farsi un'idea, riportiamo il testo integrale: " L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali"
. La difesa dei "pianisti". Per il premier, i parlamentari che durante il voto schiacciano anche i pulsanti dei banchi dei compagni assenti non fanno nulla di male: "Ho visto che c'è stato scandalo per i cosiddetti pianisti. Non c'è nulla di scandaloso. Per quanto riguarda l'aula, il singolo gruppo vota per il numero dei componenti del suo gruppo: Se qualcuno è in disaccordo, deve essere presente, per dare il suo voto contrario".
Lacci e lacciuoli alle riforme. Berlusconi risponde con battuta alle lamentele degli imprenditori sul ritardo delle riforme promesse: su questo tema, dice, "non abbiamo fatto un solo passo indietro. La prossima volta le difficoltà si possono superare se darete a Silvio Berlusconi e a Forza Italia il 51% dei consensi. Allora il percorso sarà più agevole". Comunque per realizzarle non basterà una legislatura, ammette. Per poi definire "una fatica di Sisifo" i passaggi necessari a trasformare una proposta in legge: "Ho solo il potere di essere paziente, la situazione attuale non mi dà potere alcuno, posso solo proporre decreti al Parlamento".
La Maastricht del Welfare. "Nei sei mesi di presidenza europea, vogliamo arrivare a un accordo con gli altri 14 Paesi per una Maastricht del Welfare. Il problema dell'invecchiamento della popolazione è generale, tutti gli Stati stanno facendo conti per verificare gli incrementi di capacità di spesa da affrontare". In questo contesto, "l'Italia si ritrova con un sistema che non si può più mantenere così come è oggi".
L'allargamento dell'Unione. Una "grande Europa", che dopo l'allargamento a venticinque, estenda ancora i propri confini dalla Turchia alla Moldavia, dalla Russia fino a Israele: questa l'idea del presidente del Consiglio. Che, aggiunge, nel corso del semestre di presidente farà "76 viaggi all'estero". Mentre, a proposito della crisi in Medio Oriente, Berlusconi ribadisce che l'Italia vuole ospitare i colloqui iraelo-palestinesi.
La guerra in Iraq. Il premier annuncia: "In settimana chiederemo al Parlamento il via libera per le forze di sicurezza" italiane da inviare nel paese del Golfo persico. Poi ribadisce la legittimità dell'intervento angloamericano.
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"E' ARRIVATA la bufera / è arrivato il temporale / chi sta bene e chi sta male...": così cantava Renato Rascel trent'anni fa. Bisogna ricorrere alla triste risata dei comici e alla loro lungimiranza per capire meglio a quale punto della nostra "road map" siamo arrivati.
"Resistere" disse il giudice Francesco Saverio Borrelli davanti ai suoi colleghi nel gennaio 2002, all'apertura dell'anno giudiziario, e lo ripeté tre volte. Di fronte all'uragano mediatico scatenato da Berlusconi sulle teste di 46 milioni d'italiani adulti, a noi che facciamo un altro mestiere non resta che ripetere, ripetere, ripetere. Forse sarà stucchevole ma non abbiamo altro modo per tenere acceso un lumicino d'onestà intellettuale nel paese dove la comunicazione è la più monopolizzata e manipolata del mondo e dove il gioco delle tre carte non va in scena nelle suburre metropolitane o nelle piazze di paese, ma nella sala stampa di Palazzo Chigi e nel salotto rosso-oro del presidente del Consiglio. Perciò ripetiamolo questo catalogo delle bugie e del capovolgimento della verità e aggiorniamolo perché ogni ora che passa s'aggiunge un fatto nuovo di stupefacente enormità.
Tutto è cominciato con la lettera di Berlusconi al giornale di Giuliano Ferrara, poi con le "dichiarazioni spontanee" al processo Sme, poi con il comizio all'assemblea-quadri della Pubblica amministrazione, poi ancora con le ispezioni nella redazione del Tg3, e infine (per ora) con lo spot di 51 minuti a Excalibur l'altro ieri sera su Rai2 in prima serata.
Cinque giorni, cinque sortite riprese da tutte le reti televisive pubbliche e private e da tutta la stampa. Parla il presidente del Consiglio, diamine, che è anche imputato in tre processi per corruzione di magistrati (anche se da uno è miracolosamente scomparso per decorrenza dei termini), che tra un mese e mezzo diventerà presidente di turno dell'Unione europea e che controlla il 97 per cento dei media televisivi e una cospicua porzione dei giornali quotidiani e settimanali.
Ieri, parlando a Siena con i giornalisti in margine a un convegno di studi, Romano Prodi ha definito "indecente" l'intervista di Berlusconi ad Antonio Socci (Excalibur di cui sopra). Il presidente della Commissione europea non aveva mai usato un aggettivo di così totale squalifica nei confronti del massimo rappresentante di uno dei paesi fondatori dell'Unione.
Indecente e indegna ha detto Prodi aggiungendo "mi auguro che gli italiani ci riflettano". Lo faranno? Fino a che punto riusciranno a liberarsi dalla cappa della manipolazione mediatica che grava su tutti noi?
L'obiettivo dichiarato di quest'offensiva è di intimidire l'Ordine giudiziario riducendolo all'impotenza. Ma ce ne sono altri non meno rilevanti: intimidire l'opposizione, intimidire il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale e più in generale tutte le istituzioni di garanzia, intimidire la stampa. Tutti questi obiettivi sono perseguiti con lucida pertinacia e dovizia di mezzi. Alcuni sono già stati in larga misura realizzati, altri sono in corso d'opera.
Secondo i disegni del nuovo Principe, dovrebbero andare a segno entro l'anno in corso e concludersi a fine legislatura con l'ascesa di "Mister B." al Quirinale con poteri di capo dell'esecutivo, alla francese. Se tutto sarà fatto come si conviene, gli italiani si godranno il regime (come altro chiamarlo?) fino al 2012. Ai posteri l'ardua sentenza. È fin troppo ovvio che ci saranno parecchi ostacoli da superare.
Perciò è già in movimento la tecnica dei veleni, inaugurata dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Telekom Serbia, dove s'è consentito a un faccendiere sott'accusa in Italia e in Svizzera per riciclaggio di capitali d'accusare di corruzione Prodi, Dini e Fassino. Poiché in quello stesso periodo Ciampi era ministro del Tesoro e quindi azionista di Telecom, vedrete che ce ne sarà anche per lui se non starà buono. La Commissione parlamentare s'è comportata come un ventilatore che schizza materia ignobile intorno a sé.
Analogamente il presidente del Consiglio nel comizio tenuto nell'aula del tribunale di Milano dove si celebra il processo Sme che lo vede imputato di corruzione di giudici. In quella sede, parlando senza subire né interruzioni né domande, il Principe ha di fatto messo in un colpo solo Prodi e Amato sul banco degli imputato al posto suo. Naturalmente non ha detto una sola parola sul reato dal quale dovrebbe difendersi; ha parlato d'altro, del prezzo al quale Prodi voleva vendere la Sme a De Benedetti, del maggior prezzo che fu invece realizzato dall'Iri nove anni dopo e di tangenti che sarebbero state versate, ma non ha detto da chi e a chi. I "media" della sua parte (quattro quinti del totale) ci sono andati a nozze.
"Un fatto è comunque certo - ha lapidariamente commentato il vicepresidente del Consiglio Fini - Prodi voleva vendere a 500 miliardi, ma la Sme fu poi venduta a circa 2000 pochi anni dopo". Ebbene: la Sme dell'84 era ben diversa da quella del '93 (nove anni dopo): piena di debiti, passivo alle stelle, obbligo per il compratore di non rivendere e di non scorporare l'azienda per dieci anni mantenendo lo stesso livello d'occupazione nell'84; nove anni dopo l'Iri aveva ripianato gran parte dei debiti investendo molte centinaia di miliardi nella società, che fu scorporata e venduta a pezzi fin dall'inizio con tanti saluti alla creazione d'un polo alimentare nel sud e ai livelli di occupazione di nove anni prima.
Quale delle due vendite - quella virtuale dell'84 e quella effettiva del '93 - sarebbe stata più utile all'economia italiana e allo Stato? Onorevole vicepresidente del Consiglio, la risposta non è affatto certa come lei sembra di ritenere; a lume di naso direi che la vendita effettiva del '93 si risolse in una catastrofe che non abbiamo ancora finito di pagare come contribuenti. Lei, tifoso della Lazio, dovrebbe ben saperne qualche cosa.
Visto che abbiamo parlato di Fini per logico sviluppo del nostro ragionare, fermiamoci un momento su questo personaggio che molti anche a sinistra giudicano migliore di Berlusconi, democraticamente parlando. Può anche darsi: battere nel peggio quel che Altan ha denominato una volta per tutte Silvio Banana è infatti un'ardua impresa. Ma anche Fini ci prova ogni volta che può.
Prendete il dibattito sulla reintroduzione dell'immunità parlamentare, cioè dell'obbligo per i magistrati inquirenti di ottenere l'autorizzazione preventiva del Parlamento per poter avviare un processo contro uno dei suoi membri. Fini, come tutti i cani da pagliaio che fanno parte dell'alleanza del centrodestra, è schierato fino in fondo con Berlusconi. Nel suo partito c'è ancora qualche mal di pancia ma rientrerà, oh, se rientrerà! Dobbiamo comunque al bravo Gian Antonio Stella (sul Corriere della Sera dell'altro ieri) un rinfresco di memoria. Cito: "È ora che si sospendano gli stipendi ai parlamentari inquisiti, se non altro a quelli per i quali è stata chiesta l'autorizzazione all'arresto, che solo in virtù d'un privilegio medievale come l'immunità non hanno ancora fatto la fine del giudice Curtò": dichiarazione di Fini del settembre '93, quando già erano stati incriminati Craxi e Andreotti.
E più oltre, dopo il suicidio in carcere del presidente dell'Eni, Cagliari: "È inammissibile che si prenda spunto da questo suicidio per avviare la campagna di delegittimazione dell'inchiesta che la magistratura sta conducendo contro le ruberie del sistema di potere". Giuliano Ferrara conosce senza dubbio questi precedenti ma non ne parla mai. Neanche Vespa ne parla. E Socci. Perché il Fini del 2003 si è ravveduto, come Gasparri, come La Russa, come Storace, come Bossi. Miracoli di padre Pio? Potenza suggestiva di Silvio B.? Vai a sapere.
Nelle dichiarazioni "spontanee" rese al processo Sme il presidente del Consiglio ha spiegato ripetutamente che il suo intervento per mandare a monte la vendita della società dall'Iri a De Benedetti fu dovuto alla pressante richiesta di Craxi, allora suo predecessore a Palazzo Chigi. Di bugie ne dice più d'una al giorno il nostro capo del governo, ma questa volta ha detto certamente la verità. Apprendiamo dunque (si sapeva già ma ora ne abbiamo l'autentica certificazione) che il presidente del Consiglio Craxi, volendo bloccare un'operazione di mercato, chiese anzi pretese l'intervento di un imprenditore il quale non poteva dirgli di no.
Perché non poteva dire di no a una richiesta così anomala e sicuramente illecita? Per l'evidente ragione che l'impero tv berlusconiano era stato edificato sull'amicizia personale con Craxi e si reggeva - contro le sentenze della Corte costituzionale - unicamente su quell'amicizia e sui decreti-legge ad personam che ne derivarono. Il presidente del Consiglio di oggi è figlio di quello di ieri e ha il palato forte come il suo padre d'adozione. Semmai c'è da osservare che il figlio ha di gran lunga superato il padre.
L'istituto dell'autorizzazione a procedere - privilegio medievale secondo il Fini del '93 - fu abolito perché servì per quarant'anni a sottrarre sistematicamente i membri del Parlamento al controllo di legalità da parte della magistratura. Quando le evidenze erano così schiaccianti da non consentire l'omertà di casta, si faceva in modo di far avocare il processo dal tribunale competente a quello di Roma, non a caso denominato "il porto delle nebbie". Ed è esattamente su quel porto delle nebbie che hanno puntato i riflettori i magistrati di Milano nei casi Imi-Sir, Lodo Mondadori, Sme.
Poiché ho nominato poco prima Giuliano Ferrara, osservo che, proprio durante la trasmissione "indegna" di Excalibur il direttore del Foglio ha ricordato che i magistrati godono del diritto all'inamovibilità dalla loro sede; per simmetria, secondo Ferrara, i membri del Parlamento dovrebbero essere tutelati dal controllo di legalità della magistratura. Spettabile Giuliano Ferrara, l'inamovibilità non sottrae il magistrato al giudizio di giurisdizione, l'autorizzazione a procedere invece sottrae i parlamentari all'accertamento di possibili reati. Non si possono paragonare le pere con i pesci e lei dovrebbe ben saperlo.
È vero che Berlusconi, in quella stessa trasmissione, ha detto che l'autorizzazione a procedere sarà di rigore concessa in casi di flagranza del reato. Ha fatto anche qualche esempio: un parlamentare investe un passante e non lo soccorre; oppure viene sorpreso a compiere atti di libidine su un bambino; o ad uccidere un suo nemico. E la corruzione di magistrati per accomodare sentenze è una bagattella, signor presidente del Consiglio? Non è uno dei più gravi reati previsti dal codice penale? Cose da pazzi.
Eppure lui le dice e gliele lasciano dire, anzi è applaudito per averle dette. Ma obiettano: ci sono giudici politicizzati che incriminano per danneggiare l'onore d'un cittadino e rendono sentenze settarie. Quei giudici vanno dunque ridotti al silenzio. Chi sostiene questa tesi è nientemeno che il presidente del Consiglio, cioè il capo del potere esecutivo. Non è un'interferenza macroscopica mirante a intimidire per ridurre al silenzio l'esercizio della giurisdizione? Non è dunque una violazione intollerabile della separazione dei poteri? Quale concetto ha mai questa gente della separazione dei poteri? Che ogni potere amministri la propria giustizia a casa sua? Cioè che i panni sporchi si lavino in famiglia? O invece, come sta scritto in tutte le Costituzioni del mondo dopo il 1789, che ogni cittadino sia considerato eguale di fronte alla legge?
Gli "equidistanti" che passano il tempo a misurare la forza con cui un giorno danno il colpo al cerchio e il giorno dopo il colpo alla botte, suggeriscono alla sinistra "ragionevole", d'accettare il "lodo Maccanico", cioè la non procedibilità per le cinque più alte cariche dello Stato. E' ragionevole. Molto meno ragionevole è invocare una legge del genere (di modifica costituzionale) mentre è in corso da anni un processo che vede imputato un uomo che riveste una di quelle cariche. Ma sia pure. Fatela quella legge. Alla quale, per essere accettata, occorre almeno mettere due paletti. Primo: riguardi solo i titolari di quelle cariche e non altri. Secondo: la non procedibilità valga solo per il mandato in corso; chi ne gode non potrà concorrere ad altro mandato successivo che goda anch'esso della stessa esenzione.
Quanto all'immunità dei parlamentari, l'autorizzazione si è rimessa - se proprio si vuol ripristinare un filtro che fu abolito a furor di Parlamento appena dieci anni fa con 525 voti favorevoli, 5 contrari e un astenuto - a un collegio "terzo", composto pariteticamente da parlamentari e da magistrati. S'invoca tanto la terzietà, ebbene questo è il caso più adatto per utilizzarla.
Aprile
Finalmente individuata una sede idonea per il processo Imi-Sir. Escluse per manifesta ostilità ambientale tutte le città italiane (in ciascuna delle quali Cesare Previti sta sulle balle a qualcuno), la scelta è caduta sul minuscolo villaggio altoatesino di Seppwald, dove nessuno conosce Previti e vedendo la sua foto tutti ridono credendo sia uno scherzo. Ottimi i requisiti politici per garantire a Previti un processo equo: a Seppwald l’unico comunista scomparve misteriosamente nel dopoguerra durante la Fiera delle affettatrici per spek. L’Amministrazione è di centrodestra, formata da una coalizione di ex Esse Esse e di casalinghe integerrime con i gerani al balcone. Le Esse Esse rappresentano il centro. La prima udienza viene sospesa per cause tecniche: Previti non capisce le domande in tedesco del pretore, e una mucca ostruisce l’ingresso dell’aula. Si trova con urgenza un interprete, riesce a intendersi con la mucca, che si sposta, ma non con Previti, che gli comunica a gesti di non capire la traduzione in italiano dei numeri di conto corrente svizzeri. Il processo è nuovamente sospeso.
Maggio
Una legge-quadro del governo (detta legge Schifani anche se Schifani non l’ha scritta, però l’ha decorata di cuoricini fatti col pennarello) parifica giustizia pubblica e privata, istituendo le pay-procure. Davanti al neonato Libero Tribunale “Cesare Previti” di Portofino, Cesare Previti ricusa il posteggiatore e parcheggia direttamente nell’atrio. Con un incalzante interrogatorio, l’imputato mette in seria difficoltà i giudici, incapaci di spiegare perché non sono membri della Canottieri Lazio e perché nessuno di loro ha sposato la sorella di Previti, pur avendone piena facoltà.
Memorabile arringa conclusiva di Cesare Previti, intitolata «Perché il processo Imi-Sir deve considerarsi illegittimo?». Lo svolgimento del tema è: «Perché sì». Giuristi di tutto il mondo non riescono a trattenere la loro ammirazione per la concisione e l’acume dialettico dell’ex imputato.
Giugno
Cesare Previti, definitivamente prosciolto e restituito ai suoi effetti, concede una clamorosa intervista a “Panorama”, spiegando quanto calunniose e persecutorie furono le imputazioni mossegli per il caso Imi-Sir. «Non ho mai conosciuto Guido Imi, e Abel Sir era solo un conoscente di mia moglie».
Luglio
Il ministro della Giustizia Castelli si dimette per protesta: il Consiglio Superiore della Magistratura rifiuta la nuova denominazione di Consiglio Inferiore (o in alternativa, Suggerimento Medio), offendendo gravemente il governo. Il nuovo ministro Cesare Previti stabilisce la separazione delle carriere tra magistrati e uscieri. Funziona così: ci si può laureare in legge, vincere il concorso e perfino aprire un’inchiesta. A partire dal giorno dopo, si diventa uscieri.
Agosto
In vacanza in Costa Smeralda, nella villa di Berlusconi chiamata “Nocciolo Duro” (confina ai quattro lati con altre quattro ville di Berlusconi), Cesare Previti prepara la bozza della nuova legge per abbreviare le vergognose lungaggini del processo penale. Accertato che a indignare i cittadini è l’interminabile attesa della sentenza, viene eliminata la sentenza, evidente punto debole della catena.
Settembre
Previti invita Francesco Saverio Borrelli da Fortunato al Pantheon, per una cena pacificatrice nella tradizionale e simpatica tavolata dove vive e pernotta Lino Jannuzzi (è un tavolo-letto della Ikea, con i ceci della pasta e ceci trasformabili in fiches da poker).
Borrelli rifiuta l’invito. Il ministro Previti lo fa arrestare per resistenza, resistenza, resistenza a pubblico ufficiale.
Alla quinta richiesta di rinvio dell’imputato-capo del governo, il tribunale si chiude in camera di consiglio ed esce con una decisione un po’ a sorpresa, ma non troppo: il processo al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi continuerà a parte, per gli altri otto imputati - da Cesare Previti in giù - si andrà avanti senza dover fare i conti con gli impegni del premier. E questo perché, reclamano i giudici di Milano, un procedimento penale non può annaspare «in una situazione di continua incertezza». Ennesima dimostrazione di uso politico della giustizia, ha subito tuonato qualche «falco» da destra. Ma si può sostenere anche il contrario: secondo il tribunale di Milano l’amministrazione della giustizia non dev’essere condizionata dai tempi e dalle esigenze della politica.
Che la decisione del presidente del Consiglio di presentarsi davanti ai giudici per fare le sue «dichiarazioni spontanee» avesse dei risvolti politici oltre che processuali è opinione di tutti gli osservatori. Così, l’ordinanza letta ieri mattina dal presidente del collegio Luisa Ponti viene anche letta come un sussulto di autonomia e indipendenza della magistratura: un processo che va avanti da centosei udienze non si può impantanare perché l’imputato più eccellente e più impegnato ha improvvisamente deciso di occuparsene personalmente dopo essersene disinteressato per tre anni, come lui stesso ha ammesso.
Berlusconi potrà proseguire a difendersi coi suoi tempi, ma separatamente. Per gli altri si procede secondo il calendario stabilito. Una sorta di Lodo Maccanico deciso in tribunale con l’esclusione dei coimputati dal «congelamento» del processo per il premier, anche se non è proprio la stessa «soluzione politica» che porta il nome dell’ex ministro. Perché, per dirne una, il procedimento contro Berlusconi non è sospeso ma andrà avanti, seppure compatibilmente coi suoi «impedimenti».
Presa questa decisione, nel pomeriggio i giudici pronunciano una nuova ordinanza riguardante Previti e le altre persone accusate di corruzione giudiziaria e reati minori: il dibattimento è chiuso, le nuove prove testimoniali invocate dalle difese non servono. Alla prossima udienza, già fissata per venerdì 23 maggio, il pubblico ministero Ilda Boccassini potrà cominciare la sua requisitoria, con le prevedibili richieste di condanna per gli imputati.
L’esperienza di tre anni e più insegna che nei processi chiamati «toghe sporche» nulla si può dare per certo finché non è avvenuto, ma il calendario è questo. E anche se non farà richieste specifiche sull’imputato-premier, il pm trarrà le sue conclusioni su una vicenda dove ci sono passaggi di denaro e presunte corruzioni commesse da Previti e altri nei confronti di alcuni ex magistrati per conto di Silvio Berlusconi, all’epoca dei fatti imprenditore amico del capo del governo e oggi lui stesso capo del governo. Con l’inevitabile conseguenza di far rientrare dalla finestra dell’aula di giustizia quella politica che i giudici, con la scelta del mattino, avevano tentato di far uscire dalla porta.
Le alchimie tecnico-giuridiche innescate dalle decisioni di ieri offrono ancora altri sbocchi, e aprono la strada a ulteriori incertezze sull’esito di questa partita politico-giudiziaria. In teoria i giudici che hanno appena stralciato la posizione di Berlusconi potrebbero addirittura riunirla nuovamente a quella degli altri imputati; se infatti il premier facesse le sue dichiarazioni di qui a pochi giorni, esaurendo la fase del dibattimento anche nel processo-bis, il tribunale avrebbe la possibilità di tornare a un unico procedimento. Viceversa, se il presidente del Consiglio ritarderà ancora, o i giudici dovessero successivamente accettare l’esibizione di nuove prove, allora i due processi dovrebbero proseguire autonomamente. Con l’insidia finale paventata dai difensori degli altri imputati: qualora nel processo principale si dovesse arrivare alla sentenza, quegli stessi giudici non potrebbero più pronunciare il verdetto nei confronti di Berlusconi, poiché avrebbero già espresso un parere sugli stessi fatti.
La matassa, insomma, è tutt’altro che sbrogliata. E il ping-pong tra giustizia e politica non sembra finito. Nonostante il tentativo di un tribunale che proclama di voler «assolvere al dovere di garantire l’ordinato svolgimento del processo» dopo essere passato indenne, in oltre tre anni, dagli «impedimenti» degli altri onorevoli coinvolti (imputati o avvocati che siano), da ricusazioni e ricorsi alle Alte Corti, dalle nuove norme sulle rogatorie, dal tentativo di sottrarre un giudice al collegio e dal «legittimo sospetto» di parzialità introdotto con la legge Cirami.
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Trucco da fiera con sorpresa finale, a ben vedere, l'arrivo in pompa magna di Silvio Berlusconi al Palazzo di Giustizia di Milano. Un evento. Mai il presidente del Consiglio ha preso la parola in un suo processo. "Andrà a Milano e farà delle dichiarazioni spontanee al processo Sme" annuncia un sussurro giovedì pomeriggio. A sera, il sussurro prende corpo e trova conferma nella disperazione (apparente) dei suoi. Paolo Bonaiuti (portaparola) confessa: "Tutti gli stiamo sconsigliando di venire, ma non vuole sentire ragioni...". Gli avvocati del "giro stretto" simulano quiete. Minimizzano, banalizzano, scolorano. "Che volete che dica: dirà quel che ha sempre detto: che è un perseguitato! Viene al banco per rifinire un'operazione mediatica. Dieci minuti in aula. Trenta fuori con i giornalisti. Il processo non ne avrà alcun frutto".
L'attesa ingrassa le congetture e le domande. Perché proprio ora? Perché soltanto ora Berlusconi si decide ad affrontare l'aula legittimando quella magistratura che egli sempre accusa di essere politicamente orientata alla sua distruzione? Alla vigilia si raccolgono, grosso modo, due risposte.
La prima la propongono gli addetti alla vita politica: lo deve a Previti. Meglio, è Previti, con quel suo maligno fare ribaldo, che glielo impone. Il fedele Cesare sta precipitando verso una sentenza che teme e Berlusconi, dopo aver sperimentato tutte le strade tecnico-politiche per soffocare quel processo (Imi/Sir-Lodo Mondadori), non può più tirare la corda con i suoi alleati (soprattutto con An). Può soltanto spendere se stesso, la sua faccia, le sue parole.
Ecco perché sarà a Milano. Per essere fedele a un'amicizia, a un legame che (se tradito) può diventare minaccioso. Che Previti affronti poi il suo destino e la sentenza: "In fondo si tratta soltanto del primo grado, in seguito si vedrà..." .
Gli addetti alla macchina giudiziaria raccontano invece un'altra storia. Berlusconi viene per difendere se stesso e soltanto se stesso. Ora che si approssima la fine del processo Sme, il presidente del Consiglio teme di esserne travolto e decide di fare le sue mosse per coprirsi le spalle.
Altro che amicizia! Altro che Cesare! Gli avvocati di Previti sembrano scossi da un (apparente) brivido di preoccupazione. "Speriamo che si limiti a denunciare quella magistratura che soffoca i diritti della difesa - dice Alessandro Sammarco - Sa, il presidente Berlusconi a volte si lascia prendere la mano. Dio non voglia che affronti il merito delle questioni. Perché, se affronti il merito, legittimi quella magistratura che noi da anni vogliamo delegittimare..." .
Sono le 9,50 del mattino e la giornata comincia a correre molto rapidamente. Berlusconi entra in aula. Prende posto tra i suoi avvocati. Sorride, sorride, sorride, e tuttavia appare a disagio. Chi se ne può meravigliare? Come un imputato qualsiasi, sbircia nervoso gli appunti che ha preparato. Ad allungare il collo sulle sue spalle, si vede un scaletta di argomenti annotati, su tre pagine, in stampatello con una grafia larga e sottile. Al primo punto, "Le testimonianze negate dei giudici".
Ora sono le dieci, entra il tribunale (mai così puntuale). Appello delle parti... Imputati presenti... Avvocati presenti... Il consueto rito... Attenzione, c'è qualcosa che non va. L'avvocato dell'"imputato Pacifico Attilio" non è in aula. E' da qualche parte nei dintorni, ma non in aula. L'avvocato dell'"imputato Misiani Francesco" non c'è, e non verrà. Dunque, bisogna attendere l'arrivo del difensore di Pacifico. Pochi minuti. E dieci, venti minuti per nominare un difensore d'ufficio per Misiani e permettergli di raggiungere l'aula.
Subito salta su Gaetano Pecorella, avvocato del presidente del Consiglio e presidente della commissione Giustizia alla Camera per conto del partito del presidente del Consiglio. Eh no, spiega, il capo del governo ha soltanto pochi minuti. Al più, può attendere "due minuti" perché deve raggiungere Roma e presiedere il Consiglio dei ministri.
In due minuti, in un tribunale, non si declinano nemmeno le generalità, lo sanno tutti. Lo sa anche Pecorella che, soddisfatto, conclude che "presidente Berlusconi farà allora le sue dichiarazioni spontanee in un'altra occasione, quando i suoi impegni glielo permetteranno" . L'assenza dei difensori in avvio di udienza era programmata? Quell'improvviso vuoto era stato definito a tavolino come l'impaziente fretta dell'imputato venuto fin qui per dichiarare spontaneamente le sue ragioni e disposto soltanto ad attendere "due minuti"? Forse sì, forse no (se si pensa a quella scaletta di argomenti stropicciata con nervosismo da Berlusconi). E comunque ogni risposta è buona, in assenza di fatti.
Le parole di Pecorella comunque suonano per il presidente del Consiglio come la campanella di fine lezione. Guadagna in fretta il corridoio. E' inseguito dalle telecamere, dai microfoni, da guardie del corpo con gomiti energici e puntuti. Berlusconi si ferma come una statua nel punto che ritiene più adatto per sé (inadatto per chi lo deve ascoltare). Vuole dire qualcosa. Quasi si scusa. "Avevo solo un quarto d'ora... Alle 10 ho il Consiglio dei ministri, successivamente un impegno col primo ministro del Giappone. Alle 12.30 ho la firma dell'accordo con il presidente della Regione Toscana per le infrastrutture sul territorio e alle 13.30 un importante incontro con il primo ministro della Federazione Russa. E questo solo per la mattina...".
Accenna poi alle ragioni della sua sortita. "Sapete, a tutti processi che mi sono stati scatenati contro, dopo la mia entrata in politica, io non ho mai partecipato, a parte una volta, su richiesta dei miei difensori. Per il resto mi sono sempre disinteressato...". Questo processo, ripete, gli appare "assolutamente inverosimile e ritengo che dovrebbe essere riconosciuto al cittadino Berlusconi il merito per avere evitato una spoliazione del patrimonio dello Stato".
Il premier era convinto che l'affare si sarebbe chiuso in fretta e bene. "Invece, gli avvocati mi hanno chiesto un incontro e mi hanno illustrato una serie di situazioni processuali francamente paradossali. Allora, dato che si tratta di una vicenda anche importante per la storia del nostro Paese, ho ritenuto che, facendo una eccezione, io dovessi venire qui, non solo per esercitare in pieno il mio diritto a difendermi, ma anche per far conoscere questa vicenda alla generalità dei cittadini".
"Credo quindi - conclude - che si possa ottenere da parte del tribunale che le udienze siano fissate in modo tale da consentirmi di essere presente per chiarire delle situazioni, pur con gli impegni importanti che ho come presidente del Consiglio e soprattutto, oggi, come componente della troika europea e, fra due mesi, come presidente dell'Unione Europea. Ritornerò alla prossima udienza".
Ce n'è anche per l'amico Previti, come è ovvio. Due parole gettate lì, dopo tanta insistenza. "E' indubbio che Previti sia oggetto di una persecuzione. Ciò è confermato anche dal voto della Camera dei Deputati che, quando ci fu la richiesta di arresto, sottolineò l'esistenza del fumus persecutionis" .
Ora Berlusconi va via. Lascia tutti di princisbecco. Tutto qui, l'evento? Quattro parole in croce in un corridoio e la promessa di tornare, se può, quando può? C'è un trucco? E, se c'è, dov'è? Il trucco - o, per dirla in altro modo, la sapientissima e scandalosa mossa per rendere definitiva la fuga dal giudizio - è lì sotto gli occhi di tutti.
Non c'è chi non lo veda. Finora l'imputato Silvio Berlusconi, "validamente citato" , non è mai comparso. Dichiarato "contumace", è stato "rappresentato" soltanto dai suoi difensori. Ma, contumace, l'imputato non può far valere i "legittimi impedimenti" o le assenze "causate da forza maggiore" . Ecco allora la mossa di Berlusconi. La sua presenza in aula a Milano e l'annuncio di voler fare delle dichiarazioni spontanee cancellano la contumacia, lo reintegrano nel suo diritto di essere sempre presente, di vedere rinviate le udienze a cui non può partecipare.
E a quali udienze potrà partecipare un premier già tanto soffocato da un "lavura' de la madona", oggi nella troika europea e tra settanta e passa giorni addirittura, e per sei mesi, presidente di turno dell'Unione europea? La maggioranza degli addetti crede che difficilmente Berlusconi lo si rivedrà tra queste mure inospitali e abbozza uno scenario alquanto ragionevole. Questo. Anche se dovesse davvero ripresentarsi il 2 maggio, per lunghi mesi, diciamo per i sei mesi della presidenza europea, Berlusconi chiederà che gli sia concesso il "legittimo impedimento".
Come non concederglielo? Per comprendere che cosa accadrà al processo, bisogna allora far di conto. I fatti dell'affare Sme risalgono al 1986. L'ultimo presunto pagamento corruttivo ai giudici è del 1991. Da questa data si deve contare la prescrizione del reato che, per la corruzione in atti giudiziari, è di quindici anni. 1991 più 15 uguale 2006.
Entro il 2006, il processo non arriverà mai alla sua conclusione definitiva (primo e secondo grado più Cassazione) se si considera che, bloccato per sei mesi, il primo giudizio arriverà nel 2004. Ma c'è di più. In caso di concessione delle "attenuanti generiche", i tempi della prescrizione diminuiscono di un terzo, di cinque anni. Come non concederle a un incensurato, e per di più capo di governo, come Berlusconi?
E allora l'efficacissimo trucco da fiera andato in scena ieri sotto il naso di tutti - la fine della contumacia di Berlusconi - libera l'eccellentissimo imputato dalla rogna milanese. Per sempre. Per lui, il processo è morto, è una cosa morta. Se la procura vorrà salvare il dibattimento contro gli altri imputati non potrà che chiedere lo stralcio della posizione dell' "imputato Berlusconi Silvio". La fuga dal giudizio del premier sarà allora coronata da un successo costruito con una mossa a sorpresa in un venerdì santo con un'Italia distratta dal lungo ponte pasquale.
(19 aprile 2003)
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Signor Presidente del Consiglio,
ho visto "Porta a Porta" di giovedì scorso e ho ascoltato le sue dichiarazioni sui magistrati che si sono occupati dell’indagine Telekom Serbia, in particolare quando ha detto che essi avrebbero chiesto l’archiviazione nei confronti degli indagati perché "magistrati combattenti ... collaterali alla sinistra"; e quando ha detto: "Lo credo bene che Rutelli e Fassino dicono di aver fiducia nei magistrati, sono dei loro".
Mi sono molto arrabbiato, essendo io il Procuratore Aggiunto che, insieme con i Sostituti Roberto Furlan e Paolo Storari, ha condotto quell’indagine; e ho deciso di querelarla. Non esiste infatti per un magistrato un’accusa peggiore di quella che lei ci ha mosso, quella di non essere imparziale; e non esiste quindi un insulto peggiore.
Poi, quando ho cominciato a scrivere, mi sono reso conto che stavo per fare uno sbaglio. Io non voglio querelarla: non ho interesse a che lei sia punito per gli insulti che ha rivolto a me e ai miei colleghi; e non ho interesse a ricevere una somma di danaro a risarcimento del danno morale che ci ha cagionato: per lei sarebbe comunque poca cosa; e io non ho mai attribuito importanza al danaro, ne ho quanto mi basta.
Io voglio che lei capisca la gravità di quello che ha detto; che si renda conto di aver accusato ingiustamente persone che hanno lavorato con rigore morale e serietà professionale. Io voglio, signor Presidente, che lei accetti il fondamentale principio che ho in me da quando ho l’età della ragione e che uno dei miei maestri dell’Università ha così bene espresso: se al mondo ci fossero solo due uomini e questi uomini fossero San Francesco e Santa Chiara, il diritto starebbe tra loro ad indicare quello che è giusto. Io voglio che lei capisca che quando un giudice assolve o condanna fa proprio questo, indica quello che è giusto.
I miei colleghi ed io abbiamo governato il diritto; forse non lo abbiamo fatto con sapienza, con competenza e sensibilità adeguate. Ma, signor Presidente, lo abbiamo fatto con imparzialità e senso della giustizia. E lei ha fatto male quando ci ha accusato di essere amici degli indagati, o di persone che a questi erano vicine, o di parti politiche cui gli uni e gli altri sarebbero appartenuti; e quindi di aver preso una decisione contraria al diritto.
Lei, signor Presidente, non aveva nessuna ragione per dire quello che ha detto: non conosce né me né i miei colleghi e non può sapere se noi si sia "amici" di questo o di quest’altro; e nemmeno può sapere se noi siamo giudici disposti a tradire la nostra funzione per favorire eventuali "amici". Non sa nulla di Telekom Serbia, non avendo letto un solo foglio dei 35 o 40 "faldoni" che abbiamo riempito nel corso dell’indagine; e, se per avventura qualcosa avesse saputo, avrebbe avuto il dovere, come cittadino e più ancora come Presidente del Consiglio, di portarlo a nostra conoscenza e di aiutarci a prendere la decisione più giusta.
Ma, soprattutto, lei non doveva dire al nostro Paese, senza motivo e senza prove, che ci sono giudici disposti a favorire gli amici. In questo modo lei ha imbarbarito la coscienza civile dei cittadini, li ha indotti a cercarsi protettori potenti in modo da avere la garanzia di essere "favoriti" se mai ce ne sarà bisogno, ha sostituto la fiducia nello Stato con l’asservimento a questa o quella parte politica.
I miei colleghi ed io, signor Presidente, vogliamo che lei riconosca di aver sbagliato; vogliamo che si informi sulla nostra storia professionale, sul nostro impegno e sul nostro onore. E vogliamo sentirci dire che è vero, non siamo "amici" di nessuno e che, comunque, siamo uomini e giudici per cui eventuali affinità di cultura, di passione politica o di impegno sociale mai possono prevalere, come mai hanno prevalso, sul nostro dovere di imparzialità e indipendenza.
Ci chieda scusa, signor Presidente. Riconoscerà l’onore a giudici onesti e imparziali; e renderà fiducia al Paese.
Con osservanza.
Bruno Tinti
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Il nuovo direttore del Tg1, Clemente Mimun, dichiara in un' intervista ( del 21 maggio) che il suo «editore di riferimento» è soltanto il telespettatore e che, essendo la Rai un «servizio pubblico», lui non si sa «immaginare un prodotto che non punti a fare il pieno di ascolti». Colgo l'occasione per dissentire. Ho molto rispetto per Mimun. Le critiche gli sono dovute ex officio, perché è lui che guida l'ammiraglia della tv di Stato. Editore di riferimento è dizione zuccherata e cincischiata. Messa in chiaro vuol dire chi comanda. E la risposta può essere altrettanto chiara: in passato comandava la Dc, poi ha comandato la sinistra e ora comanda Berlusconi. Certo non comanda il pubblico dei 25 milioni di telespettatori del quale Mimun si fa scudo. Magari fosse così. Ma così non è. In un'economia di mercato il consumatore è sovrano perché può scegliere tra prodotti differenziati (dall' utilitaria alla Ferrari) che paga. Nel cosiddetto mercato televisivo io non posso rifiutare di pagare e non posso passare a prodotti di qualità superiore perché nessuno me li offre. A me tocca ascoltare quel che mi passano conventi che sono tutti eguali nel ridurre l' informazione seria a quasi nulla. Sono un sovrano? No, il vero sovrano, qui, è la pubblicità calcolata sui dati di ascolto dell' Auditel. Per i signori di Saxa Rubra il compito del servizio pubblico è di fare un pieno di pubblico, di fare «il pieno di ascolti». Ma se così fosse, qual è la differenza tra servizio pubblico e televisione commerciale? Se così fosse, il servizio pubblico è da chiudere e basta. Perché dobbiamo pagare un canone per ottenere un prodotto commerciale che possiamo ottenere gratis? Il nodo della questione è, allora, che un servizio pubblico è tale perché è tenuto a servire interessi generali, interessi collettivi. Restando al caso dei telegiornali, il loro compito pubblico è, prima di tutto e soprattutto, d' informare sulla cosa pubblica, e in questo senso di formare cittadini in grado di g estire la loro democrazia. Si avverta: informare non è dare notizie di 20-30 secondi che di per sé non significano nulla. Informare è spiegare, è far capire, è far discutere gli eventi non da politici che si urlano addosso, ma da esperti. Questo corretto modo d' informare io negli Stati Uniti lo vedo e seguo tutte le sere. Il modello esiste. Volendo, è facile da replicare. È che non lo si vuole. All' Italia occorre un Biagi ingrandito e moltiplicato per dieci (non può fare tutto lui da solo). In vece il nostro cosiddetto editore di riferimento si propone di silenziare persino Biagi, vuole un oscuramento totale, sovrastato dalla voce del padrone. I poveri 25 milioni di telespettatori del Tg1 non si rendono conto, ovviamente, di quanto non vie ne loro mai detto. Sono imbottiti di cronaca nera, di cronaca rosa, di storie strappalacrime. E i pochissimi minuti di notizie rilevanti sono confezionati in modo da evitare grane. Manca l' acqua in Sicilia? Perché? Silenzio di tomba. Spiegarlo irriterebbe i politici siciliani svelando orripilanti retroscena di mafia (dell'acqua). C' è o non c' è un buco nel bilancio? Esistono economisti in grado d' illuminarci. Ma Tremonti non gradirebbe una verità diversa dalla sua. Meglio abbozzare. E cosa sta succedendo delle fondazioni bancarie? E' un'ennesima, scandalosa pappata dei nostri politici, oppure no? Questi, e moltissimi altri, non sono temi da talk show alla Vespa o alla Santoro (che fanno spettacolo ma che non chiariscono un bel nulla). Sono temi che almeno un telegiornale non commerciale dovrebbe sottoporre a un dibattito di esperti in un'ora di massimo ascolto. La Rai di canali ne ha tre. Ma per un servizio pubblico che si occupa della cosa pubblica non ha posto. Anche se ne avesse sei, li lottizzerebbe. Che vergogna.
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MILANO - Severo, preciso, silenzioso. Quarantanove anni di cui gli ultimi diciotto passati in magistratura, Paolo Carfì è una delle toghe più riservate del tribunale di Milano. Nessuno ricorda una sua intervista, nessuno ricorda un suo commento, una qualunque frase che sfuggisse dalla dialettica processuale. A parte una sua passione per Giacomo Leopardi, e in particolare per "A Silvia", non ci sono dettagli sulla sua vita privata.
Carfì non ha mai vestito i panni della pubblica accusa. Sin dal suo ingresso in magistratura, nel 1985, è sempre stato alla "giudicante". Davanti alla sua sezione, la quarta, negli anni si sono presentati imputati di ogni genere, pedofili, spacciatori, ladri e truffatori. Tutti si sono scontrati contro quel muro di silenzio e rigore. Una rigidità che divenne celebre una prima volta già ai tempi dei processi di Tangentopoli quando si rifiutò di interrogare Craxi ad Hammamet perché i difensori non avevano presentato alcun certificato che ne provasse l’effettiva intrasportabilità. Carfì andò contro anche al pool di Mani Pulite: nel 1996 negò il patteggiamento a Dell’Utri per i fondi neri Publitalia. «La pena di 14 mesi patteggiata con il pm - scrisse - appare a dir poco inadeguata per difetto».
Nel 1993 il "Carfì style" entrò nelle leggende del palazzo di giustizia: denunciò una sua segretaria che, dopo aver dichiarato di non poter fare più straordinari, se ne andò a casa costringendolo a sospendere l´udienza alle due del pomeriggio.
(ma. me.)
A Silvia
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Se qualcuno avesse dubbi sulla natura della signoria berlusconiana, la svolta del Corriere li dissiperebbe. Sua Maestà B. esige dalla stampa un lessico a tre vocali: e, o, u; eufemismo, ossequio, unzione. Ricapitoliamo in questa chiave gli ultimi 10 anni. Primo tempo: l' uomo d' Arcore salta fuori dalla scatola, allestisce il Barnum forzaitaliota, raccoglie i moderati orfani, imbarca post-neofascisti e Lega, vince, forma un governo, cade dopo sei mesi, tradito da quel Giuda d' un Bossi (parole sue). Quante cose tacciono i pulpiti: che fosse cresciuto come un parassita della consorteria; saltando sul carro politico, vi porti istinti da predatore, tale essendo l' unica logica in cui pensa; intenda lo Stato come roba sua; devasti i cervelli disseminando narcosi, volgarità, fobie, stereotipi ebeti; conduca una compagnia prossima alla gang più che al cenobio; editore dominante, promuova l' analfabetismo; sia monco dell' organo morale; venda fumo; punti al profitto, lasciando alle prede sì e no l' aria che respirano. No, lo dicono campione d' una destra liberal-liberista. Secondo atto: sconfitto, sebbene abbia raccolto qualche voto più degli avversari, meglio schierati, trova Nostro Signore nell' orto: accordandosi col leader del partito ex comunista, salva l' impero mediatico, consolida i conflitti d' interesse, finge intese su riforme delle quali nessuno sentiva il bisogno; raccolto ogni possibile lucro, le rinnega, scatenando furiose campagne contro i partiti al governo; li chiama usurpatori; grida al colpo di Stato; denuncia un regime antidemocratico. Viva la dialettica bipolare, cantano ugole neutrali. Terzo tempo: s' è reinsediato e stavolta chiude ogni spiraglio; converte le Camere in succursali Mediaset; siccome l' unico punto debole sono i processi su episodi dell' irresistibile ascesa tra gli Ottanta e Novanta, scatena un Poltergeist avvocatesco-mediatico-legislativo. Gesta inaudite ma agli oracoli non fanno caldo né freddo: è nelle regole del gioco spartire le spoglie; ventilano una legittima difesa dall' accanimento persecutorio; esortano gli sconfitti a stare quieti 5 anni. Nessuno nota cose ovvie: le norme penali valgono rispetto a tutti, abbiano o no networks televisivi; mai saputo che le vittorie elettorali lavino i delitti; risultando infondata l' accusa, i giudici assolvono; la condanna è appellabile e sopra le corti d' appello siede una Cassazione. Nel caso suo i rischi d' errore sono infinitesimi: recluta quanti avvocati vuole; ha quotidiani, settimanali, tre reti televisive, più tre pubbliche; irradia l' influsso intimidatorio radicato nel triplo potere, economico, mediatico, politico. Macché, parlano d' altro: che iattura se fosse condannato; l' aborto del sistema bipolare causerebbe una funesta instabilità; suvvia, liquidiamo i processi; interessi supremi giustificano deroghe al metro legale, e simili massime poco tollerabili da chi non abbia lo stomaco fortissimo. Quarto atto: l' autocrate abusa dei poteri; calpesta forme elementari del galateo politico; aveva un ministro serio agli esteri e se ne disfa subito; allunga le mani sulla Rai, dissestandola a beneficio delle sue reti; presenta alle Camere un ddl fraudolento sul conflitto d' interessi; siccome le Sezioni unite negano il trasloco a Brescia dei suoi processi, comanda articoli del codice su misura (déja vu sulle rogatorie); i senatori glieli votano in torride sedute notturne; da Montecitorio escono imbellettati. Cosa dicono i santoni alla finestra? Non battono ciglio o addirittura spendono parole dure a proposito d' un tentato ribaltone giudiziario. I meno sordi al lato morale deplorano aspetti canaglieschi del fenomeno forzaitaliota, come se lui non c' entrasse, e lo invocano affinché castighi i manigoldi. Chiedono poco, quasi niente, un minimo rispetto delle forme: i numeri sono suoi; li giochi senza soperchierie troppo visibili. Quinto tempo: s' è riscritto le norme scomode, partendo dal falso in bilancio che gli conveniva ridurre a bagatella; del conflitto d' interessi nessuno fiata più; vuol insediarsi al Quirinale, purché sia una repubblica presidenziale dove lui guidi l' esecutivo e diriga la politica estera, altrimenti rimane capo del governo, futuro premier o cancelliere eletto dal popolo con poteri rinforzati (sciogliere le Camere). Ma qualcosa stride: i maledetti processi pendono ancora; le Sezioni unite negano la rimessione anche sul nuovo testo, perché esiste una logica del diritto insensibile alle fatture parlamentari; l' indomani mattina mugola a reti unite un proclama da monarca assoluto. Dopo 23 mesi, la seconda avventura governativa volge al disastro: nel famoso contratto aveva garantito mirabilia; il mago della finanza virtuale annunciava un' impetuosa crescita del pil, 3.1%, e siamo allo 0.3; casse vuote; è nata col forcipe una pitocca legge finanziaria; vola il debito pubblico; sale l' inflazione; rischiamo il posto nell' Ue. Infine, dopo pietose furberie arranca nel brago mesopotamico con un occhio all' opinione pacifista, quasi guerriero malgré lui: lo seguono 64 italiani su 100, racconta mercoledì 19 marzo, vantando il "capolavoro diplomatico"; l' indomani espone al consesso europeo una maschera cupa. Incantava i topi, come il pifferaio d' Hamelin, e non vi riesce più. Ha l' acqua politica alla gola, mentre gli affari vanno a gonfie vele: accumula soldi senza muovere dito; non c' è giro dove non guadagni; Publitalia divora la Rai nella raccolta pubblicitaria. Nel sesto atto vuole più che mai istituire un sistema legale variabile secondo le persone; che i tempi stringano, lo dicono gli affari Imi-Sir e lodo Mondadori (due sentenze comprate, secondo l' accusa): l' on. avvocato d' affari P., suo mandatario, incassa la condanna a 11 anni come agente delle baratterie. Nell' allegra compagnia ci sarebbe anche lui se l' art. 321 c.p., versione 26 aprile 1990, corrispondesse all' art. 319-ter, che commina 8 anni quando il corrotto sia un giudice: rimedia alla svista una l. 7 febbraio 1991, ma i fatti erano anteriori; il corruttore quindi "gode" d' una pena minore, 5 anni, sicché, con l' elemosina delle attenuanti generiche, il reato risulta prescritto (Corte d' appello, 25 giugno 2001). Dal 30 aprile erutta fuoco: «criminalità giudiziaria»; toghe rosse; c' è «un cancro» nella giustizia italiana ma lui, gran chirurgo, lo estirperà, dichiara al Figaro; e da Arcore, luogo santo, chiama alla crociata "i guerrieri della libertà" su scenari soap opera, tali essendo i suoi gusti. I soliti "terzi" chiedono una sospensione dei processi, o meglio immunità, votata subito: la motivavano col sistema bipolare; il semestre europeo fornisce un secondo motivo, impellente. Sentiamo due oracoli spesso interloquenti, frigido e bollente. Non consumi ribalderie superflue, bisbiglia uno: niente impedisce riforme organiche; leghi pubblico ministero e tribunali al potere esecutivo. L' altro obietta su P., «uomo chiacchierato». Chi vuol «cambiare le cose» plani sopra ogni sospetto. Aurea massima non applicabile alla fattispecie: se il predetto era suo agente, simul stabunt, simul cadent; 9 anni fa l' impresentabile capo del governo lo voleva guardasigilli. Tolto l' hard core, resta poco del fenomeno forzaitaliota. Contava sull' en plein nelle amministrative e incappa in una domenica nera, allora frusta i vogatori. Votino subito quel lodo d' immunità processuale. Seguiranno aperture, perché non essendo più tempi da partito unico, ha bisogno d' oppositori morbidi: quando presieda una repubblica Mediaset, starà bene chiunque se lo sia meritato, ad esempio sedendo al tavolo delle riforme: parlamentari immuni, pubblico ministero comandato dal governo, via libera alla criminalità dei colletti bianchi, riguardi verso la mafia rispettabile; non ha pulsioni peroniste, garantiscono i dottori Dulcamara. Che B. sia un virus, non è slogan apocalittico: l' aveva detto Indro Montanelli, diagnosta attendibile; sapendo vita e miracoli del suo editore, prevedeva calamità se fosse sceso in politica. Chi lo tiene più? Da San Pietroburgo assale i pubblici ministeri milanesi persecutori del fido P. (31 maggio); al consesso degli Otto detta una formula memorabile: aumento terapeutico del debito pubblico, purché la gente lavori, risparmi, non scioperi (Evian, 2 giugno). Altro che secondo Rinascimento, l' Italia non aveva mai volato così alto.
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LA DISPERAZIONE che stringe alla gola Silvio Berlusconi lo ha portato ieri, poco dopo la condanna di Cesare Previti ad 11 anni per corruzione di magistrati, a compiere un atto apertamente eversivo. Una dichiarazione politica che accusa i magistrati di golpismo, denuncia una trama che vuole rovesciare il governo per via giudiziaria e proclama una ribellione contro la sentenza di Milano: schierando così il Primo Ministro italiano dalla parte dei corruttori condannati e contro i Tribunali della Repubblica, avvertendoli: adesso ripristinerò il sistema di immunità e risolverò la politicizzazione della magistratura.
Tutto questo è accaduto mentre i giornali e le agenzie straniere diffondevano nel mondo la notizia che "uno stretto amico e alleato del primo ministro italiano Silvio Berlusconi è stato condannato per corruzione di magistrati in due battaglie di corporate takeover". Nel Paese rovesciato in cui viviamo, il Capo del governo non sta dalla parte della giustizia, amministrata dai Tribunali per conto dello Stato e nel nome del popolo italiano, ma sta a fianco dei condannati che hanno violato la legge con un reato gravissimo, deformando insieme, con la loro condotta, la giurisdizione dello Stato e la democrazia economica. Che sia l'impudenza del potere, a dettare questi comportamenti, o la disperazione della politica, poco importa ai cittadini. È un gesto gravissimo, prima di tutto perché travolge la separazione e l'equilibrio tra i poteri dello Stato, con il giudiziario pesantemente e apertamente minacciato dall'esecutivo subito dopo una sentenza, attraverso la ritorsione immediata ed esplicita del presidente del Consiglio.
E infatti ieri si sono mossi tutti i membri togati del Csm, per difendere i giudici di Milano dagli attacchi del premier, mentre il vicepresidente Rognoni - immaginiamo dopo una consultazione con Ciampi, che non potrà non intervenire personalmente - ha denunciato la delegittimazione dell'attività giudiziaria, attraverso una contrapposizione "patologica" tra i poteri.
Ma c'è a nostro parere un limite in più, anche nel mondo senza limiti del berlusconismo, che è stato violato in queste ore, e riguarda l'autonomia dello Stato, la separazione tra la cosa pubblica e i destini individuali dei governanti pro tempore.
In un gesto inconsulto e tuttavia per lui inevitabile e naturale, il Capo del governo ha trascinato il nostro Stato dalla parte dei malfattori, in un sentimento istintivo di arditismo verbale e di sacrilegio democratico che rovescia i parametri e le norme su cui si regge la convivenza civile in uno Stato moderno. È qualcosa di eversivo, una sorta di congiura dei dannati che affonda la sua forza nel peggio, esaltando il disordine, la devianza e la licenza come elementi creatori di un nuovo ordine, contro ogni maestà delle istituzioni, ogni autorità dei valori, ogni rispetto delle regole. Un impasto di istinto cieco di sopravvivenza, quasi rivoluzionario, e di una cultura politica terribile che ricorda quell'"empia audacia" di cui parlava negli Anni '30 Roger Caillois e che speravamo di non dover vedere mai all'opera in Italia: "Chi vuole comandare gli uomini deve aver sconfitto gli dei, e non con la preghiera ma con la forza".
Perché "nulla rende sacro come un grande sacrilegio, come la violazione solenne degli interdetti che sospende il castigo" e pone il sacrilego "al di sopra dei comuni mortali, votandolo ad una fatalità regale".
La destra che governa l'Italia è dunque fatta con l'impasto della peggior destra, e oggi ne sta dando prova. Berlusconi tenta addirittura una rilettura tecnicamente rivoluzionaria degli ultimi dieci anni italiani, immaginando una congiura giustizialista nata nell'aprile del 1993, e collegando se stesso a Bettino Craxi come vittime di un golpismo organizzato dai "comunisti" diessini, dal "partito giustizialista" e naturalmente da , la sua ossessione. Eugenio Scalfari e i suoi articoli del '93 sono usati come i pifferai magici di un'operazione antidemocratica che secondo Berlusconi dura tuttora e punta a scalzare il suo governo. L'attacco a Repubblica e al suo fondatore non stupisce. Nell'afasia italiana, e di fronte all'egemonia culturale del Caf allora, del Polo oggi, questo giornale rappresenta semplicemente un'idea diversa dell'Italia, un'idea non riducibile al berlusconismo, una difesa dello Stato di diritto e delle istituzioni democratiche. Per questo Berlusconi lo mette al centro di un disegno costruito dalla sua disperazione, che assegna al Cavaliere il ruolo rivoluzionario di unica forza sana, sempre vincente, sempre con il favore del popolo (e per questo si tace accuratamente la sconfitta del '96 da parte di Romano Prodi), costretto a combattere ieri come oggi contro i golpisti che vogliono fermarlo. Uno schema che sarebbe ridicolo, e folle, se non fosse l'incubazione di un progetto di ribellione organizzata davanti al corso istituzionale degli eventi. La formula è inedita e terribile: la definirei una specie di "ribellione della maggioranza", impaurita e spaventosa insieme, pronta a tutto pur di mantenere il potere.
Vorrei dire che non è un caso se questo accade sul terreno della giustizia, che è il cerchio magico del mistero berlusconiano, e attorno alla figura prima onnipotente e ormai politicamente maledetta di Cesare Previti, che è lo stregone custode di quel mistero. Uno stregone che ha celebrato in pubblico per anni il rito di un potere basato sulla licenza e sugli eccessi e che oggi vede il fuoco del suo sortilegio ormai spento, ma con fumi e ceneri di cui lui e il Cavaliere conoscono bene significati occulti e potenza palese.
Il caso del "lodo" è esemplare, quanto a sortilegi, perché parla da solo: con una provvigione di denaro occulto che parte dai conti esteri intestati alla Fininvest, Previti organizzò un sistema di corruzione che portò nel '91 la Corte d'Appello di Roma ad annullare un lodo arbitrale in base al quale il controllo della Mondadori era stato assegnato alla Cir di Carlo De Benedetti. Quella sentenza è stata pilotata, quel pronunciamento è stato comprato, quella battaglia imprenditoriale è stata vinta illegalmente, con la frode e attraverso la corruzione.
Silvio Berlusconi, padrone della Fininvest, era imputato insieme con le persone ieri condannate, ed è uscito dalla vicenda giudiziaria grazie alla prescrizione. Dunque penalmente è al riparo. Ma la provvista di soldi per la corruzione dei magistrati, in modo da piegare la sentenza a favore della Fininvest, secondo il Tribunale di Milano viene dalla All Iberian, il cui beneficiario era proprio il Gruppo Fininvest. E il risultato della sentenza pilotata e comprata, cioè la sua ricaduta imprenditoriale, economica, editoriale, di potere, è andato a indubbio ed esclusivo vantaggio di Silvio Berlusconi. Queste due circostanze accertate da un Tribunale della Repubblica avrebbero dovuto consigliare da sole, per decenza e per prudenza, all'imprenditore Berlusconi di tacere. Quanto al presidente del Consiglio Berlusconi, lui no, lui doveva parlare, ma per dire il contrario di quanto ha detto. Per testimoniare il suo imbarazzo agli italiani, per spiegare magari balbettando, ma con parole finalmente sincere, ciò che può spiegare di una storia scandalosa, per chiedere scusa, per prendere le distanze da Previti se può farlo, per assicurare infine che scendendo in politica ha abbandonato per sempre quei metodi: e dunque si augura nell'interesse della giustizia e per sua personale trasparenza, che la giustizia vada avanti celermente in appello, e componga una triste vicenda.
Tutto ciò Berlusconi non lo farà mai, e c'è una ragione. Perché questa sentenza, dimostrando e condannando la forma fraudolenta con cui fu ottenuta la proprietà di una grande azienda, colpisce al cuore l'identità imprenditoriale di Berlusconi, quella sovrastruttura pre-politica attraverso la quale il Cavaliere è potuto scendere in campo e conquistare una parte rilevante del suo consenso: presentandosi cioè come l'imprenditore puro, capace di rimettere in piedi l'Italia e i suoi conti dopo aver creato e conquistato aziende, spazzato via i concorrenti, dominato il campo con la sua purissima energia industriale. Solo che quell'identità imprenditoriale risulta oggi bacata, minata alla base. E dunque, il presidente-imprenditore deve fare i conti con quel sistema di corruzione a cui la Fininvest ha concorso e da cui ha tratto beneficio, e che lui non poteva naturalmente non conoscere, come dimostra anche lo strettissimo legame, l'amicizia personale che lo lega a Cesare Previti.
E da qui, nasce un'altra domanda. Conoscendo quel che conosceva, sapendo ciò che era successo e che il Tribunale adesso ha sanzionato, come ha potuto Silvio Berlusconi, l'uomo che è sceso in campo perché "ama il suo Paese", pensare nel '94 di proporre proprio Previti come ministro Guardasigilli, cioè alla testa della giustizia italiana?
Sono queste le domande a cui Berlusconi non potrà mai rispondere: né sulle piazze, né sui giornali, neppure a "Porta a Porta". Piuttosto, parla di persecuzione, di giudici politicizzati. Ma questo processo riguarda reati tutti commessi ben prima che il Cavaliere scendesse in campo, dunque la politica non c'entra. Quanto alla persecuzione, il lodo Mondadori è del '91, la sentenza che riconosce la corruzione arriva oggi, dodici anni dopo, al termine di 6 anni di inchiesta e ben 3 di pubblico processo, durante il quale la difesa ha potuto giocare tutte le carte giudiziarie e anche molte extragiudiziarie. Per la prima volta nella storia della Repubblica sono state costruite norme ad personam, provvedimenti ad hoc, si è cioè deformata la giurisdizione, sono stati manomessi alcuni istituti, si è intervenuti su trattati internazionali per costruire appositamente e fisicamente una qualsivoglia forma di salvacondotto. Questo processo è diventato qualcosa di improprio, con il governo, la maggioranza parlamentare, il presidente del Consiglio che alzavano quotidianamente la loro ombra dietro la figura dell'imputato Previti, pronti a trasformare in legge nelle Camere le tesi che i difensori avanzavano in aula, appena il Tribunale le respingeva.
Il sistema di garanzie è stato dunque dispiegato pienamente, e certo in misura enormemente superiore a quanto avviene per un normale cittadino. Ad un certo punto, abbiamo vissuto il paradosso drammatico in cui lo Stato era schierato e in forma gladiatoria con un imputato, nell'aula in cui un Tribunale doveva amministrare la giustizia per conto dello Stato. Non sono mancate le intimidazioni, le accuse gravissime ai magistrati. Che però hanno portato il loro compito fissato dalla legge fino alla fine.
Questo è ciò che conta, in uno Stato di diritto. Voglio dirlo con chiarezza ai lettori. Nel caso del "lodo", com'è noto, il gruppo editoriale Espresso-Repubblica subì un danno rilevantissimo, perché fu spogliato fraudolentemente del possesso della Mondadori. Ma nel giudizio che oggi diamo della vicenda, più della soddisfazione per il ristabilimento della verità dei fatti conta la conferma venuta da Milano che in Italia la legge è ancora uguale per tutti. Non perché c'è stata una condanna: ma perché c'è stata una sentenza, che Previti e Berlusconi hanno fatto di tutto per evitare e scongiurare, costruendo una sorta di immunità politica con le loro mani, che avrebbe colpito a morte lo Stato di diritto.
Ora, regolato il caso giudiziario, resta aperto il caso morale e politico. Non ci interessa nessuna speculazione, basta la verità: e avanza. La lezione è chiara. Saperla leggere tocca a Berlusconi, è affar suo, e la ferocia della reazione di ieri dimostra che ha capito per chi suona la campana. Qualcuno dovrà fermarlo, consigliandogli di interrompere questo duello eterno col paese che dovrebbe invece governare. È facile prevedere, al contrario, che il Cavaliere finirà prigioniero dell'incendio istituzionale che ha appiccato. E purtroppo, trascinerà lo Stato dentro quel cerchio previtiano di fuoco che lo circonda in eterno.
Caro direttore,
la parola d'ordine nelle stanze alte del è sopire, troncare, minimizzare, allontanare il fuoco dalla paglia, fare in fretta, soprattutto, a collocare il nuovo direttore sulla poltrona con l'Enciclopedia Treccani di spalle. Io mi sono dimesso stamattina perché non credo per nulla nella versione ufficiale delle dimissioni di Ferruccio De Bortoli - i motivi personali - e non credo neppure nelle assicurazioni date sulla continuità del giornale, più o meno provvisoria. Una conquista, persino, il meno peggio che potesse accadere, secondo alcuni protagonisti di questa vicenda che è un po' il simbolo della vecchia politica delle stanze chiuse, dei patti riservati, degli occhieggiamenti, dei favori, delle poco sublimi mediazioni, delle trattative sottobanco, dell'eterna ambiguità.
Mi dimetto per protesta. Contro l'arroganza del governo e dei suoi ministri, contro una Proprietà subalterna, contro le interferenze, difficili da negare, piovute dall'alto ai danni di un possibile libero giornalismo. In un momento grave per la Repubblica in cui non è certo il caso di fare gli struzzi.
Ho consegnato la mia lettera di dimissioni alla Rita, una delle intelligenti segretarie di direzione e nel giornale deserto della prima mattina sono andato su e giù per i corridori dei vari piani. Ho dato un'occhiata alle vuote stanze della direzione, poi alla celebrata sala Albertini, coi tavoli simili a quelli del Times, con le lampade di ottone che hanno sostituito le lampade verdi. Chissà che cosa è successo qui dentro nel Novecento, conflitti, bassezze, viltà, crimini e misfatti. Ma anche il coraggio di tanti e la passione.
Che cosa significa, mi sono detto, il concetto di continuità predicato ora in un giornale come questo che ha segnato la vita nazionale? Da Bava Beccaris e dalla parte dei suoi cannoni al fascismo dopo le non sempre focose resistenze di Albertini fino a quel famoso direttore del dopoguerra esaltato dai manuali, Missiroli, che era solito dire, negli anni 50: " Ci vorrebbe un giornale. Oh, se avessi un giornale!". La continuità arriva fino alla P2 - Di Bella, Rizzoli, Tassan Din o per continuità - speriamo - si vuole intendere soltanto la parte civile della storia, Mario Borsa, Ottone, Cavallari, Stille, Mieli? E Ferruccio de Bortoli. Che ha diretto con dignità un giornale moderato dove a occupare la prima pagina sono stati soprattutto Panebianco, Galli Della Loggia, Merlo, Ostellino e qualcun altro, guardie bianche da cui Berlusconi non ha avuto certo da temere, soltanto benevolenza e consigli filiali.
Io sono stato accolto da Ugo Stille nel 1987. Lo ricordo con affetto. Aveva lo sguardo di un uomo che molto sa e molto ha vista, sa del presente e intuisce del futuro, come l'ignoto marinaio del romanzo di Vincenzo Consolo. Con lui ho scritto molto, di cultura, di politica. Era curioso, gentilmente beffardo. Solo una volta parlò del suo grande amico Giaime Pintor. Nel 1999, poi, de Bortoli mi ha affidato una rubrica di politica e società, " Storie italiane", e in quattro anni non mi ha mai chiesto di togliere una riga o una sola parola garantendo con correttezza esemplare una rubrica dissonante dal resto del giornale. Sono grato anche a lui.
" Come mai - dicono adesso gli ingenui cittadini di Milano che si incontrano per la strada e ti fanno domande allarmate - Ferruccio de Bortoli era inviso al governo o ad alcuni governanti e il suo successore non lo è?". " Come mai - dicono altri - si sostiene che non è successo niente?". Berlusconi vuole tutto. Non gli bastano le sue tre reti televisive, la Rai, i giornali parentali e quelli amici, le radio e le case editrici, come non succede in nessun paese del mondo.
Il , nonostante non fosse nemico, era ed è un inciampo da togliere di mezzo. Perché adesso? Le elezioni non sono state un successo. L'economia ristagna. Non pochi elettori forzisti fanno i conti della spesa, il vecchio carisma del capo è entrato in crisi, il loro cuore è tremulo e intristito.
Il semestre europeo può essere un ostacolo micidiale, non un'occasione dorata. E il Corriere conta, resta una spina, ha mantenuto intatto il suo prestigio. Può influenzare milioni di persone. Che cosa dà fastidio al Cavaliere? La quantità di informazioni che de Bortoli ha sempre cercato di dare non gli giova. Alcuni collaboratori di certo non gli piacciono, Giannelli e le sue vignette, qualcun altro, il professor Sartori, liberale autentico, che ha battuto per anni sull'incudine del conflitto di interessi e non si è stancato mai perché questo è l'insoluto problema generatore di tanti disastri reali e d'immagine per l'Italia in tutto il mondo.
Il 15 maggio, Giovani Sartori ha avuto l'impudenza che non è stata perdonata né a lui né a De Bortoli di scrivere: " Lei ha dichiarato, signor Presidente del Consiglio, che “non sarà consentito a chi è stato comunista di andare al potere”. Queste cose le diceva Mussolini. Lei non ha nessun motivo di aver paura. Io sì".
Figuriamoci il Cavaliere che con i suoi fedeli vassalli non ha mai dimenticato il no alla guerra di de Bortoli. Le pressioni governative sono state assillanti, padronali, offensive. A proposito dell'economia e di inchieste su questioni finanziarie. A proposito della giustizia, tema ossessivo. Il direttore de Bortoli l'ha affrontato nell'unico modo possibile per un giornalismo civile pubblicando gli articoli dei bravi, generosi e minacciati cronisti giudiziari che non ritengono il presidente del Consiglio e l'onorevole Previti al riparo dalle notizie documentate. Questi eminenti imputati dei processi di Milano che debbono rispondere di un reato comune così grave come la corruzione di magistrati e che stanno per ottenere l'impunità dalla maggioranza parlamentare con una legge ad personam che certo viola la Costituzione, vogliono essere liberati anche da ogni controllo dell'informazione. Sorretti dai loro avvocati-parlamentari che fanno il diavolo a quattro in difesa dei loro clienti. Le ricusazioni toccano anche alla stampa libera.
Gli azionisti, poi. Quella del è una proprietà frantumata, un pentolone che contiene tutti i possibili beni e servizi, le auto, i cavi, le telecomunicazioni, i frigoriferi, la finanza, Mediobanca, le assicurazioni. Appassionati sostenitori del libero mercato gli azionisti si sono rivelati fedifraghi, bisognosi come sono delle stampelle e dei favori del governo che certo non dà senza nulla ricevere in cambio. Anche loro hanno protestato infuriati ed esterrefatti - un reato di lesa maestà - quando l'informazione economica del giornale ha rivelato, per alcuni, oscure verità su traffici e affari. Il capitalismo democratico è di là da venire. Anche coloro che deprecano a parole i comportamenti di una società che opera solo in nome degli interessi e lamentano la mancanza di idee e l'assenza di ideali, in quest'occasione non hanno rotto un fronte comune che non li rappresenta. Il grido della foresta è stato più forte.
Mentre nella mia passeggiata d'addio dentro il giornale deserto passavo davanti alle stanze dell'Economia, al secondo piano, nel vecchio fabbricone di vetro, mi venivano in mente " gli interessi inconfessabili" denunziati da un grande maestro non certo marxista-leninista, Luigi Einaudi quando, forse proprio sul , si riferiva ai traffici dei cotonieri, dei siderurgici, degli armatori, degli agrari che si servivano dei giornali di cui erano proprietari non certo per difendere idee, ma per calcoli mercantili e usavano i loro poteri e i loro denari per promuovere disegni di legge adatti agli interessi di casa.
Quel che è accaduto al Corriere è grave. È sbagliato usare anche qui i criteri perdenti della tattica anziché cercare di aprire un po' la mente e capire quali possono essere le conseguenze rovinose di un del tutto addomesticato ai voleri di Berlusconi. E questo vale per la sinistra. Il cambio di un direttore di giornale avvenuto chiaramente per impulso governativo non è, come ha detto qualcuno dall'anima questurina, simile a un banale cambio di prefetti. Soprattutto in via Solferino, dove la forza della tradizione conta, nonostante la retorica, dove, malgrado tutto, anche se con fatica, il giornale ce l'ha quasi sempre fatta a uscire dalle tempeste. (La P2 non era un club di gentiluomini: basta ricordare che Giuliano Turone e Gherardo Colombo, allora giudici istruttori, arrivarono alle liste di Gelli indagando sulla mafia, sul finto rapimento di Sindona in Sicilia, sull'assassinio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli).
Sono uscito dal palazzo pieno solo di ombre e di fantasmi scendendo per le antiche scale. Sulle pareti sono appese le fotografie dei redattori e dei collaboratori illustri. Mi guardano, li guardo. Soltanto alcuni, faziosamente. Memoria e monito. Giovanni Amendola, Benedetto Croce, Giovanni Verga, G.A. Borgese, Federico De Roberto, Eugenio Montale, Italo Calvino. E Ferruccio Parri, con i suoi occhiali sulla fronte.
Corrado Stajano
Giorgio Bocca, Il tirannello di Vittorio Alfieri
Il postino bussa sempre due volte e così la legge Frattini sulla rimozione dei dirigenti pubblici. Il primo e più grave colpo è stato inferto ai direttori generali, in scadenza il 7 ottobre, e il nostro giornale ne ha ampiamente parlato (Repubblica del 5 u.s. e seguenti). Il secondo è sospeso come una mannaia sulla testa dei 4500 dirigenti di seconda fascia che, entro il 6 novembre, conosceranno la loro sorte, in gran parte nelle mani dei nuovi direttori generali, subentrati agli epurati. Mentre, però, per i 420 direttori generali, la decadenza è stata automatica, nel senso che tutti - graditi e sgraditi - hanno visto il loro contratto annullato e, nei casi più fortunati, rinnovato nello stesso ruolo, per i dirigenti di seconda fascia la rimozione scatta solo per chi avrà esplicitamente ricevuto l’invito ad andarsene. Una disposizione transitoria dà, a questo scopo, al ministro libera facoltà "ruotare" in un’altra posizione il dirigente sgradito.
È evidente che si è messo in moto un meccanismo di asservimento politico dell’Amministrazione pubblica che non ha precedenti, non solo nella storia del nostro paese e nella prassi degli altri stati europei, ma neppure nello spoils system americano dove investe solo i vertici dell’Amministrazione, collegati per funzione alla gestione della politica governativa (modello sulla cui falsariga il centro sinistra aveva introdotto, con la legge Bassanini, la possibilità per il governo di avvicendare una quarantina di altissimi burocrati). Ma ora questo spiraglio è stato talmente allargato che c’è solo da domandarsi se dopo aver filtrato al vaglio della fedeltà politica, ma non della competenza, i 5000 delle prime due fasce, si passerà ai gradini successivi, per arrivare fino agli uscieri. Forse, però, si reputerà bastevole aver "marchiato" i capi di ogni ordine e grado col bollo di garanzia di Forza Italia, An e Lega, per indurre tutto l’universo sottostante ad allinearsi ai desideri della maggioranza di governo.
Comunque, tornando alle sorti specifiche dei dirigenti della seconda fascia tacitamente confermati sulla base del silenzio-assenso, si deve aggiungere che neppure loro potranno ritenersi al sicuro. Tutti dovranno, infatti, accettare un nuovo contratto, peggiore in termini di garanzia e di durata di quello che avevano firmato in base alla legge di riforma del centrosinistra. Questo prevedeva, infatti, una durata minima di 2 anni e massima di 7, mentre ora la durata minima è abolita e potranno venire imposti contratti di pochi mesi, eventualmente rinnovabili, così da ridurre in condizione precaria e timorosa il dirigente. Inoltre la durata del contratto non è più stabilita in base a una contrattazione tra le parti ma con un atto amministrativo unilaterale che, in quanto tale, può essere modificato in qualsiasi momento dal ministro. Anche l’oggetto dell’incarico è fissato dal ministro e soggiace a identica alea. Infine salta tutta la procedura garantistica che era stata introdotta, sia nei contratti individuali che nella parte coperta dal contratto collettivo, per misurare i risultati e stabilire l’eventuale rinnovo. Quella che conterà d’ora in avanti sarà soprattutto la valutazione politica del vertice ministeriale. Per di più, sperando di sfuggire ad ogni contenzioso, nei nuovi contratti verranno definite solo le competenze economiche accessorie, affidando tutto il resto alla normativa amministrativa di spettanza governativa. Viene così minata alla base l’idea ispiratrice della riforma Bassanini, tendente a dislocare il rapporto di lavoro pubblico nell’ambito del diritto privato e non più di quello amministrativo, per realizzare per questa via una modernizzazione di stampo anglo sassone. «Forse - come riconosce oggi lo stesso Franco Bassanini - il tentativo dell’Ulivo di modernizzare l’Amministrazione, ancorandola a criteri di efficienza, professionalità e competenza, era troppo in anticipo sui tempi». Si potrebbe aggiungere, che invece di introdurre contratti a tempo determinato, sarebbe bastato probabilmente trovare una formula per facilitare il licenziamento, nel quadro di contratti a tempo indeterminato (come esistono anche per molti dirigenti dell’industria privata), per non schiudere quel varco attraverso cui, travolgendo ogni paletto, sta passando la carica travolgente della Destra al potere.
Ma, stando almeno alle scarse reazioni del centro sinistra, vien da pensare che i suoi capi si emozionino solo delle epurazioni mass-mediatiche e che l’oscuramento tv di Santoro e Biagi preoccupi assai più dei 5000 dirigenti pubblici finiti sotto scacco.
MILANO
Gerardo D’Ambrosio è in pensione da qualche mese, dopo quarantasei anni di magistratura. Procuratore a Milano, ha vissuto per intero la vicenda giudiziaria di Tangentopoli, dall’arresto di Mario Chiesa in poi, e ha subito le conseguenze di molte polemiche e di infiniti attacchi. Poco più di un anno fa, a proposito di una delle tante manovre per bloccare i processi milanesi, commentò con parole durissime: «È la notte della democrazia». Adesso uno di quei processi è arrivato a sentenza.
Signor procuratore, la notte può apparire meno scura?
«È estremamente importante che nel contesto difficile che tutti conosciamo si sia riusciti comunque ad arrivare alla decisione di primo grado. Questo dimostra in modo del tutto evidente che la nostra democrazia, se pure giovane, funziona, che la nostra democrazia è forte. Sotto il profilo della giustizia è positivo, profondamente positivo, aver raggiunto questo risultato, nonostante tutte le tecniche dilatorie che sono state poste in essere contro la sentenza. Tecniche dilatorie che sono state da tutti riconosciute come esasperate, tanto esasperate che persino gli avvocati penalisti hanno in modo aperto criticato una politica giudiziaria, in questa legislatura, così influenzata da questa vicenda. Si sono allungati i tempi del processo in modo anomalo. Si sono contate in tre anni otto ricusazioni. A questo punto davvero la notte può apparire meno oscura. Quei tentativi di dilazione erano compiuti in attesa di una soluzione che intervenisse prima della sentenza e che venisse data dal Parlamento. Il Parlamento invece non ha voluto dare un colpo di spugna e quindi, sotto questo profilo, anche nella maggioranza non si è voluto dare un colpo di spugna, a proposito peraltro di episodi anteriori all’assunzione di incarichi parlamentari. Abbiamo assistito a una mobilitazione che ha contribuito a dissuadere il Parlamento e una parte della maggioranza a ricorrere a ulteriori espedienti, come quelli rappresentati da alcuni disegni di legge sulla sospensione dei processi a carico di parlamentari. E mi riferisco in particolare al progetto di legge 3393, firmato dall’onorevole Nitto Palma, che è stato presentato, ma non è stato approvato. Il che significa che per il Parlamento vale ancora il principio della nostra Costituzione secondo il quale la legge è uguale per tutti, anche se vi è un articolo, il 68, che comunque introduce dei temperamenti, perché è noto che per la cattura, per le perquisizioni, per le intercettazioni telefoniche e per l’acquisizione di tabulati occorre comunque che vi sia una autorizzazione parlamentare.
Si può dire che in qualche misura questa sentenza potrebbe aiutare a voltare pagina...
«Bisogna anche dire che questo disegno di legge di cui si temeva l’approvazione e con cui si sarebbe tentato di differire questa pronuncia, sarebbe stato assai pericoloso in un sistema maggioritario, perché si prevedeva in questo modo la sospensione del processo alla fino alla conclusione del mandato sulla richiesta del parlamentare senza alcun motivazione sul fumus persecutionis. Sarebbe diventato una forma di immunità per la maggioranza, senza alcun tutela per la minoranza. Nel contesto generale, nonostante le traversie, questo fa sperare in un diverso orientamento futuro della politica giudiziaria e soprattutto che si vada nella direzione di rendere più rapidi i processi per giungere a sentenza in tempi ragionevoli, così come indica la Costituzione».
Un fatto positivo, ovviamente, a prescindere dagli undici anni di condanna...
«Teniamo conto che si tratta sempre di una sentenza di primo grado...».
Una sentenza che ha peraltro assolto l’imputato Verde...
«E che dimostra dunque che la giustizia è sempre molto attenta, prima di condannare. A volte le tesi dell’accusa vengono accolte, a volte no. Questa è la logica del processo. Non è detto che tutto debba finire in condanna. Evidentemente in questo caso la tesi dell’accusa non è stata ritenuta fondata. Mi pare che anche questo rientri nella assoluta normalità. Bisogna dire che tante questioni sollevate rientrano nei meccanismi interni al processo, anche le questioni di competenza. Il processo è fatto di tre gradi, si vedrà».
Come giudica l’ultima, oserei dire estrema iniziativa del ministro Castelli, che ha chiesto proprio l’altro ieri documentazione al Tribunale di Milano per verificare la fondatezza dell’esposto annunciato da Previti contro i pm Boccassini e Colombo? Qualcuno, Carlo Fucci, presidente dell’associazione nazionale magistrati, ha accusato il ministro di interferenza...
«Questo rientra nei poteri del ministro Castelli. Non è la prima volta che la Procura di Milano viene sottoposta a queste indagini, che si sono poi rivelate infondate. Non giudico questa iniziativa una interferenza, dal momento che si è deciso che l’azione disciplinare dipenda dal ministro, che è nella possibilità dunque del ministro di aprire una inchiesta, è un suo diritto verificare come sono andati i fatti e poi archiviare... Insomma non mi fa meraviglia. Il ministro, lo sappiamo, molte volte ha preso iniziative analoghe nei nostri confronti. Il problema è non intaccare la credibilità delle istituzioni che da questo punto di vista dipendono una dall’altra. Se perde credibilità una, non è che le altre rimangano indenni».
Roma, 10 giugno 2003
ILL.MO PRESIDENTE della
REPUBBLICA ITALIANA
CARLO AZEGLIO CIAMPI
Illustre Presidente,
la salvaguardia dell’ambiente e la tutela della sua integrità rappresentano un valore fondamentale e primario per tutta la comunità nazionale.
Ed è un valore che non può non trascendere l’alternanza delle diverse coalizioni e delle diverse formazioni politiche nella responsabilità del Governo del Paese.
Del resto in questo campo così delicato le direttive comunitarie costituiscono un riferimento invalicabile e sicuro.
Nel nostro Paese, invece, con la delega sulla normativa ambientale richiesta dal Governo, il bene ambiente è sottoposto ad un grave e preoccupante indebolimento.
Suscitano forte inquietudine l’ampiezza che non ha precedenti della delega e le modalità previste per il suo esercizio, con la completa espropriazione del ruolo del Parlamento e della sua funzione legislativa.
Infatti spetterà ad una Commissione di esperti, scelti dal Ministro per l’Ambiente ed alle sue dipendenze, l’intera elaborazione di decreti attuativi della delega, con il conseguente esautoramento delle Assemblee legislative.
In questo contesto già così difficile, con specifica circolare del Capo di Gabinetto del Ministro dell’Ambiente, tutto il personale del Ministero, dell’Agenzia per la protezione ambientale, dell’ICRAM e di tutti gli organismi collegati è stato invitato a non svolgere alcuna attività sugli argomenti – pressoché tutti - oggetto della delega legislativa.
Si realizzerebbe, così, una singolare e per tanti versi incredibile “sospensione” della vigente normativa in campo ambientale, con accentramento inammissibile di ogni questione in capo all’ufficio del Ministro.
Questa vicenda non ha ovviamente alcun riscontro negli altri Stati dell’Unione Europea.
La incertezza legislativa, che così si determina sul versante ambientale, è ancora più grave in vista del semestre europeo affidato alla presidenza italiana, che vedrà il nostro Paese in una condizione assolutamente anomala e gravida di pericolose incognite rispetto ad un valore così rilevante, come la tutela dell’ambiente.
Riteniamo pertanto, nella veste di componenti della Commissione Ambiente della Camera dei Deputati, di affidare alla sua autorevole attenzione la delicatezza estrema di questa situazione che riveste il bene ambientale, ormai caratterizzato e vitale per tutta la nostra democrazia.
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DS
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On. Bandoli
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On. Vigni
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On. Abbondanzieri
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On. Sandri
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On. Chianale
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On. Vianello
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On. Mariani
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On. Dameri
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DS
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On. Piglionica
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On. Zunino
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Margherita
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On. Realacci
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Margherita
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On. Iannuzzi
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Margherita
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On. Merlo
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Margherita
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On. Reduzzi
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Margherita
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On. Villari
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Margherita
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On. Fusillo
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PCDI
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On. Nesi
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Verdi
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On. Lion
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Rif. Com.
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On. Vendola
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SDI
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On. Pappaterra
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CANTIERI costituzionali sono aperti o in via di apertura in diversi luoghi d’Europa. A Bruxelles, a partire dall’autunno, comincerà la fase decisiva per il futuro costituzionale dell’Unione europea, affidato al lavoro della Convenzione. In Francia, anche come contraccolpo delle tormentate vicende che hanno accompagnato l’elezione di Chirac, si parla della necessità di mettere le mani sulla Costituzione della V Repubblica. E proposte analoghe vengono avanzate in Germania, guardando alle prospettive che si apriranno dopo le prossime elezioni politiche.
Il cantiere italiano è aperto da quasi vent’anni, da quel 1983 che vide l’invenzione delle commissioni bicamerali, con effetti soltanto negativi e nessun beneficio, come tardive autocritiche di questi giorni cominciano a riconoscere. Oggi il dibattito riprende intorno al presidenzialismo, ma sullo sfondo già s’intravede una novità, legata all’emergere di proposte di revisione anche della prima parte della Costituzione.
Si tratta di una novità perché, soprattutto nell’ultima fase, il compito affidato alle commissioni bicamerali era stato esclusivamente quello di modificare il testo costituzionale nella sua seconda parte, quella relativa all’organizzazione dello Stato, escludendo interventi sulle norme riguardanti i diritti e i doveri dei cittadini. Questa distinzione poteva ben essere considerata artificiosa, perché molti dei diritti e delle libertà considerati nella prima parte della Costituzione trovano poi la loro effettiva garanzia nel fatto che eventuali loro limitazioni possono avvenire solo ad opera della magistratura, di cui si parla nella seconda parte.
In Italia forzature in concreto sarebbero possibili Ma in tal caso ci troveremmo di fronte a un vero cambiamento di regime e a un’autentica rottura
In Francia nessuno pensa di mettere mano alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 E le antiche norme del "Bill of rights" negli Usa restano un punto fermo
Sicché ogni intervento limitativo della indipendenza della magistratura porta con sé un indebolimento anche del quadro dei diritti, anche se questo rimane formalmente immutato. E tuttavia escludere la revisione della prima parte ha sempre avuto un forte valore politico e simbolico, poiché in questo modo si ribadiva la fedeltà ai valori e ai principi fondativi della Repubblica.
Questa impostazione è superata? Non direi, e l’ultima conferma è venuta dal recentissimo messaggio del presidente della Repubblica, che ha voluto sottolineare la "continuità di ideali e di valori dal Risorgimento alla Resistenza, alla Costituzione repubblicana". Ideali e valori che trovano la loro concreta manifestazione proprio in quella prima parte della Costituzione che Massimo Severo Giannini, critico della seconda, definì "splendida".
L’inammissibilità di interventi volti a modificare quel nucleo di valori fondamentali è stata esplicitamente affermata dalla Corte costituzionale. In una famosa sentenza del 1988, relatore Antonio Baldassarre, si è detto che "la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali", perché "appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana".
Vi è, dunque, un limite insuperabile da chiunque intenda aggiornare e modificare la Costituzione. Questo non vuol dire, ovviamente, che forzature non siano in concreto possibili, e che una maggioranza non possa decidere di cambiare anche le norme in cui si esprime quell’insieme di valori. Il realismo politico impone di prendere in considerazione anche questa eventualità. Solo che, qualora un fatto del genere si verificasse, saremmo di fronte ad una vera e propria rottura costituzionale, ad un cambiamento di regime. Questo non vuol dire, peraltro, che non sia ammissibile alcuna modifica di specifiche norme contenute nella prima parte della Costituzione. Solo che questa revisione, per essere in linea con le indicazioni della Corte costituzionale, deve rappresentare uno svolgimento della logica dei principi esistenti, non una loro contraddizione.
La storia costituzionale mostra quanto sia importante tener fermo un nucleo essenziale di libertà e di diritti al quale, nel tempo, i cittadini si abituano a far riferimento. In Francia la Costituzione continua ad aprirsi con un esplicito richiamo alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Negli Stati Uniti nessuno pensa di proporre modifiche della costituzione, e delle più antiche norme del Bill of Rights, per il solo fatto che hanno più di duecento anni. Né in Germania si parla di cancellare, ad esempio, l’art. 15 della costituzione, dove pure si afferma che "la proprietà terriera, le ricchezze naturali ed i mezzi di produzione possono essere trasferiti, ai fini della socializzazione, alla collettività, o essere sottoposti ad altre forme di economia collettiva mediante una legge che determini il modo e la misura dell’indennizzo". Si riconosce, in definitiva, che le costituzioni hanno una loro intima sostanza che le proietta al di là delle contingenze e delle maggioranze che diedero loro origine.
L’essenziale funzione di garanzia e di costruzione di un "patriottismo costituzionale" si perde se la costituzione viene considerata come una legge tra le altre, sempre bisogna di aggiustamenti secondo il mutare delle stagioni politiche. L’uso congiunturale delle istituzioni ha sempre prodotto guasti non facilmente rimediabili.
Ma, si dice, la Costituzione repubblicana è figlia d’un mondo politico scomparso, non riflette adeguatamente una realtà sociale ed economica profondamente mutata, tanto che in essa non v’è alcun riferimento all’impresa. In questi argomenti si manifesta una cultura istituzionale che non coglie le specificità del nucleo di principi dei testi costituzionali, di cui deve essere assicurata la "lunga durata" proprio per permettere loro di adempiere alla funzione di garantire stabilità all’ordinamento e di non esporre i diritti e le libertà alla mutevole volontà delle maggioranze. Questo non contraddice l’esigenza di adattamento alla realtà in continua trasformazione. Ma le corti americane hanno affrontato e risolto questioni nate da Internet continuando a fare riferimento ad una norma del Bill of Rights approvata addirittura nel 1789, mostrando così quanto possa un uso intelligente dell’interpretazione evolutiva. E, interpretando l’art. 41 della Costituzione italiana dove si afferma che "l’iniziativa economica privata è libera", si è sempre ritenuto che questo ampio concetto comprendesse, ovviamente, anche l’impresa. O le proposte di modificare l’art. 41 mirano piuttosto ad eliminare quella sua parte dove si dice che l’iniziativa economica privata "non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana"?
Ho fatto riferimento a questo articolo anche perché esso, lungi dal riflettere un mondo passato, manifesta uno dei tratti di lungimiranza della nostra Costituzione, con il suo riferimento alla "dignità umana". Un riferimento che si ritrova in altre norme, come quella che assicura al lavoratore una retribuzione "in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa"; e soprattutto nell’art. 3, che si apre con le parole "tutti i cittadini hanno pari dignità sociale". Oggi il riferimento all’inviolabilità della dignità umana apre la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che così conferma come quel valore debba essere considerato parte del nucleo immodificabile della nostra Costituzione.
Più che discutere della revisione della prima parte della Costituzione, oggi è importante svilupparne i valori profondi per rafforzare le premesse, le precondizioni del processo democratico. Lo ha fatto in modo eloquente il messaggio del presidente della Repubblica, che si apre con una affermazione impegnativa e solenne, quasi un monito non solo a Governo e Parlamento, ma a tutti i cittadini: "la garanzia del pluralismo e dell’imparzialità dell’informazione costituisce strumento essenziale per la realizzazione di una democrazia compiuta". L’accesso al sistema dell’informazione, tra l’altro, è una condizione necessaria perché la partecipazione politica avvenga in condizioni di eguaglianza e non dipenda dai mezzi finanziari dei quali si può disporre.
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MILANO - Dottor Gerardo D’Ambrosio, lei è stato il capo dell’ufficio dell’accusa per tutto il tempo delle indagini, dell’udienza preliminare e per buona parte del dibattimento. Sette condanne e un’assoluzione, come commenta?
«Mi sembra una sentenza che dimostra la grande serietà e serenità del Tribunale che è stato attaccato pesantemente ma che ha saputo mantenere la sua indipendenza. Anche dalle tesi della procura. Un solo proscioglimento conferma l’impianto dell’accusa ma dimostra anche che non c’è stato nessun appiattimento. Una cosa, però, mi sembra ancora più importante».
Che cosa?
«Il fatto che si sia arrivati alla sentenza significa che la nostra giovane democrazia è forte, ha retto al tentativo che è stato fatto di fermare la giustizia e di sottrarre degli imputati eccellenti al suo corso. È la prova che il principio che la legge è uguale per tutti è una realtà. Sono state sconfitte le manovre di chi voleva l’impunità».
Più che un processo, questo dibattimento è stato un percorso di guerra.
«Diciamo che c’è stato un atteggiamento di insofferenza verso l’amministrazione della giustizia. Si è cominciato con le opposizioni in Svizzera alla trasmissione degli atti rogatoriali e si è arrivati a sollevare un conflitto di attribuzioni davanti alla Corte Costituzionale, fino a presentare otto istanze di ricusazione e due istanze di rimessione. Certo non si è andati incontro al principio della ragionevole durata del processo.....».
Ci sono state anche interferenze legislative.
«Direi che è stato un processo molto singolare. Ha provocato addirittura un trattato internazionale tra Italia e Svizzera; l’articolo 111 della Costituzione e poi, quando il governo di centrodestra è salito al potere, tutta la politica giudiziaria è stata influenzata da questo processo. Bisognava trovare a tutti i costi una soluzione a quello che ho sempre definito il secondo conflitto di interessi del presidente del consiglio. Tra gli imputati c’è un suo ex ministro, Cesare Previti, che era il suo avvocato quando Silvio Berlusconi faceva solo l’imprenditore».
Quali leggi sono state viziate da questo conflitto?
«Quella sulle rogatorie, quella sul falso in bilancio, la legge Cirami. E che queste leggi tendessero a sottrarre gli imputati a questo processo non lo dico io, né l’opposizione, ma autorevoli esponenti di Forza Italia. E siccome quelle leggi non sono bastate è arrivato il maxi-emendamento, con il progetto di modificare l’ordinamento giudiziario; e poi i 45 giorni di sospensione per decidere se accedere al patteggiamento allargato».
Lei ha passato 45 anni in magistratura. Era mai successo?
«No. Non c’è nella storia giudiziaria italiana un precedente di questo tipo. Nel '39, in pieno fascismo, c’era stata una circolare del ministro Grandi che invitava a non usare l’istituto della legittima suspicione per sospetto per «non ingenerare deplorevoli dubbi sull’imparzialità della magistratura» e «autorizzare il sospetto che si potesse alterare il corso della giustizia»».
Che costi ha avuto tutto questo?
«Il costo per la credibilità delle istituzioni è stato elevatissimo. Delegittimare il pm significava attaccare una parte, ma quando si sono attaccati anche i giudici è stato gravissimo. Per scongiurare i temuti effetti di una singola sentenza si è seminato il dubbio sull’imparzialità del giudice e, a cascata, sull’intero sistema: dai giudici d’appello fino a quelli delle sezioni unite della Cassazione».
L’onorevole Previti sostiene che si è solo difeso da un complotto e giudica questa sentenza una persecuzione.
«Previti ne ha dette di tutti i colori, la sua reazione è coerente con il comportamento che ha tenuto finora. Ma ha già risposto la Cassazione a sezioni unite e otto volte i giudici, sempre diversi, della Corte d’appello. Se avesse ragione lui, vorrebbe dire che la persecuzione è di tutta la magistratura».
Crede che dopo questa sentenza sia finita la guerra tra politica e magistratura?
«Secondo me sì. Seguirà una coda, una legge per concedere la sospensione dei processi in corso nei confronti delle più alte cariche istituzionali; così il presidente Berlusconi (imputato in un processo simile, quello per il caso Sme, ndr.) sarà sollevato dai suoi impegni giudiziari. E dopo, finalmente, si comincerà a occuparsi di giustizia. Lo sciopero annunciato dagli avvocati mi sembra un segnale molto forte, anche loro sono molto scontenti di quanto si è fatto finora. Spero davvero che adesso si volti pagina».
Martedì 17 B. degna il Tribunale d’un secondo show nel dibattimento Sme. Ventiquattr’ore dopo dall’alambicco della Camera bassa nascerà la legge che sospende i suoi processi. Parliamone. L’ordinamento è una piramide: tante norme situate a vari livelli, insegna Hans Kelsen, maestro della sintassi giuridica novecentesca; quelle al vertice fungono da tavola genetica, stabilendo come nascano le altre e a quali parametri ubbidiscano. Nell’art. 3 Cost., ad esempio, «tutti i cittadini (...) sono eguali davanti alla legge», indipendentemente dal rispettivo stato «personale e sociale»: tutti, nessuno escluso, dal povero diavolo al signore dell’etere, spaventosamente ricco, nella cui corte brulicano famigli, clienti, manovali, anche acquisisse alte dignità; eguale a tutti, subisce processi penali quando un pubblico ministero gl’imputi dei reati. Supponiamo che assemblee servizievoli, forti dei numeri, gli conferiscano uno status diseguale, d’immunità dalle macchine processuali: norma invalida, se la votano nei modi soliti; l’organo chiamato ad applicarla investe della questione la Corte competente e l’esito appare sicuro.
Non erano ipotesi scolastiche. Palazzo Madama fornisce esempi monstre, 5 giugno, emendando un ddl che attua scandalosamente l’art. 68 Cost.: del quale precedente testo bisognerà dire tutto il male che merita; l’idea risale alla Bicamerale d’infausta memoria; affiorano omertà trasversali. Gl’inquilini della Cdl v’innestano un art. 1: i cinque presidenti (della Repubblica, Senato, Camera, consiglio dei ministri, Corte costituzionale) godono d’un limbo finché durino i rispettivi uffici, anche sui fatti anteriori; sospesi i procedimenti «in ogni fase, stato o grado». Sono angeli? No, animali umani e «cittadini» eguali «davanti alla legge». Questo privilegio li discrimina invalidamente. L’art. 3 Cost. è derogabile solo attraverso norme pari rango: l’articolo votato da forzaitalioti e soci è legge comune; dunque, nasce morto. Non perdiamovi tempo, tanto salta agli occhi l’offesa al principio d’eguaglianza. Notiamo solo come la esasperino due aspetti. Primo, non esistono termini finali. Quattro dei predetti uffici sono indefinitamente reiterabili: in vent’anni, 1878-98, Domenico Farini risulta eletto presidente 4 volte dalla Camera bassa e 8 nel Senato; dal 1870 al 1898 Giuseppe Biancheri dura 14 anni sullo scranno più alto a Montecitorio, eletto 15 volte (erano congiunture mobili); Agostino Depretis presiede 8 gabinetti; Giolitti 5; Benito Mussolini governa 20 anni, 8 mesi, 25 giorni. Ora, processi sospesi sine die significano impunità se l’imputato fosse colpevole. Le norme incriminanti sono parole inerti fuori dal processo, l’ostacolo al quale diventa immunità penale
Altrettanto allarmante il secondo aspetto: gli augusti patres, blu, bianchi, ex-neri, scrivono: «Non possono essere sottoposti a processi penali» e nel lessico tecnico il nome indica la sequela d’atti aperta dall’imputazione; le indagini stanno fuori, ma l’interessato a schivarle sosterrà che la formula abbia senso lato. C’è una parola galeotta nel comma 2: quando parlano dell’intero processo, tecnicamente inteso, i compilatori dicono «in ogni stato e grado»; stavolta il binomio diventa trinomio, «ogni fase, stato o grado». Cosa succede quando bisogni acquisire prove non rinviabili? Ad esempio: la testimonianza del morente; l’atto ricognitorio che perderebbe gran parte del valore se fosse differito, essendo labili le impressioni mnemoniche; perizie la cui materia deperisca presto. In casi simili gli operatori usano l’incidente probatorio: atti istruttori anticipati, destinati a valere come fossero compiuti nel dibattimento; ma gl’incidenti probatori sono atti processuali, vietati nel comma 2. Altrove il caso è previsto: la sospensione non impedisce il compimento degli atti urgenti (artt. 47, c. 2; 70, c. 3; 71, c. 4; 344, c. 3). Gli artisti del tempo perso sfoderano un bolso latino: «ubi lex voluit, dixit»; e sapendo come, dove, a qual fine nascano certe meraviglie legislative, quel silenzio assume significati sinistri. A parte l’eguaglianza postulata nell’art. 3 Cost., esiste l’art. 112: «il pubblico ministero ha l’obbligo d’esercitare l’azione penale», regola necessaria al sistema, perché se la scelta d’agire o no fosse libera, i reati diventerebbero materia disponibile, con una virtuale impunità delle persone gradite ai dominanti; quel che invocano filosofi, cappellani, araldi berlusconiani, seguiti dagli opinanti pseudoliberali. L’art. 112 è una delle loro bestie nere.
Notiamo infine quanto poco generale e astratta sia la previsione. L’art. 1 contempla alti uffici: il presidente del Consiglio viene quarto ma l’utente del trucco è B.; se le cause milanesi fossero finite a Brescia, nessuno chiamerebbe alla ribalta i 5 presidenti. Come avviene da due anni, le Camere lavorano pro domino, tagliando leggi sulle sue abnormi misure. Dei santoni prestano viso e ugola alla farsa. Nasce morto il cosiddetto lodo e tale rimarrà a Montecitorio, mercoledì 18. I piccoli Tartufi acclamanti lo sanno: è tutto calcolato; lavora anche nelle Camere l’équipe cavillante alla quale il Boss, ciarliero, quindi spesso incauto, paga parcelle astronomiche mai sognate nell’avvocatura (lo racconta lui; ai bei tempi avvocati insigni, ancora attivi sui 90 anni, morivano quasi poveri: sia permesso nominarne due, Arturo Carlo Jemolo e Alfredo De Marsico). Passeranno mesi prima che la Consulta dichiari invalido l’art. 1: nel frattempo rivive l’immunità parlamentare, esumata dopo 10 anni con lievi varianti; e gloriosamente le due Camere ridiventano luogo d’asilo, dove i re del malaffare abbastanza abili da scegliersi la compagnia giusta, ne filano quanto vogliano, intoccabili. L’ostetrico del parto macabro assale un ex-Capo dello Stato e la ciurma blu ringhia a comando. Nelle stesse ore l’Immune proclama da Brescia che «rivisiterà» codici e ordinamento giudiziario. Traduco, caso mai qualcuno non capisse: vuole pubblici ministeri governativi agli ordini del castigamatti padano, giudici malleabili, procedure à la carte, sicché le condanne colpiscano solo i malvisti da chi comanda. Alla sera tiene filastrocche televisive un capovoga An, il cui partito 10 anni fa mandava alla lanterna i politicanti dalle mani sporche: i tribunali non interferiscano obliquamente nella cosa politica giudicando B., accusato d’essersi comprato delle sentenze; esiste un voto del popolo sovrano, ecc. Il meglio viene l’indomani, venerdì 6, quando Sua Maestà B., maglione da yachtman al collo, svela la seconda mossa: incidere organicamente nel sistema, varando l’immunità parlamentare su modello europeo; verrà utile agli oppositori, sogghigna, perché «modello europeo» significa apparati giudiziari comandati dal ministro. Sabato 7 celebra l’idea della pena inesorabilmente applicata a chiunque risulti colpevole. L’11 non l’aspettino nel dibattimento Sme, dove aveva annunciato dichiarazioni da scuotere l’asse terrestre: l’argomento non interessa più; dopo il Milan europeo la questione palestinese è l’ultimo «legittimo impedimento»; ormai ha uno scudo nel lodo. Povera giustizia, illo tempore corrotta sul Tevere, adesso strangolata e schernita tra Naviglio, Olona, Lambro. Più che gaffes da loquela sbracata, sono allusioni, avvertimenti, sberleffi (ha sotto mano gli specialisti, ghost writers e ventrìloqui). Siccome straripa, coatto a ripetersi, bisogna ridirglielo: lazzi simili hanno un nome tedesco, «Galgenhumor», umorismo da forca; già che ci siamo, gli rammento ancora il nome greco della soperchieria intollerabile dall’Olimpo, «pleonexìa». Spesso le metafore mitologiche mascherano fini analisi. Lasciamo stare gli dèi: esiste un sensorio collettivo; sinora l’ha addormentato a metà, ma è sicuro che l’anestetico lavori all’infinito?
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ROMA - Il presidente del consiglio Silvio Berlusconi ha inviato a Giuliano Ferrara, direttore de "Il Foglio", che la pubblicherà domani, una lettera relativa alla sentenza sul caso Imi-Sir/Lodo. Ecco il testo della lettera.
"Caro direttore, scrivo a lei perché il suo giornale è stato l'unico a ricordare i due giorni terribili della democrazia italiana, il 29 e il 30 aprile del 1993. Il 29 aprile di dieci anni fa un uomo di Stato inviso agli ex comunisti del Pds e al loro 'partito giudiziario', Bettino Craxi, fu sottoposto al voto segreto della Camera dei deputati. Bisognava decidere se la richiesta di indagare su di lui e di processarlo, da parte del notorio pool milanese, fosse o no viziata dal sospetto di persecuzione politica. Nella libertà della loro coscienza, dunque a voto segreto, i deputati dissero che quel sospetto c'era e che Craxi andava sottratto a un'azione giudiziaria non onesta né imparziale.
Con procedura straordinaria ed emergenziale, per responsabilità politiche e istituzionali che sono ancor oggi sotto gli occhi di tutti coloro che non dimenticano le offese alle istituzioni democratiche, il voto segreto, da sempre l'ultimo scudo della libertà parlamentare nei voti su casi personali e di coscienza, fu abolito in pochi giorni. E fu incardinata con brutalità decisionale la riforma costituzionale che portò di lì a qualche mese all'abolizione dell'immunità parlamentare varata con la Costituzione repubblicana dai padri fondatori dell'Italia moderna. Il 30 aprile, esattamente dieci anni prima del giorno in cui le scrivo, fu aizzata dalla sinistra forcaiola, sotto la residenza privata di Craxi a Roma, una piazza urlante che, a colpi di insulti e monetine, rinverdì con altri mezzi il cupo ricordo di altri linciaggi.
Eugenio Scalfari, sul giornale dell'ingegner Carlo De Benedetti, scrisse il 30 aprile un articolo ispirato alla più devastante demagogia reazionaria, associandosi alla marmaglia e alle sue grida e lanciando la sua monetina: i parlamentari avrebbero dovuto secondo lui vergognarsi di quel voto libero e segreto, e un'opinione pubblica montata sugli scudi del gruppo editoriale debenedettiano e dei suoi amici avrebbe dovuto rovesciare quel voto per aprire a colpi d'ariete la porta alla reazione giustizialista, per distruggere la sovranità del Parlamento e instaurare la Repubblica delle procure.
Nei mesi successivi questo e non altro accadde in Italia, e solo la reazione democratica messa in campo dalla nascita di Forza Italia impedì provvisoriamente il trionfo della barbarie giustizialista, restituendo nell'anno del nostro primo governo di resistenza liberale la parola al popolo.
Le stesse forze procedettero poi al ribaltone, cacciando dal governo gli eletti del popolo, impedendo con alte complicità istituzionali che si tenessero nuove, libere elezioni, e instaurando per sei anni governi di minoranza, salvati da mille espedienti e inganni, contro i quali esercitammo come fu possibile la più ferma e leale delle opposizioni. E' da notare che il grilletto giudiziario del ribaltone fu un'inchiesta per tangenti dalla quale chi le scrive fu assolto per non aver commesso il fatto anni dopo. Ma fu uno scippo di sovranità senza riparazione, tanto è vero che alla prima occasione una maggioranza vera di italiani onesti ci ridiede, nel maggio del 2001, quel che con questi metodi ci era e gli era stato rubato: una vera democrazia dell'alternanza.
Dieci anni dopo ci riprovano. La sentenza Previti, ancora sub judice per la mancata attesa della pronuncia della Corte di cassazione sulla ricusazione del collegio giudicante, è caduta esattamente nel decimo anniversario della giornata più nera della democrazia italiana. Il suo obiettivo non è fare giustizia, come dimostra tutto l'andamento del dibattimento e la violenza con cui è stata costruita la gogna per un deputato di Forza Italia, ma quella di colpire le forze che hanno avuto il mandato di governare e rinnovare l'Italia secondo principi di democrazia liberale corrosi in quegli anni di faziosità che tanti danni hanno fatto a questo nostro paese. Il nostro dovere è dunque quello di reagire, e di reagire per tempo.
Confermo, caro direttore. In una democrazia liberale i magistrati politicizzati non possono scegliersi, con una logica golpista, il governo che preferiscono. Questo diritto spetta agli elettori. E gli eletti devono essere in grado, secondo la lezione costituzionalistica del '48, di discernere tra le inchieste giudiziarie valide, che riguardano un deputato o un senatore alla stregua di qualsiasi altro cittadino, e quelle frutto di prevenzione, parzialità ideologico-politica e sospette di spirito persecutorio. Questo è il nostro caso, e se il caso è questo suonano ipocriti gli appelli ad abbassare i toni. Bisogna alzare il tono della nostra democrazia, bloccare il nuovo ordito a maglie larghe del giustizialismo e impedire che si consumi per la terza volta un furto di sovranità. Ripristinando subito le immunità violate, battendosi per la libertà e la decenza. Cordialmente. Silvio Berlusconi".
(30 aprile 2003)
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NON C’È da meravigliarsi se il capo dello Stato promulgherà subito in queste ore la legge che garantisce l’immunità al presidente del Consiglio (e ai presidenti di altre quattro alte cariche dello Stato). Tanta rapidità non è scontata. Il presidente, si legge nella Costituzione all’articolo 73, ha un mese di tempo per approvare le nuove leggi ma se Ciampi spendesse le quattro settimane che ha a disposizione la legge sarebbe inutile e l’immunità perduta: il processo di Milano potrebbe essere già alla vigilia della sentenza. Appare addirittura coerente che sia il Quirinale ad apporre l’ultimo necessario sigillo politico alla legge (sono scelta politica i tempi di quest’affare) perché quella legge è il frutto della ricca e sapiente trama istituzionale e giuridica del Quirinale (tanto che si potrebbe addirittura chiamarla "lodo Ciampi").
Importa poco qui sapere se al fondo del paziente lavoro del Colle ci sia un "patto tacito" o la "moral suasion". Quel che conta sono i fatti e i fatti di queste ultime settimane raccontano il protagonismo del presidente della Repubblica che si è declinato in poche mosse. Innanzitutto enfatizzando i sei mesi di presidenza italiana dell’Unione europea. È un appuntamento del tutto ordinario e routinario, come si sa. Lo si è presentato all’opinione pubblica italiana come se fosse la decisiva "sessione di esame" del nostro prestigio internazionale. È sufficiente leggere la stampa internazionale per toccare con mano quanto ogni giorno il prestigio del nostro Paese sia minato dalla servile legislazione ad personam del Parlamento. Non pare che aver soffocato il processo di Milano abbia migliorato la situazione. Semmai l’ha peggiorata, e proprio alla vigilia del "santo" semestre italiano di presidenza Ue.
Quell’enfasi è servita comunque a creare nelle istituzioni un clima da "conto alla rovescia" che sapientemente il capo dello Stato ha speso nei suoi contatti con i presidenti di Camera e Senato, con la maggioranza e l’opposizione, con i vertici della magistratura associata, con gli uffici giudiziari di Milano, con qualche presidente emerito della Corte Costituzionale, con alcuni tra i maggiori costituzionalisti italiani. Bisognava accreditare la legittimità di un provvedimento (si può garantire l’immunità con una legge ordinaria?) che appare storto a occhio nudo. A quanto pare, Ciampi ha voluto escludere dalla discussione, diciamo così, i costituzionalisti del Colle per lasciare campo libero ai penalprocessualisti che lo hanno rassicurato: sì, l’immunità può essere votata con un iter legislativo ordinario e non costituzionale.
Ora qui nasce una domanda. Quei processualisti hanno illustrato al Capo dello Stato il concreto scenario che si comporrà presto a Milano? Si tratta di questo. Non soltanto l’accusa pubblica e privata ma anche gli altri imputati dell’affare Sme solleveranno un’eccezione di costituzionalità alla legge che viola l’articolo 3 della Carta ("Tutti i cittadini... sono eguali davanti alla legge senza distinzione... di condizioni personali o sociali"). Gli avvocati di Cesare Previti e Renato Squillante sono già al lavoro per invocare l’incostituzionalità di una legge che libera l’imputato maggiore (Berlusconi) e lascia all’inferno i comprimari. L’ipotesi non è peregrina e comunque non è "manifestatamente infondata" e sarà difficile per il tribunale di Milano non prenderne atto inviando il quesito alla Consulta. Che il cittadino Previti chieda lo stesso trattamento immunitario di Berlusconi non è con ogni evidenza un paradosso ma qui quel che conta è raccontare ciò che accadrà. Con il quesito costituzionale, il processo è sospeso fino alla decisione della Corte costituzionale che (sono scelta politica i tempi di quest’affare) non affronterà il "caso" prima di febbraio. Già in gennaio, la prima sezione del tribunale penale di Milano perderà un giudice a latere. Si dovrà formare un nuovo collegio. Il processo, a un passo dalla sentenza, tornerà alla casella iniziale. Si comincerà tutto daccapo, e inutilmente visto i tempi della prescrizione. Questo per il futuro, ma anche il passato andrà cancellato e riscritto. In autunno le Camere affronteranno la reintroduzione dell’immunità per tutti i parlamentari e teste d’uovo sono già al lavoro per escogitare il cavillo che può salvare Previti dall’appello dell’Imi-Sir/Lodo Mondadori magari accecando con un rilievo di fumus persecutionis il primo giudizio e la condanna a undici anni.
Questa catastrofe prossima ventura (sentenze cancellate, processi annichiliti, demolizione del principio d’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge) designa come miope il calcolo del Quirinale.
In queste settimane, Ciampi ha rassicurato i suoi interlocutori sostanzialmente con un argomento onnicomprensivo. Il lodo dell’immunità personale di Berlusconi avrebbe evitato il peggio: al Paese, il clima di "guerra civile" che il signore di Arcore scatena quando deve proteggere i suoi interessi; all’opposizione, l’umiliazione di un’altra battaglia perduta; alla magistratura, l’incarognimento d’una riforma dell’ordinamento giudiziario già pessima nelle intenzioni; alla Costituzione, interventi più cruenti di contraffazione. Meglio allora un’immunitas personale se capace di frenare l’aggressività politica del premier. Sarà davvero così? Davvero Berlusconi intascata l’immunità si cheterà? A sentire le dichiarazioni di Salonicco, pare il contrario.
La convinzione del Colle non vede (o sembra non avere la forza di vedere) la natura del nuovo potere e le due alterazioni che lo segnano. Senza alcun contrasto pubblico da parte del Colle, Berlusconi si designa come rappresentante del popolo intero, come se la scelta di una maggioranza politica, d’una rappresentanza democratica diventasse automaticamente scelta d’un capo; come se davvero il popolo potesse essere "collettivo unitario omogeneo", "volontà unitaria", un "interesse collettivo unitario" che quel capo è legittimato a incarnare. È un’alterazione già grave che peggiora la sua pericolosità se incistata nella somma di poteri (politico, economico, mediatico) a disposizione di Berlusconi. Forte della prima convinzione ("Rappresento il popolo"), protetto dal conflitto d’interessi, Berlusconi azzera ogni separazione tra potere privato e potere pubblico, tra società civile e Stato, tra politica ed economia. Azzera, come ha scritto qualche tempo fa Luigi Ferrajoli, una separazione che "fa parte del costituzionalismo profondo così dello stato di diritto come della democrazia rappresentativa".
Questo nuovo, deforme potere si muove nelle istituzioni e attraversa lo Stato con la stessa aggressività, spregiudicatezza e mancanza di senso della misura che un’azienda porta con sé quando agisce sul mercato. È una bulimia in esso non patologica, ma fisiologica. È questa pericolosa idea onnipotente, onnicomprensiva, autoreferenziale che Ciampi sembra non sapere affrontare in pubblico, augurandosi in privato che, una volta soddisfatto un appetito, non ne nascerà un altro ancora più grande. Purtroppo così non sarà. Come per un’azienda alle prese del mercato è naturale essere insofferente alle regole, ai controlli, essere incapace d’autoregolarsi, così il nuovo potere si spingerà ancora oltre fino a quando non incontrerà un vincolo esterno. Con la legge che rende immune Berlusconi s’è persa l’occasione di far valere un limite, lo stesso che vale per tutti i cittadini. Non è un buon auspicio per il futuro dei tre poteri di controllo d’una democrazia moderna: l’opposizione politica, la giustizia, l’informazione.
Libri di storia: li sceglie il Governo. La destra approva, l'opposizione si indigna
di red
«Il ministero dell'Istruzione deve controllare che nelle scuole la storia contemporanea sia insegnata secondo criteri oggettivi rispettosi della verità storica, attraverso l'utilizzo di testi di assoluto rigore scientifico che tengano conto di tutte le correnti culturali e di pensiero». La commissione Cultura della Camera ha approvato mercoledì una risoluzione di Forza Italia, vincolante per il governo, sui libri di testo per l’insegnamento nelle scuole.
La maggioranza ha approvato, sempre in commissione Cultura della Camera, una risoluzione che «impegna il governo ad attivarsi per far sì che nelle scuole di ogni ordine e grado l'insegnamento della storia, in particolare quella contemporanea, si svolga secondo criteri oggettivi, rispettosi della verità storica».
Questo intervento governativo sui libri di testo, specialmente quelli di storia, era un cavallo di battaglia della campagna elettorale berlusconiana (insieme alla fotografia del presidente operaio) e la maggioranza l'ha approvato, ignorando tutte le polemiche e le reazioni che il suo annuncio aveva suscitato tra gli addetti al mestiere. «È una limitazione della libertà d’insegnamento», aveva protestato una parte della categoria docenti, già messi alle strette da una riforma scolastica e universitaria che ridimensiona notevolmente la libertà del professore nella scelta del programma da far svolgere alle sue classi.
Oggi la maggioranza di centrodestra chiede «assoluto rigore scientifico» per questo l’approvazione di tale provvedimento che impegna il governo «ad attivarsi, collaborando con le istituzioni scolastiche e nel rispetto della loro autonomia, per far sì che nelle scuole di ogni ordine e grado l'insegnamento della storia, in particolare di quella contemporanea, si svolga secondo criteri oggettivi rispettosi della verità storica».
Si apre dunque la via per la messa al bando una volta per tutte dei libri di storia di sinistra: «È indubbio che negli ultimi anni nella scuola italiana è prevalsa una visione ideologica che ha sovente alterato fatti storici incontrovertibili per fini di parte», ha detto Fabio Garagnani primo firmatario della risoluzione approvata dalla commissione Cultura.
Dall’opposizione arriva un primo commento, indignato, nei confronti di questo provvedimento. «Se non ci trovassimo dinanzi ad un atto di inaudita gravità che lede i più elementari principi di libertà verrebbe davvero da ridere per la risoluzione approvata dalla maggioranza». È il commento a caldo di Andrea Colasio, capogruppo della Margherita in commissione Cultura. «Secondo questi sedicenti liberali compete al governo stabilire se un manuale di storia sia rispettoso della verità storica –continua- In un sol colpo viene lesa l' autonomia scolastica, la funzione pedagogica dei docenti e delle famiglie, il vero pluralismo culturale e quel che non è meno grave, ci si rende ridicoli agli occhi della comunità scientifica. Neanche il Minculpop aveva osato tanto».
Lo dice Massimo Cacciari, filosofo