loader
menu
© 2025 Eddyburg

Il nuovo direttore del Tg1, Clemente Mimun, dichiara in un' intervista ( del 21 maggio) che il suo «editore di riferimento» è soltanto il telespettatore e che, essendo la Rai un «servizio pubblico», lui non si sa «immaginare un prodotto che non punti a fare il pieno di ascolti». Colgo l'occasione per dissentire. Ho molto rispetto per Mimun. Le critiche gli sono dovute ex officio, perché è lui che guida l'ammiraglia della tv di Stato. Editore di riferimento è dizione zuccherata e cincischiata. Messa in chiaro vuol dire chi comanda. E la risposta può essere altrettanto chiara: in passato comandava la Dc, poi ha comandato la sinistra e ora comanda Berlusconi. Certo non comanda il pubblico dei 25 milioni di telespettatori del quale Mimun si fa scudo. Magari fosse così. Ma così non è. In un'economia di mercato il consumatore è sovrano perché può scegliere tra prodotti differenziati (dall' utilitaria alla Ferrari) che paga. Nel cosiddetto mercato televisivo io non posso rifiutare di pagare e non posso passare a prodotti di qualità superiore perché nessuno me li offre. A me tocca ascoltare quel che mi passano conventi che sono tutti eguali nel ridurre l' informazione seria a quasi nulla. Sono un sovrano? No, il vero sovrano, qui, è la pubblicità calcolata sui dati di ascolto dell' Auditel. Per i signori di Saxa Rubra il compito del servizio pubblico è di fare un pieno di pubblico, di fare «il pieno di ascolti». Ma se così fosse, qual è la differenza tra servizio pubblico e televisione commerciale? Se così fosse, il servizio pubblico è da chiudere e basta. Perché dobbiamo pagare un canone per ottenere un prodotto commerciale che possiamo ottenere gratis? Il nodo della questione è, allora, che un servizio pubblico è tale perché è tenuto a servire interessi generali, interessi collettivi. Restando al caso dei telegiornali, il loro compito pubblico è, prima di tutto e soprattutto, d' informare sulla cosa pubblica, e in questo senso di formare cittadini in grado di g estire la loro democrazia. Si avverta: informare non è dare notizie di 20-30 secondi che di per sé non significano nulla. Informare è spiegare, è far capire, è far discutere gli eventi non da politici che si urlano addosso, ma da esperti. Questo corretto modo d' informare io negli Stati Uniti lo vedo e seguo tutte le sere. Il modello esiste. Volendo, è facile da replicare. È che non lo si vuole. All' Italia occorre un Biagi ingrandito e moltiplicato per dieci (non può fare tutto lui da solo). In vece il nostro cosiddetto editore di riferimento si propone di silenziare persino Biagi, vuole un oscuramento totale, sovrastato dalla voce del padrone. I poveri 25 milioni di telespettatori del Tg1 non si rendono conto, ovviamente, di quanto non vie ne loro mai detto. Sono imbottiti di cronaca nera, di cronaca rosa, di storie strappalacrime. E i pochissimi minuti di notizie rilevanti sono confezionati in modo da evitare grane. Manca l' acqua in Sicilia? Perché? Silenzio di tomba. Spiegarlo irriterebbe i politici siciliani svelando orripilanti retroscena di mafia (dell'acqua). C' è o non c' è un buco nel bilancio? Esistono economisti in grado d' illuminarci. Ma Tremonti non gradirebbe una verità diversa dalla sua. Meglio abbozzare. E cosa sta succedendo delle fondazioni bancarie? E' un'ennesima, scandalosa pappata dei nostri politici, oppure no? Questi, e moltissimi altri, non sono temi da talk show alla Vespa o alla Santoro (che fanno spettacolo ma che non chiariscono un bel nulla). Sono temi che almeno un telegiornale non commerciale dovrebbe sottoporre a un dibattito di esperti in un'ora di massimo ascolto. La Rai di canali ne ha tre. Ma per un servizio pubblico che si occupa della cosa pubblica non ha posto. Anche se ne avesse sei, li lottizzerebbe. Che vergogna.

MILANO - Severo, preciso, silenzioso. Quarantanove anni di cui gli ultimi diciotto passati in magistratura, Paolo Carfì è una delle toghe più riservate del tribunale di Milano. Nessuno ricorda una sua intervista, nessuno ricorda un suo commento, una qualunque frase che sfuggisse dalla dialettica processuale. A parte una sua passione per Giacomo Leopardi, e in particolare per "A Silvia", non ci sono dettagli sulla sua vita privata.

Carfì non ha mai vestito i panni della pubblica accusa. Sin dal suo ingresso in magistratura, nel 1985, è sempre stato alla "giudicante". Davanti alla sua sezione, la quarta, negli anni si sono presentati imputati di ogni genere, pedofili, spacciatori, ladri e truffatori. Tutti si sono scontrati contro quel muro di silenzio e rigore. Una rigidità che divenne celebre una prima volta già ai tempi dei processi di Tangentopoli quando si rifiutò di interrogare Craxi ad Hammamet perché i difensori non avevano presentato alcun certificato che ne provasse l’effettiva intrasportabilità. Carfì andò contro anche al pool di Mani Pulite: nel 1996 negò il patteggiamento a Dell’Utri per i fondi neri Publitalia. «La pena di 14 mesi patteggiata con il pm - scrisse - appare a dir poco inadeguata per difetto».

Nel 1993 il "Carfì style" entrò nelle leggende del palazzo di giustizia: denunciò una sua segretaria che, dopo aver dichiarato di non poter fare più straordinari, se ne andò a casa costringendolo a sospendere l´udienza alle due del pomeriggio.

(ma. me.)

A Silvia

Se qualcuno avesse dubbi sulla natura della signoria berlusconiana, la svolta del Corriere li dissiperebbe. Sua Maestà B. esige dalla stampa un lessico a tre vocali: e, o, u; eufemismo, ossequio, unzione. Ricapitoliamo in questa chiave gli ultimi 10 anni. Primo tempo: l' uomo d' Arcore salta fuori dalla scatola, allestisce il Barnum forzaitaliota, raccoglie i moderati orfani, imbarca post-neofascisti e Lega, vince, forma un governo, cade dopo sei mesi, tradito da quel Giuda d' un Bossi (parole sue). Quante cose tacciono i pulpiti: che fosse cresciuto come un parassita della consorteria; saltando sul carro politico, vi porti istinti da predatore, tale essendo l' unica logica in cui pensa; intenda lo Stato come roba sua; devasti i cervelli disseminando narcosi, volgarità, fobie, stereotipi ebeti; conduca una compagnia prossima alla gang più che al cenobio; editore dominante, promuova l' analfabetismo; sia monco dell' organo morale; venda fumo; punti al profitto, lasciando alle prede sì e no l' aria che respirano. No, lo dicono campione d' una destra liberal-liberista. Secondo atto: sconfitto, sebbene abbia raccolto qualche voto più degli avversari, meglio schierati, trova Nostro Signore nell' orto: accordandosi col leader del partito ex comunista, salva l' impero mediatico, consolida i conflitti d' interesse, finge intese su riforme delle quali nessuno sentiva il bisogno; raccolto ogni possibile lucro, le rinnega, scatenando furiose campagne contro i partiti al governo; li chiama usurpatori; grida al colpo di Stato; denuncia un regime antidemocratico. Viva la dialettica bipolare, cantano ugole neutrali. Terzo tempo: s' è reinsediato e stavolta chiude ogni spiraglio; converte le Camere in succursali Mediaset; siccome l' unico punto debole sono i processi su episodi dell' irresistibile ascesa tra gli Ottanta e Novanta, scatena un Poltergeist avvocatesco-mediatico-legislativo. Gesta inaudite ma agli oracoli non fanno caldo né freddo: è nelle regole del gioco spartire le spoglie; ventilano una legittima difesa dall' accanimento persecutorio; esortano gli sconfitti a stare quieti 5 anni. Nessuno nota cose ovvie: le norme penali valgono rispetto a tutti, abbiano o no networks televisivi; mai saputo che le vittorie elettorali lavino i delitti; risultando infondata l' accusa, i giudici assolvono; la condanna è appellabile e sopra le corti d' appello siede una Cassazione. Nel caso suo i rischi d' errore sono infinitesimi: recluta quanti avvocati vuole; ha quotidiani, settimanali, tre reti televisive, più tre pubbliche; irradia l' influsso intimidatorio radicato nel triplo potere, economico, mediatico, politico. Macché, parlano d' altro: che iattura se fosse condannato; l' aborto del sistema bipolare causerebbe una funesta instabilità; suvvia, liquidiamo i processi; interessi supremi giustificano deroghe al metro legale, e simili massime poco tollerabili da chi non abbia lo stomaco fortissimo. Quarto atto: l' autocrate abusa dei poteri; calpesta forme elementari del galateo politico; aveva un ministro serio agli esteri e se ne disfa subito; allunga le mani sulla Rai, dissestandola a beneficio delle sue reti; presenta alle Camere un ddl fraudolento sul conflitto d' interessi; siccome le Sezioni unite negano il trasloco a Brescia dei suoi processi, comanda articoli del codice su misura (déja vu sulle rogatorie); i senatori glieli votano in torride sedute notturne; da Montecitorio escono imbellettati. Cosa dicono i santoni alla finestra? Non battono ciglio o addirittura spendono parole dure a proposito d' un tentato ribaltone giudiziario. I meno sordi al lato morale deplorano aspetti canaglieschi del fenomeno forzaitaliota, come se lui non c' entrasse, e lo invocano affinché castighi i manigoldi. Chiedono poco, quasi niente, un minimo rispetto delle forme: i numeri sono suoi; li giochi senza soperchierie troppo visibili. Quinto tempo: s' è riscritto le norme scomode, partendo dal falso in bilancio che gli conveniva ridurre a bagatella; del conflitto d' interessi nessuno fiata più; vuol insediarsi al Quirinale, purché sia una repubblica presidenziale dove lui guidi l' esecutivo e diriga la politica estera, altrimenti rimane capo del governo, futuro premier o cancelliere eletto dal popolo con poteri rinforzati (sciogliere le Camere). Ma qualcosa stride: i maledetti processi pendono ancora; le Sezioni unite negano la rimessione anche sul nuovo testo, perché esiste una logica del diritto insensibile alle fatture parlamentari; l' indomani mattina mugola a reti unite un proclama da monarca assoluto. Dopo 23 mesi, la seconda avventura governativa volge al disastro: nel famoso contratto aveva garantito mirabilia; il mago della finanza virtuale annunciava un' impetuosa crescita del pil, 3.1%, e siamo allo 0.3; casse vuote; è nata col forcipe una pitocca legge finanziaria; vola il debito pubblico; sale l' inflazione; rischiamo il posto nell' Ue. Infine, dopo pietose furberie arranca nel brago mesopotamico con un occhio all' opinione pacifista, quasi guerriero malgré lui: lo seguono 64 italiani su 100, racconta mercoledì 19 marzo, vantando il "capolavoro diplomatico"; l' indomani espone al consesso europeo una maschera cupa. Incantava i topi, come il pifferaio d' Hamelin, e non vi riesce più. Ha l' acqua politica alla gola, mentre gli affari vanno a gonfie vele: accumula soldi senza muovere dito; non c' è giro dove non guadagni; Publitalia divora la Rai nella raccolta pubblicitaria. Nel sesto atto vuole più che mai istituire un sistema legale variabile secondo le persone; che i tempi stringano, lo dicono gli affari Imi-Sir e lodo Mondadori (due sentenze comprate, secondo l' accusa): l' on. avvocato d' affari P., suo mandatario, incassa la condanna a 11 anni come agente delle baratterie. Nell' allegra compagnia ci sarebbe anche lui se l' art. 321 c.p., versione 26 aprile 1990, corrispondesse all' art. 319-ter, che commina 8 anni quando il corrotto sia un giudice: rimedia alla svista una l. 7 febbraio 1991, ma i fatti erano anteriori; il corruttore quindi "gode" d' una pena minore, 5 anni, sicché, con l' elemosina delle attenuanti generiche, il reato risulta prescritto (Corte d' appello, 25 giugno 2001). Dal 30 aprile erutta fuoco: «criminalità giudiziaria»; toghe rosse; c' è «un cancro» nella giustizia italiana ma lui, gran chirurgo, lo estirperà, dichiara al Figaro; e da Arcore, luogo santo, chiama alla crociata "i guerrieri della libertà" su scenari soap opera, tali essendo i suoi gusti. I soliti "terzi" chiedono una sospensione dei processi, o meglio immunità, votata subito: la motivavano col sistema bipolare; il semestre europeo fornisce un secondo motivo, impellente. Sentiamo due oracoli spesso interloquenti, frigido e bollente. Non consumi ribalderie superflue, bisbiglia uno: niente impedisce riforme organiche; leghi pubblico ministero e tribunali al potere esecutivo. L' altro obietta su P., «uomo chiacchierato». Chi vuol «cambiare le cose» plani sopra ogni sospetto. Aurea massima non applicabile alla fattispecie: se il predetto era suo agente, simul stabunt, simul cadent; 9 anni fa l' impresentabile capo del governo lo voleva guardasigilli. Tolto l' hard core, resta poco del fenomeno forzaitaliota. Contava sull' en plein nelle amministrative e incappa in una domenica nera, allora frusta i vogatori. Votino subito quel lodo d' immunità processuale. Seguiranno aperture, perché non essendo più tempi da partito unico, ha bisogno d' oppositori morbidi: quando presieda una repubblica Mediaset, starà bene chiunque se lo sia meritato, ad esempio sedendo al tavolo delle riforme: parlamentari immuni, pubblico ministero comandato dal governo, via libera alla criminalità dei colletti bianchi, riguardi verso la mafia rispettabile; non ha pulsioni peroniste, garantiscono i dottori Dulcamara. Che B. sia un virus, non è slogan apocalittico: l' aveva detto Indro Montanelli, diagnosta attendibile; sapendo vita e miracoli del suo editore, prevedeva calamità se fosse sceso in politica. Chi lo tiene più? Da San Pietroburgo assale i pubblici ministeri milanesi persecutori del fido P. (31 maggio); al consesso degli Otto detta una formula memorabile: aumento terapeutico del debito pubblico, purché la gente lavori, risparmi, non scioperi (Evian, 2 giugno). Altro che secondo Rinascimento, l' Italia non aveva mai volato così alto.

LA DISPERAZIONE che stringe alla gola Silvio Berlusconi lo ha portato ieri, poco dopo la condanna di Cesare Previti ad 11 anni per corruzione di magistrati, a compiere un atto apertamente eversivo. Una dichiarazione politica che accusa i magistrati di golpismo, denuncia una trama che vuole rovesciare il governo per via giudiziaria e proclama una ribellione contro la sentenza di Milano: schierando così il Primo Ministro italiano dalla parte dei corruttori condannati e contro i Tribunali della Repubblica, avvertendoli: adesso ripristinerò il sistema di immunità e risolverò la politicizzazione della magistratura.

Tutto questo è accaduto mentre i giornali e le agenzie straniere diffondevano nel mondo la notizia che "uno stretto amico e alleato del primo ministro italiano Silvio Berlusconi è stato condannato per corruzione di magistrati in due battaglie di corporate takeover". Nel Paese rovesciato in cui viviamo, il Capo del governo non sta dalla parte della giustizia, amministrata dai Tribunali per conto dello Stato e nel nome del popolo italiano, ma sta a fianco dei condannati che hanno violato la legge con un reato gravissimo, deformando insieme, con la loro condotta, la giurisdizione dello Stato e la democrazia economica. Che sia l'impudenza del potere, a dettare questi comportamenti, o la disperazione della politica, poco importa ai cittadini. È un gesto gravissimo, prima di tutto perché travolge la separazione e l'equilibrio tra i poteri dello Stato, con il giudiziario pesantemente e apertamente minacciato dall'esecutivo subito dopo una sentenza, attraverso la ritorsione immediata ed esplicita del presidente del Consiglio.

E infatti ieri si sono mossi tutti i membri togati del Csm, per difendere i giudici di Milano dagli attacchi del premier, mentre il vicepresidente Rognoni - immaginiamo dopo una consultazione con Ciampi, che non potrà non intervenire personalmente - ha denunciato la delegittimazione dell'attività giudiziaria, attraverso una contrapposizione "patologica" tra i poteri.

Ma c'è a nostro parere un limite in più, anche nel mondo senza limiti del berlusconismo, che è stato violato in queste ore, e riguarda l'autonomia dello Stato, la separazione tra la cosa pubblica e i destini individuali dei governanti pro tempore.

In un gesto inconsulto e tuttavia per lui inevitabile e naturale, il Capo del governo ha trascinato il nostro Stato dalla parte dei malfattori, in un sentimento istintivo di arditismo verbale e di sacrilegio democratico che rovescia i parametri e le norme su cui si regge la convivenza civile in uno Stato moderno. È qualcosa di eversivo, una sorta di congiura dei dannati che affonda la sua forza nel peggio, esaltando il disordine, la devianza e la licenza come elementi creatori di un nuovo ordine, contro ogni maestà delle istituzioni, ogni autorità dei valori, ogni rispetto delle regole. Un impasto di istinto cieco di sopravvivenza, quasi rivoluzionario, e di una cultura politica terribile che ricorda quell'"empia audacia" di cui parlava negli Anni '30 Roger Caillois e che speravamo di non dover vedere mai all'opera in Italia: "Chi vuole comandare gli uomini deve aver sconfitto gli dei, e non con la preghiera ma con la forza".

Perché "nulla rende sacro come un grande sacrilegio, come la violazione solenne degli interdetti che sospende il castigo" e pone il sacrilego "al di sopra dei comuni mortali, votandolo ad una fatalità regale".

La destra che governa l'Italia è dunque fatta con l'impasto della peggior destra, e oggi ne sta dando prova. Berlusconi tenta addirittura una rilettura tecnicamente rivoluzionaria degli ultimi dieci anni italiani, immaginando una congiura giustizialista nata nell'aprile del 1993, e collegando se stesso a Bettino Craxi come vittime di un golpismo organizzato dai "comunisti" diessini, dal "partito giustizialista" e naturalmente da , la sua ossessione. Eugenio Scalfari e i suoi articoli del '93 sono usati come i pifferai magici di un'operazione antidemocratica che secondo Berlusconi dura tuttora e punta a scalzare il suo governo. L'attacco a Repubblica e al suo fondatore non stupisce. Nell'afasia italiana, e di fronte all'egemonia culturale del Caf allora, del Polo oggi, questo giornale rappresenta semplicemente un'idea diversa dell'Italia, un'idea non riducibile al berlusconismo, una difesa dello Stato di diritto e delle istituzioni democratiche. Per questo Berlusconi lo mette al centro di un disegno costruito dalla sua disperazione, che assegna al Cavaliere il ruolo rivoluzionario di unica forza sana, sempre vincente, sempre con il favore del popolo (e per questo si tace accuratamente la sconfitta del '96 da parte di Romano Prodi), costretto a combattere ieri come oggi contro i golpisti che vogliono fermarlo. Uno schema che sarebbe ridicolo, e folle, se non fosse l'incubazione di un progetto di ribellione organizzata davanti al corso istituzionale degli eventi. La formula è inedita e terribile: la definirei una specie di "ribellione della maggioranza", impaurita e spaventosa insieme, pronta a tutto pur di mantenere il potere.

Vorrei dire che non è un caso se questo accade sul terreno della giustizia, che è il cerchio magico del mistero berlusconiano, e attorno alla figura prima onnipotente e ormai politicamente maledetta di Cesare Previti, che è lo stregone custode di quel mistero. Uno stregone che ha celebrato in pubblico per anni il rito di un potere basato sulla licenza e sugli eccessi e che oggi vede il fuoco del suo sortilegio ormai spento, ma con fumi e ceneri di cui lui e il Cavaliere conoscono bene significati occulti e potenza palese.

Il caso del "lodo" è esemplare, quanto a sortilegi, perché parla da solo: con una provvigione di denaro occulto che parte dai conti esteri intestati alla Fininvest, Previti organizzò un sistema di corruzione che portò nel '91 la Corte d'Appello di Roma ad annullare un lodo arbitrale in base al quale il controllo della Mondadori era stato assegnato alla Cir di Carlo De Benedetti. Quella sentenza è stata pilotata, quel pronunciamento è stato comprato, quella battaglia imprenditoriale è stata vinta illegalmente, con la frode e attraverso la corruzione.

Silvio Berlusconi, padrone della Fininvest, era imputato insieme con le persone ieri condannate, ed è uscito dalla vicenda giudiziaria grazie alla prescrizione. Dunque penalmente è al riparo. Ma la provvista di soldi per la corruzione dei magistrati, in modo da piegare la sentenza a favore della Fininvest, secondo il Tribunale di Milano viene dalla All Iberian, il cui beneficiario era proprio il Gruppo Fininvest. E il risultato della sentenza pilotata e comprata, cioè la sua ricaduta imprenditoriale, economica, editoriale, di potere, è andato a indubbio ed esclusivo vantaggio di Silvio Berlusconi. Queste due circostanze accertate da un Tribunale della Repubblica avrebbero dovuto consigliare da sole, per decenza e per prudenza, all'imprenditore Berlusconi di tacere. Quanto al presidente del Consiglio Berlusconi, lui no, lui doveva parlare, ma per dire il contrario di quanto ha detto. Per testimoniare il suo imbarazzo agli italiani, per spiegare magari balbettando, ma con parole finalmente sincere, ciò che può spiegare di una storia scandalosa, per chiedere scusa, per prendere le distanze da Previti se può farlo, per assicurare infine che scendendo in politica ha abbandonato per sempre quei metodi: e dunque si augura nell'interesse della giustizia e per sua personale trasparenza, che la giustizia vada avanti celermente in appello, e componga una triste vicenda.

Tutto ciò Berlusconi non lo farà mai, e c'è una ragione. Perché questa sentenza, dimostrando e condannando la forma fraudolenta con cui fu ottenuta la proprietà di una grande azienda, colpisce al cuore l'identità imprenditoriale di Berlusconi, quella sovrastruttura pre-politica attraverso la quale il Cavaliere è potuto scendere in campo e conquistare una parte rilevante del suo consenso: presentandosi cioè come l'imprenditore puro, capace di rimettere in piedi l'Italia e i suoi conti dopo aver creato e conquistato aziende, spazzato via i concorrenti, dominato il campo con la sua purissima energia industriale. Solo che quell'identità imprenditoriale risulta oggi bacata, minata alla base. E dunque, il presidente-imprenditore deve fare i conti con quel sistema di corruzione a cui la Fininvest ha concorso e da cui ha tratto beneficio, e che lui non poteva naturalmente non conoscere, come dimostra anche lo strettissimo legame, l'amicizia personale che lo lega a Cesare Previti.

E da qui, nasce un'altra domanda. Conoscendo quel che conosceva, sapendo ciò che era successo e che il Tribunale adesso ha sanzionato, come ha potuto Silvio Berlusconi, l'uomo che è sceso in campo perché "ama il suo Paese", pensare nel '94 di proporre proprio Previti come ministro Guardasigilli, cioè alla testa della giustizia italiana?

Sono queste le domande a cui Berlusconi non potrà mai rispondere: né sulle piazze, né sui giornali, neppure a "Porta a Porta". Piuttosto, parla di persecuzione, di giudici politicizzati. Ma questo processo riguarda reati tutti commessi ben prima che il Cavaliere scendesse in campo, dunque la politica non c'entra. Quanto alla persecuzione, il lodo Mondadori è del '91, la sentenza che riconosce la corruzione arriva oggi, dodici anni dopo, al termine di 6 anni di inchiesta e ben 3 di pubblico processo, durante il quale la difesa ha potuto giocare tutte le carte giudiziarie e anche molte extragiudiziarie. Per la prima volta nella storia della Repubblica sono state costruite norme ad personam, provvedimenti ad hoc, si è cioè deformata la giurisdizione, sono stati manomessi alcuni istituti, si è intervenuti su trattati internazionali per costruire appositamente e fisicamente una qualsivoglia forma di salvacondotto. Questo processo è diventato qualcosa di improprio, con il governo, la maggioranza parlamentare, il presidente del Consiglio che alzavano quotidianamente la loro ombra dietro la figura dell'imputato Previti, pronti a trasformare in legge nelle Camere le tesi che i difensori avanzavano in aula, appena il Tribunale le respingeva.

Il sistema di garanzie è stato dunque dispiegato pienamente, e certo in misura enormemente superiore a quanto avviene per un normale cittadino. Ad un certo punto, abbiamo vissuto il paradosso drammatico in cui lo Stato era schierato e in forma gladiatoria con un imputato, nell'aula in cui un Tribunale doveva amministrare la giustizia per conto dello Stato. Non sono mancate le intimidazioni, le accuse gravissime ai magistrati. Che però hanno portato il loro compito fissato dalla legge fino alla fine.

Questo è ciò che conta, in uno Stato di diritto. Voglio dirlo con chiarezza ai lettori. Nel caso del "lodo", com'è noto, il gruppo editoriale Espresso-Repubblica subì un danno rilevantissimo, perché fu spogliato fraudolentemente del possesso della Mondadori. Ma nel giudizio che oggi diamo della vicenda, più della soddisfazione per il ristabilimento della verità dei fatti conta la conferma venuta da Milano che in Italia la legge è ancora uguale per tutti. Non perché c'è stata una condanna: ma perché c'è stata una sentenza, che Previti e Berlusconi hanno fatto di tutto per evitare e scongiurare, costruendo una sorta di immunità politica con le loro mani, che avrebbe colpito a morte lo Stato di diritto.

Ora, regolato il caso giudiziario, resta aperto il caso morale e politico. Non ci interessa nessuna speculazione, basta la verità: e avanza. La lezione è chiara. Saperla leggere tocca a Berlusconi, è affar suo, e la ferocia della reazione di ieri dimostra che ha capito per chi suona la campana. Qualcuno dovrà fermarlo, consigliandogli di interrompere questo duello eterno col paese che dovrebbe invece governare. È facile prevedere, al contrario, che il Cavaliere finirà prigioniero dell'incendio istituzionale che ha appiccato. E purtroppo, trascinerà lo Stato dentro quel cerchio previtiano di fuoco che lo circonda in eterno.

Caro direttore,

la parola d'ordine nelle stanze alte del è sopire, troncare, minimizzare, allontanare il fuoco dalla paglia, fare in fretta, soprattutto, a collocare il nuovo direttore sulla poltrona con l'Enciclopedia Treccani di spalle. Io mi sono dimesso stamattina perché non credo per nulla nella versione ufficiale delle dimissioni di Ferruccio De Bortoli - i motivi personali - e non credo neppure nelle assicurazioni date sulla continuità del giornale, più o meno provvisoria. Una conquista, persino, il meno peggio che potesse accadere, secondo alcuni protagonisti di questa vicenda che è un po' il simbolo della vecchia politica delle stanze chiuse, dei patti riservati, degli occhieggiamenti, dei favori, delle poco sublimi mediazioni, delle trattative sottobanco, dell'eterna ambiguità.

Mi dimetto per protesta. Contro l'arroganza del governo e dei suoi ministri, contro una Proprietà subalterna, contro le interferenze, difficili da negare, piovute dall'alto ai danni di un possibile libero giornalismo. In un momento grave per la Repubblica in cui non è certo il caso di fare gli struzzi.

Ho consegnato la mia lettera di dimissioni alla Rita, una delle intelligenti segretarie di direzione e nel giornale deserto della prima mattina sono andato su e giù per i corridori dei vari piani. Ho dato un'occhiata alle vuote stanze della direzione, poi alla celebrata sala Albertini, coi tavoli simili a quelli del Times, con le lampade di ottone che hanno sostituito le lampade verdi. Chissà che cosa è successo qui dentro nel Novecento, conflitti, bassezze, viltà, crimini e misfatti. Ma anche il coraggio di tanti e la passione.

Che cosa significa, mi sono detto, il concetto di continuità predicato ora in un giornale come questo che ha segnato la vita nazionale? Da Bava Beccaris e dalla parte dei suoi cannoni al fascismo dopo le non sempre focose resistenze di Albertini fino a quel famoso direttore del dopoguerra esaltato dai manuali, Missiroli, che era solito dire, negli anni 50: " Ci vorrebbe un giornale. Oh, se avessi un giornale!". La continuità arriva fino alla P2 - Di Bella, Rizzoli, Tassan Din o per continuità - speriamo - si vuole intendere soltanto la parte civile della storia, Mario Borsa, Ottone, Cavallari, Stille, Mieli? E Ferruccio de Bortoli. Che ha diretto con dignità un giornale moderato dove a occupare la prima pagina sono stati soprattutto Panebianco, Galli Della Loggia, Merlo, Ostellino e qualcun altro, guardie bianche da cui Berlusconi non ha avuto certo da temere, soltanto benevolenza e consigli filiali.

Io sono stato accolto da Ugo Stille nel 1987. Lo ricordo con affetto. Aveva lo sguardo di un uomo che molto sa e molto ha vista, sa del presente e intuisce del futuro, come l'ignoto marinaio del romanzo di Vincenzo Consolo. Con lui ho scritto molto, di cultura, di politica. Era curioso, gentilmente beffardo. Solo una volta parlò del suo grande amico Giaime Pintor. Nel 1999, poi, de Bortoli mi ha affidato una rubrica di politica e società, " Storie italiane", e in quattro anni non mi ha mai chiesto di togliere una riga o una sola parola garantendo con correttezza esemplare una rubrica dissonante dal resto del giornale. Sono grato anche a lui.

" Come mai - dicono adesso gli ingenui cittadini di Milano che si incontrano per la strada e ti fanno domande allarmate - Ferruccio de Bortoli era inviso al governo o ad alcuni governanti e il suo successore non lo è?". " Come mai - dicono altri - si sostiene che non è successo niente?". Berlusconi vuole tutto. Non gli bastano le sue tre reti televisive, la Rai, i giornali parentali e quelli amici, le radio e le case editrici, come non succede in nessun paese del mondo.

Il , nonostante non fosse nemico, era ed è un inciampo da togliere di mezzo. Perché adesso? Le elezioni non sono state un successo. L'economia ristagna. Non pochi elettori forzisti fanno i conti della spesa, il vecchio carisma del capo è entrato in crisi, il loro cuore è tremulo e intristito.

Il semestre europeo può essere un ostacolo micidiale, non un'occasione dorata. E il Corriere conta, resta una spina, ha mantenuto intatto il suo prestigio. Può influenzare milioni di persone. Che cosa dà fastidio al Cavaliere? La quantità di informazioni che de Bortoli ha sempre cercato di dare non gli giova. Alcuni collaboratori di certo non gli piacciono, Giannelli e le sue vignette, qualcun altro, il professor Sartori, liberale autentico, che ha battuto per anni sull'incudine del conflitto di interessi e non si è stancato mai perché questo è l'insoluto problema generatore di tanti disastri reali e d'immagine per l'Italia in tutto il mondo.

Il 15 maggio, Giovani Sartori ha avuto l'impudenza che non è stata perdonata né a lui né a De Bortoli di scrivere: " Lei ha dichiarato, signor Presidente del Consiglio, che “non sarà consentito a chi è stato comunista di andare al potere”. Queste cose le diceva Mussolini. Lei non ha nessun motivo di aver paura. Io sì".

Figuriamoci il Cavaliere che con i suoi fedeli vassalli non ha mai dimenticato il no alla guerra di de Bortoli. Le pressioni governative sono state assillanti, padronali, offensive. A proposito dell'economia e di inchieste su questioni finanziarie. A proposito della giustizia, tema ossessivo. Il direttore de Bortoli l'ha affrontato nell'unico modo possibile per un giornalismo civile pubblicando gli articoli dei bravi, generosi e minacciati cronisti giudiziari che non ritengono il presidente del Consiglio e l'onorevole Previti al riparo dalle notizie documentate. Questi eminenti imputati dei processi di Milano che debbono rispondere di un reato comune così grave come la corruzione di magistrati e che stanno per ottenere l'impunità dalla maggioranza parlamentare con una legge ad personam che certo viola la Costituzione, vogliono essere liberati anche da ogni controllo dell'informazione. Sorretti dai loro avvocati-parlamentari che fanno il diavolo a quattro in difesa dei loro clienti. Le ricusazioni toccano anche alla stampa libera.

Gli azionisti, poi. Quella del è una proprietà frantumata, un pentolone che contiene tutti i possibili beni e servizi, le auto, i cavi, le telecomunicazioni, i frigoriferi, la finanza, Mediobanca, le assicurazioni. Appassionati sostenitori del libero mercato gli azionisti si sono rivelati fedifraghi, bisognosi come sono delle stampelle e dei favori del governo che certo non dà senza nulla ricevere in cambio. Anche loro hanno protestato infuriati ed esterrefatti - un reato di lesa maestà - quando l'informazione economica del giornale ha rivelato, per alcuni, oscure verità su traffici e affari. Il capitalismo democratico è di là da venire. Anche coloro che deprecano a parole i comportamenti di una società che opera solo in nome degli interessi e lamentano la mancanza di idee e l'assenza di ideali, in quest'occasione non hanno rotto un fronte comune che non li rappresenta. Il grido della foresta è stato più forte.

Mentre nella mia passeggiata d'addio dentro il giornale deserto passavo davanti alle stanze dell'Economia, al secondo piano, nel vecchio fabbricone di vetro, mi venivano in mente " gli interessi inconfessabili" denunziati da un grande maestro non certo marxista-leninista, Luigi Einaudi quando, forse proprio sul , si riferiva ai traffici dei cotonieri, dei siderurgici, degli armatori, degli agrari che si servivano dei giornali di cui erano proprietari non certo per difendere idee, ma per calcoli mercantili e usavano i loro poteri e i loro denari per promuovere disegni di legge adatti agli interessi di casa.

Quel che è accaduto al Corriere è grave. È sbagliato usare anche qui i criteri perdenti della tattica anziché cercare di aprire un po' la mente e capire quali possono essere le conseguenze rovinose di un del tutto addomesticato ai voleri di Berlusconi. E questo vale per la sinistra. Il cambio di un direttore di giornale avvenuto chiaramente per impulso governativo non è, come ha detto qualcuno dall'anima questurina, simile a un banale cambio di prefetti. Soprattutto in via Solferino, dove la forza della tradizione conta, nonostante la retorica, dove, malgrado tutto, anche se con fatica, il giornale ce l'ha quasi sempre fatta a uscire dalle tempeste. (La P2 non era un club di gentiluomini: basta ricordare che Giuliano Turone e Gherardo Colombo, allora giudici istruttori, arrivarono alle liste di Gelli indagando sulla mafia, sul finto rapimento di Sindona in Sicilia, sull'assassinio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli).

Sono uscito dal palazzo pieno solo di ombre e di fantasmi scendendo per le antiche scale. Sulle pareti sono appese le fotografie dei redattori e dei collaboratori illustri. Mi guardano, li guardo. Soltanto alcuni, faziosamente. Memoria e monito. Giovanni Amendola, Benedetto Croce, Giovanni Verga, G.A. Borgese, Federico De Roberto, Eugenio Montale, Italo Calvino. E Ferruccio Parri, con i suoi occhiali sulla fronte.

Corrado Stajano



Giorgio Bocca, Il tirannello di Vittorio Alfieri

Il postino bussa sempre due volte e così la legge Frattini sulla rimozione dei dirigenti pubblici. Il primo e più grave colpo è stato inferto ai direttori generali, in scadenza il 7 ottobre, e il nostro giornale ne ha ampiamente parlato (Repubblica del 5 u.s. e seguenti). Il secondo è sospeso come una mannaia sulla testa dei 4500 dirigenti di seconda fascia che, entro il 6 novembre, conosceranno la loro sorte, in gran parte nelle mani dei nuovi direttori generali, subentrati agli epurati. Mentre, però, per i 420 direttori generali, la decadenza è stata automatica, nel senso che tutti - graditi e sgraditi - hanno visto il loro contratto annullato e, nei casi più fortunati, rinnovato nello stesso ruolo, per i dirigenti di seconda fascia la rimozione scatta solo per chi avrà esplicitamente ricevuto l’invito ad andarsene. Una disposizione transitoria dà, a questo scopo, al ministro libera facoltà "ruotare" in un’altra posizione il dirigente sgradito.

È evidente che si è messo in moto un meccanismo di asservimento politico dell’Amministrazione pubblica che non ha precedenti, non solo nella storia del nostro paese e nella prassi degli altri stati europei, ma neppure nello spoils system americano dove investe solo i vertici dell’Amministrazione, collegati per funzione alla gestione della politica governativa (modello sulla cui falsariga il centro sinistra aveva introdotto, con la legge Bassanini, la possibilità per il governo di avvicendare una quarantina di altissimi burocrati). Ma ora questo spiraglio è stato talmente allargato che c’è solo da domandarsi se dopo aver filtrato al vaglio della fedeltà politica, ma non della competenza, i 5000 delle prime due fasce, si passerà ai gradini successivi, per arrivare fino agli uscieri. Forse, però, si reputerà bastevole aver "marchiato" i capi di ogni ordine e grado col bollo di garanzia di Forza Italia, An e Lega, per indurre tutto l’universo sottostante ad allinearsi ai desideri della maggioranza di governo.

Comunque, tornando alle sorti specifiche dei dirigenti della seconda fascia tacitamente confermati sulla base del silenzio-assenso, si deve aggiungere che neppure loro potranno ritenersi al sicuro. Tutti dovranno, infatti, accettare un nuovo contratto, peggiore in termini di garanzia e di durata di quello che avevano firmato in base alla legge di riforma del centrosinistra. Questo prevedeva, infatti, una durata minima di 2 anni e massima di 7, mentre ora la durata minima è abolita e potranno venire imposti contratti di pochi mesi, eventualmente rinnovabili, così da ridurre in condizione precaria e timorosa il dirigente. Inoltre la durata del contratto non è più stabilita in base a una contrattazione tra le parti ma con un atto amministrativo unilaterale che, in quanto tale, può essere modificato in qualsiasi momento dal ministro. Anche l’oggetto dell’incarico è fissato dal ministro e soggiace a identica alea. Infine salta tutta la procedura garantistica che era stata introdotta, sia nei contratti individuali che nella parte coperta dal contratto collettivo, per misurare i risultati e stabilire l’eventuale rinnovo. Quella che conterà d’ora in avanti sarà soprattutto la valutazione politica del vertice ministeriale. Per di più, sperando di sfuggire ad ogni contenzioso, nei nuovi contratti verranno definite solo le competenze economiche accessorie, affidando tutto il resto alla normativa amministrativa di spettanza governativa. Viene così minata alla base l’idea ispiratrice della riforma Bassanini, tendente a dislocare il rapporto di lavoro pubblico nell’ambito del diritto privato e non più di quello amministrativo, per realizzare per questa via una modernizzazione di stampo anglo sassone. «Forse - come riconosce oggi lo stesso Franco Bassanini - il tentativo dell’Ulivo di modernizzare l’Amministrazione, ancorandola a criteri di efficienza, professionalità e competenza, era troppo in anticipo sui tempi». Si potrebbe aggiungere, che invece di introdurre contratti a tempo determinato, sarebbe bastato probabilmente trovare una formula per facilitare il licenziamento, nel quadro di contratti a tempo indeterminato (come esistono anche per molti dirigenti dell’industria privata), per non schiudere quel varco attraverso cui, travolgendo ogni paletto, sta passando la carica travolgente della Destra al potere.

Ma, stando almeno alle scarse reazioni del centro sinistra, vien da pensare che i suoi capi si emozionino solo delle epurazioni mass-mediatiche e che l’oscuramento tv di Santoro e Biagi preoccupi assai più dei 5000 dirigenti pubblici finiti sotto scacco.

MILANO

Gerardo D’Ambrosio è in pensione da qualche mese, dopo quarantasei anni di magistratura. Procuratore a Milano, ha vissuto per intero la vicenda giudiziaria di Tangentopoli, dall’arresto di Mario Chiesa in poi, e ha subito le conseguenze di molte polemiche e di infiniti attacchi. Poco più di un anno fa, a proposito di una delle tante manovre per bloccare i processi milanesi, commentò con parole durissime: «È la notte della democrazia». Adesso uno di quei processi è arrivato a sentenza.

Signor procuratore, la notte può apparire meno scura?

«È estremamente importante che nel contesto difficile che tutti conosciamo si sia riusciti comunque ad arrivare alla decisione di primo grado. Questo dimostra in modo del tutto evidente che la nostra democrazia, se pure giovane, funziona, che la nostra democrazia è forte. Sotto il profilo della giustizia è positivo, profondamente positivo, aver raggiunto questo risultato, nonostante tutte le tecniche dilatorie che sono state poste in essere contro la sentenza. Tecniche dilatorie che sono state da tutti riconosciute come esasperate, tanto esasperate che persino gli avvocati penalisti hanno in modo aperto criticato una politica giudiziaria, in questa legislatura, così influenzata da questa vicenda. Si sono allungati i tempi del processo in modo anomalo. Si sono contate in tre anni otto ricusazioni. A questo punto davvero la notte può apparire meno oscura. Quei tentativi di dilazione erano compiuti in attesa di una soluzione che intervenisse prima della sentenza e che venisse data dal Parlamento. Il Parlamento invece non ha voluto dare un colpo di spugna e quindi, sotto questo profilo, anche nella maggioranza non si è voluto dare un colpo di spugna, a proposito peraltro di episodi anteriori all’assunzione di incarichi parlamentari. Abbiamo assistito a una mobilitazione che ha contribuito a dissuadere il Parlamento e una parte della maggioranza a ricorrere a ulteriori espedienti, come quelli rappresentati da alcuni disegni di legge sulla sospensione dei processi a carico di parlamentari. E mi riferisco in particolare al progetto di legge 3393, firmato dall’onorevole Nitto Palma, che è stato presentato, ma non è stato approvato. Il che significa che per il Parlamento vale ancora il principio della nostra Costituzione secondo il quale la legge è uguale per tutti, anche se vi è un articolo, il 68, che comunque introduce dei temperamenti, perché è noto che per la cattura, per le perquisizioni, per le intercettazioni telefoniche e per l’acquisizione di tabulati occorre comunque che vi sia una autorizzazione parlamentare.

Si può dire che in qualche misura questa sentenza potrebbe aiutare a voltare pagina...

«Bisogna anche dire che questo disegno di legge di cui si temeva l’approvazione e con cui si sarebbe tentato di differire questa pronuncia, sarebbe stato assai pericoloso in un sistema maggioritario, perché si prevedeva in questo modo la sospensione del processo alla fino alla conclusione del mandato sulla richiesta del parlamentare senza alcun motivazione sul fumus persecutionis. Sarebbe diventato una forma di immunità per la maggioranza, senza alcun tutela per la minoranza. Nel contesto generale, nonostante le traversie, questo fa sperare in un diverso orientamento futuro della politica giudiziaria e soprattutto che si vada nella direzione di rendere più rapidi i processi per giungere a sentenza in tempi ragionevoli, così come indica la Costituzione».

Un fatto positivo, ovviamente, a prescindere dagli undici anni di condanna...

«Teniamo conto che si tratta sempre di una sentenza di primo grado...».

Una sentenza che ha peraltro assolto l’imputato Verde...

«E che dimostra dunque che la giustizia è sempre molto attenta, prima di condannare. A volte le tesi dell’accusa vengono accolte, a volte no. Questa è la logica del processo. Non è detto che tutto debba finire in condanna. Evidentemente in questo caso la tesi dell’accusa non è stata ritenuta fondata. Mi pare che anche questo rientri nella assoluta normalità. Bisogna dire che tante questioni sollevate rientrano nei meccanismi interni al processo, anche le questioni di competenza. Il processo è fatto di tre gradi, si vedrà».

Come giudica l’ultima, oserei dire estrema iniziativa del ministro Castelli, che ha chiesto proprio l’altro ieri documentazione al Tribunale di Milano per verificare la fondatezza dell’esposto annunciato da Previti contro i pm Boccassini e Colombo? Qualcuno, Carlo Fucci, presidente dell’associazione nazionale magistrati, ha accusato il ministro di interferenza...

«Questo rientra nei poteri del ministro Castelli. Non è la prima volta che la Procura di Milano viene sottoposta a queste indagini, che si sono poi rivelate infondate. Non giudico questa iniziativa una interferenza, dal momento che si è deciso che l’azione disciplinare dipenda dal ministro, che è nella possibilità dunque del ministro di aprire una inchiesta, è un suo diritto verificare come sono andati i fatti e poi archiviare... Insomma non mi fa meraviglia. Il ministro, lo sappiamo, molte volte ha preso iniziative analoghe nei nostri confronti. Il problema è non intaccare la credibilità delle istituzioni che da questo punto di vista dipendono una dall’altra. Se perde credibilità una, non è che le altre rimangano indenni».

Roma, 10 giugno 2003

ILL.MO PRESIDENTE della

REPUBBLICA ITALIANA

CARLO AZEGLIO CIAMPI

Illustre Presidente,

la salvaguardia dell’ambiente e la tutela della sua integrità rappresentano un valore fondamentale e primario per tutta la comunità nazionale.

Ed è un valore che non può non trascendere l’alternanza delle diverse coalizioni e delle diverse formazioni politiche nella responsabilità del Governo del Paese.

Del resto in questo campo così delicato le direttive comunitarie costituiscono un riferimento invalicabile e sicuro.

Nel nostro Paese, invece, con la delega sulla normativa ambientale richiesta dal Governo, il bene ambiente è sottoposto ad un grave e preoccupante indebolimento.

Suscitano forte inquietudine l’ampiezza che non ha precedenti della delega e le modalità previste per il suo esercizio, con la completa espropriazione del ruolo del Parlamento e della sua funzione legislativa.

Infatti spetterà ad una Commissione di esperti, scelti dal Ministro per l’Ambiente ed alle sue dipendenze, l’intera elaborazione di decreti attuativi della delega, con il conseguente esautoramento delle Assemblee legislative.

In questo contesto già così difficile, con specifica circolare del Capo di Gabinetto del Ministro dell’Ambiente, tutto il personale del Ministero, dell’Agenzia per la protezione ambientale, dell’ICRAM e di tutti gli organismi collegati è stato invitato a non svolgere alcuna attività sugli argomenti – pressoché tutti - oggetto della delega legislativa.

Si realizzerebbe, così, una singolare e per tanti versi incredibile “sospensione” della vigente normativa in campo ambientale, con accentramento inammissibile di ogni questione in capo all’ufficio del Ministro.

Questa vicenda non ha ovviamente alcun riscontro negli altri Stati dell’Unione Europea.

La incertezza legislativa, che così si determina sul versante ambientale, è ancora più grave in vista del semestre europeo affidato alla presidenza italiana, che vedrà il nostro Paese in una condizione assolutamente anomala e gravida di pericolose incognite rispetto ad un valore così rilevante, come la tutela dell’ambiente.

Riteniamo pertanto, nella veste di componenti della Commissione Ambiente della Camera dei Deputati, di affidare alla sua autorevole attenzione la delicatezza estrema di questa situazione che riveste il bene ambientale, ormai caratterizzato e vitale per tutta la nostra democrazia.


DS On. Bandoli
DS On. Vigni
DS On. Abbondanzieri
DS On. Sandri
DS On. Chianale
DS On. Vianello
DS On. Mariani
DS On. Dameri
DS On. Piglionica
DS On. Zunino
Margherita On. Realacci
Margherita On. Iannuzzi
Margherita On. Merlo
Margherita On. Reduzzi
Margherita On. Villari
Margherita On. Fusillo
PCDI On. Nesi
Verdi On. Lion
Rif. Com. On. Vendola
SDI On. Pappaterra

CANTIERI costituzionali sono aperti o in via di apertura in diversi luoghi d’Europa. A Bruxelles, a partire dall’autunno, comincerà la fase decisiva per il futuro costituzionale dell’Unione europea, affidato al lavoro della Convenzione. In Francia, anche come contraccolpo delle tormentate vicende che hanno accompagnato l’elezione di Chirac, si parla della necessità di mettere le mani sulla Costituzione della V Repubblica. E proposte analoghe vengono avanzate in Germania, guardando alle prospettive che si apriranno dopo le prossime elezioni politiche.

Il cantiere italiano è aperto da quasi vent’anni, da quel 1983 che vide l’invenzione delle commissioni bicamerali, con effetti soltanto negativi e nessun beneficio, come tardive autocritiche di questi giorni cominciano a riconoscere. Oggi il dibattito riprende intorno al presidenzialismo, ma sullo sfondo già s’intravede una novità, legata all’emergere di proposte di revisione anche della prima parte della Costituzione.

Si tratta di una novità perché, soprattutto nell’ultima fase, il compito affidato alle commissioni bicamerali era stato esclusivamente quello di modificare il testo costituzionale nella sua seconda parte, quella relativa all’organizzazione dello Stato, escludendo interventi sulle norme riguardanti i diritti e i doveri dei cittadini. Questa distinzione poteva ben essere considerata artificiosa, perché molti dei diritti e delle libertà considerati nella prima parte della Costituzione trovano poi la loro effettiva garanzia nel fatto che eventuali loro limitazioni possono avvenire solo ad opera della magistratura, di cui si parla nella seconda parte.

In Italia forzature in concreto sarebbero possibili Ma in tal caso ci troveremmo di fronte a un vero cambiamento di regime e a un’autentica rottura

In Francia nessuno pensa di mettere mano alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 E le antiche norme del "Bill of rights" negli Usa restano un punto fermo

Sicché ogni intervento limitativo della indipendenza della magistratura porta con sé un indebolimento anche del quadro dei diritti, anche se questo rimane formalmente immutato. E tuttavia escludere la revisione della prima parte ha sempre avuto un forte valore politico e simbolico, poiché in questo modo si ribadiva la fedeltà ai valori e ai principi fondativi della Repubblica.

Questa impostazione è superata? Non direi, e l’ultima conferma è venuta dal recentissimo messaggio del presidente della Repubblica, che ha voluto sottolineare la "continuità di ideali e di valori dal Risorgimento alla Resistenza, alla Costituzione repubblicana". Ideali e valori che trovano la loro concreta manifestazione proprio in quella prima parte della Costituzione che Massimo Severo Giannini, critico della seconda, definì "splendida".

L’inammissibilità di interventi volti a modificare quel nucleo di valori fondamentali è stata esplicitamente affermata dalla Corte costituzionale. In una famosa sentenza del 1988, relatore Antonio Baldassarre, si è detto che "la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali", perché "appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana".

Vi è, dunque, un limite insuperabile da chiunque intenda aggiornare e modificare la Costituzione. Questo non vuol dire, ovviamente, che forzature non siano in concreto possibili, e che una maggioranza non possa decidere di cambiare anche le norme in cui si esprime quell’insieme di valori. Il realismo politico impone di prendere in considerazione anche questa eventualità. Solo che, qualora un fatto del genere si verificasse, saremmo di fronte ad una vera e propria rottura costituzionale, ad un cambiamento di regime. Questo non vuol dire, peraltro, che non sia ammissibile alcuna modifica di specifiche norme contenute nella prima parte della Costituzione. Solo che questa revisione, per essere in linea con le indicazioni della Corte costituzionale, deve rappresentare uno svolgimento della logica dei principi esistenti, non una loro contraddizione.

La storia costituzionale mostra quanto sia importante tener fermo un nucleo essenziale di libertà e di diritti al quale, nel tempo, i cittadini si abituano a far riferimento. In Francia la Costituzione continua ad aprirsi con un esplicito richiamo alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Negli Stati Uniti nessuno pensa di proporre modifiche della costituzione, e delle più antiche norme del Bill of Rights, per il solo fatto che hanno più di duecento anni. Né in Germania si parla di cancellare, ad esempio, l’art. 15 della costituzione, dove pure si afferma che "la proprietà terriera, le ricchezze naturali ed i mezzi di produzione possono essere trasferiti, ai fini della socializzazione, alla collettività, o essere sottoposti ad altre forme di economia collettiva mediante una legge che determini il modo e la misura dell’indennizzo". Si riconosce, in definitiva, che le costituzioni hanno una loro intima sostanza che le proietta al di là delle contingenze e delle maggioranze che diedero loro origine.

L’essenziale funzione di garanzia e di costruzione di un "patriottismo costituzionale" si perde se la costituzione viene considerata come una legge tra le altre, sempre bisogna di aggiustamenti secondo il mutare delle stagioni politiche. L’uso congiunturale delle istituzioni ha sempre prodotto guasti non facilmente rimediabili.

Ma, si dice, la Costituzione repubblicana è figlia d’un mondo politico scomparso, non riflette adeguatamente una realtà sociale ed economica profondamente mutata, tanto che in essa non v’è alcun riferimento all’impresa. In questi argomenti si manifesta una cultura istituzionale che non coglie le specificità del nucleo di principi dei testi costituzionali, di cui deve essere assicurata la "lunga durata" proprio per permettere loro di adempiere alla funzione di garantire stabilità all’ordinamento e di non esporre i diritti e le libertà alla mutevole volontà delle maggioranze. Questo non contraddice l’esigenza di adattamento alla realtà in continua trasformazione. Ma le corti americane hanno affrontato e risolto questioni nate da Internet continuando a fare riferimento ad una norma del Bill of Rights approvata addirittura nel 1789, mostrando così quanto possa un uso intelligente dell’interpretazione evolutiva. E, interpretando l’art. 41 della Costituzione italiana dove si afferma che "l’iniziativa economica privata è libera", si è sempre ritenuto che questo ampio concetto comprendesse, ovviamente, anche l’impresa. O le proposte di modificare l’art. 41 mirano piuttosto ad eliminare quella sua parte dove si dice che l’iniziativa economica privata "non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana"?

Ho fatto riferimento a questo articolo anche perché esso, lungi dal riflettere un mondo passato, manifesta uno dei tratti di lungimiranza della nostra Costituzione, con il suo riferimento alla "dignità umana". Un riferimento che si ritrova in altre norme, come quella che assicura al lavoratore una retribuzione "in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa"; e soprattutto nell’art. 3, che si apre con le parole "tutti i cittadini hanno pari dignità sociale". Oggi il riferimento all’inviolabilità della dignità umana apre la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che così conferma come quel valore debba essere considerato parte del nucleo immodificabile della nostra Costituzione.

Più che discutere della revisione della prima parte della Costituzione, oggi è importante svilupparne i valori profondi per rafforzare le premesse, le precondizioni del processo democratico. Lo ha fatto in modo eloquente il messaggio del presidente della Repubblica, che si apre con una affermazione impegnativa e solenne, quasi un monito non solo a Governo e Parlamento, ma a tutti i cittadini: "la garanzia del pluralismo e dell’imparzialità dell’informazione costituisce strumento essenziale per la realizzazione di una democrazia compiuta". L’accesso al sistema dell’informazione, tra l’altro, è una condizione necessaria perché la partecipazione politica avvenga in condizioni di eguaglianza e non dipenda dai mezzi finanziari dei quali si può disporre.

MILANO - Dottor Gerardo D’Ambrosio, lei è stato il capo dell’ufficio dell’accusa per tutto il tempo delle indagini, dell’udienza preliminare e per buona parte del dibattimento. Sette condanne e un’assoluzione, come commenta?

«Mi sembra una sentenza che dimostra la grande serietà e serenità del Tribunale che è stato attaccato pesantemente ma che ha saputo mantenere la sua indipendenza. Anche dalle tesi della procura. Un solo proscioglimento conferma l’impianto dell’accusa ma dimostra anche che non c’è stato nessun appiattimento. Una cosa, però, mi sembra ancora più importante».

Che cosa?

«Il fatto che si sia arrivati alla sentenza significa che la nostra giovane democrazia è forte, ha retto al tentativo che è stato fatto di fermare la giustizia e di sottrarre degli imputati eccellenti al suo corso. È la prova che il principio che la legge è uguale per tutti è una realtà. Sono state sconfitte le manovre di chi voleva l’impunità».

Più che un processo, questo dibattimento è stato un percorso di guerra.

«Diciamo che c’è stato un atteggiamento di insofferenza verso l’amministrazione della giustizia. Si è cominciato con le opposizioni in Svizzera alla trasmissione degli atti rogatoriali e si è arrivati a sollevare un conflitto di attribuzioni davanti alla Corte Costituzionale, fino a presentare otto istanze di ricusazione e due istanze di rimessione. Certo non si è andati incontro al principio della ragionevole durata del processo.....».

Ci sono state anche interferenze legislative.

«Direi che è stato un processo molto singolare. Ha provocato addirittura un trattato internazionale tra Italia e Svizzera; l’articolo 111 della Costituzione e poi, quando il governo di centrodestra è salito al potere, tutta la politica giudiziaria è stata influenzata da questo processo. Bisognava trovare a tutti i costi una soluzione a quello che ho sempre definito il secondo conflitto di interessi del presidente del consiglio. Tra gli imputati c’è un suo ex ministro, Cesare Previti, che era il suo avvocato quando Silvio Berlusconi faceva solo l’imprenditore».

Quali leggi sono state viziate da questo conflitto?

«Quella sulle rogatorie, quella sul falso in bilancio, la legge Cirami. E che queste leggi tendessero a sottrarre gli imputati a questo processo non lo dico io, né l’opposizione, ma autorevoli esponenti di Forza Italia. E siccome quelle leggi non sono bastate è arrivato il maxi-emendamento, con il progetto di modificare l’ordinamento giudiziario; e poi i 45 giorni di sospensione per decidere se accedere al patteggiamento allargato».

Lei ha passato 45 anni in magistratura. Era mai successo?

«No. Non c’è nella storia giudiziaria italiana un precedente di questo tipo. Nel '39, in pieno fascismo, c’era stata una circolare del ministro Grandi che invitava a non usare l’istituto della legittima suspicione per sospetto per «non ingenerare deplorevoli dubbi sull’imparzialità della magistratura» e «autorizzare il sospetto che si potesse alterare il corso della giustizia»».

Che costi ha avuto tutto questo?

«Il costo per la credibilità delle istituzioni è stato elevatissimo. Delegittimare il pm significava attaccare una parte, ma quando si sono attaccati anche i giudici è stato gravissimo. Per scongiurare i temuti effetti di una singola sentenza si è seminato il dubbio sull’imparzialità del giudice e, a cascata, sull’intero sistema: dai giudici d’appello fino a quelli delle sezioni unite della Cassazione».

L’onorevole Previti sostiene che si è solo difeso da un complotto e giudica questa sentenza una persecuzione.

«Previti ne ha dette di tutti i colori, la sua reazione è coerente con il comportamento che ha tenuto finora. Ma ha già risposto la Cassazione a sezioni unite e otto volte i giudici, sempre diversi, della Corte d’appello. Se avesse ragione lui, vorrebbe dire che la persecuzione è di tutta la magistratura».

Crede che dopo questa sentenza sia finita la guerra tra politica e magistratura?

«Secondo me sì. Seguirà una coda, una legge per concedere la sospensione dei processi in corso nei confronti delle più alte cariche istituzionali; così il presidente Berlusconi (imputato in un processo simile, quello per il caso Sme, ndr.) sarà sollevato dai suoi impegni giudiziari. E dopo, finalmente, si comincerà a occuparsi di giustizia. Lo sciopero annunciato dagli avvocati mi sembra un segnale molto forte, anche loro sono molto scontenti di quanto si è fatto finora. Spero davvero che adesso si volti pagina».

Martedì 17 B. degna il Tribunale d’un secondo show nel dibattimento Sme. Ventiquattr’ore dopo dall’alambicco della Camera bassa nascerà la legge che sospende i suoi processi. Parliamone. L’ordinamento è una piramide: tante norme situate a vari livelli, insegna Hans Kelsen, maestro della sintassi giuridica novecentesca; quelle al vertice fungono da tavola genetica, stabilendo come nascano le altre e a quali parametri ubbidiscano. Nell’art. 3 Cost., ad esempio, «tutti i cittadini (...) sono eguali davanti alla legge», indipendentemente dal rispettivo stato «personale e sociale»: tutti, nessuno escluso, dal povero diavolo al signore dell’etere, spaventosamente ricco, nella cui corte brulicano famigli, clienti, manovali, anche acquisisse alte dignità; eguale a tutti, subisce processi penali quando un pubblico ministero gl’imputi dei reati. Supponiamo che assemblee servizievoli, forti dei numeri, gli conferiscano uno status diseguale, d’immunità dalle macchine processuali: norma invalida, se la votano nei modi soliti; l’organo chiamato ad applicarla investe della questione la Corte competente e l’esito appare sicuro.

Non erano ipotesi scolastiche. Palazzo Madama fornisce esempi monstre, 5 giugno, emendando un ddl che attua scandalosamente l’art. 68 Cost.: del quale precedente testo bisognerà dire tutto il male che merita; l’idea risale alla Bicamerale d’infausta memoria; affiorano omertà trasversali. Gl’inquilini della Cdl v’innestano un art. 1: i cinque presidenti (della Repubblica, Senato, Camera, consiglio dei ministri, Corte costituzionale) godono d’un limbo finché durino i rispettivi uffici, anche sui fatti anteriori; sospesi i procedimenti «in ogni fase, stato o grado». Sono angeli? No, animali umani e «cittadini» eguali «davanti alla legge». Questo privilegio li discrimina invalidamente. L’art. 3 Cost. è derogabile solo attraverso norme pari rango: l’articolo votato da forzaitalioti e soci è legge comune; dunque, nasce morto. Non perdiamovi tempo, tanto salta agli occhi l’offesa al principio d’eguaglianza. Notiamo solo come la esasperino due aspetti. Primo, non esistono termini finali. Quattro dei predetti uffici sono indefinitamente reiterabili: in vent’anni, 1878-98, Domenico Farini risulta eletto presidente 4 volte dalla Camera bassa e 8 nel Senato; dal 1870 al 1898 Giuseppe Biancheri dura 14 anni sullo scranno più alto a Montecitorio, eletto 15 volte (erano congiunture mobili); Agostino Depretis presiede 8 gabinetti; Giolitti 5; Benito Mussolini governa 20 anni, 8 mesi, 25 giorni. Ora, processi sospesi sine die significano impunità se l’imputato fosse colpevole. Le norme incriminanti sono parole inerti fuori dal processo, l’ostacolo al quale diventa immunità penale

Altrettanto allarmante il secondo aspetto: gli augusti patres, blu, bianchi, ex-neri, scrivono: «Non possono essere sottoposti a processi penali» e nel lessico tecnico il nome indica la sequela d’atti aperta dall’imputazione; le indagini stanno fuori, ma l’interessato a schivarle sosterrà che la formula abbia senso lato. C’è una parola galeotta nel comma 2: quando parlano dell’intero processo, tecnicamente inteso, i compilatori dicono «in ogni stato e grado»; stavolta il binomio diventa trinomio, «ogni fase, stato o grado». Cosa succede quando bisogni acquisire prove non rinviabili? Ad esempio: la testimonianza del morente; l’atto ricognitorio che perderebbe gran parte del valore se fosse differito, essendo labili le impressioni mnemoniche; perizie la cui materia deperisca presto. In casi simili gli operatori usano l’incidente probatorio: atti istruttori anticipati, destinati a valere come fossero compiuti nel dibattimento; ma gl’incidenti probatori sono atti processuali, vietati nel comma 2. Altrove il caso è previsto: la sospensione non impedisce il compimento degli atti urgenti (artt. 47, c. 2; 70, c. 3; 71, c. 4; 344, c. 3). Gli artisti del tempo perso sfoderano un bolso latino: «ubi lex voluit, dixit»; e sapendo come, dove, a qual fine nascano certe meraviglie legislative, quel silenzio assume significati sinistri. A parte l’eguaglianza postulata nell’art. 3 Cost., esiste l’art. 112: «il pubblico ministero ha l’obbligo d’esercitare l’azione penale», regola necessaria al sistema, perché se la scelta d’agire o no fosse libera, i reati diventerebbero materia disponibile, con una virtuale impunità delle persone gradite ai dominanti; quel che invocano filosofi, cappellani, araldi berlusconiani, seguiti dagli opinanti pseudoliberali. L’art. 112 è una delle loro bestie nere.

Notiamo infine quanto poco generale e astratta sia la previsione. L’art. 1 contempla alti uffici: il presidente del Consiglio viene quarto ma l’utente del trucco è B.; se le cause milanesi fossero finite a Brescia, nessuno chiamerebbe alla ribalta i 5 presidenti. Come avviene da due anni, le Camere lavorano pro domino, tagliando leggi sulle sue abnormi misure. Dei santoni prestano viso e ugola alla farsa. Nasce morto il cosiddetto lodo e tale rimarrà a Montecitorio, mercoledì 18. I piccoli Tartufi acclamanti lo sanno: è tutto calcolato; lavora anche nelle Camere l’équipe cavillante alla quale il Boss, ciarliero, quindi spesso incauto, paga parcelle astronomiche mai sognate nell’avvocatura (lo racconta lui; ai bei tempi avvocati insigni, ancora attivi sui 90 anni, morivano quasi poveri: sia permesso nominarne due, Arturo Carlo Jemolo e Alfredo De Marsico). Passeranno mesi prima che la Consulta dichiari invalido l’art. 1: nel frattempo rivive l’immunità parlamentare, esumata dopo 10 anni con lievi varianti; e gloriosamente le due Camere ridiventano luogo d’asilo, dove i re del malaffare abbastanza abili da scegliersi la compagnia giusta, ne filano quanto vogliano, intoccabili. L’ostetrico del parto macabro assale un ex-Capo dello Stato e la ciurma blu ringhia a comando. Nelle stesse ore l’Immune proclama da Brescia che «rivisiterà» codici e ordinamento giudiziario. Traduco, caso mai qualcuno non capisse: vuole pubblici ministeri governativi agli ordini del castigamatti padano, giudici malleabili, procedure à la carte, sicché le condanne colpiscano solo i malvisti da chi comanda. Alla sera tiene filastrocche televisive un capovoga An, il cui partito 10 anni fa mandava alla lanterna i politicanti dalle mani sporche: i tribunali non interferiscano obliquamente nella cosa politica giudicando B., accusato d’essersi comprato delle sentenze; esiste un voto del popolo sovrano, ecc. Il meglio viene l’indomani, venerdì 6, quando Sua Maestà B., maglione da yachtman al collo, svela la seconda mossa: incidere organicamente nel sistema, varando l’immunità parlamentare su modello europeo; verrà utile agli oppositori, sogghigna, perché «modello europeo» significa apparati giudiziari comandati dal ministro. Sabato 7 celebra l’idea della pena inesorabilmente applicata a chiunque risulti colpevole. L’11 non l’aspettino nel dibattimento Sme, dove aveva annunciato dichiarazioni da scuotere l’asse terrestre: l’argomento non interessa più; dopo il Milan europeo la questione palestinese è l’ultimo «legittimo impedimento»; ormai ha uno scudo nel lodo. Povera giustizia, illo tempore corrotta sul Tevere, adesso strangolata e schernita tra Naviglio, Olona, Lambro. Più che gaffes da loquela sbracata, sono allusioni, avvertimenti, sberleffi (ha sotto mano gli specialisti, ghost writers e ventrìloqui). Siccome straripa, coatto a ripetersi, bisogna ridirglielo: lazzi simili hanno un nome tedesco, «Galgenhumor», umorismo da forca; già che ci siamo, gli rammento ancora il nome greco della soperchieria intollerabile dall’Olimpo, «pleonexìa». Spesso le metafore mitologiche mascherano fini analisi. Lasciamo stare gli dèi: esiste un sensorio collettivo; sinora l’ha addormentato a metà, ma è sicuro che l’anestetico lavori all’infinito?

Titolo a tutta pagina di quasi tutti i giornali: «Ciampi smentisce Berlusconi». Ovvero: il presidente della Repubblica, sulla cui lealtà, coerenza, rispettabilità non esistono né dubbi né riserve, è tirato ingiustamente in ballo. Dice il capo del governo: «Il Quirinale non critica la riforma tv». Tre ore dopo secca smentita e precisazione: «Non è vero niente, non ne abbiamo mai parlato». Addirittura. Si tratta dunque, scegliete voi il vocabolo che vi sembra più adeguato, di menzogna, frottola o più semplicemente di bugia? Tra i due personaggi di cui si discute, chi vi sembra il più credibile? Domanda legittima: ma il Berlusca, come lo chiamava Bossi, il pensatore della Lega, che concetto ha dei suoi compatrioti? E di questa nazione? Si è reso conto che quando entra a Palazzo Chigi non sta andando in ditta?

Gli americani, quando non danno credito a un individuo, dicono: «Comprereste un’auto usata da questo signore?». L’ Economist ha tracciato un ritratto poco lusinghiero di Berlusconi, confermando quello che modestamente sosteniamo da tempo: in lui non c’è affatto conflitto di interessi, perché pensa soprattutto al suo. Le sue aziende, i suoi soldi. È un caso, credo, unico al mondo: ha tre reti televisive, pari con quelle statali, la più forte casa editrice italiana, un quotidiano e un importante settimanale, e divide l’universo in due: o con me o contro di me. Non c’è da abbassare i toni, ma da stare zitti.

Non avete una idea di quali disponibilità al servilismo dimostrino gli estimatori, neppure ai tempi di Starace c’erano così clamorose e pubbliche dichiarazioni di devozione. C’è chi ha parlato non solo per sé ma per tutta la famiglia, nonni compresi. Con che faccia sorridente, per ispirare penso ottimismo, si presenta oggi il presidente del Consiglio, smentito senza equivoci o sfumature, da Ciampi? Chi deve credergli?

Non sarà forse che il gruppo Pearson, azionista di controllo dell'Economist, ce l'ha con Mediaset, magari perché il Biscione, che ha la maggioranza della spagnolaTelecinco, si oppone alla vendita di un pacchetto azionario detenuto dalla Dresdner Bank agli inglesi? O è tutta opera di Tana De Zulueta, l'ex corrispondente da Roma del settimanale britannico, che oggi siede come senatrice nei banchi dei Ds? Oppure, come ripetono dalla Fininvest, non si tratta che di «materiale di importazione» in cui si riconoscerebbero le «tesi colpevoliste» dei «professionisti dell'informazione ideologizzata specializzata in anti-berlusconismo»? E invece no, il dossier su Berlusconi del settimanale The Comunist (come lo definisce Nando Dalla Chiesa, quando fa la parodia del Cavaliere) non ha nulla a che fare con i complotti della finanza o le imboscate della sinistra. «Già a pensarla così, dimostrate di essere italiani», taglia corto il direttore Bill Emmett, che ha firmato la «lettera aperta» recapitata personalmente al presidente del Consiglio con qualche giorni di anticipo rispetto alla pubblicazione.

Al Riformista Emmett chiarisce innanzitutto che «le decisioni editoriali non sono mai discusse con i nostri azionisti, incluso il gruppo Pearson. Io ho tutto il diritto di prendere le mie decisioni in piena autonomia». Dunque la proprietà non c'entra, come non c'entra Tana De Zulueta. «Naturalmente abbiamo lavorato con fonti italiane», continua il direttore, «ma l'inchiesta è stata interamente gestita da Londra». A coordinarla è stato Tim Lackson, uno degli investigative reporter di punta del giornale, che parallelamente sta scrivendo un libro su Tangentopoli. «Quanto tempo ci abbiamo messo? Direi che abbiamo lavorato ininterrottamente sul tema dalla nostra prima inchiesta dell'aprile 2001 (quella della celebre copertina Fit to run Italy?, ancora oggetto di una querela per diffamazione, ndr), ma solo negli ultimi mesi abbiamo deciso di ricorrere alla forma di una lettera aperta». Emmett respinge ogni dietrologia: «Abbiamo pubblicato adesso il dossier semplicemente perché ci sentivamo pronti, perché avevamo delle notizie che ce lo consentivano». Ma a far scattare l'iniziativa è stato il lodo Maccanico: «Quando la legge sull'immunità ha messo fine alla possibilità che Berlusconi potesse rendere conto di tutti questi interrogativi davanti ad un tribunale, ci siamo convinti che sarebbe stata una buona idea fargli delle domande per mezzo di una lettera aperta». Una procedura insolita anche per l'Economist, che pure in passato aveva attaccato con inchieste al vetriolo capi di Stato come Boris Eltsin o Jacques Chirac. «Ma il caso di Berlusconi è diverso - insiste il direttore - perché nessuno prima si era messo al riparo dalla legge così come ha fatto lui». Dunque, anche tenuto conto degli standard di moralità italiani (che devono apparire assai bassi, giudicati da lassù), gli inglesi hanno ritenuto che la misura fosse colma e sono usciti con una nuova copertina sul Cavaliere (la seconda da maggio). Consultando ovviamente prima i loro uffici legali, che sono già impegnati in una causa per diffamazione a Roma, il cui esito è atteso per la fine dell'anno.

E nemmeno è esatto parlare di «materiale d'importazione», ribattono da Londra, perché almeno un elemento nuovo nel dossier dell'Economist c'è. Lo si individua alla quinta domanda, disponibile solo sul sito Internet del giornale (Your other trials), nel paragrafo dedicato ai processi per falso in bilancio, quando si scrive che l'avvocato londinese David Mills, contrariamente a quanto sostenuto nelle sue deposizioni ai magistrati italiani, avrebbe intrattenuto un rapporto professionale con la Fininvest già a partire dal 1980 (e non nel '89 o '90 come dichiarato sotto giuramento). In base ai registri camerali consultati dal settimanale, Mills avrebbe infatti iniziato in quello stesso anno a mettere in piedi una rete di società off-shore (come la All-Iberian) nota come «Fininvest-B», allo scopo di accantonare fondi neri, da impiegare successivamente anche per il pagamento di tangenti. Uno schema che tramite Mills e il suo mandante, Giancarlo Foscale, cugino di Berlusconi e manager della holding di famiglia, avrebbe sottratto oltretutto al fisco inglese tasse su utili lordi per 75 milioni di dollari, solo nel periodo '80-'87. L'avvocato Mills, in sostanza, a detta dell'Economist, sarebbe un evasore fiscale. Piccolo particolare: il legale è il marito di Tessa Jowell, ministro della Cultura di Tony Blair. Se l'accusa dovesse dimostrarsi vera, il premier inglese si troverebbe ancora di più sulla graticola. E forse è lui il vero obiettivo di questo attacco.

GIUSEPPE D’AVANZO

LE ULTIME parole di Ilda Boccassini sono un urlo alla luna nera, una protesta civile, il tentativo finale di proteggere almeno, soffocato il processo con una legge palesemente incostituzionale, la limpidezza del lavoro della procura di Milano, lo spirito di servizio e la correttezza degli addetti in toga e in divisa. Il pubblico ministero ha buone ragioni per farlo.

Appena qualche giorno fa. L’imputato Berlusconi entra nell’aula del suo processo con l’aria spavalda di chi è uso agli schermi e al riflettore. Libera il suo flusso verbale, accortissimo a tenersi lontano dalle circostanze, dalle testimonianze, dai documenti che lo indicano come corruttore di giudici.Accusa i magistrati, insinua trame e complotti, indica burattinai, dileggia testimoni. Può farlo a mano libera e senza timore perché è l’imputato e perché non accetta il contraddittorio. Promette al tribunale (e all’opinione pubblica) che tornerà in quell’aula «a dirne di altre», finalmente «nel merito». Quando lo promette, sa che non terrà fede alla sua parola perché la maggioranza ha già pronto un salvacondotto che non trova ostile l’opposizione né in dissenso il capo dello stato: e tuttavia, non è l’assenza (o la fuga) dell’imputato eccellentissimo dopo il j’accuse, come sembra pensare la Boccassini, l’epilogo di questo processo.

Il compimento s’era già consumato il 17 di giugno. È un’osservazione di Marcello Dell’Utri. «La scena con cui martedì si sono chiuse le "dichiarazioni spontanee" del presidente del consiglio sono l’immagine plastica della fine di una stagione. Berlusconi, che nell’aula magna del palazzo di giustizia di Milano risponde all’ultimo affondo della Boccassini: "Venga a Palazzo Chigi se crede, ora mi scusi devo andare a governare", è il segno che sul decennio giustizialista cala il sipario», (La Stampa).

Se lasciamo in un canto la rituale classificazione («decennio giustizialista»), Dell’Utri non ha torto. Quella rapidissima scena occorre imprimersela a fuoco nella memoria perché non chiude soltanto un decennio (e il tentativo di ripristinare il controllo di legalità sull’azione dei poteri pubblici e privati: questa è stata Tangentopoli) ma ribalta alla radice il tratto costitutivo della nostra repubblica. Riavvia il nostro futuro verso un passato storico che fu di Rousseau e dei giacobini per i quali «deve avere comunque l’ultima parola chi, in sede politica, è legittimato a rappresentare la volontà generale». Ecco allora il significato di quell’immagine che chiude il processo di Milano. Berlusconi non accetta di farsi processare come un cittadino qualunque perché non si sente un cittadino qualunque. Egli è un potere, anzi il potere. Lo incarna perché rappresenta il popolo sovrano, la sua volontà e il suo interesse. Egli, come Rousseau, come Saint Just e Robespierre, pensa che il potere debba essere, sia uno. Crede che l’unicità di quel potere sia custodita dal potere politico, il solo potere legittimato mentre gli altri poteri, quando non sono funzioni amministrative, si definiscono al più eccezioni o supplenze. È l’onnipotenza della politica come versione moderna della sovranità del principe.

Quest’idea "istintiva" del signore di Arcore ("istintiva" perché tutta iscritta nel codice genetico del suo animal spirit) è apparsa all’inizio di questa avventura la pretesa stravagante (arrogante? ingenua?) di un parvenu della democrazia. Ora che quella convinzione è stata codificata in una legge che ne riconosce l’intangibilità; ora che alla luce del sole il sistema istituzionale gli ha dato il via libera fermando la mano del giudice, va preso molto sul serio Giuliano Ferrara quando annuncia la nascita della «terza repubblica» e scrive dell’immunità firmata da Ciampi come di «un atto rifondativo del primato della democrazia e della politica dopo dieci anni di veleni di interdizioni».

La notizia, come si dice, è la riproposizione del «primato della politica» come fondamento della democrazia italiana o della "democrazia berlusconiana", e non è una buona notizia. Come è evidente, non parliamo più di un processo o di un imputato che è anche capo del governo né di pubblici ministeri e di procure, di mani pulite e di baratti giudiziari. Quel che appare a chi governa addirittura «un atto rifondativo» è l’epifania di un nuovo sistema politico che ha al suo centro un convincimento vecchio di tre secoli - la concezione "assolutista" della politica - che, se ha ragione Jacob L. Talmon nelle «Origini della democrazia totalitaria», ha ispirato le ideologie e i regimi totalitari del Novecento: la sovranità popolare come potere primigenio e illimitato di fronte al quale ogni altro deve cedere, un potere che non tollera limiti e contrappesi. E’ un’idea che annichilisce quella che Giuliano Amato ricorda essere «la concezione lockiana della divisione dei poteri, quella all’interno della quale i poteri sono davvero plurali, l’uno non dipende dagli altri e c’è una legge superiore (la Costituzione)». In questa architettura liberale, al contrario di quanto annuncia Giuliano Ferrara, i poteri sono distinti ed equiordinati, non esiste una primazia dell’uno rispetto agli altri perché sono collocati in ambiti diversi.

Ci saranno i tempi, i modi e le intelligenze per riflettere dalle colonne di questo giornale sul ripiegamento giacobino della nostra democrazia, quel che qui si vuole osservare è che quell’idea di «primato della politica» non nasce con Berlusconi, ma è nel cuore stesso della cultura politica del nostro Paese e l’attraversa a destra, come a sinistra. Che cosa fu la Bicamerale, presieduta da Massimo D’Alema, se non il tentativo esplicito e risoluto di restituire alla politica (a chi governa) quel che sembrava fosse andato perduto nel crollo della "prima repubblica"? E non fu quello il tentativo di trovare «la via per condurre i magistrati all’allineamento alla law making majority» (Stefano Rodotà)? Non è negli anni del centro-sinistra (1996/2001), e sempre in ossequio a un ambiguo «primato della politica», che non venne affrontata la crisi delle garanzie che affligge il nostro sistema politico innovato dal maggioritario? Quell’«atto rifondativo», che è la morte del processo di Milano e la legge di immunità/impunità per Silvio Berlusconi, non è un fiore nato nel deserto. E’ un pensiero di fondo di cui la cultura politica italiana non riesce a liberarsi. E non riuscirà mai a disfarsene, soprattutto nell’opposizione di sinistra, «mostrificando» Berlusconi senza ripensare con critica severità alle proprie antiche e pericolose convinzioni, a quella tentazione giacobina che l’ha affascinata fino ad ieri. E che oggi, per mano della destra, diventa governo, metodo, cultura e addirittura legge.

ROMA - Secondo i suoi portavoce, Silvio Berlusconi non risponde alle domande dell’Economist perché «ha altro da fare» e «non ha tempo». Strano, perché ha avuto quindici anni per farlo: davanti agli elettori, ai pm, ai giudici, alla stampa, all’Europa. Invece niente, nessuna risposta. Non ha tempo, o magari non può?

La villa. «Pensa che la signora Casati Stampa abbia concluso un’equa transazione per villa San Martino e i terreni di Cusago?» . Nel 1975 la marchesina Annamaria Casati, orfana e minorenne, assistita dal pro-tutore Cesare Previti, cede a Silvio Berlusconi la villa e la tenuta di Arcore a un prezzo irrisorio. Per giunta non in contanti, ma in azioni di una società non quotata. Si scoprirà poi che Previti era contemporaneamente prestanome di Berlusconi in un paio di società. Nel '94 l’Espresso sbatte la storia in copertina: «La grande truffa». Previti chiede 2 miliardi di danni. Il Tribunale di Roma dà ragione all’Espresso: è tutto vero.

Le holding. «Chi versò 16,94 miliardi nella Fininvest Srl come prestiti agli azionisti negli anni 1977-78 e da dove veniva il denaro? E perché lo fece in 25 tranche in 20 mesi?». Queste e altre domande i pm e i giudici del processo Dell’Utri, in trasferta da Palermo a Palazzo Chigi, intendevano rivolgergli il 26 novembre 2002. Ma il premier si avvalse della facoltà di non rispondere. Idem sulla presenza per due anni in casa sua del boss Vittorio Mangano, inopinatamente scambiato per uno stalliere o un «fattore». Le operazioni di finanziamento e capitalizzazione delle 22 holding «Italiana» che controllavano Fininvest sono oggetto delle famose perizie del vicedirettore della Banca d’Italia di Palermo Francesco Giuffrida al processo Dell’Utri: «si ignora la provenienza» di 99 miliardi (pari a 6-700 oggi) entrati nelle holding nel quinquennio 1978-’83, almeno 14 dei quali in contanti. Lo stesso consulente della difesa Dell’Utri, professor Paolo Jovenitti, dopo aver sostenuto che a finanziare Berlusconi era Berlusconi, ha dovuto ammettere che alcune operazioni «potremmo definirle non trasparenti». E che il Cavaliere non gli aveva trasmesso le carte sui movimenti finanziari dal 1975 al '78 («non ne ero al corrente»). Tre anni di omissis. La Procura sostiene che i miliardi provenivano da Cosa Nostra, come raccontano il pentito Di Carlo e il finanziere Rapisarda. Le operazioni «anomale», dicono i pm, sarebbero servite a far perdere le tracce del riciclaggio del denaro sporco.

La P2. «Perché ha mentito sulla data di affiliazione alla loggia P2?». Nel '90 Berlusconi fu riconosciuto colpevole di falsa testimonianza (e salvato dall’amnistia) per aver giurato di essersi iscritto alla P2 «poco prima dello scandalo» (1981), mentre la sua tessera risale al 1978. Senza la P2, non avrebbe mai ottenuto enormi favori e prestiti da Bnl e Montepaschi, due istituti che – denunciò la commissione Anselmi - gli garantirono «appoggi e finanziamenti al di là di ogni merito creditizio». Non solo. Nel 1979 una pattuglia della Guardia di Finanza ispeziona l’Edilnord, scoprendo tracce di irregolarità valutarie. Berlusconi, il titolare, si spaccia per un «semplice consulente» . Il blitz si conclude in meno di un mese: nulla di fatto. Pochi mesi dopo, il caposquadra, colonnello Gallo, entra nella P2, mentre l’altro sottufficiale, il capitano Berruti, lascia le Fiamme Gialle per diventare avvocato nello studio Carnelutti. Lavorerà per la Fininvest, specializzato in società off-shore. Sarà condannato per favoreggiamento nelle mazzette alla Guardia di Finanza.

Mister Mills. «Con che frequenza, se mai l’ha fatto, ha parlato con Mr. Mills?». David Mills è un avvocato d’affari londinese, marito di una ministra del governo Blair, grande architetto della finanza estera Fininvest. Anche lui lavorava per lo studio Carnelutti. Sentito l’11 marzo al processo Sme, assicura di aver lavorato per il Biscione «solo dopo il 1989». E poi: «Berlusconi lo conobbi nell’estate '95 nella villa di Arcore per consigli legali». L’avvocato Pecorella esulta: «Visto che la Procura ci contesta corruzioni giudiziarie estero su estero fino al 1991, vuol dire che Berlusconi non c’entra». Ora però l’Economist scopre che Mills costituiva società per conto della Fininvest fin dal 1980. Bugie che minacciano di danneggiare il Cavaliere, ma anche Mills, che rischia un’indagine fiscale nel suo paese.

All Iberian. «Quanto sapeva della rete off-shore della Fininvest?» . Nel 1998 Berlusconi dichiara: «Di All Iberian non so nulla» . Ma per il Tribunale (condanna), la Corte d’appello e la Cassazione (prescrizione), il Cavaliere mente: fu con il suo «rilevante concorso» che, nel 1989-’91, All Iberian versò 23 miliardi al conto «Northern Holding» di Craxi. La stessa All Iberian usata, secondo il pool, per pagare i giudici.

La medaglia. «Perché lei meriterebbe una medaglia d’oro?». Berlusconi l’ha chiesta «per aver fatto risparmiare 2000 miliardi allo Stato sventando la svendita della Sme a De Benedetti per un quinto del valore. Una rapina!». Ma la Sme, secondo i suoi stessi alleati Barilla e Ferrero, valeva non più di 470 miliardi. L’Iri ne chiese all’Ingegnere 497. Berlusconi, tramite l’avvocato Scalera amico di Previti, rilanciò offrendo appena il 10% in più (550). Rapinatore anche lui? Economist, la Fininvest contrattacca

di Andrea GagliardoROMA - Il dossier dell´Economist ha lasciato il segno. L´inchiesta contro Berlusconi è su tutti i giornali, ma il premier si trincera nel no comment. Non ha nulla da aggiungere a quanto già aveva riferito il portavoce Paolo Bonaiuti: «L´Economist lo leggeranno gli avvocati del premier».

Il presidente del Consiglio non ha nessuna voglia di entrare nel merito e di rispondere alle 28 domande del settimanale della City. Preferisce la via giudiziaria. I suoi legali stanno curando i dettagli dell´azione penale. Sono al lavoro per identificare i presunti aspetti diffamatori del dossier. In sede civile si ipotizza poi una citazione per danni, probabilmente presso il tribunale di Roma. Il settimanale inglese si accinge così a ricevere la seconda querela per diffamazione da parte di Berlusconi. La prima seguì all´articolo dell´aprile 2001, che aveva definito il premier «inadatto a guidare l´Italia».

L´ufficio legale della Fininvest è durissimo. Respinge tutte le accuse e in una nota dà per scontato un «esito giudiziario» di quella che viene definita una «deprecabile e sedicente inchiesta giornalistica», ennesimo episodio di «una campagna ostile e tutta politica nei confronti di Berlusconi». Campagna basata su «materiale d´importazione, rubato dalla vasta pubblicistica anti-berlusconiana che da anni tiene banco in Italia».

«Quella lanciata dal dossier dell´Economist - prosegue la nota Fininvest - non è una sfida all´on. Berlusconi, bensì una sfida alla verità dei fatti e alla decenza giornalistica». Tanto che saremmo di fronte «alla caduta di un mito del giornalismo internazionale».

Sul fronte politico l´opposizione si gode il clamore suscitato in tutta Europa dal dossier. Tacciono An, Udc e Lega. Forza Italia riarruola invece certa stampa estera tra i «detrattori a prescindere». La difesa d´ufficio del premier è affidata a Renato Schifani. Il capogruppo forzista alla Camera spara a zero e accusa l´opposizione di essere corresponsabile del «violento scontro socio-politico in atto, con le sue delegittimazioni totali dell´avversario, consumate anche attraverso un inaccettabile uso politico della giustizia e la connivenza di certa stampa estera, come l´Economist».

«Fino a questo momento nella Repubblica-Berlusconi è valsa solo una regola: diventa legge solo ciò che può servire al piccolo uomo alto un metro e sessantaquattro ma con un grande Ego. Tutto ciò che disturba, deve scomparire. Berlusconi era entrato in politica per risolvere, lo dice lui stesso, tutti i suoi problemi giudiziari e finanziari. E lui lo fa in un modo che finora in una democrazia europea non era nemmeno immaginabile. L’Italia viene smontata e ricostruita secondo le esigenze del suo capo di governo. Della divisione

«Il suo partito Forza Italia, un urlo usato per incoraggiare la squadra di calcio italiana, è la più grande forza in Parlamento. Pende dalle sue labbra. L’ha fondato sul modello di un’azienda, tant’è che molti deputati di Forza Italia sono stati scelti tra i suoi consiglieri personali. Non era nemmeno arrivato al potere, che già pensò di fare ordine in Rai. Tutti i critici di Berlusconi furono allontanati, perché rei di aver fatto, secondo Berlusconi, un «uso criminoso» della televisione. (cita poi il caso Biagi, ndt)

«A gennaio il Consiglio europeo, dopo che un gruppo di esperti avevano preso in esame il caso Italia, aveva constatato: Il conflitto di interesse tra il ruolo politico di Berlusconi e i suoi interessi privati nel campo dei media, è una minaccia al pluralismo dell’informazione.

Martedì prossimo quest’uomo guiderà per sei mesi la presidenza del Consiglio dell’Unione europea. L’Europa lo accetta in silenzio, imbarazzata e tutto al più solo nelle stanze chiuse della politica critica il fatto che tocca al “Lider Maximo” del Tevere, essere per sei mesi “Mr. Europa”. Occhi chiusi e via, questo è il motto dei suoi 14 colleghi europei. Perché ciò che irrita i suoi colleghi europei non è solo la sua quantità di potere, il fatto che lui, il padrino delle politica italiana, smonta e usa per il suo bisogno la repubblica romana, ciò che rende davvero nervosi i principali leader europei è l’umiliante consapevolezza di essere rappresentati da qualcuno che molti europei molto semplicemente considerano un imbroglione».

«Perché nonostante Berlusconi senta su di sé il “profumo di santità”, la sua carriera fin dall’inizio è stata in penombra. (Elenca tutti suoi guai giudiziari avuti con la giustizia italiana e internazionale, ndt). Non c’è dubbio che Berlusconi abbia vinto democraticamente le elezioni. Berlusconi ha talento per la messinscena politica. Giorno per giorno fino ad oggi, è stato il regista e il protagonista principale del Berlusconi-Show: re Silvio, il buon padre, l’imprenditore di successo, l’avvocato di tutti gli italiani». «Anche con i suoi colleghi internazionali ci tiene a fare bella figura. È piaciuto all’istante per esempio al presidente americano George W. Bush, così come è piaciuto al russo W. Putin. Racconta barzellette, suona il piano, canta, prende tutti sotto braccio e li assicura, “sono il vostro migliore amico”.

...«Non è un segreto per nessuno cosa pensa Prodi del prossimo presidente di turno dell’Ue. Lo considera pericoloso. Durante la preparazione della presidenza italiana, prendendo parte alla guerra in Iraq, andando in Medio Oriente quasi in missione per conto di Bush, Berlusconi si è allontanato in maniera eclatante dalle decisioni dell’Unione europea, in un modo che non ha paralleli nei 50 della storia della comunità europea. I colleghi di Berlusconi non sono così entusiasti dei prossimi sei mesi della sua presidenza. Chirac considera il premier italiano un “pallone gonfiato”. Secondo lui, l’Italiano ha dei problemi con il proprio ego. Tant’è che da quando Berlusconi è al governo le relazioni tra Francia e Italia, sempre serene, sono diventate di colpo più fredde. A Berlino invece si guarda all’Italia come un paese con delle inclinazioni anti-europee. Ai diplomatici tedeschi, rimasti anonimi, si sente dire che in questo momento “non è tanto semplice avere a che fare con gli italiani”. Molto meglio è visto Berlusconi invece a Londra». «Ciò che di Berlusconi irrita Bruxelles non è il fatto che lui difenda a spada tratta gli interessi italiani accorpando cose che non hanno a che fare l’una con l’altra, minacciando poi il veto. Quanto soprattutto il fatto che lui costringa i capi di Stato e di Governo, ad un vertice peraltro sull’Iraq, di parlare delle quote latte e inscenare uno show quando l’olandese Balkanende cerca di difendere gli interessi dei propri contadini: tutto ciò fa venire dei dubbi se Berlusconi sia davvero in grado di tenere una presidenza imparziale».

MILANO - E’ durato tanto il processo sulla presunta compravendita delle sentenze Imi-Sir e Lodo Mondadori. Sicuramente troppo. Ma i tre anni trascorsi tra la prima udienza e la sentenza sono stati rosicchiati da interi mesi di sospensione imposti da impedimenti degli imputati e nuove leggi varate dal Parlamento. I giudici del tribunale di Milano se ne rammaricano, perché un dibattimento così lungo contrasta con la «ragionevole durata» prevista dalla Costituzione. E però, aggiungono, i tempi morti sono serviti a studiare fin nelle virgole le migliaia di documenti portati da accusa e difesa, «fino all’ultima ora dell’ultimo giorno». Giungendo al risultato che quella compravendita di sentenze non è più presunta, bensì «documentalmente provata». Per i giudici «si può concludere che sia stato un bene» poter usufruire dei rinvii, mentre per gli imputati sembra una sorta di contrappasso: se pensavano che tirarla per le lunghe li avrebbe aiutati, ora si scoprono incastrati da «prove» che la Procura non aveva visto o ben valutato, e che il tribunale ha avuto tempo e modo di scovare tra montagne di carte.

Arrivando a stabilire che due magistrati romani e un gruppo di «avvocati d’affari» di cui fa parte il deputato di Forza Italia ed ex ministro Cesare Previti sono stati protagonisti della «più grande corruzione nella storia dell’Italia repubblicana», simbolo del «degrado della Giustizia (la maiuscola è degli estensori della sentenza, ndr) che da cieca fu trasformata in "giustizia ad uso privato"». Giacché è dimostrato, secondo il tribunale, che un giudice ha venduto le cause Imi-Sir e lodo Mondadori «alla parte Sir di Nino Rovelli e a quella Fininvest di Silvio Berlusconi, dietro pagamento di denaro».

I motivi di una simile certezza sono racchiusi nelle 536 pagine della sentenza. Ma prima di esporre le «prove» raccolte in tre anni, a cominciare dalle bozze preparatorie dei provvedimenti giudiziari sull’Imi-Sir trovate negli studi degli avvocati, i giudici hanno voluto inserire una premessa che suona come uno scatto d’orgoglio in difesa della toga che indossano. «Questo Tribunale - scrivono a pagina 2 - è stato oggetto delle "critiche" più aspre e delle accuse più gravi, dentro e soprattutto fuori dall’aula; fino a quella più infamante per un giudice, di essere non al servizio della legge ma al soldo di una parte politica. Accuse che mai un organo giudicante ha dovuto sopportare "in corso d’opera"». Per tre anni il presidente Paolo Carfì e i giudici Enrico Consolandi e Luisa Balzarotti non hanno replicato a invettive e sospetti. Tacere era un «assoluto dovere», spiegano oggi, perché «per un Magistrato (anche qui la maiuscola è degli autori, ndr) la sede istituzionale ove rispondere a "critiche" e accuse è la motivazione che solo, condivisa o meno che sia, può dar conto dell’onorabilità di un Tribunale della Repubblica». Come dire che la replica a tutte le grida di illegalità e parzialità sta nel frutto del lavoro che è ora a disposizione di chiunque voglia guardarlo e giudicarlo. Con l’aggiunta che il tribunale resta «aperto alle più serie critiche che si vorranno muovere», laddove il «serie» sembra escludere i prevedibili e generici attacchi sul «teorema politico» che già ieri sono cominciati a piovere sulla sentenza. Da alcuni imputati e non solo, per le evidenti ripercussioni di un processo che vede alla sbarra un ex ministro e dal quale l’attuale presidente del Consiglio è uscito prima del dibattimento grazie alla concessione delle «attenuanti» e alla prescrizione.

Nel ripercorrere le vicende della sentenza Imi-Sir che diede ragione a Rovelli nella controversia con lo Stato, il tribunale ritiene di aver accertato che non solo un verdetto fu comprato da Rovelli stesso tramite gli avvocati di cui s’è servito (Previti, Pacifico e Acampora) e venduto dal giudice Metta, ma che pure passaggi intermedi come la consulenza d’ufficio sul valore della Sir sono sospetti di «aggiustamenti». Nuove indagini potranno scaturire da questo e altri particolari, a conferma del motivo per cui la Procura ha tenuto aperto l’ormai famoso fascicolo 9520/95: attendere che dal dibattimento emergessero ulteriori spunti investigativi. E se il dibattimento è durato tre anni, come hanno sottolineato i giudici, le responsabilità vanno cercate altrove.

Anche nella disputa sul lodo Mondadori - dov’è nuovamente coinvolto il giudice Metta, il quale «si apprestava a relazionare quando ancora non aveva finito di depositare nei suoi conti correnti il prezzo della compravendita della causa Imi-Rovelli» - il tribunale ritiene di aver ricostruito «un quadro che definire gravemente indiziante è dire poco». Arrivando alla conclusione che tre miliardi di lire versati nel ’91 su un conto estero di Previti altro non siano che la «"provvista" pagata dalla Fininvest di Silvio Berlusconi per regolare rapporti di natura illecita (corruzione del giudice Metta) strettamente connessi alla causa Mondadori».

Dal conto di Previti sono poi partiti i soldi per i magistrati corrotti, sostiene il tribunale che ha analizzato tutte le tesi difensive dell’ex ministro ritenendole infondate una a una. Attirandosi ulteriori attacchi (in parte già giunti a destinazione) dall’imputato, dai suoi difensori e dai suoi colleghi di partito. Ma all’accusato più noto, replicano i giudici, è mancato l’aiuto più importante: «Forse un contributo di chiarezza sui rapporti anche economici tra l’imputato Previti e il gruppo Fininvest poteva essere dato dal "dominus" del gruppo, Silvio Berlusconi. Ma il presidente del Consiglio, dopo aver concordato con il tribunale, tramite i suoi avocati, la data dell’esame previsto a palazzo Chigi, comunicava il sopravvenire di un impedimento per quella data, e contestualmente manifestava la volontà di avvalersi del diritto di non rispondere».

NELLA sua deriva ogni giorno più tragica e inarrestabile, Silvio Berlusconi ieri è andato a sbattere contro lo scoglio dell’Europa, trascinato dalla sua mancanza di cultura istituzionale, da quel dilettantismo che tanto piace in Italia, con i muscoli che sostituiscono la competenza, dall’incapacità politica e più ancora morale di rispondere alle accuse che riguardano il clamoroso conflitto d’interessi di cui è insieme prigioniero e beneficiario. È come se tutto il castello posticcio costruito in questi anni attorno a una leadership fortissima sul piano elettorale, e fragilissima sul piano politico, fosse crollato di colpo, appena investito dal vento dell’opinione pubblica europea, fuori dalla campana di vetro domestica, dentro la quale il dominio proprietario sui media e su pezzi interi di società politica consente alla realtà virtuale del berlusconismo di galoppare all’apparenza indisturbata. Il risultato è drammatico per il presidente del Consiglio, squalificato dalle sue stesse parole nella solenne seduta del Parlamento europeo, che non aveva mai udito nulla di simile: tanto che si può considerare la data di ieri come l’inizio ufficiale del declino del Cavaliere.

Ma insieme, il risultato è amarissimo per il nostro Paese, che paga un prezzo ingiusto e sproporzionato agli errori e alla natura di Berlusconi, precipitando nel girone infernale dei Paesi europei sotto osservazione, per colpa di una leadership che costituisce un’eccezione assoluta nell’intero continente.

Il semestre di guida italiana della Ue rappresentava un’occasione irripetibile per l’Italia e per il suo premier. Riflettiamoci un momento.

Paese fondatore dell’Unione, schierato per tutto il dopoguerra a fianco dell’America ma solo e sempre passando attraverso la costruzione continua dell’Europa, unendo De Gasperi e Spinelli, l’Italia aveva l’opportunità di tentare in prima persona una ricucitura tra europei e americani, dopo lo strappo della guerra. Poteva farlo per i buoni rapporti che Berlusconi ha costruito con Bush da un lato, e per il suo ruolo storico europeo dall’altro.

Di questa grande operazione avrebbe potuto giovarsi - insieme con tutti i soggetti politici del nostro continente - in particolare il presidente del Consiglio, che aveva un bisogno disperato di legittimazione internazionale, dopo la condotta erratica della sua politica estera, le improvvisazioni ai vertici, il velleitarismo da piccola superpotenza mediatrice e arruffona, la mancanza di uno standard da statista riconosciuto.

In più, una forte, convinta e trasparente legittimazione in Europa avrebbe aiutato Berlusconi anche in Italia, dove la sua politica e il suo programma dopo due anni arrancano visibilmente. Ecco perché il presidente Ciampi aveva sottolineato più volte l’importanza di questo appuntamento casuale (perché fissato dalla turnazione semestrale) ma cruciale. Conosceva il rischio, che da oggi potremmo a ragione chiamare «fattore B», ma vedeva anche l’opportunità: fissare finalmente una netta linea d’azione europeista per l’Italia, capace di confermare il successo ottenuto con l’aggancio dell’euro in condizioni difficilissime, e di cancellare quell’antico pregiudizio anti-italiano che riaffiora implacabile in ogni momento di debolezza della nostra immagine e della nostra politica.

Il semestre italiano ha invece spazzato via in una sola giornata - la prima - tutte le straordinarie opportunità che l’Europa ci offriva, ed è naufragato all’istante in una vera e propria crisi internazionale, con almeno tre fronti aperti: il primo è la «grave offesa» da parte di Berlusconi all’Europarlamento, come ha dovuto denunciare ieri sera il presidente Cox. Il secondo è la frattura con la Germania per l’incredibile insulto (Kapò) lanciato dal premier italiano a un deputato socialdemocratico tedesco che gli aveva rivolto critiche politiche, con il governo di Berlino che in una nota ufficiale ha giudicato «inaccettabile» il comportamento del nostro presidente del Consiglio. Il terzo è la polemica con il gruppo europeo dei socialisti e più in generale con le sinistre che contestavano l’incredibile dichiarazione del Cavaliere secondo cui il conflitto d’interessi non esiste «perché le mie televisioni mi criticano». C’è poi un quarto fronte, quello degli alleati italiani di Berlusconi, e da ieri è il fronte della disperazione. Bastava vedere l’incredulità sui volti dei ministri Frattini e Buttiglione, seduti sulle spine alle spalle del Cavaliere, mentre lui spiegava che «sono solo tre» le leggi da lui stesso varate in suo favore. E soprattutto, bastava vedere la disperazione di Gianfranco Fini - che sa da dove viene, lui e il suo partito - mentre Berlusconi attaccava il tedesco Schultz offrendogli una parte da kapò in un documentario che le televisioni stanno preparando «sui campi di concentramento nazisti». Questa volta, Fini racconterà al suo partito in subbuglio ciò che gli è toccato ascoltare e vedere a Strasburgo. E da ieri, l’uscita di An (o almeno del suo uomo simbolo, il vicepresidente) dal governo, è qualcosa di più di una minaccia.

Verrebbe da chiedersi: com’è potuto accadere tutto questo, dove nasce il cupio dissolvi del Cavaliere, perché nessuno si è preoccupato di gestire, occultare, educare gli spiriti animali che dominano il presidente del Consiglio in questa fase? Com’è possibile che in quegli staff e tra quei consiglieri nessuno abbia avvertito il premier della dogana politica e morale che corre tra l’Italia berlusconiana di oggi e l’Europa? Che nessuno abbia capito che la mistificazione e la dissimulazione propagandistica che sono la regola nell’Italia delle sei televisioni del re, non hanno corso in Europa, dove esiste una libera stampa, dove valgono regole precise e comuni, dove c’è un’opinione pubblica non ancora mitridatizzata da opinion leader compiacenti? L’Europa, oggi, è il Paese dei parametri di Maastricht, delle regole e dei comportamenti, più che di una politica e di una politica estera: come si può pensare di farla franca con il conflitto d’interessi che configura un improprio accumulo di «potere economico, mediatico e politico» (come ha detto ieri il socialista Baron Crespo) e sfocia addirittura nell’abuso delle leggi su misura confezionate dall’imputato-presidente per sfuggire al suo giudice? Eppure, anche se avevamo avvertito che l’Europa è il tallone d’Achille del Cavaliere, che la platea europea è diversa dal teatrino addomesticato italiano, che i giornali stranieri giudicano l’anomalia berlusconiana per quello che è, a differenza dei giornali italiani, non ci aspettavamo che lo scontro avvenisse così presto, con questo fragore, e con queste dimensioni.

Berlusconi è andato incontro al più clamoroso incidente di politica estera della storia repubblicana come se dovesse compiere il suo destino, citando Erasmo da Rotterdam, attaccando ancora giudici e comunisti, come in un’ossessione devastante, quasi non sapesse più distinguere la sua stessa finzione dalla realtà. La scena era politicamente crudele: il Capo di un governo europeo, nel momento solenne in cui assumeva la sovranità delegata della guida dell’Unione, riusciva a mettersi contro il Parlamento di Strasburgo, e davanti alle critiche reagiva con toni da gazzarra come in una riunione notturna di partito dopo che si sono perse le elezioni, con modi, linguaggio, immagini del tutto improprie per la seduta e per l’occasione.

L’impotenza dei suoi alleati al fianco è la controprova di una leadership assoluta, sciolta da ogni vincolo, anche quello del buon senso politico. Una leadership che è puro istinto e pura forza (gli "attributi" di cui ha parlato ieri la Lega plaudente) nella convinzione che il berlusconismo allo stato puro, se può dispiegarsi liberamente, sia sempre vincente.

L’incidente non nasce dunque dal caso, ma è figlio di una cultura, che determina una politica. È la cultura, oggi vincente in casa Berlusconi, dei "toni forti", con l’intimidazione degli avversari, gli insulti, la spallata, un misto di dilettantismo e di forza, nell’illusione rivoluzionaria di vivere ogni momento come passaggio di una sfida epocale, fuori dalla mediocrità della politica, ma dentro l’epica populista di un’avventura mitologica, con il Cavaliere invincibile alfiere della libertà in un Paese dominato da comunisti e agenti del male che congiurano contro il bene supremo, coincidente col dominio berlusconiano. C’è, in questo paesaggio politico fittizio, la rinuncia al vero compito politico supremo del Cavaliere, la missione necessaria e tuttavia già fallita, dopo la vittoria elettorale: fondere le diverse anime errabonde delle diverse destre italiane (postfascisti, leghisti, forzisti, ex democristiani) in una moderna cultura conservatrice europea per un Paese che non l’ha mai avuta.

No. Ormai è chiaro che il berlusconismo fa vincere elettoralmente la destra, ma poi la tiene prigioniera di una sub-cultura muscolare e gridata, anti-istituzionale, miracolistica, titanica e populista: una cultura che è fuori dall’Europa, e trascina tutta l’Italia in questa triste posizione pre-politica, marginale, autarchica e solitaria. Una posizione tragica per un Paese come l’Italia, trascinata dal Cavaliere nel suo stesso declino. Un declino che si annuncia terribile, se il senso dello Stato e delle istituzioni è quello mostrato ieri a Strasburgo.

Berlusconi, lite a Strasburgo

La cronaca del primo scontro tra B. e l’Europa, firmata da Gianluca Luzi per la del 3 luglio 2003

STRASBURGO - «Signor Schulz, so che in Italia c’è un produttore che sta montando un film sui campi di concentramento nazisti. La suggerirò per il ruolo di kapò. Lei è perfetto». Parlamento europeo, mezzogiorno. Berlusconi replica agli interventi degli europarlamentari e al capogruppo socialista tedesco Martin Schulz, che nel suo intervento lo aveva aspramente criticato per le vicende giudiziarie e per la politica sull’immigrazione, Berlusconi risponde con una offesa che è apparsa così intollerabile da costringere il presidente del Parlamento europeo Cox a intervenire e chiedere di cancellare la frase dal verbale della seduta.

Inutilmente, per tutto il giorno, e anche nella conferenza stampa che ha seguito lo scontro in aula, Berlusconi ha cercato di minimizzare l’incidente derubricando l’offesa a «una battuta ironica in risposta a una provocazione che offende me e tutti gli italiani che mi hanno votato». Non c’è stato niente da fare: il capo del governo non ha presentato ufficialmente le sue scuse, «non ci penso nemmeno. Mi scuso con chi non ha capito che era una battuta, anche con il popolo tedesco, ma non con chi mi ha provocato», e ha insistito nella sua tesi: «Il Signor Schulz con il suo gesticolare mi ha ricordato l’attore di una serie tv che faceva quella parte. Era solo una battuta ironica». Anzi, per spiegare che voleva scherzare, Berlusconi ha anche spiegato agli esterefatti parlamentari popolari che «in Italia tengono banco da decenni storielle sull’Olocausto. Gli italiani sanno scherzare sulle tragedie per superarle e forse non abbiamo la sensibilità che avete voi in Germania».

Comincia così, in modo certamente insolito per gli standard dell’Unione Europea, il semestre di presidenza italiana. E quasi a confermare le perplessità della stampa di mezzo mondo, l’esordio di Berlusconi è andato al di là della più sfrenata e pessimistica previsione. Ha incassato - è vero - le congratulazioni arrivate molto provvidenzialmente dal presidente americano Bush, ma le espressioni del vicepremier Fini e del ministro per i rapporti europei Buttiglione fotografavano con spietata sincerità l’imbarazzo per l’incidente. E pensare che alle nove passate da pochi minuti Berlusconi aveva cominciato la sua presidenza europea con un discorso dai toni quasi «ciampiani». Senza asprezze, ma anzi con una grande attenzione per la «mediazione» allo scopo di varare la Costituzione europea.

Poi, dopo un paio d’ore di interventi dei rappresentanti dei vari gruppi, la tempesta. Se in apertura di seduta Berlusconi aveva letto un testo scritto, nella replica ha parlato a braccio. E i segnali che stava per cambiare tono si sono avvertiti subito. Ancora una volta la giustizia è stato il drappo rosso di fronte al quale ha caricato a testa bassa. Con una importante ammissione, per la prima volta. Rispondendo alle critiche sulle leggi ad personam approvate in Italia, ha detto: «Quei tre disegni di legge sono stati la risposta, con gli strumenti della democrazia, un voto parlamentare, a chi invece profitta del suo ruolo di funzionario della giustizia per attaccare con la giustizia dei nemici politici». Comunque «è stato fatto soltanto in tre casi».

Cresce la contestazione, ma Berlusconi insiste: «Probabilmente gli amici e colleghi socialdemocratici dovrebbero ampliare le loro frequentazioni al di là dei colleghi italiani che trovano qui in Parlamento e dovrebbero ampliare le loro letture al di là dei giornali di estrema sinistra che evidentemente hanno formato i loro convincimenti». Una replica anche agli ecologisti: «Forse i signori verdi non sanno che l’hobby principale del presidente Berlusconi è quello dei fiori, del verde, dei giardini, dei parchi. E’ praticamente l’unico hobby dopo che il calcio si è allontanato da me. E la nostra politica va nella direzione di una maggiore tutela dell’ambiente».

In molti interventi era stato contestato a Berlusconi il conflitto di interessi. «Forse - ha risposto il presidente del consiglio - non avete la conoscenza del fatto che in Italia i giornali ma soprattutto le televisioni che ancora appartengono al mio gruppo e alla mia famiglia sono tra i nostri più decisi critici». Risate dai settori di sinistra del Parlamento. «Evidentemente vi manca il sole dell’Italia e non avete mai acceso la televisione italiana. Dovreste sapere che ogni giornalista ha come massima sua preoccupazione quella di apparire indipendente nei confronti dei suoi colleghi e questa indipendenza lo porta ad essere ogni giorno critico nei confronti di colui che considera il padrone».

A questo punto gli europarlamentari socialisti cominciano a battere rumorosamente le mani sui banchi: «Se questa è la forma di democrazia che volete usare per chiudere le parole del presidente del consiglio europeo - scandisce Berlusconi alzando la voce - vi posso dire che dovreste venire come turisti in Italia, ma che qui sembrate turisti della democrazia, dei turisti della democrazia. Sono stato capo dell’opposizione sei anni in Italia, non mi fanno paura questi interventi, ho l’abitudine ad essere contraddetto». Ormai il grande emiciclo è una bolgia, ma Berlusconi carica ancora: «Il signor Schulz mi ha offeso sul piano personale, gesticolando e con un tono di voce inammissibile in un parlamento come questo. Io ho detto con ironia quello che ho detto. Se non siete in grado di capire l’ironia mi dispiace, ma non ritiro, non ritiro quello che ho detto se il signor Schulz non ritira le offese personali che mi ha rivolto. Io l’ho detto con ironia lui l’ha fatto con cattiveria».

Si chiude il primo giorno di Berlusconi presidente europeo: «Nella mia storia ci sono solo successi e solo cose tese a fini buoni. Ai nostri avversari vorrei dire con un sorriso che non devono fare una tragedia di questa nostra presidenza: sei mesi passano molto in fretta. Stamattina abbiamo cominciato a divertirci».

Ecco i punti salienti delle motivazioni della sentenza

MILANO - "Una gigantesca opera di corruzione" che dagli imputati è stata "eletta a vero e proprio sistema di vita". "Il più grande caso di corruzione nella storia, non solo d'Italia", "un degrado della

giustizia che da cieca fu trasformata in giustizia ad uso privato". Parole durissime quelle che i giudici della quarta sezione penale del tribunale di Milano usano nelle motivazioni della sentenza con la quale, lo scorso 29 aprile, hanno condannato sei dei sette imputati, fra i quali Cesare Previti, nel processo Lodo Mondadori - Imi-Sir.

Vediamo i passaggi salienti delle oltre 534 pagine redatte dal tribunale presieduto da Paolo Carfì per spiegare le condanne inflitte.

Imi-Sir: gigantesca opera di corruzione. Lo studio dell'enorme materiale processuale, spiegano i giudici, ha permesso di arrivare alla conclusione che "la causa civile Imi-Sir fu tutta frutto di una gigantesca opera di corruzione".

Precise prove documentaliv. Se la sentenza è arrivata dopo due anni, 11 mesi e 88 udienze è perché al Tribunale "è stato 'concesso' molto tempo per studiare in modo capillare e approfondito tutto l'enorme materiale processuale". Il problema del "ritardo" non è stato dunque, come hanno sostenuto i legali di Previti, che il processo si è basato "solamente su un magmatico, indistinto e insufficiente quadro indiziario" ma su "precise prove documentali".

Analogie con il Lodo-Mondadori. Sempre lo studio e la comparazione degli atti ha permesso "di constatare, pure qui con un quadro che definire gravemente indiziario è dire poco, che anche la coeva causa Mondadori presenta impressionanti analogie (per l'iter processuale e la presenza sempre degli stessi protagonisti) con ciò che si è appurato rispetto alla 'gemella' controversia Imi-Sir".

La più grande corruzione nella storia dell'Italia Repubblicana. Il quadro che si delinea, per il collegio, è "quello della "più grande corruzionè nella storia dell'Italia Repubblicana e forse anche di più, se si dovesse seguire l'opinione di uno degli imputati di questo processo (Cesare Previti, n.d.r).

Imparzialità della giurisdizione. Per i giudici "certo è che si tratta di un caso di corruzione devastante, atteso che tocca uno dei gangli vitali di uno stato democratico: quello della imparzialità della giurisdizione". "Questo Tribunale - scrivono - è stato oggetto, negli ultimi due anni in particolare, delle 'critiche' più aspre e delle accuse più gravi - perché di questo si è trattato - dentro e, soprattutto, fuori dall'aula, fino a quella più infamante per un giudice: quella non poche volta propalata, di essere non al 'servizio della legge' ma al soldo di una parte politica".

Giustizia a uso privatoI. Il dibattimento Imi-Sir/Lodo, "principalmente è - ed è sempre stato - un processo ad alcuni magistrati della corte d'appello di Roma, al loro modo di concepire la funzione cui sono stati chiamati, ai loro inconfessabili rapporti con un gruppo di "avvocati d'affari e a ciò che ne è conseguito, fino al punto di poter parlare - in questo caso sì - di un degrado della giustizia che da cieca fu trasformata in "giustizia ad uso privato".

Corruzione come stile di vita. "Appare assolutamente evidente" come gli imputati Vittorio Metta, Renato Squillante, Cesare Previti, Attilio Pacifico e Giovanni Acampora "avessero eletto la corruzione in atti giudiziari a vero e proprio sistema di vita, a metodo attraverso il quale conseguire nel modo più facile, ma anche tra i più sordidi, quella ricchezza materiale evidentemente mai sufficiente, ponendo la loro professioni, le loro capacità e le loro intelligenze al servizio ora di questo ora di quello tra i 'clienti' disposti a pagare qualsiasi cifra pur di raggiungere il loro scopo".

Autodifesa dall'accusa di "moralismo". Per i giudici milanesi la condotta degli imputati non lascia dubbi. E aggiungono: "Sarà anche 'moralismo', come sicuramente qualcuno obietterà, ma ritiene questo collegio che nessuna scusante possa essere addotta da imputati a cui nessuno e nulla, nè le condizioni famigliari, nè quelle sociali, nè quelle economiche, ha imposto di vendere in tal modo, la loro imparzialità, correttezza e professionalita".

La versione di Previti: inattendibile. Sulla posizione del parlamentare di Forza Italia "pesa a suo sfavore l'iniziale menzogna relativa alla destinazione dell'ingente somma ricevuta nel 1994, a causa finita, dagli eredi Rovelli, inserita in un quadro di generale presa di distanze da tutti i soggetti in quel momento protagonisti della indagine. Una menzogna - scrivono i giudici - che pesa ancora di più quando si vanno a valutare le giustificazioni addotte dall'imputato allorquando, nel corso dell'esame dibattimentale, ha rappresentato uan diversa verità dei fatti, sempre e comunque lontana dall'accusa di corruzione".

Familiari dell'ingegner Rovelli. Il trattamento più favorevole per i familiari di Nino Rovelli è determinato "non tanto per lo stato di incensuratezza, comune a tutti gli imputati, ma più che altro in considerazione di alcune "particolarità della loro condotta criminosa". La vedova e il figlio di Nino Rovelli, per il collegio, hanno agito infatti "in un certo senso 'iure ereditario', trovandosi inseriti in un "iter criminoso già in stato di avanzata realizzazione". "Certo, nessuno dei due - è scritto -, e in particolare Felice Rovelli, sembra aver fatto troppa 'fatica' a trovare un accordo con tre intermediari". "Tutto ciò - a detta dei giudici - nella più assoluta indifferenza dei danni enormi causati non solo alla "giustizia", ma all'intera tenuta morale di una comunità".

Pessimo comportamento processuale degli imputati. A questo va aggiunto "un comportamento processuale a dir poco pessimo, volto a negare qualsiasi circostanza, anche la più evidente, così dimostrando una assoluta mancanza di un sia pur minimo 'ripensamento' della loro condotta di vita". Comportamento che "si è concretizzato in una serie di tentativi volti esclusivamente ad impedire lo svolgimento del processo, strumentalmente utilizzando gli istituti previsti dal codice: una serie infinita di ricusazioni per i più diversi motivi fin sulla soglia della camera di consiglio, la revoca del mandato ai propri difensori nel novembre 2001 in risposta alle ordinanze di questo Tribunale sulle rogatorie e sulle problematiche poste dalla sentenza 225/2001 della Corte Costituzionale, manovre dilatorie di ogni genere".

"Reati gravissimi - concludono i giudici milanesi -, anche e soprattutto da un punto di vista soggettivo; condotta processuale pessima da qualsiasi parte la si osservi; si può ribaltare agli istanti la domanda: su quali basi giuridiche potrebbero essere concesse le invocate attenuanti generiche?".

D’AvanzoLe domande al Cavaliere

MOSSA incauta lasciar troppo tempo a giudici non impigriti o burocratici. Previti si difende dal processo più che nel processo. Pensa di guadagnare tempo, di strozzare il dibattimento e cancellare ogni dubbio con la prescrizione. Si sta invece cacciando in un pasticcio peggiore perché i giudici, come talpe, sono al lavoro e nei tempi morti di due istanze di astensione, sette dichiarazioni di ricusazione e una richiesta di rimessione (non si contano i "legittimi impedimenti" di imputati e avvocati) "scavano" nei cento faldoni del processo. Milioni di carte e documenti. Riascoltano e incrociano testimonianze. Verificano date. Controllano versamenti.

Accade così che le motivazioni della sentenza di condanna del processo "toghe sporche" aggiungano al "quadro indiziario" messo insieme dall'accusa, "già di per sé concordante, preciso e univoco", un paio di prove documentali che convincono il tribunale di Milano: "La causa civile Imi-Sir fu il frutto di una gigantesca opera di corruzione che si è spinta a concordare, tra il giudice Metta e gli "avvocati occulti di Nino Rovelli" (Previti, Acampora e Pacifico), la preventiva decisione e la motivazione della sentenza d'appello che poi diverrà definitiva". E ancora di "constatare che anche la coeva causa Mondadori presenta impressionanti analogie con ciò che si è appurato rispetto alla "gemella" controversia Imi-Sir". Non solo indizi, come si affannano a ripetere senza molta convinzione i corifei del Capo, ma documenti. "Prove regine", le chiamerebbe Previti.

I giudici scoprono nelle carte sequestrate negli studi di Acampora e Pacifico la "prova" della corruzione. Minute di perizie volute dal Tribunale concordate con gli avvocati di parte e poi "travasate" in Tribunale. Bozze di sentenze dei giudici preparate prima della sentenza con la collaborazione degli avvocati di una delle parti in causa. ("Una realtà che questo Tribunale fatica a non definire sconvolgente").

Sono "prove documentali" che giustificano le conclusioni del Tribunale: Vittorio Metta (ha giudicato sia l'Imi-Sir che il Lodo Mondadori) "si è fatto "aiutare" da alcuni avvocati nella stesura della sentenza di rinvio della causa Imi-Sir per dar ragione alla parte Rovelli dietro compenso in denaro ... Se la motivazione Imi-Sir è stata stesa "in collaborazione" con studi legali esterni, quella del Lodo risulterà quanto meno dattiloscritta in "ambito non istituzionale" e, con ogni probabilità, anche redatta prima della stessa Camera di Consiglio".

Per il Tribunale è provato ("assolutamente provato") che "il giudice Vittorio Metta, fosse un magistrato corrotto, ormai a " libro paga" (come dimostra l'afflusso continuo e costante di denaro nella sua disponibilità); un giudice non "occasionalmente" ma "stabilmente" organico a quella lobby di magistrati e avvocati "gestita" da Cesare Previti con la stretta collaborazione di Pacifico e (almeno per quanto riguarda questi due processi) Acampora".

L'affresco disegnato dal migliaio di pagine della motivazione milanese "delinea il quadro della "più grande corruzione" nella storia dell'Italia repubblicana". E' un caso di corruzione devastante, ragionano i giudici, perché deforma uno dei gangli vitali di un moderno stato democratico: quello della imparzialità della giurisdizione. "Perché, indipendentemente da come è stato "presentato" al di fuori dell'aula, questo processo solo "mediaticamente" è stato definito come "processo Previti"; in realtà, principalmente è ? ed è sempre stato ? un processo ad alcuni magistrati della Corte di Appello di Roma, al loro modo di concepire la funzione cui sono stati chiamati, ai loro inconfessabili rapporti con un gruppo di "avvocati d'affari" e a ciò che ne è conseguito, fino al punto di poter parlare ? in questo caso sì - di un degrado della Giustizia che da cieca fu trasformata in "giustizia ad uso privato"".

Ora soltanto l'ipocrisia (o una colpevole acquiescenza) potrebbe impedire di porre qualche questione a un presidente del Consiglio che qualche fortuna ha lucrato da quell'uso privato della giustizia. Cesare Previti è stato il braccio destro dell'imprenditore Silvio Berlusconi. E' stato ed è sodale di Silvio Berlusconi politico, il più stretto e ascoltato tra i collaboratori dai tempi dell'acquisto della villa di Arcore dai marchesi Casati fino alla nascita di Forza Italia e alla vittoria elettorale della Casa delle Libertà. Cesare Previti, nel tempo, è stato in possesso, come dice (come egli stesso ha detto in aula durante il processo, 28 settembre 2002), "di un mandato professionale molto ampio per rappresentare la persona fisica come il gruppo di Silvio Berlusconi". Ha detto Previti: "Io rappresentavo il dominus per le questioni legali, sceglievo gli avvocati, esaminavo nei dettagli tutti gli argomenti che avremmo usato e anche le persone e le operazioni da organizzare nelle varie situazioni".

Questo ruolo era occulto, segreto. Non c'è (né Previti lo ha mostrato) un solo documento processuale che porta la sua firma: un atto di citazione, una comparsa di risposta, una memoria conclusiva, un parere giuridico, un atto di transazione; come non esiste neppure (né è stata mostrata) una fattura, una ricevuta informale, un estratto dei libri contabili di Fininvest, un qualsivoglia documento che attesti la causale dei pagamenti effettuati dal Gruppo a favore di Cesare Previti. Bene. Né la Fininvest né Previti amano il fisco, e questo si sa. Ma quel ruolo di dominus che Previti rivendica, i suoi metodi, le scelte delle "operazioni" era, anche se in controluce, a conoscenza di Silvio Berlusconi?

Le conclusioni di questo processo che non si doveva fare, che il governo e il Parlamento hanno in ogni modo provato a soffocare, mostrano il lavoro di Previti nel momento più saliente e autentico. Altro che comparse di risposta o atti di transazione. Il lavoro di Previti, dice la sentenza milanese, era il lavoro sporco del corruttore. Di quel lavoro sporco si è avvantaggiato anche Silvio Berlusconi mettendo illecitamente le mani sulla più grande casa editrice del Paese costruendo così il più grande gruppo italiano di media. Qualcosa il presidente del Consiglio dovrà pur dire perché purtroppo qualcosa, questa sentenza, dice di lui.

Dice, innanzittuto, che non tutti i suoi successi luccicano. A coronamento del suo impero ? se leggiamo le pagine del tribunale di Milano ? c'è la corruzione, il maneggio, il baratto. Non c'è scritto da nessuna parte che Berlusconi sapesse dei metodi opachi di Cesare Previti. E' lecito pensare che Berlusconi non poteva immaginare nemmeno che quando "Cesarone" gli diceva: "Silvio, ci penso io!", Previti aveva già in mente quale scorciatoia imboccare, qualche giudice muovere, qualche collegio comporre, qualche toga infine corrompere. Certo, ha ragione il tribunale di Milano, "un contributo di chiarezza alla problematica dei rapporti, anche economici, fra l'imputato Previti e il Gruppo Fininvest, poteva essere dato da Silvio Berlusconi, atteso che da un conto non ufficiale del suo gruppo, è stata bonificata a un suo strettissimo e "storico" collaboratore (sono concetti espressi dallo stesso Previti) la comunque considerevole somma di 3 miliardi di lire in dollari, cui non corrisponde alcuna regolare fattura. Ma il presidente del Consiglio, dopo aver concordato con il Tribunale la data del suo esame (previsto per il 15-7-2002 a Palazzo Chigi), comunicava il sopravvenire di un impedimento per quella data e contestualmente manifestava la volontà di avvalersi del diritto di non rispondere".

Berlusconi può, adesso che le ragioni della condanna di Previti sono squadernate, "avvalersi del diritto di non rispondere" come sempre ha fatto dinanzi ai giudici, all'opinione pubblica, ai media? Al di là di quel che ieri sapeva o non sapeva, oggi dinanzi agli occhi di Berlusconi c'è la trama che per decenni ha tessuto il suo Cesare. Il capo del governo non può far finta di non vedere. Non può continuare a parlare di "complotto" perché i fatti sono i fatti, le parole parole, i documenti documenti e fatti, parole e documenti dicono che Previti era il regista di una squadra di "barattieri di sentenze" che ha favorito anche gli affari del capo del governo. Che cosa pensa Berlusconi del suo amico e dei vantaggi che, grazie a lui, ha ottenuto? Anche se fino a sentenza definitiva a ogni imputato va garantita la presunzione di non colpevolezza, non crede Berlusconi che sia più saggio prendere subito le distanze dal suo "compagno di strada"? Non conviene attendere in maniera più neutra, più distaccata, meno "politica" gli ulteriori gradi di giudizio? Non è utile per sé, e per il Paese che governa, liberarsi da quel vincolo amicale e professionale che rischia di trascinarlo a fondo?

Non avverrà nulla di ciò, come è ovvio. Berlusconi accetterà di condividere con il suo braccio destro il calvario che, dopo la legge che lo rende immune, sarà per lui soltanto politico. E' fin d'ora chiaro però che sarà arduo e irragionevole, nei prossimi mesi, posare a "indignato" quando l'intera stampa internazionale a ogni sortita pubblica gli chiederà: signor Berlusconi, lei sapeva che Cesare Previti ha corrotto i giudici chiamati a decidere degli affari di Fininvest? E oggi che lo sa, non ha niente da dire?

Auguri, signor Berlusconi.

MAI come in questi giorni è parso visibile il confine che separa l'Italia berlusconiana dall'Europa democratica. Viviamo, noi italiani, in un mondo a parte e basta accendere la televisione per capirlo. La folle volgarità con cui Silvio Berlusconi ha inaugurato lo show semestrale ha provocato uno scandalo internazionale, regalato tonnellate di discredito all'Italia e costretto l'autore a scusarsi ufficialmente con il governo tedesco. "L'Europa è compatta nel disgusto per Berlusconi", per citare un titolo inglese. E i nostri (anzi, i suoi) telegiornali, pubblici e privati, che cosa fanno? Prima nascondono e censurano, poi minimizzano secondo il manzoniano "troncare, sopire".

Mezzibusti da sbarco e da riporto s'affannano a precisare che si è trattato appena di un "battibecco", di un "piccolo incidente". Il cittadino comune non si spiega allora perché intorno a un'inezia si muovano le cancellerie, venga convocato l'ambasciatore a Berlino, Fini e Follini prendano le distanze. Per non sbagliarsi, i servizi di Tg1, Tg2, Tg5 adottano come propri gli slogan del capo, come si faceva nei cinegiornali Luce. Lo schema è dunque "l'ironia di Berlusconi" opposta alla "cattiveria di Schulz". Che cosa c'entri l'ironia nel dare del kapò a qualcuno, Dio solo lo sa. Anzi lo sanno Berlusconi e i suoi servi. Non è del tutto chiaro neppure il criterio morale per cui fare una battuta sul conflitto d'interessi o sulle leggi ad personam rappresenterebbe un delitto contro l'umanità, indice di cattiveria "nazista", roba insomma da Norimberga. Mentre scherzare sui lager è indice di raffinato sense of humour. Lo stesso Berlusconi a mente fredda, si fa per dire, si è giustificato così: "Circolano numerose storielle sull'Olocausto. Gli italiani sanno ridere delle tragedie".

Ma in questo modo il Cavalier barzelletta offende, dopo i tedeschi, anche il nostro popolo. Non gli italiani ma certi italiani amano ridere sulle tragedie altrui. In particolare, dice il portavoce della comunità ebraica, "pochi imbecilli che evidentemente il presidente del consiglio frequenta".

Questo scandalo è l'ultimo di una lunga serie che basterebbe nell'Europa democratica a stroncare qualsiasi carriera politica. Non sarà così da noi, dov'è destinato a cadere nel vuoto della rassegnazione. Ma almeno può servire a sbarazzare il campo da un equivoco e da una leggenda che ha trovato spesso adepti anche a sinistra. Silvio Berlusconi non è affatto quel Grande Comunicatore che crede e soprattutto che riesce a far credere ai suoi avversari. Se lo fosse, non commetterebbe colossali sciocchezze come quella dell'altro giorno o l'altra, clamorosa, sullo "scontro di civiltà" con l'Islam. Berlusconi è un padrone arrogante e paternalistico, un politico ignorante e autoritario, che perde la testa ogni volta che si trova di fronte a una singola domanda o critica da parte di un uditorio giornalistico e politico sul quale non ha influenza. È insomma incapace di affrontare una delle situazioni più normali, quotidiane, di un politico democratico.

Se da noi Berlusconi passa per Grande Comunicatore è perché, molto banalmente, possiede o controlla il novanta per cento dell'informazione. In questi anni non ha mai dovuto affrontare un pubblico contraddittorio democratico. Può fare e dire quel che gli pare senza dover rispondere o chiedere scusa a nessuno perché gode dell'impunità e immunità mediatica, la più ampia, pericolosa e antidemocratica che esista nell'era dell'informazione. Bush è sotto accusa per le bugie sulla guerra, il mito di Blair demolito dalla tv pubblica. Ma nell'Italia di Berlusconi i cittadini non sanno, non devono sapere, non possono dunque giudicare. Questa è la differenza fra noi e loro, la strana legge di questo mondo a parte, la vera anomalia italiana. Ed è un dramma che gli avversari di Berlusconi non abbiano capito che sarebbe bastata una riforma liberale dell'informazione (e della Rai) per vedere svanire il portentoso fenomeno berlusconiano.

Per fortuna c'è l'Europa. Dove il re in doppiopetto appare sempre più nudo. Gli basta trovare sulla strada un giornalista libero o un socialista europeo, senza neppure poter gridare ai carabinieri "identificatelo!". E non sarà certo la ridicola legge sul conflitto d'interessi in preparazione a fornirgli un po' di decenza. Agli italiani che non scherzano sulle tragedie e sulla libertà rimane soltanto da vergognarsi per lui. Detto con ironia, sia chiaro

COVER STORY
Forza Berlusconi!

Il battagliero Presidente del Consiglio italiano ha convocato Boris Johnson e Nicholas Farrell nel suo rifugio in Sardegna, e ha concesso loro di fare un'analisi del suo successo.

E' il crepuscolo in Sardegna. Il sole e' svanito dietro alle rocce a strapiombo. I grilli, da un momento all'altro, hanno smesso di cantare. Le guardie con il fucile automatico a tracolla si aggirano all'interno della macchia di mirti e olivi, e l'uomo piu' ricco d'Europa mi afferra per un braccio.

La sua voce e' eccitata "Guarda!" dice, puntando la torcia "Guarda la forza di quell'albero!" E' davvero una visione suggestiva.

Un antico ulivo che sembra risalire al Giurassico e' cresciuto fuori da una crepa nella roccia e, come un paziente pitone di legno, ha spaccato in due il grande masso grigio. "Straordinario" mormoro io. Il mio ospite ed io ci fermiamo pieni di reverenziale timore di fronte alla forza dell'ulivo. Se Silvio Berlusconi, 67 anni, primo ministro italiano, sta segretamente sperando che una metafora prenda forma nella mia mente, non restera' deluso.

Che cosa dimostra questo ulivo, cosi' eccessivo, se non la forza che guida Berlusconi stesso? E che cosa sta a simboleggiare questa colossale roccia spaccata? Che si possono provocare l'establishment politico italiano, o l'elite liberale europea, o semplicemente le opinioni dell'Occidente civilizzato: tutte entita' che Silvio ha scandalizzato e diviso. Solo la settimana scorsa il ministro degli esteri svedese, Anna Lindh, ha lanciato anatemi non solo contro Berlusconi, ma anche contro l'Italia.

Con il governo di Forza Italia -ha asserito- l'Italia non puo' piu' essere considerata parte della tradizione occidentale europea o condividere i suoi valori. Ed e' una offesa bruciante se si considera che il testo fondante dell'Europa e' il Trattato di Roma. Ehi! Ma dov'era la Svezia alla conferenza di Messina del 1955? Alla vista di Berlusconi che viene demonizzato da Anna Lindh potreste trovarvi come me, nell'atto istintivo di sguainare la spada per difenderlo. Ma sospetto che sia stato l'attacco dell'Economist a fare centro su Berlusconi e il suo entourage, anche perche' viene letto dagli Americani, o almeno giace sui tavolini dei loro salotti.

Per due volte questa celebre rivista (motto: l'intelligenza di essere stupidi) ha scalciato violentemente contro Silvio. Ha detto che non e' idoneo a governare l'Italia e, in un numero recente, gli ha rivolto 28 accuse, e ha detto che non solo non e' idoneo a governare l'Italia, ma non e' nemmeno adatto ad essere il Presidente dell'Unione Europea - incarico che manterra' fino a dicembre. E' proprio l'attacco dell'Economist che puo' aver contribuito alla presenza dello Spectator qui, fra le canne e il rosmarino, nella sua tenuta di 170 acri in Costa Smeralda. Nick Farrell, il nostro corrispondente italiano nonche' biografo di Mussolini, e' volato fin qui da Predappio. Io sono stato convocato dalla parte opposta dell'isola dove, per una coincidenza, anche la famiglia Johnson stava trascorrendo la sua vacanza, seppure in una sistemazione infinitamente meno splendida.

Quando Farrell ed io ci incontriamo in un bar di Porto Rotondo per discutere sulla tattica da adottare, decidiamo che, naturalmente, e' necessario sollevare il problema delle accuse con il Signor Presidente, come viene chiamato il Primo Ministro. Ma sappiamo che sara' poco probabile per noi arrivare ad un verdetto sulle questioni chiave, che riguardano la mancata vendita nel 1985 di una fabbrica di biscotti, di proprieta' dello Stato, alla Buitoni, regina degli spaghetti. Lasciamo queste faccende agli avvocati e alle calcolatrici ormai esaurite dell'Economist. Noi abbiamo un proposito piu' grande e piu' alto: e cioe' vogliamo stabilire, secondo la nostra sensibilita', se il Signor Berlusconi, nel complesso sia un forza benefica per l'Italia, l'Europa ed il mondo.

Siamo stati per tre ore con lui. Siamo stati seduti ad un tavolo nel soggiorno, con Berlusconi a capotavola, che mostrava i capezzoli in trasparenza, attraverso un pigiama

bianco alla Marlon Brando. Di tanto in tanto quel tavolo veniva picchiato vigorosamente, tanto da far tremare i soprammobili di vetro e le statuette femminili nude in giro per la stanza. Abbiamo bevuto pinte di te' ghiacciato e zuccherato, servite in silenzio, senza bisogno di chiedere, mentre lui delineava la sua visione del mondo, robusta e neo-conservatrice. Ad un certo momento, dopo circa un'ora, il Primo Ministro e' scomparso in cucina e ha fatto portare tre coppette di gelato alla vaniglia e pistacchio, come per rifornire la sua torrenziale loquacita'. L'abbiamo sentito esaltare la Thatcher, lodare Blair ('Che io sappia non siamo mai stati in disaccordo su qualcosa'), magnificare Bush e condannare la magistratura italiana come "antropologicamente diversa dal resto dell'umanita'".

Valentino, il suo simpatico interprete, dice che e' stata l'intervista piu' dettagliata e generosa che il leader abbia mai concesso, e, verso le sette, francamente, Farrell ed io ci sentiamo un po' stanchi. Ma non c'e' verso di fermare il raggiante e vivace multi-miliardario che tende un po' alla calvizie.

Ha avuto uno scontro con il cancro un paio d'anni fa; il suo colorito e' un po' giallino per essere quello di un uomo che ha passato il mese di agosto in Sardegna; ha piu' l'aspetto di un uomo da un milione di lire che quello di un uomo da un milione di dollari. Ma e' il piu' frizzante compagnone che si sia mai visto. "Facciamo un giro"(in italiano nel testo) dice.

Quando Berlusconi e' al volante della macchina elettrica non corre tranquillo, ma accelera e frena lungo i sentieri ben puliti della sua tenuta, come Niki Lauda sulle curve di Monza. E, mentre i suoi passeggeri oscillano come anemoni marini, indica a gesti un paesaggio naturalmente splendido, con il sole che tramonta e il Mar Tirreno che volge dall'indaco all'azzurrino chiaro. Ma lui vede dappertutto i segni del lavoro delle sue mani e, in un certo senso, tutto sembra il prodotto della sua immaginazione. "Ecco" dice, indicando una fila di plumbago azzurre "questo e' il fiore di Forza Italia. Il fiore non lo sa, ma io si'"

Forza Italia! Come on Italy! Il nome stesso sembra echeggiare dalle tribune di uno stadio, e sarebbe sufficiente a far arricciare il naso ad Anna Lindh e all'Euronomenklatura. Forza Italia era il movimento da lui fondato nel 1994 sfruttando il suo patrimonio da 12 miliardi di dollari, con cui ha conquistato per la prima volta la leadership, per poi perderla quando i suoi alleati di destra gli voltarono le spalle, e gli avvocati lo circondarono (ndt.forse intende i PM). Fu accusato di corruzione. Combatte' e resistette. Ma la FORZA era grande in Berlusconi e nel 2001 torno' all'assalto.

Di porto in porto andava la nave di Forza Italia - non diversamente da quella sulla quale aveva cantato il diciassettenne Berlusconi- e folle adoranti si materializzavano davanti alle telecamere. Al costo di 20 milioni di dollari (ndt. mi sembra una cifra esagerata) distribui' capillarmente in 12 milioni di case italiane la sua magnifica Berluscografia di 128 pagine a colori, Una Vita Italiana. All'interno una fantastica, vulcanica storia di auto-propulsione all'americana; la precoce abilita' nelle traduzioni di latino e greco, una capacita' che metteva a disposizione dei compagni meno dotati in cambio di denaro; gli amici devoti rimasti con lui mentre espandeva il suo impero, a cominciare dalla citta' che costrui' nel 1960, in una palude fuori Milano, che conta 4000 abitanti e che, a giudicare dalle fotografie, e' gradevole in senso Milton-Keynesiano.

Si veniva a sapere della sua prima moglie, e di come i loro sentimenti si fossero tramutati "da amore in amicizia" prima che si trovasse una seconda moglie, una bionda da knock-out, la soap-star Veronica Lario.

Venivano fornite notizie sui suoi abiti (Ferdinando Caraceni), sul suo cuoco, sul suo cancro, e, soprattutto, veniva riportata la testimonianza di sua madre Rosella.

La mamma di Silvio diceva che Silvio era un tipo davvero in gamba, e qualsiasi cosa dicesse la mamma di Silvio, le altre mamme la prendevano molto seriamente.

Tutte le pagine erano costellate del suo allegro sorrisetto da scoiattolino e del suo naso disneyano. Per ogni piccolo uomo d'affari italiano simboleggiava l'ottimismo e la fiducia e l'abilita' nell'ottenere le cose che voleva.

E qui, alla prima fermata della nostra scarrozzata, ha luogo una lezione sul suo approccio al poter-fare.

Un giorno Silvio arrivo', e scopri' che avevano abbattuto tutti gli alberi

nel raggio di 50 metri per allestire una pista per l'atterraggio degli elicotteri.

Lui non la voleva una pista per gli elicotteri. Era disperato. Ando' a dormire,

la sera di Pasqua, arrovellandosi sul problema.

"A un certo punto decisi che da ogni male bisogna saper trarre qualcosa

di buono. Pensai che potevo creare un labirinto, e poi decisi di creare

qualcosa che non era mai esistito prima - un museo dei cactus.”

Scendiamo e ammiriamo il bizzarro anfiteatro in cui un pubblico di 4000

spettatori spinosi, comprendente 400 specie, provenienti da sette diversi

paesi, guarda giu' dalle terrazze circolari, verso una bella piscina blu

affacciata sulla baia.

"Questo e' il cervello del mio ministro delle finanze" dice Silvio, indicando

un qualcosa che assomiglia a un carciofo rabbioso "idee dappertutto". Accarezza i fianchi polverosi di un'altra pianta per mostrare la sua ingegnosa difesa contro le formiche che si arrampicano. "E questo -dice, indicando un'abominevole collezione di spine- e' il cuscino della suocera. Questa roccia e' arrivata da Lanzarote!" Perche' e' arrivata da Lanzarote? Era proprio necessaria? Forse no, ma serviva a dimostrare che Silvio puo' smuovere le montagne.

Di certo ha smosso Farrell che sta manifestando sintomi di intenso rapimento. "Bravo Signor Presidente (in italiano nel testo)" dice il biografo di Mussolini "Veramente bravo".

Berlusconi fa un gesto come per smorzare il nostro entusiasmo, ma non resiste alla tentazione di trarre una morale: "Vedete -dice- questo e' cio' che riesce a fare il settore privato!" Sono io che l'ho fatto: il vanto di ogni maschio-alfa. Come il bimbo di tre anni alla mamma che lo asseconda, come Agrippa sul fregio del Pantheon.

La sua energia e' piaciuta al popolo italiano, che l'ha ricompensato alla grande. Nel 2001 ha ottenuto una maggioranza mai vista, che gli consente di controllare le due Camere. Ha avuto la fantastica opportunita' di realizzare quello che proclamava essere il suo sogno: una riforma dell'Italia di tipo thatcheriano, che prevede tagli alle tasse. I suoi nemici scoppiavano di indignazione e, in effetti, si puo' comprendere la causa del loro fastidio. E' sconvolgente che un uomo solo abbia una simile concentrazione di potere commerciale e politico. Fa quasi venire la nausea l'idea che quest'uomo affascinante non sia solo il piu' grande magnate dei media in Italia, essendo proprietario della piu' grande casa editrice, la Mondadori, della piu' importante squadra di calcio, il Milan, di parecchi giornali e di un bel pezzo della televisione italiana, ma anche il Primo Ministro.

Gli prospettiamo questi dubbi e Berlusconi li restituisce tutti al mittente, con frasi ben oliate. No, non e' entrato in politica per proteggere i suoi interessi commerciali, come egli stesso avrebbe confessato in privato, secondo il giornalista Enzo Biagi. Dice: "Non potevo lavorare per tutta la vita in Italia con un governo comunista, di sinistra" No, non c'e' conflitto di interessi. La gente puo' scrivere quello che vuole sui suoi giornali. "Sono l'editore piu' liberale della storia." E no, le accuse dell'Economist sono vecchie, sciocche, senza fondamento e, intanto, mentre reitera la sua difesa, il tavolo subisce una gragnuola di colpi.

E' proprio la cosa giusta votare una legge che lo esoneri da ogni processo durante il periodo del suo mandato, Chirac ha fatto lo stesso.

Ma, l'oggetto di questa intervista non e' mai stato quello di stabilire la natura poco limpida dei suoi affari. Noi stavamo solo cercando di valutare se, facendo un bilancio complessivo, lui rappresenti qualcosa di buono. La nostra risposta, quando la gita sulla golf-buggy e' terminata e ci ritroviamo seduti, esausti come due urie coperte di petrolio, davanti ad una birra a Porto Rotondo, e' un si' senza riserve.

E' difficile non restare affascinati da un uomo che pone un simile interesse nei cactus e che e' capace, alle riunioni dei leaders europei, di raccontare barzellette non solo sui comandanti dei campi di concentramento nazisti, ma anche sul fatto che sua moglie se ne stia o no andando con qualcun altro. C'e' qualcosa di eroico nel suo stile, qualcosa di allegramente imperiale - dalla enorme piscina che ha creato riempiendo un bacino fra le colline sarde, alle quattro vasche per talassoterapia che ha allestito per Veronica, e che sono alimentate con dei computer piu' avanzati di quelli che vengono usati per i lanci sulla luna.

Non e' necessario che lui asserisca di non aver mai licenziato uno dei suoi 46.000 dipendenti. Ci basta scrutare da vicino le facce del suo cuoco e del suo maggiordomo, mentre ci passano accanto in un'altra golf-buggy, salutandolo con familiarita'. "Dove andate di bello?" chiede Berlusconi "Ce ne andiamo a fare un giro!" dicono. Si', sembrano felici. Secondo me, cio' che attrae in lui e' il fatto che assomiglia a tante delle cose che ha portato qui, su questa costa sarda. E' un innesto.

Improvvisamente, dopo decenni in cui la politica italiana e' stata ostaggio di una serie di cupi, sinistri partitocrati che parlano in politichese, e' sbocciato questo fiore di super entusiasmo americano. Si', puo' darsi anche che sia rimasto coinvolto in affari discutibili; puo' anche darsi che venga scoperto e debba pagarne il prezzo. Per adesso, tuttavia, sembra ragionevole permettergli di continuare con il suo programma. Puo' fallire. Ma, a quel punto, - e questo andrebbe scritto a lettere cubitali, ripiegato e infilato nella bocca di Anna Lindh, il ministro degli esteri svedese- il popolo italiano puo' non votarlo piu'.

Ad Anna Lindh forse non garba, ma lui e' stato eletto democraticamente da quello stesso popolo che lei insulta. Se dobbiamo fare un paragone tra Silvio Berlusconi e Anna Lindh, e altri politici europei, prepotenti e pieni di pretese, sono d'accordo con Farrell: come la voce narrante dice di Jay Gatsby (un uomo cui Berlusconi per qualche verso assomiglia): "meglio lui di tutti quegli altri".


In alto Û

Leggi in versione pdf

(devi avere Acrobat reader)

Berlusconi e i giudici matti: ecco l’intervista

Questo è il testo integrale dell’intevista rilasciata da Silvio Berlusconi, così come pubblicata dal quotidiano La Voce di Rimini del 4 settembre 2003

Si è rappacificato con il cancelliere Schroeder, dopo che Lei ha paragonato il parlamentare europeo Martin Schulz ad un kapò?

Non c'è mai stata nessuna rottura. Con Schroeder ci fu solo una telefonata. Ero io che ero offeso, il mio governo il mio paese. E ho risposto con una battuta. Volevo essere spiritoso. Tutto il parlamento ha riso. La mia risposta è stata presa ed usata contro di me. Ma sapete una cosa? Era una risposta a cui era praticamente impossibile per me resistere perché una volta ho trasmesso 120 episodi di Hoganls Heroes in cui c’era questo Sergente Schulz. Vi ricordate? Era una battuta che mi è venuta spontaneamente. Ed è uscita di getto. Cerco sempre di essere ironico nei miei discorsi. Comunque, ho avuto una conversazione telefonica con Schroeder in cui ho detto che la mia intenzione non era stata di offendere e che ero dispiaciuto del fatto che la mia battuta avesse offeso qualcuno.

Cosa lo ha provocato?

In quella seduta del Parlamento i discorsi erano stati preparati precedentemente sotto la regia degli europarlamentari della Sinistra Italiana. Così ne era uscita la seguente immagine dell'Italia: uno, che in Italia c'è un signore che controlla l'85 per cento della stampa italiana - è vero il contrario - io sono l’editore più liberale della storia; due, che questa persona controlla anche tutta la televisione italiana,ú quando ho un amico che è Emilio Fede che ha il 7 per cento di share; tre, che metto sotto i piedi i giudici italiani e quindi che, se l'Italia si candidasse oggi per far parte dell' Unione Europea, sarebbe respinta. Questo era l'argomento dei discorsi della Sinistra quel giorno. La realtà italiana è che è una democrazia assoluta con delle anomalie. Una è che abbiamo un'opposizione che non è del tutto democratica perché è fatta di persone che furono comunisti e protagonisti del partito comunista Italiano che era stalinista in origine. Un'altra anomalia che all'estero non è conosciuta è che abbiamo una magistratura estremamente politicizzata. E la terza anomalia è che c’è un’enorme disinformazione da parte della stampa. Basta leggere 'La Repubblica', basta leggere 'l'Unità'- sono quotidiani completamente al servizio della Sinistra. Se leggete l’Unità penserete di star vivendo sotto una tirannia.

Qual è la prova che noi abbiamo una magistratura politicizzata?

La dichiarazione stessa dei giudici. In una delle loro organizzazioni – magistratura democratica – hanno dichiarato pubblicamente che i loro membri devono usare il sistema legale per rovesciare lo stato borghese.

Berlusconi sulla cospirazione della sinistra

La gente non considera la storia della politica italiana. Per mezzo secolo l'Italia è stata governata da una coalizione di cinque partiti che erano di origine democratica e pro-occidente, i cristiano-democratici, i socialisti, i repubblicani, i social-democratici e i liberali. Il sistema italiano ha prodotto 57 governi in poco meno di 50 anni. Io sono a capo del cinquantasettesimo governo e per la prima volta in cinquanta anni ho la grande maggioranza in entrambe le Camere del Parlamento. Successe anche nel 1992, dopo la caduta del muro di Berlino, il partito comunista, la Sinistra, era stata sconfitta dalla storia, non fu processato per la complicità morale con i crimini del regime comunista – che loro avevano sempre appoggiato, dalla Cambogia a Fidel Castro a Milosevic – e venivano appoggiati perché la Sinistra ha sempre avuto un’attrazione fatale per la dittatura, sapete, e non furono portati in tribunale perché la Sinistra fece infiltrare i suoi uomini in tutti i punti nodali dello stato, cioè le scuole, i giornali, le stazioni TV, la magistratura, nel sistema nervoso centrale dello stato. Invece di essere processati, usarono le loro infiltrazioni non per essere processati, ma per portare in tribunale tutti gli altri partiti, a cui la storia aveva dato ragione.

Perché è entrato in politica?

Sono entrato in politica con grande dispiacere, ma nel 1994 ho pensato che l'estrema Sinistra sarebbe stata un disastro per l'Italia. I partiti della Sinistra controllavano il 34 per cento dei voti, ma avevano più dell’ 80 per cento delle poltrone in Parlamento perché gli altri partiti, quei cinque partiti che avevano governato l'Italia per 50 anni, erano distrutti. Ero l'uomo più popolare in Italia perché ho creato la TV commerciale dal niente ed ero un importante uomo d'affari, perché ero un uomo di sport con molte vittorie. Avevo cinque squadre e non solo di calcio, ma di hockey, pallavolo, rugby ed erano vittoriose In tutti i campionati italiani e mondiali. Ho costruito piccoli paesi ed ero Il proprietario della seconda più grande catena di supermercati - tutti gli italiani lo sapevano. Ero alla guida di un movimento popolare, e la gente lo diceva, tu sei la nostra sola speranza di non avere un governo di Sinistra.

Perché tutti i commentatori lo attaccarono?

Credo ci sia un elemento di gelosia in ognuna di queste persone perché non riesco a trovare un'altra spiegazione. Tutti questi giornalisti - Biagi, Montanelli - erano più anziani di me e credevano di essere loro quelli importanti nel nostro rapporto. Poi il rapporto si è capovolto e io sono diventato ciò che loro stessi volevano essere. Dunque, dato che loro non mi sono politicamente affini, si è sviluppato un sentimento irrazionale tra giornalisti italiani molto famosi.

Berlusconi dice di ammirare la signora Thatcher, ma sta veramente conducendo una rivoluzione thatcheriana in Italia?

Sono un grande ammiratore della Signora Thatcher, ma ho letto nella sua biografia che nei suoi primi quattro anni lei ha compiuto molto poco. Ho grandi difficoltà con il sistema bicamerale italiano, e devo discutere qualsiasi cosa con i miei compagni di coalizione. Il Primo Ministro italiano non ha il potere di Tony Blair. Io ho solo il potere di persuasione morale. Non posso licenziare un ministro o un sottosegretario, ed è quasi un miracolo che sia stato capace di fare ciò che ho fatto. Ho ereditato uno Stato non solo con il debito pubblico più alto in Europa, al 105 per cento del nostro PIL, e il 6 per cento di quel Pil va a ripianare il nostro debito, e questo ha un fortissimo impatto sul nostro margine di manovra. Ma ho anche ereditato un paese che è vecchio nelle sue strutture e nelle sue istituzioni. L’Italia ha una classe imprenditoriale molto valida, grazie a Dio, e sono i 5 milioni di imprenditori la vera ricchezza d'Italia. Ma lo stato è vecchio, obsoleto, con una pubblica amministrazione che è pletorica, inefficiente e molto costosa. Abbiamo abolito la tassa di successione, Quella sulle donazioni, abbiamo introdotto break di tasse per le imprese. Abbiamo aumentato la deduzione dalle tasse per ogni figlio da 1m lire a 1,5m lire. In 5 anni intendo mantenere la mia promessa e portare l'incidenza delle tassa sul reddito personale dal 47 per cento al 33 per cento. Allo stesso tempo voglio creare delle grandi zone tax-free per i meno abbienti. Quando abbiamo guardato i libri, abbiamo trovato un debito extra di 13 miliardi di euro, ma dopo due anni siamo avanti sulla tabella di marcia. Ho garantito le condizioni in cui ci saranno un milione di nuovi posti di lavoro. Stiamo provando a togliere persone dal mercato nero e regolarizzare il loro impiego. Poi il tasso di crimini denunciati è del 12 per cento più basso, perché stiamo trasformando la filosofia di giustizia e ordine da una filosofia puramente repressiva ad una di tipo preventivo. Abbiamo introdotto una figura simile a quella del vostro “bobby" in tutte le maggiori città italiane: nelle strade, nelle piazze, nei pressi delle scuole, negli stadi. Ora circolano in coppia e in futuro forse potranno farlo da soli. Inoltre ho presentato un vasto programma di opere pubbliche, del valore di 125 miliardi di euro, comprendendo 125 opere di maggior importanza delle quali 6 sono epocali, come il ponte a Messina e la barriera a Venezia. Sono già riuscito a digitalizzare la nostra pubblica amministrazione e a rendere il nostro mercato del lavoro il più flessibile in Europa. Sì, è più flessibile di quello inglese, ora.

La sua fiducia nella mediazione per la Convenzione europea.

Credo che il solo modo sia di approvare che ciò è emerso dalla convenzione di Giscard esattamente come è, forse con una o due modifiche, ma questo è tutto. L'Italia è naturalmente favorevole ali'introduzione di un riferimento alla cultura cristiana dell'Europa, o cultura giudaico-cristiana, ma ci sono solo 4 paesi che appoggiano questa causa, Italia, Spagna, Olanda e Polonia. Noi lo vogliamo ma francamente non credo che sarà possibile. Sarebbe una buona cosa se avessimo una comune politica straniera, se l'Europa avesse una singola voce, ma so che al momento non è possibile.

Perché ha appoggiato la guerra in Iraq?

Abbiamo avuto molti dubbi sulla necessità di questa guerra, e abbiamo cercato di evitarla, ma quando abbiamo visto che gli Stati Uniti e l'Inghilterra, nostri tradizionali alleati, avevano deciso dì fare la guerra, noi siamo stati solidali nei loro confronti. Facciamo l'esempio di un nostro fratello che si lancia In un affare dopo che per tre mesi gli abbiamo chiesto di desistere - beh, è mio fratello, e lo appoggio, anche se non al punto di pagare le sue perdite! E io ho fatto lo stesso con gli Stati Uniti. Siamo vivi oggi grazie agli Stati Uniti. Furono loro a liberarci dal nazismo e dal comunismo e ad appoggiare la nostra crescita economica. Abbiamo vissuto per 50 anni sotto la loro ala protettiva perché spesero il 4 per cento del loro Pil per proteggerei contro l'Unione Sovietica, e noi abbiamo speso solo 1'1.5 per cento del nostro PiI dunque abbiamo un senso di gratitudine che è assoluto, assoluto. é stato difficile appoggiare la guerra perché avevo l’intera Sinistra contro di me, ma ho tenuto la linea Ho detto immediatamente al presidente Bush che mi era costituzionalmente vietato mandare truppe senza una seconda risoluzione dell'Onu, ma abbiamo mandato 3000 soldato ora per aiutare la democrazia e mantenere la pace.

Cosa è successo alle armi di distruzione di massa?

Sono abituato a mettermi nei panni degli altri, e ho pensato che se fossi stato in Saddam, mi sarei detto, "Faremo sparire tutte le armi di distruzione di massa, perché cosi bloccheremo la risoluzione dell' Onu, e non ci sarà un attacco dall'America." Così Saddam ha eliminato le armi di distruzione di massa perché qualcuno gli ha riferito, qualcuno molto importante, che non ci sarebbe stato un attacco senza una risoluzione dell'Onu. Dunque credo che le abbia distrutte o mandate all'estero.

L'opinione pubblica occidentale è stata ingannata su questa questione?

Questo non lo posso dire, non so come tutto questo sia successo. Provo una grande stima per Tony Blair, e c'è una grande sincerità nei nostri rapporti personali. Credo a Blalr e Bush perché guardo nei loro occhi e credo a loro. Non ho parlato direttamente a Bush o a Blair riguardo l'imminenza delle minacce dall'Iraq.

Berlusconi sul Medio Oriente

Vorrei allargare i miei commenti e dire che, al di là dell'opportunità di questa guerra, noi abbiamo certamente un grande problema nelle relazioni tra l'Occidente e il mondo islamico. E’ un fatto che nel Medio Oriente non c'è democrazia e giudico questo intervento in Iraq positivo perché ha messo fine ad una dittatura, e può essere paradigmatico per l'intera regione. Capisco la difficoltà di insegnare la democrazia a gente che ha conosciuto solo la dittatura. e come rapportarsi col mondo. Ci stiamo ora confrontando con una nuova situazione mondiale. Siamo passati dallo scontro di due blocchi perché la federazione russa ha deciso sotto la guida del signor Putin, di essere parte dell'Europa e dell'Occidente. Questo è un evento molto importante. Ho avuto l'occasione di essere presidente del G8 a Genova nel 2001, ed ero l'ospite della cena, provando a portare ognuno dentro la conversazione, e stavo facendo battute come al solito. Ho chiesto a Schroeder delle sue esperienze con le donne, dato che è stato sposato quattro volte, e l'ho fatto ridere. E dopo poco ho deciso dì spostare la mia sedia dal tavolo e lasciarli parlare, ed ho visto Blair scherzare con Chirac, e Putin scherzare con Bush, e io stavo scherzando con tutti, ed improvvisamente ho pensato, guarda, eccomi qui, un uomo che ha vissuto sulla sua pelle la Seconda Guerra Mondiale, essendo nato nel 1936. Ho visto mio padre vestito da soldato, e ho pensato, che mondo meraviglioso. Potrebbe essere così bello. Che mondo diverso lasceremo ai nostri figli. All'inizio del nostro secolo, del nostro millennio! Che meraviglia! Mi è sembrato quasi incredibile, perché quando ero un bambino, conoscevo il comunismo. Ero a scuola dai salesiani vicino a Milano, e alcuni preti che erano fuggiti superando la cortina di ferro vennero a trovarci e dissero del terrore. Sapevo che all’età di 12 anni che il comunismo era l’oppressione più inumana a criminale della storia dell’uomo. Il comunismo non è morto oggi, a proposito: ci sono ancora

più di un miliardo di persone nel mondo che vivono sotto il comunismo,, e dove l'opposizione è'in prigione o in esilio. Ma qui veniamo al punto, che ritengo straordinario, una bellissima scena attorno ad un tavolo a Genova. Ero felice e ho pensato che avremmo lasciato ai nostri figli una prospettiva di un mondo pacifico - poi venne l' 11 settembre e l'attuale situazione di terrorismo e fondamentalismo. Imporre Libertà e Democrazia Così da quel giorno abbiamo discusso questa questione, e all'ultimo G8 abbiamo discusso il Nuovo Ordine del Mondo, che comprende un occidente che è straordinariamente forte paragonato al resto del mondo e abbiamo promesso varie volte di dare ai poveri del mondo cibo, acqua, educazione, sanità. Ma l'ho detto al summit di Evian, e l'ho detto quando ero al ranch con Bush per due giorni, non esiste un bene che viene prima di questi beni materiali? E non è chiamata Libertà questo bene? La libertà crea questi beni materiali, e senza di questa non potrebbero esistere. Se c'è una dittatura, se c'è una tirannia, se non c'è libertà, allora tutto questo denaro va nelle mani di despoti che lo mettono nei loro conti nelle banche svizzere. Si armano e fanno guerra. Una comunità di democrazie. Così ho detto, dato l'enorme e paradossale successo del fondamentalismo, perché non parliamo più apertamente della comunità di democrazie? Sì, perché non riformiamo l'ONU? Diciamo che il signor X o Y In questa o quella dittatura, tu devi riconoscere I diritti umani nel tuo paese, e noi ti diamo 6 o 12 mesi o giù di lì, altrimenti interveniamo. E possiamo farlo perché non c’è una forza contrastante. Nei vecchi tempi l' America o la Russia non chiedevano ad un terzo stato se i loro cittadini avessero diritti umani, o se l'opposizione avesse una voce. Loro chiedevano se stavano con loro o con gli altri. Se lui è con noi, è abbastanza, e non importa se è un dIttatore. Se necessario con la forza. Ma ora, in questo nuovo ambiente, dobbiamo considerare cosa sta creando la dittatura, e dobbiamo capire perché Bin Laden esiste, e perché il fondamentalismo genera terrorismo.

Vi dico la verità, se vivessi in un Paese dove non ci fossero le elezioni, diventerei un rivoluzionario, se non un terrorista. E questo è perché io amo troppo la libertà, e senza libertà un uomo non è un uomo. Non ha dignità. E così oggi siamo capaci, con Russia e America insieme, di guardare a tutti gli stati del mondo, e valutare la dignità di tutta la gente del mondo, e possiamo dar loro dignità e libertà. Sì! Con la forza se necessario! Perché è l'unico modo di mostrare che non è uno scherzo. Abbiamo detto a Saddam, fallo, o noi arriviamo, e siamo arrivati e l'abbiamo fatto. Non posso dire da quale paese mi è arrivata una telefonata nei giorni scorsi, ma mi ha chiamato un importante leader e mi ha detto: "Farò qualsiasi cosa gli americani vogliano, perché ho visto cosa è successo in Iraq, e ho avuto paura." (Il portavoce di Berlusconi ha indicato che il leader in Questione era il Colonello Gheddafi). Il libro di Bush sugli stati canaglia Ad Evian ho partecipato al mattino ad un meeting con il presidente Bush, l'FBI e la CIA. E loro avevano un libro, con tutti i paesi del mondo dove non c'è pace. Abbiamo cominciato con la Liberia, e poi Bush ha detto 'E l'Afghanistan? E Chirac ! E la Corea?", e siamo arrivati al Kosovo, dove noi italiani abbiamo 3600 soldati, Bush mi ha detto grazie. E io ho detto “No, sono io che ti ringrazio, perché il Kosovo è vicino a me" Dunque abbiamo un compito morale di essere responsabili per il Nuovo Ordine del Mondo, e dobbiamo capire che l'America ha 400,000 soldati oltreoceano. E come è possibile questo? Grazie ai soldi di quelli che pagano le tasse in America. Dobbiamo apprezzare tutto questo, e dobbiamo muoverci anche noi.

L'Europa non dovrebbe dividere il fardello?

Certamente, certamente, l'Europa dovrebbe spendere di più per dare alle forze militari, o non sarà mai eguale agli Stati Uniti, e la distanza tra noi sarebbe insanabile. Abbiamo molte difficoltà di budget in Italia, e io ho ereditato una cattiva situazione ma sono convinto che con il tempo l'Italia dovrebbe gradualmente spendere più soldi nella difesa. Ma sono anche convinto che ci dovrebbe essere una spesa intelligente, così che ogni paese europeo si specializzi in determinati corpi.

Perché l’Economist crede che Lei non sia adatto a governare l’Italia?

L’Economist ha fatto un grande e colossale errore confondendo le guardie con i ladri. Ha preso i protettori della democrazia e della libertà per i ladri, e ha preso i ladri per le guardie. Ha mescolato tutto. Non ho mai guadagnato un soldo nella mia vita dalla politica. Ho messo i miei soldi nella politica, sì, per finanziare Forza Italia. Non oso telefonare al mio gruppo perché un solo operatore telefonico potrebbe dire “Berlusconi sta chiamando”. E per il conflitto di interessi, è tutto il contrario, perché ho dovuto vendere tutto il mio sistema di grandi negozi perché i comunisti non volevano comprare da me e avevano una strategia BB – boicotta Berlusconi. Le autorità di sinistra non mi davano nessun nuovo permesso per costruire negozi, e non ho chiesto alla Destra perché si sarebbe potuto pensare che io avessi un interesse, quindi i miei figli hanno deciso di vendere. E’ giusto approvare leggi che la salvano dai processi? Dovete capire che ho avuto più di 500 visite dal1a Guardia di Finanza al mio gruppo, che ho avuto più di 90 indagini. Dovete chiedere, qual è il rimedio se un’intera procura, a Milano e a Palermo, non fa altro che inventare teoremi su di me? Qual è il rimedio se loro continuano a chiedermi di andare in tribunale, o continuano a farmi avere incontri con i miei avvocati? Sto governando o sto rispondendo continuamente a tutte queste accuse? Non è possibile. Soltanto l’8 per cento degli italiani ha fiducia in questa magistratura. Questo perché hanno capito ciò che l’Economist non ha ancora capito. Soltanto l' 8 per cento. Dunque questo è sembrato il solo possibile rimedio. E non casi chiusi ma sospesi durante il periodo di servizio allo stato. Io ero contro. Non lo volevo E ma quando mi dicono - ho vinto tutte le mie cause - eh - solo una rimasta – che i giudici di Milano stanno facendo esattamente quello che hanno fatto nel 1994- nel 1994 il mio governo cadde perché mi accusarono di corruzione, poi fui prosciolto per sei anni. Ma fecero cadere il mio governo per quello.

Ma la sua azienda ha corrotto il giudice Squillante?

Per quanto riguarda il denaro, niente è stato provato, In relazione a noi, in relazione alla mia azienda, cosa è stato dimostrato è solo Il pagamento delle parcelle agli avvocati che a Roma avevano In sistema di conti bancari per e dalla Svizzera In cui tutti i giudici romani avevano partecipato. Non sto dicendo che questo fosse corretto, sto solamente dicendo che noi non abbiamo nulla a che fare con questo, e in ogni caso questo Squillante non era coinvolto in un caso che coinvolgeva me. Perché Il mio gruppo dovrebbe pagare Squillante se non c'era una mia sola causa che lui avesse per le mani. Tutte le mie cause erano a Milano, non a Roma. Perché la mia azienda dovrebbe fare dei pagamenti a Squillante? Squillante non era un giudice In nessuna delle nostre cause, quindi non capisco come sia successo Gli italiani credono in me e non credono ai giudici.

Non credono all'Economist?

No! Loro sanno tutto questo. Ho vinto le elezioni con questa causa già avviata, con tutta la TV contro di me. Gli italiani hanno creduto a me e non hanno creduto ai giudici.

Perché l' opinione pubblica 'non la capisce' all' estero?

Credo che l’80 per cento dei giornalisti siano di Sinistra e abbiamo rapporti molto stretti con l'informazione estera, e hanno tutti un club a Roma. Non concedo conferenze stampa all'informazione estera perché loro la usano solo come opportunità per attaccarmi. Non prendono in considerazione cosa faccio o dico. Scrivono ciò che c'è già nella loro testa. Non capiscono la nostra magistratura. Guada cosa è successo ad Andreotti che era stato condannato a 20 anni.

Andreotti sette volte primo ministro, non era un mafioso? Ma no, ma no. Andreotti è troppo intelligente. é troppo intelligente. Guardate, Andreotti non è mio amico. Lui è di Sinistra. Hanno creato questa menzogna per dimostrare che la Democrazia Cristiana che è stata per 50 anni il partito più Importante nella nostra storia non era un partito etico, ma un partito vicino alla criminalità. Ma non è vero. é una follia! Questi giudici sono doppiamente matti! Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro, devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche- Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana

4 Set 2003

Il Premier italiano ha un singolare senso dell’ironia e della diplomazia

Anche considerando l’altalenante carattere del primo ministro italiano, non si può non sottolineare con quanta rapidità Silvio Berlusconi abbia bruciato la sua reputazione.

Al secondo giorno di presidenza del semestre europeo, Berlusconi ha scandalizzato sia il parlamento europeo sia il governo tedesco insultando uno dei suoi capigruppo parlamentare.

Come uomo di marketing, il magnate dei media diventato primo ministro non è secondo a nessun altro leader europeo. Il problema è che la stessa cosa potrebbe essere detta della sua straordinaria abilità nell’alienarsi le simpatie dell’establishment politico europeo.

Con il suo smoderato sfogo tenuto in parlamento, immaginando Martin Schulz, leader del partito socialdemocratico tedesco, come interprete di un kapò in un lager nazista in un prossimo film, Berlusconi ha dimostrato di essere non solo insensibile agli altri ma straordinariamente suscettibile. Ha dovuto affrontare un fuoco di fila di critiche relative al suo conflitto di interessi tra la gestione dei media e la sua posizione politica ed è esploso in una rabbia plateale.

In sua difesa, il primo ministro italiano ha dichiarato di essere stato ironico. Sembra avere un peculiare senso dell’ironia (ammesso che in italiano la parola ironia non abbia un diverso significato).

Blandiva per mettere in ridicolo? O stava dicendo il contrario di quello che intendeva come espediente retorico? Improbabile. Semplicemente stava dicendo il primo insulto che gli è passato per la testa per o contrastare o parare quello che senza dubbio è stato un attacco violento. L’allusione nazista riferita a un politico tedesco non è esattamente un esercizio di retorica.

L’incidente dimostra una cosa: ovvero il pericolo insito nel suo ampio controllo dei media del suo Paese. Egli vive in una bolla mediatica dove le sue gaffe pubbliche e i suoi insulti gratuiti sono largamente ignorati in Italia, o almeno fino a quando non si reca all’estero.

L’edizione serale di mercoledì del TG1, sul più importante canale televisivo nazionale, non ha permesso ai suoi telespettatori di ascoltare le effettive parole pronunciate nel parlamento europeo. I media sovietici sotto Breznev non avrebbero potuto fare di meglio.

Questo dimostra che il primo ministro è straordinario come persona irritante e senza speranza come mediatore. Egli ha detto al parlamento che migliorare le relazione transatlantiche sarà la priorità maggiore durante la sua presidenza. È una lodevole ambizione. Ma se Berlusconi non è nemmeno in grado di comunicare in un linguaggio civile con i leader dell’Unione Europea come Gerhard Schröder e Jacques Chirac, è improbabile che sia l’uomo giusto per unire ciò che è diviso.

Egli vuole fortemente presiedere un grande evento di pubbliche relazioni a Roma, se possibile entro dicembre, ultimando la bozza della Costituzione Europea e firmandola come il nuovo trattato di Roma.

Se lui si aliena sia il parlamento europeo sia uno dei più importanti Stati membri come la Germania, non avrà diritto a questo onore.

Si è sempre detto in Europa che l’Italia colpiva al di sotto del suo peso. Il pericolo è che ora con Berlusconi si dica semplicemente che l’Italia colpisce sotto la cintura.

(traduzione di Libertà e Giustizia)

Il discorso integrale dell'eurodeputato Schulz

Signor Presidente, signore e signori, per cominciare mi rivolgo al collega Poettering. Il collega Poettering ha elogiato in forma addirittura euforica la competenza della Presidenza di turno giunta qui dall’Italia: Berlusconi, Fini, Frattini, Buttiglione... e qui ho temuto che se ne uscisse anche con Maldini e Del Piero e Garibaldi e Cavour. Ma ne ha dimenticato uno, e cioè il signor Bossi. Anche lui fa parte di quel governo, e la minima esternazione che fa quest’uomo è peggiore di tutte quelle per cui questo Parlamento ha preso provvedimenti contro l’Austria e l’appartenenza della FPÖ [il partito liberale austriaco guidato da Haider] al governo di quel paese. Quindi dobbiamo parlare anche di lui.

(Applausi)

Lei, signor Presidente [dell’Unione] non è certo responsabile del quoziente d’intelligenza dei Suoi ministri. Però è responsabile di ciò che dicono. Le esternazioni di Bossi, il Suo Ministro per le politiche dell’Immigrazione, che Lei ha appena ricordato nel Suo discorso, non sono minimamente compatibili con la carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. In quanto Presidente di turno, Lei è invitato a difendere quei valori. Li difenda, dunque, contro il Suo stesso ministro! Voglio riprendere una parola che il collega Di Pietro ha menzionato in questa sede. Il Virus del conflitto d’interessi, ha detto Di Pietro, non può essere innalzato sul piano europeo. Ebbene sì, il collega ha ragione, e adesso,qui in quest’aula, siamo da giorni nella difficile situazione che quando si parla della Presidenza italiana dell’Unione, si sente dire di continuo: ‘State attenti a non criticare Berlusconi per ciò che fa in Italia, perché qui al Parlamento europeo non c’entra niente. Come sarebbe? L’Italia non è forse membro dell’Unione Europea?

(Applausi)

E invece naturalmente sì che c’entra, e Le dico perché. Di quello che Lei fa in qualità di Primo ministro italiano riguarda le colleghe e i colleghi eletti al Parlamento italiano e compete a loro di discuterne con Lei, ma quello che Lei fa in qualità di Presidente di turno dell’Unione, compete a noi che siamo qui. Pertanto Le dico: Lei ha parlato del tema della sicurezza, della libertà e del diritto, del processo di Tampere. E qui Lei ha utilizzato un concetto: EUROPOL. Ma vi sono tre concetti che Lei non ha utilizzato, e io Glieli voglio ricordare per chiederLe, per favore, se può dire qualcosa a proposito di tre cose. E cioè: che cosa pensa di fare per accelerare l’istituzione di un pubblico ministero europeo?

(Applausi)

Che cosa pensa di fare per accelerare l’entrata in vigore del mandato di arresto europeo? Che cosa pensa di fare per il riconoscimento reciproco di documenti nei procedimenti penali internazionali? Per quanto riguarda la validità dei documenti, anche nel Suo paese avreste bisogno di un tantino di riforma. Se Lei introducesse una riforma nel Suo stesso paese, il mandato di arresto europeo potrebbe entrare in vigore più rapidamente. Nonostante ciò, io mi rallegro del fatto che Lei oggi sieda qui e io possa quindi discutere con Lei. Questo lo dobbiamo non da ultimo a Nicole Fontaine, perché se Nicole Fontaine non fosse riuscita così bene a rinviare tanto a lungo le procedure per l’immunità a Berlusconi e a Dell’Utri, il Suo assistente che oggi è presente qui in via eccezionale, Lei non avrebbe più posseduto l’immunità di cui ha bisogno. Anche questa è una verità che si può dichiarare qui oggi!

(Interruzioni)

Dal sito dei Girotondi http://www.girotondiaroma.it/

È meglio pensarla come Vittorio Alfieri o come Silvio Berlusconi? È meglio pensarla come chi pensa o come chi fa in politica il gioco delle tre carte? Noi preferiamo il grande antitaliano di Asti che nel 1789 pubblica a Firenze ´Della tirannide libri due´ dove al libro primo capitolo secondo si legge: "Tirannide indistintamente appellar si debbe ogni qualunque governo in cui chi è preposto alla esecuzione delle leggi può farle, distruggerle, interpretarle, impedirle, sospenderle o anche soltanto eluderle, con sicurezza di impunità. E quindi o questo infrangi-leggi sia ereditario o elettivo usurpatore o legittimo; uomo buono o tristo; uno o molti a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva che basti a ciò fare è tiranno; ogni società che lo ammetta è tirannide; ogni popolo che lo sopporta è schiavo".

Esattamente così. Questa la fotografia dello stato delle cose nell´Italia al principio del Ventunesimo secolo: gli schiavi sono in numero abbondante e gli va benone. C´è stato di recente un cambio del pilota al ´Corriere della Sera´. Cacciano un direttore che ha avuto il coraggio di rifiutare un invito a cena del senatore Previti quello che "Mai mai mai avrebbe corrotto un giudice" e al suo posto nominano un notista politico romano, giornalista di vari e ben noti talenti che ha questa concezione, italianissima, del giornalismo politico: esporre con maestria e metodo il passaggio vario e demenziale della politica italiana, senza fare la minima imprudenza di ricercarvi una trama, un filo conduttore.

Una idea del giornalismo antica e radicata, già teoria di un altro direttore celebre il Missiroli, il direttore ´andata e ritorno´ come lo chiamavano, che nella prima colonna, sia pur con la dovuta prudenza, accennava a una scelta politica e nella seconda con più calcolata prudenza la smentiva.

E subito è stato un invio di lettere, dichiarazioni, messaggi, congratulazioni dei politici al nuovo direttore, perché ai politici di cosa si scriva e si pensi politicamente al ´Corriere´ non importa un fico secco, gli importa che sia un giornale a grande tiratura e che la direzione abbia un´attenzione di riguardo alle loro miserevoli ambizioni. Anche il ricostruttore del comunismo Bertinotti, anche il suo attuale distruttore in carica D´Alema, tutti pronti a rinnovare la loro profonda stima all´´autorevole quotidiano´ che ai tempi della guerra fredda pubblicava le corrispondenze dalla Russia di Vittorio G. Rossi in cui raccontava che i comunisti avevano degli occhi "come iniettati di benzina, aggressivi e velenosi".

Agli schiavi l´identikit del tirannello fatto da Vittorio Alfieri va benone, gli sembra calzante solo che, alla fin dei conti, non gli dispiace affatto, è il loro modello, uno che piange miseria e persecuzioni essendo diventato un riccone e potentissimo grazie ai politici che disprezzava ma che pagava.

L´allineamento degli schiavi è in corso avanzato, basta saper leggere i giornali, specie le notizie un po´ nascoste per via di quel poco che resta di vergogna: per esempio che a un´iniziativa milanese neo fascista per una pretesa parità dei diritti fra uomini e donne sono accorsi grandi finanzieri, gente dello spettacolo, persino la compagna del più brechtiano degli attori, facendo finta di aderire a una campagna civile e non alla propaganda di quel partito di raccolta della borghesia conservatrice che è diventato Alleanza nazionale.

Proprio così. Si fa finta di non vedere che alla televisione stanno tornando i cortigiani di Craxi, che in tutti i premi letterari e giornalistici della penisola arrivano i redattori del ´Secolo d´Italia´ e che ´Il Foglio´ pubblica una memoria nostalgica e zuccherosa del camerata Anfuso che stava a Berlino, ambasciatore di Salò, con i fucilatori di partigiani.

© 2025 Eddyburg