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il manifesto, 28 aprile 2018. A sei anni dall'inizio del processo, la sentenza della Cassazione ha annullato le condanne inflitte dalla Corte di appello di Torino ai manifestanti NO TAV degli scontri in Val di Susa nel 2011, con postilla (i.b)

La sentenza della Cassazione che ha annullato pressoché in toto le pesanti condanne inflitte dalla Corte di appello di Torino nel maxiprocesso per gli scontri in Valsusa nel 2011, è una smentita senza precedenti dei teoremi di Procura e giudici torinesi nei confronti dei No Tav.

Non è certo la prima. Basta ricordare, per limitarsi ai casi più noti, la caduta rovinosa dell’imputazione di terrorismo nel processo per il danneggiamento di un compressore e l’annullamento di numerose misure cautelari. Ma questa volta la smentita è, se possibile, ancora più significativa. Per coglierne il senso conviene ripercorrere la vicenda.

I fatti risalgono all’estate del 2011 e si verificano alla Maddalena di Chiomonte dove, all’esito di numerosi ripensamenti, si è deciso di cominciare lo scavo del tunnel geognostico propedeutico alla costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione. Lì si organizza l’opposizione della Valle con un presidio di migliaia di persone che, il 27 giugno, vengono sgomberate, con inaudita violenza e con un uso massiccio di lacrimogeni, da reparti di varie polizie in assetto di guerra. Allo sgombero fa seguito, il 3 luglio, un imponente corteo di protesta all’esito del quale si verificano pesanti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Sei mesi dopo il gip di Torino emette 41 misure cautelari nei confronti di attivisti No Tav imputati di violenza pluriaggravata a pubblico ufficiale e di lesioni.

La lettura del provvedimento dimostra un inedito salto di qualità dell’intervento giudiziario che, da mezzo di accertamento e di perseguimento di responsabilità individuali, si trasforma sempre più in strumento di tutela dell’ordine pubblico.

Le misure cautelari, pur facoltative, vengono emesse per reati che consentono, con il bilanciamento di aggravanti e attenuanti, la sospensione condizionale della pena e vengono giustificate tra l’altro, con la singolare considerazione che «i lavori per la costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione proseguiranno almeno altri due anni; pertanto, non avrà fine, a breve termine, il contesto in cui gli episodi violenti sono maturati».

La motivazione si concentra, più che sulle condotte individuali, su una ritenuta responsabilità collettiva sino all’affermazione che «è superflua l’individuazione dell’oggetto specifico che ha raggiunto ogni singolo appartenente alle forze dell’ordine rimasto ferito, come lo è l’individuazione del manifestante che l’ha lanciato, atteso che tutti i partecipanti agli scontri devono rispondere di tutti i reati (preventivati o anche solo prevedibili) commessi in quel frangente, nel luogo dove si trovavano».

La pericolosità degli imputati viene desunta essenzialmente da rapporti di polizia e, per uno di essi, addirittura dal fatto che «nel 1970 è contiguo ai movimenti della sinistra extraparlamentare «Lotta Continua» e «Potere operaio» e partecipa a una manifestazione non preavvisata» (sic!). Il seguito è coerente, all’insegna di quello che è stato definito il «diritto penale del nemico». Il procuratore della Repubblica interviene di continuo sulla stampa affermando in modo tranchant che «a operare sono squadre organizzate secondo schemi paramilitari affluite nella Valle da varie città italiane ed europee per sperimentare metodi di lotta incompatibili con il sistema democratico».

I vertici degli uffici giudiziari torinesi non consentono lo svolgimento a palazzo di giustizia di un convegno sul tema organizzato dai Giuristi democratici. Il processo è sostenuto in modo acritico da un’alleanza di ferro tra fautori dell’opera, Partito democratico e media locali e nazionali. Interviene persino il presidente della Repubblica che «rinnova l’apprezzamento per come magistratura e forze dellordine stanno operando in quella tormentata area della Valsusa»).

In questo clima, e in aule presidiate da forze di polizia come se fossero campi di battaglia, si svolgono i dibattimenti di primo e di secondo grado che si concludono con pesanti condanne di gran parte degli imputati. Ebbene, oggi, sei anni dopo l’inizio del processo, la Cassazione riconosce l’inconsistenza e la forzatura di questa operazione.

Certo, occorre aspettare le motivazioni. Ma, intanto, alcune cose sono chiare già dal dispositivo: che le motivazioni delle condanne non sono congrue (tanto da imporre un nuovo processo per quasi tutte le posizioni), che alcuni dei reati contestati semplicemente non esistono (tanto da determinare l’annullamento della sentenza sul punto), che la sostituzione della responsabilità individuale con una inedita responsabilità collettiva a titolo di concorso non può avere cittadinanza nel nostro sistema, che alcune delle pene inflitte sono eccessive. È quanto basta per dire che è necessaria una completa rilettura della vicenda.

postilla

E' una buona giornata per chi lotta contro gli scempi compiuti da classi dirigenti che nella migliore delle ipotesi sono semplicemente incapaci di governare i nostri territori e nella peggiore sono solo interessati ad ottenere benefici personali alle spalle del paese e dei suoi abitanti, nascondendosi dietro la retorica del progresso, della modernità e dello sviluppo economico. Gli unici che in queste opere traggono beneficio sono le imprese che costruiscono opere inutile e dannose e i politici che in cambio di approvazioni e assensi ricevono favori. Sull'argomento vedi in eddyburg gli articoli di Marco Aime No Tav. Fuori dal tunnel, e di Tomaso Montanari Vuoi grandi opere?

il manifesto, 20 febbraio 2018. «Migliaia di processi, centinaia di arresti, scontri violenti, barricate, venticinque anni di lotta». Nessun responsabile e comunque si va avanti. Con riferimenti (m.p.r.)

La presidenza del Consiglio dei Ministri ha recentemente pubblicato un documento dal titolo: «Adeguamento dell’asse ferroviario Torino – Lione. Verifica del modello di esercizio per la tratta nazionale lato Italia fase 1 – 2030». A pagina 58, si legge: «Non c’è dubbio, infatti, che molte previsioni fatte quasi 10 anni fa, in assoluta buona fede, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea, siano state smentite dai fatti, soprattutto per effetto della grave crisi economica di questi anni, che ha portato anche a nuovi obiettivi per la società, nei trasporti declinabili nel perseguimento di sicurezza, qualità, efficienza. Lo scenario attuale è, quindi, molto diverso da quello in cui sono state prese a suo tempo le decisioni e nessuna persona di buon senso ed in buona fede può stupirsi di ciò. Occorre quindi lasciare agli studiosi di storia economica la valutazione se le decisioni a suo tempo assunte potevano essere diverse.

«Quello che è stato fatto nel presente documento ed interessa oggi è, invece, valutare se il contesto attuale, del quale fa parte la costruzione del nuovo tunnel di base, ma anche le profonde trasformazioni attivate dal programma TEN-T e dal IV pacchetto ferroviario, richiede e giustifica la costruzione delle opere complementari: queste infatti sono le scelte che saremo chiamati a prendere a breve. Proprio per la necessità di assumere queste decisioni in modo consapevole, dobbiamo liberarci dall’obbligo di difendere i contenuti analitici delle valutazioni fatte anni fa». Se c’è la buona fede, c’è tutto. Non importa che quelle valutazioni errate siano costate la più grave, e irreversibile per molti aspetti, crisi tra una comunità vasta e lo Stato degli ultimi decenni.

Migliaia di processi, centinaia di arresti, scontri violenti, barricate, venticinque anni di lotta. Le parole del governo, che riconoscono pienamente le ragioni del movimento Notav – Il Tav è fuori scala – non generano in val Susa il minimo senso di soddisfazione, bensì un vasto sentimento di rabbia. Anche perché la conclusione del papello governativo che prende atto dell’assenza di traffico sulla direttrice est – ovest, trascende nell’atto di fede: non serve, ma si fa lo stesso.

Ma di quanto furono sbagliate le previsioni all’origine della Torino – Lione? Gli studi di Ltf del 1999 prevedevano un incremento tra il 2000 e il 2010 del 100%, ovvero da dieci a venti milioni di tonnellate. Riviste nel 2004, a causa della chiusura del tunnel del monte Bianco che spostò sul Frejus il traffico merci, ebbero una virile ascesa: da otto milioni del 2005 a quaranta (40) nel 2030. Questo perché le merci in transito verso l’Austria o la Svizzera sarebbero state attratte, chissà perché, dalla Torino – Lione. Oggi, dall’attuale tunnel del Frejus, ammodernato solo pochi anni fa, passano tre milioni di tonnellate di merce. Se si sommano i flussi merce sull’autostrada parallela si arriva a tredici. Alla base della rivolta del territorio valsusino vi erano, e vi sono questi dati.

La responsabilità sarebbe dell’Unione Europea che sbagliò i calcoli, par di capire dal documento governativo, ma ormai è tardi per tornare indietro. Chiosa enigmatica, perché al momento della Torino – Lione Av non esiste un solo metro, a meno che non si prenda in considerazione un piccolo tunnel geognostico costruito in val Clarea. Piercarlo Poggio, docente presso il Politecnico di Torino fa parte del gruppo di accademici che hanno contrastato sul piano scientifico la tratta Torino – Lione Av, commenta: «Sono parole, quelle del Governo, che provano l’approccio scientifico tenuto dal movimento Notav: non abbiamo mai avuto una posizione ideologicamente contraria. I nostri sono sempre stati studi corretti, che provano l’inutilità dell’opera. A maggior ragione oggi è momento per tornare indietro, non per andare avanti come se nulla fosse».

Il tunnel di base costerà 8,6 miliardi di euro ripartiti tra Francia e Italia nella misura del 42,1% e del 57,9%, al netto del cofinanziamento UE che copre il 40% del costo complessivo. L’Italia quindi spenderà tre miliardi di euro a cui si devono sommare 1,7 miliardi necessari per il potenziamento della linea storica: è il cosiddetto «Tav low cost».

riferimenti
Su eddyburg numerosi articoli. Tra gli altri si veda Il Parlamento approva il Tav: non ha capito il trionfo dei No di Tomaso Montanari e gli scritti di Pierluigi Sullo e Ugo Mattei in Lotta "comune" quella della Val di Susa nella cui postilla si rinvia ulteriormente agli articoli che dimostrano come e perché quell’opera è una truffa. Per esempio, Che siate pro o contro la TAV, forse volete sapere chi la paga, oppure volete sapere perchè L'analisi costi-benefici boccia la Torino - Lione, oppure volete sentire il parere del prof. Marco Ponti che vi racconta perchè I costi dell'alta velocità corrono più dei treni. E per venire ai più recenti, ancora il parere di Marco Ponti, e i numeri ricordati da Luca Mercalli

Non è vero che per riparare i danni dei terremoti si possa intervenire soltanto dopo. Se chi comanda sapesse vedere appena un po' più in la del suo naso (e della crescita del Pil, e degli affari). L'analisi sconvolgente di un esperto, un grave atto d'accusa.

Dopo i terremoti devastanti, superato il primo drammatico impatto, i governi di ogni stagione hanno dovuto sempre recuperare una condizione penalizzante: l’esito troppo severo, un lutto immenso, la penosa desolazione dell’impotenza manifesta nel dare protezione. Si cerca di rendere accettabile ciò che non lo è, le giustificazioni sono espresse al superlativo: il disastro è sempre enorme, l’evento di inaudita potenza, l’esito assolutamente imprevedibile. Un attimo dopo interviene l’impegno perentorio: il governo si mobiliterà affinché queste cose non capitino più. Anzi si promette qualcosa anche di più ambizioso: la messa in sicurezza del territorio, espressione priva di senso compiuto, senza forse rendersi conto dell’irraggiungibilità di quell’obiettivo nel paese dei tanti rischi.

E’ l’impegno del giorno dopo, mosso da un bel po’ di coscienza opaca per avere già tradito quello della penultima volta; è la reiterata promessa che vuol avere un’azione tranquillizzante, sedativa nei confronti delle reazioni, delle polemiche montanti sulle macerie. Si cerca di chi è la colpa, si denuncia la lentezza dei soccorsi, il collasso inaspettato di edifici che non dovrebbero subirlo: di scuole, di ospedali, di caserme, dei luoghi da cui dovrebbe muoversi chi soccorre piuttosto di esser loro stessi soccorsi. Il mancato allarme, il “si poteva prevedere”, spunta quasi sempre, e qualche volta anche a ragione, soprattutto se il segno sulle carte del rischio aveva un colore rosso scuro e se un raro terremoto ha lanciato qualche segnale premonitore del suo arrivo che non si è voluto riconoscere.

Tutto è consentito per rassicurare quando il terremoto, nella consapevolezza collettiva, nella percezione delle dimensioni del rischio incombente, diviene un evento minaccioso il cui effetto distruttivo sembra non poter essere contrastato. Proprio come sta accadendo in quest’inizio di secolo, cominciato piuttosto male: nel 2002 a San Giuliano di Puglia, un piccolo terremoto che fa cadere una scuola su una scolaresca; ancora nel 2009, centouno anni dopo Messina e Reggio Calabria, un altro capoluogo, di regione, L’Aquila, viene sconquassata da un terremoto che non è nemmeno il suo massimo storico. Passano altri quattro anni, nel 2012 una scossa molto violenta colpisce l’Emilia mettendo a terra intere filiere produttive tanto ricche quanto incredibilmente fragili. Poi, nel 2016 accade che Amatrice, sulla quale la protezione della normativa sismica operava da quasi un secolo, viene polverizzata da una scossa di magnitudo 6.0, e deve piangere 298 vittime.

Poco dopo, invece, Norcia, con una magnitudo superiore di 6.5 non ha nessuna vittima e solo danni relativamente consistenti. Ma Norcia era stata già ricostruita due volte nel ‘79 e nel ‘97 del secolo scorso dopo altrettanti terremoti, e quindi una considerazione raggelante: essere stati rassicurati a lungo dalla nostra prevenzione, come ad Amatrice, non serve; piuttosto è necessario essere sopravvissuti a due terremoti distruttivi ed esser stati poi gratificati da altrettante ricostruzioni oneste e qualificate come a Norcia. Ulteriore riscontro, quindi, alla conclamata insufficienza dell’azione di prevenzione durata più di un secolo, attraverso il lentissimo procedere della classificazione sismica del territorio e l’applicazione, nei comuni via via classificati, della normativa tecnica ma solo per le nuove costruzioni.

D’altronde nessuno può far finta di non sapere da sempre che l’azione di prevenzione inaugurata dal terremoto di Reggio e Messina nel 1908, ad un secolo di distanza non ha dato quello che per altro non aveva mai potuto promettere: la protezione del patrimonio edilizio più antico e nemmeno di quello recente dove la classificazione era arrivata tardi. Insomma, che la prevenzione fosse una coperta corta era cosa nota, ma forse si è a lungo sperato che fosse almeno un po’ più pesante. Il patrimonio edilizio più antico così è diventato lo zoccolo duro del problema, mentre nuove fragilità si sono aggiunte. Come a Casamicciola, già rasa al suolo nel 1883, dove l’ultimo terremoto del ’17 ha riproposto il tema dell’abusivismo, dell’impressionante quantità di edilizia illegale che ha devastato l’isola verde, come veniva chiamata Ischia, determinando nuove tragiche vulnerabilità.

Inizio secolo, quindi, preoccupante nei numeri: circa 650 vittime, un cinquantina di miliardi il costo dei terremoti, delle ricostruzioni. Impegni di spesa che si protrarranno sul bilancio per i prossimi vent’anni, sommandosi al mutuo contratto per cinquantuno anni per la riparazione del Belice colpito nel ‘68; per quarantatre anni, fino al 2023, per l’Irpinia; fino al 2024 per il terremoto del ’97 in Umbria e Marche. Per la ricostruzione di L’Aquila si finirà invece di pagare nel 2034. E così via. Ogni anno lo Stato è chiamato a impegnare 3-4 miliardi per le rate dei tanti debiti contratti. Più di 200 miliardi spesi in 70 anni nelle ricostruzioni post terremoto, quasi quattro volte quelli necessari per intervenire sulle alluvioni di questo paese; il numero di vittime poi è inconfrontabile.

In questa contabilità, è inaccettabile la distanza tra quanto speso per ripristinare, per ricostruire e quanto destinato alla difesa dai terremoti. La prevenzione fondata sulla classificazione sismica del territorio, durata per tutto lo scorso secolo e ancora in esercizio, è stata a costo zero, tutta a carico dei cittadini. Poi, in questi ultimi decenni, avare politiche di piccolo cabotaggio, varate, come si è detto, subito dopo l’ultimo terremoto. Un esempio per tutti, nel 2009, la legge n.77, con cui il Governo avviava la tribolata ricostruzione di L’Aquila, prendeva un impegno ambizioso già nel titolo dell’art.11: “Piano nazionale di riduzione del Rischio sismico”. Fu ancora una volta un provvedimento tampone, il tentativo imbarazzante di riparare all’evidente sottovalutazione del rischio a cui era esposta una città. Quell’articolo contemplava un finanziamento per l’intero paese di 965 milioni di Euro, spalmato in sette annualità. A conti fatti, a ciascuno dei 2893 comuni individuati come a maggior rischio -se questi fossero stati scelti come destinatari dei finanziamenti- sarebbero toccati complessivamente 330mila Euro, l’incredibile cifra di 43mila Euro l’anno.

Nonostante la sua obiettiva inconsistenza, quell’intervento legislativo venne fortemente propagandato come l’avvio di un nuovo corso. D’altronde si annaspava allora tra le macerie non rimosse di L’Aquila e il Governo per più di una ragione si trovava sotto pressione per la gestione dell’immediato dopo terremoto ed in particolare per la scelta delle 19 new town, alternative all’idea di dar luogo ad una celere e determinata azione di ricostruzione della città. Di quel Piano non si è saputo più nulla, nessun documento, nessun atto, nessun seguito. Otto anni dopo ad Amatrice di quell’ambizioso impegno di ridurre il rischio sismico non se ne è ricordato più nessuno, nemmeno al Dipartimento di protezione civile presso cui era incardinato, così il Presidente del Consiglio ne ha proposto uno tutto nuovo, dentro un più complicato impianto di problemi di varia natura. Nel progetto del Presidente Renzi, illustrato in un’intervista all’agenzia Askanews il 29.08.’16, veniva esplicitato l’intento di dar corso all’ “adeguamento antisismico ma anche gli investimenti sulle scuole, sulle periferie, sul dissesto idrogeologico, sulle bonifiche e sui depuratori, sulle strade e sulle ferrovie, sulle dighe, sulle case popolari, sugli impianti sportivi e la banda larga, sull'efficientamento energetico, sulle manutenzioni, sui beni culturali e sui simboli della nostra comunità”.

Venivano così elencati i numerosi e disomogenei obiettivi dell’iniziativa di governo, messi tutt’insieme per essere spalmati in un arco temporale lunghissimo, durante il quale tre o quattro generazioni si sarebbero dovute impegnare per risolverli; più o meno un secolo per spendere una quantità enorme anche se indefinita di risorse mai individuate.

Così il Governo Gentiloni ha trovato nella legge di stabilità 2017 un posto per la prevenzione del millennio appena iniziato, ha ipotizzato una soluzione per il gigantesco problema sismico del paese, il “sisma bonus”. Tutto molto semplice: il cittadino virtuoso che percepisce il rischio di vivere in una casa non protetta chiede allo Stato un contributo per migliorarne la resistenza al sisma. Nulla di nuovo in realtà; dalla seconda metà degli anni ’90, con qualche discontinuità, si concedono bonus per ridurre il rischio sismico, senza tuttavia aver riscosso un grande successo. Ma questa volta l’impegno finanziario è smisurato e si è deciso di regolare solo minimamente il processo. Per farlo due sole cose: delle Linee guida di natura tecnica predisposte dal Consiglio superiore dei Lavori pubblici ed un decreto approvativo del Ministro delle infrastrutture. Così il mandato della legge di stabilità prende direttamente il via.

Una straordinaria facilità di accesso al bonus, un brevissimo percorso tra la Stato dispensatore delle risorse ed il cittadino, nessun filtro e nessuna verifica. Ci si aspettava, invece, che quanto messo in campo fosse davvero “un progetto”, che la sua applicazione fosse regolata, pianificata. Le Linee guida riguardano esclusivamente le modalità con cui ciascun edificio potrà essere valutato all’inizio in termini di rischio e verificato, alla fine dell’intervento, all’interno in un apposita graduatoria articolata tra la lettera A+ e la lettera G. Allo scopo si riempiono due schede di valutazione e le Linee guida spiegano anche come si procede nell’istruttoria fino al raggiungimento del risultato finale che consta nel miglioramento sismico della strutture. Se si riesce a far muovere l’edificio di due lettere di quella graduatoria si può ottenere il massimo contributo al costo dei lavori di ogni tipo necessari, l’80 percento. Ma se anche non si riesce a ottenere un incremento di sicurezza, o anche solo per il fatto di aver operato una verifica sismica dell’edificio, si ottiene un contributo del 50% della spesa sostenuta.

In qualsiasi prospettiva si operi è fissato comunque un tetto di 96mila Euro per ciascuna unità immobiliare. Il contributo viene erogato sotto forma di credito d’imposta, spalmato su cinque anni, a chi abbia un qualche titolo, anche non di proprietà, su prime o seconde case. Enorme è l’estensione del progetto, la platea di potenziali adesioni all’iniziativa, circa il 60% del territorio nazionale. In tale dimensione sono racchiusi i 706 comuni in Zona A (alta sismicità), i 2187 comuni in Zona B (media sismicità) e, davvero sorprendentemente, i 2866 comuni in Zona C a bassa sismicità. In tutto 5.759 comuni nei quali i titolari di qualsiasi diritto sull’immobile, proprietari ma anche affittuari, potranno rivolgere le richieste del contributo al Ministero dell’economia e finanze. La durata è stata prudentemente prevista in cinque anni, ma l’iniziativa si prefigura come un intervento strutturale al quale affidare il compito di portare a compimento la tante volte richiamata ma indefinita “messa in sicurezza del territorio”, in un tempo anch’esso indefinito ma certamente secolare.

Insomma, in un ambito dove lo squilibrio esistente tra le risorse disponibili e quelle necessarie per fare prevenzione è gigantesco, si rinuncia a qualsiasi distinzione, a ogni considerazione fondata su un esame di priorità, mettendo insieme territori ad alto rischio, dove sistematicamente gli ultimi terremoti hanno compiuto enormi disastri, con quelli a bassa sismicità dove la probabilità di collasso di un edificio, obiettivo perseguito dall’azione di prevenzione, è estremamente limitata. Insomma gli abitanti di Amatrice o della Calabria tutta ad alto rischio, avranno le stesse possibilità di accesso alle risorse di prevenzione di quelli di Roma o Trento. Le macroscopiche differenze tra diversi contesti, la necessità di attribuire ovvie priorità, non conta nell’astratta atmosfera in cui sembra muoversi l’accesso al bonus senza distinzioni.

Le prospettive, quindi, per un’operazione a pioggia che sembra indirizzata ad ottenere il più largo consenso popolare, sono molto incerte. Per il momento ha riscosso il plauso incondizionato delle professioni coinvolte, delle imprese, degli amministratori pubblici, tutti terminali di un intervento di Stato che semplicemente promette risorse. Ma il tema da affrontare era quello di alleviare la drammatica pressione del rischio sismico sulla popolazione, o piuttosto contribuire a rilanciare l’edilizia in periodo di crisi? Niente di male se così fosse, ma è essenziale la chiarezza d’intenti. Proprio per far chiarezza, allora, è bene proporre alcune considerazioni sulle dimensioni finanziarie dell’iniziativa, sulle difficoltà concrete che i virtuosi cittadini dovranno affrontare, ma soprattutto sugli effetti collaterali che potrà avere sul territorio.

Il “sisma bonus”, come tutti i progetti fondati sulla spontanea adesione degli aventi diritto, ha un campo di variabilità compreso tra zero e il 100%. Quest’ultima ipotesi, o comunque un’altissima adesione, non è nemmeno ipotizzabile per l’impegno di risorse che determinerebbe. E’ necessario allora attestarsi su una dimensione plausibile; fare l’ipotesi, per esempio, che solo il 30% degli aventi diritto presenti nei 2893 comuni a rischio sismico più elevato -escludendone così poco meno della metà, quei 2866 della Zona 3 a bassa sismicità- vogliano aderire all’iniziativa e che ottengano solo il 50% dell’agevolazione massima concedibile, cioè 43.000 Euro. Sotto queste condizioni estremamente conservative il fabbisogno sarebbe di circa 176 miliardi di Euro[1].

Quindi circa 1.8 miliardi l’anno per un secolo o poco meno di 6 miliardi l’anno per 30 anni. Tanti soldi da investire dove nessuna risorsa significativa è stata mai messa, troppa generosità per essere credibile di questi tempi. Ma comunque nessuna paura di tracollo finanziario, il rubinetto è nelle mani del Ministero economia e finanze che attraverso ogni la legge di stabilità potrà decidere quante risorse rendere disponibili ogni anno. Per esempio pare ci siano appena 300 milioni di Euro per il 2017.

Comunque, si tratta forse di cent’anni e oltre 176 miliardi per proteggere nella migliore delle ipotesi il 30% di ciò che è vulnerabile, che non è davvero tutto ciò che incide sull’obiettivo “messa in sicurezza del territorio”, che è cosa ben diversa. Interventi sparsi chissà dove in più di mezza Italia, senza alcuna priorità davvero dettata dalla ricorrenza e severità degli eventi, né dalla vulnerabilità del contesto. Insomma, non una strategia ma piuttosto un’iniziativa poco mirata, affatto selettiva, sulla quale è stata riversata la minima quantità immaginabile di scienza e conoscenza, del cui poco uso proprio in prevenzione, da sempre, ci si lamenta. Si stabilisce semplicemente un canale diretto tra Stato che rende disponibili risorse e il cittadino che tende la mano; nessun livello intermedio di controllo, di verifica, nessun elemento di pianificazione; salta qualsiasi livello di sussidiarietà, qualsiasi possibilità di guardare dalla prossimità gli aspetti salienti della questione, di fare sintesi tra la sicurezza sismica ed i tanti altri problemi di qualità, tutela e precauzione che affliggono il territorio.

La promessa di tante risorse da spargere come capita, da spendere sulla base dell’inerzia di un volano regolato solo dalla quantità di soldi che si fanno cadere nei suoi ingranaggi. E’ previsto un monitoraggio -che vuol dire che forse a posteriori si saprà dove quei soldi sono caduti- ma nessuno strumento per determinare a priori dove potranno andare a cadere. Altro che riqualificazione delle aree urbane, altro che ricucitura delle periferie, altro che battaglie per la “messa in sicurezza del territorio dai vari rischi che lo affliggono”, piuttosto un intervento a pioggia in cui è messo al centro del problema solo l’edificio, alcuni edifici.

Per capire di che si tratta basta immaginare il paesaggio del degrado infinito di molte periferie, case e palazzotti fatti di blocchetti, senza intonaco e con i ferri d’attesa sempre protesi verso il cielo, dove magari l’iniziativa del Governo andrà benissimo. E Casamicciola di agosto 2017, e la crudezza della vista dal cielo di Ischia con la sua urbanizzazione selvaggia, con i suoi 28.000 condoni? In che modo si relazionano questi scenari con il “sisma bonus” nei termini della qualità delle soluzioni praticabili? Il deprecato abusivismo dalle dimensioni enormi che affligge il paese, magari legalizzato ma che è rimasto certamente insicuro, potrà avere l’agevolazione promessa. E poi c‘è da considerare che per 1000 metri quadri fatti di 10 abitazioni da 80 metri quadri e 200 di parti comuni si può arrivare ad un contributo di oltre un milione di Euro. In certi contesti ci si costruisce il nuovo. Si stenta a credere davvero che questa sia la soluzione senza conoscenza, senza guida che si propone per quasi l’intero meridione.

Ma ci si spinge anche oltre il degradato, guardando in giro si intravedono alberghi che sbarrano valli montane dove, se nevica moltissimo, può succedere che viene giù anche una valanga mostruosa. E poi ancora, in qualche posto si cova la speranza che magari, prima o poi, almeno qualche migliaio di metri cubi da un’area esondabile, da una golena potrà essere delocalizzato; che un po’ di urbanizzato, a suo tempo magari abusivo, lo si possa un giorno riqualificare non dal solo punto di vista edilizio e della sicurezza. Tutto questo, invece, in assenza di una valutazione di prossimità, potrà essere per sempre asseverato; perderà la possibilità di venire per altre ragioni sanato, diventerà forse meno vulnerabile ai terremoti ma resterà per altre mille cause a rischio.

Così, il “sisma bonus” crea l’incredibile imbarazzo di fornire riflessioni sufficienti per sperare che un’iniziativa indirizzata alla prevenzione, ma così discutibilmente confezionata, non abbia nemmeno il modesto successo a cui può aspirare. Nel tempo secolare di attesa che l’iniziativa abbia un successo limitato ed affatto mirato, un'altra decina di terremoti distruttivi avrà colpito il paese nei medesimi posti dove ripetutamente si era già proposto con forza. Dopo cento anni alle spalle di risultati modestissimi, dominati dal binomio classificazione/normativa, sul piano della prevenzione si propone un altro strumento inefficace accompagnato da tante controindicazioni, da tanti effetti collaterali. Certo non si può pensare di poter raccontare, alle nuove vittime e superstiti dei terremoti che verranno, che null’altro si sarebbe potuto fare di meglio di un non progetto lungo cent’anni, molto costoso, distribuito sul territorio di mezz’Italia con la visione strategica del “si salvi chi può”.

[1] Calcolo effettuato in base ai dati desunti dal rapporto ANCE/CRESME – 2012 “Lo stato del territorio italiano” relativamente ai soli 2.893 comuni a maggior rischio (non temendo conto dei 2003 comuni a basso rischio sismico pur inclusi nell’iniziativa) nei quali sono presenti 11.700.000 abitazioni, 395.000 edifici non residenziali, 95.000 capannoni industriali, 79.000 edifici commerciali. Ciascuno di essi è stato ritenuto soggetto abilitato (abitazioni e edifici produttivi) a richiedere l’agevolazione per un totale di 12.270.000 unità. L’adesione è stata ridotta al 30%, quindi 4.090.000 unità per le quali è stato cautelativamente stimato un importo dell’agevolazione concessa al 50% del massimo erogabile, pari a € 43.000. Il fabbisogno necessario ad esaudire tale ipotesi è di circa 176 miliardi di Euro.

il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2017. «dopo 6 anni il cantiere è ancora militarizzato: già scavati sette km di galleria esplorativa. il no-tav qui è ancora molto forte, anche se in italia se ne parla assai meno» (p.d.)

Per raggiungere il cantiere più difeso del mondo in tempo di pace bisogna salire da Torino fino a Bussoleno e da qui fino a Chiomonte, per una strada statale impavesata di bandiere bianche con la scritta No Tav e percorsa da camionette di carabinieri, polizia, esercito. Poi ci si inerpica ancora fino alla galleria che inghiotte l’autostrada del Frejus, per risputarla verso Bardonecchia e Modane, in Francia.

Sopra Chiomonte, il primo posto di blocco. Cancelli, alte barriere difese con rotoli di filo spinato. Da un prefabbricato escono i carabinieri del check-point che chiedono i documenti, fanno i controlli, parlottano alla radio, si segnano il numero di targa dell’auto, chiedono perché vuoi passare. Ricevuto il via libera, si prosegue su una strada dove sono parcheggiati i pullman azzurri della polizia, attrezzati con alte grate di metallo che proteggono parabrezza e finestrini. Su uno, restano i segni di una vecchia battaglia: la vernice rossa che macchia fiancata e parabrezza. Oltre, ci sono solo le vigne di avanà, che tra qualche giorno sarà vendemmiato e darà un vino rosso che si trova solo qui, in Val di Susa. Solo qui, del resto, succedono tante altre cose. L’auto prosegue lentamente fino al museo della Maddalena, che un tempo era visitabile e che mostrava monete, frammenti di stoviglie e di tombe, dal Neolitico alla Seconda età del Ferro. Non si può proseguire oltre. Il passo è sbarrato da due alte recinzioni, sormontate dal filo spinato. Al cancello “Museo 5” chiedo di entrare per visitare la necropoli del 4000 a.C. Al di là delle grate, un gruppo di alpini in tuta mimetica. Un ufficiale mi chiede di nuovo il documento, si allontana, chiede ordini alla ricetrasmittente. Dopo qualche minuto d’attesa, torna al cancello e mi dice che no, non è possibile passare.
Il buco nella roccia scavato dopo vent’anni di progetti, dibattiti, polemiche, battaglie non si vede, da qui, e non si può vedere, come la vicina necropoli del Neolitico. Eppure è a poche centinaia di metri. È l’accesso al tunnel geognostico che è stato finalmente scavato: 7 km per saggiare la roccia, in vista dello scavo del tunnel più contestato d’Europa, quello per farci passare i treni ad alta velocità e ad alta capacità della Torino-Lione. Lo scontro Tav-NoTav, che ha a lungo occupato le prime pagine dei giornali e ha infiammato e diviso politici e cittadini, oggi è dimenticato. Fuori dalla Val di Susa, nessuno parla più della Torino-Lione e nessuno ricorda più l’esistenza di un movimento NoTav. Che fine hanno fatto i proclami di guerra lanciati dalle due parti? C’è ancora la volontà politica di realizzare la Torino-Lione? E c’è ancora il movimento NoTav? Per rispondere a entrambe le domande bisogna salire fin quassù, tra le barriere di filo spinato e le vigne di avanà della Valsusa.
Gli elefanti di Annibale
Prima notizia. Il progetto Tav c’è ancora. Dopo vent’anni di progetti, lotte, modifiche, cambiamenti e incertezze, il tanto contestato grande buco nella montagna lo vogliono ancora fare. Sembrava tutto rallentato, anzi sospeso. In due decenni, non è stato ancora scavato neppure un metro del tunnel di base e i 7 chilometri del tunnel geognostico realizzati finora sembrano più un risultato da sventolare come una bandiera, per non darla vinta ai NoTav. “Il Tav ha un alto valore simbolico, che è quasi superiore a quello effettivo”, ha dichiarato a luglio 2017 il presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino. La Francia, d’altra parte, aveva annunciato nella primavera scorsa una “pausa di riflessione” e il nuovo presidente Emmanuel Macron non perde occasione per ripetere che deve mettere a posto i conti dello Stato.
Ma due incontri, la settimana scorsa, hanno rilanciato il progetto. Martedì 26 settembre, Roma: la Conferenza nazionale dei servizi, con i rappresentanti di governo, Regione, Comuni valsusini e della società italofrancese Telt che dovrà fare i lavori, ha discusso l’ultima variante del progetto. Mercoledì 27 settembre, Lione: il vertice tra il presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni e il presidente francese Macron ha confermato il progetto. “Siamo entrambi impegnati affinchè il troncone transfrontaliero della Torino-Lione sia portato a buon fine. Il tunnel di base deve essere concluso”, ha dichiarato Macron. In realtà qualche problema resta ancora aperto e sarà affrontato da un gruppo di lavoro misto italo-francese. Macron vuole passare dall’attuale finanziamento annuale a quello pluriennale e soprattutto vuole alleggerire i conti dell’opera, facendola pagare almeno per il 50% non allo Stato francese, ma ai camionisti che passano sulle strade della Francia, attraverso l’Eurovignette. Quanto costa il grande tunnel? Già spesi 1,8 miliardi per la progettazione. Per la costruzione, ne servono altri 8,3 che dovranno essere pagati al 25% dalla Francia (2 miliardi), al 35% dall’Italia (3 miliardi) e al 40% dall’Europa (3,3 miliardi). Ai francesi costa 200 milioni l’anno per dieci anni, 300 l’anno all’Italia. “Assurdo che noi italiani dobbiamo pagare di più, per un tunnel che è in gran parte in territorio francese”, protestano i NoTav. “Dei 57 chilometri della galleria, 45 sono in Francia e solo 12 in Italia”, spiega Claudio Giorno, storico esponente del movimento. “Ma noi pagheremo di fatto il 58% dei lavori: ogni chilometro ci costerà 245 milioni, mentre i francesi pagheranno solo 48 milioni a chilometro”. Gli risponde a distanza Mario Virano, direttore generale di Telt: “È una normale compensazione, poi la linea francese, dal tunnel a Lione, è tripla di quella italiana, dal tunnel a Torino”. Avanti tutta, dunque. Con una sola variante di rilievo, quella discussa dalla Conferenza dei servizi del 26 settembre: il cantiere non si fa più a Susa, per cominciare a scavare la galleria su verso la Francia, ma resterà qui a Chiomonte e scaverà giù verso Susa. Per motivi di “sicurezza”, dicono. “Ma nel senso di security, non safety”, ribatte Giorno. “Non è la sicurezza dei lavoratori che faranno gli scavi, né dei cittadini che li subiranno, bensì la difendibilità militare del cantiere, più facile quassù e quasi impossibile a Susa”.
Il governo: “Farà bene all’economia”
La Torino-Lione, sostiene il ministro Graziano Delrio, “farà bene all’economia, alla logistica, alle persone, insomma all’Italia. La direttrice Ovest ha bisogno di una cura del ferro per spostare su rotaia le merci che viaggiano ancora soprattutto su gomma”. Gli fa eco Gentiloni: “Questa linea è di importanza strategica”. Il movimento NoTav risponde ripetendo le cifre diffuse dagli economisti e dagli studiosi dei trasporti: i passeggeri e le merci in viaggio tra Italia e Francia sono in continuo calo da oltre vent’anni. “Per i passeggeri, l’alta velocità fra Torino (o Milano, o Roma) e Parigi c’è già e si chiama voli low cost”, dice con una battuta Marco Ponti, professore del Politecnico di Milano. Quanto alle merci, la linea ferroviaria esistente è già più che sufficiente a coprire il fabbisogno: può trasportare fino a 20 milioni di tonnellate l’anno. Nel 1994 ne ha portate 10, poi è cominciata una diminuzione ininterrotta fino alle 3 tonnellate di oggi. Verso ovest è in calo, del resto, anche il trasporto su gomma. “È chiaro che la Torino-Lione è un’opera inutile”, scandisce Sandro Plano, storico sindaco di Susa, oggi presidente della Comunità montana, esponente del Pd ma da sempre schierato con i NoTav. “È un progetto figlio degli anni Ottanta, oggi i numeri ci dicono che basta e avanza la linea che c’è già. La nostra protesta è cominciata negli anni Novanta, quando il sentire comune degli amministratori locali e dei cittadini era di non far devastare la nostra valle da un’opera inutile. Qui ci hanno già fatto passare la ferrovia, la statale, l’autostrada, l’elettrodotto. Ci fanno passare di tutto, fin dai tempi di Annibale che ci ha portato anche gli elefanti. Immaginatevi di vivere in un appartamento con il corridoio sempre occupato da gente che passa. La Val di Susa è così”.
Gemma Amprino, sindaco di Susa per un mandato, aveva come slogan: “Susa di nuovo grande”. Aveva anticipato Donald Trump? No, aveva creduto alle sirene Tav che promettono di creare a Susa una “stazione internazionale”: “Ma chi mai arrivando da Lione o da Parigi vorrebbe fermarsi a Susa prima di raggiungere Torino?”. Resta invece ottimista Virano, secondo cui l’offerta creerà la domanda: “Io a casa ho una vecchia, bellissima Valentine, la macchina per scrivere rossa disegnata da Ettore Sottsass. Funziona benissimo, potrebbe scrivere migliaia di pagine, non è ‘satura’, ma non la uso, perché per scrivere adopero il computer. Così la vecchia linea ferroviaria: non è ‘satura’ ma va fuori mercato, ci vogliono tre locomotori per portare i treni merce su fino a 1.300 metri. In Italia ci sono sette valichi alpini: tutti hanno un tunnel di base. Lo avrà anche il passaggio a ovest, altrimenti i trasporti verso la Francia (e la Spagna) passeranno dalla Germania e l’Italia sarà tagliata fuori”.
Il Cappellaio Matto progettista
Le seconda notizia che si scopre venendo quassù, nelle nebbioline che annunciano l’arrivo pieno dell’autunno, è che il movimento NoTav c’è ancora. Nel resto d’Italia contano solo gli scontri, le battaglie, gli attacchi violenti al cantiere, i processi, gli antagonisti, gli anarchici. Qui c’è una comunità che da anni costruisce iniziative, discussioni, ma soprattutto stili di vita, luoghi d’incontro, reti di conoscenze e di affetti. Giovani cresciuti a pane e NoTav o vecchi che hanno identificato la loro vita con la difesa della valle hanno un’esperienza in comune: non sono persone che fanno la loro vita e poi impegnano qualche ora del loro tempo nelle attività di un movimento; no, per loro vita e movimento sono una cosa sola. Così oltre il check-point della Maddalena trovo Gianni, che cura il pezzo di terra comprato insieme ad altri mille per poter entrare nell’area di cantiere, cura gli alveari e raccoglie il miele. Tutti i mercoledì, aperipranzo alla Colombera. Tutti i venerdì, apericena fuori dal check-point. Domenica 24 settembre c’è stata una festa dopo che per tutta la settimana erano stati dipinti in valle i murales di Blu e di Scift. A luglio a Venaus c’è stato il “Festival dell’Alta felicità” con musicisti e artisti, Elio Germano e Stefano Benni, Luca Mercalli e Lo stato sociale, Africa Unite e Bandabardò. “Siamo un movimento che mette insieme madamine ben educate e ragazzi con i capelli rasta”, dice il guardaparco Luca Giunti. Al presidio NoTav di Borgone trovo un gruppo di pacifici cittadini che chiacchierano amabilmente. Una madamina sorride: “Il progetto del Tav sembra disegnato dal Cappellaio Matto. A una manifestazione mi sono guardata attorno e ho pensato: chissà che cosa avrebbe detto la mia mamma se mi avesse visto oggi, attorniata da tutte queste bandiere anarchiche. Ma noi difendiamo la nostra valle dall’ennesimo Annibale che ci tratta come un corridoio dove passare; e difendiamo il nostro Paese, l’Italia, da un’opera inutile”.

Tra il taglio indiscriminato dei paesaggi urbani formati degli alberi antichi in superfici e la macelleria trsforatrice delle inutili infrastruttura nel sottosuolo Firenzi si sta confermando come la capitale delle follìe urbane. la Città invisibile online, 6 settembre 2017 (c.m.c.)

Non si sa da dove cominciare per parlare del progetto TAV fiorentino, quei sette chilometri di doppio tunnel ferroviario e quella stazione sotterranea in cui praticamente non circoleranno treni.

Proviamo a partire degli ultimi sviluppi di una vicenda che ormai ha i toni dell’assurdo: dopo un dibattito che è sfociato perfino nella rissa politica (tra renziani e veterodiessini) l’accordo finale è difficile da spiegare perché non risponde ad alcuna ragione razionale, è completamente privo di logica.

Le ferrovie avrebbero deciso che i treni ad alta velocità continueranno a fermare alla stazione principale, Santa Maria Novella; alla nuova stazione si attesterebbero solo una ventina di treni al giorno per un numero di passeggeri che non arriva oggi a 2000. Nei tunnel sotto la città passerebbero, oltre quelli, i treni senza fermata in città, un numero esiguo.

Dunque si va avanti con un progetto miliardario per meno treni che in una linea secondaria? Anche i nostri “decisori” si sono resi conto dell’assurdità della cosa e allora cosa si è trovato di giustificazione alla grande opera? La mega stazione sotterranea diventerà la fermata dei bus extraurbani! No, non è uno scherzo: si vogliono costruire due tunnel in ambiente urbano e una stazione sotterranea per fare – in superficie – una fermata di autobus.

Chi scrive ancora si chiede se ha capito bene o se il caldo di questa estate gli ha ottenebrato la mente, ma pare sia proprio così: si costruisce una linea ferroviaria sotto terra per autobus in superficie. Forse i principi della logica che hanno accompagnato la cultura occidentale da Aristotele in qua sono stati abbandonati? Forse qualche mistica visione ha fatto sì che si decidesse di costruire un tempio agli dei sotterranei per metterli in contatto diretto con quelli celesti?

Non chiedete a noi, ma a questa classe politica e imprenditoriale che ormai ha preso il volo e staziona ad altezze così vertiginose da non essere più compresa dai comuni mortali (che comunque pagheranno devotamente tutto con i soldi delle loro tasse). Noi continuiamo a vivere vicino a terra, quella terra che verrà scavata dalle viscere di Firenze e si accumulerà, trasformata in fango, sulle rive del lago di Santa Barbara, vicino a Cavriglia, dove si vorrebbero conferire quelle terre inquinate per fare risanamento ambientale (sic).

E così, strisciando nei bassifondi della curiosità, continueremo a farci domande:

I grandi decisori (come il sindaco fiorentino Dario Nardella) hanno detto che è una grande idea quella di creare un “hub” tra ferrovia e gomma. Ma di che hub si parla? Cosa si metterà in collegamento se NON ci saranno treni?

Nella grande stazione interrata col tetto di vetro progettata da Norman Foster saranno trasferiti tutti i bus extraurbani che servono Firenze e quelli dei turisti che arrivano in città. Ma è stato fatto uno straccio di studio di fattibilità? Si sono verificate le conseguenze sul traffico e soprattutto sui pendolari che usano questo servizio? I turisti che arriveranno in bus come raggiungeranno il centro cittadino? Si è fatto uno studio per verificarne la sostenibilità? Se sì, dove sono questi documenti?

L’idea di trasformare una stazione ferroviaria in una stazione di autobus è una modifica sostanziale del progetto; questo richiederebbe una nuova VIA (valutazione di impatto ambientale). Come si pensa di fare? Far finta di nulla e andare avanti come si è fatto fin’ora, visto che NON ESISTE una VIA per la stazione Foster? Chi straparla di legalità chiude gli occhi davanti al più grande abuso edilizio in Toscana?

Il progetto TAV è stato interessato da due pesantissime inchieste della magistratura che hanno portato ad un processo che dovrebbe iniziare a breve: corruzione, traffico di rifiuti, truffa, associazione a delinquere, infiltrazioni della Camorra… un elenco lungo e vergognoso. Su questo si tace nelle dichiarazioni di politici e costruttori. Eppure una delle inchieste si chiamava “sistema”, proprio perché denunciava come esistesse una pianificazione, fin dal Ministero dei trasporti, nella distribuzione delle grandi opere inutili, con metodi corruttivi e con spaventosi sperperi di risorse pubbliche; compresa quella fiorentina. Possibile si sia dimenticato tutto questo?

I lavori di questo Passante ferroviario sono andati avanti a singhiozzo e molto lentamente non per lungaggini burocratiche, ma per i troppi errori progettuali. Il più evidente è quello che prevede l’utilizzo delle terre, ovviamente contaminate, per il risanamento ambientale a Santa Barbara, nel comune di Cavriglia. Già nel 2008, in un convegno, l’allora assessore ai trasporti Riccardo Conti chiese pubblicamente al ministro dell’Ambiente Altero Matteoli di modificare la normativa sulle terre di scavo, altrimenti “il sottoattraversamento fiorentino era irrealizzabile”.
http://www.nove.firenze.it/a807010031-tav-conti-i-senza-deroga-alle-norme-sullo-smaltimento-dello-smarino-il-sottoattraversamento-di-firenze-e-irrealizzabile-i.htm Il regolamento è stato modificato con mille forzature e adesso, secondo i fautori del TAV, sarebbe pronto lo scavo. Ma cambiare una legge rende più pulite quelle terre?

Il Comitato No Tunnel TAV, con i suoi tecnici, ha fatto un attento lavoro di studio del progetto ed ha verificato una miriade di criticità di cui continua a chiedere conto a Ministero, Regione, Comune, Osservatorio Ambientale (una delle istituzioni “foglia di fico” più inutili che si siano mai viste). Come è possibile che ancora non si sia data una risposta?

Ecco una breve selezione delle mancate risposte ai difetti ed errori del progetto:

-Si continua ad ignorare che i danni agli edifici sono stati tutti sottostimati in confronto con la letteratura scientifica al riguardo.
-Si è autorizzato, da parte dell’Osservatorio Ambientale, lo scavo con una sola fresa delle due gallerie. Con questa modalità i danni in superficie saranno superiori fino al 60%.
-La falda è impattata e sbilanciata in tutti i cantieri con paratie, le mitigazioni non funzionano, ma si continua a tranquillizzare dicendo che “si monitora con attenzione”; monitorare non vuol dire risolvere.
-Gli studi sismici sulla stazione Foster sono stati eseguiti in maniera sbagliata, considerando terreni lontani dal cantiere.
-I consolidamenti previsti sotto i bastioni della Fortezza non sono adatti ai terreni argillosi presenti e provocano essi stessi danni. Si sono già verificati nel caso della scuola Rosai, ma si fa finta di nulla.
-Sul tracciato delle gallerie insistono ben più dei 280 edifici dichiarati dai costruttori e in questi si trovano parecchie migliaia di appartamenti e negozi. Nessuna opera di prevenzione è prevista; i famosi “testimoniali di stato”, effettuati negli anni passati, non servono a prevenire i danni, ma per tutelare i costruttori nell’evidente esplosione del contenzioso che ne seguirà.

I molti errori progettuali hanno rallentato la realizzazione del poco costruito ed i costi stanno esplodendo: dai dati dichiarati qualche mese fa, davanti a lavori eseguiti per il solo Passante del valore di circa 250 milioni, i costruttori accampavano costi ulteriori di 528 milioni che parrebbero ridotti, con una trattativa, a 350.

Ma su tutto domina la profonda ed assoluta inutilità dell’opera, soprattutto adesso che le FS hanno deciso di non mandare i treni TAV alla stazione ai Macelli.

Da questo quadro non è possibile che prevedere sfaceli multipli: per i cittadini che saranno (e sono) danneggiati dai lavori, per tutti i cittadini che pagano l’opera, per le FS che gettano al vento enormi risorse, per la politica nazionale e locale che ne sta uscendo screditata, per i viaggiatori che vedranno peggiorate le loro condizioni. Gli unici vantaggi saranno per i costruttori e i loro “amici”; questi hanno un nome: Condotte SpA, cioè la famiglia Caltagirone, dopo che la cooperativa Coopsette, tanto cara alle maggioranze in Regione e a suo tempo vincitrice della gara di appalto, è ignominiosamente fallita rovinando migliaia di soci.

«Chiesto il fallimento per l'autostrada più cara d'Italia. Un capriccio politico costato 5 miliardi ai contribuenti. Mentre i finanziatori privati sono svaniti nel nulla». L'Espresso, 23 luglio 2017 (c.m.c)


Le infrastrutture sono un sottogenere della commedia all'italiana. Si ride con l'amaro in bocca da nord a sud. Non si è ancora conclusa la saga ventennale della Salerno-Reggio Calabria che la scena si sposta verso le brume padane con un micidiale trittico di fallimenti: Brebemi, Teem e Pedemontana lombarda, l'autostrada pubblica più cara della storia d'Italia al costo, per ora, di 57,8 milioni di euro al chilometro in un territorio molto urbanizzato ma non particolarmente complesso sotto il profilo ingegneristico.

Per la Pedemontana la parola fallimento va intesa in ogni senso, incluso quello giuridico. La Procura di Milano ha chiesto all'azionista di maggioranza, la Regione, di staccare la spina su un'iniziativa che doveva vedere i privati in prima fila e che è arrivata a un conto da 5 miliardi di euro, tutti a carico del contribuente. Da lunedì 24 luglio, i pedemontani presenteranno le loro controdeduzioni e, s'intende, respingeranno ogni addebito a differenza del contribuente citato sopra che sarà tosato nel più puro stile Roma ladrona dalle addizionali del governatore leghista Roberto Maroni.

Dietro il processo c'è molto di più di una questione contabile. Da Varese alla bergamasca, da Como alla bassa Brianza, la Pedemontana attraversa il cuore e la pancia della Padania. Il varesino Maroni, avviato verso il referendum sull'autonomia del 22 ottobre, ha detto di volersi ricandidare in febbraio per potere inaugurare il tracciato completo nel 2021. Non è colpa sua se i soldi sono finiti, i finanziatori privati sono svaniti nel nulla e l'autostrada non ha aperto per Expo 2015. Non è colpa sua se la gente preferisce ingorgare le vecchie strade pur di non pagare.

In realtà, anche se le previsioni di traffico fossero state corrette, un investitore privato non si sarebbe mai infilato in un tunnel di costi infiniti. Per la Pedemontana si sono fatte le cose in grande. Non solo gallerie, ma anche trincee per fare scorrere il traffico al di sotto del livello della campagna in modo ecocompatibile, 22 mila espropri a prezzi di mercato e tante opere compensative a beneficio dei sindaci nei luoghi di interferenza del tracciato con i centri urbani.

Fin qui c'è poco da ridere, si dirà. Giusto. Allora incominciamo con lo spettacolo. La Pedemontana lombarda è la prima autostrada italiana che applica il sistema free-flow. Niente caselli. Basta il telepass, il conto targa o l'app.

Sulle tangenziali di Varese e di Como non si sarebbe dovuto pagare pedaggio. Non è stato possibile mantenere l'impegno se non nell'anno semigiubilare dell'Expo. Con le elezioni in arrivo a febbraio dell'anno prossimo, Maroni si è impegnato a ripristinare i passaggi gratuiti sulle due tangenziali, non si capisce in base a quale piano di sostenibilità finanziaria.

La cosa certa, per il momento, è che chiunque prenda i 30 chilometri della Pedemontana paga la tariffa più alta del territorio nazionale: 21 centesimi di euro al chilometro per le automobili. La costosissima e desertificata Brebemi ne costa 18, la Teem (tangenziale esterna est Milano) ne chiede 19. Sulla Milano-Roma si paga un terzo (7 centesimi al chilometro).

Questo ha comportato un livello di traffico giornaliero pari a metà del previsto (31 mila veicoli invece di 62 mila). Circa il 25 per cento non paga. Le targhe svizzere guidano la lista degli evasori (2 milioni di veicoli complessivi). Ma niente paura. La Pedemontana ha concluso un accordo con il Touring club del Canton Ticino e, a beneficio di chi scansa la dogana di Ponte Chiasso e preferisce il valico di Gaggiolo, ha piazzato una serie di cartelli per suscitare negli elvetici il desiderio di mettersi in regola. Altrimenti? Altrimenti ci arrabbiamo, avrebbe detto il compianto Bud Spencer. La Pedemontana ha annunciato un'azione di recupero pedaggi con la spedizione di 2 milioni di lettere ai furbetti che hanno tradotto l'espressione free-flow con "scorro gratis". Un quarto circa delle lettere è stato già inviato. Il che non significa che sia arrivato.

Lo scorso inverno poco dopo le ferie natalizie negli acquitrini intorno ad Albairate e a Rosate, paesi della cintura ovest milanese ancora verdi e ricchi di boschi, sono stati trovati 40 chilogrammi di solleciti che la Pedemontana aveva affidato alla società di spedizioni palermitana Smmart post. A 10 grammi a lettera fanno 4000 buste. La Pedemontana ha immediatamente rescisso il contratto con Smmart post e ha annunciato un'azione di risarcimento. Resta il fatto che il recupero crediti appare problematico. La concessionaria ha chiuso il 2016 con 24 milioni di incassi dal free-flow contro 16,4 milioni di costi di gestione, metà dei quali vengono dal costo dei 117 dipendenti (5 per chilometro aperto al traffico), più 10 milioni di oneri finanziari dovuti ai prestiti dei soci di minoranza Intesa e Ubi, per un risultato di bilancio negativo per 7,8 milioni (-22,6 milioni nel 2015).
Se Maroni manterrà la promessa di rendere gratuite le due tangenziali di Varese e Como, dove passano 17 mila veicoli al giorno, rimarranno solo i 14 mila dell'A36, che porta da Lomazzo a Cassano Magnago, il paese di Umberto Bossi.

Questi dati sono la pietra tombale per ogni ipotesi di ingresso da parte di quei capitali privati che, nello schema di project financing iniziale, dovevano farsi carico dei due terzi dell'opera.

La Caporetto di Beniamino Gavio sulla Brebemi è un dissuasore potente ma va detto che nella Pedemontana non ci ha mai creduto nessun imprenditore, salvo le banche garantite dai 450 milioni di euro di fondo di garanzia regionale. L'aumento di capitale da 267 milioni di euro deciso nel 2013, all'inizio della legislatura di Maroni, è stato sottoscritto soltanto dalla Regione (32 milioni). Per i rimanenti 235 milioni di euro si è passati da una proroga all'altra, per un totale di sei. L'ultimo closing ha come limite il 31 gennaio 2018, a ridosso delle regionali dove Maroni potrebbe affrontare il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Al di là degli usi elettorali della nuova autostrada, un tempo concepita proprio per unire l'aeroporto varesotto di Malpensa con quello bergamasco di Orio, la Pedemontana è una coproduzione dell'intero schieramento politico. Fra le poche eccezioni figurano i grillini e Giuliano Pisapia, che, da sindaco di Milano, nel 2014 ebbe il suo momento di rivolta in stile fantozziano («la Pedemontana lombarda è una cagata pazzesca») prima di essere crocifisso in sala mensa dai leghisti, dai formigoniani al crepuscolo e dal segretario regionale democrat, il varesino Alessandro Alfieri, che oggi si concede qualche pacata forma di antagonismo («la Pedemontana è il simbolo del fallimento di Maroni»).

Anche Antonio Di Pietro si è lasciato andare a qualche critica. Il fondatore dell'Idv è presente nella sceneggiatura del cinepanettone pedemontano con un doppio ruolo. Venti anni fa era ministro delle Infrastrutture, entusiasta alla presentazione del progetto a fianco del plenipotenziario formigoniano Raffaele Cattaneo. Più di recente è stato presidente di Pedemontana benché per un solo anno, dal 2016 al 2017 dopo l'ex Poste Massimo Sarmi. Dallo scorso giugno l'ex pm di Mani Pulite ha ceduto il volante definendo l'opera "faraonica" ma ormai inevitabile. Il suo posto è stato preso da un altro presidente che alla Procura di Milano si muove come a casa sua. È Federico Maurizio D'Andrea, ex ufficiale della Guardia di Finanza a fianco di Saverio Borrelli e Gherardo Colombo, riconvertitosi in manager (Telecom, Olivetti, Sogei, organo di vigilanza del Sole 24 ore) e proprietario di una piccola quota nella Banca Galileo, istituto di credito a diffusione locale finanziato da imprenditori mantovani e bergamaschi.

Di Pietro e D'Andrea sono uniti nel contestare la linea dei magistrati Paolo Filippini, Giovanni Polizzi e Roberto Pellicano (da luglio capo a Cremona), gli stessi che hanno in mano l'inchiesta Infront. Secondo il management della Pedemontana, la continuità aziendale della società concessionaria non si è mai interrotta. Bisogna solo trovare i 3 miliardi circa che servono a completare l'opera. L'eutanasia suggerita dalla Procura sarebbe ad alto rischio. Nelle valutazioni di Di Pietro, uno stop costerebbe 1 miliardo di euro in contenziosi. È un po' quello che si sente dire periodicamente del ponte sullo Stretto.

Come per il ponte fra Sicilia e continente, anche la catastrofe pedemontana è bipartisan. A destra c'è stato un tempo in cui ci si disputava il merito di avere portato a casa l'opera fra la coppia forzista-ciellina Formigoni-Cattaneo e il binomio leghista formato dall'ex viceministro alle Infrastrutture, il lecchese Roberto Castelli, e dallo stesso Maroni.

Ma hanno tifato per l'infrastruttura Antonio Bargone, sottosegretario dalemiano nel 1999 con Nerio Nesi ministro, il bersaniano Filippo Penati e il suo successore berlusconiano Guido Podestà, quando la Provincia di Milano controllava la società prima di cedere alla Regione la Milano-Serravalle. Né bisogna scordare il ruolo giocato dal ministero delle Infrastrutture con Pietro Lunardi e Altero Matteoli. Il ministro in carica, Graziano Delrio, all'inizio di luglio ha perso la pazienza. «Lo Stato non può essere un bancomat», ha detto davanti ai sindaci della provincia di Monza e Brianza. «Se l'opera è stata pensata con dimensioni di traffico sbagliate, noi o i cittadini non possiamo metterci i soldi. Ne abbiamo già stanziati tanti: 1,2 miliardi più 800 milioni di defiscalizzazione. Cerchiamo di andare avanti con quello che c'è».

«È la Lombardia a essere stanca di fare da bancomat allo Stato» ha replicato l'assessore regionale ai trasporti Alessandro Sorte, lo stesso che voleva collegare l'aeroporto di Orio al Serio e il centro di Bergamo con una funivia. La verità è che la Pedemontana è una delle puntate dell'epopea del general contractor e riproduce, in piccolo ma non troppo, lo schema dell'alta velocità ferroviaria con un tocco di federalismo lumbard in più.

Per Delrio, nemico dichiarato del sistema del general contractor, è una nemesi gestire un'opera che non condivide nello schema e che ha all'origine il pasticcio chiamato Cal, l'ente concedente formato 50/50 da Anas e dalla Ilspa durante il regno di Antonio Rognoni, arrestato per gli appalti dell'Expo a marzo del 2014 e condannato in primo grado due anni dopo. Nemico di arbitrati e transazioni, Delrio deve accettare che l'impresa appaltatrice del lotto 2, austriaca Strabag, abbia ottenuto una revisione prezzi da 61 milioni di euro grazie a un accordo bonario fra gli avvocati Paolo Clarizia, Luigi Strano e Domenico Aiello, il legale di fiducia di Maroni. Proprio il professionista calabrese è tornato alle cronache per la parcella da 188 mila euro ottenuta nel processo della Regione contro l'ex governatore Formigoni e per la lombosciatalgia che ha causato una serie di rinvii al processo milanese contro Maroni per le nomine negli organismi dell'Expo. Da questo verdetto dipende il futuro politico del governatore. Il futuro della Pedemontana, invece, sembra già segnato. Un'incompiuta in più.

Questi industriali nostalgici! Per contrastare un'opera dannosa e devastante adoperano contro chi protesta un linguaggio che usavano i nazisti contro i partigiani. Il Sole 24Ore, 27 aprile 2017, con riferimenti

È ormai guerriglia attorno al cantiere del gasdotto Tap a Melendugno, nel Salento. Sebbene non ci siano lavori in corso, nè espianto di ulivi, poiché quest’ultima operazione è stata completata nei giorni scorsi, si susseguono attacchi e azioni vandaliche. Tap ha infatti denunciato che la scorsa notte «per l’ennesima volta si è svelato il volto violento del gruppo che dal cosiddetto presidio NoTap cerca di imporre contro le leggi dello Stato quella della giungla, della prevaricazione, dell’aggressione. Per più di un’ora – denuncia la società – è stato impedito il cambio turno delle guardie giurate che vigilano sul cantiere e quelle rimaste intrappolate nell’area recintata sono state fatte ripetutamente oggetto di lanci di sassi che fortunatamente non hanno colpito le persone causando però danni alle automobili di servizio. Il gruppo di scalmanati – rileva Tap – ha pesantemente insultato e minacciato i lavoratori presenti, mentre altri, con arnesi professionali provvedevano a tagliare ben 35 grate della recinzione, 5 delle quali sono state rimosse e rubate». «Chiediamo alle istituzioni locali di fare il possibile per assicurare un presidio di legalità nel territorio» sollecita Tap.

L’episodio ultimo è l’ennesimo di una serie. Domenica scorsa, infatti, per consentire che un’autobotte innaffiasse gli ulivi espiantati e sistemati nella stessa area di cantiere con una soluzione provvisoria, al contrario degli altri rimessi a dimora a masseria del Capitano, è stata necessaria la scorta dei Carabinieri e della Polizia locale di Melendugno perché il presidio No Tap impediva l’accesso e anche lo svolgimento di una semplice operazione finalizzata ad assicurare il mantenimento degli alberi. E appena qualche giorno prima era stato necessario l’impiego di un centinaio di poliziotti e delle ruspe per effettuare gli ultimi espianti nell’area del microtunnel del gasdotto, tutti lavori per i quali Tap non solo è autorizzata ma s’è vista riconoscere la regolarità anche dal Tar. Ruspe resesi necessarie per abbattere le barricate stradali, parte delle quali fatte anche con le pietre portate vie dai muretti a secco della campagna. Senza trascurare, infine, che lo stesso espianto dei 211 ulivi, anche se provvisorio, nelle scorse settimane è stato possibile solo perché le forze di polizia hanno massicciamente presidiato l’area evitando che le proteste accese degenerassero in scontri

riferimenti
sull'argomento vedi su eddyburg i seguenti articoli: TAP Mafia e soldi sporchi dietro il gasdotto, da l'Espresso, 1 aprile 2017, Montanari: l'Italia del No è la migliore, da Micromega, 15 aprile, La lunga storia dell'opposizione, da Lettera43, 23 aprile 2017, Sul gasdotto l'OK del Consiglio di Stato, da la Repubblica, 28 marzo 2017

«A maggio cambia la valutazione d’impatto ambientale Da Italia Nostra al Fai: un aiuto alla lobby del cemento.In ballo strade e ferrovie per 21 miliardi di euro Il ministero: sono regole chieste dall’Europa». la Repubblica, 29 aprile 2017 (c.m.c.)

Cambieranno le norme che regolano la valutazione d’impatto ambientale delle Grandi opere, ma non solo di quelle grandi: linee ferroviarie, autostrade, ponti e anche gasdotti come il Tap. In meglio? In peggio? In meglio, secondo il ministero dell’Ambiente, che ha preparato un decreto legislativo sostenendo di dover recepire una direttiva europea e preoccupato soprattutto di semplificare le procedure. In peggio, secondo il fronte ambientalista, che denuncia un ritorno alle opacità e alle pratiche fallimentari della Legge Obiettivo (2001, uno dei trofei del governo Berlusconi). In gioco ci sono opere infrastrutturali, da una parte, territori, paesaggi e comunità di cittadini, dall’altra.

Venti associazioni imputano al ministro Gian Luca Galletti d’aver voluto un provvedimento, gradito alle imprese di costruzioni, che, fra le altre cose, stabilisce possa essere esaminato dalla Commissione Valutazione d’impatto ambientale già il progetto di fattibilità di un tunnel o di un’autostrada, cioè un progetto molto preliminare e non quello definitivo. La Via dovrebbe stabilire se un’opera arreca danni basandosi sulle linee generali e non sui dettagli di un intervento, dove si annidano molti rischi. Il ministero ribatte di voler sbloccare lavori per 21 miliardi, incastrati nelle procedure di valutazione ambientale. Procedure che durerebbero un anno per verificare l’assoggettabilità di un progetto alla Via e tre per la valutazione.

Questo in media, ma si può anche arrivare a sei anni. Replica Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente (che con Italia Nostra, Wwf, Fai e altre sigle si oppone al provvedimento): «I ritardi non dipendono dalla Via, ma da progetti in molti casi mal fatti». Sui tempi lunghi si è pronunciato il Nucleo di valutazione del Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica, addebitandoli solo in parte alla Via.

La preoccupazione del ministero è di fornire tempi certi ai proponenti di lavori, pubblici o privati. Ma qui la questione si aggroviglia. Secondo gli ambientalisti, dando il via libera a un progetto preliminare si avvia un cantiere che può incappare in inciampi che, questi sì, rallentano i tempi generando varianti che fanno schizzare i costi. Questo insegnano molte vicende del passato, in particolare dopo la Legge Obiettivo (dal 2001 al 2016, calcola il Wwf, i costi delle infrastrutture sono lievitati da 125 a 375 miliardi), vicende che hanno dato luogo a inchieste giudiziarie, ai rilievi dell’Anac e hanno indotto il governo ad approvare nel 2016 un Codice degli appalti che supera la Legge Obiettivo. Inoltre una Via così concepita, insistono gli ambientalisti, riduce le informazioni ai cittadini e la loro partecipazione alle decisioni.

Secondo il Wwf, «ci sono voluti anni perché nella Via ci fosse un confronto vero sulle opere. Ora si torna indietro». Il ministero insiste sulla necessità di attuare una direttiva europea, pena una procedura d’infrazione. L’argomento non convince Maria Rosa Vittadini, che la Commissione Via ha diretto in passato: «L’Europa chiede una Via che contempli anche la biodiversità o i mutamenti climatici, che presti attenzione alla salute, al paesaggio e alla partecipazione. Quel che propone il ministero è assai riduttivo. Sarebbe utile dividere la Via in due fasi, una su un progetto più avanzato rispetto al preliminare, un’altra su un progetto definitivo. In entrambe le fasi è però essenziale la presenza delle amministrazioni locali e dei cittadini».

«Cancellato con un tratto di penna dalla vecchia normativa il divieto di legare la costruzione di nuove palazzine alla realizzazione di impianti sportivi». il Fatto Quotidiano online, 27 aprile 2017 (p.s.)

Due curve, due tribune e quattro condomini, con appartamenti da rivendere e milioni da incassare: ora si può. Perché se fino a ieri chi voleva costruire nuovi stadi poteva pensare di rientrare nell’investimento realizzando solo cinema, negozi e centri commerciali, dal 24 aprile può mettere in cantiere anche palazzi, case, villette e relativi profitti di vendita. Un affare. Con un tratto di penna su una frase ben precisa contenuta nella vecchia legge sugli impianti sportivi, infatti, il governo Gentiloni ha cancellato il vincolo che impediva di inserire la realizzazione di complessi di edilizia residenziale all’interno del progetto dei nuovi campi sportivi.

Che siano dedicati al calcio o ad altri sport poco importa: basta disegnare arene con capienze da almeno 20mila posti, trovare un imprenditore che fiuta l’affare, una società ambiziosa e un’amministrazione comunale compiacente ed il gioco è fatto. Lì dove c’era l’erba (del campo) ci saranno tante belle casette: lo stadio con gli appartamenti intorno, ovvero l’articolo 62 della manovrina firmata da Mattarella pochi giorni fa.

Altr che norma salva "stadio della Roma” – L’hanno chiamata norma “salva stadio della Roma”, ma in realtà la posta in palio è molto più alta perché di fatto l’esecutivo ha riaperto al grande business della speculazione sugli impianti sportivi. Che, di fatto, potrebbero diventare cavallo di troia per imponenti colate di cemento. Anche residenziali come detto, in deroga ai piani regolatori: perché il divieto esplicito per cui i renziani si erano battuti strenuamente nel 2013 (quando erano ancora forza di minoranza del governo di centrosinistra) è stato ora cancellato dal ministro dello Sport, Luca Lotti, che ha già messo la firma sull’articolo della “manovrina” di primavera. “Una rivoluzione”, ha rivendicato in un’intervista al quotidiano L’Arena. E come dargli torto: prima la legge “non prevedeva nessun altro intervento” se non quelli “strettamente necessari” (definizione che già aveva prestato il fianco a interpretazioni discutibili), ora “può ricomprendere” praticamente tutto.

Con la scusa di un nuovo impianto sportivo (neanche troppo grande: 20mila posti di capienza minima) le società potranno alzare condomini e palazzine, senza neppure il bisogno di una vera e propria variante urbanistica: dal ministero spiegano che la decisione finale spetterà sempre ai consigli comunali, ma di fatto i piani regolatori potranno essere superati semplicemente con il parere positivo della conferenza dei servizi.

Sparitio il vincolo sul residenziale – Si tratta a tutti gli effetti di un colpo di mano. A sorpresa, peraltro. Perché nella “finanziaria-bis” licenziata dal consiglio dei ministri prima di Pasqua era atteso un capitolo dedicato agli investimenti sportivi, dove inserire la tanto attesa garanzia da 97 milioni di euro per la Ryder Cup e alcune misure per i mondiali di sci di Cortina. Ma nessuno si aspettava che spuntasse dal nulla anche un articolo dedicato alla “costruzione di impianti sportivi”.

Una paginetta scarsa che modifica la normativa vigente in un paio di punti cruciali. La vera novità è riassunta tutta in una frase: in quello che c’è scritto (o meglio, in quello che non è scritto) all’interno del comma 1 dell’articolo 62: «Lo studio di fattibilità può ricomprendere anche la costruzione di immobili con destinazioni d’uso diverse da quella sportiva, complementari e/o funzionali al finanziamento e alla fruibilità dell’impianto». Dal testo è stata cancellata la frase «con esclusione della realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale» che compariva nella precedente legge n.147 del 2013 e che fino ad oggi aveva messo al riparo i progetti dall’invasione di nuove palazzine. Basta questa piccola spunta per aprire le porte alla speculazione.

“Rischio speculazione” – «Il provvedimento è molto chiaro, nulla da interpretare: prima c’era un vincolo sul residenziale, ora non c’è più», commenta Roberto Della Seta, ex presidente di Legambiente e deputato del Partito Democratico, da sempre attivo sulla questione stadi. «A me pare che questa operazione non riguardi tanto il nuovo stadio della Roma (a cui lui ora sta collaborando come consulente per la certificazione ambientale per i proponenti, nda), quanto altre città: ultimamente si è parlato di Firenze, mi vengono in mente anche i piani di Lotito per la nuova casa della Lazio che prevedevano una parte residenziale. Di sicuro in molti saranno contenti di questa legge». La misura era stata presentata come un favore allo stadio della Roma perché propone una conferenza dei servizi più rapida, il cui parere conclusivo d’ora in poi servirà anche da variante urbanistica (lo scoglio su cui la giunta Raggi si era incagliata negli scorsi mesi, anche per le spaccature interne). Ma all’interno dello stesso Movimento 5 stelle romano ritengono che il vero obiettivo sia un altro: «Per quel che ci riguarda non ci sono grosse novità», conferma a ilfattoquotidiano.it Daniele Frongia, assessore allo Sport del Comune. «Dopo la ‘manovrina’ l’assessore all’Urbanistica, Luca Montuori, ha incontrato l’As Roma, ma è servito solo per ribadire gli accordi già presi: le carte in tavola non cambiano». Ovvero a Tor di Valle non ci sarà nessuna riconversione degli edifici commerciali previsti dal dossier: «Con la vecchia o con la nuova legge, possiamo garantire che il residenziale non entrerà nel progetto. Prendiamo atto invece dell’accelerazione nell’iter della conferenza: nel nostro caso, dove tutto è già stato approfondito a lungo, potrebbe avere un risvolto positivo, il rischio è che abbia effetti deleteri altrove».

La giravolta dei renziani – L’articolo 62 della manovrina, insomma, serve anche per chiarire che il parere della conferenza dei servizi sostituirà l’eventuale variante urbanistica necessaria in caso di cambio di destinazione d’uso dei terreni. Virginia Raggi vi avrebbe fatto volentieri ricorso negli scorsi mesi, quando il progetto di Tor di Valle si era arenato proprio per la difficoltà ad approvare un atto in giunta e poi in consiglio comunale (data la contrarietà dell’ex assessore Berdini e di alcuni consiglieri).

Ora il processo accelerato sarà un aiuto in più, ma non sposterà gli equilibri che sembrano già raggiunti. Mentre potrebbe essere determinante per quei progetti ancora tutti da definire nel resto del Paese. C’è anche un ulteriore favore ai proponenti: la sospensione dei permessi per l’occupazione di suolo pubblico nel raggio di 300 metri dallo stadio in occasione delle partite, che rimetterà nelle mani delle società anche il business degli ambulanti. Ma queste sono briciole, in confronto alla possibilità di costruire palazzine e condomini, magari un intero nuovo quartiere, dove non potrebbe sorgere nulla. Un affare da milioni di euro.

Naerdella: «Non ho seguito la vicenda». Ma il 10 marzo annunciava novità sulla normativa – È curioso che quattro anni fa, quando il governo Letta aveva provato a cancellare il vincolo sul residenziale, tra i tanti a insorgere c’era stata anche l’ala renziana del Pd. Dario Nardella, uno dei primi promotori del ddl sugli stadi, aveva difeso personalmente quella clausola, definita come “discrimine” contro la «tentazione di usare la realizzazione di grandi impianti sportivi come pretesto per altre finalità».

Oggi, contattato da ilfattoquotidiano.it, il sindaco di Firenze spiega di essere «preso dagli impegni locali in città» e di «non aver seguito la vicenda». Eppure la città da lui amministrata è una di quelle maggiormente interessate dalle novità, visto che la famiglia Della Valle costruirà nel quartiere di Novoli (inizio lavori previsto nel 2019) un nuovo impianto da 40mila posti. Il progetto è stato presentato il 10 marzo e in quella occasione Nardella sottolineò – con grande soddisfazione – di aver saputo dal suo amico Luca Lotti che a breve ci sarebbero state modifiche importanti alla legge sugli stadi. Che quindi gli interessava eccome.

Dagli uffici del ministero dello Sport, invece, precisano che si tratta di una norma che vuole solo snellire alcuni passaggi burocratici e dare una spinta positiva alla ristrutturazione e costruzione di nuovi impianti. E i rischi speculativi? Chi lavora con Luca Lotti è sicuro: non ci sono perché la decisione finale spetterà sempre ai consigli comunali. Ed in effetti gli enti locali (il Comune, la Regione laddove competente) continueranno ad avere l’ultima parola all’interno della conferenza dei servizi. Ma stravolgere i profili delle città italiane grazie ad uno stadio medio-piccolo sarà molto più facile e veloce. E soprattutto redditizio, specie per chi al pallone vuole abbinare il mattone.

«La storia del Comitato è iniziata il 16 marzo del 2011.Le ragioni vanno oltre gli ulivi da difendere. il Tap è un'opera inutile dal un punto di vista tecnico».Lettera43, 23 aprile 2017 (c.m.c.)

Non solo gli ulivi da difendere. Dal 2011 presìdi, battaglie, tribunali, 18 mila pagine di progetto scandagliate. Genesi e ragioni del Comitato anti-pipeline raccontate dal suo portavoce Gianluca Maggiore.Le nostre ragioni vanno oltre gli ulivi da difendere. Per noi il Tap è un'opera inutile e lo diciamo da un punto di vista tecnico: anche se li espiantassero, la fattibilità del progetto è ancora tutta da dimostrare». Gianluca Maggiore è il portavoce del Comitato No Tap. Di formazione perito meccanico, dal 2011 si è studiato oltre 18 mila pagine di documenti sulla Trans Adriatic Pipeline, il gasdotto di 878 chilometri che dalla Grecia dovrebbe raggiungere la spiaggia di San Foca, in Puglia, nel 2019.

«Non ci siamo svegliati ora». Almeno questo è ciò che desiderano la Commissione europea, il governo e la società Tap Ag, con sede a Baar, in Svizzera. Al contrario, Maggiore, insieme con i sindaci salentini e il governatore della Regione Puglia Michele Emiliano, pensa ancora di poter fermare le macchine. Ormai, dice, migliaia di persone gravitano intorno al movimento No Tap. «Quello che più mi infastidisce», racconta, «è leggere articoli che ci dipingono come gente che si è svegliata adesso, come se fossimo soli. Questa non è solo la battaglia del Comitato No Tap, ma della popolazione». Secondo il portavoce dei contrari al gasdotto, l'opera non è stata pensata per funzionare.

La storia del Comitato è iniziata il 16 marzo del 2011. Su media locali e nazionali uscì per la prima volta un comunicato stampa di Tap Ag, la società svizzera, in cui si descriveva a grandi linee l'idea del progetto e la sua finalità. Il Comitato ancora non esisteva: c'era solo un'associazione cittadina, Tramontana, che iniziò a volerci capire di più. «Non avrei mai immaginato che sei anni dopo saremmo arrivati a questo punto», dice Maggiore.

«Tutti i sindaci erano contrari». A ottobre 2011 il progetto cominciò a prendere forma: sul territorio salentino il piano prevedeva che dal punto di approdo di allora - una zona scogliera - partisse una rete di tubi di 21 chilometri per raggiungere la rete di gas regionale. Il 16 febbraio 2012 in un'aula piena Tap Ag presentò il progetto rivisto a Melendugno, alla presenza di centinaia di persone: «Tutti i sindaci presenti erano contrari», racconta Maggiore. In sostanza fu l'atto di nascita del Comitato No Tap.

Nuovo progetto, nuovi problemi. La seconda versione prevedeva l'approdo alla spiaggia di Melendugno, come oggi, e un allaccio alla rete del gas, stavolta nazionale. La conduttura pensata all'inizio non era sufficiente, così il piano si dovette spostare di 55 chilometri verso Brindisi. Il Comitato No Tap continuò a studiare e presentò le contromosse. Già all'epoca l'idea degli attivisti era che il Tap fosse inutile, in Salento come altrove.

Ingresso delle istituzioni. Ad aprile 2013 i sindaci, di cui diversi vicini ai No Tap, formularono le prime osservazioni, che a settembre produssero la prima bocciatura a livello regionale e nazionale. La notizia si fece sentire in Puglia. I No Tap entrarono nelle istituzioni: Maggiore insieme con altri tre attivisti (un professore di economia, un ingegnere e un fisico) furono nominati tra i 40 esperti del Comitato di volontari di Melendugno voluto dal sindaco Marco Potì, uno che nelle interviste televisive ha sempre alle sue spalle la bandiera del Comitato No Tap. Competenze locali che hanno dato corpo e argomenti alla protesta.

La battaglia per il Tap diventò poi istituzionale: governo contro Comune e Regione. Tra la fine del 2013 e il 2014 arrivò una nuova vittoria per il fronte del no: il ministero dei Beni culturali considerò il punto d'approdo in Italia nella spiaggia di San Foca inadeguato. Il ministero dell'Ambiente nel 2014 approvò la Valutazione di impatto ambientale (Via) con 58 prescrizioni, ma poi - è la versione del Comitato - intervenne il Consiglio dei ministri per limitarli.

In contatto con i NO TAV. Il 10 settembre 2014 fu il giorno della grande manifestazione contro il Tap organizzata in Puglia. "No Tap" non era più solo uno slogan salentino: «Da allora siamo in contatto con altre realtà di cittadini, come i No Tav», prosegue Maggiore.

Migliaia di pagine di memoria. Il portavoce del Comitato No Tap è diventato anche uno dei personaggi de L'alleato azero, graphic novel edita da Round Robin e prodotta dalla Ong Re:Common, una delle voci più critiche al progetto del gasdotto. Ovviamente è quello che durante un'assemblea del Comitato cita a memoria alcune delle migliaia di pagine di commenti e osservazioni sulla Valutazione di impatto ambientale.

osservazioni sulla Valutazione di impatto ambientale.

«Territorio. Il decreto del governo Gentiloni cambierà in peggio la Valutazione d’impatto ambientale, producendo accentramento, sanatorie e regali alle lobby». il manifesto, 15 aprile 2017 (c.m.c.)

Contro il governo, che vuole escludere i cittadini e gli enti locali dall’esprimere il proprio parere nella Valutazione impatto ambientale (Via) delle grandi opere pubbliche, centinaia di associazioni, in tutta Italia, lanciano l’allarme. Nel dossier Questa non è la Via spiegano le criticità del decreto proposto per le nuove procedure di Valutazione di impatto ambientale, che in teoria dovrebbe limitarsi a recepire una direttiva comunitaria del 2014. Una riforma ritenuta «pericolosissima».

«Meno partecipazione, accentramento, sanatorie e regali alle lobbies. Il governo Gentiloni – viene denunciato nel documento – intende mettere il bavaglio a quanti vogliono parlare e capire». Su diversi punti il decreto, ora all’esame delle Commissioni parlamentari e della Conferenza Stato-Regioni, «oltre a rappresentare una vera e propria involuzione sul tema del rapporto tra comunità e interessi privati che sostengono i progetti, si rivela criminogeno e, in qualche passaggio, anche eversivo dello stato di diritto. Occorre coniugare procedimenti snelli e partecipazione popolare alle scelte, – dichiarano associazioni, comitati e movimenti – migliorando anche i contenuti degli studi di impatto ambientale che spesso sono carenti, se non fatti direttamente con il copia-incolla». E di proposte, in tal senso, ne vengono avanzate diverse.

Il decreto – fa presente il dossier – prevede di poter accedere in qualsiasi momento e per qualsiasi tipologia di opera alla Via «in sanatoria». «Addirittura c’è la possibilità di continuare i lavori anche se “scoperti” e realizzare un progetto (una cava, un gasdotto ecc.) senza Via; oppure, quando il parere Via, se esistente, è stato sospeso o annullato dal Tribunale amministrativo regionale. Il cantiere, in sostanza può andare avanti anche se irregolare. Tanto poi si rimedia».

«La verifica di assoggettabilità a Via, che oggi è un primo filtro per impianti anche pericolosi e distruttivi,- si evidenzia – praticamente diventerà un orpello. Infatti per ben 90 categorie di opere e impianti è stata eliminata completamente la fase di partecipazione per cittadini ed enti, che oggi hanno 45 giorni per presentare osservazioni. Il governo si arroga il diritto di decidere d’imperio».

Attualmente, per la procedura di Via, bisogna depositare il progetto definitivo ai fini delle analisi. Invece con il nuovo provvedimento aziende e imprese proponenti possono presentare anche «quattro schizzi, privi di dettagli tecnici fondamentali per verificare gli impatti oppure, come sta accadendo frequentemente, per accorgersi di eventuali abusi già commessi».

I componenti della commissione Via nazionale saranno scelti dal ministro espressamente, «senza fare ricorso a procedure concorsuali». Questa specifica viene introdotta dopo la bocciatura della Corte dei Conti della nomina di Galletti per la nuova commissione Via, bocciatura avvenuta proprio per l’assenza di criteri selettivi. «Il controllo partitico – è l’accusa – diventerà totale. Si cerca così anche di superare surrettiziamente l’esito referendario del 4 dicembre, quando è stata bocciata anche la riforma dell’articolo117 della Costituzione che prevedeva un forte accentramento».

«Molti dei progetti di estrazione del petrolio e di prospezione, con l’uso dell’airgun e di esplosivi, verrebbero esclusi dalla Via diretta. Inoltre il governo vuole fare un grande regalo da centinaia di milioni di euro alle multinazionali: permettere di non smontare piattaforme e gasdotti a fine lavorazione lasciandoli ad abbellire il paesaggio».

«L’idea di un tunnel sostitutivo nasce dopo il sisma del 1980. Il tracciato originale porta acqua a 1 milione e 300mila persone. In 37 anni scavati solo sei chilometri su 10». Il Fatto Quotidiano online, 15 aprile 2017 (c.m.c.)

A Caposele c’è chi ormai la chiama “la Tav dell’acqua”. Eppure la Pavoncelli Bis, che in questo Comune di 3600 abitanti in provincia di Avellino ha il suo imbocco, non sembra affatto paragonabile, per dimensioni e costi, alla Torino-Lione. Appena 10 chilometri di galleria, per una spesa totale di poco più di 163 milioni. «Ma è ugualmente dannosa per l’ambiente, e ugualmente inutile», protestano alcuni attivisti dei comitati che si oppongono alla realizzazione del tunnel, che dovrà costituire il tratto iniziale dell’Acquedotto Pugliese e sostituire la Pavoncelli originale, quella realizzata a inizio ‘900 e rimasta danneggiata dal terremoto dell’Irpinia.

Era il 1980. Trentasette anni dopo, la galleria sostitutiva non è ancora stata ultimata. Tanto che c’è chi parla anche di maledizione del conte Giuseppe Pavoncelli, banchiere di Cerignola e ministro dei Lavori pubblici del Regno d’Italia, che nel 1906 diede avvio agli scavi per la galleria che avrebbe portato il suo nome. «Ma i fantasmi del passato c’entrano poco», sbuffano gli abitanti di Caposele. Questa, dicono, «è una classica storia di grande opera all’italiana». Con tanto di promesse mancate, tempi che si dilatano, macchinari presentati come avveniristici che improvvisamente si bloccano in mezzo alla galleria.

L’odissea della galleria: progettata nel 1985, cantieri aperti nel 1990. Poi un lungo stallo – L’idea di costruire una galleria sostituiva, “la Bis”, nasce subito dopo il 23 novembre del 1980. La Pavoncelli ha retto al terremoto, ma le perizie evidenziano danni alla struttura. L’ipotesi di un crollo è preoccupante, dal momento che dalla galleria dipende l’approvvigionamento idrico di 1 milione e 300mila abitanti. Per scongiurare il rischio di un’interruzione, nel 1985 l’Ente Autonomo Acquedotto Pugliese realizza il progetto della Pavoncelli Bis: la galleria originale, si stabilisce, resterà in funzione fino a quando la nuova non sarà completata. I cantieri si aprono nel 1990, ma nel giro di pochi anni due contratti d’appalto vengono rescissi a seguito di contenziosi con le imprese. Si capisce subito che le cose si complicano. Si arriva al 1998, quando parte il valzer dei commissari straordinari. Senza che però la tanto attesa svolta nei lavori arrivi.

Roberto Sabatelli, lo “sblocca-cantieri” che dal 2005 sovrintende all’opera – Poi, nel 2005, arriva “lo sblocca-cantieri”. Così, almeno, si autodefinisce l’ingegnere Roberto Sabatelli. Barese, classe 1947, è lui il nuovo commissario straordinario. Carica che mantiene fino al 2010, quando il governo Berlusconi lo promuove Commissario delegato: nomina, quest’ultima, che gli conferisce il ruolo di stazione appaltante. Nonché uno stipendio annuo di 290mila euro. «Equivale allo 0,3% dell’importo a base d’appalto», precisa Sabatelli. Che da allora ha rischiato più volte di essere sollevato dall’incarico, salvo ottenere, puntuali, le conferme necessarie per poter andare avanti. L’ultima nel Milleproroghe del dicembre scorso, che prevede un rinnovo di altri 12 mesi.

La talpa incastrata: «È bloccata in un restringimento dall’agosto 2016» – Basteranno, perché la Pavoncelli bis venga conclusa? Sicuramente no. Perché nel frattempo la talpa scavatrice fatta arrivare appositamente dalla Germania nella primavera del 2014 si è bloccata. «Un imprevisto aumento di tensione», è la frase che Sabatelli utilizza per spiegare lo stop. In sostanza, questa fresa meccanica lunga 220 metri è rimasta incastrata in un restringimento della galleria. Era il 28 agosto del 2016, e non si è ancora riusciti a rimediare. Inutile, a distanza di oltre 7 mesi, anche solo pretendere di capire la causa dell’incidente. «Non la conosciamo», ammette il commissario. «Stiamo facendo degli studi per capire le possibili cause». Nell’attesa che il rebus venga sciolto, si continua anche a provare a rimettere in funzione la fresa. I vari tentativi, fin qui effettuati, si sono rivelati tutti fallimentari. «Siamo passati ora a soluzione più impegnative. Dopo Pasqua – annuncia Sabatelli – proveremo a muovere la talpa».

Dopo 32 anni, completati 6 chilometri su 10. «Le sacche di gas? A volte siamo costretti a sospendere gli scavi» – Risultato: dei 10,3 chilometri di galleria previsti, a 32 anni dal varo del progetto ne sono stati completati appena 6,2. «Siamo a buon punto», dice comunque Sabatelli. Che argomenta: «Dal momento in cui la talpa si sblocca, se non risulterà danneggiata in 5 o 6 mesi gli scavi termineranno. Poi ci vorrà circa un altro anno per ultimare i lavori». Sempre che, nel frattempo, non sorgano altri problemi. Come quelli legati alla presenza di gas, più volte denunciati dai comitati ambientalisti locali. «Delle sacche effettivamente ci sono, ma fin dall’inizio sapevamo a cosa saremmo andati incontro. Nel corso dei lavori sono state rilevate quantità superiori alle attese, e per questo abbiamo incrementato le misure di sicurezza per i lavoratori». Sabatelli ci tiene comunque a ridimensionare gli allarmi. «Quando si parla di rischio esplosione, non si deve pensare all’eventualità che la galleria salti in aria, a meno che qualcuno non vada lì con un accendino in mano. Semplicemente, quando il livello di gas rilevato supera i valori minimi di sicurezza, interrompiamo gli scavi e aspettiamo che tutto torni nella norma».

La vecchia galleria? «Potrebbe cedere con un’altra scossa» – Intanto la vecchia Pavoncelli continua a funzionare regolarmente. Tanto che c’è chi pensa che costruire un doppione sia inutile. «Lo pensa chi non conosce l’opera», protesta Sabatelli. «La galleria originale sta, come diciamo a Bari, tienimi che ti tengo. Presenta insomma vari problemi, in particolare legati al rialzamento della calotta di fondo. Potrebbe chiudersi del tutto se arrivasse una nuova scossa». E a quel punto, 37 anni dopo il terremoto del 1980, un’alternativa ancora non ci sarebbe.

«Il Def congela l'ipotesi autostradale e apre all'adeguamento dell'Aurelia da Grosseto a Civitavecchia. Ambientalisti soddisfatti, ma sui finanziamenti per ora ci sono solo 120 milioni ». il manifesto, 11 aprile 2017 (c.m.c.)

Ritorno al duemila per la Tirrenica, l’anno in cui – dopo una prima bocciatura della valutazione di impatto ambientale – i governi dell’epoca (D’Alema e poi Amato) ipotizzarono una superstrada a quattro corsie da Grosseto a Civitavecchia. Passati ben 17 anni fra maxi progetti autostradali, interni o costieri, e una opposizione sempre più radicata sul territorio maremmano, ora il Documento di economia e finanza congela l’ipotesi autostradale. Più per i problemi dell’iter amministrativo, visto che la concessione data senza gara dallo Stato a Sat (Società autostrada tirrenica) portava dritta all’apertura di una procedura d’infrazione Ue, che per dare, una volta tanto, ragione ai contestatori. Ma attenzione: «Ci auguriamo che Anas sia stata incaricata dal ministero alle infrastrutture e trasporti di predisporre le risorse – osserva Anna Donati di Green Italia – quindi il nostro impegno continua per arrivare davvero alla messa in sicurezza dell’Aurelia».

Tecnicamente sulla grande opera verrà fatta una “project-review”. «Con valutazione delle possibili alternative – è scritto nel Def – inclusa la riqualifica dell’attuale infrastruttura extraurbana principale». «Del resto la Conferenza dei servizi è ancora aperta», ha osservato sul punto un fan dell’autostrada come il il viceministro Riccardo Nencini. Comunque le associazioni ambientaliste festeggiano. Italia Nostra, che per prima denunciò i problemi dell’intervento infrastrutturale, ricorda: «Nella battaglia si sono unite a noi le altre grandi associazioni nazionali, come Lega Ambiente, Fai e Wwf. Ma sono soprattutto le tante associazioni locali come Colli e laguna di Orbetello, Maremma viva di Capalbio e la Lega dei comitati di Grosseto, oltre ad altre sigle ugualmente importanti, che ci hanno permesso di tenere duro». In altre parole la civile contestazione ambientalista ha trovato terreno fertile lungo l’intera Maremma.

Dal canto suo Legambiente, con Angelo Gentili, riepiloga quanto successo nell’ultimo periodo: «Dopo la bocciatura del progetto da parte dei Comuni interessati e delle associazioni, si blocca un progetto impattante sul profilo ambientale che non rispetta le esigenze del territorio e delle comunità, con pedaggi salati, complanari inadeguate, e flussi di traffico che non giustificano affatto un’opera autostradale. Ora quello che serve sono cantieri per mettere in sicurezza subito i punti più critici, partendo dai pericolosissimi tratti a due corsie e dagli incroci a raso».

Il problema è che, al momento, l’Anas ha stanziato solo 120 milioni, per la manutenzione del tratto già a quattro corsie – la Variante Aurelia – che va da Rosignano fino a Grosseto. Lavori comunque indispensabili, visto che quei 120 chilometri erano stati da anni abbandonati a se stessi, forse per forzare la mano da parte dei fan autostradali. Ma da Grosseto al confine con il Lazio di soldi ne occorreranno molti di più. Circa un miliardo, lavorando con oculatezza.

Proprio di finanziamenti sembra parlare la senatrice Alessia Petraglia di Sinistra italiana: «Sono stati persi anni importanti per una ostinazione che non rispondeva alle richieste che arrivavano dal territorio. Adesso il governo, il Pd e lo stesso Enrico Rossi si impegnino a mettere in sicurezza la strada, velocemente. Se non si può recuperare il tempo perso dietro alla loro ostinazione, magari si può provvedere alla sicurezza di chi utilizza tutti i giorni quel tratto di strada». In quel “velocemente”, a due mesi dalle elezioni amministrativa e a dieci dalle politiche, c’è il senso dell’ennesima, possibile beffa di un adeguamento superstradale apprezzato dagli elettori, ma poi bloccato sine die dalla mancanza di risorse.

Per certo anche il Pd toscano, con il capogruppo (e maremmano) Leonardo Marras avverte: «Se confermate, le anticipazioni sulla Tirrenica sono in linea con le richieste del partito. Credo che quella del ministero sia la scelta più saggia, a patto però che la revisione del progetto e la decisione definitiva avvengano in tempi rapidi». Visto che la Conferenza dei servizi è ancora aperta, non resta che stare a vedere. Per scoprire eventuali bluff, sulla Tirrenica non sarebbe la prima volta.

«Nel contestato maxi-progetto per portare il gas dell'Azerbaijan in Puglia spuntano manager in affari con le cosche, oligarchi russi e casseforti offshore. L'inchiesta integrale sul'Espresso in edicola domenica». l'Espresso, 1° aprile 2016

Il Tap è la parte finale di un gasdotto di quasi quattromilachilometri che parte dall'Azerbaijan. Il costo preventivato è di 45 miliardi.In Salento, a Melendugno, sono iniziati gli scavi del tunnel in cementoautorizzato dal ministero dell’Ambiente per passare sotto la spiaggia. Da lìsono previsti altri 63 chilometri di condotte fino a Mesagne. Il consorzio TapAg prevede di dover trapiantare, in totale, circa diecimila olivi.

L'Espresso ha potuto esaminare documenti riservati della Commissione europea,che svelano il ruolo cruciale di una società-madre, finora ignota: l’aziendache ha ideato il Tap. Si chiama Egl Produzione Italia, ma è controllata dalgruppo svizzero Axpo. Le carte, richieste dall’organizzazione Re:Common,dimostrano che Egl ha ottenuto, nel 2004 e 2005, due finanziamenti europei afondo perduto, per oltre tre milioni, utilizzati proprio per i progettipreliminari e gli studi di fattibilità del Tap. Gli ultimi fondi pubblici sonoarrivati nel 2009. I ricercatori avevano chiesto altri atti, ma la Commissioneli ha negati «per rispettare segreti industriali, sicurezza e privacy» dellemultinazionali interessate.

In questa Egl, la società-madre del Tap, anchel’amministratore delegato è un cittadino svizzero: Raffaele Tognacca, unmanager che in Italia ha lavorato anche con il gruppo Erg. Tornato in Svizzera,ha lanciato la finanziaria Viva Transfer. Che un'indagine antimafia ha additatocome una lavanderia di soldi sporchi. Intervistato dalla tv svizzera italiana,il pm Michele Prestipino descrisse la vicenda come «un caso esemplare diriciclaggio internazionale di denaro mafioso».

Tutto inizia nel 2014, quando la Guardia di Finanza scopre un presunto clan dinarcotrafficanti collegati alla ’ndrangheta. Il gruppo, capeggiato dalcalabrese Cosimo Tassone, è accusato di aver importato oltre mezza tonnellatadi cocaina. E viene intercettato mentre deve versare un milione e mezzo di euroai narcos sudamericani. I calabresi reclutano un promotore toscano e i suoi duefigli, che accettano di «portare quei soldi in contanti, dentro due trolley, aLugano, nella sede della Viva Transfer», come confermano le confessioni deglistessi corrieri poi arrestati. A ricevere i pacchi di banconote è «RaffaeleTognacca in persona». Proprio il manager che ha tenuto a battesimo il Tap.

ra sudamericani e calabresi scoppia anche una lite: i narcoshanno ricevuto mezzo milione in meno. Tassone sospetta dei corrieri toscani:«Gli spacco la testa!». Un figlio del promotore viene sequestrato in Brasile.Finché il clan si convince che è Tognacca ad aver incamerato una parcella dioltre 400 mila euro («il 35 per cento!»). Quindi scattano gli arresti. Alprocesso, in corso a Roma, i pm hanno formulato una specifica accusa diriciclaggio. E hanno chiesto ai magistrati svizzeri di indagare sulla parteestera. Tognacca si è difeso pubblicamente dichiarando di «non essere statooggetto di nessuna misura penale». Per i pm italiani il reato resta assodato.Ma i giudici elvetici potrebbero aver archiviato per «mancata prova del dolo»:Tognacca poteva non sapere che erano soldi di mafia. Magari mister Tap pensavadi aiutare onesti evasori.

Dopo aver ottenuto i fondi europei, la Egl è stata cancellata e assorbita daAxpo. Questo spiega perchè oggi il gruppo svizzero è azionista della Tap Ag conl'inglese Bp, l’italiana Snam, la belga Fluxys, la spagnola Enagas e l’azeraAz-tap.

L'articolo integrale de l'Espresso racconta molti altriretroscena . Come un accordo segreto per favorire un oligarca russorappresentato da amici di politici italiani. E le tesorerie offshore,documentate dai Panama papers, dei manager di Stato in Azerbaijan e Turchia. <

«I costi per Juve (155 milioni), Sassuolo (3,75 milioni) e Udinese (500 mila euro all'anno) sono stati irrisori. Per impianti non nuovi. Mentre Roma (1 miliardo) e Fiorentina (420 milioni) fanno mega progetti. I rischi». Lettera43, 3 aprile 2017 (c.m.c.)

Famostistadi. Nella versione al plurale non è ancora diventato un hashtag, ma intanto la vicenda dello stadio della Roma ha fatto compiere uno scatto in avanti. I giorni delle polemiche tra la società giallorossa e la Giunta romana guidata da Virginia Raggi sono per il momento messi alle spalle. Non è detto che lo siano definitivamente, poiché la storia sembra tutt’altro che risolta. Molte cose vanno ancora messe a fuoco, e in ogni caso entrambe le parti vogliono provare a rimaneggiare la soluzione di compromesso raggiunta, per tirarla un po’ più verso sé.

Ottimismo sulle prospettive. Ma intanto la conseguenza immediata dell’accordicchio raggiunto è stato il modificarsi del clima intorno al dossier degli stadi privati. Perché da un giorno all’altro è parso che gli umori siano mutati in positivo, facendo percepire come più prossima un’innovativa stagione dell’impiantistica sportiva in Italia: quella degli stadi privati, posti sotto il controllo dei club calcistici con prospettiva d’incremento esponenziale dei ricavi.

Una narrazione di fortissima presa, costruita con semplificazioni spesso ai limiti del rudimentale, e condotta con l’utilizzo di un registro emotivo del discorso. Il risultato è una rappresentazione delle cose fondata sull’equazione “stadi privati = nuova età dell’oro”. Con la creazione di un mito sociale difficilissimo da confutare, perché la forza del ragionamento sarà sempre deficitaria rispetto alle passioni tifose, e perché il già carente senso italico per i beni collettivi non ha possibilità alcuna contro gli impeti da Curva Sud.

Anche Lolito ci riprova. E dunque, ecco che il sofferto compromesso raggiunto fra l’As Roma e la Giunta della capitale attizza le mire delle altre società calcistiche (e dei relativi gruppi d’interesse), incoraggiate a rilanciare progetti che parevano accantonati. Il primo è stato Claudio Lotito: al presidente e proprietario della Lazio non è parso vero di poter tornare alla carica per la costruzione del suo stadio. Ci aveva provato qualche anno prima proponendo l’edificazione di un impianto sulla via Tiberina, un’idea bocciata dalla giunta di Walter Veltroni. Ma adesso che l’altro club romano si è visto dare l’ok la prospettiva cambia, e il massimo dirigente laziale l’ha messa sul piano del diritto alla par condicio: se la sindaca ha detto sì alla Roma non può dire no alla Lazio. E che non si parli di ristrutturazione dello Stadio Flaminio, ché di contentini Lotito non vuol proprio saperne.

Dobbiamo credere in modo acritico al fatto che una nuova generazione di stadi di proprietà possa essere la panacea per il calcio italiano?

E dunque eccoli tutti lì, pronti e schierati per avventarsi su un business che se si fondasse soltanto sulla retorica avrebbe già prodotto perlomeno 5 punti di Pil. A sentire il coro, sembra quasi che ci sia un ventaglio di chance che aspettano soltanto di essere colte, con una cascata di soldi che aspetta soltanto di veder liberare le chiuse per potersi riversare sul calcio italiano.

Una narrazione contro i "Gufi". Se ciò tarda a succedere, continua la narrazione, è soltanto perché vi sono elementi esterni al calcio che ritarderebbero l’evento: dapprima le lentezze della legislazione nazionale, poi la miopia e i ritardi dalla politica e delle burocrazie di livello locale, e infine il vituperato comitatismo che nella lettura del Ptf (il Partito trasversale del fare, che nel mondo del calcio allinea una delle sue sezioni più parolaie) esprime nei territori una nuova forma di luddismo anti-pallonaro. Una sorta di Santa alleanza contro la modernità del calcio italiano cui addebitare ogni colpa. Ma le cose stanno davvero così? E soprattutto, dobbiamo credere in modo acritico al fatto che una nuova generazione di stadi di proprietà possa essere la panacea per il calcio italiano?

In Italia ci sono tre impianti sotto il controllo dei club: lo Juventus Stadium, la Dacia Arena dell’Udinese e il Mapei Stadium del Sassuolo. In nessuno dei casi si può parlare di "nuovo" stadio

Bisogna partire proprio da quest’ultimo punto, e dallo stato dell’arte. Che in Italia parla della presenza di tre stadi interamente sotto il controllo dei club: lo Juventus Stadium, la Dacia Arena dell’Udinese e il Mapei Stadium del Sassuolo. Tre storie diverse sotto tutti gli aspetti, ma accomunate da un dato: in nessuno dei casi si può parlare di nuovo stadio.

Il J-Stadium? Quasi come Higuain. Lo Juventus Stadium, che pure è quello per il quale sono state necessarie le opere più radicali, nasce dalle macerie (anche economiche e morali) dello Stadio delle Alpi. Cioè uno dei monumenti allo spreco di cui è costellata la storia di Italia 90. Disegnato su una capienza quasi dimezzata rispetto all’impianto antecedente (da poco meno di 70 mila a 41.500 mila posti a sedere), lo J-Stadium è stato inaugurato nel 2011 e realizzato in due anni con una spesa di circa 155 milioni di euro. Se si considera che nell'estate del 2016 il club bianconero ne ha spesi quasi 100 per strappare Gonzalo Higuain al Napoli, si capisce quanto relativa sia la cifra.

Per quanto riguarda la Dacia Arena, altro non è che il vecchio Stadio Friuli sottoposto a ristrutturazione e concesso per 99 anni all’attuale proprietà del club bianconero, retta dalla famiglia Pozzo. Costo delle opere: circa 50 milioni. Che spalmati su una concessione di 99 anni fa 505 mila euro e rotti all’anno. Non indicizzati. Il budget per una modesta società di serie D. Anche in questo caso la capienza è stata drasticamente ridotta: poco più di 25 mila, rispetto ai quasi 40 mila dei tempi di Italia 90.

Dacia , la colorazione "Anti-vuoto". Un quasi dimezzamento che non ha avuto effetti apprezzabili sugli ampi vuoti delle gare di campionato. Si è provato a tamponare l’effetto-stadio vuoto piazzando sugli spalti i seggiolini colorati, un’idea copiata da dal nuovo Alvalade, lo stadio dello Sporting Clube de Portugal rinnovato in occasione degli Europei 2004. Con la differenza che nello stadio di Lisbona i seggiolini colorati vengono occupati da spettatori in carne e ossa.

Scontro sul nome dell'impianto. Un’ultima annotazione sul “nuovo” stadio dell’Udinese: riguarda la denominazione “Dacia Arena”, che è stata oggetto di proteste "identitarie" da parte di una frangia della tifoseria (schierata in difesa del nome “Friuli”, espressione del legame col territorio), nonché tema di dispute da sudoku giuriduco in sede di istituzioni locali. Attualmente la questione è sotto la lente del Consiglio di Stato, con l’Udinese che giura non si tratti di pubblicità, ma di “naming right”. E adesso si attende il parere che farà giurisprudenza, però intanto si può dire che è molto difficile distinguere il confine fra pubblicità e naming right.

E infine c’è il Mapei Stadium. Che è lo stadio del Sassuolo, ma non ha sede a Sassuolo. Si trova a Reggio Emilia, ed è finito nelle mani della società neroverde capitanata dall’ex presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, attraverso un’asta fallimentare. Costo dell’acquisizione: 3,75 milioni, il prezzo di un buon calciatore di serie B. Anche in questo caso c’è un naming che potrebbe far discutere, ma la verità è che parlando dello stadio-del-Sassuolo-che-non-ha-sede-a-Sassuolo si entra in contatto con la sfera delle deformazioni della realtà e dell’indicibile.

Lo stadio Giglio,un autogol. Perché ci si sforza di vederlo come “lo stadio del Sassuolo” e intanto si rimuove la sua storia. Che è la storia dello Stadio Giglio, il primo impianto calcistico privato nella storia italiana. Nuovo di pacca - altro che J-Stadium e Dacia Arena -, sorto su impulso della Reggiana in un momento di hybris del club granata. La squadra era in serie A nella prima metà degli Anni 90, e pensava come se ci dovesse rimanere in pianta stabile. Per questo volle dotarsi di un impianto nuovo, sorto da un progetto ambiziosissimo ed esageratamente costoso per quella che era la dimensione del club: 25 miliardi di lire.

Come sia andata a finire, è noto: la Reggiana disputò soltanto altri due campionati di A nel giro di tre anni, poi a partire dalla fine della stagione 1996-97 cominciò a sprofondare nelle categorie inferiori. Il carico di debiti generato dalla costruzione dello Stadio Giglio portò al fallimento della società nell’estate del 2005, con ripartenza dalla serie C2 grazie al Lodo Petrucci.

Tribune riempite dagli ospiti. E dal fallimento veniva interessato anche lo stadio, messo all’asta dal curatore. Una prima asta tenuta nel 2010, con base di 6 milioni, andò deserta. Tre anni dopo, la svendita a 3,75 milioni. Per la serie: il grande business degli stadi privati. Ma, per carità di patria, di questo non si parla. Meglio dire che «il Milan ha vinto in trasferta a Sassuolo», cancellando pure l’evidenza della dislocazione. Ultima annotazione: gli spalti del Mapei Stadium sono popolati soprattutto dalle tifoserie avversarie. Altro dato di fatto su cui vige la congiura del silenzio.

Tutto ciò per dire che siamo ancora alle premesse di una vera stagione degli stadi privati. Che gli esempi citati fin qui, di nuovo, hanno poco o punto. E che sull’unico, reale precedente di stadio privato costruito ex novo, come si è visto è meglio stendere un velo pietoso, altro che boom di entrate e economie di scala. Questi ammonimenti vanno tenuti presenti intanto che altri due nuovi progetti vengono magnificati: lo stadio della Roma a Tor di Valle e quello della Fiorentina nell’area Mercafir.

Solo suggestive presentazioni. Due interventi di ben altra portata, anche in termini di costi: circa 1 miliardo di euro per l’impianto giallorosso (che invero è soltanto minima parte dell’intera operazione fondiaria), “soltanto” 420 milioni per quello della società viola. Costi enormi, con ritorni la cui certezza e i cui tempi sono tutti da dimostrare. Sempre che nel frattempo si esca dalla vaghezza. Perché bisognerà vedere in che modo riaggiustare il progetto dello stadio romanista dopo la soluzione di compromesso. E perché l’impianto della Fiorentina, al momento, è una suggestiva presentazione in power point e poco altro.

Le cubature salveranno il calcio. Tutto il resto è da scrivere, a partire dal piano finanziario e dall’individuazione dei privati che dovrebbero metterci il capitale di rischio. Ma l’importante è continuare a raccontarsi la favoletta. Dateci le cubature e faremo tornare il calcio italiano all’età dell’oro.

«In Bretagna, tra i comitati stile No Tav che da anni bloccano il progetto del nuovo aeroporto. E la rivolta dilaga dove soffia il vento radicale “In Francia stop opere inutili”». la Repubblica, 1° aprile 2017 (c.m.c.)

Notre-Dame-des-Landes.«Insorgere è nostro dovere». Julien Durand è sulle barricate, anzi in mezzo a un “parco di bastoni”, migliaia di ceppi issati come una frontiera invalicabile a protezione della “Zone à défendre”. «La rivolta ce l’ho nel sangue» spiega l’agricoltore settantenne. «Durante la guerra, mio padre è scappato sei volte dai campi di prigionia » ricorda Durand, giubbotto di pelle e jeans, aria da eterno ragazzo. Il portavoce dell’Acipa, l’associazione che da anni lotta contro la costruzione dell’aeroporto a Nord di Nantes, ha il suo quartier generale in un piccolo capannone. «Basta con lo spreco delle terre e del denaro pubblico » è scritto su un cartello.

La protesta di Notre-Dame- des-Landes ha illustri precedenti. Negli anni Settanta anarchici, contadini, attivisti di estrema sinistra avevano dato battaglia contro l’allargamento di una base militare sull’altipiano del Larzac. Julien il ribelle, ovviamente, c’era. Il presidente socialista François Mitterrand aveva dovuto cedere e rinunciare al progetto. Già allora circolava l’ipotesi di inaugurare un nuovo scalo in Bretagna per far decollare il Concorde direttamente sopra all’Atlantico. Non se ne fece nulla. L’aereo supersonico è vissuto e morto nella prima estate del ventunesimo secolo, sempre a Roissy.

Eppure nel momento in cui si celebrava l’addio all’avventura del Concorde tornava l’idea di un nuovo aeroporto vicino a Nantes per sviluppare economia e turismo sulla costa Ovest. Il progetto è avanzato, con un costo di 500 milioni di euro, la gara d’appalto vinta nel 2008 dal gruppo Vinci e il via libera alle procedure di esproprio.

«Togliere la terra a un contadino è come chiudere una fabbrica per un operaio» commenta Durand che ha nel suo ufficio un manifesto di Jean-Luc Mélenchon, il leader di estrema sinistra candidato alle presidenziali. «Mi piace più il suo programma che il personaggio » commenta l’agricoltore “insoumis”, indomito, il nome di militanti del movimento di Mélenchon, “La France Insoumise”. Nessuno immaginava in quel momento che la landa desolata e paludosa a cinquanta chilometri da Nantes si sarebbe trasformata nella roccaforte degli irriducibili, con l’invenzione del nuovo concetto di “Zad”, replicato in altre parti del Paese. Da allora, decine di cantieri sono occupati da attivisti ostili a quelle che definiscono “Grandi opere inutili”.

Esiste ormai un Tour de France delle Zad, che va da Bure, in Lorena, dove dovrebbe sorgere un centro industriale per il stoccaggio dei rifiuti radioattivi, fino a Roissy, dove è previsto EuropaCity, il più grande centro commerciale del Paese, continuando al confine con il Belgio, dove c’è l’allevamento gigante “1000 vaches” accusato di distruggere le piccole aziende agricole.

Soffia un vento radicale sulla Francia. Al primo turno delle presidenziali, il 23 aprile, Mélenchon potrebbe superare Benoît Hamon che pure rappresenta la corrente più radicale del partito socialista. La Bretagna è da sempre una terra rossa. «A sinistra c’è una lunga tradizione di estremi » ricorda Thierry Pech, direttore associazione Terra Nova e autore del saggio Insoumissions portrait de la France qui vient.

«La vera novità - continua - sono le nuove forme di radicalismo a destra, con elettori che contestano il sistema politico, chiedono non più autonomia e libertà, ma più ordine, autorità, più chiusura, oggi sono questi gli irriducibili che dominano la scena». Il risultato è quello che Pech definisce «voti insurrezionali», dal Brexit all’elezione di Trump negli Stati Uniti alle presidenziali dove i due principali partiti di governo potrebbero essere spazzati via dal ballottaggio. «Ci sono masse di elettori che esprimono nell’urna la voglia di cancellare l’attuale sistema politico, cambiare le regole del gioco, senza poter tuttavia esprimere un’alternativa». È una spinta rivoluzionaria molto particolare, conclude il direttore di Terra Nova, perché ha interpreti, come i populisti, ma non pensatori, teorici: nessuno ha trovato un Montesquieu, un Rousseau, che possa dare forma e sostanza alla spinta insurrezionale che si propaga in Occidente.

Tra i “zadistes”, gli squatter che hanno occupato ruderi, costruito capanne, la priorità sembra l’insurrezione più del voto. «La prossima elezione? La nostra è un’esperienza di autonomia politica » dice un portavoce che, come tutti qui, si fa chiamare “Camille” per mantenere l’anonimato. La fattoria Vache qui Rit, la mucca che ride, è il punto di ritrovo della piccola comunità di duecento persone tra ruderi, baracche e roulotte su 1600 ettari attraversati da una strada provinciale ormai chiusa, su cui dovrebbero passare le due piste di atterraggio. Nel posto dov’è prevista la torre di controllo dell’aeroporto “Grand Ouest”, adesso c’è un spaccio alimentare, senza cassa, vige il baratto. La sera si svolgono le assemblee, una o due volte a settimana, con un’“autogestione orizzontale”.

Notre-Dame- des-Landes ha una fama che ha superato le frontiere, in passato ci sono stati scambi e incontri con i No Tav della Val di Susa. Tanti militanti stranieri sono chiamati in soccorso non appena si avvicina la minaccia di un’operazione di polizia. L’ultima tentativo delle autorità di evacuare la zona risale al 2012. Ci furono scontri, arresti, e tutto si fermò. Il primo ministro era allora il socialista Jean-Marc Ayrault, ex sindaco di Nantes, tra i più convinti sostenitori del progetto.

La morte di un attivista ventenne, Remi Fraisse, colpito nel 2014 da una granata dei gendarmi durante le manifestazioni contro la costruzione di una diga nel Sudovest del Paese, ha provocato un nuovo stop. François Hollande ha mediato, appoggiando l’idea di organizzare un referendum tra gli abitanti.

Nel giugno scorso la maggioranza si è espressa in favore della costruzione dell’aeroporto ma il progetto resta bloccato. E toccherà al prossimo governo decidere. Marine Le Pen si è dichiarata “personalmente” contraria al progetto ma vuole rispettare la volontà del popolo, e quindi il risultato del referendum. Emmanuel Macron è in dubbio, ha promesso di fare nuove consultazioni per decidere.

L’unico davvero chiaro è il candidato della destra François Fillon. A sinistra, Hamon e Mélenchon sono per archiviare il cantiere e non se ne parli più. Nella sua roulotte, Jean-Joseph fuma una sigaretta e sentenzia: «L’aeroporto non si farà mai, almeno non qui». Lo dice con lo sguardo velato di malinconia. Anche lui sa che il giorno in cui le autorità rinunceranno ufficialmente al progetto scomparirà anche la Zad.

La tassa regionale stravolge il senso del project financing con il risultato contrario rispetto agli obiettivi per i quali è nato, cioè di far pagare agli utilizzatori l’autostrada e non a tutti i cittadini come si prospetta con questa tassa. Il Fatto Quotidiano on line, 24 marzo 2017, con riferimenti (m.p.r.)

Per continuare a finanziare la Pedemontana veneta, 94 km con un costo stimato di oltre tre miliardi di euro, la Regione Veneto vuole introdurre un’addizionale Irpef “temporanea” per i suoi cittadini in alternativa all’aumento dei futuri pedaggi (che sarebbero già doppi rispetto a quelli della media nazionale). Il motivo? L’aumento dei costi dell’opera, frutto di previsioni sbagliate e sottostimate. La tassa regionale, però, stravolgerebbe il senso del project financing con il risultato contrario rispetto agli obiettivi per i quali è nato, cioè di far pagare agli utilizzatori l’autostrada e non a tutti i cittadini veneti come si prospetta con questa tassa.

Eppure il project financing doveva essere approvato solo se avesse avuto una base di fattibilità economica. Ora, invece, il committente pubblico (Regione e Stato) deve spiegare “perché” quest’opera ha avviato la sua realizzazione “come se fosse” un project financing: è evidente che il fine è stato solo per poter dire, sul piano politico, che l’infrastruttura si sarebbe realizzata con finanziamenti privati.

Con la recente invenzione del canone di disponibilità e della tassa, Zaia garantisce la remunerazione alla società concessionaria Sis mentre la Regione e lo Stato si accollano tutto il rischio dell’opera, come se l’avessero realizzata con un appalto tradizionale. In tal modo è venuta meno un’altra ragione per il ricorso al project financing: minimizzare le risorse pubbliche impegnate e non far ricadere totalmente l’investimento sulla spesa pubblica.

È evidente che, al netto di ogni considerazione ambientale, il progetto non aveva basi di fattibilità economica perché il committente ha voluto fin dall’inizio sgravare la società concessionaria dal rischio imprenditoriale, accollandolo tutto alla mano pubblica, compreso il nuovo prestito di 300 milioni richiesto alla Cassa depositi e prestiti.

La Pedemontana veneta, come era stata pensata, non serve più visto che è stato ammesso che dai 33mila veicoli giornalieri previsti si passerà (forse) a 18mila. Così, anziché studiare una via d’uscita, ad esempio una riduzione della lunghezza della tratta e la riduzione delle carreggiate, con minor consumo di suolo e minori costi, si vuole proseguire su una strada fallimentare.

Strada che ha aperto uno strascico legale con l’inevitabile ricorso di Salini, secondo classificato nella gara del 2009, che ora denuncia come, per dirla chiaramente, le carte in tavola non si possono cambiare: Salini ha denunciato come che il Consorzio Sis non stia adempiendo ai suoi obblighi di convenzione e non stia riuscendo neppure ad acquisire le risorse finanziarie che era tenuto a reperire per realizzare l’opera nel rispetto della convenzione sottoscritta. Il tutto mentre la Pedemontana lombarda, 87 km di asfalto per un costo di 4,6 mld di euro, è ferma da due anni a un terzo dell’opera. Qui, il miracolo di portare avanti i lavori è stato chiesto a Antonio Di Pietro.

Quella dell’ex magistrato di Mani pulite è l’ultima, disperata carta che gioca il governatore lombardo Roberto Maroni per un’opera impossibile da realizzare per motivi finanziari e ambientali: l’ultimo piano finanziario, approvato dal Cipe nel 2014, non prevedeva che dopo un aiuto di 350 milioni di defiscalizzazione anche la recente garanzia “rischio traffico” (di 450 milioni) per la realizzazione della Pedemontana lombarda.

Tariffe troppo alte e traffico pendolare e residenziale (di corto raggio) tengono distanti automobili e tir rendendo impossibile l’equilibrio del piano finanziario a pochi mesi dall’apertura di 22 km di rete. In Veneto come in Lombardia non servono nuove autostrade ma l’eliminazione dei “colli di bottiglia” e una buona gestione e manutenzione della rete esistente.

La foglia di fico del project financing non tiene più per le due “bandiere federaliste” autostradali di Veneto e Lombardia: per andare avanti ci vorranno ancora nuovi aiuti e nuove garanzie di Stato. Teem e Brebemi, le nuove autostrade lombarde, sono la prova del fallimento: tristemente vuote, non incassano neppure i pedaggi sufficienti per pagare le spese di gestione, facendo restare i debiti da pagare sul groppone pubblico.

Questi esempi dimostrano che i project financing (farlocchi) italiani non sono strumenti per realizzare opere pubbliche con risorse e rischi privati, ma “creatori di debito occulto” per le casse dello Stato. L’unico risultato raggiunto: disperdere ricchezza anziché crearla con opere più utili.


riferimenti

Sulle previsioni di traffico sbagliate si veda l'analisi di Carlo Giacomini. Su eddyburg è possibile ripercorrere la vicenda. I comitati avevano tenacemente provato a contestare «l’iperviabilizzazione privata con soldi di noi tutti, devastatrice per il territorio e il bilancio», si legga a proposito Nuovo stop alla Pedemontana Veneta. 
“Resistere alla cementificazione di Federico Simonelli, e non erano mancate analisi di esperti che documentavano le distorsioni normative «al solo scopo di consentire al concessionario di ripagarsi l’opera che non regge con i soli ricavi da pedaggio» come quella di Anna Donati Grandi opere e consumo di suolo sempre su eddyburg, dove numerosi sono gli articoli sulla vicenda della Pedemontana. Ora il presidente Zaia per completare l'opera è «Costretto a tassare i veneti ma non è un tradimento», lo stesso presidente che quando il Tar aveva bloccato l'opera per il ricorso di un cittadino aveva commentato che era stato «per un eccesso di democrazia».

«Per le ferrovie i 40 miliardi di euro previsti sono interamente destinati all’Alta velocità. La maggior parte degli interventi risultano privi di “obbligazioni giuridiche vincolanti”. Significa che si potrebbero ancora cancellare». Altraeconomia, 23 marzo 2017 (c.m.c.)


Nel Paese delle “grandi opere”, c’è chi attende con trepidazione il 10 aprile. Entro quel giorno, infatti, il Consiglio dei ministri dovrebbe licenziare il nuovo DEF (Documento di economia e finanza) per il 2017, e il primo DPP, ovvero il “Documento pluriennale di pianificazione”. Si capirà, insomma, se il governo –che nel 2017 dovrebbe tagliare altri 1,6 miliardi di euro alle Province– continuerà ad allargare i cordoni della borsa per finanziare le grandi infrastrutture. Quel che è certo, intanto, è che tra il 31 marzo e il 31 dicembre del 2016 sono state stanziate risorse pari a circa 6 miliardi di euro per “coprire” gli interventi sulle cosiddette “infrastrutture strategiche”.

Una fotografia dello stato dell’arte è scattata nella nota di sintesi elaborata dal Servizio studi della Camera dei deputati in merito allo “stato di attuazione del programma”, che fa riferimento alla fine dello scorso anno (e pubblicato a marzo). Spiega che il valore complessivo delle future “grandi opere” è pari a quasi 280 miliardi di euro. La lettura integrale della relazione offre però ulteriori spunti di analisi.

1) Non è più possibile stabilire con certezza, né ha alcun valore giuridico farlo, quante siano in totale le “grandi opere”. È vero che vengono elencate le 25 opere considerate “prioritarie”, ma per quelle “non prioritarie” anche nell’analisi del Servizio studi della Camera si fa ormai riferimento a “lotti”, in totale 981. Gli interventi infrastrutturali, infatti, possono anche avanzare per fasi successive, e anche tutte quelle attività che dovrebbero essere considerate propedeutiche -come la progettazione e la copertura del finanziamento- possono essere completate in momenti successivi: non c’è alcune certezza, insomma, che un’opera di cui viene posata la prima pietra verrà in futuro effettivamente terminata; la legge offre infatti anche la possibilità di procedere alla realizzazione di “lotti costruttivi non funzionali”.

Un effetto di questo paradosso -senza entrare per il momento nel merito degli interventi- è che mentre mancano 25,5 miliardi di euro al fabbisogno delle “opere prioritarie”, il CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica) ha già deliberato finanziamenti per 74 miliardi di euro a favore di lotti di opere non prioritarie.

2) A leggere in modo superficiale l’elenco delle opere prioritarie, si potrebbe immaginare che (alla fine) l’esecutivo si sia adeguato alle richieste di chi, come il Wwf o Legambiente, criticava da anni la netta prevalenza di strade e autostrade tra le infrastrutture strategiche ereditate dalla legge Obiettivo del 2001. Oggi, infatti, il 63% delle opere, in valore, riguarda progetti per la mobilità collettiva, ferrovie (per 41,08 miliardi di euro, pari al 46% del costo complessivo delle 25 opere prioritarie) e metropolitane (per 14,94 miliardi di euro, il 17% del totale).

Alle “strade” restano appena 28 miliardi di euro, cioè il 31% del totale. Le ferrovie di cui si parla, però, sono esclusivamente nuove linee ad Alta velocità: 26 miliardi di euro servirebbero per quello che la relazione definisce un “completamento” della rete al Nord (comprende il Terzo Valico tra Genova e l’alessandrino, la Torino-Lione attraverso la Valsusa, la Brescia-Padova, la galleria di base del Brennero, tutte opere contestate da comitati locali ed organizzazioni ambientaliste, e in alcuni casi anche al centro dell’interesse della magistratura per casi di corruzione e di infiltrazioni da parte della criminalità organizzata, mentre è in corso di revisione l’intervento per il sotto-attraversamento di Firenze); altri 15,1 miliardi di euro, invece, andranno a finanziarie due itinerari nel Meridione, cioè la Napoli-Bari e la Palermo-Catania-Messina (ricordiamo che il governo Renzi con lo Sblocca-Italia ha “sottratto” queste due infrastrutture ai normali iter procedurali, assegnandone la gestione ad un commissario straordinario che sta procedendo a colpi di ordinanze, ben 27, emesse tra il dicembre del 2014 e il primo dicembre 2016).

3) Allargando lo sguardo a tutto l’elenco delle opere strategiche, si scopre che «il 59% del costo complessivo delle opere non prioritarie, 112,2 miliardi su 188,6 miliardi totali, riguarda opere stradali». Per questi interventi, il CIPE ha già impegnato il 38% dei finanziamenti richiesti, pari a oltre 42 miliardi e mezzo di euro; il 62% delle opere (in termini di costi) risulta in fase di progettazione.

4) Nella nota di sintesi viene utilizzato un acronimo (da addetti ai lavori) che potrebbe rappresentare l’architrave di un cambiamento, se davvero il governo volesse arrivare a ridiscutere le “infrastrutture strategiche” per il Paese. È OGV, e sta per “obbligazioni giuridicamente vincolanti”. Indica, cioè, quelle opere per cui esiste un contratto, e quindi un legittimo vincolo nei confronti di un soggetto che si è aggiudicato o è stato incaricato dell’esecuzione dell’opera. Sono quelli, cioè, che in caso di cancellazione, potrebbero aprire per lo Stato la porta di contenziosi.

Ecco, la maggioranza delle opere non risulta coperta al 31 dicembre 2016 da obbligazioni giuridicamente rilevanti: ben 178 miliardi di euro, pari al 64% del totale, riguardano infatti opere «in fase di progettazione (circa 152 miliardi), in gara o aggiudicate (circa 25 miliardi) e con contratto risolto (meno di 1 miliardo), che dovrebbero rappresentare le opere senza OGV». Così è scritto nella nota di sintesi del Servizio studi, che nell’elaborazione si è avvalso della collaborazione dell’Autorità nazionale anticorruzione, che svolge anche la funzione di autorità di vigilanza sui contratti pubblici. Se consideriamo che «l’84% del costo delle opere senza OGV, pari a circa 150 miliardi di euro, riguarda opere non prioritarie», è plausibile auspicare un ripensamento. E un rimaneggiamento dell’elenco delle infrastrutture strategiche, in particolare per quanto riguarda l’Alta velocità e le autostrade.

5) A meno che governo e Parlamento non subiscano l’influenza di portatori di interesse come AITEC, l’associazione italiana dell’industria cementiera. Nel mese di febbraio, in audizione di fronte alla Commissione lavori pubblici del Senato, i rappresentanti dell’organizzazione confindustriale hanno chiesto «il rilancio di una politica infrastrutturale italiana effettuata con risorse pubbliche credibili». Di fronte al “fenomeno della corruzione”, che viene definito “un problema grave” e riguarda -secondo la campagna “Riparte il futuro”- oltre la metà delle infrastrutture strategiche, si spiega che «inseguire il ‘sistema perfetto’ non deve fermare la macchina di investimenti pubblici che alimenta e, in questi anni di crisi tiene in vita, la filiera dei lavori pubblici e dei materiali da costruzione».

Tra il 2007 e il 2016 la produzione di cemento in Italia è calata del 59,3%, da 47,5 a 19,3 milioni di tonnellate. Guardando ai bilanci delle aziende del comparto, tra il 2010 e il 2015 si è registrata una perdita complessiva pari a 1,23 miliardi di euro, solo parzialmente mitigata dalla possibilità di vendere sul mercato i “diritti di emissione” assegnati gratuitamente dalla Commissione europea.

«La Regione Calabria finanzia uno scalo fra la Riviera dei Cedri e la costa di Maratea. Italia Nostra e Legambiente presentano una denuncia al Ministero dell’Ambiente: “Non potrà mai funzionare, è rischioso e contro le leggi». la Repubblica online, 22 marzo 2017 (p.s.)


Scalea. Politici e imprenditori da mesi non parlano d’altro: “Costruiremo strade e alberghi. Villaggi turistici e stabilimenti balneari. Grazie al nuovo aeroporto porteremo i turisti di tutto il mondo nelle nostre meraviglie”, dicono. Ed effettivamente non hanno tutti i torti: perché chi mai atterrerà a Scalea, Calabria, un passo dalla Riviera dei Cedri e dalla costa di Maratea, lo farà proprio all’interno di una di quelle meraviglie, il letto del fiume Lao, dove da quasi un anno stanno realizzando la nuova aerostazione.

Per crederci basta guardare le foto dall’alto che Italia Nostra e Legambiente hanno scattato e inviato all’autorità giudiziaria, alla Regione e al Ministero dell’Ambiente per denunciare «l’assurdità di questo aeroporto che non potrà mai funzionare, è contro ogni legge e mette tutti a rischio: serve soltanto per far guadagnare soldi pubblici a imprenditori e non solo», spiega Renato Bruno, consigliere comunale del Movimento 5 Stelle che da mesi sta conducendo una battaglia contro la realizzazione dello scalo.

Le parole di Bruno non sono casuali. Perché due milioni di soldi pubblici sono già stati spesi, lo scalo chissà se mai aprirà ma certamente qualcuno ci ha già guadagnato: la ‘ndrangheta. Un’ultima inchiesta della procura Distrettuale antimafia di Catanzaro ha documentato come Luigi Muto, figlio del boss Franco, pretendeva una tangente dello 0,7 per cento del finanziamento pubblico intascato dal gruppo Barbieri. E - così per lo meno si evince dalle intercettazioni - Barbieri pagava.

Tant’è che in azienda si meravigliano del fatto che arrivi una seconda richiesta estorsiva: quando i dipendenti trovano una bottiglia piena di benzina e un accendino davanti al cantiere prima provano a non fare la denuncia («Queste sono cose di cui mi occupo io e basta!! Non se ne deve occupare nessun altro, sono cose che faccio io!!...perché io ce sono da cinquant'anni in questa cazzo di terra e sono cazzi miei queste cose qua, ok??!..» grida Barbieri al socio che premeva per installare la videosorveglianza al cantiere), e poi costretti dal passaparola portano una copia della denuncia proprio al boss, per dimostrare che era contro ignoti.

Ora al di là dell’interesse della ‘ndrangheta per l’opera, resta da capire se davvero un aeroporto in un fiume potrà mai aprire. La questione, come sempre in questi casi, da un punto di vista burocratico è assai complessa. La pista (lunga poco meno di duce chilometri e larga 30) è stata realizzata nel 2001 quando è stata creata l’aviosuperficie che fino a qui ha ospitato aerei leggeri o al massimo scuole di paracadutismo. Qualche tempo fa si decide però di fare il salto di qualità: utilizzando i fondi europei viene appaltato in project financing la realizzazione di un vero e proprio aeroporto.

Il pubblico mette sul piatto due milioni di euro, il privato ne promette circa cinque e in cambio intasca la gestione dello scalo per i prossimi 25 anni. «Faremo decollare charter turistici e compagnie aeree regionali, atterreranno aerei anche con 200 persone» spiegano dalla ditta Barbieri che ha vinto il bando. Un anno fa partono i lavori per realizzare terminal, strade, in attesa di ottenere dall’Enac, l’ente nazionale civile, le abilitazioni per fare atterrare un certo tipo di aerei. Arriveranno mai? «Certamente» dicono dall’azienda. «Sarebbe una follia» incalzano gli ambientalisti. «Secondo l’autorità di Bacino» denuncia il presidente regionale di Legambiente, Francesco Falcone, «si tratta di un’area soggetta ad alluvione e quindi in grado di dare problemi all’incolumità delle persone».

«E’ una zona naturale di interesse comunitario, tutelata da Bruxelles, con l’erosione del suolo richia di mangiarsi tutto» dicono quelli di Italia nostra.«Si sta creando un caso sul nulla» rispende però l’ingegner Alberto Ortolani, amministratore delegato della società Aeroporto di Scalea. «Non c’è nessun pericolo idrogeologico, il fiume ha la giusta distanza, la autorizzazioni sono a posto dal 2001 quando fu creata l’aviosuperficie, ora stiamo realizzando soltanto le infrastrutture attorno» Ma ci sarà una differenza se fare atterrare un superleggero o un charter? «No», dice Ortolani. Una posizione che non convince tanto ambientalisti, 5 Stelle e ora anche ministero dell’Ambiente che, dopo la denuncia di Italia Nostra, ha chiesto chiarimenti alla Regione Calabria dando di fatto una sorta di stop ai lavori.
«Ci sono dei ritardi, è vero, difficilmente si farà tutto entro il 2017 quando era previsto. Ma stiamo lavorando, il via libera dell'Enac è soltanto una formalità, ce la faremo» giura Ortolani, battezzando così il primo aeroporto anfibio del mondo.

«Quello che è successo, è il risultato di quello che già all’inizio alcuni esperti, allora inascoltati avevano capito e spiegato. La Nuova Venezia, 12 marzo 2017 con riferimenti (m.p.r.)

Nella figura 14 della presentazione del presidente Zaia al consiglio regionale dell’altro giorno risulta che le previsioni del traffico giornaliero medio “Tgm” sulla Pedemontana sono crollate dagli originari 33.000 veicoli della prima previsione del 2003 (del proponente) agli attuali 15.200 o 18.000 veicoli (previsioni 2016 Cassa Depositi e Prestiti-Banca europea investimenti, o 2017 Area Engineering, regionale). Ne risulta una riduzione di -54% o -45%; in entrambi i casi, in pratica un dimezzamento.

La presentazione lascia intendere che tale differenza riguardi tutte le concessioni autostradali esaminate e rilasciate a cavallo della crisi, come se sia stato non un errore previsionale ma solo la crisi a ridurre il traffico in generale, e quindi anche quello inizialmente previsto sulle nuove autostrade (con previsioni di traffico, che di per sé, per la situazione di allora, erano comunque attendibili e realistiche). Il grande buco finanziario prodotto dal crollo dei ricavi da pedaggio attesi sarebbe quindi effetto della crisi, esogena e non inquadrabile tra i rischi o le responsabilità di impresa del concessionario; di conseguenza quest’ultimo, dalla sua crisi finanziaria a lui non imputabile, merita di essere salvato con intervento pubblico.
Questa spiegazione non risponde a verità, perché in questo periodo 2003/2016 non c’è stata invece alcuna così drammatica “crisi di traffico”. Ecco infatti i dati ufficiali “Aiscat” disponibili ed elaborabili delle autostrade più vicine, nello stesso periodo (veicoli Tgm 2002 e 2015; e la relativa variazione): 1) A4 Padova-Brescia: 82.898, 90.509, +9%; 2) A27 Venezia-Belluno: 19.248, 23.316, +21%; 3) A22 Verona-Brennero: 36.494, 39.483, +8%; Allora, se con le più recenti previsioni 2016/17 risultano dimezzate quelle del 2003, allora non è colpa della crisi, perché nel frattempo non c’è stata alcuna reale grave crisi di traffico autostradale: nello stesso periodo, infatti, il traffico delle più vicine autostradali è aumentato; meno del periodo precedente, certo, ma comunque è aumentato ovunque, e non diminuito, e men che meno crollato.
Non c'è alcuna significativa perdita di traffico da presunta crisi, nemmeno tra il 2008 e il 2010; è infatti falsa anche l’affermazione di una “Crisi 2008” (come afferma un’altra scheda di quella presentazione, la numero16), perché il calo del traffico medio 2009/2010 sulla Venezia-Padova di quel diagramma è invece unicamente l’effetto statistico dell’apertura del Passante (la statistica proprio in quei due anni risente dell’incremento del numero di chilometri della rete, usato nel calcolo del traffico medio), e non di una invece inesistente Crisi 2008 di traffici.
Se il traffico previsto nelle recenti previsioni del 2016 e 2017 (redatte dalla Cassa Depositi e Prestiti e da Area Engineering per la Regione) risulta molto diverso da quello previsto nel 2003 non è perché la crisi abbia stravolto le condizioni di contorno delle previsioni iniziali, e quindi l’ammontare del traffico prevedibile sull’autostrada sia per queste crollato, ma senza alcuna responsabilità del proponente. Quello che è successo, invece, è che anche agli occhi delle banche (che adesso, prima di metterci i soldi... rifanno bene i conti e le previsioni!) è risultato ora quello che già all’inizio alcuni esperti avevano capito e spiegato (ma erano rimasti inascoltati): cioè che erano clamorosamente inaffidabili, irrealistiche e sbagliate quelle originarie previsioni e le strategie imprenditoriali e progettuali del proponente, questo per nessuna causa a lui esterna ma solo per suoi errori - se non addirittura, sue consapevoli bugie per farsi approvare l’opera - di esclusivo suo rischio e responsabilità.
Certo, la crescita del traffico realisticamente attendibile e atteso sarà stata un po’ più lenta, dal 2008 in poi, di quanto ci si poteva pur prudentemente attendere nel 2003, ma nel complesso tutto lascia intendere che il traffico che si poteva e doveva correttamente e onestamente prevedere sulla Pedemontana sia da allora pure esso persino cresciuto; e non ha certo subìto alcun crollo, come invece vuol far credere la presentazione recitata dal presidente, se non nelle irrealistiche e bugiarde promesse del proponente (e di chi voleva a tutti i costi questo progetto di autostrada, contro ogni evidenza di corretta valutazione), promesse che già allora non pochi esperti avevano tecnicamente dimostrato essere sbagliate, se non peggio artefatte e falsate.
I recenti dati statistici, correttamente interpretati, smentiscono qualsiasi ipotesi di una causa oggettiva di grave crisi delle condizioni esterne alla concessione; c’è solo una condizione soggettiva di grave inaffidabilità del proponente e delle sue previsioni. Si deve concludere che i termini di legge per il salvataggio di questo concessionario, dimostratosi inaffidabile e inadempiente, semplicemente non ci sono. Nemmeno mistificando dati o spiegazioni, come ha tentato di fare il redattore (anonimo) di quella presentazione.
In conclusione, anche nel caso che, dopo una doverosa verifica e discussione pubblica su tutti gli aspetti della vicenda e del progetto (con doverose analisi costi-benefici tra le diverse soluzioni alternative ora possibili), risulti dimostrato che sia effettivo interesse pubblico proseguire tutti quei lavori e tutto quel progetto così come è definito adesso (e non è affatto scontato, perché - ora è chiaro a tutti - è quanto meno sproporzionato rispetto ai veri traffici attendibili), se si cambia anche solo il piano finanziario - con maggiori contributi pubblici rispetto a quelli allora richiesti dal proponente/concessionario - allora si dovrà per legge affidarlo a un altro realizzatore. Ne risulterà confortato l’erario pubblico, oltre che il senso della giustizia (e delle buona amministrazione). E se questo riaffidamento permetterà anche qualche (più che opportuna) correzione, riduzione, graduazione di quello sproporzionato progetto, il vantaggio sarà anche per la mobilità e il territorio.
riferimenti

I comitati avevano tenacemente provato a contestare «l’iperviabilizzazione privata con soldi di noi tutti, devastatrice per il territorio e il bilancio», si legga a proposito Nuovo stop alla Pedemontana Veneta. 
“Resistere alla cementificazione” di Federico Simonelli, e non erano mancate analisi di esperti che documentavano le distorsioni normative «al solo scopo di consentire al concessionario di ripagarsi l’opera che non regge con i soli ricavi da pedaggio» come quella di Anna Donati Grandi opere e consumo di suolo sempre su eddyburg, dove numerosi sono gli articoli sulla vicenda della Pedemontana. Ora il presidente Zaia per completare l'opera è «Costretto a tassare i veneti ma non è un tradimento», lo stesso presidente che quando il tar aveva bloccato l'opera per il ricorso di un cittadino aveva commentato che era stato «per un eccesso di democrazia».

Altro che "chirurgo".Per la prima volta il presidente di una Regione (ma è un leghista) considera l'istituzione come se fosse un'azienda privata, le accolla il rischio d'impresa" e fa pagare il bilancio negativo ai cittadini, dimenticando che non sono azionisti. la Nuova Venezia, 9 marzo 2017 (p.s.)


Venezia. Si sente come un chirurgo in sala operatoria che deve salvare un paziente in fin di vita e che per questo deve fare ogni manovra possibile, se necessario anche l’amputazione di una gamba. Il governatore Luca Zaia per far vivere la Pedemontana ha messo le mani nelle tasche dei cittadini proponendo il ritorno, a partire dal 2019, dell’addizionale regionale Irpef per i redditi sopra i 28 mila euro.

Questa è la prima addizionale dell’era Zaia, i veneti la capiranno?
«Non è un addizionale coram populo: su 2 milioni 668 mila 997 contribuenti va a pesare solo sulla parte alta e altissima, circa 120 mila persone. La fascia intermedia paga 3 euro al mese; le fasce deboli e quindi pensionati, casalinghe e lavoratori non sono toccati. E il Veneto è ancora fra le prime tre regioni d’Italia quanto a minor pressione fiscale. Ricordo che non ho applicato i ticket della sanità».

Ma così vengono traditi i principi leghisti del federalismo fiscale.
«Nessun tradimento. Il federalismo fiscale, insieme all’autonomia, resta una priorità. Io sono l’antitasse e certo non mi diverto a metterle. Ma un amministratore corretto e perbene, davanti a un problema, deve intervenire. L’approccio è quello del chirurgo che entra in sala operatoria dove c’è un paziente in fin di vita: ha l’obbligo di fare tutto il possibile per salvargli la vita. Lo stesso vale per me con la Pedemontana. C’è invece una minoranza che gode a dire ai familiari che il paziente sta morendo e che è meglio non mettergli le mani addosso».

Certo è che ai veneti viene chiesto un sacrificio.

«Un sacrificio che ci permetterà di completare un cantiere da oltre 2 miliardi. Pensiamo alle conseguenze se l’opera si bloccasse: alle aziende che chiuderebbero, ai lavoratori che resterebbero a casa, agli espropriati che non prenderebbero i soldi, ai costi degli ammortizzatori sociali che dovremmo attivare. Ripeto, si tratta di un sacrificio: io stesso e il consiglio regionale pagheremo mille euro l’anno. Io ho presentato una soluzione innovativa che verrà ripresa a livello nazionale per tutti i project che hanno lo stesso problema: dopodiché il consiglio è sovrano e potrà decidere se procedere o meno».

Ha annunciato che l’addizionale avrà carattere temporaneo. Quanto temporaneo?
«Questa è una tassa di scopo che riguarda la Pedemontana e per una piccola parte i tagli di quest’anno che non riusciamo a riassorbire. Per me si esaurisce col 2019, poi sarà il consiglio a decidere. E, preciso, di tratta di una manovra che può avere aliquote modificate fino a dicembre 2017. Al governo ho chiesto 200 milioni di contributo su questa operazione: se li versasse, il fabbisogno si ridurrebbe e le aliquote cambierebbero».

Potrebbero essere applicate aliquote diverse in rapporto alla prossimità geografica all’opera?

«No perché la Pedemontana è di tutti. Come il Passante».

Ma c’erano alternative all’addizionale?
«No. Il progetto è del 2002, la gara del 2006, l’aggiudicazione del 2009. In virtù di una legge dell’epoca, chi metteva in gara doveva garantire che il traffico ci fosse: il rischio di impresa, insomma, ce l’aveva la Regione. A un certo punto l’impresa non è riuscita a trovare sul mercato i finanziamenti e Cassa Depositi e Prestiti ha detto che lo studio del traffico, con 33 mila veicoli al giorno, non stava in piedi e che era antecrisi. Sono stati rifatti gli studi del traffico, ricalibrati su 27 mila veicoli. A questo punto abbiamo cambiato ragionamento: si è passati da un modello in cui il concessionario guadagna in base ai pedaggi a in base ai flussi del traffico garantiti dalle Regioni, a un modello nuovo in cui il concessionario ha un canone annuale e la Regione incassa i pedaggi. Un modello nuovo che potrebbe essere esportato. Questa è la soluzione proposta, l’alternativa era fermare i lavori e riparlarne tra 10-15 anni, con tutti i contenziosi relativi».

Non bastava intervenire sui pedaggi?
«No, tanto che per arrivare ai 27 mila veicoli abbiamo dovuto anche togliere l’esenzione. Ma c’è un vantaggio: che il pedaggio viene abbassato per tutti, il 23% in meno».

Con gli eventuali guadagni legati ai pedaggi restituirete l’addizionale?
«La restituzione va in servizi. C’è una cosa da ricordare: in realtà questa strada sarebbe già stata completata da tempo».

In che senso? Cos’è successo?
«Nel ’98 c’era già il progetto, si chiamava Autostrada Pedemontana Veneta, c’era il ministero delle Infrastrutture con Nerio Nesi che lo seguiva. Erano previsti diversi svincoli e solo tre barriere; c’era una carreggiata con due corsie per ogni senso di marcia più l’emergenza ed era larga 25 metri. Il mondo ambientalista fece un assalto alla Conferenza dei servizi che si tenne a Castelfranco e protestò vivacemente perché non voleva l’autostrada. Il risultato? La Pedemontana com’è oggi, con i caselli a pagamento, una carreggiata di 24,5 metri e un limite di velocità a 110 anziché a 130. Abbiamo perso i caselli liberi, buttato via un progetto e c’è un’opera che deve essere ancora realizzata».

Parliamo di costi, lievitati.
«Si è detto che si è passati da 800 milioni a 2,2 miliardi: un’eresia. La verità è che è stato fatto il progetto esecutivo, ci sono 300 milioni di espropri e poi tutte le opere dei 35 Comuni che hanno dato il consenso negoziando le opere complementari. Nel piano economico si può leggere quanto costa l’infrastruttura e quanto costano tutte le opere. A pesare è poi il fatto che per circa il 50% del tracciato è in trincea, ci sono 32 gallerie. In ogni caso tutti costi sono documentati, se qualcuno ha notizie che noi non sappiamo, vada in Procura e non infanghi con insinuazioni».

Realisticamente che tempi ci sono?
«Se il consiglio dà corso ai provvedimenti portati, si firma l’accordo che ci permette tra l’altro di pagare gli espropriati entro 60 giorni. Loro hanno al massimo 8 mesi per fare il closing finanziario e trovare 1,1 miliardi. Nel 2018 apriamo il primo pezzo, nel 2021 l’opera è finita».

Lo stato di avanzamento?
«Circa il 30-40%, ma abbiamo fatto le opere più complicate: gallerie e scavi».

Ma presidente oggi lei la Pedemontana la rifarebbe?

«È una struttura chiesta dal territorio ed era nel programma di tutti i partiti. Grazie ad essa si ridurranno di 2/3 i tempi di percorrenza. Pensiamo alle aziende, certo, ma anche ai pendolari e alla sicurezza stradale: la Schiavonesca Marosticana è la seconda strada più pericolosa d’Italia».

«Denuncia di 40 tra economisti, docenti esperti della materia per chiedere una profonda revisione dei metodi con cui in Italia si pianificano gli investimenti pubblici». Il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2017 (c.m.c.)

È in corso un grande rilancio politico delle “Grandi Opere”. I denari pubblici in gioco sono moltissimi, paria circa 70 miliardi. Una cifra enorme se si pensa agli stretti vincoli di bilancio e tutti concentrati su un numero limitato di grandi interventi, a cui si sommano le risorse dei Contratti di Programma con Fsi e Anas.

Il costo complessivo dei soli interventi ferroviari ammonta a quasi 26 miliardi di euro (Allegato al Def 2016), equivalente a oltre un terzo di quello complessivo di tutte le opere “strategiche”. Esistono in ambito internazionale consolidate regole di valutazione economico-finanziaria, ma in Italia sono state finora ignorate. Per nessuna delle opere sopra citate c’è stata una valida analisi, pubblicamente disponibile al momento della decisione, che ne dimostrasse l’utilità sociale. Solo per alcune (il Brennero ad esempio), sono stati pubblicati documenti, peraltro oggetto di critiche metodologiche, solo dopo che la decisione era stata presa. Lo stesso vale per grandi progetti stradali, come la Pedemontana veneta, quella lombarda, e la Livorno-Civitavecchia.

L’entità dei costi previsti impone che le grandi opere passino al vaglio di pubbliche ed approfondite analisi costi-benefici da parte di valutatori “terzi” rispetto ai committenti, per evitare scelte economicamente non giustificabili, dettate da considerazioni elettorali di breve respiro (nella migliore delle ipotesi). Purtroppo esempi di progetti infelici non mancano, dagli 800 milioni già inutilmente spesi per la stazione dell’Alta velocità di Firenze che non si farà ai quasi 8 miliardi spesi per l’Av Torino-Milano, scarsamente utilizzata rispetto alla capacità, e con costi stimati tripli rispetto ad analoghe linee francesi.

Analisi indipendenti evidenziano come due progetti – la nuova linea Torino-Lione e la linea Alta capacità/Alta velocità Napoli-Bari – mostrino flussi di traffico, attuali e prospettici, così modesti da poter escludere che sia opportuno realizzarli nella forma prevista. Perla Milano-Padova le ricadute positive saranno quelle dell’aumento di capacità complessiva che si potrebbe però ottenere con interventi assai meno onerosi e impattanti, mentre trascurabile appare il beneficio della velocizzazione del traffico diretto tra Milano e Venezia.

Per quanto riguarda il Terzo Valico Milano-Genova un’analisi costi-benefici, ancorché sommaria ha dato anch’essa risultati negativi. Per tutte queste opere le previsioni di traffico sembrano essere irrealistiche, come è evidente sia dal confronto storico dei flussi reali sia dalla stima, implicitamente assunta nelle analisi, di un forte aumento della domanda a seguito della disponibilità dell’opera. Queste assumono poi tariffe d’uso invariate rispetto a quelle attuali, quindi implicitamente che l’intero costo di investimento sia a carico dell’erario.

Se è vero che la decisione finale sulle opere pubbliche deve rimanere politica, essa non può prescindere dai risultati di analisi rigorose, trasparenti e comparative, né ignorare studi e valutazioni effettuate da esperti indipendenti e deve anche aprirsi a un confronto con tutte le parti interessate.

La corruzione è deprecabile, ma un danno più grave può essere inflitto alla collettività dal dedicare enormi risorse all’esecuzione di strade, linee ferroviarie o ponti non giustificati dai benefici del traffico, destinato a una crescita comunque modesta per ragioni economiche e demografiche. Forse per la percezione della necessità di un cambiamento, è stata recentemente creata nel ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti una struttura tecnica che dovrà valutare gli investimenti pubblici secondo regole precise e rendendo trasparenti e meno discrezionali le scelte politiche.

L’iniziativa del ministro Graziano Delrio è lodevole e necessaria, e deve ricevere il massimo supporto da parte di chi ha a cuore la cultura della valutazione e della trasparenza nelle scelte. Ma non si può fare a meno di notare che emergono forti ombre sul ruolo reale di questa struttura, se guardiamo alle contemporanee dichiarazioni della politica che certo non favoriscono valutazioni neutrali.

Da un lato si susseguono infatti dichiarazioni politiche in favore di “Grandi Opere” mai seriamente valutate (opera “strategica” o che “crea 100.000 posti di lavoro”, ecc.), dall’altro lato molte scelte vengono dichiarate “irreversibili” a causa dell’esistenza di forti penali in caso di mancata realizzazione. Ma queste penali furono spesso stabilite su contratti affidati senza gara, con patti evidentemente lesivi dell’interesse pubblico.

Prescindendo dalla consistenza giuridica di queste penali (il governo Prodi cancellò quei contratti, quello Berlusconi poi li ri-convalidò), è pur possibile valutare in modo rigoroso quali opere converrebbe alla collettività portare comunque a termine e quali sarebbero invece da cancellare o ridimensionare pur in presenza di penali (anche in funzione del loro stato di avanzamento: alcune sono appena iniziate).

C’è dunque il rischio che la costituzione di un organismo apposito, così innovativo nei principi, copra il perpetuarsi di scelte non validate, sotto le fortissime pressioni da parte delle lobby interessate ai lavori, ma indifferenti all’utilità dell’opera. Auspichiamo che il ministro mostri nei fatti la proclamata volontà di cambiamento.


L'incredibile vicenda del parere di una commissione per la valutazione d'impatto ambientale che è positivo nonostante ci siano 142 (centoquarantadue) cose che non vanno nel progetto presentato. Fuori i nomi! La Città invisibile, 27 febbraio 2017 (c.m.c.)

L’aeroporto di Firenze e l’insostenibile leggerezza del Master Plan

In attesa che il prossimo 10 marzo, con la presentazione del progetto per il nuovo stadio di Firenze, il Sindaco Nardella annunci finalmente dove e come saranno localizzate e distribuite le funzioni di cui si parla oramai da tempo immemorabile (mercafir, stadio, aeroporto), ho pensato di leggere (attentamente) le 216 pagine del parere della Commissione nazionale di VIA sull’aeroporto di Firenze e mi permetto di giudicarle un mero esercizio di equilibrismo terminologico e dialettico.

Partendo dalla doverosa ricostruzione degli aspetti amministrativi del procedimento, il documento riporta l’elenco delle osservazioni (analizzate e contro dedotte in sede istruttoria) e, prendendo atto dei pareri del Mibac e della Regione Toscana e del pronunciamento del TAR (attraverso la sentenza 1310/2016 su questioni di merito poste da ricorrenti), si dilunga in una approfondita descrizione dei contenuti dei tre quadri di riferimento (programmatico, progettuale e ambientale) in cui è suddiviso lo studio di impatto ambientale presentato dal proponente.

L’istruttoria si conclude con l’espressione del parere positivo della Commissione condizionato dall’ottemperanza di 62 prescrizioni, a loro volta contenenti circa 80 sub-prescrizioni, per un totale quindi di circa 142 indicazioni obbligatorie ai fini della realizzazione dell’intera opera.

Rispetto all’abnorme numero di “condizioni” a cui è sottoposto il progetto dell’aeroporto di Firenze, prima di commentarne i contenuti, vorrei ricordare quanto già dichiarato in occasione di una precedente riflessione relativa allo stesso argomento, e cioè che, in tema di valutazioni ambientali, vi è un rapporto inversamente proporzionale tra la qualità del progetto e il volume del quadro prescrittivo elaborato dall’autorità competente per la valutazione: a forti carenze del progetto e dello studio di impatto tende a corrispondere un alto numero di prescrizioni, finalizzate a sopperire a quanto non è stato approfondito nella proposta.

Se, di per se, non bastasse a generare preoccupazione il dato numerico (partendo dalla constatazione che 142 prescrizioni sono, a tutti gli effetti, una “bocciatura mascherata” dell’iniziativa), la conferma dell’irrealizzabilità dell’aeroporto (almeno allo stato attuale delle conoscenze) emerge chiaramente dal “peso” di alcune prescrizioni.

Il particolare mi soffermo sui temi più rilevanti, citandone i contenuti e commentandone le conseguenze.

Rischio di incidente aereo

Con la prescrizione n. 3 la Commissione ha imposto la redazione di «uno studio riferito agli scenari probabilistici sul rischio di incidenti aerei considerato anche l’uso esclusivamente monodirezionale della pista … Lo studio dovrà essere redatto da soggetto terzo pubblico con esperienza per la previsione del rischio degli incidenti aerei mediante modelli di calcolo. Lo studio dovrà descrivere e quantificare i possibili rischi per la salute umana e per l’ambiente…. con la stima dei danni materiali attesi … Lo studio dovrà anche individuare le misure … per eliminare o ridurre il danno, misure inclusive della delocalizzazione delle preesistenze qualora emerga un rischio per la perdita di vite umane …».

Dunque, il proponente, prima che il Ministro delle infrastrutture approvi definitivamente l’opera, dovrà rivolgersi ad un organismo pubblico al quale sarà dato l’onere di descrivere il rischio di incidente aereo, perché tale imprescindibile analisi non ha fatto parte della documentazione presentata, pur trattandosi di un tema quale la perdita di vite umane, la cui rilevanza credo sia inoppugnabile.

Stante tutto ciò, mi chiedo quale credibilità possa avere un parere espresso in assenza di elementi di tale importanza, in grado di condizionare, qualora correttamente evidenziati, la stessa realizzabilità del progetto.

Stabilimenti a rischio di incidente rilevante presenti nell’intorno aeroportuale

Con la prescrizione n. 4, la Commissione, così come per la prescrizione n. 3, certifica un’altra sostanziale carenza progettuale, riferita alla necessità di evidenziare «… la probabilità di accadimento di un impatto aereo sugli stabilimenti circostanti l’aeroporto, in particolare su quelli classificati dalla Direttiva Seveso come a rischio di incidente rilevante. Questa stima sarà finalizzata a valutare tutti i possibili effetti domino o di amplificazione e a definire idonee procedure di sicurezza …».

Valgono per questo argomento le stesse considerazioni fatte al punto precedente, ricordando – quindi – che attualmente nulla si sa del rapporto tra le modalità di sorvolo del territorio e le attività insediate.

Terre e rocce da scavo

L’Argomento, per Firenze, è delicato, visti i precedenti relativi alla TAV (tra l’altro ancora non risolti a 5 anni dalle indagini della magistratura).

La prescrizione n.8 sub c), conclude dichiarando «La presentazione del Piano di utilizzo [delle terre e rocce da scavo] al MATTM (art. 5 DM 161/2012) è condizione necessaria alla preventiva autorizzazione alla realizzazione di qualsiasi opera prevista …».

Tale condizione è totalmente in contrasto con i contenuti dello stesso art. 5 del DM 161/2012 citato, che impone invece (opportunamente) la presentazione del Piano di utilizzo «… prima dell’espressione del parere di valutazione ambientale», e non prima dell’autorizzazione alla realizzazione.

La questione – tra l’altro – era già stata trattata nel parere VIA della Regione Toscana, ove si dichiarava l’illegittimità del procedimento, proprio con riferimento alla mancanza tra i documenti del richiamato Piano di utilizzo.

E’ quindi del tutto incomprensibile come la Commissione, in totale difformità dalla legge, abbia potuto rimandare ad una fase procedimentale successiva alla VIA la presentazione di un elaborato la cui importanza è legata anche ai quantitativi in gioco (oltre 3 milioni di mc di terre, o altro che dovranno essere rimosse e/o trattate).

Valgono- purtroppo – anche per questo argomento le stesse considerazioni in merito alla attendibilità di un giudizio di compatibilità ambientale, che più che a uno strumento di tutela da eventuali impatti sembra assomigliare ad una cambiale da scontare.

4) Fosso reale: attraversamento autostrada A11

Con la prescrizione n. 29 si impone al proponente, in sede di progettazione esecutiva, di “sviluppare la soluzione di attraversamento della autostrada A11 …. risolvendo la problematica tecnica evidenziata nel parere del Genio Civile di Bacino Arno …”.

Nella sostanza la Commissione è costretta a constatare che il progetto, relativamente alle opportune modifiche al Fosso reale per consentirne il passaggio sotto il rilevato autostradale in assoluta sicurezza, non individua soluzioni accettabili, ma ciò non ha impedito alla Commissione stessa di esprimersi favorevolmente anche con riferimento agli aspetti idraulici, seppure attribuendo ad elaborazioni da presentare nella successiva fase autorizzativa l’onere di trovare soluzioni alla problematica.

Alla luce di tali gravi carenze progettuali (alle quali si devono aggiungere molte altre che non cito), le imbarazzanti conclusioni del parere sono totalmente contrarie ai principi che regolano le procedure di valutazione, e inducono a delegittimare – di fatto – il ruolo stesso della Commissione (e la finalità per cui è stata istituita), minandone la credibilità e producendo il solo effetto di allontanare ancor di più i cittadini dalle istituzioni.

Per essere più chiaro e diretto potrei dire che la fiducia riposta – oggi – nel lavoro della Commissione è la stessa che ognuno di noi avrebbe nei confronti di un meccanico che giudica le prestazioni di una automobile senza conoscerne le caratteristiche, o di uno chef che commenta una pietanza senza averla assaggiata.

Sarebbe l’ora che tutto questo finisse, che ognuno tornasse a fare il proprio mestiere (in scienza e coscienza): che chi è chiamato a valutare lo facesse in autonomia e chi deve decidere evitasse di cercare sempre compiacenti coperture.

I virtuosi comportamenti che dovrebbero caratterizzare le azioni quotidiane di tutti coloro che operano per il bene della società furono rappresentati già sette secoli fa da Ambrogio Lorenzetti nell’allegoria del “Buon governo”, ma, a quanto pare, perché tutto ciò entrasse nel sentire comune, non è bastato fissarlo su un muro.

P.S. Dei 48 membri della Commissione VIA, 35 hanno sottoscritto il parere e 10 sono risultati assenti. Tre sono i membri che hanno espresso un parere contrario: chapeau!

Archistar, grandi opere, assenza di governo, mancanza di dosi anche minime di programmazione e coordinamento: ecco come si gettano al vento le risorse e si caricano di debito pubblico i vivi e i futuri. Corriere della sera, 22 febbraio 2017

Lunga e sinuosa come un gigantesco serpente. È appoggiata sull’erba e non sul mare, che qui neanche si vede. Ma nel corpo centrale di quasi 400 metri ha la copertura a gradini che ricorda villa Malaparte a Capri. Bella. Anzi bellissima. E moderna. Con i computer a controllarne la luce. Un architetto la indicherebbe come ardito esempio di rapporto tra invaso e involucro. E ne decanterebbe il fascino tirando in ballo il decostruttivismo russo e il razionalismo classico. Ma il punto è: servirà a qualcosa?

La nuova stazione dell’Alta velocità di Afragola, progettata da Zaha Hadid e inserita dalla Cnn tra le perle dell’architettura contemporanea, già più volte visitata da governatori e ministri, sarà inaugurata ufficialmente tra un paio di mesi nella campagna a Nord di Napoli: in grande ritardo rispetto all’avvio dei lavori, iniziati nel 2003 e poi bloccati per oltre un decennio, ma ora addirittura in anticipo rispetto all’ultimo cronoprogramma. Quarantamila metri quadrati distribuiti su quattro livelli, 5 mila metri di vetrate, vuoti da vertigine e spazi in abbondanza per uffici e servizi: insomma, roba da squilli di tromba, l’ideale per ridare un po’ di tono a questa immensa periferia impoverita. E invece, c’è già chi nutre dubbi sulla sua utilità, perché è diventata il simbolo di ciò che il Paese potrebbe essere e invece non è.

Michele Oricchio, procuratore generale della Corte dei Conti, ne ha parlato nella sua relazione di apertura dell’anno giudiziario. Un paio i passaggi. Il primo, generale, quando ha fatto riferimento a «un investimento eccessivo» e alla «troppa superficialità nella spesa pubblica in Campania». Il secondo, quando è entrato nel merito. «La chiamano pomposamente — ha detto — “Porta del Sud”. Ma mi chiedo se sarà davvero dimensionata al reale numero di viaggiatori che prenderanno ad Afragola un treno per la Calabria o per Bari». Ironica la conclusione: difficile pensare a un traffico di viaggiatori «da Victoria Station».

Costata finora sessanta milioni, ma ne occorreranno molti altri per completarla e «connetterla» al territorio, la stazione di Afragola fu originariamente pensata per accorciare le distanze dell’Alta velocità. I Frecciarossa da e per il Sud non sarebbero stati più obbligati a entrare e uscire da Napoli, ma avrebbero potuto fermarsi ad Afragola e poi proseguire in linea retta. Sennonché è successo esattamente quello che non doveva succedere. Non solo l’Alta velocità si è fermata a Napoli, come si sa. Ma dal 2003, a cantieri aperti, nulla è stato fatto per garantire contemporaneamente il collegamento locale tra la nuova mega stazione galattica e quella ormai storica di Napoli-centrale. Niente metropolitana, che si ferma a 20 chilometri di distanza. Niente Circumvesuviana, che chissà come tira avanti essendo da anni classificata come la peggiore ferrovia italiana. Solo progetti più o meno vaghi e finanziamenti tutti ancora da confermare. E addirittura — almeno finora — non è previsto neanche un servizio alternativo su gomma. Tanto che il sindaco di Afragola, Domenico Tuccilo, ancora si sbraccia nel tentativo di richiamare l’attenzione di qualcuno: governo, Regione, Comune metropolitano. Qualcuno purchessia. Chiede navette, parcheggi, attrezzature per la vivibilità e lo sviluppo. Tutto tranne i soliti supermercati.

«La nuova stazione — dice — non può rimanere lì come un’astronave abbandonata nei campi». Tuttavia per ora la conseguenza è paradossale. Afragola sarà attraversata solo da qualche Intercity o Frecciargento, ma non sostituirà Napoli-centrale. A maggior ragione per l’Alta velocità. I Frecciarossa si fermeranno nella stazione di Zaha Hadid solo quando sarà completata la tratta Nord-Sud, o quella, già avviata, Napoli-Bari. Se ne riparlerà, in ogni caso, non prima del 2022. Intoppi permettendo. E sempre che si trovi un taxi per raggiungerla.

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