(segue)
Un giornalista di vero talento, Alberto Statera, inventò per Cagliari un definizione eterna. La chiamò città delle tre Emme. Massoneria, Medici e Mattone. Logge, ospedali e imprese formicolanodi figli della vedova.
Invece, un medico massone che riuniva in sé le tre Emme, in disaccordo con la definizione di Statera, affermò che Cagliari era la città del sole, del mare e dei fenicotteri. E ha avuto ragione perché oggi i fenicotteri sono molto più numerosi dei massoni, dei medici e dei costruttori. Dice Vincenzo Tiana, parroco dello stagno di Molentargius e ostetrico dei fenicotteri, che l’ultimo censimento conta quarantamila esemplari adulti e diecimila pulli. Insomma, anche contando i pulli di medici e massoni, oggi stravincono i fenicotteri.
Che la città nuova abbia la forma di oggi è anche demerito loro, nel senso che la forma illogica dei nuovi quartieri, delle periferie e dell’hinterland è stata in parte decisa dalle Emme che dal dopoguerra in poi hanno inciso profondamente nel governo dei luoghi. La saldatura delle tre Emme con i governi che si succedevano è difficile da mettere in discussione e la definizione di Statera non è mai stata “smontata”.
Insomma, si è affermato un sentire massonico fondato sull’appartenenza, su una visione iniziatica del gruppo, sul riconoscimento tra simili, sul “è dei nostri”, sul “gli parlo”, un sentimento talmente infiltrante che pochi possono affermare di esserne esenti. Un sentire, oltretutto, prevalentemente maschile, da spogliatoio dopo calcetto, dove i maschi si incontrano a parlare di roba da maschi. Il collante è nella tendenza alla confraternita, alla congregazione, sino alla setta. L’esigenza tranquillizzante di appartenere a qualche comunità.
Quando nel rapporto non è importante l’argomento discusso, l’oggetto del ragionare – comunemente chiamato il merito dei fatti – allora diventa fondamentale, appunto, l’appartenenza a un gruppo, a una rete. Ci si riconosce come esemplari della medesima specie attraverso segni, riti e princìpi che precedono la sostanza, il significato delle cose e perfino l’uso della ragione.
Affiliazione, dunque. Non ragionamento. Prima di tutto riconoscimento.
Una roba ancestrale, istintiva. E’ il paleo-cervello, quello delle emozioni, che entra in gioco. L’opposto della relazione, forma evoluta dei rapporti sociali, attività della corteccia cerebrale. La relazione si sostiene attraverso il ragionamento, senza forme preconcette di accettazione. Quest’anima massonica è ubiquitaria e può manifestarsi in ogni forma associativa, nei partiti, nelle sette religiose, nei circoli, in ogni confraternita.
Ha causato e causa danno nella gradazione del progresso sociale. Lo blocca, lo mummifica, lo priva di una reale parità, di dinamismo, di complessità, amputa la democrazia vera perché crea di fatto un’oligarchia molesta, fondata, lo ripetiamo, sull’affiliazione.
Però la speranza che la capacità di stabilire relazioni prevalga sul sentimento di appartenenza è ancora viva. E molti, tra mille difficoltà e nonostante l’intreccio tra affiliati di ogni risma, riescono mantenere il filo della relazione libera, fondata su ragionamento e critica. Sarà un processo lento, un’emancipazione faticosa, ma un giorno, finalmente, potremo vedere nel cielo della nostra città solo stormi di fenicotteri.
di ventura svizzeri (segue)
Insomma, Hofer dimostra che il rimpianto della patria può manifestarsi come malattia. Il termine si diffonde presto in molte lingue e, siccome nei dizionari medici ci sta stretto, si arricchisce rapidamente di significati. Nella dissertazione di laurea Hofer lega la nostalgia ai luoghi di nascita lontani che quei giovani identificano con se stessi, con la propria anima. Una nostalgia del paesaggio, perfino geologica. Lui sa che la storia dell’uomo è intessuta di lontananza. Conosce grandi racconti di rimpianti della terra dove si nasce, la Bibbia, Omero, Virgilio, Ovidio, Dante, Shakespeare, sino ai tempi suoi. Sa pure che ogni lingua possiede da millenni una propria parola per esprimere il desiderio del ritorno. Una parola giovane, dunque, ma antica. Hofer, comunque, dimostra per primo che di lontananza e di cambiamento dei luoghi ci si può ammalare. E definisce la nostalgia come un “disturbo dell’immaginazione” che si riverbera sul corpo. Precorre, inconsapevolmente, la psicoanalisi che di nostalgia si occuperà. Precorre anche l’antropologia. E alla fine del ‘600 anticipa la definizione moderna di Angoscia territoriale, il fenomeno clinico che Ernesto De Martino, due secoli e mezzo dopo Hofer, descrive in una popolazione rurale lucana quando si stacca dal suo paesaggio.
Lo spaesamento si può produrre in due modi. Perché ci allontanano dalle nostre radici, fatte di paesaggi e persone. Oppure, al contrario, perché mutano o scompaiono i luoghi e le persone dal nostro intorno. Il passaggio attraverso una membrana simbolica dai propri luoghi al mondo esterno è il viaggio. Questo passaggio ha una la forza profonda dell’allegoria. E rappresenta una delle fatiche essenziali dell’esistenza. Il viaggio – che duri anni o giorni non fa differenza – inteso come opposto dell’abitare. Chi viaggia non abita, per questo anche il viaggio è connesso al sentimento della nostalgia. E quei soldati che si ammalano quando oltrepassano la membrana, danno conto dell’importanza dell’abitare e della sua corrispondenza all’essere, all’esistere. Patiscono, insomma, la malattia del non abitare più.
Ma perché, visto che quei guerrieri erano tutti sradicati, se ne ammalava solo una parte? Quelli affetti dalla nostalgia erano più deboli di quelli che non si ammalavano? Forse erano “troppo legati” ai propri luoghi dell’anima? Esiste un “troppo legati”? Certo quei giovani guerrieri sentimentali sono una metafora perfetta dell’identificazione tra uomo e paesaggio. Così, a partire da quell’esperienza e da queste domande, tentiamo di trasferire alla nostra condizione il sentimento della nostalgia in rapporto ai luoghi. Un’operazione naturale e istintiva, visto che ognuno può essere come i soldati di Hofer e provare o non provare il sentimento universale della nostalgia. E questo “gioco della nostalgia” può servire a conoscere meglio noi stessi.
Anche nella nostra città l’insediamento umano è stato una complicata, ininterrotta elaborazione, sino dall’origine. Cagliari – come ogni comunità e luogo – ha subìto cambiamenti grandi nella sua storia di antica fondazione. E un continuo adattamento ha determinato la psicologia della collettività di oggi a partire da un vissuto iniziato millenni fa. D’altronde la stessa fondazione rappresenta un cambiamento. I fondatori, probabilmente, erano spaesati in cerca di radici e noi esistiamo perché alcuni “spaesati” si sono fermati in questo golfo perfetto. Forse la fondazione, in sostanza, non è altro che la riproduzione nostalgica del proprio mondo d’origine. E ogni città inizia dalla nostalgia di un’altra. Ogni città, insomma, racconta una città precedente attraverso un cambiamento.
Il cambiamento genera, a seconda di come avviene, più o meno dolore. La velocità del cambiamento e la sua entità rivestono un’importanza capitale per chi lo vive. E proprio nella sua rapidità e nella sua portata è contenuta una parziale risposta alla domanda sull’essere “troppo legati ai luoghi”.
Le città, per loro natura mutano. Ovvio. E ognuno di noi coltiva un proprio pensiero sulla trasformazione. Anche i bambini sanno che le città e i luoghi cambiano. Una classe di quinta elementare, in un tema intitolato “descrivi la tua città”, l’ha rappresentata con semplicità meravigliosa, insieme alla casa, come luogo della vita e del suo evolvere permanente. Il cambiamento è la vita stessa della città ed è un’allegoria dell’esistenza. Abbiamo un’idea della Cagliari punica che fiorì per secoli. Poi il passaggio dai punici sconfitti ai romani, un passaggio progressivo come dimostrano l’uso della necropoli di Tuvixeddu con i morti romani accanto a quelli punici o il riuso dell’area sacra del promontorio della Sella. Poi la città bizantina, poi quella medievale, poi quella spagnola, poi i Savoia. Grande è stato anche il mutamento ottocentesco da città murata a città aperta, sostenuto però da un’idea coerente che attraversava molte città bisognose di “uscire” dalle mura e di “respirare”.
L’intera isola e dunque anche le città - lo racconta in modo emozionante Giulio Angioni - sono più cambiate negli ultimi sessant’anni che in molti secoli. Ed è naturale che un mutare così rapido della condizione collettiva abbia creato disagi comuni e individuali, legati alla forma e alle funzioni della città. Ma nessuno può sfuggire al proprio passato. Il passato è il protagonista del futuro. Solo dalla sua conoscenza possiamo avere cognizione del presente e immaginare il domani. E se una comunità non possiede la capacità di riconoscere le proprie radici accadono disgrazie. Angioni racconta come questa accelerazione abbia indotto uno spaesamento dolente in tutta l’isola, un duro sradicamento di singoli, gruppi e comunità che non si riconoscevano in un ambiente bruscamente mutato. Comprese le comunità forzatamente industrializzate o quelle espropriate dei luoghi per usi diversi da quelli originari. Gli ultimi sessant’anni sono stati a Cagliari un tumulto incontrollato di cemento e mattoni, come in tutta la nazione. I motivi sono noti. La guerra, la ricostruzione, l’inurbamento.
E’ noto anche come si sia concretizzato rapido un potere a sostegno di questa moltiplicazione violenta. E come in molte parti del paese questo sia avvenuto sulla spinta di una malavita ben strutturata. Un potere che a Cagliari – senza un’evidente influenza criminale – ha disegnato in pochi decenni una città nuova. Questa trasformazione non è un bene o un male in sé. Ma lo è, o non lo è, a seconda del tipo di governo e del tipo di cambiamento, della sua velocità, della “forza” o della “debolezza” della comunità che lo subisce. Ed è un danno certo se dentro quel cambiamento non è contenuto un pensiero alto e organizzato. Un’idea, appunto, di città. Non solo un insieme di tetti e rifugi dove mangiare e dormire. Non solo un luogo che risponde ai bisogni materiali più o meno elementari. Quest’idea è mancata anche in gran parte delle comunità isolane. E sarebbe stata un lenitivo per ogni nostalgia.
Una città non cresce da sola, ma è conseguenza di condizioni date. Esistono perfino città “spontanee” belle e piene di fascino, però, come un essere vivente, crescono più o meno bene a seconda dei genitori, dei nonni, dell’intera genealogia. Un abitare cosciente, insomma, riconosce radici lontane. A Cagliari esisteva una concezione radicata dell’abitare e del “fare” la città. Un sapere saldo aveva ispirato il piano regolatore di Cagliari del Cima. Un pensiero articolato aveva orientato la Cagliari vagamente sviluppista ma coerente del sindaco Bacaredda. Un’armonia architettonica e urbana deve essere riconosciuta anche al ventennio fascista. Poi la guerra. La cultura dell’abitare si affievolisce gravemente proprio a partire dalla città della ricostruzione e se ne perde quasi traccia arrivando ai tempi nostri.
I segni sono chiari ed è facile oggi interpretarli osservando i quartieri nati allora. In questo lungo squarcio di secolo l'edilizia ha finito per vincere sull'architettura che nel frattempo aveva sconfitto l’urbanistica. L’edilizia lasciata a sé è un’espressione feroce dell’uso dei luoghi. L’edilizia senza un filosofia cancella il passato perché l’edilizia è espressione pura del profitto. Non accoglie, sradica, perché non rappresenta chi vive i luoghi ma la volontà avida di chi costruisce per costruire. Un’involuzione. L’opposto della scienza dell’abitare. E i cantieri hanno finito per dirigere le scelte urbane anziché il fisiologico contrario. Sino all’attuale inversione della città stessa, gonfiata in periferia, sempre più vuota al centro e sempre più sparsa nell’hinterland a sua volta stravolto e snaturato. Così nascono le depressive palazzate di viale Sant’Avendrace che nascondono il colle di Tuvixeddu, oppure gli incoerenti palazzoni del quartiere di San Benedetto, Santa Teresa a Pirri, i palazzacci di Sant’Elia, la cosiddetta Fonsarda, la pappa urbana dell’hinterland sfigurato… un elenco interminabile e inquietante che ognuno può completare come preferisce. Perfino il nostro piano regolatore, nato bene per la pianificazione urbana, viene distorto dalla spinta edilizia con un abuso irragionevole di varianti e accordi di programma. Impossibile non provare nostalgia. O almeno immaginare come sarebbe potuto essere.
Certo non è semplice comprendere e dirigere il cambiamento della città, prevederne le conseguenze e l’impatto sociale. Governare richiede capacità, versatilità, conoscenza e perfino doti profetiche che pochi possiedono. Ma richiede innanzitutto indipendenza e una ferma e forte teoria dell’abitare. Indipendenza del governo e della politica non significa, evidentemente, agire da padroni incondizionati. Anzi. Dovremmo aspirare all’inter-dipendenza della politica, a una cooperazione tra forze distinte e autonome. Ci muoviamo in un reticolo di energie diverse. E un governo ideale – se mai esisterà e forse non esisterà mai – dovrebbe armonizzarle. Nulla a che vedere, dunque, con la discussione tra modernisti e passatisti che, invece, sa di muffa.
Il principio immateriale che anima un paesaggio rappresenta un’essenza che ha impiegato decenni, secoli e perfino millenni a costituirsi. E consiste nella comprensione che di quel paesaggio possediamo come individui e come comunità. Questa consapevolezza si costruisce lentamente di generazione in generazione, viene da lontano nel tempo, ha perfino una sua ereditarietà. E’ un carattere dominante. E naturalmente richiede una anche una pedagogia, un’educazione. Essa sostiene il nostro equilibrio che si può rompere anche con fragore quando il carattere e l’anima dei luoghi vengono manipolati senza attenzione.
Abitare è un’azione che inizia con il primo respiro. E noi? Cosa desideriamo e cosa accade intorno a noi? Aspiriamo naturalmente al benessere. Ma il benessere non consiste solo nel soddisfacimento di bisogni materiali. La città deve dispensare anche benessere spirituale. La prima identità, sappiamo, si forma nei luoghi dove nasciamo. E possiamo ritrovarci un guscio che non corrisponde né al nostro interiore né all’esterno. L’identità è un abito in gran parte trasmesso. Se è una crosta si sbriciola facilmente. Se è consolidata nell’intimo può soffrire ma “non viene giù”. Se questa identità è incerta, ed è una patina, per di più senza considerazione del passato, allora viene sostituita inevitabilmente da altre identità d’importazione. Da false identità. Identità inquinate. E alle volte si arriva a possedere identità multiple conformate a modelli facili e rassicuranti perché ricopiati da un altrove percepito come “superiore”. “Quelli dell’identità debole” si cuciono addosso altri abiti, anche uno sopra l’altro, nel grottesco tentativo di travestirsi da quello che non sono. E sentono di esistere solo se rassomigliano a qualcuno visto in qualche altrove.
Oh, tutto questo avviene in gran parte del mondo. Si tratta di meccanismi studiati e spiegati da sociologi e antropologi. Gli stessi meccanismi per i quali si fanno in città i mercatini nordici di Natale a ottanta miglia dalla Tunisia, si vedono da queste parti bambini che festeggiano la ricorrenza estranea di Hallowen oppure si considera bella una passeggiata al mare perché uguale a quella della lontana Rimini. I deboli di identità si sentono “normali”, “non da meno di altri”, perché finalmente hanno una spiaggia rosticceria, navi da crociera che per una mattina vomitano passeggeri in una città di cui non ricordano neppure il nome, una passeggiata a mare che sembra un rendering, luoghi uguali a mille altri luoghi. E queste identità incontinenti si sentono all’altezza, inserite nel mondo, solo se “imitano”. Insomma, indossano un abito tranquillizzante perché lo indossa la moltitudine. Nessuna resistenza. Fusi in un’unica poltiglia anonima che non deve essere spiegata, pensata e tanto meno progettata. E’ roba già masticata da altri e non si deve faticare più. Paesaggi predigeriti. Nessuno sforzo, nessun travaglio per creare un proprio paesaggio. E pazienza se il nuovo abito non ha continuità con il passato ritenuto vecchiume dai deboli di identità. Il problema per loro è di essere se stessi. Meccanismi di infelicità: travestirsi da quello non siamo oppure al contrario produrre una caricatura di sé, indossare la maschera macchietta della propria comunità.
Per certi il bisogno di un paesaggio scollegato dalle proprie radici passa anche attraverso un senso di inadeguatezza del paesaggio che hanno ricevuto in eredità. La vergogna del proprio habitat arriva sino al tradimento. E’ un meccanismo che colpisce comunità e individui fragili, nel senso che avvertono se stessi come inferiori rispetto ad un’altra realtà ritenuta superiore. Senza dubbio un sentimento che per semplicità definiamo “vergogna” ha attraversato la considerazione di noi sardi per la nostra condizione e per il nostro habitat che pure sentivamo, sì, come nostro, ma “vergognosamente” arretrato, “vergognosamente” povero. E questa che qui definiamo “vergogna” – ma è una condizione psicologica complessa – ha determinato una fulminante, traumatica scomparsa dei nostri paesi bellissimi (peraltro amorevolmente conservati e allo stesso tempo moderni nella vicina Corsica) e della grande varietà che li distingueva. Una lacerazione.
E’ anche per la “vergogna” che abbiamo attribuito poco valore e svenduto un’infinità di beni, stupiti perfino che qualcuno se ne interessasse. Non concepivamo che avremmo potuto unire modernità e passato restando dentro un solco che avrebbe tutelato l’identità nel suo profondo, che avrebbe conservato la nostra riconoscibilità, che avrebbe conservato perfino la nostra lingua e la nostra “stabilità psicologica”. Allora – senza comprendere i nostri luoghi – abbiamo goffamente copiato paesaggi, copiato abitati, abitanti e abiti lontani, ignorando che copiare è, a sua volta, un artigianato difficile. E che scimmiottando si rischia il grottesco e addirittura la scomparsa. Così, svanito il “vero”, sostituito da un finto moderno, ci siamo riconosciuti in questa impostura e – per un rischioso meccanismo di rimbalzo – abbiamo finito per rispondere al sentimento della vergogna con un orgoglio compensativo altrettanto esagerato, fondato su un’identità posticcia, fatta di orpelli e di simulazione di un’unicità che non esiste più ma che ci illudiamo di rappresentare. Però l’orgoglio è vicino alla superbia e distorce gravemente la percezione di sé e della realtà intorno, come e forse più della vergogna.
Insomma, paesaggi estranei possono intossicare sentimenti e pensieri ma non esiste uno strumento certo per prevedere, riconoscere e misurare la nostalgia che comunque in qualche forma si manifesta. Hofer descrive sintomi e indica la cura nel ritorno ai luoghi che sentiamo dell’anima. Si può perfino nascere lontano da quei luoghi, ma essere legati intensamente al luogo d’origine della nostra genealogia. Perché i luoghi si possono incidere dentro di noi attraverso i nostri geni anche senza averli mai visti. Una conoscenza trasmessa, innata, alle volte silente per anni, che magari viene fuori inaspettata. Poche certezze, dunque. E’ solo certo che ogni cambiamento deve essere prudente e ispirato al principio del “prima di tutto non nuocere”. Per questo il giusto cambiamento deve essere avvalorato come inevitabile e ritagliato addosso a noi, deve rispondere a esigenze reali, deve tendere alla continuità, deve avvenire in armonia con il contesto. Deve possedere una sua fisiologia e non produrre dolore.
Tutto qua il nostro sapere. Quanti significati nella vicenda di quella tribù nomade australiana che segnava i luoghi dove si fermava con un palo identificato come asse del mondo. Quando il palo un giorno si spezzò per un fulmine la tribù perse l’orientamento e per un terrore antico tutti morirono confusi e sbigottiti. Quest’esempio è solo un espediente retorico, è chiaro. Però obbliga a riflettere sul pericolo di un’evoluzione che non guarda al passato e sul rischio dell’autocancellazione che deriva dalla perdita della memoria. E per questa perdita, per questo fondersi in un unico magma potrebbe non essere mai più vero che “la Sardegna si riconosce anche in un frammento di cartolina raccolto tra la polvere”. E potremmo non riconoscerci più in noi stessi. Al nome Sardegna, infine, ognuno può sostituire il proprio luogo dell’anima e immaginare le conseguenze di un’amnesia delle origini. E’ un esercizio salutare che dà un giusto valore alle origini.
Sul Blog di Grillo guerra senza quartiere al consumo di suolo: “Ogni giorno il cemento sommerge un’area di suolo vergine pari a 100 campi di calcio… non c’è più tempo da perdere… concretizzare sul territorio una grande battaglia… proposta di legge... (segue)
Finalmente, ci siamo detti in tanti. Un leone.
Ma l’esempio è sfortunato. Perché d’ora in avanti si dovrà dire 100 campi di calcio più uno, quello della Roma. E al seguito ventimila parcheggi e molti metri cubi.
Il progetto di stadio con valanga di cemento e impermeabilizzazione eterna del suolo è antiquariato urbanistico, urbanistica patteggiata. Eppure credevamo che 5Stelle non avrebbe confuso il pubblico interesse con quello di pochi, speravamo che non ci toccasse assistere ad una contrattazione tipo zio Paperone e Paperino, uno spara alto e uno spara basso, poi si incontrano. Il suolo di Tor di Valle esposto in un bancone come primizia.
E invece ecco le solite dichiarazioni vintage. Il vicesindaco dice che “la revisione del progetto ha dei caratteri fortemente innovativi”, i giornali scrivono di “volti distesi e dichiarazioni rassicuranti”, la tivvù racconta che James Pallotta chiede alla sindaca se le piace lo stadio e che la sindaca risponde “we love it”.
I tifosi minacciavano manifestazioni di massa e invece erano cinquanta infelici davanti al Campidoglio. Più giornalisti che tifosi.
Ci hanno perfino rifilato la panzana che, se non si costruisce, la Roma calcio chiederà i danni e invece nessun danno può essere richiesto se non esiste una concessione edilizia. Ma non esiste concessione edilizia perché prima serve una variante al piano urbanistico. E neppure la variante esiste, neanche le autorizzazioni paesaggistiche. La variante sarà discussa in consiglio comunale. Lo stesso consiglio dove la consigliera Raggi ruggiva contro lo stadio che ora ama.
Il Piano regolatore lo permetterebbe questo benedetto stadio. La variante serve per i metri cubi in più e in consiglio ne vedremo delle belle. Magari passerà con i voti del PD.
Al momento esiste solo l’imbarazzante dichiarazione di interesse pubblico ereditata dalla giunta Marino. Ma dopo questo accordo di 5Stelle forse tanto valeva tenersela quella giunta. Di pubblico interesse non c’era traccia nei grattacieli storti del vecchio progetto e non ce n’è in quello attuale divoratore di suolo. Il pubblico interesse è solo un’espressione, aria che vola.
E la rete? Oh, i capi non l’hanno interpellata.
Eppure questa benedetta rete l’hanno interrogata sulla scelta del presidente della repubblica, sulle unioni civili, su leggi elettorali e riforme di ogni tipo, sull’esistenza di Dio, su cosa c’è oltre la morte. Figuriamoci l’urbanistica. La rete pullula di urbanisti da tastiera.
La rete è contro l’eruzione di cemento a Tor di Valle e di colpo non conta più.
Gli sviluppisti promettono un grande Pil se si fa lo stadio. Eppure si è visto il Pil prodotto dai disastri romani elencati da Paolo Berdini. Altro che Pil. L’urbanista foglia di fico è caduto. Ora la giunta è nuda e siamo al solito mercato dei mattoni.
Certi denunciano che Tor di Valle è piena di immondezza, topi, prostitute e tossici.
Allora, anziché chiamare la nettezza urbana per l’immondezza, i derattizzatori per i topi, la buon costume per le prostitute e la narcotici per i tossici, invocano betoniere.
Ma un pericolo reale c’è a Tor di Valle: il massimo rischio idraulico. Che non si cancella con un pennarello. Vedremo come lo mitigano, vedremo. In un Paese che paga caro il suo dissesto c’è ancora chi pensa a costruire e costruire. Predica “consumo di suolo zero” e ne ingurgita un’enorme quantità.
Saranno inutili le lezioni delle bolle speculative edilizie che azzoppano intere economie? Le disgrazie legate all’uso folle dei luoghi? Inutile ricordare che Roma ha la mostruosità di 250.000 case vuote?
Non basterà la “politica di un po’ meno metri cubi” per salvare chi promette una cosa e poi ne fa una opposta. Chi dichiara guerra al consumo di suolo e poi il suolo lo consuma senza pietà. Chi difende l’interesse pubblico con le parole, ma di fatto sostiene l’interesse di pochi.
Svanita la possibilità di un’idea di città, di una filosofia dell’abitare, anche 5Stelle si arrende all’edilizia e rende definitiva la sconfitta dell’urbanistica. Nessuna risposta alle esigenze reali e invece risposte dannose a bisogni fittizi.
Ma speriamo, speriamo che la sindaca conservi i vantaggi della “a”. Noi ci contavamo.
... (segue)
Insomma, era iniziata una serie di fallimenti dolorosi, di crack, di insolvenze, di crisi e dissesti. L’inverosimile cartiera di Arbatax nasce nel ’64 e, di insuccesso in insuccesso, chiuderà definitivamente dopo 20 anni di sostegni a vuoto da parte della regione e dello stato. Nel ’73 nasce l’ancora più incredibile polo di Ottana (il greggio veniva trasportato su gomma sino al centro dell’isola) e muore presto lasciando un deserto e una popolazione di spaesati sgomenti. A Villacidro una fabbrica di vagoni ferroviari, la Keller, apre negli anni Ottanta e, dopo una lunga agonia, fallisce nel 2014. Rockwoll, produzione di lana di roccia, ha una storia di patimenti sino alla cassa integrazione iniziata nel 2008. La tortuosa vicenda della Vinyls, polimeri plastici a Porto Torres, si conclude qualche anno fa con la chiusura degli impianti.
La multinazionale Alcoa installa negli anni Novanta un nuovo ciclo dell’alluminio nel Sulcis costituito da importazione della bauxite dall’Australia (anche in Sardegna c’è bauxite ma la miniera di Olmedo chiude in questi giorni), lavorazione del prodotto intermedio che è l’allumina (durante il quale si rilasciano i tossici fanghi rossi) e infine la fusione del metallo. Veniva raccontato come un ciclo perfetto. Ma Alcoa chiude la fonderia nel 2014 dopo un’interminabile vai e vieni. Fare alluminio in Sardegna è svantaggioso e chiudono. Oltre alla tragedia sociale la produzione di allumina ha lasciato un’immensa quantità di veleno a cielo aperto più di cento ettari, a due passi dall’abitato di Portoscuso. Una perizia del politecnico di Torino tratteggia il quadro drammatico di un disastro ambientale che perdurerà secoli. Un incubo, altro che “sogno industriale”.
Ora esiste un altro tragico progetto di riavvio degli impianti dell’allumina. E si dimentica il processo penale in corso per l’inquinamento (imputato un amministratore delegato di Eurallumina che oggi siede al tavolo della discussione), si dimentica che quei terreni sono sotto sequestro giudiziario, non si fa cenno alle bonifiche obbligatorie e vogliono accumulare più veleni. Nell’oblio anche il rischio di malattia per gli abitanti e i dati epidemiologici inquietanti. Neppure una parola sul fatto che quell’area è un sito di importanza nazionale per l’inquinamento e che grazie a questa politica finalmente abbiamo anche noi un’importanza nazionale. E le centinaia di milioni di euro per il Piano Sulcis che dovrebbe fornire una via alternativa di crescita e progresso ad una delle aree più critiche d’Italia?
Però i fatti sono testardi e restano là a dimostrare che la visione di una Sardegna industriale ha creato un camposanto lavorativo e sociale in una grande porzione dell’isola. Poco aiuto alle imprese locali e, per decenni, rulli di tamburo e guide rosse ai Rovelli e a chiunque venisse da lontano a proporre le produzioni più incredibili e improbabili. Perfino felici che qualcuno distante ci avesse visto, convinti di entrare finalmente nella modernità e nella storia.
Ma oggi finalmente c’è un No, articolato e motivato, del Ministero dei Beni Culturali all’idea folle di riaprire un impianto che continuerebbe a rovesciare veleno infernale a Portoscuso. Qualcuno ha detto che può “rinascere l’alluminio sardo”. Be’, sarebbe un sollievo non sentire mai più parlare di rinascite e reincarnazioni, imparare a darci l’obiettivo di una condizione di normalità e di vivere in una regione finalmente normale. Nel 2012 due economisti, Francesco Pigliaru (oggi Presidente della Giunta sarda) e Alessandro Lanza, descrivono sulla Nuova Sardegna i danni del “modello” Alcoa e Carbosulcis che nel solo decennio 1985-1995 costarono in sussidi a fondo perduto 1200 miliardi di lire, più i contributi della Regione e dell’Enel che sopravvalutò del 100% il prezzo del pessimo carbone prodotto nel Sulcis. E pensare, scrivono Pigliaru e Lanza, che ogni lavoratore con tutti quei quattrini avrebbe avuto una dote di un miliardo di lire con una rendita mensile di circa 1400 euro per vent’anni. E a fine periodo il capitale iniziale invariato. Gli uffici regionali non hanno ancora concluso la valutazione di impatto ambientale sulla riapertura dell’Euroallumina però abbiamo la certezza che di veleni terribili ne avremmo sulla testa un volume enorme pari alla mole di un palazzo di 46 metri, quindici piani intrisi di tossine e della consistenza di un budino. Questo è previsto nel piano di riavvio.
Al No del Ministero dei Beni culturali tre senatori del PD - nostri contemporanei anche se reclamizzano un progetto riapparso da un tempo remoto - hanno accusato un rappresentante dello stato di aver bloccato il processo di riapertura con il suo parere negativo. Eppure glielo impongono le leggi, il diritto. Non un’astrazione sognante: il Diritto. E noi aggiungiamo che lo obbligano, oltre al piano paesaggistico e a varie altre norme, anche il naturale buon senso e il principio ancora più naturale di precauzione. Ma il mondo alle volte è a testa in giù. E così la politica, responsabile del fallimento economico, dell’avvelenamento dei luoghi e del mancato sostegno ai lavoratori, colpevole di una condizione feudale che fa del Sulcis una delle regioni più sofferenti d’Italia, anziché additare se stessa, indica come colpevole del “mancato sviluppo” un rappresentante dello stato perché non pronuncia un affabile sì a quindici piani di schifezze.
Ci risiamo, ci risiamo con mattoni e cemento. E’ stato approvato un disegno di legge che dice di “mettere ordine” nell’urbanistica ma>>>
Ci risiamo, ci risiamo con mattoni e cemento. E’ stato approvato un disegno di legge che dice di “mettere ordine” nell’urbanistica ma perpetua la fiaba tragica che si “sblocca” la Sardegna intasandola di cemento. Disgrazia già sperimentata dalla nostra comunità cocciuta. Eppure si è visto quanto siamo felici, si è visto chi si è arricchito, si è visto come il Piano casa Cappellacci del 2009 abbia reso florida l’isola. L’edilizia è un sistema agonico che non confessa le sue colpe e perfino in punto di morte implora altri metri cubi. La cura sbagliata. Propinata oltretutto da una Giunta che aveva promesso il contrario. E oggi conferma per sempre quel Piano Casa del 2009 trasformandolo in un eterno premio di cubatura. Una roba che neppure gli ayatollah del cemento avevano osato pensare. Lo rendono eterno proprio quelli che, a parole, lo hanno avversato per cinque anni. E ora sostengono che mettere un mattone sull’altro sia lo svitol per la nostra economia arrugginita.
Che vecchia e brutta idea. Ci dicono: i mattoni non vanno più e allora ne mettiamo su altri, così diamo una scossa all’economia. Be’, qualcosa non torna. Una famiglia normale farebbe il contrario e cercherebbe almeno di abitare le migliaia di metri cubi vuoti che ci accerchiano. Qualcun altro, a corto di argomenti, dice pure che siamo affogati dalle regole. Ma quali? E come chiamiamo un Paese senza regole? E come definiamo i Comuni costieri che non si sono adeguati in otto anni al PPR e alle sue norme? E i Sindaci che sfilavano in fascia tricolore contro le regole del Piano d’assetto idrogeologico? E come chiamiamo quei Comuni che invece le regole le rispettano?
Neppure è vero, altra teoria dei certi politici svitol, che dopo otto anni di PPR – elogiato di giorno e avversato di notte – siamo diventati tanto “bravi” da non avere più bisogno di regole e norme. Sono gli “antiproibizionisti” del cemento. Per loro il PPR è superato perché siamo diventati virtuosi. Se fossimo virtuosi non avremmo il record nazionale percentuale di abusivismo edilizio – interi quartieri – e non avremmo tappato fiumi con il cemento trasformandoli in mostruosi strumenti di morte. Celebriamo anniversari dei morti ma tutto resta come prima. Ad ogni pioggia tremiamo ma i fiumi di Olbia, Capoterra, Villagrande restano occupati dal cemento. E qualcuno, con un ragionamento incosciente e schizofrenico, invoca meno regole. Roba da matti.
Se fossimo virtuosi non continueremmo a vomitare norme che consentono nuovo cemento sulle coste nella fascia dei 300 metri, il suolo più pregiato e per giunta raccontando la favola che così non si consuma altro suolo. Solo al Villaggio Forte, per esempio, ci sarà una nuova costruzione sul mare più grande dell’Hilton di Roma grazie al Piano Casa. E dimenticando oltretutto che con il PPR si deve ragionare sull’inedificabilità della fascia costiera che è ben più ampia dei 300 metri e identifica l’unica nostra vera ricchezza: il Paesaggio. Un errore drammatico che ci renderà definitivamente poveri economicamente e moralmente. E la Sardegna, mattone dopo mattone, sfigurata uscirà anche dalla memoria.
Siamo arrivati a un punto vitale per il nostro Paesaggio e per noi stessi. Gli sblocca Sardegna cercano di restaurare il far west urbanistico e di svuotare la conquista civile del PPR con un disegno di legge che lo colpisce al cuore mentre lo salva.
Un quotidiano dell’isola ha riassunto la verità in un titolo perfetto: “Piano casa per sempre”. Già, perché basta confrontare il disegno di legge della Giunta attuale e il Piano Casa del 2009. Si vedrà che, nonostante le promesse su ambiente e paesaggio, i nostri “urbanisti regionali” hanno invece riprodotto analiticamente il Piano Cappellacci. E vorrebbero dargli la forza dell’eternità giuridica. Eppure ci avevano assicurato che ci saremmo conservati “come la Corsica”, che avrebbero abolito l’articolo 13 del Piano Casa (un articolo incostituzionale che sospende le tutele del PPR), che avremo puntato al “consumo zero di suolo”. Invece consumeremo suolo e paesaggio.
E ricordiamo all’assessore all’edilizia Cristiano Erriu che si passa alla storia locale in vari modi anche facendo il banditore di metri cubi avvertendo il mondo che il Piano casa scade il 29 novembre e sino ad allora “venghino signori”. Si passa alla storia anche proclamando che, niente paura, il nuovo disegno di legge “colmerà un vuoto legislativo” rendendo perpetuo un provvedimento regala-metri-cubi. Mentre l’unico “vuoto” che questo disegno di legge colmerà sarà quello che si riempirà di nuovi mattoni.
Il traghetto che in un’ora porta da Bonifacio alla bruttezza di Santa Teresa di Gallura spiega la Sardegna .>>>
In Corsica, nella terra emersa, giudici estremisti annullano il Piano urbanistico sostenuto dai sindaci di Cap Corse - i sindaci sono uguali dappertutto - perché i metri cubi sono troppi rispetto alle necessità reali. Elementari rudimenti di urbanistica. Ma non in Sardegna, dove progettiamo la moltiplicazione dei metri cubi chiamandola “investimento”. Un’idea vetusta che ha fallito ovunque.
In Corsica distinguono tra uso dei luoghi ed economia. In Sardegna confondiamo gli affari con l’urbanistica che è un’altra cosa. La Corsica prova a salvarsi. La Sardegna trasporta la sua croce edilizia mentre i corsi se la scrollano di dosso anche se un poco di cemento gli resta appiccicato.
La Corsica ha 1000 chilometri di litorali. Dal ‘75 la loro Conservatoria delle coste ha acquisito allo Stato francese 200 chilometri per circa 18000 ettari. Dal ‘75 la Sardegna, 1800 chilometri di costa, ha perduto irreversibilmente molto, molto più di 200 chilometri. Per non dire di quelli consumati dal ‘60 in mezzo secolo. E la giovane malformata Conservatoria sarda non ha acquistato neppure un metro di litorale. Però non è colpa sua se le era vietato quello che magari sarà permesso al Qatar. La Conservatoria sarda non ha mai avuto né poteri né quattrini e i sommergibilisti l’hanno silurata.
Fatto sta che in Corsica lo Stato compra dai Rothschild, che pure non sono un’opera pia, mentre da queste parti stiamo offrendoci al Qatar, storditi all’odor di quel metallo, proprio come mezzo secolo fa. Siamo sempre gli stessi.
In Corsica lo Stato acquista aree sconfinate. Solo l’Agriate e la foce dell’Ostriconi sono grandi 6000 ettari. E là non si costruisce neppure un muretto. In Sardegna, sempre più poveri di paesaggio, un luogo intatto rappresenta una buona ragione per eliminare tutele e spargere cemento. Per questo motivo restano in piedi gli effetti tossici del Piano casa e del Piano paesaggistico di Cappellacci, piedi di porco per altre eruzioni metrocubiche. Il ricorso al Capo dello Stato contro il Piano di Cappellacci viene trasferito al tribunale amministrativo perché, si vede, preferiamo immergerci negli abissi giuridici e riemergere a paesaggio estinto.
In Corsica, tra mille difficoltà, hanno compreso quanto vale la loro terra. Non è l’eden, no, ma va meglio, molto meglio che in Sardegna. In Corsica al valore della tutela ci credono. Qui, dopo la luce del Piano paesaggistico che nel 2006 ha reso inedificabili le zone F, le più belle, vorrebbero renderle di nuovo campi dove seminare mattoni. Qui annientiamo i nostri paesi mentre la Corsica li conserva. Qui confondiamo il turismo con l’edilizia, chiamiamo “prodotto” il paesaggio, sentiamo la necessità psichiatrica di affidarci ad altri, ci autoescludiamo dalle nostre spiagge e dalla nostra terra. Abbiamo tragicamente trasformato l’urbanistica in una contrattazione un tanto al chilo condotta da funzionari, consulenti, assessori e borgomastri gongolanti per tanto onore.
Un istruttivo pezzetto di storia per i nostri sommergibilisti durante le loro lunghe immersioni. Era la fine degli anni ’50. Grandi immobiliaristi francesi volevano 1000 posti letto nell’Agriate. I corsi si opposero. Trascorsero molti anni, nuove leggi, il lavoro della loro Conservatoria. E oggi là non c’è un mattone. Insomma, i corsi hanno salvato la loro terra dalla speculazione edilizia, non chiamano “investimento” la distruzione dei luoghi e dimostrano che anche in Sardegna c’è un’alternativa economica ai guardiani del metro cubo.
Durante un’emersione il nostro assessore all’urbanistica ha assicurato nuovi “accorgimenti” per il paesaggio sardo. Chissà. Noi temiamo che un “accorgimento” là, un “investimento” qua, la bocca impastata dal cemento, consumeremo quello che resta dell’isola.
Ci danno il tormento con la faccenda che l’Italia è talmente bella che tutto il mondo ci invidia, che tutti vorrebbero vivere qua... >>>
Viviamo nel “paese più bello” del globo, però lo rendiamo irriconoscibile. E sempre con lo stesso armamentario ideologico. Dicono che si deve cambiare, che non si può stare con le mani in mano e che si deve lasciare il segno. Usano il termine antropizzare che serve perfino per erigere grattacieli nelle valli alpine o in un porticciolo. Oppure per un’expo sul cibo e vomitare milioni di metri cubi nell’agro. O per massacrare Venezia e la laguna con una grande opera. Ci antropizzano sino allo sfinimento.
E le leggi sul paesaggio? Be’, anche quelle sono le più belle del mondo. Ma le vogliamo lasciare come sono? Saranno pure belle, però hanno qualche ruga di troppo. Così fanno leggi più quick, fast, slim, smart, una serie di espressioni idiote e logore che sono un grimaldello per indebolire norme e tutele.
E non ci hanno martellato sino a ieri con la faccenda che la Costituzione italiana è la più bella del pianeta? Ora di colpo è vecchia, blocca il Paese e scoprono che ha la scadenza come la mozzarella. La vogliono cambiare perché ci sono giudici insolenti, pubblici ministeri indiscreti, ambientalisti maniaci, associazioni petulanti, annidati in ogni angolo della società, perfino nelle scuole, che vorrebbe applicarla. Intanto con le vecchie leggi un certo numero di persone perbene si era infiltrato nelle istituzioni, perfino nei parlamenti, nei consigli comunali e negli uffici pubblici. Una vera lobby che speriamo si estingua presto.
Per fortuna che qualche legge facile facile per semplificare la vita ce l’eravamo procurata di già.
La legge obiettivo, quella dei Grandi Eventi, per esempio, era stata voluta dal secondo governo Berlusconi. Con articoli sfacciati sospendeva prescrizioni urbanistiche, sfuggiva a meccanismi di controllo e affrancava miliardi dai terribili “lacci e lacciuoli” che interrompono la crescita. Per questo quella legge è stata conservata come un tesoro dai Governi successivi. Dava mano libera alle decisioni della politica.
La reggeva l’idea di rendere facilmente spendibili i soldi pubblici cancellando vincoli e controlli ma dimenticando che nessun popolo civile può pensare che per rispettare un impegno si debbano aggirare le regole.
E a chi sostiene che la corruzione è causata dalla complessità dei codici dovrebbe bastare vedere che dietro una Grande Opera e un Grande Evento c’è sempre un Grande Processo.
Ricordiamo tutti come con la scusa che per i 150 anni dell’unità del Paese più bello del mondo, hanno organizzato un G8 a La Maddalena. Cosa ne sia derivato è noto.
E’ dimostrato dalle scienze esatte come tutto vada a rotoli ogni volta che nel nostro Paese si prepone l’aggettivo “grande” davanti a un evento o a un’opera. Opera ed evento degenerano immediatamente. E per Grandi Opere e Grandi Eventi occorrerebbero grandi controlli, altro che semplificazioni.
I fatti dimostrano che l’idea di combattere la corruzione con meno passaggi burocratici consista in una balla sostenuta da chi attribuisce alla parola “burocrazia” – fondamento di uno Stato civile – un senso negativo che la parola in sé non contiene. Lo vediamo che cosa i nostri facilitatori hanno reso facile. Le regole sono semplici, basterebbe spogliarle del “di troppo”, accettarle e rispettarle.
Infine, quando non ce la fanno neppure i facilitatori allora arrivano le task force. Anche in Sardegna. Una task force per la revisione del Piano paesaggistico, una per i danni dell’alluvione, una per la valorizzazione dell’agro alimentare, una di psicologi per gli alluvionati, una per la pesca, una per gli incendi, una per il digitale terrestre, contro la lingua blu, la peste suina, la prostituzione, una per rendere facili le domande delle aziende ovi-caprine, una task force per la necropoli di Tuvixeddu, dotata anche di un tavolo e perfino di un osservatorio parlamentare da dove due deputati sardi in mimetica osservano a turno la necropoli.
Ne vorremmo una per proteggere il Paesaggio e per far comprendere a chi compra pezzi di isola che il compratore si deve adeguare al nostro Piano paesaggistico e non il Piano a lui.
Dacirca una dozzina d’anni incombe anche nel centro storico di Cagliari unprogetto di parcheggio interrato sotto le mura del bastione della Santa Croce. Moltecritiche, pochi sostenitori. Tra i sostenitori l’attuale Giunta della modernasinistra ecologica e avanzata. Una grande effusione di cemento nel centroantico della città, un progetto ereditato dalla vecchia Giunta sviluppista cheprudentemente lo abbandonò.
Esiste il machismo politico, una forma di esibizionismo che raggiunge i vertici in campagna elettorale. Un esempio di scuola è rappresentato dall’annuncio del Presidente della Regione Sardegna...>>>
Esiste il machismo politico, una forma di esibizionismo che raggiunge i vertici in campagna elettorale. Un esempio di scuola è rappresentato dall’annuncio del Presidente della Regione Sardegna il quale giunge al traguardo dei cinque anni di legislatura e tenta di approvare con il coltello tra i denti il nuovo Piano paesaggistico detto dei sardi. E di farlo a tre giorni dalle elezioni.
Un tentativo disperato, visto che se il nostro Presidente fosse certo della vittoria aspetterebbe pazientemente la sua nuova Giunta e realizzerebbe il sogno dei metri cubi in paillettes, i boschi al mentolo, gli stagni deodorati, le spiagge finte, le case rosa, gli emiri in berritta, le vigne del nonno, le campagne edificate ogni ettaro, il sogno del sì a tutto. Quella visione del mondo che ha causato la distruzione il 18 novembre e le vittime dell’alluvione.
Il nuovo Piano, si sa, è illegittimo e, semmai venisse approvato, sarebbe annullato per un’interminabile serie di motivi, ciascuno sufficiente a cancellarlo. Il terribile Piano dei sardi, neppure ancora approvato, è stato impugnato. Ma le digestioni dei giudici costituzionali sono lente. Questa illegittima approvazione annunciata ha il pregio di rendere più rapido l’annullamento, senza dispepsie giuridiche, grazie all’irregolarità di un atto fondamentale racchiuso in un acronimo gentile detto VAS, che significa Valutazione Ambientale Strategica.
Il doping politico consiste, in questo caso, nell’illusione che l’azione muscolare di approvare il nuovo Piano possa cancellare procedure e regole. La rimasticazione di un fritto misto di giuridico piegato al politico. E quando si mischiano brutalmente le due sostanze - la politica e le leggi - decadono insieme lo spirito della politica e lo spirito delle leggi.
La VAS è uno strumento che garantisce la concreta partecipazione della comunità locali sempre invocate da tutti come stella polare di ogni azione politica, ma puntualmente maltrattate. E obbliga le Amministrazioni pubbliche a coinvolgere le associazioni, i movimenti e i cittadini, tutti quelli che sono interessati all’elaborazione del Piano paesaggistico.
Un coinvolgimento ancora più necessario se la valutazione riguarda beni protetti dalla Costituzione: l’ambiente e il paesaggio. Uno strumento, la VAS, che tocca il campo del reale, il mondo in cui viviamo, la terra sulla quale camminiamo, l’acqua che beviamo, l’aria e il mondo che vediamo.
Insomma, un Piano paesaggistico senza una VAS adeguata - quello che vogliono propinarci come la medicina di Pinocchio - verrà annullato in ogni sede, da ogni tribunale e sarà cancellato dalla storia e dalla memoria locali. E che mondo sarebbe quello nel quale ci raccontano che ci difendono, ci tutelano, pensano alla comunità” e poi deformano a piacimento proprio lo strumento che ci difende e ci tutela?
Con un nervoso atto d’imperio locale e una crosta di finto autonomismo questo Piano paesaggistico ci viene comunicato a tempo scaduto, a cose avvenute. Il Presidente e i suoi Uffici, l’Assessorato all’Urbanistica e il suo Direttore generale, hanno raccontato, durante memorabili riunioni, meraviglie del nuovo Piano e sempre coinvolgendo, solo con le parole, le disgraziate comunità locali , perfino Uras, Olbia, Terralba e molte altre che, invece, sono le più abbandonate e addolorate. E non si potrà chiedere a un Ufficio dell’Assessorato all’Ambiente di sottoscrivere un desolante procedimento monco, ostile all’Ambiente e ai cittadini. Mentre la “partecipazione” è consistita solo nella simulata partecipazione di “Sardegna Nuove Idee”, una trovata della facoltà di architettura di Alghero.
Non c’è in tutta la valutazione ambientale di questo Piano la voce di un cittadino, di un’associazione, di un movimento. Assenti, del tutto le comunità locali, spesso volutamente confuse con i sindaci. Sarebbe una VAS postuma, ad Ambiente e paesaggio morti. Dice che viviamo in un sistema bipolare e, in effetti, ci pare di vivere in un sistema ciclotimico.
Illusi che basti chiudere le porte in faccia ai fatti per non averci a che fare, cancelliamo dalla disputa elettorale sarda temi nazionali cruciali. E riaffiorano nella discussione ... >>>
Illusi che basti chiudere le porte in faccia ai fatti per non averci a che fare, cancelliamo dalla disputa elettorale sarda temi nazionali cruciali. E riaffiorano nella discussione le bistrattate “comunità locali”. Entità indecifrabili ed elastiche, riserva aurea di voti, tirate qua e là con la promessa che saranno decisive.
Le “comunità locali” non coincidono, è chiaro, con i Comuni, né, tanto meno, con il Bene Comune, che è superiore alle singole comunità. E uno degli argomenti che più le attira è l’uso della terra, dell’aria e delle acque.
Noi sardi ci siamo dati nel 2006 un Piano paesaggistico universalmente apprezzato. Però, alla fine della legislatura, la Giunta che ci governa ne ha spremuto uno illegittimo, opposto a quello del 2006. Sostiene di averlo concepito in armonia con le “comunità locali” e ora, per dimostrare che in Sardegna si decide senza il Ministero, verrà approvato dalla Giunta prima delle elezioni.
Dalla poliedrica area indipendentista, Michela Murgia afferma che i due Piani paesaggistici sono uguali perché ambedue hanno prestato poca attenzione alle “comunità locali”. Il Ppr del 2006 rispose a circa 3.000 obiezioni, venne discusso in ogni sede, anche in giro per “comunità locali”, talvolta contestato, sottoposto a innumerevoli procedimenti dai quali uscì vittorioso.
Però anche il nuovo Piano, quello del “sì a tutto”, concepito da scaltri “ascoltatori di elettorato”, è condiviso da non poche “comunità locali” proprio perché dice sì a tutto e promette una valanga di milioni di metri cubi di cemento. E sfrutta il medesimo argomento indipendentista che solletica le “comunità locali”. Il cemento di Capo Malfatano era condiviso dalla “comunità locale”, ma i giudici del Tar e del Consiglio di Stato hanno stabilito che è illegittimo. E allora? Certo, con le “comunità locali” è indispensabile dialogare, ma è colpevole blandirle o, peggio, imbrogliarle con una falsa ubbidienza ai loro voleri.
Il Piano del 2006 è indigesto non perché macchinoso, ma perché contiene norme e regole mal tollerate. Vedi Terralba contro i vincoli idrogeologici, Olbia e la sua deregulation urbanistica, la Cagliari del cemento.
Secondo la religione delle “comunità locali” ridotte a serbatoio elettorale, ogni nuova maggioranza dovrebbe essere il decisore ultimo sul territorio a seconda di chi vince o perde. Insomma, a ogni elezione si cambiano le regole. Sarebbe questa la certezza evocata da certi indipendentisti e dai conservatori sviluppisti? L’indipendenza paesaggistica sottometterebbe il Bene Comune – che è molto più grande delle singole comunità – agli interessi locali. E sarebbe un drammatico regresso.
Ma per ora siamo salvi perché oggi le regole non sono locali e durano più delle amministrazioni di passaggio.,Sostenere che il Ppr è un “macroprogetto” imposto dall’alto, conduce all’idea che il paesaggio diventi vittima dei localismi, giù, sempre più giù, sino al preistorico “padrone in casa mia”. E sino al principio primordiale che codici e leggi ognuno se li possa fare da solo. Un codice per ogni comunità. Ma c’è qualcosa che vorremmo obiettare anche al candidato della sinistra, Francesco Pigliaru, il quale dice di voler “semplificare” il Ppr del 2006. Questa faccenda della “semplificazione” spaventa.
La parola “semplificazione” è arrischiata. E’ positiva, in sé, ma l’uso è degenerato e in Italia fregano milioni di persone con questa parola. Nessuno può affermare di ambire alla complicazione, ma la semplificazione, messa come la mettono i “semplificatori”, è stata un grimaldello per fare cose orribili, cancellando verifiche indispensabili e, in fin dei conti, regole.
Semplificazione è una parola che si è vuotata di significato come chimica verde (detta verde anche quando produce schifezze), sostenibilità, ecocompatibilità, green economy, termini dei quali qualcuno si è impadronito per confondere meglio tutti, comprese le tartassate “comunità locali”. E serve conoscerne il significato profondo ché troppa semplificazione complica le cose.
La nostra Giunta regionale, verniciata di sovranismo, ha annunciato la nascita del nuovo “Piano paesaggistico dei sardi” che si chiamerà Pps. Però il nuovo Piano sardo ... >>>
La promessa del 2004 – poi mantenuta – di tutelare l’identità della Sardegna attraverso il Paesaggio ricompattò le truppe edificatorie di destra che si cementarono indissolubilmente con il cemento. Il Piano fortificò la destra sfilacciata che si riunì intorno all’ideologia del mattone toccasana di ogni male. Così nel 2009 la nuova dottrina trionfante consisté nell’impegno di cancellare il Piano paesaggistico considerato la causa di ogni male. Con un nuovo Piano la Sardegna si sarebbe aperta in un sorriso sereno. E tra i Dulcamara del laterizio apparvero anche i discendenti deviati di Emilio Lussu i quali con l’abituale fierezza consegnarono i quattro mori al padre dei 250.000 metri cubi della costa turchese.
Nell’attesa, per non stare con le mani in mano, i nostri maestri cementificatori produssero ben cinque Piani casa e una sbalorditiva legge sul golf che si portava dietro almeno due milioni di metri cubi. Il Piano casa sardo – forse il peggiore d’Italia – sospese dal 2009 ogni misura di tutela prevista dal Piano paesaggistico. L’offensiva cementificatrice contagia nel frattempo anche la nostra cosiddetta sinistra che, a luglio di quest’anno, mette in pericolo gli usi civici con una legge votata in perfetta armonia con i templari del mattone. Tutto illegittimo. I provvedimenti impugnati dal Governo per puzza di incostituzionalità. Ma la Corte Costituzionale ha digestioni tortuose e ancora aspettiamo la decisione.
E il nuovo Piano paesaggistico dei sardi, il Pps? Gli appassionati del cemento penseranno che in cinque anni la Giunta regnante avrebbe potuto partorirlo prima e che gli ostetrici del nuovo Piano avrebbero dovuto garantire gravidanza e parto felici. Non una gravidanza da elefante e un cucciolo cadavere. E così, a fine legislatura, non abbiamo neppure un feto formato e sano. Fetali e malate le linee guida. Decedute nel grembo materno anche le norme che abbassano – fatto giuridicamente impossibile – il livello di tutela.
Un Piano paesaggistico è fatto di linee guida, di cartografie e, soprattutto, di norme che lo realizzano. Inspiegabilmente coperte dal segreto di chi conosce sin dalle origini una deformità ignominiosa, queste benedette norme, a lungo nascoste come i Beati Paoli, hanno visto la luce.
Esse permettono quasi tutto quello che rassomiglia anche lontanamente a un metro cubo. E riproducono il Piano casa, notoriamente insofferente a ogni tutela. Levigano la legge sul golf. Rendono arbitraria la scelta stessa di cosa è o non è bene paesaggistico.
Il Ministero del Beni culturali, però, deve pianificare necessariamente con la Regione sarda la quale non può decidere da sola la revisione del Piano, perché anche il paesaggio della Sardegna è patrimonio di tutta la Nazione. Bisognerà spiegarlo all’emiro. E leggere al monarca del Qatar la nota inattaccabile del ministero che ricorda come l’adozione del nuovo “Piano dei sardi” sia un’iniziativa unilaterale e contraria al Codice del paesaggio. Chi glielo racconterà?
Insomma, lo sanno anche i Rosa Croce della Regione che lo Statuto sardo non permette di decidere in solitudine e segretamente il destino del nostro paesaggio. E che non è consentito portare il Piano in Giunta e adottarlo sapendo che non sarà legittimato dal Ministero.
La vera linea guida è: “Permettiamo tutto con le nuove norme. Adottiamo il Piano e poi si vedrà. Intanto ci devono inseguire”.tàMa di lepri impallinate è piena la storia e se noi fossimo investitori non rischieremmo neppure un euro con chi non è riuscito in cinque anni a mantenere la promessa di smontare il Piano paesaggistico del 2006 e ora tenta un maldestro colpo di mano destinato all’insuccesso. Esiste e resiste la certezza del diritto e con certezza si può affermare che nessun Governo – e nessuna corte – accetterà che i livelli di tutela attuali vengano cancellati dalle nuove terribili norme venute scandalosamente al mondo in questo fine legislatura, ma nate morte.
Questo articolo è inviato contermporaneamente a La Nuova Sardegna
Impossibile, in Sardegna, entrare nella questione dei tanti separatismi, sovranismi, indipendentismi, autonomismi, autodeterminazioni e autarchie senza suscitare reazioni... >>>
Questa “corrente di pensiero” consisterebbe nel lasciare ai sardi pieni poteri sul loro paesaggio liberi da Roma ladrona, dallo Stato sopraffattore e dall’algida Europa. Ma i fatti – i fatti e non sofistiche teorie – dimostrano in cosa consista il pericolo. Tutti sappiamo che il nostro Piano Paesaggistico, adottato a maggio del 2006, è la conseguenza provvidenziale del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.
Però tutti ricordiamo anche come nel 2009, una schiacciante maggioranza di elettori sardi abbia determinato la vittoria dei pasdaran del cemento i quali dichiararono guerra al Piano definito giogo crudele, ostacolo a una indefinita crescita dei sardi i quali fioriscono, si vede, solo se li fertilizzano con il cemento.
Ma il Piano è saldo e resisterà al tentativo sterile, in atto da quattro anni, di cancellarlo. Oggi i fatti – sempre i fatti – dimostrano che senza l’obbligo attuale di modificare il Piano insieme con il Ministero – ossia, se fossimo indipendenti – noi lo avremmo già cancellato per democratica e fiera volontà isolana. Magari avremmo ampliato con molti metri cubi anche nuraghi, domus de janas e tombe dei giganti. Insomma, se fossimo “paesaggisticamente indipendenti” il Piano sarebbe nato e subito morto nella sua culla, la Sardegna.
Però, per fortuna, non esercitiamo nessuna indipendenza paesaggistica. E oggi a difendere il paesaggio dell’Isola c’è il Ministero “lontano”, i suoi uffici “lontani” e leggi concepite “lontano”, imposte dalla tirannide italiana e europea. Mentre i sardi hanno votato per ricoprire d’altri mattoni la loro terra. Lo Stato e l’Europa – i siti di importanza comunitaria andrebbero moltiplicati e rafforzati – costituiscono un sistema imperfetto, d’accordo, ma, nell’attesa vana della “coscienza di chi siamo e dove viviamo”, questa tutela articolata e stratificata esiste ed opera. Dà i brividi l’idea di affidare il paesaggio al capriccio politico di un comune o di una regione, all’estro di sindaci, giunte e consiglieri volatili.
E’ poiché è ovvio che le bellezze e le risorse della Sardegna non sono solo sarde, come Pompei non è dei campani o il Colosseo non è dei romani, poiché è fuori discussione che il patrimonio paesaggistico – e ambientale – non appartiene ad una singola comunità, oggi la temporanea maggioranza politica che governa l’isola non detiene il potere di agire in solitudine su temi che coinvolgono un’intera nazione.
Cosa sarebbe accaduto al paesaggio sardo senza lo Stato negli ultimi settant’anni? Nessuna legge Bottai, nessuna legge Galasso, nessun Codice del paesaggio. Non avremmo avuto il Piano paesaggistico e, se anche lo avessimo prodotto, lo avremmo cancellato dal 2009 quando vinse la mistica del mattone libero.
Lo Stato sarebbe “invasivo” su questi temi? Altre, altre sono le invasioni.
I sardi che sognano di diventare emiratini, le migliaia di ettari nelle mani di società lontane, spesso adorate dalle nostre devote comunità locali, le vicende di ogni singola speculazione – ancora fatti – dimostrano come la collettività e i suoi rappresentanti siano fragili, come tanti isolani creduli approvino quei progetti. E sono la prova che una vera indipendenza non è nell’animo dei nostri trecentottanta comuni perché un accettabile autogoverno passa per la difesa tenace della propria terra, metro per metro, particolare per particolare. Qua, invece, la vendiamo.
Usi civici, la storia, la proprietà, l’uso della terra. In Sardegna tutto questo è finito dentro due articoletti di una legge scarna. >>>
Il Consiglio regionale ha approvato con una discussione afona una legge ritenuta urgente da tutti i gruppi. Poche righe scivolose per modificare l’uso dei suoli nei 380 Comuni sardi.
Dall’assessorato all’urbanistica dicono con sguardo sfuggente che non si tratta di provvedimenti sul paesaggio ma di chiarimenti e – parola avvelenata – semplificazioni. Eppure il titolo della legge recita: ”Norme urgenti in tema di usi civici, di pianificazione urbanistica, di beni paesaggistici”.
Nessuna discussione in aula, neppure sui singoli articoli. Nulla. Solo silenziose alzate di mano. Qualche intervento “per diritto di voto”. Contrari solo i consiglieri Lotto e Solinas del Pd e Sechi di Sel. Sorprendente l’onorevole Gian Valerio Sanna, uno degli ostetrici del nostro Piano paesaggistico, allineato con la legge che in realtà favorisce il cemento travestito da interesse pubblico.
Certo, è credibile che alcune intricate situazioni di fatto avessero urgenza di essere sanate. Ma cosa può accadere dopo questa legge? Secondo i proponenti nulla di negativo e, anzi, si scioglierebbero alcuni nodi.
Invece sarà l’ennesimo salvacondotto per fare quello che si vuole del nostro suolo, uno strumento per rendere più facile la trasformazione e cancellazione degli attuali usi civici che sono una barriera contro la frenesia edificatoria.
Gli usi civici vincolati ope legis fin dalla Legge Galasso del 1985, definiscono gli utilizzi possibili di terre pubbliche e rappresentano da millenni la complessità del nostro modo di essere, di vivere, di occupare e utilizzare i luoghi. E’ giusto liquidarli con uno scheletrico articolo di legge e senza una discussione? No, certo.
Neppure per l’onorevole Sanna conta che le terre destinate a usi civici siano considerate un bene paesaggistico dal Codice Urbani e dal nostro Piano? E non conta che Regione e Comuni non possano in solitudine, senza lo Stato, decidere cosa è o non è considerabile bene paesaggistico? E il fatto che la tutela del paesaggio prevalga su ogni altro interesse secondo la Costituzione e la Corte? Neppure una parola. Solo l’indebolimento sostanziale di un istituto ultramillenario.
Questa legge sarà impugnata e un giorno si pronunceranno i giudici. Ma intanto la subiremo.
La semplificazione consisterebbe nel dare la possibilità ai Comuni di “proporre permute, alienazioni, sclassificazioni e trasferimenti dei diritti di uso civico secondo il principio di tutela dell'interesse pubblico prevalente”.
Ma “l’interesse pubblico” è un’espressione vaga e azzardata. Abbiamo visto quale interesse prevalga e quale sia il destino dei luoghi, soprattutto quelli più belli e preziosi. Li rosicchiano sino a che non ne resta più nulla anche in nome dell’interesse pubblico. E l’onorevole Sanna lo sa.
Facile immaginare quale sarà l’uso una volta che si sclassificherà un sito. Vedremo entro l’anno come i comuni sclassificheranno i loro usi civici e se la Regione approverà.
Non è da profeti di sciagure aspettarsi un tornado di mattoni, di eolico e fotovoltaico con un Piano Paesaggistico svuotato, privi di un Piano energetico. Affoghiamo nel cemento e gli usi civici sono un argine alla speculazione. Casomai dovevamo rinforzare gli argini e non facilitarne la cancellazione un pezzo per volta.
Un’altra perla splendente inanellata da questa legge ribadisce una norma avversata un anno fa dai partiti della “sinistra” e dall’onorevole Sanna i quali, con una torsione improvvisa, hanno votato a favore.
Il Consiglio ha ribadito che si può costruire a meno di 300 metri dagli stagni e proseguire sereni il disfacimento del nostro paesaggio. Un accordo difficile da comprendere, oppure troppo facile. E anche questa, si vede, è semplificazione. Basta un’alzata di mano.
La dichiarazione di intenti del Sindaco sviluppista di Bosa – trecentomila metri cubi in una bella cittadina che già ne ha qualcuno di troppo... >>>
Il borgomastro di Bosa, asserragliato in una macchina del tempo, propone ai suoi cittadini di dare via perle in cambio di fondi di bottiglia e ci assicura che con trecentomila metri cubi “adagiati” qua e là saremo moderni, verdi e sostenibili. Disegna nell’aria posti di lavoro. Golf e grifoni. Golf e miniere. Golf e malvasia. E lacera – lui che dovrebbe unirla – la sua comunità per un progetto drammatico chiamato “Colores”.
Condotte immobiliare possiede 337 ettari nel territorio di Bosa. A Tentizzos-Sa Miniera, 247 ettari lungo la Bosa Alghero, una delle strade più belle dell’isola, preparano un torrido campo da golf sul mare e 75.000 impalpabili metri cubi. A Campu e mare, 17 ettari, “adagiano” 217.000 metri cubi di brutta edilizia abitativa. A Sa Sea, 73 ettari, 25.000 soavi metri cubi e alberghi che grondano stelle.
L’astuzia consiste nel tentativo di spostare a Tentizzos-Sa Miniera, dove le leggi lo vietano, un’enormità di metri cubi già autorizzati in un'altra parte. E così il Sindaco annichilerebbe tre siti al costo di uno. Un primato. Ma è un’astuzia scadente.
Ovvio che non si possa detestare l’azione di costruire in sé, ma quando costruire è un mezzo per il profitto di pochi e sperpera il bene non ripetibile della bellezza, quando costruire diviene un’azione priva di filosofia e assomiglia al gioco delle tre carte, allora la critica, il “No” e l’opposizione diventano necessari.
Il golf è salutare. Però diventa una malattia quando diciotto buche portano con sé 75.000 metri cubi. Tanto più in un luogo sublime dove ogni norma lo vieta. Lo proibiscono il piano urbanistico comunale, il Piano paesaggistico regionale, norme europee e il buonsenso. Lo sport non è il golf, lo sport è costruire. E il principio è più buche, più cemento. Però il Sindaco di Bosa dice di crederci. E coltiva una pericolosa ostilità tra chi non vuole cemento e una minoranza legata a interessi locali. I nostri Mazarò che accumulano “roba” e con la roba se ne andranno all’altro mondo avvinghiati ai loro metri cubi.
Per risolvere la crisi di un sistema morente basterebbero campi da golf e cemento sparso nei luoghi più belli? Il decotto anti-crisi del Sindaco farebbe sorridere se non fosse tossico. Dare mattoni all’agonizzante mercato del mattone è come dare droga a un drogato.
Le cicale sarde sono voraci come le altre o anche di più e a forza di spingere carriole di mattoni rimarremo poveri per sempre. Cura, cura amorevole dei luoghi è l’unico possibile investimento. La cura conserva la bellezza e crea un benessere duraturo che non oscilla quando oscillano i mercati lontani.
Il Sindaco metrocubista chiede le mostrine dell’Unesco ma sostiene il progetto del golf e cemento. E sogna che il Piano paesaggistico venga cancellato, che la legge sul golf non sia bocciata dalla Corte Costituzionale, che Bosa modifichi in peggio il suo piano urbanistico e che scompaia il vigoroso movimento civile che gli si oppone.
Protegga Bosa, il Sindaco, sostenga le leggi che la difendono, riunisca la sua comunità. E nella piccola storia locale conserverà una buona memoria di sé. Sennò lo ricorderemo come un flagello, tra i tanti, di Bosa e dell’isola.
Nel servizio di un tiggì nazionale sul nuovo emirato della Costa Smeralda un onesto cronista... >>>
Neppure la civile testimonianza di un giornalista sardo che faceva da guida allo sbalordito inviato dal “continente”, ha attenuato la tristezza e la vergogna provocate dalla spaventosa espressione “fette di ambiente”. C’è qualcosa di demoniaco e, allo stesso tempo, da pizzicagnolo in questa faccenda dell’ambiente a fette. La Sardegna affettata come un salame mentre il sito della Regione e i suoi funzionari ce la mostrano siliconata e trionfante in 3D.
In questa diabolica autopsia dell’isola, la Gallura seziona per sé una fetta di 500.000 metricubi che sarebbero consentii dal nuovo Piano paesaggistico. Quello promesso dall’attuale Giunta metrocubica, sostenuto dall’eruzione intellettuale di “Sardegna Nuove Idee” con il puntello della vulcanica università di Alghero.
Già il Piano Casa in eterna proroga era riuscito nell’intento di distribuire metri cubi con il perfido articolo 13 che annulla ogni tutela. E quando la Corte lo dichiarerà anticostituzionale, già molto sarà perduto senza rimedio. Intanto i “mattoni per tutti” hanno aggravato la crisi dell’edilizia perché hanno inventato un fabbisogno inesistente, risposto a una richiesta fasulla, moltiplicato di conseguenza i senza lavoro, imbruttito l’isola sino all’insopportabile, alimentato illusioni e gonfiato una burla finanziaria che volge in tragedia.
Però nella diavoleide isolana non ci sono solo i luciferi che vogliono annichilire il Piano paesaggistico cancellando le norme. Un altro gruppo di diavoletti vuole destinare un quarto della superficie coltivata dell’isola alla cosiddetta Chimica Verde per coltivare e bruciare incommensurabili quantità di cardi. Altro veleno. I nostri azazelli manager vorrebbero fabbricare sacchetti per la spesa a partire dal cardo. Saremo i leader dei sacchetti. Grandioso! E quando ad altri verrà in testa di fare sacchetti che costeranno meno – proprio come è accaduto per il carbone, per l’alluminio e perfino per il pecorino – noi, sempre più intossicati e poveri, riprenderemo il nostro congenito lamento dopo aver perduto l’ennesima“fetta di ambiente” innaffiando improbabili cardi.
Però l’obiettivo è ancora più ambizioso. Miriamo all’annichilimento dell’intera agricoltura che, nella Sardegna in promozione 3D, è roba superata. E siamo già molto avanti.
In una parte laboriosa dell’isola dove c’è un’industria del latte e coltivazioni che permettono un reddito certo, dove c’è un turismo contrastante con quello delle “fette” galluresi, perfino i consiglieri del Pd, in armonia con Confindustria che considera il Paesaggio “materia prima” da consumare, volevano trivellare il suolo alla ricerca di metano. Condividevano, si vede, la filosofia della “fettina” e proponevano un mondo da incubo dove in una fetta si coltivano fragole e si allevano mucche mentre in un’altra si trafora la terra per estrarre metano. Un ciclo perfetto. Trivellati e trivellatori felici insieme. Abbiamo colpe storiche, ma non tutti le vediamo. Lo specchio mostra schifezze e noi diamo allo specchio la colpa delle schifezze.
Però qualcosa cambia. E il metano d’Arborea resterà nel sottosuolo ad alimentare le fiamme dell’inferno perché chi abita quei luoghi non vuole trapanare la sua patria, non considera merce la sua terra, è contro l’ambiente a “fette”. E si ribella.
Resta ancora molto da distruggere, e ci provano. Trivelle anche a Serramanna, Vallermosa minacciata da 3500 specchi che riflettono luce su una terribile torre di 200 metri, Villasor, Uta, Giave e Cossoine, Narbolia, Ulassai, Buddusò, Alà dei Sardi, il Limbàra, un elenco interminabile di “fette di ambiente” violate o insidiate dall’interesse di pochi che si sono dati un’opaca vernice di verde. Oggi la fiaba del metano e dell’energia a poco prezzo, ieri quella del cemento e quella dell’industria che ha fatto più vittime che addetti. Molti periti settori ci amministrano e vorrebbero affettarci, incuranti dei luoghi e di chi li abita, incuranti della malavita organizzata che ha messo le mani sull’energia, incapaci di immaginare “un’economia fisiologica”. Promettono paradisi e producono inferni. E guai, guai chiedere un piano regionale dell’energia: nessuno lo vuole perché nessuno sopporta regole.
Però, finalmente, c’è un po’ di luce. Qualche comunità non crede più ai pifferai, ha riflettuto, non vuole più fare la parte del piffero e comprende il valore di quello che ci resta, anche di brandelli, lembi, frammenti e avanzi dell’Isola.
Baristi e urbanisti a Cagliari diventano sinonimi...>>>
Accade che un bar, affidatario da vent’anni di uno degli spazi più belli della città, sulla terrazza del bastione di Santa Croce, conduca una florida attività pagando poco più di 1300 euro l’anno per l’uso del suolo. E che, con un’altra manciata di euro, il filantropico padrone del locale abbia commissionato un progetto a studenti e neolaureati di architettura per migliorare non il bastione medievale ma il bar, considerato un gioiello così raro da annullare il valore delle mura medievali.
Che prestigiosa collaborazione questa tra un bar e la facoltà di architettura, che promettenti architetti, che elevato concorso di idee e che idea abbagliante quella di considerare il bar la “perla” del bastione di Santa Croce.
Dell’illustre commissione fa parte il proprietario insieme a austeri cattedratici di architettura, tutti favorevoli a un’orrenda pedana nella quale, vicini al cielo e agli dei, si beve seduti guardando il golfo attraverso una lastra di vetro. Il risultato è un orrore che sfregia uno dei siti più importanti della città. Quel luogo è stravolto, quel cataplasma non verrà rimosso, offuscherà a lungo il panorama della torre dell’elefante. E la città sarà più povera.
Se i teorici del cappuccino e brioche si fermassero a riflettere, comprenderebbero quanto sia iniquo consegnare un sito prezioso a chi lo altera profondamente per proprio vantaggio, capirebbero che un quartiere non si ripopola con qualcuno che ci va la notte, beve, usa il rione come un vespasiano e se ne va barcollando.
Quest’urbanistica della vodka è nociva come la gramigna. Rafforza l’idea malata che i luoghi pubblici non siano di tutti ma appartengano un singolo per un’originale usucapione e che i quartieri si debbano conformare a chi li frequenta come un paese dei balocchi. Consolida il principio insano che la fortuna di una città passi attraverso un uso etilico e fracassone dei luoghi più belli. Certo è piacevole nutrirsi in un buon ristorante o sedere al tavolino di un bel locale, tanto più se è seducente il fondale, ma gli ideologi del Martini confondono il tessuto sociale di un quartiere con gli avventori dei bar. E distruggono il fondale.
Il connettivo di una comunità è prima di tutto rappresentato da chi abita i luoghi, da chi ci va per studiare o lavorare. E quando nel cuore di una città chiudono scuole, uffici, ospedali e botteghe, quando ogni azione è sostenuta dall’idea della fabbrica del divertimento come motore dell’esistenza, impipandosi della mancanza di servizi elementari, quando la mistica del calvados vince su ciò che rende davvero viva e in salute una collettività, allora la città diventa una squallida e vuota scenografia di cartapesta.
Gentile Sindaco di Tertenia, le Amministrazioni che si sono succedute da molti anni alla guida di Tertenia hanno contribuito vigorosamente, senza tregua e senza rimedio ad annientare sia l’abitato che il territorio. E lo hanno fatto, indipendentemente dalla fede politica, con spaventosa ostinazione, sostenuti tristemente da gran parte della comunità. Insomma, le vicende del suo paese dimostrano ancora una volta come siano gli elettori, e non solo gli eletti, a determinare la fortuna o la sfortuna dei luoghi e della stessa comunità.
Possiedo varie foto, anche aeree, del territorio di Tertenia. Sono demoralizzanti. Dimostrano prima di tutto l’incapacità di sostituire un mondo felicemente legato al proprio passato con un mondo felicemente moderno. Quella che si vede oggi a Tertenia è una malattia della modernità che, oltretutto, si aggrava ogni giorno di più. Si vede nelle fotografie impietose la disseminazione metastatica – in un territorio e una costa un tempo bellissimi – di costruzioni orrende (ma se fossero belle sarebbe ugualmente uno sfregio), vuote, devastanti. Il paese ha perso ogni traccia della sua fisionomia. Robaccia che trasmette l’idea di un’infezione e ha spogliato la collettività della sua unica ricchezza. Paragoni, gentile Sindaco, le condizioni del suo territorio con quelle di altre zone dove il rispetto dei luoghi ha conservato campagne, monti e coste. Vedrà che, specialmente in altre regioni europee, ma anche in alcune parti della Nazione, le campagne sono campagne, i paesi sono paesi. Vedrà che non si dissemina la propria terra di costruzioni in anarchia. Vedrà che si restaura e conserva con amore e orgoglio. E vedrà che le costruzioni, nei luoghi civili, cercano l’armonia con i luoghi.
Tertenia e il suo territorio sono diventati irriconoscibili e intollerabilmente brutti. Eppure qualcuno si meraviglia oggi a Tertenia (ma anche in tanti luoghi violentati dell’isola) della diminuzione del turismo, di meno gente, di poche “presenze”. Qualcuno invoca la crisi come causa maligna e non ammette che la ragione dell’impoverimento economico – e non solo economico – è nell’atroce bruttezza di quello che anche lei, signor Sindaco, ha favorito.
E per rimediare qualcuno propone ancora più mattoni. Come se un intossicato pretendesse di guarire assumendo altro veleno. Qualcuno è perfino un fiero antiambientalista. La parola ambientalista, apparsa da pochi decenni nel vocabolario, è stata talmente mutata e svuotata di senso che è oggi difficile attribuirle un significato univoco. Così si sente parlare di ambientalismo isterico, di ambientalismo che fa stragi, di lobby ambientaliste (cito una sua dichiarazione, gentile Sindaco, che sarebbe umoristica se non fosse preoccupante), di ambientalisti affamatori, di ambientalismo terrorista e di ogni forma di depravazione ambientalista. Sempre con una nuova accezione negativa.
Mai, di ambientalismo come elementare dovere di chi sta al mondo. Mai, di ambientalismo come normale esercizio di civiltà e coscienza. Addirittura, capovolgendo la realtà, l’ambientalismo sarebbe responsabile della perdita del lavoro e dell’indigenza delle famiglie. L’ambientalismo e non l’uso folle della bellezza dei luoghi, delle risorse dissipate in nome di un feticcio della modernità.
Così, a sentire le sue dichiarazioni, tra i “colpevoli” ci sarebbero, oltre le “lobby ambientaliste”, anche i giudici che ordinano la demolizione di qualche casa. Dimenticando che abusive sono le costruzioni e non i magistrati che ne ordinano l’abbattimento.
Intere regioni sono in mano agli ayatollah del cemento che consumano ferocemente i suoli con la bugia del lavoro che esiste solo nelle promesse. Intere regioni sono state distrutte prima culturalmente, poi materialmente e moralmente. La cultura locale isolana è stata stravolta e confinata nel mirto e nel capretto arrosto mentre si vendeva il suolo dove si era nati. E lei ci racconta di lobby ambientaliste. Sono estremisti o lobbisti in Germania dove puntano a zero consumo di suolo? Estremisti in Francia dove il permesso di costruire è una faccenda seria – più semplice che in Italia, forse, ma incrollabilmente seria – mentre da noi è spesso un patto a due, tra chi amministra e chi imprende? Estremista il Piano paesaggistico sardo che resiste al vano tentativo dei pasdaran del mattone di indebolirlo?
Sarebbero, invece, “saggi mediatori” quelli che decidono di annientare un territorio perfetto cospargendolo di case orribili, di villaggi fantasma, di mattoni e cemento? Quella che si vede a Tertenia sarebbe “urbanistica a misura d’uomo”? Sarebbe “moderato“ chi ha permesso, in cambio di un po’ di lavoro mai ottenuto o durato quanto un sospiro, che venisse dissipata l’unica grande ricchezza del suo paese, ossia le sue campagne e le sue coste, favorendo, oltretutto, l’interesse di pochissimi? “Moderati” sarebbero i masanielli locali che attribuiscono sorprendentemente colpe ai giudici i quali applicano la legge e tutelano la comunità ordinando la demolizione di costruzioni abusive (e non prime case di giovani coppie), una piaga che vede la Sardegna ai primi posti in Italia? I magistrati sarebbero dei prevaricatori?
Sono pagine malinconiche e vergognose quelle della storia recente di Tertenia. E quando il rispetto del Creato viene considerato un nemico da chi governa una comunità, le pagine oscure sono di certo destinate a moltiplicarsi. Mi auguro sinceramente che una riflessione profonda muti radicalmente l’orientamento suicida della comunità terteniese. A Tertenia c’è ancora molto da distruggere. Ma si può capovolgere il senso di questa affermazione e sostenere che a Tertenia c’è ancora molto da salvare.
Gentile Sindaco, le scrivo interpretando lo sbigottimento, l’allarme e la tristezza di tanti che, percorrendo l’orribile statale 554 subiscono l’insopportabile vertice di bruttezza toccato da Quartucciu >>>
Gentile Sindaco,
Provo vergogna e anche senso di colpa per essere un abitante dell’Isola e di non aver fatto abbastanza per impedire questo epidemico squallore – oltretutto una dissipazione di denaro pubblico – che i comuni del cosiddetto hinterland sono riusciti a produrre con un’indifferenza, un cinismo e un’ostinazione che spaventano.
Restauro, conservazione, tutela? Parole sconosciute e se conosciute mai praticate.
Credo che chiunque sia dotato di un minimo di senso non dico del bello, ma della decenza si atterrisca davanti all’indecente nuovo museo archeologico e al parco – ma non si chiama parco una desolante spianata con un mostro informe di cemento – incomprensibilmente dedicato a Sergio Atzeni il quale, ne sono certo, davanti a tanta deformità morirebbe una seconda volta.
L’Amministrazione di Quartucciu procede con esiziale fermezza alla sistematica distruzione del suo patrimonio. Parlo della necropoli di Pill’e Matta e del centro storico di cui a Quartucciu era miracolosamente salvo almeno qualche brandello.
La necropoli sepolta sotto gli osceni capannoni dell’area industriale. La solita necropoli scavata, decantata e poi ricoperta di schifezza. Eppure quando Pill’e Matta fu individuata capannoni non ce n’erano, si sarebbe potuta modificare la destinazione industriale dell’area, si sarebbe potuto conservare un luogo sacro e unico. Niente da fare. Le Amministrazioni di Quartucciu hanno continuato imperterrite la loro marcia verso il brutto.
Molti milioni di euro buttati per un museo nel quale nessuno entrerà perché superare la ripugnanza per quell’edificio sarà impossibile per qualunque creatura normale.
Ma lei riesce davvero a immaginare un visitatore che, anche se debitamente sedato, possa vincere il disgusto per una specie di colapasta di cemento armato che offende le retine oneste da lontano e da vicino, oltraggioso, degradante e di indicibile bruttezza?
E il centro storico?
Metaforica la vicenda della piazza della parrocchia.
La Piazza San Giorgio, che conservava una sua accattivante armonia, modesta e senza pretese, ma aggraziata, è destinata, con un orrendo progetto dal titolo vagamente blasfemo di Urban Getsemani a divenire l’ennesima, triste, anonima piazzetta deserta degna della peggiore periferia urbana.
Lei, gentile Sindaco, sta permettendo che uno dei pochi siti gradevoli della sua cittadina venga trasformato come quei visi devastati dal silicone per un tossico modo di intendere la modernità. Diverrà un luogo repulsivo e tetro anche per sua responsabilità.
Sarà mio impegno, insieme all’Associazione di cui faccio parte, esercitare ogni strumento di critica e opposizione a questo proliferare del brutto epidemico che anche lei sostiene e a questa umiliante visione di sviluppo deforme che coinvolge e rende irreversibilmente poveri, cupi e anonimi la gran parte dei nostri paesi.
Mi opporrò con ogni energia e cercherò di far conoscere i meccanismi malati grazie ai quali una bellissima necropoli che sarebbe potuta divenire un luogo di grande bellezza, che avrebbe avuto necessità di cura e protezione, dove la mano dell’uomo si sarebbe dovuta manifestare leggera sino all’invisibilità, quella necropoli è stata annichilita a perpetua vergogna di chi ha, come amministratore, il dovere di curarla.
Quanto alla Piazza della Parrocchia, gentile Sindaco, ritengo che distruggere con un progetto dozzinale un sito che aveva con il tempo raggiunto faticosamente un suo equilibrio costituisca una colpa e un segno di come il centro storico di Quartucciu – di cui restavano tracce – venga trattato come una roba di cui vergognarsi, da rimuovere anche dai ricordi. Un triste tratto psicologico sardo: la vergogna del proprio passato.
Quella piazza non aveva bisogno di granché, sarebbe bastato rimuovere la crosta di brutto che era, appunto, solo una crosta.
Ma questa è un’operazione impossibile, troppo semplice, troppo economica.
La semplicità è uno degli obiettivi più complessi e i nostri amministratori non la raggiungeranno mai.
Sono gli amministratori che dovrebbero orientare, suggerire, diffondere un’idea di buon vivere in luoghi preservati, spiegare e conservare la storia alle comunità e non divenire notai di piani urbanistici che mirano ad altro e che perpetuano un modello che esplode dappertutto.
Le chiedo di fermarsi, signor Sindaco, di trovare fondi per abbattere il museo, di ripristinare la piazza e di conservarla, di aprire contenziosi in nome del bene comune per invertire questa corsa verso la bruttezza che allontanerà da Quartucciu, e da tutto l’hinterland, chiunque cerchi in un luogo il bello e l’armonico. E allontanerà, di conseguenza, anche ogni forma di ricchezza, economica e spirituale.
La saluto cordialmente,
Cagliari porta la sua croce edilizia anche sulla spalla sinistra e resta una città del cemento nonostante le dichiarazioni di chi oggi la governa al grido di “neanche un mattone in più” e invece opera al contrario. Più di diecimila appartamenti vuoti, ma progetti di centinaia di nuove case, perfino di nuovi quartieri per esseri umani che non esistono e non esisteranno. Dire e fare si divaricano.
Cagliari ha già visto tristi progetti “di sinistra”. Il quartiere di Sant’Elia è stata una fallimentare esperienza “progressista”. Migliaia di persone allontanate dalla città che da più di mezzo secolo non è stata più voluta compatta, ma sparsa nel suo hinterland.
Una malattia dell’insediamento umano consistente nel disperdere la città in tanti nuclei difficili da collegare, che favoriscono l’esclusione di bambini, di anziani e di intere comunità, costringono all’uso dell’auto, dilapidano denaro, peggiorano la vita. Quasi mezzo milione di persone sparpagliate tra Cagliari e i paesi intorno. Il vuoto al centro e la periferia brulicante di uomini e automobili. Paesoni di una bruttezza irreversibile che hanno infestato campagne, uliveti, rive degli stagni. Questo è il Patto per l’area vasta, questa la “strategia”.
La malattia peggiora ogni giorno perché ciascuno dei comuni che compongono questa sbobba chiamata area metropolitana produce un proprio Piano Urbanistico Comunale. Ogni paese gioca a chi ha il PUC più grosso. E inventa una crescita demografica immaginaria con nuovi metri cubi per abitanti che non arriveranno mai. La colata di cemento è impressionante, basta un’occhiata lungo strade incivili come la 130 o la 554. Un orrore urbano. Ogni comune, in anarchia, immagina nuovi abitanti che però si ostinano a non venire al mondo. Cagliari e hinterland hanno il più basso tasso di fertilità del Paese, ma i Comuni affibbiano metri cubi ai mai nati.
Anche a Cagliari si intestardiscono, smentendo le promesse elettorali, a costruire case in aree distanti da tutto: il Fangario – approvato da destra, sinistra e centro – e Su Stangioni, lontani dalla città. Nuovi quartieri con tutto quello che ne consegue di male. Hanno inventato anche una formula per i più creduli: housing sociale. Ma non basta ripetere ossessivamente “housing sociale” per contrabbandare come edilizia agevolata nuovi quartieri al Fangario e a Su Stangioni. Il social housing, comunque lo si definisca, prevede case a prezzi d’affitto o d’acquisto bassi. Ma il presupposto deve consistere in un effettivo fabbisogno di nuove abitazioni che oggi non esiste.
E’ insensato attivare il censimento delle case vuote e progettare nuovi rioni fantasma. Così si distrugge per sempre il tessuto e il carattere della città. Un disastro abitativo.
Ma chi ci amministra non si distrae e pensa anche ai centri storici. Ci sono otto ettari allettanti di vuoti urbani in centro.
Non è progresso – ma solo una squallida idea di sviluppo – tappare i vuoti urbani del Centro Storico con mattoni e cemento, ignorando ogni principio di restauro e conservazione che da queste parti è considerato roba per signorine.
Perché fare case nuove se la popolazione diminuisce? Perché permettere che ogni Comune decida da sé il proprio PUC gonfiato mentre si celebra la firma di un cosiddetto “piano strategico” dei 16 Comuni dell’area vasta? E perché distruggere il Centro Storico di Cagliari con un piano particolareggiato di sterminio? L’abbiamo già vista questa strategia.
Ancora vincono – ecco la continuità – le esigenze finanziarie di pochi e non quelle reali della comunità. Come sarebbe bello – una svolta storica – se le promesse elettorali coincidessero con i fatti, se nella cosiddetta “area vasta” si individuassero i bisogni veri e non si presumesse di spostare la gente come sopramobili in base alle esigenze dei padri del mattone che decidono - chiunque la amministri - la forma invariabilmente brutta della città nuova.
Che dispiegamento di forze maligne nel tentativo di cancellare il Piano Paesaggistico sardo. Quante ambiguità e perfino bugie. La Magistratura indaga. Il Ministero forse si metterà di traverso. Ma molti, troppi sardi credono alla fandonia del Piano che paralizza l’Isola. Il turismo crolla, le fabbriche chiudono, colpa del Piano, raccontano. E vorrebbero mano libera per costruire ovunque perché è giusto che anche loro abbiano una vera bolla immobiliare che gli esploda tra le mani. Abbiamo diritto di essere al passo con gli altri. Dunque, via il vecchio Piano. Eppure la diminuzione dell’attività edilizia in Sardegna è pari e perfino inferiore a quella di altre regioni italiane dove il malvagio Piano non c’è. Niente da fare, non ascoltano ragioni e premono per avere metri cubi per tutti e nuove regole le più malleabili possibile.
Però ci sono punti che gli scappano da tutte le parti.
Punto uno. Nella Commissione regionale per il Paesaggio è prevista la presenza di un rappresentante delle Associazioni ambientaliste portatrici di interessi diffusi. Così a febbraio gli Uffici regionali informano le Associazioni principali che entro sessanta giorni devono proporre tre nomi e la Regione sceglierà il componente. Solo Italia Nostra e Legambiente indicano, nei termini previsti, un candidato. Trascorrono molto più di sessanta giorni e a giugno appare per la prima volta e viene subito scelto il rappresentante di un’Associazione di cui i più ignorano l’esistenza. Si chiama Ambiente e/è vita Sardegna. E la burocrazia regionale fa un’altra capriola. La stessa delibera di giugno, quella che sceglie l’inverosimile candidato di Ambiente e vita, viene bruscamente modificata sul web. Dalla seconda versione scompaiono le sgradite Italia Nostra e Legambiente. Così la Magistratura indaga, mentre sarebbe bastata un po’ di trasparenza.
Balla numero due. Raccontano che su 377 Comuni sardi solo 10 avrebbero adeguato il proprio Piano Urbanistico al Piano Paesaggistico. Una bugia per quei sardi che si bevono tutto. Il Piano è, come si sa, solo delle coste e non delle zone interne. Così solo 104 Comuni costieri – compreso qualche comune pilota non costiero – devono adeguarsi al Piano.
Punto tre. Le Zone Umide. L’idea di costruire nei 300 metri da qualunque stagno, sblocca un centinaio di progetti cementificatori, ci costerà l’ennesima sanzione europea e infrange contemporaneamente più regole. Così distruggono gli stagni sardi. Un tesoro immenso. Contro l’umidità propongono cemento. Mica come quegli sciocchi che si ostinano a tutelare lo stagno della Camargue facendone perfino un buon affare turistico. Qua si bonifica con i mattoni. Gli stagni del Sinis, della Gallura, dell’Ogliastra, di Cagliari, un paesaggio meraviglioso a vocazione, dicono, edilizia.
Punto quattro. L’inestimabile Assessore all’Urbanistica Rassu dopo una riflessione durata sei anni, ha scoperto che il PPR del 2006 ha un vizio che lo fa crollare. Dice l’Assessore che nel 2006 la Giunta non ha proceduto all’intesa con il Ministero e che questo inficia il Piano. Così loro ci devono mettere mano. L’Assessore, però, deve riprendere la meditazione perché il Codice del Paesaggio non prevedeva, nel 2006, l’intesa obbligatoria. Invece la prevede dal 2008. E, per quanto spinoso sia il capitolo delle intese, quella che la sua Giunta ha sfornato pare solo un’esplorazione dei beni concordata con le Sovrintendenze. Che desiderio di nitidezza.
Insomma, nasce male questo nuovo Piano di metri cubi che vuole cancellare la salvaguardia, edificare le campagne, gli stagni, i fiumi e considera la costa una zona “ad alta intensità di tutela”, però variabile. Soccomberà nell’aula del Consiglio o nei tribunali. Nonostante sia vero che parla dritto a molti sardi i quali, speriamo, comprenderanno che la strada del benessere non è lastricata di cemento.
Questo articolo è inviato contemporaneamente a "la Nuova Sardegna
Si deve ammettere l’esistenza di una costante sarda che, però, non è una costante resistenziale. Da almeno mezzo secolo, infatti, salvo brevi sussulti d’amor proprio, non resistiamo più a nulla.
L’emiro del Qatar ha comprato la Costa Smeralda. Ora, dicono, vuole investire nel Sud dell’isola. Il Qatar è per Amnesty International uno Stato nel quale i diritti civili sono limitati, soprattutto quelli delle donne e degli immigrati. Ma la costante compiacente sarda non è interessata a queste quisquilie. La costante compiacente sarda è abbagliata dalla solita promessa di una pioggia d’oro e onori sull’isola in liquidazione.
Comprano e consumano l’unica ricchezza che possediamo. Comprano il Paesaggio, e noi con esso. Ma non compra solo l’emiro. Arbus, Teulada, la Marmilla, tutto è in vendita. L’Isola si vende e venera – come accade agli sventurati – chi la compra. A capo chino chiede almeno di poter guardare lo sfarzo da lontano. E noi capiremo troppo tardi che un popolo privato del Paesaggio non è più neppure un popolo.
Il Presidente della nostra Regione ha incontrato in un “summit segreto” l’emiro del Qatar. Il termine “summit” è ridicolo. Ma l’aggettivo “segreto” è oltraggioso.
Quale comunità sopporterebbe che il proprio rappresentante incontri “in segreto” un Capo di Stato per discutere alla chetichella del destino di tanti? I 2300 ettari inedificabili di Arzachena - parte del consorzio Costa Smeralda - diventerebbero edificabili se la Giunta sviluppista cancellasse le regole del Piano Paesaggistico. Questo è l’argomento neppure tanto segreto. Indebolire il Piano e poi costruire, costruire, costruire.
A Cagliari, invece, approda il sultano dell’Oman e andremo a contemplare l’irriguardosa ricchezza di un altro monarca assoluto, possibile compratore di porzioni di Sardegna. Una giornalista poco resistenziale lo descrive: “Sguardo profondo, ama le donne, così come i fiori e i cavalli”. E immaginiamo che non si confonda mai. Il sultano elargisce qualche milione di euro alle città dove ormeggia e noi, a causa della nostra costante compiacente, tendiamo la mano. Ci sarà un incontro al vertice anche con lo sceicco. Stanno sempre in vetta.
Nel frattempo, in pianura l’aria è pesante e alcuni regnanti locali – a breve senza regno – parlano di sovranità, di orgoglio sardo (che si dovrebbe chiamare in altro modo), di lingua sarda (concessa come trastullo, tanto non disturba gli affari) e di Sardegna indipendente proprio mentre la vendono. E viene dolorosamente da chiedersi se scozzesi, islandesi, catalani e corsi sopporterebbero un Presidente che contratta la sorte dell’Isola in un colloquio segreto. No, scozzesi,islandesi, catalani, evocati in modo martellante e antistorico dagli indipendentisti sardi, non ammetterebbero l’anacronistico comportamento di chi organizza vertici come titolare di un feudo. Altro che sovranità, indipendenza e autodeterminazione. I sovranisti sardi cercano sovrani.
Non una parola sulle alternative vere al crepuscolo industriale, sull’agricoltura e la sua ripresa, su un plausibile governo del turismo che sino a oggi è stato un travestimento dell’edilizia. Non una parola su un realistico modello di vita. Solo il cupo desiderio di consegnarci, spogli di ogni responsabilità, ad altri. Una comunità in cerca di affidamento.
Ma la modifica compiacente del Piano passerà dritta dalla Giunta che la concepirà al Tribunale che la boccerà perché la tutela dei nostri beni non può essere allentata ma solo, casomai, rafforzata. Quando si è raggiunto un livello di protezione dei luoghi nessun summit, vertice o Giunta lo può attenuare, specie se agisce in nome degli affari di pochi e non in nome della comunità che con un referendum ha dimostrato di considerare il Piano Paesaggistico una conquista primaria. Un rarissimo guizzo d’orgoglio.
In tanti abbiamo pensato che si sarebbe realizzata un’idea di città non fondata sul cemento, che l’urbanistica avrebbe prevalso sull’edilizia, che avrebbe vinto il verde, che i viali sarebbero stati ombrosi, i centri storici restaurati e rispettati. Invece una delibera di giunta, di questa giunta, ci toglie ogni ingenua illusione.
Riappare il cemento a Tuvixeddu. Riaffiora dai fondali l’idea, naufragata nelle aule dei tribunali e non solo, che la salvezza del colle consista in una «tutela francobollo» della sola necropoli e che a pochi metri dai sepolcri si possano costruire palazzine e strade. Il medesimo progetto sostenuto dalle passate giunte sviluppiste.
Un tormento. Ma anche una irrisione dopo le affermazioni elettorali e le interrogazioni in consiglio regionale dell’attuale sindaco, il quale a febbraio del 2011 firmava un appello angosciato che reclamava il «necessario intervento immediato per evitare la realizzazione di ogni altra qualsivoglia opera o manufatto nell’area di Tuvixeddu-Tuvumannu».
Ed è davvero doloroso prendere atto che oggi questa, proprio questa giunta proponga al consiglio comunale come unica «fascia di tutela integrale» l’area asfittica del vincolo archeologico, ossia solo la necropoli e il «catino». Tutto intorno, il cemento. Un «francobollo archeologico» strangolato da mattoni e bitume, già sfigurato dalle fioriere ideate da architetti che volevano conformare la necropoli a se stessi. Quelle fioriere, costruite anche sui sepolcri, sono oggi prove in un processo.
Eppure è lampante che la minuscola area di tutela archeologica non può coincidere con l’area di tutela paesaggistica. La ragionevolezza e le norme stabiliscono che un bene archeologico è inserito all’interno di un paesaggio il quale sarà, per conseguenza, più ampio di quel bene. E ambedue devono essere protetti e inedificabili.
Invece nella delibera dell’11 gennaio, la amministrazione comunale, quella che doveva «salvare il colle», propone «coraggiosamente» di tutelare quello che è già tutelato - ossia l’area archeologica - e sostiene che si debba, per devozione al piano urbanistico, costruire a pochi metri dalle tombe. Proprio quello che Antonio Cederna chiamava «dente cariato», come i gloriosi resti di acquedotto romano divenuti uno squallido spartitraffico.
Sostiene la delibera che si dovrà tenere conto dei «princìpi ispiratori del Piano paesaggistico regionale», ma sopratutto delle «destinazioni urbanistiche individuate dal Puc». E il Puc, il Piano urbanistico comunale, prevede, si sa, circa mezzo milione di metri cubi sul colle. Il cemento, insomma, è sempre l’ago magnetico di questa città. Così le promesse e i princìpi crollano sotto il peso dei palazzi.
Del resto questa giunta comunale ha già preso la strada della cosiddetta continuità amministrativa. Ha dichiarato di voler abbattere lo stadio Sant’Elia, di voler scavare tre piani di parcheggi sotto le mura vincolate di Castello, nonostante la vicinanza della torre simbolo della città e i rischi dell’ignoto sottosuolo della rocca, ha sostenuto di essere «vittima del dovere» e di «dover» per forza costruire in un’area verde di via Milano, di «dover» edificare in molti degli otto ettari di vuoti urbani e di «dover» costruire un’orribile, smisurata casa dello studente all’ex semoleria. E questo «senso del dovere» ha scatenato una slavina di cemento che non ci aspettavamo.
Ma esistono alcuni ostacoli insormontabili.
Il primo è l’attuale condizione giuridica. Tuvixeddu è inedificabile. E questo Comune - il cui sindaco appartiene a un partito che nella sigla contiene le parole sinistra e ecologia, nonché libertà - dovrebbe oggi necessariamente adeguare il piano urbanistico al piano paesaggistico regionale. Questa procedura, che doveva avvenire cinque anni fa e non è neppure avviata, non è un’opzione. E’ un obbligo.
Il piano urbanistico adeguato al piano paesaggistico tutelerebbe quello che di buono resta alla città involgarita, fermerebbe la grandinata di mattoni e l’imbruttimento dei nostri quartieri, consentirebbe di investire in veri recuperi e veri restauri. Cagliari sarebbe curata e custodita.
Il secondo, altrettanto rilevante, è una «miscela» che si chiama pubblica opinione, già esplosa in mano a chi si svagava con il piccolo chimico. Esiste una parte rilevante della comunità che ha maturato capacità critiche evidentemente sottovalutate anche da chi, come il nostro sindaco, ha attinto sostegno e energie da quelle capacità. Quell’opinione pubblica che dopo vent’anni ha aperto le finestre sperando che l’aria cambiasse, ha i mezzi per rinchiuderle se vede l’aria ristagnare.
Costruire a Tuvixeddu sarebbe la dimostrazione che nulla cambia mai neppure se muta il vento. La prova malinconica che da qualunque parte soffi è sempre lo stesso vento già usato e scaduto.
L'articolo è pubblicato contemporaneamente anche su la Nuova Sardegna
La luminosa sentenza del Tar Sardegna che dichiara illegittimo lo smisurato progetto di Malfatano presenta, ovvio, diversi piani di lettura. Noi troviamo impervi quelli giuridici e disdicevoli i peana e gli inni perché da una sentenza positiva può derivare anche una parte di dolore.
Il dolore proviene in questo caso da una riflessione sulla storia recente di Teulada e sulla sua comunità che negli anni Cinquanta si vide sottrarre per usi militari settemila ettari di costa incantevole e di terre coltivate. Che visse la tragedia di chi lavorava quelle terre e ne fu sradicato improvvisamente non essendone, in molti casi, neppure il padrone e dunque privato di ogni risarcimento. Teulada rimase lontana, per sua fortuna, dal “miracolo petrolchimico” e intravide soltanto, altra fortuna, il “miracolo turistico” dei suoi vicini che oggi hanno uguali drammatici tassi di disoccupazione, ma il territorio devastato. Vide svanire nel suo territorio una comunità di trecento persone, quella dei malfatanesi. Teulada si spopola nei decenni e le percentuali di disoccupazione sono drammatiche, come nel resto dell’intera Isola. E oggi, oltretutto, fa parte di uno dei siti inquinati più vasti d’Italia.
Inizia, anni or sono, il “sogno turistico” proposto da una potente associazione di imprese “continentali” che rileva terreni un tempo agricoli divenuti edificabili. Il progetto inizia il suo iter burocratico, ottiene le autorizzazioni e i permessi che oggi il Tar ha giudicato illegittimi. Insomma, anni or sono, chi amministrava Teulada decise un inverosimile futuro per il paese e incautamente innescò un dramma prevedibile.
Chi amministra una comunità che soffre ancora le ferite per l’esproprio delle aree militari, chi ha visto il declino del sogno industriale e turistico nella sua regione, chi ha già vissuto il trauma delle macerie di baia delle Ginestre, avrebbe dovuto riflettere sull’opportunità di operare scelte già fallite. E sostenere con passione scelte affidate alla consapevolezza della comunità e non a entità mitologiche provenienti da lontano.
Chi amministra deve curarsi che ogni sua azione sia inattaccabile e non tanto fragile da essere annullata da un giudice.
Chi amministra una comunità deve immaginare per chi lo ha eletto e condividere con lui regole e progetti per vivere decorosamente.
Chi amministra deve utilizzare al meglio ciò di cui la storia e la natura lo hanno provvisto e non proporre la cancellazione del proprio passato per sostituirlo con una finzione. Deve risparmiare le risorse naturali e non dilapidarle con spettrali villaggi vacanze.
E ora? Ora che Tuerredda, un diamante di famiglia, è ricoperta di costruzioni in aggiunta illegittime? Ora che l’opinione pubblica isolana e non solo isolana è inorridita per quelle costruzioni? Ora che un tribunale ha dichiarato illecito il progetto?
Sino all’ultimo chi governa Teulada – metafora oggi dell’intera condizione isolana – non ha neppure tentato di immaginare un’economia fondata su un uso durevole delle proprie risorse e la ricerca di una propria vera, autentica autodeterminazione. E ha proseguito nel cupo cammino scelto per i propri amministrati.
Ecco perché insieme al piacere grande di intravedere la salvezza per Malfatano – da cui discenderà la sconfitta di altri progetti come quello surreale degli oltre seimila posti letto nel territorio di Arbus – proviamo anche un’acuta amarezza, un dolore che proviene dal come sarebbe potuto essere e non è stato