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Hanno fatto bene ad assegnare il premio Nobel per la pace di quest'anno all'Organizzazione di controllo della produzione delle armi chimiche (OPAC) che si occupa del rispetto delle norme fissate dalla Convenzione del 1993 che vieta la produzione e il possesso di armi chimiche, controllo difficile perché molte materie prime per la fabbricazione delle armi chimiche o usabili direttamente come aggressivi militari possono anche essere prodotte per leciti fini industriali. Il pericolo era stato intuito già nell'Ottocento e la prima Conferenza della pace del 1899 chiese il divieto di produzione delle sostanze che potevano essere usate in guerra; pochi paesi firmarono la convenzione e nessuno la rispettò.

Lo si capì fin dalla prima guerra mondiale (1914-1919) quando il grande chimico Fritz Haber propose all'esercito tedesco di lanciare il cloro, una sostanza volatile altamente tossica, usata industrialmente, contro l'esercito francese provocando un massacro (la moglie di Haber si suicidò, addolorata per il crimine del marito); il cloro, si rivelò ben presto "poco buono" a fini militari, perché il vento poteva respingerlo verso le trincee delle stesse truppe che l'avevano lanciato; da allora i volonterosi chimici della morte, in tutti i paesi, sono stati instancabili nell'inventare sostanze adatte a fini militari.

Nomi come fosgene (un intermedio peraltro usato nelle sintesi industriali), yprite, lewisite e poi tanti altri, sono diventati dolorosamente familiari ai soldati in guerra. Le devastanti conseguenze spinsero i paesi industriali ad aderire alla convenzione del 1925 che di nuovo vietava l'uso delle armi chimiche e che rimase anch'essa lettera morta; anzi gli arsenali si dotarono di armi chimiche sempre più raffinate. Durante il fascismo le armi chimiche erano oggetto di studi universitari nelle cattedre di "Chimica di guerra". Il controllo del divieto di tali "merci oscene" è difficile perché la maggior parte è costituita da sostanze "banali" che un paese potrebbe produrre e detenere facendo credere che "servano" per processi o prodotti commerciali come pesticidi o profumi. Non a caso sono state chiamate "la bomba atomica dei poveri" perché possono essere fabbricate con tecnologie e materie prime relativamente semplici e diffuse.

Ci sono voluti molti decenni per arrivare al trattato del 1993 che ha dettato norme più precise per vietare non solo l'uso, ma anche la fabbricazione delle armi chimiche. Il rispetto del trattato è affidato all'OPAC i cui funzionari hanno il compito di esaminare i depositi chimici militari dei vari paesi, di controllare la quantità di ciascuna sostanza "sensibile" a fini militari, di sorvegliare le operazioni di distruzione delle armi esistenti. Quest'ultima operazione è molto complicata e richiede impianti speciali di decomposizione delle varie sostanze, di incenerimento in modo da evitare inquinamento ambientale; sono stati costruiti inceneritori montati su navi che bruciavano le sostanze tossiche in mezzo all'oceano.

Queste le tecniche attuali, ma dove sono finite le centinaia di migliaia di tonnellate di armi chimiche prodotte nel mondo nel corso di oltre un secolo ? Molte sono state gettate in fondo al mare e sono lì, a decomporsi lentamente liberando i loro veleni. Del potenziale inquinante di tali armi avemmo una prova proprio a Bari, settanta anni fa, quando esplose la nave Harvey carica di bombe all'yprite; molte bombe con gas di guerra sono ancora sparse nell'Adriatico.

I funzionari dell'OPAC svolgono un lavoro difficile, politicamente delicato e silenzioso, tanto che ci siamo accorti della loro esistenza in occasione dei controlli in Siria; eppure da tale lavoro dipende la nostra sicurezza dagli effetti dei più insidiosi strumenti di guerra, dopo la bomba atomica.

il geografo francese Alfred Sauvy ...>>>

il geografo francese Alfred Sauvy (1898-1990): il primo mondo era quello capitalistico, comprendente gli Stati Uniti e i paesi amici e satelliti occidentali, dal Canada all'Inghilterra, alla stessa Italia; la Spagna era ancora sotto il regime fascista di Franco, la Grecia era ancora governata dai "colonnelli" di destra. Il secondo mondo era rappresentato dall'Unione Sovietica e dai paesi satelliti. C'era poi un "terzo mondo" molto variegato, in genere di paesi arretrati economicamente, molti dei quali si erano appena scrollato di dosso il dominio coloniale di Francia, Spagna, Inghilterra; la Cina stava vivendo la rivoluzione culturale, una contraddittoria ondata di cambiamento, una via comunista indipendente dall'Unione Sovietica.

Molti paesi del "terzo mondo" si consideravano "non allineati" e cercavano una propria strada di sviluppo, basato sul diritto di sfruttare le proprie ricchezze naturali nell'interesse del proprio popolo; era il caso del Cile dove i governi, prima del democristiano Frey poi, ancora più, del socialista Allende, avevano nazionalizzato le preziose miniere di rame controllate dalle multinazionali nordamericane. Altri fermenti agitavano i paesi dell'Africa equatoriale ricchi di minerali, quelli africani e asiatici ricchi di petrolio. Il mondo contava circa 3500 milioni di persone, circa 500 nel primo mondo, circa 500 nei paesi comunisti del secondo mondo e circa 2000, in rapido aumento, nel "terzo mondo".

Il 1973 fu l'anno della svolta. Una ventata di indipendenza scuoteva i paesi del terzo mondo, consci delle ricchezze minerarie e petrolifere fino allora sfruttate dal primo e dal secondo mondo. Poco prima un oscuro colonnello Gheddafi, aveva assunto il potere in Libia con l'obiettivo di nazionalizzare le risorse petrolifere e, tanto per cominciare, aveva aumentato il prezzo del petrolio di cui erano affamati i paesi industriali. Molti paesi produttori di petrolio, sudamericani, asiatici, africani, si erano uniti in un cartello, l'organizzazione dei parsi esportatori di petrolio, meglio nota come OPEC, per accordarsi su produzione e prezzi, in un momento in cui gli Stati Uniti cominciavano a dover dipendere dalle importazioni di petrolio per continuare a far correre le proprie automobili e i treni e i camion e per far funzionare le fabbriche.

In questo turbolento panorama di rapporti internazionali il mondo era attraversato da altre ondate di contestazioni. La ribellione dei negri contro la segregazione e la miseria negli Stati Uniti e nel Sud Africa di Mandela; la contestazione degli studenti americani ed europei che chiedevano al mondo accademico una nuova maniera di insegnare e nuovi diritti; la protesta degli operai che chiedevano maggiore sicurezza nelle fabbriche e nei campi e più giusti salari.

E, come se non bastasse, dagli Stati Uniti era arrivata l'"ecologia", una nuova domanda di un uso parsimonioso delle risorse naturali scarse, di lotta agli inquinamenti dell'aria, del suolo, dei campi, delle acque, generati dalla "civiltà consumistica". In Italia alcuni magistrati, i "pretori d'assalto", si erano messi di lena ad utilizzare le leggi esistenti per denunciare gli scarichi di veleni nell'ambiente, le fogne a cielo aperto, le strade urbane invase dai fumi del velenoso piombo, il pericolo del mercurio nei mari e nei pesci, la tossicità dei pesticidi. L'"ecologia" spaventò ministri, e industriali che, a parole, fecero finta di convertirsi rapidamente ad amici dell'ambiente e della natura. Corsero tutti alla Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente umano, tenutasi a Stoccolma nel 1972, senza accorgersi che stavano approvando impegni (poi successivamente disattesi) per una lotta all'inquinamento, per la cessazione delle esplosioni delle bombe nucleari, per un uso più giusto delle risorse naturali di ciascun paese, le cose che i paesi del terzo mondo avevano chiesto, pochi mesi prima, nello stesso 1972, nella Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo tenutasi a Santiago, nel Cile.

Il 1973 inoltre era agitato dal vivace dibattito provocato dalla pubblicazione di un libro "sovversivo" intitolato "I limiti alla crescita", che avvertiva: se non si fosse provveduto ad un rallentamento della crescita economica e merceologica, il mondo sarebbe andato incontro a crescenti inquinamenti e ad un peggioramento della salute umana, a conflitti per appropriarsi di minerali e petrolio e prodotti agricoli scarsi e, alla fine, ad un rallentamento e declino della stessa crescita dell'economia monetaria. Uno studio condotto da una società di analisi economiche aveva dimostrato che i costi monetari dovuti ad inevitabili malattie, incidenti, distruzione di beni economici, alluvioni e frane, sarebbero stati di gran lunga superiori alle spese richieste da una nuova politica di difesa ambientale.

Il "che fare" fu esposto nella "prima" relazione sullo stato dell'ambiente in Italia che il governo di centrosinistra aveva fatto preparare dai maggiori studiosi, urbanisti, chimici, biologi, economisti, ecologi, con il coinvolgimento delle prime associazioni ambientaliste; ne era risultato un documento in vari volumi (ormai introvabili) che fu presentato ufficialmente ad Urbino nel giugno 1973. Subito dopo fu costituito il primo ministero dell'ambiente. Quanto fosse necessaria una svolta nella politica ambientale italiana fu dimostrato da altri incidenti e inquinamenti fino alla comparsa, nell'agosto 1973, del colera a Napoli e Bari (ricordata in queste pagine nei giorni scorsi) a riprova della carenza perfino di depuratori urbani; in molte città italiane le fogne finivano non trattate nel mare, col loro carico di inquinanti e batteri (una situazione che, a dire la verità, non è molto migliorata in molte zone, anche del Mezzogiorno, a 40 anni di distanza).

Quanto fossero credibili le denunce espresse nella Conferenza di Stoccolma e nel libro sui limiti alla crescita apparve chiaro in quel 1973. Nel settembre nel Cile il governo del socialista Allende fu abbattuto con un colpo di stato fascista sobillato dalle multinazionali americane che poterono così riappropriarsi delle miniere di rame; nell'ottobre il tentativo di invasione di Israele da parte dell'Egitto, proprio nel giorno della festa ebraica di Yom Kippur, fu respinto col sostegno occidentale e subito dopo i paesi arabi produttori di petrolio decisero di punire i paesi occidentali bloccando le esportazioni e aumentando il prezzo da 3 a 10 dollari al barile.

A partire dalla fine del 1973 la paura della scarsità di petrolio pervase il mondo industriale; oggi si ricordano le domeniche senza auto, le persone che si muovevano sui pattini a rotelle e le code ai distributori di benzina.Il governo italiano, elaborò degli affrettati piani energetici, tutti sbagliati perché non tenevano conto della nuova terribile realtà, la scarsità di risorse naturali a basso prezzo. Sembravano avverarsi le previsioni dei "limiti alla crescita" e cominciò a circolare la sgradevole parola: austerità. Esorcizzata, nei decenni successivi, dalla scoperta di nuovi giacimenti, dalla fine del comunismo, da ondate consumistiche.

Fino alla nuova crisi iniziata nei primi anni duemila; con crescenti instabilità politiche e militari, ondate migratorie dai paesi poveri verso i paesi ricchi; sono oggi ben visibili ingiustizie e discriminazioni etniche, sociali, religiose, in una popolazione mondiale che è raddoppiata rispetto al 1973; una sfacciata opulenza di pochi di fronte alla miseria della maggioranza dei popoli. Anche oggi le rivolte in Africa settentrionale e centrale, nel medio Oriente, nell'Asia centrale, hanno la loro origine nella protesta contro il tentativo dei paesi ricchi di appropriarsi a basso prezzo del loro petrolio, rame, coltan, ferro, uranio, tungsteno, terre rare, dei loro prodotti forestali e agricoli, le merci che tengono in moto la società dei consumi e dei rifiuti.

Eppure la cura di queste malattie planetarie era stata indicata già nel Settantatre nella forma di una maggiore giustizia e minore avidità; perché non l'abbiamo adottata ? Siamo ancora in tempo ?

Questo articolo è inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

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perché "serve" a muovere i veicoli, a far girare i motori, a scaldare edifici, a produrre merci agricole e industriali. A questo fine le fonti primarie - petrolio, carbone, gas naturale, moto delle acque, Sole e vento - devono subire trasformazioni attraverso macchine. In Italia, direttamente o indirettamente l'energia è associata al movimento di circa due terzi dei 1500 miliardi di euro del Prodotto Interno Lordo. I governi e le imprese e i singoli cittadini pagano, per i servizi resi dalle fonti di energia, un prezzo variabile che a sua volta influenza il costo e il prezzo di servizi e merci; il prezzo del gasolio influenza il costo del viaggio dal lavoro a casa; il prezzo di un vasetto di marmellata è influenzato dal costo dell'energia impiegata in agricoltura per produrre la frutta, nell'industria per produrre il vetro, nei trasporti per far arrivare il vasetto al negozio, eccetera. Da qui la necessità di scegliere le fonti di energia più adatte, rispondendo alla domanda: di quale e quanta energia la nostra società ha bisogno ?

Fra il 1974 e il 1980 il governo italiano predispose tre o quattro "piani energetici"; poi, dopo lunghi silenzi, nel 2012, negli ultimi giorni del governo Monti, è stata redatta una proposta di "strategia energetica" di cui non si è più saputo niente, per cui l'Italia continua a procedere a tentoni, sotto le pressioni esercitate da contrastanti interessi. Prendiamo un caso che riguarda la Puglia. Immaginiamo che si voglia sostituire il carbone, molto inquinante, impiegato nella centrale termoelettrica di Brindisi con il gas naturale che è meno inquinante. Naturalmente sarebbero molto scontenti gli importatori di carbone; sarebbero contenti gli ambientalisti e gli importatori di gas naturale. Ma il gas naturale potrebbe arrivare in Italia mediante gasdotti dai grandi giacimenti russi e asiatici e questo piacerebbe ai venditori di tubazioni, ma potrebbe piacere di meno alle popolazioni, per esempio del Salento, che subirebbero il disturbo ambientale del terminale del gasdotto trans-Adriatico TAP.

La soluzione non piacerebbe neanche alle imprese che sono interessate all'importazione, con navi frigorifere, del gas naturale liquefatto dai giacimenti dell'Estremo Oriente e che vorrebbero costruire nell'Adriatico degli impianti di rigassificazione, quelli che riportano il gas naturale liquefatto allo stato gassoso, pronto per la distribuzione. Ma l'uso dei combustibili fossili (carbone o petrolio o gas) nelle centrali elettriche non piace ai fabbricanti e venditori di impianti solari e di motori eolici, tanto "ecologici", finora generosamente finanziati con pubblico denaro, i quali neanche piacciono a molti ambientalisti. A questo punto fanno sentire la loro voce anche quelli che producono elettricità bruciando i residui agro-industriali, le cosiddette biomasse, o i rifiuti urbani e industriali nei cosiddetti "termovalorizzatori", operazioni anche queste finanziate con pubblico denaro e contrastate energicamente da molti ambientalisti. Comunque le importazioni o di carbone, o di petrolio, o di gas naturale, o di impianti fotovoltaici o di pale eoliche, comportano la necessità di dipendere da paesi esportatori con cui si devono avere buoni rapporti, anche se ci sono antipatici.

Senza contare che i pubblici finanziamenti o incentivi dell'una o dell'altra fonte di energia si traducono in un aumento del prezzo dell'elettricità pagata dal consumatore finale. Elettricità, poi, per fare che cosa ? Per far aumentare il numero di automobili elettriche, forse meno inquinanti? Una scelta che non piacerebbe ai venditori di prodotti petroliferi e neanche all'industria automobilistica che dovrebbe cambiare gli attuali cicli produttivi; molti autoveicoli a benzina o gasolio dovrebbero così essere rottamati, e sarebbero contenti coloro che si occupano di riciclo degli autoveicoli fuori uso. Con la disponibilità di elettricità abbondante alcuni potrebbero pensare di diffondere stufe elettriche e condizionatori di aria; in questo caso dovrebbero essere rifatti molti edifici e sarebbero contente le imprese edili.

Eccetera: il ragionamento potrebbe infatti essere esteso a tutti i settori economici e produttivi che hanno bisogno di energia. Una soluzione dovrebbe essere cercata partendo, alla rovescia, dai fabbisogni di energia nei diversi settori economici - industria, trasporti, agricoltura, abitazioni, servizi - decidendo poi con quali fonti di energia è possibile soddisfare tali fabbisogni, con l'obiettivo di un aumento dell'occupazione e di minori costi per i consumatori, tenendo presente che non è vero che un aumento del benessere nazionale richiede un aumento dei consumi di energia. Una decisione, ad esempio, di consumare "meno energia" consentirebbe di diminuire i danni ambientali e le importazioni di fonti di energia, privilegiando quelle, non molte, ma neanche poche, disponibili in Italia.

Dato per scontato che non si possono accontentare tutti - interessi del carbone, del petrolio, del gas, degli inceneritori di biomasse e rifiuti, dei venditori di impianti solari ed eolici, dei vari gruppi di ambientalisti e delle popolazioni coinvolte in opere pubbliche e impianti- la soluzione può essere soltanto politica: la redazione di un piano energetico discusso e approvato in Parlamento, esteso ai prossimi (diciamo) dieci anni, che decida chi accontentare e chi scontentare, nell'interesse degli unici che dovrebbero contare veramente, i lavoratori e i cittadini.

Forse le attuali crisi, economica e ambientale, possono essere entrambe curate da una rinascita della cultura e degli studi sul futuro... >>>

Forse le attuali crisi, economica e ambientale, possono essere entrambe curate da una rinascita della cultura e degli studi sul futuro. Ogni società, ogni persona pensa al futuro: le aziende si interrogano su quali merci o servizi è opportuno produrre per soddisfare futuri reali bisogni umani; i governi e le singole persone si chiedono quali effetti ambientali il comportamento proprio o collettivo avranno sulle acque e sull’aria del futuro. Le radici di una scienza del futuro vanno cercate nei moltissimi scritti del giornalista H.G.Wells (1866-1946), tutti ispirati, nella prima metà del Novecento, alle conseguenze delle scoperte scientifiche che venivano a sua conoscenza.
La crisi economica degli anni trenta spinse i governi a interrogarsi sul futuro e a predisporre, nei paesi capitalistici e nell’Unione Sovietica, dei ”piani” per orientare le produzioni agricole e industriali in modo da uscire dalla povertà; furono anni segnati da continue innovazioni tecnico scientifiche che ebbero una accelerazione durante la II guerra mondiale (1939-1945): incredibili progressi nei veicoli terrestri e aerei, nei calcolatori, nella chimica, si pensi alla scoperta della penicillina, dei sulfamidici e del DDT, fino alla scoperta della possibilità di estrarre grandissime quantità di energia dal nucleo atomico per nuove devastanti armi o per azionare navi e macchine.
Queste scoperte costrinsero i governi e gli studiosi a interrogarsi sulle conseguenze che tali scoperte avrebbero avuto. Il governo degli Stati Uniti commissionò uno studio sui futuri fabbisogni di energia dell’America e come le varie fonti di energia avrebbero potuto soddisfarli. Già nei primi anni cinquanta negli Stati Uniti apparvero le prime previsioni sull’aumento della popolazione, sull’approvvigionamento dei minerali, dei prodotti agricoli, dei metalli; furono messi a punto dei nuovi metodi “scientifici” per tali previsioni; nacque, insomma, una “scienza del futuro”.
Le previsioni riguardavano gli aspetti tecnico-scientifici ed ecologici ma anche quelli sociali; a Parigi il filosofo Bertrand de Jouvenel (1903-1987) fondò una associazione col nome “Futuribles”, per lo studio dei futuri possibili; l’imprenditore italiano Franco Ferraro (1908-1974) creò una simile associazione “Futuribili” in Italia; a Roma nacque un centro di previsioni diretto dalla sociologa Eleonora Masini. Nel corso degli anni sessanta del Novecento furono pubblicati almeno tre libri col titolo “2000”, scritti dagli americani Herman Kahn (1922-1983), Daniel Bell (1919-2011), dall’austriaco Robert Jungk (1913-1994) e dal norvegese Johan Galtung; una multinazionale di studiosi.
Ben presto fu possibile riconoscere varie “scuole”, quella degli ottimisti (la tecnologia ci salverà, supererà la scarsità di risorse naturali e gli inquinamenti), e i pessimisti (la crescita della popolazione, dei consumi e degli inquinamenti possono compromettere le condizioni di vita future). Questa seconda posizione fu espressa nel più celebre dei libri sul futuro, “I limiti alla crescita”, pubblicato nel 1972 dal Club di Roma, un circolo di intellettuali fondato dall’italiano Aurelio Peccei (1908-1984).
Il culmine dell’interesse e del dibattito della scienza del futuro si ebbe nel 1973 con la conferenza internazionale della Federazione Mondiale di Studi sul Futuro (WFSF), presieduta da Eleonora Masini, a Frascati (i vari volumi di atti sono purtroppo introvabili). Si avvicinavano i tuoni di una nuova crisi: l’aumento del prezzo del petrolio, i pericoli di guerra atomica, le esplosioni di bombe nucleari nell’atmosfera, la fragilità delle strutture industriali, orientate al profitto a breve termine, appariva con una serie di incidenti, da quello giapponese di Minamata, a quelli italiani di Seveso e Manfredonia, a quello americano di Times Beach, alla catastrofe nucleare di Harrisburg, eccetera. I ruggenti anni ottanta e novanta del Novecento, con l’illusione di una nuova ondata di consumi e di merci e di apparente felicità, hanno spazzato via la scienza del futuro, come anche la originale genuina carica “rivoluzionaria” dell’ecologia.
Di futuro, naturalmente, si è parlato, anzi sempre di più e fin troppo, con conferenze, riviste, talvolta come fantascienza, futurologia, addirittura come magia, ma per lo più per cercare una soluzione a problemi immediati; le previsioni sono state fatte a breve termine sotto la spinta di invenzioni e modificazioni così veloci da non lasciare il tempo per comprenderle: la nascita di nuovi giganti industriali, le rivolte nei paesi emergenti, la crescente fragilità dei territori dovute all’inquinamento. I paesi industriali sono incapaci di fare credibili previsioni dei fabbisogni energetici, di prendere decisioni per arginare i prevedibili, questi si, effetti futuri ambientali degli inquinamenti e delle scelte merceologiche. Sembra che le imprese non sappiano fare scelte produttive che riducano la disoccupazione e sembra che i soldi siano l’unico indicatore a cui riferire le spesso miopi previsioni dei governi.

Ne viene un senso di scoramento, soprattutto nelle generazioni più giovani che sembrano avere perso la speranza. Su, studiosi, ingegneri e sociologi, chimici e filosofi, provate a ricominciare a interrogarvi sul futuro. Su; governanti, provate a immaginare come vorreste il vostro paese e i vostri cittadini e a fare politica a questo fine.

Col passare dei decenni si fa sempre più pallido e formale il ricordo dell’esplosione... >>>

Col passare dei decenni si fa sempre più pallido e formale il ricordo dell’esplosione, proprio il 6 agosto del 1945, sessantotto anni fa, della prima bomba atomica americana sulla città giapponese di Hiroshima, seguita, tre giorni dopo, da quella di una simile bomba atomica sull’altra città giapponese di Nagasaki: con duecentomila morti finiva la seconda guerra mondiale e cominciava una nuova era, quella atomica, di terrore e di sospetti, eventi che hanno cambiato il mondo e che occorre non dimenticare.

L’”atomica” era il risultato dell’applicazione militare di una rivoluzionaria scoperta scientifica sperimentale: i nuclei dell’uranio e di alcuni altri atomi, urtati dai neutroni, particelle nucleari prive di carica elettrica, subiscono “fissione”, si frantumano in altri nuclei più piccoli con liberazione di altri neutroni che assicurano la continuazione, a catena, della fissione di altri nuclei. In ciascuna fissione, come aveva previsto teoricamente Albert Einstein (1879-1955) nel 1905, si liberano grandissime quantità di energia sotto forma di calore. Energia che avrebbe potuto muovere turbine elettriche, navi e fabbriche, ma che avrebbe potuto essere impiegata a fini bellici.

La fissione anche solo di alcuni chili dello speciale isotopo 235 dell’uranio, o dell’elemento artificiale plutonio, libera energia con un effetto distruttivo confrontabile con quello di alcuni milioni di chili di tritolo, uno dei più potenti esplosivi disponibili. I danni sono ancora più grandi perché molti frammenti della fissione dell’uranio o del plutonio sono radioattivi per decenni o secoli. Dal 1945 Stati Uniti, Unione Sovietica (l’attuale Russia), Francia, Regno Unito, Cina, India, Pakistan, Israele, hanno costruito bombe atomiche sempre più potenti a fissione, o bombe a idrogeno, termonucleari, nelle quali la liberazione del calore si ha dalla fusione, ad altissima temperatura e pressione, degli isotopi dell’idrogeno, il deuterio e il trizio.

Circa duemila esplosioni sperimentali di bombe nucleari nei deserti, negli oceani, nel sottosuolo, hanno mostrato che cosa una moderna bomba atomica potrebbe fare, se sganciata su una città. Ciascuna potenza nucleare si è dotata di bombe nucleari per avvertire qualsiasi potenziale nemico che, se usasse una bomba atomica, verrebbe a sua volta immediatamente distrutto: la chiamano deterrenza e questa teoria finora ha fatto vivere il mondo con un continuo stato di tensione. L’esistenza delle bombe nucleari ha sollevato proteste finora inascoltate; anzi si può dire che la contestazione ecologica sia cominciata proprio con la protesta contro tali armi.

Con la graduale distensione internazionale, a poco a poco le potenze nucleari hanno cominciato a smantellare una parte delle bombe esistenti. Nel 1986, l’anno della massima tensione, nel mondo esistevano 65.000 bombe atomiche e termonucleari; oggi tale numero è diminuito a circa 17.000 bombe, delle quali alcune migliaia sono montate su missili pronti a partire entro un quarto d’ora dall’ordine. La potenza distruttiva delle bombe nucleari ancora esistenti nel mondo equivale a quella di duemila milioni di tonnellate di tritolo, settecento volte la potenza distruttiva di tutte le bombe impiegate durante la seconda guerra mondiale.

Basterebbe l’esplosione, anche accidentale, di una nelle bombe nucleari esistenti, un atto di terrorismo con esplosivi nucleari, per devastare vasti territori, per uccidere migliaia di persone, per contaminare l’ambiente naturale, le acque, gli esseri viventi con sostanze che restano radioattive per secoli. Un famoso libro di Nevil Shute, L'ultima spiaggia, del 1956 (da cui fu tratto un drammatico film), descriveva la scomparsa della vita dalla Terra in seguito ad uno scambio di bombe nucleari iniziato per errore; il film finiva con il tardivo avvertimento: “Fratelli, siamo ancora in tempo”.
Purtroppo, fino a quando alcune potenze possiedono bombe nucleari, sarà difficile convincere altre (oggi Iran e Corea del Nord, domani chi sa ?) a rinunciare alla costruzione di un loro arsenale nucleare, nell’illusione di scoraggiare l’aggressione da parte di “qualcun altro”. L’unica soluzione consiste nel disarmo nucleare totale, peraltro imposto dall’articolo VI del Trattato di non proliferazione nucleare, firmato da quasi tutti i paesi, ma che nessuno finora si è sognato di rispettare.
Eppure sarebbe anche questione di soldi; le enormi somme, oltre mille miliardi di euro all’anno, che oggi le potenze nucleari spendono per tenere in efficienza, per aggiornare e perfezionare i propri arsenali, anche detratti i costi per lo smantellamento e la messa in sicurezza delle bombe nucleari esistenti e dei relativi “esplosivi”, sarebbero sufficienti per assicurare scuole e ospedali, opere di irrigazione e cibo a chi ne è privo, per estirpare cioè le radici della violenza che è la vera causa delle tensioni politiche e militari internazionali.

Fratelli, non crediate che siano utopie: davvero “siamo ancora in tempo” a fermare il pericolo di un olocausto nucleare molte volte più grande di quello di Hiroshima e Nagasaki, a condizione di chiedere ai governanti di ciascuno e di tutti i paesi della Terra di inserire il disarmo nucleare totale fra le loro priorità di azione politica. Nel nome dei soldi risparmiati, se non gli importa niente della sopravvivenza degli abitanti del pianeta e del suo ambiente naturale.

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uno dei più importanti film della storia, quando il giovane Benjamin Braddock (un grande Dustin Hoffman) torna a casa dopo la laurea, tutti si preoccupano del suo avvenire e di come farlo sposare con la figlia del socio del padre. Il solerte amico di famiglia, il signor McGuire, lo prende da parte e gli dice: "Benjamin: ti dirò una sola parola: plastica". Aveva ragione il signor McGuire; nella plastica, sembravano riposte le fortune del mondo; negli anni sessanta la produzione mondiale di materie plastiche era di circa 15 milioni di tonnellate all'anno, oggi si aggira intorno a 300 milioni di tonnellate all'anno, un quarto di queste fabbricate nel solito gigante industriale cinese.

La plastica è dovunque, dai sacchetti per la spesa alle automobili, dal rivestimento dei fili elettrici alle tubazioni per l'acqua e le fogne, dagli imballaggi che consentono di conservare al freddo gli alimenti, ai giocattoli, eccetera. "Plastica", però, è un nome che non dice niente, perché esistono numerosissimi tipi di materie plastiche, macromolecole sintetiche costituite da migliaia a milioni di atomi uniti fra loro. Di alcune conosciamo l'abbreviazione perché la troviamo stampigliata sui relativi manufatti: PE, polietilene a bassa o alta densità; PP, polipropilene; PET, tereftalato di polietilene; PV, polivinile; PS, polistirolo. Gli oggetti che usiamo sono miscele complesse di alcune di queste macromolecole con plastificanti, coloranti, additivi di vario genere, capaci di adattare ciascuna miscela ai vari usi.

Benché sia così buona e utile, esiste una diffusa contestazione e per alcuni ambientalisti plastica è parolaccia. Ciò deriva dal fatto che i manufatti di materia plastica sono quasi indistruttibili, il che è desiderabile in molte applicazioni nelle quali si desidera che tubi, fili elettrici, parti di macchinari siano duraturi, resistenti agli acidi, inattaccabili dall'acqua e dai batteri. Invece per molte altre applicazioni, soprattutto negli imballaggi destinati ad una breve o brevissima vita prima di diventare rifiuti, si tratta di un grosso inconveniente dal punto di vista del loro smaltimento. Si dice normalmente che, per evitare discariche e inceneritori, occorre raccogliere i rifiuti separatamente, per qualità merceologica, in modo da poterli sottoporre a riciclo, a ricostruzione delle merci originali, e questo viene anche ripetuto per i rifiuti di materie plastiche.

Il successo della raccolta differenziata è affidato alla buona volontà dei cittadini ed è fortunatamente crescente anche in Italia, ma la trasformazione degli oggetti usati di plastica in nuovi oggetti presenta difficoltà tecnico-scientifiche. "Se", lo scrivo fra virgolette, fosse possibile ottenere tutti insieme i rifiuti, per esempio di PET (per lo più le bottiglie di acqua), o di PE, in via di principio, dopo una pulizia grossolana, sarebbe possibile farli fondere e trasformarli di nuovo in oggetti commerciali dello stesso materiale. Purtroppo dei circa 2 milioni di tonnellate di oggetti di plastica a vita breve (per lo più imballaggi) immessi in commercio ogni anno in Italia soltanto circa 600.000 tonnellate sono raccolte in maniera differenziata; circa 300.000 tonnellate sono avviate al riciclo vero e proprio, cioè alla trasformazione in altri prodotti vendibili, e circa 750.000 sono bruciati negli inceneritori o nei forni da cemento, come miscele di materie plastiche diverse, o plasmix. Il resto finisce nelle discariche.

Da questi numeri approssimativi è facile vedere i motivi della contestazione ambientalista contro le materie plastiche: le discariche sono sempre più difficili da trovare; la combustione negli inceneritori provoca inquinamento atmosferico; e poi viene contestata la grande quantità di petrolio, la materia prima, usata per produrre le materie plastiche, e infine la resistenza, la non biodegradabilità, delle plastiche quando finiscono nei campi, nei fiumi, nel mare. Le soluzioni, finora tentate, quella di "inventare" delle materie plastiche "verdi", biodegradabili, capaci di decomporsi in settimane o mesi, anziché in anni o decenni, o quella di diminuire il peso di alcuni oggetti di plastica come i sacchetti per la spesa, si sono rivelate finora dei palliativi.

Nell'attesa di un materiale che sia lavorabile con le stesse tecniche usate oggi e sia adatto per le stesse applicazioni delle materie plastiche odierne e che "scompaia" in pochi giorni quando è buttato via, proprietà in evidente contrasto fra loro, restano i processi capaci di trasformare le plastiche miste in qualcosa di vendibile; non saranno più bottiglie o tubi, ma potrebbero essere prodotti più poveri come pavimenti per abitazioni o strade, infissi, panchine o tavole, qualcosa insomma che tolga dalle discariche o dagli inceneritori una parte delle plastiche. Qualche impresa si sta muovendo: non occorrono grandi impianti, la materia prima, i rifiuti di plastiche sono disponibili nel Nord e nel Sud d'Italia e sono oggetto anche in un commercio internazionale, con prezzi fra 100 e 300 euro alla tonnellata.

C'è molto lavoro, anche nel Mezzogiorno, per studiosi, inventori e imprenditori nel campo della chimica e della merceologia del riciclo, nel nome di un ambiente meno sporco e inquinato.

Questo articolo è inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

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Per la maggior parte di noi l'interesse per "il petrolio" non va al di là del fastidio per l'aumento del prezzo della benzina o del gasolio al distributore, che peraltro è il punto di arrivo di un lungo cammino di materie e di lavoro, cominciato nelle viscere della Terra. Il petrolio, la lontana materia prima dei carburanti, viene portato in superficie mediante pozzi posti su piattaforme collocate in mezzo ai mari, o nei deserti aridi, o in quelli ghiacciati, o in mezzo alle paludi. Il petrolio come tale non serve a niente e deve essere trasportato, mediante navi cisterna o oleodotti, dai pozzi a speciali impianti, le raffinerie, in cui vengono separate le varie principali frazioni: le benzine, le più pregiate, il gasolio, gli oli combustibili. Il rendimento delle varie frazioni commerciali dipende dalle caratteristiche merceologiche dei petroli greggi, variabili da un posto all'altro, e dalle tecnologie di raffinazione. Le varie frazioni sono poi trasportate con navi o treni o camion o condotte, fino ai depositi e ai distributori e ai consumatori finali.

La produzione mondiale di petrolio greggio è di circa 4100 milioni di tonnellate all'anno; il suo prezzo è in lento continuo aumento e, in questa metà di luglio, ha superato i 108 dollari al barile, corrispondenti a oltre 600 euro alla tonnellata. In passato è stato previsto che il petrolio si sarebbe esaurito; è vero che i pozzi si esauriscono uno dopo l'altro, ma finora sono state scoperte nuove riserve in seguito al miglioramento delle conoscenze geologiche del sottosuolo e al perfezionamento di tecniche di perforazione e di estrazione capaci anche di ricavare petrolio da rocce sotterranee, sia pure con crescenti costi monetari e danni ambientali. Nuovi paesi si affacciano prepotentemente come produttori di petrolio, in Africa, nelle repubbliche asiatiche dell'ex Unione Sovietica, nell'America meridionale e in Estremo Oriente, una geografia economica continuamente variabile, sempre con lo spettro di una più o meno lontana scarsità.

Il petrolio può essere sostituito dal carbone e dal gas naturale in molti settori, come le centrali termoelettriche, ma resta finora insostituibile nel settore dei trasporti che assorbe circa un terzo di tutto il petrolio prodotto nel mondo, per cui gli automobilisti sono i più esposti ai capricci del mercato petrolifero internazionale. Per far uscire i propri clienti da questa schiavitù, l'industria automobilistica propone veicoli tutti elettrici, o ibridi; in questi ultimi un motore a benzina o gasolio è abbinato ad un motore elettrico. La transizione alle auto elettriche però fa uscire dalla dipendenza dai produttori di petrolio, ma fa cascare nella dipendenza dai produttori di altri materiali strategici come il litio per le batterie e le terre rare indispensabili per i magneti permanenti.

Del litio esistono giacimenti negli altopiani desertici delle Ande; delle terre rare, una ventina di elementi poco diffusi in natura, esistono limitate riserve nel mondo, per ora in gran parte nelle mani della Cina. D'altra parte la diffusione dei veicoli elettrici farebbe aumentare la richiesta di elettricità generata in centrali che bruciano carbone o gas naturale, con effetti di inquinamento atmosferico e di crescenti alterazioni climatiche. Ma, si potrebbe pensare, ci sono le fonti energetiche rinnovabili che producono essenzialmente elettricità e la cui diffusione sta rapidamente aumentando. Purtroppo il Sole e il vento consentono di ottenere elettricità con "macchine" che richiedono anche loro materiali le cui riserve sono limitate. Le grandi pale mosse dal vento richiedono dei magneti che dipendono dalle terre rare, l'elettricità tratta dal Sole o dal vento può essere inserita nelle grandi reti di distribuzione con speciali delicate apparecchiature.

Resterebbe l'elettricità ottenibile dal moto delle acque, ma anche in questo caso le grandi dighe alterano il corso dei fiumi con danni ecologici e la produzione di elettricità dai piccoli salti di acqua o dalle acque correnti dei fiumi e torrenti è in grado di soddisfare soltanto richieste locali.

La morale è che, purtroppo, la natura non da niente gratis. La scarsità e l'ineguale distribuzione planetaria delle materie prime e dei minerali e l'inquinamento sono il prezzo che noi esseri umani dobbiamo pagare per i benefici che ci vengono dai progressi tecnologici. Dalle varie trappole si può parzialmente uscire con decisioni politiche, con governanti informati, capaci di riconoscere, fra le varie soluzioni proposte dai venditori di petrolio, di pale eoliche, di pannelli fotovoltaici, di automobili, ora anche del litio, in concorrenza fra loro, quale è più utile per i loro cittadini. La salvezza potrebbe venire da una nuova politica internazionale capace di indicare, in solidarietà e con adeguate conoscenze, come assicurare agli abitanti del mondo i beni materiali capaci di soddisfare i bisogni essenziali di abitazioni, di igiene e di istruzione, di aria respirabile e di acque pulite, di energia e di mobilità.

Un grande sogno finora vanificato da egoismi nazionali e scontri di poteri economici e finanziari, incapaci di affrontare i problemi posti dai vincoli fisici della scarsità delle risorse del pianeta. Da qui le continue guerre per le materie prime. La posta in gioco non è soltanto quella di pagare qualche centesimo di più o di meno la benzina o il gasolio, ma è la possibilità di assicurare lavoro e condizioni ambientali e di vita decenti a tutti i sessanta milioni di italiani, a tutti i settemila milioni di terrestri.

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Le numerose e continue crisi ambientali ed economiche non sono colpa di una divinità ostile... >>>

Le numerose e continue crisi ambientali ed economiche non sono colpa di una divinità ostile, ma dell'imprevidenza di chi prende le decisioni di fare o non fare una certa opera o una certa scelta produttiva senza tenere conto delle possibili conseguenze. Gli esempi potrebbero riempire interi volumi e qualche opera è stata anche scritta su questo argomento: Nel 1971 il libro "La tecnologia imprevidente" ("The careless technology", di T. Farvar e John Milton) conteneva una lunga serie di esempi di interventi sbagliati, come la diga di Assuan che ha provocato l'arretramento della costa nel delta del Nilo; alcuni anni dopo, nel 1997, un libro dell'americano Edward Tenner spiega "Perché le cose ci ricadono addosso" ("Why things bite back"), con un elenco di casi in cui le scelte economiche si sono rivelate sbagliate.

Nel caso dell'Italia si possono ricordare le scelte edilizie che hanno alterato la stabilità dei versanti, provocando frane, o provocato l'erosione delle spiagge. Per anni è stato prodotto e usato il piombo tetraetile come additivo della benzina, senza tenere conto (e lo si sapeva da tempo) che avrebbe immesso nell'atmosfera fumi contenenti il velenoso piombo, dannoso a chi lo respirava camminando nelle strade piene di traffico; la produzione di detersivi non biodegradabili ha provocato la comparsa di stabili schiume nei fiumi e di mucillaggini nel mare. In tutti i casi sono stati spesi soldi, sono state create aspettative di lavoro e di guadagno, poi deluse con la chiusura di fabbriche, disoccupazione e danni alla salute e all'ambiente.

Spesso una scelta non adeguatamente valutata provoca conflitti: ad esempio se un comune vuole smaltire i suoi rifiuti urbani (cosa che deve fare per legge) seppellendoli in una discarica, gli abitanti e gli agricoltori vicini possono opporsi perché prevedono che la discarica generi cattivi odori o danneggi i raccolti. Gli scienziati dalla parte del comune dichiarano che non c'è nessun danno; gli scienziati dalla parte dei contestatori assicurano che i danni ci saranno. Chi ha ragione ? Occorrerebbero degli scienziati "neutrali" (per quanto neutrali possano essere gli scienziati) in grado di informare le amministrazioni locali, ma ancora di più i parlamenti, sui prevedibili aspetti positivi e negativi delle decisioni che si propongono di prendere.

Il più noto esempio di un ufficio di previsioni tecnologiche è stato l'Office of Technology Assessment (OTA) che fu creato presso il Congresso (Camera dei rappresentanti e Senato) degli Stati Uniti nel 1974. I progetti di legge venivano inviati all'OTA che conduceva degli studi di scrutinio ("assessment", appunto) delle possibili conseguenze. L'OTA funzionò fino al 1995 producendo centinaia di rapporti (fortunatamente ancora disponibili in Internet) su tutti i principali problemi tecnico-scientifici di interesse non solo americano, ma mondiale, nel campo delle scelte industriali, dei minerali, delle fonti di energia, dei prodotti agricoli e commerciali, eccetera.

Per avere una struttura capace di prevedere gli effetti delle scelte tecnico-scientifiche in Europa sarebbe stato necessario aspettare fino al 1998 quando il Parlamento Europeo creò un servizio denominato Science and Technology Options Assessment (STOA). In Internet. nel sito www.europarl.europa.eu/stoa, si trovano tutte le pubblicazioni relative ai vari argomenti che sono stati sottoposti ad uno scrutinio tecnico-scientifico. Mi chiedo quanti parlamentari italiani e membri italiani del Parlamento europeo utilizzino questa preziosa fonte di informazioni quando prendono decisioni sulla cosiddetta "economia verde", sulle caratteristiche dei prodotti alimentari, sugli organismi geneticamente modificati, sulla prevenzione dei mutamenti climatici, sullo smaltimento dei rifiuti, eccetera.

Eppure su questi problemi e su molti altri di interesse economico e industriale, il servizio STOA conduce indagini dirette a prevedere e prevenire possibili effetti secondari negativi. Faccio pochi esempi: lo studio STOA n. 01-2012 esamina i diversi aspetti del dibattito sui finanziamenti pubblici agli impianti che utilizzano le biomasse (prodotti, scarti o residui agricoli e forestali) come fonti di energia rinnovabili, contestati come possibili cause di inquinamento. Per produrre energia rinnovabile dal Sole o dal vento si parla tanto dello sviluppo di una industria capace di produrre centrali fotovoltaiche o pale eoliche, oggi quasi monopolio cinesi.

Ma quali e quanti metalli speciali (le terre rare) occorrono per costruire tali apparecchiature e dove prenderli e quanto costano è il tema esaminato nel rapporto STOA n. 12-2011. I sindaci che pensano al futuro del traffico nelle loro città trarranno utili informazioni dal rapporto STOA 12-2012 che esamina le possibili evoluzioni dei trasporti urbani. Gli studi dello STOA forniscono indicazioni utili anche per scelte produttive indicando quali settori hanno reali prospettive di successo commerciale, capaci di aumentare una stabile occupazione industriale. Per inciso la lettura di questi documenti, realizzati con i nostri soldi e per questo pubblici, offrirebbe molti temi per delle belle tesi di laurea.

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Forse una notizia abbastanza buona. In un recente incontro i presidenti delle due maggiori potenze industriali...>>>

Forse una notizia abbastanza buona. In un recente incontro i presidenti delle due maggiori potenze industriali mondiali, gli Stati Uniti e la Cina, si sono accordati per eliminare gradualmente, da ora al 2050, l’uso degli idrocarburi fluorurati, HFC, una classe di sostanze chimiche che stanno sostituendo i cloro-fluoro-carburi (CFC), responsabili della distruzione dell’ozono stratosferico, ma che si sono rivelate a loro volta responsabili del riscaldamento planetario.

Tutto è cominciato quando, nel 1928, il chimico Thomas Midgley (1889-1944) ha scoperto che certe molecole, nelle quali uno o due atomi di carbonio erano legati ad atomi di cloro e di fluoro, anziché ad atomi di idrogeno, come negli idrocarburi, avevano singolari proprietà tecniche. I CFC, non infiammabili, stabili chimicamente, privi di odore, si sono rivelati utilissimi come fluidi propellenti per i preparati commerciati in confezioni spray, le cosiddette “bombolette”, di deodoranti, di vernici e cosmetici, e come fluidi frigoriferi; anzi il loro uso ha determinato il successo dei frigoriferi domestici, tanto utili per conservare i cibi a lungo, e dei condizionatori d’aria che rendono meno afosa l’aria degli edifici e delle automobili.

Inoltre alcuni CFC sono risultati eccellenti per rigonfiare le materie plastiche e trasformarle nelle “resine espanse”, così importanti come isolanti termici per il trasporto dei cibi, come isolanti acustici e termici in edilizia, per produrre materassi, cuscini e poltrone per le case e le automobili. Un trionfo: peccato che, nei primi anni settanta del Novecento, il chimico messicano Mario Molina e il chimico statunitense Sherwood Rowland (1927-2012) si siano accorti che questi CFC, nel disperdersi nell’atmosfera raggiungono la stratosfera, lo strato di gas che si trova fra 10 e 30 chilometri di altezza, e qui decompongono l’ozono O3, l’altra forma del comune ossigeno O2. L’ozono stratosferico, pur presente in forma molto diluita, ha la proprietà di filtrare la radiazione ultravioletta biologicamente dannosa UV-B, proveniente dal Sole, impedendole di arrivare sulla superficie della Terra. Questa radiazione UV-B è responsabile di tumori della pelle e di malattie degli occhi negli umani, ma ha anche effetti nocivi su altri cicli biologici, tanto che alcuni pensano che la vita sia comparsa sui continenti e negli oceani, alcuni miliardi di anni fa, quando una parte dell’ossigeno della stratosfera ha cominciato a trasformarsi nel più benigno ozono.

La scoperta del rapporto fra CFC e diminuzione della concentrazione dell’ozono stratosferico ha assicurato ai due chimici un premio Nobel e ha indotto molti governi a vietare l’uso della maggior parte dei CFC con un accordo, il “protocollo di Montreal” del 1987. L’industria chimica si è subito impegnata a cercare dei surrogati, delle molecole nelle quali non fossero presenti atomi di cloro, ma solo atomi di idrogeno e di fluoro. Sono così nati gli idrocarburi fluorurati HFC, prodotti subito su vasta scala a partire dal 1990.
Da una trappola all’altra, però, perché gli HFC sono meno dannosi per lo strato di ozono, ma si comportano come “gas serra” contribuendo al riscaldamento globale e ai mutamenti climatici. Anzi contribuendo moltissimo perché un chilo di HFC trattiene l’energia solare nell’atmosfera come 1000 chili di anidride carbonica CO2, l’altro importante “gas serra”. Il “protocollo di Kyoto” del 1997, per il rallentamento dei mutamenti climatici, ha incluso gli HFC fra le sostanze il cui uso deve essere limitato. A questa nuova limitazione si sono opposti molti paesi, specialmente quelli in via di sviluppo o sottosviluppati che temevano l’aumento del prezzo dei frigoriferi e dei condizionatori d’aria se avessero dovuto essere impiegati altri fluidi frigoriferi meno dannosi per l’ambiente, ma più costosi. E’ così cominciata una lunga guerra fra interessi industriali, interessi nazionali, innovazioni chimiche. La Cina e l’India finora sono stati i paesi più contrari all’eliminazione degli HFC; da qui l’importanza del recente accordo fra Cina e Stati Uniti, ricordato all’inizio.

I due presidenti Xi e Obama hanno spiegato che la graduale eliminazione, da qui al 2050, dell’uso anche degli HFC rallenterebbe i mutamenti climatici come se, nello stesso periodo, nell’atmosfera venissero immessi 80 miliardi di tonnellate di CO2 di meno (attualmente ogni anno vengono immessi nell’atmosfera “gas serra” equivalenti a circa 30 miliardi di tonnellate di CO2 ). Un passo avanti, ma i problemi non sono finiti: nei frigoriferi e nelle resine espanse esistenti nel mondo e fabbricati negli ultimi decenni, ci sono ancora grandissime quantità, dell’ordine di milioni di tonnellate, sia dei cloro-fluoro-carburi CFC, vietati da tempo, sia degli idrocarburi fluorurati HFC in crescente uso; questi gas continuano a liberarsi quando i frigoriferi e i condizionatori d’aria sono smantellati e quando le resine espanse finiscono nelle discariche o negli inceneritori.

Da una parte occorre perciò sviluppare nuovi processi di smaltimento di tutti i prodotti che contengono questi gas nocivi; dall’altra parte occorre inventare nuovi agenti che svolgano le stesse funzioni dei gas vietati. Come si vede, nella corsa per evitare le violenze all’ambiente non c’è riposo, specialmente per i chimici e per una buona chimica.

Il 5 giugno scorso il Papa Francesco ha preso l’occasione...>>>

Il 5 giugno scorso il Papa Francesco ha preso l’occasione della quarantunesima “Giornata della Terra” per parlare di ambiente e di sprechi e lo ha fatto con parole che non ascoltavamo da molto tempo. Nell’udienza generale (il testo integrale si trova nel sito www.vatican.va) ha ricordato che la donna e l’uomo sono stati posti nel Giardino perché lo coltivassero e custodissero, coma si legge nel secondo capitolo del libro della Genesi, e ci ha invitato a chiederci che cosa significa coltivare e custodire: trarre dalle risorse del pianeta i beni necessari, con responsabilità, per trasformare il mondo in modo che sia abitabile per tutti, parole che già Paolo VI aveva usato nell’enciclica “Populorum progressio” del 1967.
Papa Francesco ha detto che non è possibile custodire la Terra se, non solo le sue risorse, ma addirittura le donne e gli uomini “sono sacrificati agli idoli del profitto e del consumo”, alla “cultura dello scarto”. Le ricchezze della creazione non sono di una persona, o di una impresa economica, o di un singolo paese, ma sono “doni gratuiti di cui avere cura”, destinati ad alleviare soprattutto “la povertà, i bisogni, i drammi di tante persone”. Il dramma più grave consiste nel fatto che un miliardo di persone manca di cibo sufficiente, in ogni parte di un mondo dominato dallo scarto, dallo spreco e dalla distruzione di alimenti. “Il consumismo, ha detto il Papa, ci ha indotti ad abituarci al superfluo e allo spreco quotidiano di cibo. Ricordiamo, però, che il cibo che si butta via è come se venisse rubato dalla mensa di chi è povero”.

Finalmente parole dure, da una autorità ascoltata da cristiani e non cristiani, credenti e non credenti, che sintetizzano la fonte dei guasti ecologici: la violenza contro le risorse naturali è violenza contro gli altri esseri umani, contro il prossimo vicino, contro il prossimo lontano nello spazio e contro il prossimo del futuro che erediterà un mondo impoverito per colpa degli sprechi di oggi, dei paesi ricchi e egoisti. L’ecologia spiega bene l’origine della fame di troppi esseri umani: gli alimenti umani diventano disponibili attraverso un complesso e lungo ciclo che comincia dai raccolti di vegetali: patate, cereali, piante contenenti oli e grassi. Dei vegetali di partenza solo una parte, meno della metà, diventa disponibile sotto forma di alimenti e di questi una parte va perduta, per le cattive condizioni di conservazione e di trasporti dai campi e dalle fabbriche ai mercati.

Una parte delle vere e proprie sostanze nutritive viene destinata alla zootecnia che ”fabbrica” alimenti animali ricchi di proteine pregiate con forti perdite: occorrono circa 10 chili di vegetali per ottenere un chilo di carne; il resto va perduto come escrementi, come gas della respirazione degli animali da allevamento e come scarti della macellazione. Nei paesi industriali gli alimenti vegetali e animali, prima di arrivare sulla nostra tavola o nel nostro frigorifero, passano attraverso una lunga catena che comprende il trasporto attraverso i continenti o gli oceani, poi attraverso processi industriali di conservazione, trasformazione, inscatolamento, ciascuno con rilevanti perdite di sostanze nutritive che diventano scarti da smaltire come rifiuti.

Poi gli alimenti passano attraverso il sistema della distribuzione, anch’esso caratterizzato da sprechi, si pensi alle merci invendute o deteriorate o che superano i limiti di scadenza, che diventano anch’esse scarti e rifiuti. Alla fine le sostanze nutritive, stimabili in un quarto di quelle che la natura aveva prodotto, arrivano a casa nostra o ai ristoranti e anche qui si hanno altri scarti e sprechi: in media, nel mondo, 100 chili per persona all’anno. Indagini della FAO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, indicano in 1,3 miliardi di tonnellate all’anno il peso degli alimenti complessivamente sprecati, un terzo di quelli disponibili, circa un decimo delle sostanze nutritive, caloriche e proteiche, che la natura aveva prodotto con i suoi cicli ecologici.

Lo spreco alimentare è accompagnato da spreco di acqua, quella che l’intero ciclo del cibo richiede per l’irrigazione e per i processi di trasformazione: l’agricoltura infatti assorbe circa 10.000 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, una quantità enorme se si pensa che l’acqua dolce disponibile nel ciclo naturale ammonta a 40.000 miliardi di metri cubi all’anno

Non solo; l’enorme massa di scarti e rifiuti agricoli e alimentari si trasforma nei gas anidride carbonica e metano che sono responsabili del continuo, inarrestabile peggioramento del clima. Una grande battaglia scientifica e culturale per comportamenti rispettosi “del prossimo”, per diminuire gli sprechi alimentari, assicurerebbe acqua e cibo a chi ne é privo. La chimica e la microbiologia applicate agli scarti alimentari consentirebbe di ricavarne sostanze adatte per altri usi umani, con minori inquinamenti e minore richiesta di risorse naturali scarse: una ingegneria e merceologia della carità al servizio dell’uomo.

La salvezza, insomma, va cercata in un “serio impegno di contrastare la cultura dello spreco e dello scarto”, di “andare incontro ai bisogni dei più poveri”, di “promuovere una cultura della solidarietà”. “Ecologia umana ed ecologia ambientale camminano insieme”. Sono le parole del Papa che è anche un chimico.

I primi di giugno 2013 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei si è svolto un importante convegno sulla “società che invecchia”. ...>>>
I primi di giugno 2013 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei si è svolto un importante convegno sulla “società che invecchia”. Nella maggior parte dei paesi industrializzati il progresso è costituito, fra l’altro, dall’allungamento della vita media delle persone, anche se, nello stesso tempo, diminuisce la natalità, per cui aumenta il numero degli anziani, di coloro che hanno più di 65 anni, e diminuisce la parte della popolazione “giovane” e di quella attiva. Lo stesso fenomeno si sta verificando più o meno rapidamente anche nei parsi emergenti e in quelli poveri.
A mio modesto parere, nell’analisi della società che invecchia, troppo poca attenzione viene rivolta alle conseguenze ambientali e merceologiche del fenomeno. In Italia, per esempio, mezzo secolo fa, alla fine della seconda guerra mondiale e negli anni cinquanta e sessanta del Novecento, gli anziani erano una piccola frazione della popolazione totale e la vita media era relativamente corta. In quei tempi gli anziani spesso restavano nella famiglia con i figli, contribuivano all’economia familiare con la propria pensione e con l’aiuto nella vita domestica quotidiana. I loro bisogni di oggetti erano abbastanza limitati e così erano i loro consumi e i rifiuti della loro esistenza, e l’effetto negativo sull’ambiente.
Oggi le donne e gli uomini di oltre 65 anni, il 20 percento della popolazione italiana, oltre 10 milioni di persone, vivono molto più a lungo; in seguito ai matrimoni o agli spostamenti dei figli le famiglie degli anziani sono costituite da coppie o da singole persone che spesso si trovano in appartamenti troppo grandi, mentre le nuove famiglie dei figli hanno bisogno a loro volta di nuove case. Con l’effetto che l’aumento della vita media non fa diminuire, ma aumentare, la richiesta di abitazioni, il che è buono dal punto di vista dell’economia dell’industria edilizia e dei venditori di cemento e di infissi, ma ha effetti negativi ambientali perché fa aumentare l’occupazione dei suoli, la domanda di vie e di mezzi di trasporto; come conseguenza indiretta è aumentato il numero di autoveicoli privati, il che è stato buono per i venditori di automobili, ma ha fatto aumentare la congestione e l’inquinamento urbano.
I 10 milioni di anziani italiani sono anche loro ”consumatori” di merci e di beni materiali, ma completamente diversi da quelli della restante parte della popolazione adulta. Col passare degli anni nelle persone diminuiscono inevitabilmente le possibilità di svolgere alcune funzioni: camminare, vedere, udire, masticare. Solo di recente nella pubblicità, al fianco dell’offerta di oggetti alla moda, di auto e motociclette rombanti e veloci, ha cominciato a comparire l’offerta di scale mobili domestiche, di apparecchi acustici, di adesivi per dentiere, di creme e trattamenti per togliere le rughe, eccetera, “nuove” merci che impongono innovazioni, richiesta di nuovi materiali, occasioni di lavoro per prodotti finora in parte di importazione. L’ambiente può anche essere ostile per gli anziani la cui limitata mobilità può essere agevolata eliminando le barriere architettoniche, finora pensate soltanto per i disabili, le scalinate, superabili soltanto con fatica, interventi che offrono altre occasioni di lavoro.
Ma soprattutto gli anziani hanno bisogno di servizi e anche questi richiedono oggetti materiali. Prima di tutto hanno bisogno di servizi sanitari pensati considerando i particolari disagi degli anziani, e poi hanno bisogno di assistenza e aiuto personale per affrontare i lavori domestici e gli acquisti. Perfino la burocrazia e la diffusione dell’informatica può rappresentare un disagio per coloro che non hanno confidenza con i relativi strumenti. Servizi finora offerti, ma solo in maniera limitata, da associazioni o gruppi pubblici o privati; per chi può permetterselo esiste una offerta di assistenti familiari, le persone chiamate, con sgradevole termine, “badanti”, per lo più figure femminili, immigrate, la cui presenza comporta vari problemi economici, la comparsa di nuovi diritti dei lavoratori e doveri dei datori di lavoro, la necessità di spazi abitativi. Anche gli anziani, come tutti, hanno bisogno di alimenti, ma spesso differenti da quelli richiesti dal resto della popolazione. Queste brevi considerazioni suggeriscono la necessità, da parte dei governanti, di conoscere le necessità dei loro cittadini anziani, di considerare che il loro numero è destinato ad aumentare, e richiede mutamenti produttivi e sociali che possono avere effetti positivi, ma che possono anche avere conseguenze negative ambientali.
Le precedenti considerazioni riguardano un paese del “primo mondo” industrializzato, ma le società invecchiano rapidamente anche nei paesi del secondo mondo in via di industrializzazione e nel terzo mondo dei paesi poveri e poverissimi, qui con la disintegrazione delle comunità basate sull’agricoltura, nelle quali la presenza di anziani aveva addirittura un ruolo economico e produttivo, e la nascita di megalopoli nelle quali gli anziani sono destinati ad essere sempre più emarginati, specialmente nelle parti più povere di ciascun paese.

Credo che occorra un crescente impegno del mondo accademico, della ricerca e delle imprese, per l’analisi dei rapporti fra l’invecchiamento della popolazione e i crescenti consumi di merci, di beni materiali, di risorse naturali e i relativi effetti: positivi e negativi ambientali.

Occupazione giovanile: è la “nuova” parola d’ordine del nuovo governo. Giustissimo...>>>
Occupazione giovanile: è la “nuova” parola d’ordine del nuovo governo. Giustissimo impegno per il quale è giustissimo investire pubblico denaro per incentivare l’assunzione di giovani disoccupati. Un aspetto poco spiegato è, a mio parere, che cosa potranno fare i nuovi occupati nell’agricoltura, nell’industria, nell’edilizia, nei commerci, nei servizi. Si parla di impieghi nell’economia verde, altra parola magica che indica molte attività che vanno dalle fonti di energia alternative e rinnovabili, alla creazione e alla cura di aree protette, alla ristrutturazione degli edifici per renderli capaci di consumare meno energia, o di resistere ai terremoti o alle calamità “naturali”.

Alcune delle proposte di impiego consistono in opportune opere di riparazione dei danni dovuti ad eventi disastrosi come alluvioni o frane, ma credo che grande attenzione i governanti dovrebbero anche rivolgere alla prevenzione di tali eventi, in genere prevedibili. Non a caso Albert Schweitzer (1875-1965), premio Nobel e grande pensatore e profeta della pace e dell’amore per la natura e per la vita, mezzo secolo fa avvertiva che l’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire e che tale incapacità è la vera causa dei guasti ecologici.

Secondo la mia modesta opinione, una fonte di occupazione giovanile potrebbe essere proprio una campagna di difesa del territorio per evitare l’erosione del suolo e gli ostacoli al moto delle acque nei fossi, torrenti e fiumi, origine delle esondazioni nelle valli, nelle pianure, perfino nelle città. Eventi che ormai in tutte le stagioni dell’anno distruggono edifici, raccolti, campi, case, fabbriche, strade, eventi che costringono le autorità locali a invocare lo “stato di calamità naturale” (che naturale non è) e a chiedere risarcimento allo Stato per miliardi di euro ogni anno. Soldi che potrebbero essere risparmiati in futuro se investiti oggi pagando giovani disoccupati per interventi e opere di prevenzione.

L’idea non è nuova: quando Franklin Delano Rooservelt fu eletto presidente degli Stati Uniti nel 1933, in piena crisi economica, con una spaventosa disoccupazione anche giovanile, in condizioni, purtroppo, simili a quelle odierne dell’Italia e di altri paesi europei, dieci giorni dopo l’insediamento alla Casa Bianca istituì un corpo di giovani lavoratori, i Civilian Conservation Corps CCC, destinati proprio al riassetto del territorio e alla conservazione dell’ambiente. Nell'estate del 1933 trecentomila americani dai 18 ai 25 anni, figli di famiglie disagiate, erano nei boschi, impegnati nei lavori di difesa del suolo che da molti anni erano stati trascurati. Negli anni successivi, fino al 1942, in varie campagne coordinate dal Servizio Forestale nazionale, due milioni di giovani americani piantarono tre miliardi di alberi, costruirono e ripararono 150.000 chilometri di strade collinari e campestri, ripulirono il greto dei torrenti, costruirono dighe e laghetti artificiali, scavarono canali per l'irrigazione, costruirono ponti e 3500 torri antincendio, ripulirono spiagge e terreni. Ai giovani impiegati nei CCC veniva assicurato vitto e alloggio e un salario, in parte trasferito alle loro famiglie bisognose.

Alcuni potrebbero obiettare che l’organizzazione di un simile servizio giovanile ambientale oggi in Italia comporterebbe immediati costi per lo Stato, le cui finanze sono già dissestate; tali costi di oggi sarebbero però molte volte inferiori a quelli futuri certi, che dovremo affrontare se continueremo a fare niente per la difesa del territorio. Per quanto riguarda gli incentivi con pubblico denaro per chi assume giovani lavoratori nelle attività produttive, agricole e industriali, sempre a mio parere, sarebbe giusto che tali incentivi fossero assegnati dopo una analisi di quello che le imprese si propongono di fare.

Troppe volte sono stati chiesti e ottenuti soldi pubblici per iniziative che sembravano di successo e che si sono presto rivelate fallimentari (ne sa ben qualcosa il nostro Mezzogiorno) perché i mercati erano già saturi o perché tecnicamente sbagliate, operazioni finite con profitti per pochi privati e danni per lo Stato, i lavoratori e l’ambiente. Una nuova politica di incentivi all’occupazione giovanile dovrebbe essere accompagnata da attente indagini per identificare quali processi e produzioni di merci ci consentono di diminuire le importazioni e di aumentare le esportazioni, e da un controllo sulla validità delle iniziative produttive e commerciali.

E’ ben vero che il mercato e le imprese devono essere liberi nelle loro scelte, ma ciò vale quando investono o perdono il denaro dei privati; quando invece le imprese operano con incentivi o contributi di pubblico denaro, qualche controllo pubblico sarebbe pur necessario su quello che viene prodotto, sulla localizzazione degli insediamenti, sulle precauzioni che vengono prese per evitare inquinamenti o discariche nocivi. Al di la delle valutazioni di impatto ambientale, ogni volta che c’entrano soldi di tutti sarebbe opportuno, come talvolta è stato, invano, proposto in passato, un pubblico scrutinio tecnico-scientifico e merceologico di che cosa viene prodotto e dove e come. Proporre lavoro in imprese sbagliate o fallimentari sarebbe un ulteriore tradimento dei nostri giovani concittadini disoccupati.

Rifiuti”: poche parole vengono ripetute con maggiore frequenza anche da ciascuno di noi, a proposito delle proteste per i sacchetti di immondizie che si accumulano nelle strade, contro le discariche o gli inceneritori o a proposito della raccolta differenziata. I rifiuti sono il risultato inevitabile di qualsiasi operazione di produzione agricola o industriale e di consumo delle merci. Per limitarci ai rifiuti solidi, in Italia si tratta di circa 180 milioni di tonnellate all’anno. 32 di rifiuti urbani, 50 di rifiuti industriali, 70 di rifiuti delle attività di cave, miniere e residui di costruzioni, 28 di altri rifiuti. Nel complesso la vita quotidiana di ogni italiano comporta la produzione, ogni anno, di circa 500 chili di rifiuti urbani, di circa 3000 chili di rifiuti totali, pari a cinquanta volte il peso di ciascuno di noi.

Per evitare l’uso inquinante delle discariche o degli inceneritori ai cittadini viene chiesto di effettuare una raccolta differenziata dei propri rifiuti domestici in modo da separare le componenti che potrebbero essere riciclati con minore effetto ambientale negativo, anzi con recupero di materiali economici, di “merci riciclate”, che altrimenti richiederebbero nuove materie prime tratte dalla natura. In generale però non viene adeguatamente spiegato in che cosa consiste il riciclo, un insieme di attività che coinvolge centinaia di aziende e diecine di migliaia di lavoratori, tecnologie talvolta raffinate e un grande giro di affari. Ciascuna delle frazioni di rifiuti, raccolti in maniera differenziata, viene dapprima ritirata da alcune imprese che effettuano una selezione per eliminare le componenti estranee: purtroppo infatti spesso molti cittadini, pur volonterosi, mettono alcuni rifiuti nel cassonetto sbagliato, rendendo talvolta impossibile il riciclo dell’intero contenuto.

Ciascuna frazione, abbastanza omogenea, di rifiuti (vetro, plastica, metalli, carta, eccetera) viene venduta (proprio così, esiste un vero commercio come se si trattasse di qualsiasi altra materia prima o merce) alle industrie che trasformano i rifiuti differenziati in nuove merci. Nella Comunità Europea ciascun rifiuto, dalla lampadina bruciata, alla bottiglia della conserva di pomodoro, al camion fuori uso destinato alla rottamazione, è classificato con un codice numerico CER (Catalogo Europeo dei Rifiuti, consultabile nel Testo Unico ambientale, il decreto 152 del 2006). Un rifiuto viene avviato allo smaltimento o al riciclo proprio sulla base di questo codice CER. Il riciclo è effettuato da industrie specializzate di cui sarebbe bene conoscere i processi se si vuole fare una raccolta differenziata veramente efficace.

Proprio in aprile una speciale commissione della Confindustria, l’associazione degli industriali, ha pubblicato lo studio: “Verso un uso più efficiente delle risorse” il cui testo è disponibile in Internet e che potrebbe essere utile in molti corsi universitari, dal momento che molte fasi della caratterizzazione e del riciclo dei rifiuti richiedono controlli chimici e fisici, in qualche caso molto delicati. Dal documento citato appare, per esempio, che nella produzione vitivinicola si forma oltre un milione di tonnellate di sottoprodotti dai quali potrebbero essere ottenuti gas combustibili o alcol etilico. Degli oltre sei milioni di tonnellate della carta e dei cartoni raccolti in maniera differenziata in Italia ogni anno, solo cinque entrano nei processi di produzione di nuova carta e in tali processi di riciclo si formano altri rifiuti: 400 mila tonnellate all’anno: fanghi di disnchiostrazione e di altro tipo, che finiscono nelle discariche o negli inceneritori.

Fra le materie più difficili da riciclare ci sono le materie plastiche; quelle in commercio sono di molti tipi diversi, ciascuna con composizione chimica e ingredienti diversi, per cui una gran parte della plastica, anche raccolta negli appositi cassonetti, finisce nelle discariche (1,6 milioni di tonnellate) o negli inceneritori spesso con effetti inquinanti dell’atmosfera. Le attività di demolizione degli edifici e delle costruzioni producono ogni anno circa 50 milioni di tonnellate di residui che, in gran parte, finiscono nelle discariche. La rottamazione e il riciclo delle varie componenti dei veicoli fuori uso comporta delicati problemi tecnici ed ecologici perché le varie parti dei veicoli delle varie marche hanno composizione chimica differente; comunque, nella rottamazione, oltre il 25 % del peso del veicolo finisce in un rifiuto, detto “fluff”, costituito da una miscela di materiali metallici come ferro e alluminio, materie plastiche, gomma, vetro, fibre tessili, vernici, di difficile smaltimento.

Gli inceneritori/termovalorizzatori dei rifiuti urbani, che tanto piacciono a molte amministrazioni locali, lasciano come residuo circa il 30 % di ceneri, in parte da smaltire in discariche speciali che non esistono in Italia, per cui devono essere esportate in Germania. Per farla breve: qualsiasi processo di trattamento e di riciclo dei rifiuti si lascia dietro inevitabilmente altri rifiuti e inquinamenti: lo stesso riciclo dei rifiuti richiede la soluzione di problemi chimici, tecnici, commerciali, argomenti di una vera e propria “Merceologia del riciclo”, il cui insegnamento e le cui conoscenze consentirebbero agli amministratori e agli imprenditori scelte meno costose e, a loro volta, meno inquinanti, capaci di creare nuova duratura occupazione: infatti, siate certi, la massa dei rifiuti da trattare aumenterà sempre.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

L’enciclica “Pacem in terris”, appariva cinquant’anni fa, in un periodo di grandi tensioni internazionali...>>>

L’enciclica “Pacem in terris”, appariva cinquant’anni fa, in un periodo di grandi tensioni internazionali. Le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, si confrontavano duramente in una gara rivolta ad avvertire il possibile avversario della propria potenza militare, soprattutto nucleare. Dopo l’esplosione sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, nel 1945, delle prime due bombe atomiche, bombe “piccole”, con una potenza distruttiva equivalente a quella di “appena” 15.000 tonnellate di tritolo, peraltro sufficienti a uccidere centomila persone, le due superpotenze avevano costruito bombe nucleari sempre più potenti; ormai non si trattava più soltanto delle bombe a fissione a uranio o plutonio, ma di bombe H a fusione, con potenze distruttive equivalenti a quelle di milioni di tonnellate di tritolo, o megaton, come si diceva allora.

Fra l’agosto e il settembre 1962, prima della crisi cubana dell’ottobre, l’Unione Sovietica aveva fatto esplodere nell’atmosfera ben sette bombe H di potenza fra 20 e 10 megaton. Nel corso del 1962 erano state fatte detonare nell’atmosfera complessivamente 100 bombe nucleari, circa metà americane e metà sovietiche. Missili intercontinentali avrebbero potuto portare tali bombe su qualsiasi città del mondo e in quegli anni gli arsenali mondiali contenevano circa 40.000 bombe nucleari. Nelle grandi città americane gli abitanti costruivano rifugi antiatomici, anche se era ben chiaro che sarebbero serviti a poco in caso di un bombardamento reale; lo mostravano alcuni film che circolavano in quegli anni sessanta. In tutto il mondo si stavano moltiplicando dei movimenti che chiedevano la pace e il disarmo nucleare, inascoltati dai governanti americani e sovietici per cui la pace poteva essere assicurata soltanto facendo sapere all’avversario che un attacco nucleare sarebbe stato seguito da un contro-attacco ben più disastroso. La chiamavano deterrenza.

L’11 aprile 1963, cinquant’anni fa, Giovanni XXIII, quando era già ammalato e sapeva vicina la morte che sarebbe arrivata il 3 giugno successivo, raccolse tutte le forze per far sentite la sua autorevole voce con l’enciclica “Pacem in terris” rivolta non solo ai cattolici, ma a tutti gli uomini di buona volontà; un messaggio che voleva indicare come raggiungere la pace secondo giustizia e rispetto reciproco, l’enciclica della “dignità umana”. Con questo titolo nei giorni scorsi l’evento è stato ricordato a Roma in una grande assemblea di centinaia di associazioni e gruppi.

L’appello del Papa alla pace seguiva di pochi mesi il momento forse più alto della tensione internazionale, quell’ottobre 1962 nel quale l’umanità è stata alla soglia della III guerra mondiale, questa volta nucleare. L’Unione Sovietica aveva inviato dei missili con testata nucleare nell’isola di Cuba, a pochi chilometri dal territorio degli Stati Uniti. In un frenetico scambio di messaggi il presidente americano Kennedy cercò di convincere il segretario generale sovietico Krusciov a ritirare tali missili, minacciando come ritorsione una guerra nucleare. In quelle ore il Papa Giovanni XXIII ebbe un ruolo fondamentale (peraltro omesso nel film “Tredici giorni” che racconta tali eventi), Attraverso contatti segreti fu deciso che la tensione si sarebbe allentata se il Papa lo avesse chiesto pubblicamente. Il 25 ottobre 1962, a mezzogiorno, Giovanni XXIII inviò attraverso la radio un messaggio in francese che fu ripreso da tutti i giornali anche nell’Unione Sovietica; un bellissimo appello di poche righe che si chiudeva con l’appassionata invocazione “Pace ! Pace !”.

L’intervento del Papa fu determinante per la decisione di Krusciov di ritirare i suoi missili da Cuba in cambio dell’impegno americano di ritirare i propri missili dalla Turchia e dalla Puglia. Si proprio: la Puglia fu inconsapevole parte in quella tensione, con i trenta missili Jupiter con testate nucleari puntati, dalle campagne murgiane, verso i paesi comunisti. Passata la crisi cubana, tuttavia, le esplosioni di bombe nucleari nell’atmosfera continuarono anche nei primi mesi del 1963 e questo spinse Giovanni XXIII a scrivere l’enciclica di mezzo secolo fa, l’invocazione della pace, il bene che tutti gli uomini di buona volontà chiedono, o almeno dovrebbero chiedere.

La “Pacem in terris” ricordava che la pace è compromessa da tensioni internazionali le cui radici affondano negli stridenti contrasti fra i popoli dovuti alla violazione di molti diritti fondamentali: il diritto ad un tenore di vita dignitoso, alla alimentazione, a cure mediche, a servizi sociali, all’istruzione, al lavoro, a condizioni di lavoro non lesive della sanità fisica e ad una retribuzione conforme alla dignità umana. In quegli anni su una popolazione mondiale di poco più di tre miliardi di persone, circa due miliardi vivevano in paesi da poco liberati dalla condizione coloniale o in condizioni di miseria e sottosviluppo e aspiravano, anche con la violenza, a conquistare quei diritti che il Papa riconosceva come fondamentali e naturali.

Fra questi il diritto di consentire ai poveri, nei paesi industrializzati e in quelli sottosviluppati, di migrare verso condizioni migliori, di non essere oggetto di discriminazioni razziali, quelle che allora sopravvivevano perfino nei civilissimi Stati Uniti, i diritti di parità delle donne e il diritto delle classi lavoratrici a progredire. L’enciclica continuava elencando “i segni dei tempi”: diritti dei deboli ma anche doveri dei governanti e dei poteri pubblici di soddisfare i bisogni fondamentali dei loro cittadini secondo il fine del “bene comune”, la ragion d‘essere dei poteri pubblici. Poiché tutti gli esseri umani sono uguali e non esistono esseri inferiori e superiori per natura, i poteri pubblici hanno il dovere di assicurare servizi esenziali, trasporti, comunicazioni, acqua potabile, abitazioni, assistenza sanitaria, istruzione. E giustizia: a questo proposito il Papa cita la frase di Sant’Agostino: “Abbandonata la giustizia, a che si riducono i regni se non a grandi latrocini ?”.

Un lungo capitolo dell’enciclica “Pacem in terris” è dedicata al disarmo e ai pericoli della moltiplicazione delle armi di distruzione di massa, specialmente nucleari; se alcuni paesi le hanno, altri possono essere tentati a possederne anch’essi, con pericoli concreti per la sopravvivenza della vita sulla Terra. Da qui il fermo invito dell’enciclica alla messa al bando delle armi nucleari. Quanto è stato ascoltato l’invito alla pace fra le persone e i popoli, dopo cinquant’anni ?

Come conseguenza dell’appello di Giovanni XXIII e della grande paura che cominciava a pervadere il mondo, nell’autunno dello stesso anno 1963 Kennedy e Krusciov firmarono un accordo che vietava le esplosioni di bombe nucleari nell’atmosfera; quelle esplosioni che da quindici anni stavano immettendo nell’aria e nelle acque una quantità insopportabile di elementi radioattivi a vita lunga che entravano nelle catene alimentari e finivano nelle ossa e nel corpo di tutti i terrestri, amici o nemici. Secondo l’accordo le esplosioni sperimentali avrebbero potuto continuare soltanto nel sottosuolo (ma la Francia continuò le esplosioni di bombe nell’atmosfera nel deserto del Sahara fino al 1975), poi vennero altri accordi per diminuire io numero delle bombe nucleari esistenti nel mondo, ma nel frattempo altri paesi si sono dotati di armi atomiche: Cina, Israele, India, Pakistan, fino alla piccola Corea del Nord, al punto che oggi gli arsenali mondiali contengono ancora 20.000 bombe nucleari. Altro che “bandite le armi atomiche” !

Quanto agli altri inviti alla giustizia, all’equa distribuzione dei beni e dell’uso della terra, in questo mezzo secolo sono aumentati le produzioni e i consumi dei popoli ricchi ma anche lo sfruttamento delle risorse naturali, della “terra”, dei paesi poveri che sono diventati ancora più poveri; molti poveri premono alle frontiere dei paesi ricchi e vengono respinti; aumenta la discriminazione etnica e anche questo fa aumentare le tensioni internazionali. In mezzo secolo non c’è stata una nuova “grande guerra”, ma soldati in armi sono diffusi in tutti i continenti per reprimere, con guerriglie e conflitti infiniti, nell’interesse delle grandi potenze o delle società multinazionali, le ribellioni locali ispirate alla domanda di maggiori diritti e di giustizia. Quanto lontana la pace sulla Terra !

Uno degli imperativi dell'ambientalismo è quello di coniugare l'ecologia con l'economia. Una iniziativa in questo senso è rappresentata dalla proposta di sostituire le domande di iscrizione alle scuole e i documenti relativi alle carriere scolastiche e le stesse pagelle degli studenti, finora su carta, con moduli da compilare sul computer e da rendere disponibili in forma telematica. Gli scopi sono vari: uno ecologico, la possibilità di risparmiare carta e quindi di evitare il taglio di alberi e tutti i rifiuti e inquinamenti associati sia alla produzione della carta, sia allo smaltimento delle carte usate.

Un secondo aspetto è risparmiare spazio; gli archivi di documenti cartacei occupano spazi sempre crescenti e sempre più difficili e costosi da trovare, al punto che alcune amministrazioni sono costrette a disfarsi di vecchie pratiche, addirittura di mandare al macero vecchi libri o doppioni di libri esistenti nelle biblioteche. A dire la verità mi addolora pensare a queste perdite ma mi rendo conto che sono imposte proprio da quei limiti della sopportabilità della Terra su cui l'ambientalismo giustamente richiama l'attenzione

La informatizzazione di molte pratiche ha anche importanti vantaggi sociali; fa risparmiare tempo ai parenti che non hanno più bisogno di andare presso le scuole a depositare le iscrizioni, e agli impiegati il cui lavoro viene snellito e reso più efficiente, alleggerendo così anche le spese dello Stato. Ancora dal punto di vista economico, viene diffuso l'uso dei computer e dei metodi di comunicazione elettronica, con aumento delle vendite di questi apparecchi in un momento in cui il mercato sembra andare verso la saturazione delle vendite, dai computer compatti ai telefoni che-fanno-tutto.

Qualcuno ha sollevato qualche dubbio: non tutti possiedono o hanno voglia di acquistare dei computer: niente paura ci saranno sempre presso le scuole delle postazioni e degli assistenti che aiuteranno a compilare le iscrizioni telematiche. Qualcuno ha anche obiettato che non tutti i parenti hanno familiarità con l'uso di apparecchiature elettroniche, ma l'iniziativa si propone proprio anche la alfabetizzazione telematica di tutto il paese, condizione considerata indispensabile per entrare in pieno nella modernità e nel futuro. Sono state sollevate obiezioni, anche in questo giornale, sulla perdita di un contatto fisico, materiale, con i documenti scolastici, che siano compiti o registri o pagelle; alcuni hanno ricordato con nostalgia le pagelle dei lontani tempi di scuola nelle quali restava una traccia ben visibile della propria storia personale, delle speranze e delle delusioni, delle sgridate per i cattivi voti o dei premi per i buoni risultati. Su questi aspetti di natura psicologica o pedagogica non so esprimere un parere.

Una piccola osservazione vorrei fare a proposito della conservabilità futura dei documenti telematici raccolti su dischi e supporti magnetici che occupano poco spazio, ben catalogabili e i cui dati possono essere facilmente ritrovati con un click su un tasto o una finestrina del viodeo. Non c'è dubbio che l'informatizzazione dei documenti ha portato una benefica rivoluzione, soprattutto per chi studia e vuole avere notizie. E' oggi possibile a qualsiasi persona, anche in zone isolate o lontane, mediante collegamenti telefonici o radio, accedere a documenti o testi che avrebbe potuto trovare soltanto dopo visite a biblioteche o uffici lontani. E' oggi incredibilmente più facile scrivere articoli o tesi di laurea.

L'unico pericolo è che i testi informatici col tempo possano "scomparire" per qualche motivo: perché cambia il modo in cui sono stati "scritti" o cambia il supporto magnetico che li ospita, dai vecchi dischetti alle odierne "pennette" capaci di contenere milioni di pagine in uno spazio ristrettissimo, strumenti perfetti ma fragili meccanicamente, col rischio della perdita di dati se esposti a campi magnetici. Purtroppo l'esperienza mostra che ogni tanto interi blocchi di informazioni, a cui ieri si accedeva, oggi non si trovano più, spostati o cancellato. Al punto che è stato necessario creare in Internet un "archivio", nel sito: "http://archive.org", in cui, con grande pazienza è fortuna, è talvolta possibile ritrovare vecchio materiale informatico.

Della carta si sanno molte cose: nei cinque secoli della sua storia si sa quali tipi sono pervenuti a noi, spesso in buono stato, si sa quali tipi di carta sono stati attaccati dai parassiti o sono diventati fragili e illeggibili. Quanto si troverà fra venti anni dei documenti e libri e articoli oggi "informatizzati", dalle pagelle ai documenti catastali e notarili, eccetera ?

Vorrei formulare una modesta proposta: la istituzione di una commissione permanente di vigilanza sullo stato di conservazione e di accessibilità pubblica dei documenti informatici Non è un problema banale e lo dimostra il fatto, per esempio, che le tracce di alcune telefonate, anche loro piccoli segnali elettronici su qualche disco o nastro magnetico archiviato chi sa dove, sono reperibili, ma se si vogliono leggere vanno trascritte in migliaia di pagine --- su carta. La vendetta della carta.

"Il passato è prologo", ammonisce Shakespeare, ed è vero perché gli eventi di oggi sono stati preparati e anticipati da simili eventi del passato. Questo vale in particolare per i problemi ambientali, come inquinamenti, erosione del suolo, violenza per la conquista delle risorse naturali scarse, conflitti occupazione-salute, per i quali dal passato abbiamo imparato ben poco. Da qui l'importanza della storia dell'ambiente, una disciplina troppo poco praticata e tanto meno diffusa nell'opinione pubblica.

Negli anni cinquanta del Novecento si diceva, un po' per scherzo, che le bizzarrie del clima, le estati troppo calde o gli inverni troppo freddi erano "colpa delle bombe atomiche". Negli anni quaranta e cinquanta del Novecento le centinaia di esplosioni di bombe nucleari americane, sovietiche, francesi e inglesi nei deserti e nelle isole lontane, non influenzavano molto il clima ma rappresentavano un gravissimo pericolo per la vita diffondendo nell'atmosfera di tutto il pianeta atomi radioattivi che venivano assorbiti dai mari, dai vegetali, entravano nei cicli biologici e finivano nel corpo umano. Il massimo della contaminazione radioattiva planetaria si ebbe nel 1961 e 1962. Intellettuali e studiosi si sforzavano di informare l'opinione pubblica dei pericoli sulla salute mondiale di questa corsa ad armi nucleari sempre più potenti, ma negli Stati Uniti il governo cercava di metterli a tacere accusandoli di essere comunisti, processandoli per attività antiamericane.

Nello stesso tempo venivano scoperti i danni provocati all'ambiente e alla salute dal crescente uso di nuovi "potenti" prodotti chimici, grandi successi commerciali ma spesso tossici come i pesticidi clorurati. Molti processi chimici usavano sostanze tossiche come mercurio, piombo, cloruro di vinile, amianto; producevano sostanze "perfette" e indistruttibili come molte materie plastiche, detersivi sintetici, fosfati e nitrati che finivano nelle acque con danni biologici. La protesta degli scienziati fu diffusa dai primi movimenti di contestazione ecologica attraverso riviste, pubblici dibattiti fino a raggiungere la grande stampa.

Nel 1952 un certo Lewis Herber pubblicò negli Stati Uniti un articolo intitolato: "Il problema dei prodotti chimici negli alimenti", a cui fece seguito, nel 1962, un libro più ampio intitolato: "Il nostro ambiente sintetico", apparso pochi mesi prima dell'altro libro di successo scritto da Rachel Carson, "Primavera silenziosa". Herber era lo pseudonimo che Murray Bookchin (1921-2006) aveva adottato per evitare l'incriminazione da parte della Commissione sulle attività antiamericane a cui non erano sfuggite le sue attività di informazione dell'opinione pubblica sui pericoli ambientali. Bookchin era nato a New York, figlio di emigrati russi, ed ebbe una vita avventurosa cominciata come operaio, poi come sindacalista; divenuto scrittore di successo e professore universitario fu l'animatore di movimenti in difesa dei consumatori, ecologici, pacifisti, contro la discriminazione razziale.

Fu tra i primi a scrivere di "ecologia sociale" (1974), a parlare dei "limiti delle città" (1973) e di crescita e declino dell'urbanizzazione (1987), anticipando anche in questo caso nuove visioni che cominciano oggi a farsi strada. Il suo libro "Per una società ecologica" (1980), tradotto anche in italiano, spiega le ragioni di molti guai con cui stiamo facendo i conti adesso e indica alcune delle vie per superarli.

Il libro "Il nostro ambiente sintetico", apparso mezzo secolo fa (purtroppo non è stato tradotto in italiano, ma si può leggere liberamente in Internet) denuncia la presenza negli alimenti di sostanze dovute all'inquinamento ambientale come le sostanze radioattive e i residui di pesticidi tossici, la contaminazione di prodotti commerciali ad opera di additivi usati nei cosmetici o nei preparati per lavare, nelle materie plastiche, nei carburanti. In sessant'anni di lotte ecologiche sono stati eliminati alcuni pericoli ma ne sono sorti altri; nuovi nomi come quelli delle diossine o del benzopirene sono entrati nel dizionario dei veleni.

Addirittura una recente proposta di legge minaccia di autorizzare l'uso come potabile di acqua contenente una pur piccola, ma non trascurabile concentrazione di microcistina LR, una molecola la cui presenza indica che le acque superficiali, inquinate da residui di fogne e concimi, prima di essere immesse negli acquedotti, hanno subito una depurazione soltanto imperfetta. L'attenzione per gli alimenti è spesso basata sulle mode e sulle diete dimagranti; la composizione e gli ingredienti dei prodotti come cosmetici e detersivi, quando devono essere indicati per legge, sono scritti in caratteri e in forma illeggibili. La situazione è complicata dalle crescenti importazioni di prodotti fabbricati chi sa come e dove.

Proprio la storia ambientale dei decenni passati dovrebbe stimolarci a rilanciare una "merceologia ecologica", quella descritta da Bookchin e dalla Carson, che aiuti e riconoscere i pericoli per l'ambiente, e quindi per la salute, nascosti nelle sostanze che maneggiamo ogni giorno.

(testo inviato anche alla Gazzetta del Mezzogiorno)


Come in tutti i periodi di crisi e di grandi mutamenti economici e sociali tutti cercano di formulare previsioni: i governi, le imprese (che cercano di capire che cosa e come produrre), le banche (che sono preoccupate per i soldi che dovranno prestare a governi e imprese), le compagnie di assicurazioni (preoccupate per i soldi che dovranno versare per risarcire catastrofi e errori). Così da alcuni anni a questa parte si moltiplicano le previsioni dei consumi e fabbisogni energetici, dal momento che tutti i fenomeni economici richiedono energia: per produrre acciaio, per scaldare le case, per far camminare le automobili, per ottenere patate e grano, eccetera. Le previsioni sono in genere estese a periodi fra il 2025 e il 2035, più in la ben pochi si azzardano ad andare. Tutti più o meno concordano nel fatto che la popolazione umana aumenterà dagli attuali 7000 milioni di persone a un numero intorno a 8500 milioni di persone verso il 2030.

Queste persone avranno bisogno di varie cose irrinunciabili: alimenti, prima di tutto, metalli, cemento, acqua e inevitabilmente produrranno crescenti quantità di rifiuti. Le previsioni concordano su un crescente fabbisogno di energia e si tratta piuttosto di immaginare da dove trarla. La richiesta annua di energia oggi, 2012, si aggira nel mondo intorno a circa 12.000 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (tep), un valore che corrisponde all’energia “contenuta” in circa 4300 milioni di tonnellate di petrolio, più circa 5000 milioni di tonnellate di carbone, più circa 3000 miliardi di metri cubi di gas naturale, più l’elettricità fornita dalle centrali idroelettriche e nucleari e da un po’ di fonti rinnovabili. Le previsioni per il 2030 si aggirano intorno ad un fabbisogno di 16.000 milioni di tep all’anno. Le miniere di carbone contengono ancora riserve abbastanza grandi di questo combustibile fossile solido, ma la sua estrazione è pericolosa e il suo uso inquinante, anche se è quello che costa meno, per unità di energia fornita, tanto che il suo uso sembra destinato ad aumentare.
Peggiore è la situazione del petrolio, l’unico che fornisce i carburanti liquidi indispensabili per tenere in moto i novecento milioni di autoveicoli di oggi che diventeranno oltre 1500 milioni nel 2030. I grandi giacimenti mondiali di petrolio si stanno più o meno rapidamente impoverendo. Per soddisfare una crescente richiesta mondiale di petrolio, stimata di circa 5000 milioni di tep all’anno nel 2030, le previsioni contano sui giacimenti sottomarini a profondità sempre maggiori e in mari sempre più profondi e sulle tecniche, peraltro molto inquinanti, che permettono di estrarre il petrolio dalle rocce e sabbie che ne sono impregnate nel sottosuolo; alcuni prevedono che, sfruttando queste difficili risorse petrolifere, gli Stati Uniti potrebbero soddisfare i propri crescenti fabbisogni e addirittura diventare esportatori di petrolio. Le promesse dell’energia nucleare sembrano definitivamente svanite; un poco potrebbe aumentare l’elettricità ottenuta da grandi centrali che utilizzano il moto delle acque; qualcosa potrà venire dal Sole e dal vento.
L’uso di tutta questa energia farà aumentare i gas che finiscono nell’atmosfera per cui la temperatura “media” della Terra potrebbe aumentare in venti anni fra 2 e 4 gradi Celsius, con catastrofici effetti sul clima futuro. E l’Italia ? Negli anni settanta del secolo scorso, dopo la prima grande crisi energetica, sono stati fatti vari Piani Energetici Nazionali, rivelatisi tutti sbagliati nelle previsioni e nei rimedi suggeriti. Poi nell’ultimo ventennio si è vissuti alla giornata e solo in questo 2012 il governo ha finalmente formulato una Strategia Energetica Nazionale (SEN)(il termine “piano” è stato evitato perché sembra porti sfortuna): i consumi totali di energia dovrebbero restare costanti fino al 2030. Dovrebbero diminuire le importazioni di petrolio da circa 65 a circa 45 milioni di tonnellate all’anno con un aumento dell’estrazione da nostri giacimenti terrestri e sottomarini, da circa 5 a circa 12 milioni di tonnellate all’anno.
Alcuni critici si chiedono se davvero esistano riserve nazionali di questo genere ancora da sfruttare e quali sarebbero gli effetti ambientali. Gli attuali giacimenti italiani di gas naturale si stanno esaurendo: il SEN prevede tuttavia una ripresa della produzione nazionale da nuovi giacimenti, al fianco di ancora rilevanti importazioni. Le importazioni di carbone dovrebbero restare stazionarie intorno a 20 milioni di tonnellate all’anno. La produzione di elettricità dovrebbe restare più o meno costante fino al 2030, fra 300 e 320 miliardi di chilowattora all’anno: dovrebbe raddoppiare la produzione di elettricità dai rifiuti (la moltiplicazione degli inceneritori non è una buona prospettiva) e dovrebbe aumentare molto l’elettricità da impianti fotovoltaici solari. Dovrebbero restare più o meno costanti i consumi energetici finali nell’industria, nelle abitazioni, nei trasporti e dovrebbero diminuire un poco le emissioni annue di gas serra. Come mai si parla così poco di documenti da cui dipendono la vita e il lavoro futuro di tutti noi ?

Si potrebbe scrivere una storia dell'Italia elencando le perdite di vite, di ricchezza, di beni, conseguenti le frane e le alluvioni e la siccità, tutte ricorrenti, in tutte le parti d'Italia, con le stesse modalità e cause, tutte rapidamente dimenticate. Come anno zero può essere preso il 1951, l'anno della grande alluvione del Polesine provocata dal dissesto idrogeologico del lungo periodo fascista e di guerra durante il quale si è aggravato il taglio dei boschi ed è venuta meno la manutenzione dei fiumi.

In quell'anno del grande dolore nazionale, ci si rese conto che la ricostruzione dell'Italia avrebbe dovuto dare priorità alle opere di difesa del suolo; molte indagini e inchieste misero in evidenza la fragilità di molti corsi d'acqua, oltre al Po, in cui i detriti dell'erosione si erano depositati nell'alveo e avevano fatto diminuire la capacità ricettiva dei corpi idrici. Inoltre era già stata avviata una graduale occupazione e privatizzazione delle fertili zone golenali, originariamente appartenenti al demanio fluviale proprio perché ne fosse conservata, libera da ostacoli di edifici e strade, la fondamentale capacità di accoglimento delle acque fluviali in espansione nei periodi di intense piogge.

Il "miracolo economico" degli anni cinquanta e sessanta del Novecento è stato reso possibile dalla moltiplicazione di quartieri di abitazione, di fabbriche e di attività di agricoltura intensiva che richiedevano una crescente occupazione del territorio, nelle pianure e nelle valli. Nello stesso tempo la intensa migrazione interna dalle zone più povere e dissestate del Mezzogiorno verso un Nord che prometteva lavoro in fabbrica e paesi e città più vivibili e con migliori servizi, ha lasciato vaste zone del Mezzogiorno e delle isole e delle montagne e colline esposte all'abbandono umano e esposte ad un crescente degrado del territorio e a una serie crescente di frane e alluvioni.

Per una nuova politica del territorio, per avviare serie iniziative di difesa del suolo non servì la frana di un pezzo del monte Toc nel bacino del Vajont, e i relativi duemila morti del 1963. E neanche la grande alluvione di Firenze e Venezia del 1966, un altro momento del grande dolore nazionale; anche allora fu riconosciuta, nel dissesto territoriale la causa prima della tragedia; fu istituita la Commissione De Marchi che riferì al Parlamento che occorrevano investimenti di diecimila miliardi di lire di allora (100 miliardi di euro 2012) in dieci anni per opere di difesa del suolo. Opere che non sono state fatte.

Nei decenni successivi la costruzione di edifici e strade ha continuato ad alterare, anzi in maniera accelerata, profondamente la superficie del suolo creando ostacoli al flusso delle acque; si è innescata una reazione a catena che ha fatto aumentare l'erosione del suolo, i detriti dell'erosione hanno invaso gli alvei dei fiumi e torrenti e, di conseguenza, è diminuita la capacità dei fiumi e torrenti e fossi di ricevere l'acqua, soprattutto a seguito di piogge più intense.

Nello stesso tempo si sta assistendo a modificazioni climatiche planetarie che alterano i cicli delle stagioni e delle piogge. Di conseguenza sempre più spesso, il territorio e la collettività italiani sono (e saranno) esposti a siccità e frane e alluvioni che distruggono edifici, strade, raccolti; sempre più spesso le comunità danneggiate richiedono la dichiarazione di stato di calamità, che significa che lo stato deve provvedere a risarcire i danni provocati da "calamità" considerate "naturali" ma che tali non sono: sono calamità dovute ad errori e imprevidenza umani: per evitarli la politica della "protezione civile" dovrebbe essere sostituita con una cultura della "prevenzione".

Le frane e le alluvioni derivano in Italia da vari fattori. Dalle piogge, prima di tutto, che si alternano rapide ed intense in certi mesi e scarse in altri; ma come si può organizzare la prevenzione delle calamità se non si sa neanche esattamente quanto piove in una regione in un anno ?

La velocità con cui le piogge scorrono nelle valli, sul fianco delle montagne e colline, e poi nei fiumi a fondovalle, la loro forza di erosione del suolo, dipendono dalla vegetazione: se il suolo è coperto di alberi e macchia spontanea, la "forza" contenuta nelle gocce d'acqua delle piogge si attenua cadendo sulle foglie e l'acqua scorre sul suolo abbastanza dolcemente. Se il suolo è nudo, la forza delle gocce d'acqua lo sgretola in particelle fini che rapidamente sono trascinate a valle e, quando il flusso di acqua è intenso, il ruscellamento si trasforma in un fiume di fango, quello che abbiamo visto tante volte nelle immagini delle alluvioni.

Se poi il flusso delle acque incontra ostacoli, edifici, muraglioni, il fiume di acqua e fango si rigonfia, cambia strada, si infiltra dovunque e spazza via tutto. E di ostacoli le acque sul suolo italiano, in tutte le regioni, ne incontrano tanti: decisioni miopi ed errate e l'abusivismo edilizio, tollerato dalle autorità locali e addirittura incentivato con due devastanti "condoni", hanno fatto moltiplicare sul fianco delle valli, addirittura nel greto dei fiumi, case, fabbriche, edifici, strade.

Nel 1989 era stata emanata una legge, la "centottantatre", che stabiliva come rallentare ed evitare i disastri delle frane e delle alluvioni. La difesa del suolo e delle acque deve, indicava giustamente la legge, essere organizzata per bacini idrografici, quelle unità geografiche ed ecologiche che comprendono le valli, gli affluenti, i fiumi principali, dalle sorgenti al mare. Poiché i confini dei bacini idrografici non coincidono con quelli delle regioni e delle province, per ciascun bacino idrografico deve essere istituita una autorità di bacino che deve redigere un "piano" per indicare dove devono essere fatti i rimboschimenti, dove devono essere vietate le costruzioni, deve devono essere fermate le cave o le discariche dei rifiuti, dove devono essere costruiti i depuratori. Al piano di ciascun bacino dovrebbero attenersi --- lo voleva la legge, non sono ubbie di ecologisti --- le autorità amministrative, i consorzi di bonifica, le comunità montane, gli enti acquedottistici. Anche questa legge è stata abrogata dal testo unico delle leggi sull'ambiente approvato dal governo nel giugno 2006.

Eppure la salvezza del territorio contro le alluvioni e l'aumento delle risorse idriche richiederebbero un grande illuminato programma di opere pubbliche, sull'esempio di quelle intraprese dal presidente degli Stati Uniti Roosevelt, nel 1933, per far uscire l'America dalla crisi con investimenti per la sistemazione delle valli e del corso dei fiumi, creando occupazione e tornando a rendere fertili terre erose e assetate proprio per l'eccessivo sfruttamento del suolo.

Tali opere richiederebbero un piano quinquennale che dovrebbe cominciare con una indagine dello stato del territorio, oggi facilmente eseguibile con mezzi tecnico-scientifici come rilevamenti satellitari e aerei. Tanto per cominciare gran parte di questo lavoro è disponibile, sparso per diversi ministeri e agenzie: in parte è stato fatto (avrebbe dovuto essere fatto) nell'ambito delle autorità di bacino idrografico secondo quanto richiesto a suo tempo dalla legge 183; in parte fu (avrebbe dovuto essere) predisposto dal decreto del 1999 dopo l'alluvione di Sarno. Tale indagine dovrebbe rilevare le vie di scorrimento delle acque dalle valli verso il mare e gli ostacoli attualmente esistenti a tale flusso, rivo per rivo, fosso per fosso, torrente per torrente, fiume per fiume.

Come secondo passo, l'indagine sullo stato del territorio indica (indicherebbe) dove non devono essere fatte nuove opere come costruzioni di edifici e strade e dove sarebbe opportuno localizzare futuri edifici e strade in moda da assicurare il deflusso senza ostacoli delle acque. Le decisioni conseguenti la pianificazione dell'uso del territorio --- l'indicazione di dove si può e di dove non si deve intervenire con opere nel territorio --- comporta due sgradevolissime conseguenze: la modificazione del valore di molte proprietà private e la necessità di una moralizzazione della pubblica amministrazione alla quale dovrebbe essere iniettato il coraggio di "dire no" alle pressioni di molti proprietari di suoli.

Come terzo passo l'indagine sullo stato del territorio indica (indicherebbe) dove esistono ostacoli al flusso delle acque; tali ostacoli sono costituiti da edifici o opere costruiti, abusivamente o anche "legalmente", al fianco dei torrenti e fossi, talvolta nelle golene e negli alvei; dalle arginature fatte per aumentare lo spazio occupabile a fini economici e che fanno aumentare la velocità e la forza erosiva delle acque, dai ponti e dalle strade e dalle opere che ostacolano il deflusso delle acque o che si trovano in zone esposte ad erosione, alluvioni e frane.

In parte tali ostacoli devono essere rimossi; sarà una scelta politica trovare delle forme di indennizzo per i costi di spostamento e di demolizione di proprietà private o di opere pubbliche; in qualche caso basta eliminare la cementificazione dei fianchi di colline; in altri si tratta di recuperare e riattivare antiche note pratiche di drenaggio delle acque, abbandonate in seguito allo spopolamento delle colline e montagne; in altri casi si tratta di praticare una pura e semplice "pulizia" di canali e torrenti. Opere di "manutenzione idraulica" esattamente equivalenti alla manutenzione che viene praticata sulle strade, negli edifici, ai macchinari, ma mirate allo scorrimento delle acque.

Come quarto passo, una accurata indagine territoriale è in grado di indicare come è variata, nei decenni, la capacità ricettiva dei torrenti e fiumi; tale variazione è dovuta sia al deposito di prodotti dell'erosione nell'alveo dei fiumi e torrenti, sia all'escavazione di sabbie e ghiaie; nel primo caso le acque piovane tendono ad uscire dagli argini e ad allagare le zone circostanti, e non servono le opere di innalzamento o cementificazione degli argini, ché anzi aggravano la situazione, trasferendo a valle materiali che ostacolano altrove il deflusso delle acque: nel secondo caso i vuoti lasciati dall'escavazione fanno aumentare la velocità e la forza erosiva delle acque in movimento.

Va anche tenuto presente che quanto avviene nel corso di fiumi e torrenti influenza i profili delle coste provocando avanzata o erosione delle spiagge, con conseguente, rispettivamente, interramento dei porti o perdita di zone di valore economico turistico --- e quindi ancora una volta costi per la collettività e anche per privati.

La quinta azione --- ma dovrebbe andare al primo posto come efficacia --- per rallentare e fermare i costi per frane e alluvioni, e per aumentare la disponibilità di acqua di buona qualità, consiste nell'aumento della copertura vegetale del suolo. La presenza di alberi e vegetazione fa sì che la pioggia cada sulle foglie, anziché direttamente sul terreno; le foglie e i rami sono elastici e attenuano la forza di caduta e quindi la forza erosiva delle acque. Inoltre la loro presenza e la presenza di sottobosco rallenta la discesa delle acque e quindi la loro forza erosiva.

Normalmente si ragiona in termini di rimboschimento delle terre esposte ad erosione; il rimboschimento tradizionale richiede pazienza, cultura e conoscenza delle caratteristiche del suolo, oltre che delle specie vegetali, e tempo e manutenzione perché il trasferimento delle piante dai vivai al terreno è opera lunga e delicata; ma l'attenuazione del moto delle acque è svolto anche dalla vegetazione "minore", dalla macchia e dalla vegetazione spontanea. Purtroppo esiste una anticultura che suggerisce o impone la "pulizia", che vuol dire distruzione, del verde, dalle campagne alle valli, ai giardini privati e pubblici urbani.

La macchia è spesso estirpata per lasciare spazio per strade o parcheggi o edifici: non ci si rende conto che ogni foglia, anche la più piccola e insignificante, anche quella che cresce negli interstizi delle strade, ha un ruolo positivo non solo come "strumento" per sequestrare dall'atmosfera un po' dell'anidride carbonica responsabile dell'effetto serra e dei mutamenti climatici, ma anche per contribuire allo scambio di acqua fra il suolo e l'atmosfera --- essendo, ancora una volta, l'acqua la fonte vera della vita anche economica.

Alla distruzione del poco verde contribuisce la gestione del territorio agroforestale, l'abbandono dell'agricoltura di collina e montagna, la diffusione di seconde case e attrezzature sportive proprio nelle valli, una parte molto desiderabile del territorio, la mancanza di "amore" per la vegetazione che è la forma prima di "vita", dalla quale dipendono tutte le altre forme di vita umana ed economica.

La poca cura e protezione del verde spontaneo è la fonte degli incendi (alcuni, molti sono provocati proprio per sgombrare il terreno dal verde che ostacola costruzioni e speculazioni); gli incendi, a loro volta lasciano il terreno esposto a crescente erosione.

C'è una sesta azione di sostegno alle cinque precedenti che avrebbe anche il vantaggio di non costare niente; un'opera di informazione e di "pedagogia" delle acque, di narrazione di come le acque si muovono nelle valli e nelle città, delle interazioni fra il moto delle acque e il suolo e la vegetazione e le opere umane; al di là dell'utilità pratica, appunto per diminuire i costi annui dovuti al risarcimento delle perdite economiche provocate da frane e alluvioni, la "cultura delle acque" avrebbe un valore politico e civile, mostrando come la popolazione di ciascuna valle è unita, nel bene e nel male, dalle acque che scorrono nella valle stessa, mostrando le forme di violenza che opere sconsiderate a monte esercitano sugli abitanti a valle.

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