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Alla fine dello scorso aprile, alla vigilia della solenne inaugurazione dell’EXPO 2015 di Milano, la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia ha riunito presso il suo Museo dell’Industria e del Lavoro (MusIL), un centinaio di studiosi invitandoli a chiedersi come si presentano, in Italia e nel mondo, le “agricolture”. “Agricolture” al plurale perché sono tante le forme in cui viene praticata la più importante attività umana, quella che assicura agli oltre settemila milioni di terrestri il cibo, ma anche molte altre materie prime essenziali. Lo storico Pier Paolo Poggio, direttore della Fondazione Micheletti, ha curato la pubblicazione del libro, appena apparso col titolo: Le tre agricolture: contadina, industriale, ecologica (Jaca Book, Milano), che raccoglie le relazioni presentate al convegno sopra ricordato. Non c’è dubbio che a “nutrire il pianeta” contribuiscono tante diverse forme di coltivazione del suolo: dalla cerealicoltura della Valle Padana, agli oliveti pugliesi, agli agrumeti della Sicilia, dalle monocolture a mais del Nord America o della canna da zucchero del Brasile o della palma dell’Indonesia, dalle innumerevoli comunità agricole dei villaggi contadini sparsi in Africa, Asia, America Latina, ai giovani che abbandonano le città per mettersi a produrre mele “biologiche”.

Chiamateli agricoltori o imprenditori o contadini, sono le centinaia di milioni di persone che zappano con poveri strumenti, o si spostano con moderni trattori, o lavorano nelle fabbriche in cui i prodotti agricoli e zootecnici sono conservati e trasformati, sono loro che permettono a (quasi) tutti noi di trovare ogni giorno sulla tavola il pane fresco e la carne e la frutta. In molti paesi esiste ancora una agricoltura contadina che coltiva la terra in armonia con i cicli naturali ma che può soddisfare soltanto il fabbisogno alimentare delle piccole comunità locali, sempre più sostituita dalla agricoltura industriale, così come l’artigianato è stato soppiantato dalla grande manifattura di prodotti di serie e il piccolo negozio è soppiantato dai supermercati.

Il successo dell’agricoltura industriale, con alte rese per ettaro, è assicurato dall’uso intenso di macchine, di energia, di concimi artificiali, di sementi geneticamente modificate, di pesticidi, ed è presentato come l’unico mezzo “moderno” con cui è possibile sfamare la crescente popolazione mondiale, sempre più urbanizzata e lontana dai campi e dai pascoli. Questo successo economico e finanziario oscura le trappole in cui la transizione ha fatto cadere l’umanità. Le monocolture e l’impiego di pesticidi alterano la biodiversità che è condizione essenziale per la stabile successione delle coltivazioni; il crescente impiego di concimi artificiali provoca l’immissione nell’atmosfera di ossidi di azoto, uno dei “gas serra”; la zootecnica contribuisce all’immissione nell’atmosfera di metano, altro “gas serra”, per cui l’agricoltura industriale contribuisce in maniera crescente al riscaldamento globale e alle conseguenti modificazioni climatiche che sempre più spesso distruggono i fertili campi.

La coltivazione intensiva del suolo e l’abbandono delle terre meno produttive alterano il moto superficiale delle acque e provocano allagamenti e frane che colpiscono in primo luogo proprio l’agricoltura stessa. La pasta e l’olio, la frutta e le carni diventano “manufatti”, standardizzati nella qualità; la diversità biologica è sostituita dalla fantasia dei nomi, delle etichette, dalle mode gastronomiche e così aumentano sprechi e rifiuti. Si può quindi amaramente dire che l’agricoltura industriale, nel secolo ormai della sua esistenza, dopo aver distrutto l’agricoltura contadina sta distruggendo se stessa con i guasti ambientali e sociali.

Nell’introduzione al volume prima ricordato Pier Paolo Poggio ricorda che la salvezza, umana e ambientale del pianeta, è realizzabile con una agricoltura ecologica che veda “i contadini” appropriarsi del meglio della tecnologia attraverso il suo utilizzo selettivo e intelligente, producendo cibo con una “economia circolare”, per usare un termine oggi di moda, come hanno fatto sempre nel corso della storia.

Alla fine dei lavori del convegno di Brescia i partecipanti hanno redatto un “manifesto” in cui auspicano l’avvento di una economia agricola rinnovata, ecologica, appunto, capace di assicurare un reddito dignitoso, un lavoro soddisfacente, la sperimentazione di nuove forme di convivenza sociale e un rapporto consapevole con l’ambiente di vita e naturale. Una trasformazione legata ai prodotti e ai produttori di ciascun territorio, al servizio degli abitanti delle campagne e delle città, volta a limitare gli sprechi materiali ed energetici.

Una agricoltura ecologica può e deve raccogliere e superare l’eredità sia dell’agricoltura contadina sia di quella industriale, una transizione in cui è fondamentale il ruolo delle giovani generazioni e delle donne. La sua affermazione, passando da situazioni di nicchia a fenomeno socialmente rilevante, le consentirà di svolgere un ruolo prezioso di rigenerazione sul piano culturale, ambientale ed economico, rimettendo al centro dell’operare umano il valore del saper fare e della manualità, il valore del lavoro e del suo senso, il valore delle cose e delle relazioni, il valore dei tempi dell’attesa.

Abbastanza curiosamente simili concetti sono stati espressi da Papa Francesco parlando ai “Movimenti popolari”, per lo più piccoli contadini sparsi in tutto il mondo, riuniti sotto una bandiera che chiede “Terra, casa, lavoro”. “La passione per il seminare, ha detto il Papa, per l’irrigare con calma ciò che gli altri vedranno fiorire sostituisce l’ansia di occupare gli spazi di potere e di vedere risultati immediati”. Forse sarà questa la vera “modernità” per nutrire il pianeta.

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Avete notato che si parla sempre meno del petrolio? Sarà perché ormai il suo prezzo da un po’ di tempo non fa più le bizze, abbastanza stabile intorno a circa 40-50 dollari al barile (circa 250 euro alla tonnellata), la metà dell’anno scorso. Sarà perché ormai in Italia se ne importa di meno, rispetto agli anni passati: circa 50 milioni di tonnellate nel 2014 rispetto ai 90 milioni di dieci anni fa (e addirittura se ne produce un poco nella stessa Italia), in parte sostituito dal gas naturale e dal carbone (si, proprio lui, zitto zitto, sempre intorno a noi, importato in ragione di circa una ventina di milioni di tonnellate all’anno).

Il prezzo del petrolio subisce continue oscillazioni a causa di guerre sotterranee fra potentissime imprese finanziarie e altrettanto potenti governi che dominano il commercio internazionale di quasi 4200 milioni di tonnellate all’anno dell’odiato e amato petrolio: i produttori Stati Uniti e Russia, Norvegia e Arabia Saudita, Iraq e Iran, e poi gli affamati consumatori di petrolio come l’insaziabile Cina. Il petrolio costa perché corre sugli oceani e negli oleodotti stesi nelle giungle e nei deserti, e perché le sue riserve più accessibili si esauriscono rapidamente ed occorre estrarlo da giacimenti sempre più lontani e ostili.

Eppure proprio il petrolio è indispensabile, sotto forma dei suoi derivati, benzina e gasolio, per tenere in moto i 50 milioni di auto e moto veicoli che affollano strade e città italiane. Ma il petrolio entra nella nostra vita anche sotto tante altre forme per cui si può parlare di un “costo in petrolio”, per tutte le merci e i servizi.

Il petrolio entra nella vita di ogni “signor Rossi” fin da quando si alza la mattina. Si è appena seduto per fare colazione e anche il latte che sua moglie ha comprato ieri è stato ottenuto da una mucca che si è nutrita di foraggi e cereali e mangimi che sono stati "fabbricati" dall'agricoltura usando trattori e concimi e che sono stati trasportati con navi e camion, e tutto ciò ha richiesto prodotti petroliferi.

Anche il caffè ha richiesto un poco di petrolio, quello che è stato necessario per muovere le navi che lo hanno portato dall'Africa o dal Sud America, e per far funzionare le macchine per la tostatura. E c’è del petrolio anche "dentro" la giacca e i pantaloni e le scarpe indossati dal Signor Rossi perché le fibre tessili sintetiche hanno richiesto petrolio; la coltivazione del cotone e l'allevamento delle pecore e la tessitura e la fabbricazione delle scarpe, sono stati tutti resi possibili da energia derivata dal petrolio.

Neanche in ufficio il signor Rossi potrà liberarsi dalla invisibile schiavitù del petrolio: il suo ufficio è dotato di tutte le apparecchiature elettroniche che consentono di abbandonare i polverosi archivi cartacei e di accedere alle informazioni alla velocità della luce. Purtroppo un vecchio proverbio dice che non si può avere niente gratis: infatti anche le sue macchine contengono materie plastiche, circuiti elettronici, oro e metalli rari e sali di litio e grafite che tutti hanno richiesto minerali e processi che hanno consumato petrolio. Per stare tranquillo il signor Rossi farà bene a stampare i risultati del suo lavoro su carta, la cui produzione ha richiesto petrolio quando sono stati segati gli alberi, trasportati poi dai lontani boschi del Nord fino alle cartiere, e quando la cellulosa è stata trasformata in carta e poi tagliata in fogli ben squadrati.

Qualche buona notizia: la signora Rossi dice al marito che la concessionaria ha finalmente avvertito che la nuova automobile è disponibile; lui non lo sa, ma anche una automobile, come anche una lavatrice, un frigorifero, un televisore, sono fatti di innumerevoli parti ciascuna delle quali ha richiesto petrolio, nell'estrazione dei minerali, nella fusione dei metalli, nella plastica, nelle vernici, eccetera.

Nel 1982 una piccola casa editrice di Milano pubblicò un libretto (ormai esaurito) dell'inglese Peter Chapman, intitolato Il paradiso dell'energia, che parlava del “costo in petrolio" di ogni oggetto della vita domestica: il pane, i tessuti, i mobili, gli elettrodomestici: in questo modo, quando il prezzo dell'energia fosse aumentato, ogni persona avrebbe potuto calcolare di quanto sarebbe aumentato il prezzo, in euro, di quello che stava per acquistare e avrebbe potuto regolarsi nel suo comportamento quotidiano, nei suoi consumi. E, nello stesso tempo, avrebbe potuto pretendere, quando i prezzi del petrolio fossero diminuiti, come adesso, una adeguata diminuzione del prezzo delle merci che acquista, soprattutto dei combustibili per autoveicoli il cui prezzo al consumo invece non segue affatto quello del petrolio.

Infine la conoscenza del “costo energetico” delle merci dovrebbe aiutarci a ricordare che il petrolio, insieme al gas naturale e al carbone, è responsabile dell’inquinamento dei mari, del suolo e soprattutto dell’atmosfera con quelle polveri e idrocarburi e gas che entrano nei nostri polmoni. Tutti e tre questi combustibili fossili aggiungono, in Italia, circa 400 milioni di tonnellate all’anno ai circa 30.000 milioni di tonnellate di “gas serra”, responsabili dei mutamenti climatici, che ogni anno finiscono nell’atmosfera dell’intero pianeta. Sappiamo quindi chi ringraziare se, alle prime violente piogge, provocate proprio da tali inquinamenti, tante case e strade e campi vanno sott’acqua.

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L’attenzione per i problemi ambientali, quelli della scarsità di materie prime, degli inquinamenti, delle modificazioni climatiche e delle alluvioni, mobilita intellettuali, scrittori, giornalisti. Uno degli sport più diffusi fra questi formatori dell’opinione pubblica consiste nell’inventare nuove parole o attribuire nuovi significati a vecchie parole. Pensate alla parola “ecologia”: da austera scienza dei rapporti fra esseri viventi e ambiente circostante, viene usata come strumento di pubblicità per deodoranti, biciclette e mozzarelle; “bioeconomia”, un termine che indica la revisione dell’economia in modo che rispetti le leggi biologiche, è diventata il nome dei processi per produrre i sacchetti di plastica; l’aggettivo insostenibile, che in italiano indica una cosa difficilmente sopportabile, ha generato il nome “sostenibile” che sta ad indicare che si può continuare a produrre merci senza fine con un po’ di pannelli solari; adattamento e resilienza indicano la possibilità di far fronte alle alluvioni e alle frane costruendo muraglioni di cemento invece di pulire e regolare il corso dei fiumi, e così via.

Una recente invenzione è l’”economia dell’abbastanza”, titolo di fortunati libri, articoli e dibattiti. E’ oltre mezzo secolo che viene ripetuto che i disastri ambientali deriva dalla “eccessiva” produzione di merci e edifici e macchine e relativi rifiuti. Un celebre e dimenticato libro del 1973 avvertiva che “Piccolo è bello”, poi gli stessi concetti sono stati riscoperti dalla filosofia della decrescita e ora dall’”economia dell’abbastanza”.

Al di là dei discorsi, è bene ricordare che decrescita e “abbastanza” si riferiscono alla produzione e all’uso di cose materiali: patate e frigoriferi, elettricità e ferro, carta e edifici, plastica e carri armati: chi deve diminuire i suoi consumi e quanto è “abbastanza”? Di oggetti, di merci, di macchinari le persone hanno bisogno per vivere, per mangiare (occorre grano e olio), per abitare (ci vuole cemento per le case), per muoversi (ci vuole acciaio per automobili e biciclette e treni), per conoscere (occorre carta per i libri), per curarsi (occorrono letti di ospedale e siringhe per le iniezioni). I settemila milioni di abitanti delle Terra hanno tutti gli stessi bisogni fondamentali, cibo, salute, conoscenza, ma li soddisfano in maniera molto diversa; i “primi mille” milioni hanno abbondanza di “cose”, anzi di cose sempre più raffinate e costose e ci pensa la pubblicità delle imprese a proporre spazzolini da denti elettrici, motociclette “ruggenti”, mode e lusso spesso sguaiati. A questi ”mille” milioni si racconta che i consumi crescenti giovano all’economia e assicurano l’occupazione. Circa quattromila milioni di terrestri hanno consumi così-così, in parte simili a quelli dei “primi mille”, in parte molto minori e modesti e insufficienti.

Gli “ultimi duemila” milioni hanno una modesta o modestissima quantità di beni materiali, insomma sono più o meno “poveri” o “poverissimi”, e sono spinti, per imitazione delle condizioni di vita dei “primi mille”, decantate dalla televisione che ne porta le immagini in tutto il mondo, a possedere sempre più “cose”, a qualsiasi costo, anche emigrando, anche con la violenza. Questa “disuguaglianza” è stata denunciata da Papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’, ricordando che “un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare (ha proprio scritto così) alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere” (n. 95).

A questo punto sorge la domanda: che cosa è “abbastanza” e per chi; la risposta viene non da chiacchiere, ma da un serio lavoro culturale e scientifico di sociologi e ingegneri, filosofi e cultori di ecologia (di quella vera) e di merceologia (la disciplina che indica come produrre e caratterizzare le “cose” oggetto di produzione e di consumo): quali consumi e sprechi e inquinamenti sono molto al di là dei limiti dell’”abbastanza”, e con quali materie e processi è possibile assicurare “abbastanza” beni a chi ne è privo, fra gli “ultimi duemila” milioni di poveri e poverissimi, per soddisfare i bisogni reali e fondamentali.

Il bisogno di acqua e di cibo, tanto per cominciare: sta per chiudere i battenti l’EXPO di Milano che avrebbe dovuto suggerire come sfamare il pianeta e si è risolto in grandi dichiarazioni e fiere gastronomiche che incantano folle sazie e magari anche obese, ma non fanno fare un passo avanti per soddisfare i bisogni alimentari di chi non ha “abbastanza” cibo, anche perché le sue terre sono sfruttate per far ingrassare i “primi mille” milioni di terrestri. L’igiene personale è un bisogno fondamentale per fermare le epidemie che uccidono ogni anno quei milioni di persone, soprattutto bambini, che sguazzano nelle pozzanghere di rifiuti per mancanza di gabinetti, mentre tanti, fra i ”primi mille”, dispongono di gabinetti raffinati e vasche e idromassaggi ad alto consumo di acqua e di energia. Gli esempi possono continuare per altri bisogni essenziali: salute, acqua pulita, istruzione, abitazioni decenti, eccetera.

Per assicurare “abbastanza” beni essenziali ai poveri e poverissimi occorrono tecnologie appropriate, chimica, innovazioni, una “ingegneria della carità” da cui verrebbero anche numerose e durature occasioni di lavoro e di impresa. Non si tratta di fare delle opere buone; se non saranno attenuate le disuguaglianze, anche attraverso un contenimento degli sprechi dei “primi mille” milioni, gli “ultimi duemila” milioni chiederanno di eliminarle con la violenza. La lotta alla disuguaglianza è (sarebbe) interesse anche dei ricchi.

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Nel corso di diecimila anni gli esseri umani hanno ricavato beni utili da esseri viventi vegetali e animali con tecniche, spesso anche molto raffinate... (continua a leggere)

Nel corso di diecimila anni gli esseri umani hanno ricavato beni utili da esseri viventi vegetali e animali con tecniche, spesso anche molto raffinate, che chiamerei senz’altro biotecnologiche: hanno usato il legno come combustibile e materiale da costruzione; hanno imparato a far fermentare e a cuocere il pane; con la fermentazione degli zuccheri hanno prodotto bevande alcoliche; hanno imparato a conservare la carne col sale o col caldo o col freddo, a seconda dei climi, a estrarre coloranti e fibre tessili da molte piante e animali, e cuoio dalla pelle degli animali macellati. Anzi la chimica e la biologia sono nate come scienze proprio dai tentativi di comprendere e perfezionare tali processi naturali. Ancora oggi gli alimenti, usati dai sette miliardi di persone del mondo in ragione di circa dieci miliardi di tonnellate all’anno, vengono dalla trasformazione di esseri viventi, vegetali o animali.

Molte delle materie prime naturali richieste dalla crescente industria dei paesi emergenti, Europa e poi Stati Uniti, provenivano, però, dai campi di paesi coloniali lontani nei quali serpeggiavano aspirazioni di indipendenza: cotone dall’Africa, carne dall’Argentina, indaco dall’India, gomma dal Brasile e dall’Indocina. I chimici dei paesi industriali si misero perciò di buona lena a cercare di produrre dei surrogati partendo dai combustibili fossili esistenti sul posto: carbone in Europa, petrolio in America, e per circa un secolo, dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento, la parola magica è stata: “sintetico”. “Sintetico” rappresentava la rivoluzione, l’aspirazione a liberarsi dalla schiavitù dei prodotti naturali. Il prof. Giuseppe Testoni tenne la prolusione al corso di Merceologia nell’Università di Bari nel 1929 con una conferenza dal titolo Le merci sintetiche e lo stesso titolo scelsi per la prolusione al mio corso di Merceologia nella stessa Università nel 1959.

Con la scoperta dell’”ecologia”, dagli anni sessanta del Novecento, si è visto che i prodotti sintetici, in quanti estranei alla natura, non erano biodegradabili, anzi erano fonte di inquinamento delle acque, che l’uso dei combustibili fossili era fonte di inquinamento atmosferico e dei relativi mutamenti climatici. Il concetto di “sintetico” è stato parzialmente sostituito dalla nuova parola magica “bio”: tutto quello che è bio è nuovo e buono e ecologicamente virtuoso e lo sanno bene molti venditori che appiccicano il prefisso “bio” a tutto quello che capita. “Biotecnologia” è il nome dato ai processi che dovrebbero salvare il pianeta producendo merci alternative a quelle sintetiche e prive degli inconvenienti prima ricordati.

La svolta si è avuta probabilmente con i tentativi di sostituire i carburanti per autoveicoli di origine petrolifera con alcol etilico ottenuto da zucchero o amido, usando tecniche microbiologiche note da millenni. Tali tentativi, favoriti dagli agricoltori che potevano così smaltire eccedenze agricole e usufruire di sovvenzioni statali, hanno incontrato l’opposizione sia dell’industria petrolifera, che temeva di vedere ridotte le vendite di benzina e gasolio, sia dei movimenti ecologisti che hanno accusato i sostenitori dell’alcol carburante di bruciare nei motori delle auto, un prodotto ricavato da materie agricole che avrebbero potuto sfamare gli abitanti dei paesi poveri. Come alternative alle materie plastiche petrolifere. che restano indistruttibili, nei rifiuti e nei fiumi e nel mare, sono stati studiati processi per ottenere, da sottoprodotti agricoli, le “bioplastiche” che dovrebbero essere biodegradabili e decomponibili, più o meno presto, nel suolo.

Nello stesso tempo, dagli anni sessanta del secolo scorso si è scoperto che, attraverso la conoscenza della struttura genetica degli esseri viventi, era possibile modificare artificialmente il patrimonio genetico di piante utili per renderle resistenti agli agenti esterni, ai parassiti, alla siccità, ai pesticidi, e per aumentarne le rese nei campi. E’ nata la ingegneria genetica che permette, a molte imprese di “vendere” sementi brevettate, di piante geneticamente modificate (OGM), agli agricoltori che vogliono godere dei vantaggi della loro coltivazione. Questa “biotecnologia” ha stravolto l’agricoltura di molti paesi del mondo e ha fatto sollevare dubbi sulla innocuità degli alimenti derivati da piante OGM (come è quasi tutto il mais che l’Italia importa per l’alimentazione del bestiame) e degli animali che se ne nutrono. Sono però così nati anche nuovi problemi analitici e merceologici, come la necessità di disporre di tecniche che consentono di riconoscere se un alimento contiene, o è privo di, parti provenienti da organismi OGM.

Un dibattito che vede acidamente contrapposti studiosi che sostengono le virtù degli alimenti derivati da vegetali e animali OGM, e altri che ne contestano la utilità non solo sul piano della salute dei consumatori, ma anche sul piano umano e sociale; le coltivazioni con piante OGM fanno concorrenza a quelle ottenute con sementi tradizionali, più rispettose della biodiversità.

Vi sono infine le biotecnologie per le coltivazioni “naturali” o “biologiche”, senza impiego di concimi artificiali, pesticidi, sementi OGM, e per gli allevamenti di animali nutriti soltanto con mangimi di coltivazioni biologiche. I relativi alimenti “bio” sono più apprezzati da molti consumatori e anche qui si presentano problemi analitici per riconoscere se gli alimenti venduti come “biologici” sono stati realmente ottenuti in conformità con le norme.

Il cammino delle varie biotecnologie è appena iniziato e sta mobilitando nuove ricerche di chimica, biologia, microbiologia e merceologia. Davvero la natura e la vita sono le vere fonti di cose utili, purché se ne rispettino le ineludibili leggi.

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Dagli anni ottanta del Novecento le chiese cristiane stanno dedicando attenzione ai problemi della difesa della natura e dell’ambiente, della pace ... (continua a leggere)

Dagli anni ottanta del Novecento le chiese cristiane stanno dedicando attenzione ai problemi della difesa della natura e dell’ambiente, della pace e della giustizia; tale attenzione è andata crescendo a mano a mano che si sono fatti più vistosi i segni della violenza delle attività umane contro l’ambiente, confermati, in questi ultimi anni, dagli eventi climatici disastrosi che hanno colpito tante parti della Terra e che sono imputabili al lento continuo riscaldamento del pianeta. Una attenzione che ha ricevuto nuovo impulso con la recente enciclica di Papa Francesco, Laudato si’ che ha trattato in maniera organica e unitaria le radici e i rimedi della crisi, non solo climatica, del pianeta Terra, nella società industriale e consumistica odierna.

Questo fermento si sta diffondendo anche nei seguaci delle religioni non cristiane. Il 17-18 agosto scorso, per esempio, si è tenuta a Istanbul una riunione di credenti musulmani che hanno redatto una Dichiarazione islamica sulle modificazioni climatiche mondiali, anche in vista della conferenza internazionale che si terrà a Parigi nel prossimo dicembre alla ricerca di azioni comuni per rallentare il riscaldamento planetario. In Europa abbiamo dell’Islam una visione miope sulla base delle violenze manifestate da gruppi che dichiarano di parlare in nome dell’Islam, e dei conflitti politici e militari fra comunità sunnite (circa 85 percento dei credenti musulmani) e sciite (circa 15 percento dei credenti). Ma il mondo musulmano conta 1600 milioni di credenti, la seconda religione dopo quelle cristiane con 2000 milioni di credenti di cui 1200 milioni cattolici. I credenti nell’Islam hanno come riferimento il libro sacro del Corano, così come i cristiani hanno la Bibbia, e il Corano, come la Bibbia, comincia con la creazione dei cieli e della terra e di tutti i viventi da parte di un solo Dio (Allah, per i musulmani), che ha fatto bene tutte le cose, che sono buone. I beni della creazione appartengono a Dio e l’uomo ne è soltanto il custode (khalifah, nel Corano). Lo stesso concetto che si trova nel secondo capitolo del libro della Genesi: la Terra è stata data all”uomo” perché la coltivi e la custodisca. Una delle molte analogie fra i libri sacri delle due religioni monoteiste.

La dichiarazione islamica di Istanbul ricorda che il riscaldamento planetario, causa dei mutamenti climatici, è dovuto sia al crescente uso di combustibili fossili, sia alla distruzione delle foreste e ai mutamenti della struttura del suolo dovute alla estensione di monocolture per prodotti da esportare nei paesi industriali, fenomeni che si manifestano vistosamente, per esempio, in Indonesia, popoloso paese islamico. La dichiarazione passa poi ad elencare molte raccomandazioni di buon governo ambientale. E’ opportuno risparmiare l’acqua, anche questo un aspetto a cui sono sensibili molti paesi aridi abitati da musulmani, istituire delle aree protette di particolare valore naturalistico, riparare e riciclare le cose usate. La dichiarazione invita a vivere in modo frugale per consentire agli abitanti dei paesi poveri di avere accesso ad una maggiore frazione dei beni naturali e invita le organizzazioni economiche e produttive a diminuire i loro elevati consumi di risorse, la loro ”impronta ecologica”, e a finanziare una economia verde. Viene auspicato anche che si possa arrivare ad un uso al 100 percento delle energie rinnovabili, un tasto delicato dal momento che alcuni paesi islamici sono fra i maggiori produttori ed esportatori di petrolio, il cui uso è una delle principali fonti dei mutamenti climatici. E' comunque interessante che gli esponenti di comunità musulmane, nei cui paesi si hanno i maggiori contrasti fra pochi abitanti ricchissimi e moltitudini abitanti poverissimi, auspichino l’avvento di un nuovo modello di benessere.

L’enciclica e l’insegnamento di Papa Francesco vanno però al di là dei rimedi tecnici o finanziari per contrastare la crisi climatica e riconoscono le vere origini delle violenze ambientali nell’egoismo dei paesi industriali e consumisti, nella ineguaglianza nella distribuzione dei beni materiali, per cui i paesi poveri diventano sempre più poveri essendo costretti a vendere a basso prezzo sia le loro risorse naturali minerarie, agricole e forestali, sia i loro stessi abitanti, costretti a migrare per cercare condizioni decenti di vita. L’enciclica denuncia una politica focalizzata sulla crescita a breve termine, e i governi che, rispondendo a interessi elettorali, non si azzardano a irritare la popolazione con misure, come potrebbero essere più severe iniziative per la protezione dell’ambiente, per la sicurezza dei lavoratori e per i diritti degli immigrati, che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti esteri.

In un’altra occasione Papa Francesco ha detto che la vera ricetta per la crisi anche ambientale contemporanea, è offerta dalla solidarietà, che significa pensare, agire e anche lottare in termini di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni, far fronte agli effetti distruttori dell’impero del dio denaro. Pace, giustizia e salvaguardia del creato sono tre questioni del tutto connesse, che non si possono separare o trattare singolarmente. I problemi economici, sociali, umani, ambientali che abbiamo di fronte sono enormi, comportano il superamento di grandi contraddizioni ed egoismi, ma, come dice il Papa, “L’amore è più forte”.

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La lunga successione di settimane molto calde, interrotte da brevi tempeste improvvise, conferma che qualcosa sta cambiando... (continua la lettura)

La lunga successione di settimane molto calde, interrotte da brevi tempeste improvvise, conferma che qualcosa sta cambiando nel nostro pianeta. Aumenta la temperatura dei mari con mutamenti delle correnti, comparsa e scomparsa di specie marine, modificazioni del pescato; diminuisce la superficie dei ghiacci presenti sul pianeta con aumento del volume e diminuzione della salinità dei mari; cambia il ciclo planetario dell’acqua, per cui lunghe siccità mettono in ginocchio l’agricoltura e la vita in molte parti del pianeta, accompagnate da estesi incendi, mentre altrove piogge intense allagano campi e città.

Anche il nostro paese appare sempre più “fragile”; è il titolo di un recente libro del prof. Ugo Leone, docente di geografia nell’Università di Napoli e instancabile autore di scritti e libri sullo stato dell’ambiente in Italia e nel mondo. Il titolo completo è “Il rischio ambientale in Italia”, Carocci, 2015, e il libro ricostruisce le cause di tale fragilità italiana e planetaria da quando i nostri predecessori, pochi milioni di persone, sono diventati agricoltori e allevatori, fino alla rivoluzione industriale e tecnologica, iniziata dueento anni fa. Il progresso tecnico-scientifico ha permesso, al 20 percento degli attuali settemila milioni di terrestri, di avere case calde d’inverno e fresche d’estate, cibo e energia e merci, di muoversi e di conoscere altre persone e paesi e andare in vacanza. Purtroppo l’aumento del benessere economico e merceologico è inevitabilmente accompagnato da una modificazione dell’ambiente sotto forma di prelevamento dalla natura di acqua, minerali, rocce, combustibili, di diminuzione della superficie delle terre coltivabili e delle foreste, di immissione nella natura di fumi, liquidi inquinati, rifiuti solidi nocivi, di alterazione delle valli, delle colline e delle coste per far spazio a edifici e strade, spesso costruiti in luoghi che intralciano il moto naturale delle acque, con conseguenti frane e alluvioni.

Il libro del prof. Leone elenca l’aumento del rischio territoriale in Italia e soprattutto fornisce delle ricette per diminuirlo. La prima ricetta consiste nella necessità di conoscere la base fisica del territorio sui cui si svolgono le attività umane, e qui la geografia rappresenta un insostituibile strumento; la seconda consiste nel “prevedere e prevenire” un tema a cui è dedicata la seconda metà del libro, e nel comunicare l’esistenza dei rischi.

La conoscenza del rischio può, in molti casi, suggerire di “non fare”, nel nome della sicurezza presente e futura degli abitanti, certi interventi che sembrano desiderabili per il progresso economico, cioè per l’aumento del Prodotto Interno Lordo PIL italiano che invece impone di fare nuove opere e innovazioni e aumento delle produzioni e dei consumi di beni materiali. Per mettere a tacere chi chiede una maggiore precauzione nelle scelte economiche, i governi e gli imprenditori devono convincere i cittadini che molte delle denunce di rischi ambientali sono immotivate o sopravvalutano fatti poco rilevanti, o addirittura sono dovute ad ignoranza e ad un’irragionevole sfiducia verso il progresso scientifico e tecnico. Alcuni studiosi sostengono, per esempio, che le stranezze climatiche ci sono sempre state e non sono dovute ai gas immessi nell’atmosfera dalle centrali e dalle automobili, che le coltivazioni con piante geneticamente modificate producono alimenti del tutto sicuri, e anzi consentono di aumentare le rese agricole e quindi contribuiscono a sfamare le popolazioni povere, eccetera. E’ un delicato ed eterno scontro fra valori, quello del “benessere” attraverso l’aumento della produzione di merci e di denaro e quello del dovere di assicurare alle persone, oggi e in futuro, un mondo più sicuro.

Quasi mezzo secolo fa l’enciclica ”Populorum progressio”, sullo sviluppo dei popoli, di Paolo VI ricordava che: «Non basta promuovere la tecnica perché la terra diventi più umana da abitare» un pensiero ribadito ancora più energicamente nell’enciclica di Papa Francesco ”Laudato si’”. Da alcuni viene obiettato che i papi si occupino delle cose del cielo, perché delle cose della terra si occupano economisti e governanti e imprenditori; questi peraltro faranno bene a non sottovalutare, o irridere, le voci del dissenso perché non è detto che essi abbiano sempre ragione, che tutte le scelte del “fare” siano sempre “buone” e prive di effetti negativi.

Se è vero che in alcuni casi gli allarmi sono o si sono rivelati infondati, è altrettanto vero che si può fare un lungo elenco di scelte apparentemente “economiche” che si sono tradotte in disastri ambientali e anche finanziari. E’ troppo facile citare i fallimenti delle centrali nucleari e dei depositi di scorie radioattive: fra le scelte sbagliate ci sono strade che hanno tagliato le colline e sono state spazzate via dalle frane; villaggi turistici e quartieri urbani costruiti nei luoghi sbagliati e allagati da alluvioni; laghi artificiali che si sono riempiti di fango anziché di acqua; processi industriali che hanno provocato incendi e inquinamenti dell’aria e delle acque; inceneritori inquinanti e discariche di rifiuti che hanno avvelenato le falde idriche sotterranee. Ogni volta qualcuno aveva protestato ed è stato zittito come nemico dei governanti e del progresso. Il prof. Leone raccomanda giustamente una buona informazione per distinguere fra rischi reali e rischi immaginari; qualche volta qualcuno grida “al lupo al lupo” e il lupo non c’è, ma molte volte il lupo c’è davvero.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a la Gazzetta del Mezzogiorno

In generale sappiamo ben poco di che cosa sono fatti gli oggetti che usiamo continuamente; la pentola in cui cuociamo la pasta, l’automobile ... (continua a leggere)

In generale sappiamo ben poco di che cosa sono fatti gli oggetti che usiamo continuamente; la pentola in cui cuociamo la pasta, l’automobile con cui ci muoviamo, il cellulare o il tablet con cui comunichiamo, eccetera, contengono materie plastiche e metalli, della cui provenienza sappiamo ancora meno. Vengono dal fabbricante di pentole e automobili e cellulari, ovviamente, ma il fabbricante li ha prodotti a sua volta da idrocarburi e minerali estratti in paesi anche lontanissimi, da persone che non conosceremo mai, forse liberi lavoratori con salari equi e adeguata sicurezza, forse miserabili schiavi costretti a lavori estenuanti, lontani dalle loro case.

Qualcosa su queste condizioni di sfruttamento umano fu denunciata dal film Diamanti di sangue, del 2006, con Leonardo Di Caprio, che descriveva l’estrazione di diamanti, insanguinati, appunto, da parte di migliaia di lavoratori schiavi, nella repubblica africana della Sierra Leone. Meno note, ma altrettanto dolorose, sono le condizioni di lavoro in altre zone dell’Africa, in cui milizie locali si guerreggiano con armi acquistate col ricavato dalla vendita dei minerali estratti col lavoro infernale di minatori schiavi. Senza contare che questi metodi violenti di estrazione clandestina si lasciano alle spalle montagne di scorie tossiche per l’ambiente e le popolazioni locali.

A qualcuno, sia pure nel disinteresse generale, sta a cuore la diminuzione di tutta questa violenza umana e ambientale: il Palamento europeo, qualche settimana fa ha votato a maggioranza una risoluzione che impone agli industriali di denunciare se i metalli che usano provengono da minerali estratti in zone in guerra. E’ una iniziativa ispirata da una simile legge americana del 2010, e già alcune industrie, soprattutto nel settore dell’elettronica di consumo, dichiarano, come dimostrazione della loro correttezza e come occasione di pubblicità, che i loro prodotti non contengono “metalli insanguinati”. La risoluzione europea specifica che la denuncia riguarda gli importatori di stagno, tungsteno, tantalio e dei loro minerali, e di oro, provenienti da una zona dell’Africa equatoriale che comprende la parte orientale della Repubblica Popolare del Congo e i paesi limitrofi Burundi, Ruanda, Sud Sudan e l’Angola.

I minerali e i metalli specificati sono particolarmente importanti per i loro usi industriali e perché in parte provengono proprio dalla zona africana travagliata da conflitti locali. Il principale minerale di stagno è la cassiterite e lo stagno trova impiego nelle saldature e in molti prodotti chimici. Per la sua capacità di proteggere i metalli contro la corrosione, lo stagno è utilizzato per il rivestimento di sottili lamiere di acciaio: si ottiene così la banda stagnata, quella delle lattine per prodotti alimentari conservati; una lattina media di tonno in scatola o di conserva di pomodoro contiene da 100 a 200 milligrammi di stagno.

Il tantalio viene estratto dal minerale columbite-tantalite, il coltan, nel quale si trova insieme al niobio. Il tantalio è un metallo molto resistente alla corrosione, è buon conduttore del calore e dell’elettricità e viene usato nelle apparecchiature elettroniche come telefoni mobili, tablet, computers, e anche per la preparazione di speciali leghe per jets civili e militari.

Ancora più importante è il tungsteno che si trova in natura nei minerali wolframite, tungstato di manganese e ferro, e scheelite, tungstato di calcio; il suo principale uso è la preparazione del carburo di tungsteno, un materiale duro quasi come il diamante con cui si ottengono utensili da taglio per la lavorazione dei metalli, nelle escavazioni minerarie e per segare i blocchi di marmo. Leghe a base di tungsteno estremamente resistenti sono usate nella produzione di proiettili penetranti e delle corazze di navi e carri armati. Nel film Gilda (1946) il marito della bella Rita Hayworth era un avventuriero che, durante la II guerra mondiale, organizzava per i nazisti il contrabbando del tungsteno estratto dalle miniere sudamericane. Il tungsteno viene impiegato anche in leghe per le pale delle turbine degli aerei a reazione e delle centrali elettriche.

Infine l’oro, di cui esistono miniere ”insanguinate” nell’Africa centrale, serve per la fabbricazione di monete e di gioielli, ma soprattutto per le saldature nelle apparecchiature elettroniche. Ogni cellulare o tablet contiene circa 20-25 milligrammi di oro, una quantità che diventa grandissima se si pensa che la Unione Europea importa ogni anno 350 milioni di pezzi fra telefoni mobili e computers, e che in Italia si vendono circa 40 milioni di cellulari all’anno.

L’iniziativa del Parlamento europeo ha suscitato differenti reazioni: favorevoli da parte delle organizzazioni che si battono per i diritti umani e per la difesa dell’ambiente, le quali sperano che la diminuzione dei profitti delle bande in guerra contribuisca a ristabilire una qualche pace e a combattere la corruzione inevitabilmente associata al contrabbando delle preziose materie prime. Contrarie, e non fa meraviglia, le imprese che temono che le norme contro i “metalli insanguinati” facciamo diminuire i loro profitti e che tirano fuori anche la commovente preoccupazione per i minatori africani che potrebbero perdere la loro, sia pure supersfruttata, occupazione. L’iniziativa europea potrebbe essere una occasione per una maggiore informazione dei consumatori sui materiali impiegati in quello che comprano, materiali che “costano” acqua, energia, risorse naturali e anche fatica e dolore e spesso violenza. C’è anche della violenza nelle merci.

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Era mezzogiorno e mezzo quel 19 luglio di trent’anni fa e i villeggianti, in parte ospiti dell’ACLI (l’associazione cattolica lavoratori) di Milano...(continua a leggere)

Era mezzogiorno e mezzo quel 19 luglio di trent’anni fa e i villeggianti, in parte ospiti dell’ACLI (l’associazione cattolica lavoratori) di Milano, erano a tavola negli alberghi di Stava, frazione del Comune di Tesero in provincia di Trento, quando una valanga di circa 200.000 metri cubi di fango ha spazzato via la loro vita e quella di altri abitanti della zona, 258 in tutto. La massa di acqua e detriti era scesa su Stava, a 90 chilometri all’ora, in seguito alla rottura degli argini di due grandi bacini artificiali che si trovavano poco sopra il paese, pieni dei residui del lavaggio della fluorite estratta dalla vicina miniera di Prestavel.

La fluorite è il minerale costituito da fluoruro di calcio, impiegato come fondente nella produzione dell’alluminio e dell’acciaio, per la preparazione di ceramiche e per la produzione di composti chimici fluorurati. La fluorite greggia, estratta da quella e da altre miniere del Trentino, era frammista ad altri minerali; per purificarla la roccia veniva macinata in fine polvere e veniva sottoposta a lavaggio con acqua e agenti chimici sospendenti; per quella particolare miniera, in Val di Fiemme, venivano utilizzate le acque dei piccoli torrenti nei quali erano anche reimmesse le acque residue del processo.

La miniera di Prestavel aveva una lunga storia; era stata aperta nel 1935 in concessione alla Società Atesina per Esplorazioni Minerarie; nel 1941 la concessione era stata ceduta alla società Montecatini la quale, nel 1961aveva ottenuto l’autorizzazione a costruire un primo bacino di decantazione del fango di lavaggio della fluorite; nel 1969 era subentrata la Montedison che aveva ottenuto l’autorizzazione alla costruzione di un secondo bacino, più grande e a monte del primo. Nel 1974 la Montedison passò la concessione alla propria società Fluorite e fra il 1974 e il 1978 la miniera venne ceduta ad una società del gruppo ENI, la quale, infine, nel 1980 la trasferì alla società Prealpi Mineraria di proprietà di certi fratelli Rota. Questi passaggi di proprietà avrebbero avuto importanza nel processo aperto dopo il disastro per accertare le responsabilità della costruzione e dei controlli sulla stabilità dei due bacini e degli argini il cui crollo aveva provocato la fuoriuscita del fango e la morte di tante persone.

La tragedia di Stava ebbe allora grande risonanza nazionale, tanto più che era avvenuta quando era ancora vivo il ricordo e il dolore della tragedia del Vajont, del 1963, con la morte di duemila persone ed erano ancora in corso i lenti processi contro i responsabili, con il palleggio di responsabilità fra la Edison che aveva costruito la diga e il lago artificiale, l’ENEL che ne era diventata da poco proprietaria, gli imprevidenti progettisti che non avevano tenuto conto del pericolo che dal monte Toc, sovrastante la diga, potesse scendere nel lago la frana che fece sollevare l’onda di acqua e fango che, scavalcata la diga, aveva sepolto il paese di Longarone.

Anche nel caso di Stava ci fu un lungo e lento processo, con testimonianze e perizie, le famiglie delle vittime furono difese, fra gli altri, dall’avvocato Sandro Canestrini, che era stato il difensore delle famiglie dei morti del Vajont, oggi novantenne, e dal geologo Floriano Villa che mise in evidenza che il crollo dei bacini della miniera di Prestavel era stato la conseguenza di macroscopici errori di localizzazione e di costruzione. Nel corso del processo apparve che ne erano responsabili i vari proprietari della miniera, i dirigenti susseguitisi negli anni, i progettisti dei bacini, i tecnici degli uffici pubblici che, tutti, avrebbero dovuto vigilare e non lo avevano fatto. Il processo si concluse nel 1992 con una prima sentenza e nel 2003 con il ricorso in cassazione; furono condannati dieci imputati, ma nessuno fece mai un solo giorno di detenzione. Vi furono dei risarcimenti, ma quanto vale, in soldi, la vita umana ?

La catastrofe avvenne quando la miniera di Prestavel era ormai quasi esaurita e destinata alla chiusura, ma le scorie delle lavorazioni erano ancora li e forse vi sarebbero rimaste per sempre, se non ci fosse stato il tragico crollo degli argini dei bacini. Anche qui si trattava della coda avvelenata di una delle tante attività industriali le cui fabbriche sono scomparse lasciandosi dietro rifiuti e contaminazioni ambientali.

Se veramente si volesse pensare e operare in termini di sostenibilità, come è di moda dire adesso, lo Stato dovrebbe lanciare un vasto programma di informazione sulle attività industriali passate e presenti che generano e lasciano scorie pericolose di cui spesso, col tempo, si dimentica perfino la composizione. Sono quei “siti contaminati”, solo in parte identificati e la cui bonifica, pur imposta per legge, procede tanto lentamente.

Voglio concludere con le parole incise sulla lapide dei morti di Stava che fu benedetta da Giovanni Paolo II il 17 luglio 1988: “La loro perenne memoria sia di monito perché la superficialità, la noncuranza, l’approssimazione, l’incuria, l’interesse non debbano più prevalere sulla cura per l’uomo, la sacralità della vita umana, la coscienza delle personali responsabilità”. Parole commoventi che invitano a non dimenticare i morti di quella lontana mattina d’estate, ombre ormai nella fila delle migliaia di morti nelle fabbriche, nelle città, nei campi, uccisi nel nome del profitto.

Nei giorni scorsi è morto a 83 anni l’attore egiziano Omar Sharif, interprete di molti film di successo fra cui il Dottor Zivago (1965). Ma c’è un suo ultimo film che sarà in distribuzione nel prossimo autunno, 1001 invenzioni e il mondo di Ibn al-Haytham, dedicato al contributo dell’Islam alla cultura tecnico-scientifico mondiale. L’Islam, nato come movimento religioso monoteista, fondato da Maometto in Arabia, nel corso di tre secoli si era esteso dai confini con la Cina, a oriente, all’Europa e all’Oceano Atlantico a occidente. I musulmani governavano l’Egitto e i paesi dell’Africa settentrionale e occidentale, la Spagna e la Sicilia, il Medio Oriente, la Mesopotamia, la Persia, parte dell’Asia centrale, una grande “nazione” i cui popoli in breve raggiunsero un elevato livello di vita e di benessere economico.

L’Islam fu temuto e anche ammirato dall’Occidente cristiano medievale; San Francesco, mentre erano in corso le sanguinose crociate fra cristiani e musulmani, non esitò ad incontrare, con reciproco rispetto, nel 1219 il “nemico” Califfo al-Malik al-Kamil, lo stesso incontrato, dieci anni dopo, da Federico II, l’imperatore cristiano che ebbe ministri e soldati musulmani; per inciso Lucera, in provincia di Foggia, è stata a lungo una città ”saracena”. Nella loro “età dell’oro, dall’800 al 1200 dell’era cristiana, migliaia di studiosi musulmani hanno tradotto in arabo le opere degli scienziati greci, molte delle quali sconosciute nel mondo latino, e ne hanno rielaborato le conoscenze nel campo della matematica, della fisica, della medicina, dell’ingegneria. Ben presto molti di questi scritti sono stati tradotti dall’arabo in latino e, attraverso il mondo musulmano, la cultura greca è tornata, arricchita, in Occidente, ulteriormente diffusa poi dopo l’invenzione della stampa.

Gli abitanti di un così vasto territorio, in cui circolavano e si incontravano popoli diversissimi, avevano dovuto risolvere innumerevoli problemi tecnico scientifici ed ecologici; diffusero la coltivazione di nuove piante alimentari come la canna da zucchero (che arrivò fino in Sicilia) e nuove tecniche di trasformazione dei prodotti agricoli; per dare acqua ai campi e alle popolose città furono inventati metodi di sbarramento dei fiumi con dighe e di trasporto e sollevamento dell'acqua dai pozzi. Occorrevano macchine e fonti di energia e gli Arabi inventarono dispositivi per trasformare il moto rotatorio in moto lineare, quelle norie che sono sopravvissute fino a poco tempo fa nelle campagne pugliesi; e poi macchine azionate dall’energia del moto delle acque e dal vento, proprio le fonti rinnovabili di energia a cui siamo costretti a rivolgerci noi oggi, dopo aver dissipato enormi quantità di petrolio. Nelle città gli Arabi sapeva risolvere problemi di smaltimento delle acque usate e dei rifiuti; in difesa dell’igiene pubblica esistevano ospedali presso cui veniva praticata della medicina e chirurgia di avanguardia. Attraverso le traduzioni dall’arabo sono arrivate in Europa le conoscenze della chimica, il cui stesso nome deriva da una parola araba, come di derivazione araba sono i nomi degli alambicchi, dell’alcol, degli alcali, eccetera. Nelle città musulmane esisteva un servizio pubblico di repressione delle frodi alimentari; nel mondo islamico esistevano vivaci scambi commerciali anche fra paesi lontanissimi, e con le merci i viaggiatori musulmani hanno portato in Occidente le invenzioni cinesi della carta e della bussola, le spezie e la giada.

Dopo un lungo declino, da molti decenni, soprattutto con i profitti assicurati dal petrolio, in molti paesi islamici, pur con mille contraddizioni, stanno nascendo modernissime università, biblioteche, centri di ricerca scientifica e soprattutto sta nascendo un senso di orgoglio per il contributo che l’Islam ha dato alla civiltà universale.

Una ventina di anni fa è stato lanciato il programma “1001 invenzioni” (il numero si riferisce alle “Mille e una notte”, la famosa raccolta di racconti arabi) per ricordare le tante innovazioni di scienziati, medici e “ingegneri” arabi medievali, passate in Europa e che sono alla base di molte delle nostre conoscenze; tali invenzioni sono descritte in un bel volume illustrato che ha già avuto tre edizioni (non tradotto in italiano). In questo ambito è stato realizzato anche il film con Omar Sharif, citato all’inizio e dedicato ad Ibn al-Haytham (965-1040), il grande fisico e medico (noto in Occidente come Alhazen), a cui siamo debitori di scoperte fondamentali, come le leggi del movimento della luce, della rifrazione, cioè di come la luce “cambia di direzione” passando dall’aria all’acqua, le leggi della concentrazione della luce solare mediante specchi, proprio quelli usati oggi in molte grandi centrali solari, la scoperta della “camera oscura”, il fenomeno ottico alla base delle macchine fotografiche e cinematografiche, la struttura e la fisiologia dell’occhio, la soluzione di delicati problemi matematici. Un doveroso tributo in questo “Anno internazionale della Luce”.

A titolo di curiosità, nel millesimo anniversario della nascita di Alhazen, esattamente cinquant’anni fa, si tenne anche nell’Università di Bari una conferenza che fu poi trasformata in un lungo articolo pubblicato nella rivista Physis, fondata a Firenze da Vasco Ronchi (1920-2012), il grande studioso di ottica e di storia dell’ottica.

Il riconoscere il contributo dell’Islam alla nostra civiltà ha anche lo scopo di ricordare e insegnare che soltanto le conoscenze e il rispetto reciproco neutralizzano i conflitti politici ed economici e la violenza e fanno progredire i paesi, tutti, in questo mondo globalizzato.

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La mattina di lunedì 29 giugno, al buio, alle 4 di mattina, ora locale, le otto di sera di domenica a Roma, dall’aeroporto di Nagoya in Giappone...(continua)

La mattina di lunedì 29 giugno, al buio, alle 4 di mattina, ora locale, le otto di sera di domenica a Roma, dall’aeroporto di Nagoya in Giappone un uomo solitario si è avventurato sull’Oceano Pacifico per un volo di 8300 chilometri fino alle isole Hawaii, su un aereo che utilizza soltanto l’energia solare. Per il pilota, André Borschberg, è l’ottava tappa del giro del mondo sull’aereo Solar Impulse 2, un volo senza carburante iniziato a Dubai e che finirà a Dubai. Questa è la tappa più lunga e difficile: 120 ore, cinque giorni e cinque notti, di volo consecutivo, dormendo 40 minuti al giorno in due turni di venti minuti ciascuno. Da solo. Sarebbe facile ricordare l’ingenuo entusiasmo del Parini (ricordate: “Quando Giason dal Pelio, spinse nel mar gli abeti”, quel Giasone che aveva costruito la prima nave di legno per affrontare le onde tempestose del mare e scoprire nuovi paesi) per onorare il nuovo esploratore dell’ignoto, Étienne Montgolfier, che nel 1783 per primo si sollevò nel cielo appeso ad un pallone gonfiato di aria calda. O ricordare l’entusiasmo che accolse nel 1927 Charles Lindbergh al suo arrivo a Parigi dopo un volo solitario di 33 ore attraverso i 5800 chilometri dell’Atlantico su un fragile aereo ad elica. Anche se qualcuno potrà ricordare che, ”grazie” agli aeroplani, i tedeschi riuscirono a bombardare e spianare interi quartieri di Londra, o gli americani a distruggere Hiroshima con una bomba atomica, o ricordare i dannosi mutamenti climatici provocati, fra l’altro, dai “gas serra” immessi nell’atmosfera dalle migliaia di aeroplani civili e militari che affollano ogni giorno i cieli.

E’ la gioia e la punizione del destino dell’uomo da quando ha mangiato il frutto vietato dell’albero della conoscenza e della tecnica. La nuova sfida riguarda oggi la possibilità di percorrere i cieli usando l’energia solare al posto degli inquinanti carburanti derivati dal petrolio. L’energia solare ha l’inconveniente di avere una bassa densità, sufficiente per coltivare frumento nei campi e per coprire di foglie gli alberi, ma troppo poca rispetto al fabbisogno energetico delle macchine umane abituate al carbone o al petrolio. In termini di elettricità un metro quadrato di pannelli fotovoltaici fornisce, in un giorno d’estate, al massimo circa 1 chilowattora di elettricità e niente di notte e quasi niente quando il cielo è coperto.

All’impresa di costruire un aereo capace di fare il giro del mondo soltanto con l’energia solare si è dedicato l’ultimo, in ordine di tempo, dei Piccard, una famiglia di pionieri del volo e delle esplorazioni oceaniche. Nel 1932 August Piccard (1884-1962) ha stabilito il primato di altezza (17.000 metri) a bordo di un pallone aerostatico; il figlio Jacques Piccard (1922-2008) nel 1953 ha costruito, in collaborazione con i cantieri italiani, il batiscafo “Trieste”, un sottomarino abitato che nel 1960 ha stabilito il primato di profondità raggiungendo 11.000 metri nella fossa delle Marianne, nel Pacifico, il punto più profondo degli oceani. Bertrand Piccard, figlio di Jacques, dopo aver effettuato nel 1999 il giro del mondo in pallone senza scalo, si è dedicato alla costruzione di aerei alimentati con l’energia solare, capaci di volare sia di giorno sia di notte.

L’aereo Solar Impulse 2 è il risultato di molte innovazioni tecnico-scientifiche: si tratta infatti di un aereo molto leggero, circa 2300 chilogrammi, più o meno il peso di una auto di grossa cilindrata, con sottili ali lunghe 72 metri e aventi una superficie di circa 270 metri quadrati, ricoperta di 17.000 speciali celle fotovoltaiche capaci di produrre circa 350 chilowattore di elettricità solare al giorno. Fi giorno tali celle azionano quattro motori a elica elettrici, appesi sotto le ali, della potenza di circa 15 chilowatt ciascuno, più o meno quella di una grossa motocicletta. Per poter volare di notte, quando è assente la radiazione solare, una parte dell’elettricità prodotta di giorno dalle celle fotovoltaiche viene accumulata in quattro batterie a ioni di litio con elettrolita di speciali polimeri, del peso di 630 chilogrammi con una capacità di circa 150 chilowattore, in grado di erogare una potenza di 15 chilowatt, che fanno funzionare di notte i motori dell’aereo.

Nei voli lunghi il Solar Impulse 2 vola a 9000 metri di altezza di giorno, per catturare la massima quantità di energia solare, e a circa 2000 metri di altezza di notte, ad una velocità variabile fra 50 e 100 chilometri all’ora. Per il velivolo sono stati utilizzati nuovi materiali da costruzione in fibre di carbonio capaci di alta resistenza meccanica con il minimo peso e sono stati risolti problemi di aerodinamica.

Il pilota solitario ha aperto nuove strade le cui ricadute avranno effetti tecnici, economici e ambientali, sulla strada della liberazione dai combustibili fossili e dalla crescente emissione di gas responsabili dei mutamenti climatici.

Le televisioni mettono ogni tanto in circolazione un film del 1985 intitolato “Cinque minuti dalla fine”, del regista sovietico (allora esisteva ancora l’URSS) Andrej Končialovskij. La storia è presto detta: due detenuti, uno anziano e uno giovane, fuggono da un penitenziario e saltano su quattro potenti locomotive in movimento senza sapere che il guidatore è morto di infarto. Le locomotive corrono senza controllo; i dirigenti della compagnia ferroviaria non riescono a fermarle e possono solo dirottare il convoglio su un binario morto. Il detenuto anziano, interpretato da un eccellente John Voight (premio Oscar), si sfracella contro una montagna dopo essere riuscito a sganciare l’altra locomotiva su cui si trova il detenuto giovane che si salva, così, a “cinque minuti dalla fine”. Mi è tornato in mente questo film come metafora di quello che potrebbe succedere se continua lo sfrenato aumento della concentrazione nell’atmosfera di alcuni gas, come anidride carbonica, ossido nitroso, metano, composti clorurati e alcuni altri. Secondo l’opinione della maggior parte degli studiosi tali gas trattengono una parte del calore solare all’interno dell’atmosfera con conseguente riscaldamento anche degli oceani e dei continenti e crescenti mutamenti climatici, da siccità (ce n’è una catastrofica adesso in California) a improvvise piogge torrenziali.

L’aumento della concentrazione di tali gas (detti “gas serra” perché il riscaldamento planetario ha luogo con un fenomeno simile a quello che avviene nelle serre) è attribuito al crescente uso di combustibili fossili e a vari processi chimici industriali. Pertanto, se continuasse ad aumentare la quantità di fonti di energia e di merci prodotte e “consumate” dalla popolazione terrestre, aumenterebbero, in maniera crescente e irreversibile, la temperatura del pianeta, le bizzarrie climatiche e i conseguenti danni sotto forma di perdita di raccolti, di distruzione di edifici e strade, di innalzamento del livello dei mari con allagamento di zone costiere. Per rallentare tali danni e dolori futuri, bisognerebbe, perciò, diminuire i consumi di fonti di energia e di beni materiali, disturbando però, così, quella divinità intoccabile che è la crescita economica e merceologica.

Questa prospettiva non piace, anzi disturba molto, molte persone. Prima di tutto i venditori di carbone, petrolio e gas naturale, i quali vedrebbero compromessi i propri profitti; per lo stesso motivo non piace ai venditori di minerali, macchinari, prodotti chimici, alimenti, eccetera. E tutti questi hanno buon gioco nello spiegare che, se si desse retta alla tesi sopra esposta, milioni di persone perderebbero il lavoro. La proposta di mutamento non piace ai ricchi, naturalmente, che non vogliono rinunciare ad avere più beni di lusso, ma non piace neanche a molti abitanti dei paesi industriali che sono appena riusciti a possedere l’automobile e la casa, e piace ancora meno agli abitanti dei paesi poveri i quali chiedono di avere beni materiali per uscire dalla miseria e dall’arretratezza.

A conforto di questi scontenti molti scienziati sostengono che non sono le attività produttive e i consumi a modificare la composizione chimica dell’atmosfera. E che una tale modificazione, anche se esiste, non è responsabile di un riscaldamento planetario. E che, anche se tale riscaldamento ci fosse davvero, si tratterebbe di un fenomeno già verificato nel passato e niente di preoccupante perché il pianeta si adatterebbe con meccanismi di autodifesa. E che comunque, se non ci fosse un tale adattamento del pianeta ai mutamenti climatici, è possibile diminuirne, mitigarne, i danni con dighe, innovazioni nei macchinari e negli edifici, nell’uso del territorio, con progetti di “geoingegneria” (filtrando la radiazione solare con polveri immesse nell’atmosfera, aumentando la capacità degli oceani di assorbire l’eccesso di gas serra), insomma con la scienza e la tecnica. E, infine, che se i mutamenti climatici fossero davvero dovuti ai gas serra, è possibile continuare nel glorioso cammino dei consumi e degli affari ricorrendo a fonti energetiche che non emettono gas serra, come quelle solari e eoliche e, udite!, con l’energia nucleare.

Proprio per cercare una riposta alle preoccupazioni per i mutamenti climatici, nelle settimane scorse molti scienziati si sono riuniti presso le due Accademie pontificie, quella delle Scienze e quella delle Scienze sociali, e hanno concluso i lavori con una dichiarazione in cui si afferma che “l’azione umana, attraverso l’uso di combustibili fossili, ha un impatto decisivo sul pianeta. Se continuano le tendenze attuali, questo secolo sarà testimone di cambiamenti climatici senza precedenti e della distruzione dell’ecosistema, con conseguenze drammatiche per noi tutti”. Le cause sono state riconosciute nel massiccio uso di combustibili fossili da parte dei paesi ricchi mentre i danni climatici colpiscono maggiormente gli abitanti dei paesi poveri, nelle “pratiche agricole su scala industriale che stanno distruggendo ecosistemi”, nell’ampliamento delle disuguaglianze economiche e sociali.

Fra i rimedi gli scienziati riuniti in Vaticano suggeriscono “la tassazione e la regolamentazione degli abusi ambientali, l’imposizione di vincoli all’enorme potere delle imprese transnazionali e un’equa redistribuzione della ricchezza”. Gli scienziati finiscono con un messaggio di gioia e di speranza che sia possibile realizzare “un mondo più sano, più sicuro, più giusto, più prospero”. Molti attendono l’enciclica ecologica di Papa Francesco per avere qualche indicazione morale, più convincente della miope saggezza dei governanti, in grado di indurci a rallentare la corsa della locomotiva umana, oggi senza frenatore.

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L’unica applicazione “commerciale” dell’energia solare, capace, cioè di “far soldi” (che è l’unica cosa che molti chiedono al Sole), consiste nei pannelli fotovoltaici...(leggi tutto)

L’unica applicazione “commerciale” dell’energia solare, capace, cioè di “far soldi” (che è l’unica cosa che molti chiedono al Sole), consiste nei pannelli fotovoltaici, dispositivi capaci di trasformare, senza parti in movimento, la radiazione solare in elettricità. Sono quelle distese di pannelli che si vedono nella campagne, sui tetti di molte case e edifici, capaci di produrre circa 100-120 chilowattore di elettricità per ogni metro quadrato di superficie esposta al Sole, in un anno. “In un anno”, ma in quantità molto diverse a seconda delle ore del giorno e delle stagioni, a seconda che il cielo sia limpido o nuvoloso.

La possibilità di ottenere energia dal Sole dipende da una catena di rapporti commerciali che comincia con i produttori delle celle fotovoltaiche vere e proprie e dei pannelli, poi passa attraverso chi importa i pannelli, chi va a convincere i governanti ad assicurare incentivi finanziari, chi vende pannelli solari porta a porta promettendo sicuri guadagni, chi assicura il montaggio e la manutenzioni dei pannelli, chi vende i dispositivi capaci di trasformare l’elettricità a basso voltaggio, prodotta dai pannelli, nell’elettricità a 220 volts come vogliono i frigoriferi, i televisori, le cucine e gli scaldabagno elettrici. Infine la catena continua con chi predispone la “vendita” dell’elettricità solare, ad alto prezzo, alle società elettriche che in cambio cedono, quando il Sole è assente, a prezzi più bassi l’elettricità ai venditori solari; la differenza fra i due prezzi è pagata da tutti noi.

Il principale inconveniente dell’elettricità solare sta proprio nel fatto che essa viene prodotta di più nelle ore centrali della giornata e d’estate, quando è bassa la richiesta, ed è scarsa o assente nella notte e nei mesi invernali quando invece è elevata la richiesta da parte delle famiglie, degli uffici, delle fabbriche. La soluzione può essere cercata soltanto in un sistema capace di accumulare l’elettricità, a mano a mano che è prodotta, in modo da renderla disponibile quando è richiesta.

Le batterie di accumulatori sono dispositivi ben noti da oltre un secolo; ogni automobile ne ha una che viene ricaricata durante il viaggio e assicura l’elettricità per l’avviamento del motore fermo. Le batterie finora più comuni sono quelle a piombo e acido solforico. Con la diffusione della microelettronica è aumentata la domanda di batterie ricaricabili di piccole dimensioni e ciò ha stimolato la ricerca scientifica che ha portato all’invenzione, negli anni novanta del Novecento, delle batterie a ioni di litio ricaricabili.

Con diverse soluzioni sono così diventate disponibili batterie capaci di immagazzinare fino a 0,200 chilowattore di elettricità in un chilo di peso; dopo che è stata prelevata l’elettricità che essa contiene, la batteria può essere ricaricata, per esempio con l’elettricità prodotta di giorno dai pannelli fotovoltaici, ed è pronta a restituirne una parte in un momento successivo. Con le migliori batterie è possibile ripetere questi cicli di scarica-e-ricarica alcune migliaia di volte, poi la batteria va buttata via.

Proprio nei mesi scorsi è stata annunciata la produzione di batterie a ioni di litio, della dimensione di un frigorifero, capaci di immagazzinare fino a 7 chilowattore, più o meno l’elettricità consumata da una famiglia in un giorno. Una società americana ha annunciato la costruzione, nel deserto del Nevada, di una fabbrica capace di produrre queste batterie su larga scala. Sarebbe la soluzione rivoluzionaria: i pannelli solati darebbero liberati dal dover dipendere dalle grandi società elettriche per gli scambi di elettricità, dai capricci della politica che decide gli incentivi; la famiglie potrebbero godere di una autonomia elettrica, grazie all’energia solare.

Non solo; le nuove batterie consentirebbero il lancio delle automobili elettriche; con pochi minuti di ricarica, allacciata ad una presa di elettricità, una automobile elettrica potrebbe percorrere diecine o centinaia di chilometri, senza inquinamento, silenziosamente; vedremmo sorgere nelle strade “distributori” di elettricità simili a quelli odierni di benzina o gasolio, o si potrebbe ricaricare le batterie dell’automobile di notte nel garage di casa, magari con l’elettricità prodotta di giorno dai propri pannelli solari. Insomma, nuove automobili, nuove fabbriche, nuovo lavoro, minore inquinamento, minore consumo di petrolio.

Come in ogni grande innovazione ci sono però alcuni inconvenienti; per la fabbricazione delle nuove batterie occorrerebbero grandi quantità di litio, di cui esistono grandi riserve in Argentina, Bolivia, Cile; occorrerebbe cobalto, di cui il Congo Kinshasa, in Africa, contiene metà delle riserve mondiali; occorrerebbe grafite naturale e sintetica. Da una trappola all’altra? La natura non da niente gratis; solo l’ingegno è gratis ed ecco che altri laboratori e imprese stanno sviluppando batterie ricaricabili che utilizzano alluminio, al posto del litio, sfruttando la formazione di una differenza di potenziale fra un anodo (polo negativo) di alluminio e un catodo di grafite, a contatto attraverso soluzioni di cloruro di alluminio; i proponenti promettono che tali batterie potrebbero sopportare 7000 cicli di scarica-e-ricarica con una rapida ricarica in pochi minuti.

Con nuove batterie forse l’elettricità solare potrebbe liberarci dalle fonti energetiche fossili, aiutarci ad eliminare parte dell’inquinamento e delle cause del riscaldamento globale, contribuire, insomma, a realizzare quella società solare in cui tanti hanno (abbiamo) sperato. Il cammino è appena iniziato, aspetta altre scoperte e innovazioni e promette nuovo lavoro.

Anche quest’anno si celebra, sia pure in maniera sempre più fiacca e svogliata, la “Giornata della Terra”, “Earth Day”, per la quarantacinquesima volta ... >>>

Anche quest’anno si celebra, sia pure in maniera sempre più fiacca e svogliata, la “Giornata della Terra”, “Earth Day”, per la quarantacinquesima volta da quel 22 aprile 1970 che segnò l’inizio, di fatto, della "primavera dell'ecologia". Il 1970 arrivava dopo una lunga serie di proteste contro le esplosioni delle bombe nucleari nell’atmosfera; dai deserti africani, asiatici o dagli isolati atolli del Pacifico tali tests americani, russi, francesi, immettevano nell’aria elementi radioattivi che ricadevano poi anche a migliaia di chilometri di distanza, sulle terre coltivate e nelle acque. Era la stagione della protesta contro la diffusione planetaria dei pesticidi clorurati persistenti, come il DDT, e contro l’uso di erbicidi contaminati di diossina nel Vietnam; le città industriali erano afflitte da un traffico congestionato e la loro aria era oscurata dai fumi industriali; il petrolio copriva vaste superfici del mare.

In quella lontana primavera, in tutti i paesi industriali fu come se si aprissero gli occhi a un gran numero di persone: in un'epoca di grande sviluppo economico gli abitanti dei paesi industrializzati si accorsero improvvisamente che le fumose ciminiere delle fabbriche non segnavano l'avanzata del progresso, ma buttavano nell'atmosfera polveri e sostanze cancerogene e acidi che andavano a finire nei polmoni dei cittadini, nei fiumi, sui boschi. L'automobile, massimo segno del successo tecnologico, appariva improvvisamente come un “Insolent chariot”, l’arrogante veicolo che, invece di liberare l’uomo dai vincoli delle distanze, costringeva a muoversi a pochi chilometri all'ora, tutti in fila, in mezzo a un'atmosfera inquinata da fumi, metalli, veleni. La plastica, trionfo dell'industria chimica sintetica, era un bellissimo materiale ma, dopo l’uso, restava indistruttibile e copriva i mari, si fermava sugli argini dei fiumi, svolazzava per i campi coltivati. Il lavoro nelle fabbriche liberava grandi masse di persone dalla miseria secolare a prezzo di incidenti, avvelenamenti, morti, tanto che alcuni scrissero che "lavorare fa male alla salute".

Nella primavera di quel 1970 una nuova generazione di giovani, gli stessi delle lotte studentesche e operaie in California, a Parigi, a Berlino, a Milano, si accorsero che le Università, i grandi scienziati, il potere economico e politico, avevano tenuto nascosti gli aspetti negativi del "progresso" merceologico; furono scoperte parole magiche e sconosciute come "ecologia", che divenne domanda di un cambiamento verso un mondo meno violento e più ospitale per gli esseri umani. Anche in Italia in quel 22 aprile 1970 la Federazione delle Associazioni Scientifiche e Tecniche FAST di Milano, allora presieduta da Luigi Morandi, organizzò alla Fiera di Milano una grande conferenza internazionale i cui atti (L’uomo e l’ambiente: una inchiesta internazionale, Milano, Tamburini, 1971), purtroppo ormai una rarità bibliografica, conteneva un inventario delle forme di violenza contro l’ambiente.

La prima "giornata della Terra" stimolò un gran numero di persone --- giornalisti e studenti, professori e comuni cittadini --- a pensare, a leggere, a scrivere, a parlare di ecologia. Alcuni si permisero addirittura di spiegare quanto fosse poco attendibile il mitico “Prodotto interno lordo” come indicatore del benessere e dello sviluppo umano. In quella "giornata della Terra" di 45 anni fa sui muri delle città americane apparve un manifesto con una vignetta in cui Pogo, un opossum umanizzato, noto personaggio dei fumetti, guardava un ecologista che gettava per terra un foglio di carta straccia, e Pogo si chinava a raccoglierlo mormorando sconsolato: «Ho scoperto il nemico e il nemico siamo noi».

Anche oggi quante volte si vedono delle degnissime persone, eminenti nella loro professione, che si dichiarano fedeli amici dell'ecologia, ma poi fanno a gara per sfrecciare su ingombranti SUV e per costruire suntuose ville nei boschi, dopo aver tagliato gli alberi, o sulla riva del mare, dopo aver spianato le preziose dune. Ben presto la carica innovativa e “sovversiva” dell’ecologia si spense; il potere economico e finanziario spiegò bene che quelle dei guasti ambientali erano esagerazioni di frustrati pessimisti, che occorreva più energia a basso prezzo, che occorreva produrre e consumare più automobili, più merci, più plastica, diffuse l’illusione che la tecnica avrebbe risolto tutto.

Oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, la popolazione mondiale ha superato i 7000 milioni di persone, tre miliardi di nuovi consumatori in Asia e nell’America latina si affiancano ai due miliardi di abitanti dei paesi già industrializzati affannandosi a bruciare carbone e petrolio, a produrre macchine e merci, a immettere nell’atmosfera gas nocivi e che alterano il clima, a gettare nelle discariche e negli inceneritori, miliardi di tonnellate all’anno di rifiuti, oltre centocinquanta milioni di tonnellate ogni anno solo in Italia; residui di plastica galleggiano addirittura sugli oceani. In Italia grandi città costiere gettano tranquillamente le acque di fogna non trattate nel mare e nei fiumi; la fame di spazio e il rapido crescente ”consumo di suolo” per edifici, quartieri urbani, autostrade e veloci ferrovie, centri turistici, rende più fragili le colline e le coste, fa aumentare frane e alluvioni.

Se veramente amassimo “la Terra” forse bisognerebbe fermarsi e guardarsi intorno, recuperare la voglia di un nuovo, più giusto, rapporto degli esseri umani con le risorse naturali, con i beni della Terra. E magari rimettersi a studiare un po’ di buona ecologia, quella vera. Forse, come diceva Pogo, davvero il nemico siamo noi.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

In queste settimane l’opinione pubblica è in gran parte attenta all’orgogliosa marcia del paese verso l’Esposizione universale di Milano e c’è quindi poco spazio per alcuni >>>

In queste settimane l’opinione pubblica è in gran parte attenta all’orgogliosa marcia del paese verso l’Esposizione universale di Milano e c’è quindi poco spazio per alcuni pur importanti eventi internazionali. Per esempio il 27 aprile comincerà un mese di incontri per la revisione del Trattato di non-proliferazione nucleare (TNP), una sessione delle Nazioni Unite che si riunisce ogni cinque anni alla ricerca di qualche accordo per diminuire, e magari per mettere fine alla presenza di armi nucleari sul pianeta.

Con mille esplosioni di bombe nucleari nell’atmosfera e altre mille esplosioni di bombe nucleari nel sottosuolo, nella metà del Novecento, Stati Uniti, Unione Sovietica (oggi Russia), Francia, Inghilterra, Russia, Cina, Pakistan e India, si sono dati da fare per assicurare i possibili nemici di possedere le più devastanti armi di distruzione di massa: se un paese avesse aggredito l’altro, sarebbe stato a sua volta distrutto; è la dottrina della “deterrenza”. Al club atomico si è poi aggiunto Israele, forse la Corea del Nord, e altri paesi hanno tentato di costruire le proprie bombe atomiche.
Per indurre i paesi non-nucleari a non dotarsi di armi nucleari e per scoraggiare la circolazione o il furto di uranio e plutonio, nel 1970 è stato proposto e poi firmato e ratificato, da “quasi” tutti i paesi, il Trattato TNP. Era naturale che molti paesi, in questo turbolento mondo, si chiedessero perché alcuni potessero possedere armi nucleari vietate agli altri, per cui nel trattato fu inserito un “Articolo sei” che impegna tutti i firmatari ad avviare in buona fede azioni per l’eliminazione totale di tali armi, in maniera simile a quanto si era fatto con successo per l’eliminazione di altre armi di distruzione di massa, come quelle chimiche e batteriologiche.

Nel corso degli anni sono diminuite e cessate le esplosioni sperimentali nell’atmosfera o nel sottosuolo, ma solo perché sono stati inventati altri sistemi per controllare il “perfetto funzionamento” delle bombe nucleari esistenti. Delle sessantamila bombe nucleari esistenti nel mondo nel 1985 molte sono state eliminate e oggi ne restano “soltanto” circa 10.000, con una potenza distruttiva equivalente a quella di alcune centinaia di migliaia di bombe come quelle che spianarono Hiroshima e Nagasaki, esattamente 70 anni fa. Alcune bombe termonucleari B-61 americane sono localizzate anche in Italia a Ghedi (Brescia) e Aviano (Vicenza).
L’esplosione anche solo di alcune bombe nucleari creerebbe sconvolgimenti climatici, desertificazione, avvelenamento e morte su intere regioni; per questo nel 1996 la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha dichiarato illegale anche solo la minaccia dell’uso delle armi nucleari. Intellettuali, premi Nobel e uomini politici (gli americani Kissinger e altri nel 2007; D’Alema, Fini, La Malfa e altri in Italia nel 2008), ma soprattutto movimenti pacifisti ed ambientalisti hanno chiesto ad alta voce, e finora senza successo, “un mondo senza armi nucleari”.

Nel 2014 la piccola Repubblica delle Isole Marshall, 68.000 abitanti di un gruppo di atolli nel Pacifico, in cui gli americani fecero esplodere centinaia di bombe nucleari cinquant’anni fa, ha “fatto causa” agli Stati Uniti e ad altri paesi nucleari che, pur avendo firmato il TNP, hanno sempre evitato di ottemperare agli obblighi dell’”Articolo sei” di tale trattato e anzi hanno continuato a perfezionare i loro arsenali. Nel 2014 l’Austria ha redatto il testo di un “Impegno” per la totale eliminazione delle armi nucleari dal pianeta.

Il disarmo nucleare totale, oltre ad aumentare la sicurezza internazionale e far diminuire i ben noti pericoli di danni ambientali, ha risvolti economici rilevanti. Intanto ogni anno nei soli Stati Uniti vengono spesi centinaia di miliardi di dollari per l’aggiornamento, il perfezionamento e la manutenzione delle bombe nucleari, soldi che il disarmo totale farebbe risparmiare. Questo certo disturberebbe il vasto e potente complesso militare-industriale delle imprese che traggono profitti dalla produzione dell’uranio arricchito, del plutonio, dei composti di deuterio, gli ingredienti “esplosivi” delle bombe nucleari; simili attività sono fiorenti in tutti i paesi che possiedono armi nucleari e si capisce perché il disarmo incontra tanti ostacoli.
D’altra parte l’eliminazione totale delle bombe nucleari, oltre a garantire maggiore sicurezza internazionale e a scongiurare il pericolo di catastrofi umanitarie e ambientali dovute alla stessa esistenza di tali armi, offrirebbe la possibilità di avviare un gigantesco impegno industriale e di ricerca per le operazioni di smantellamento delle bombe esistenti e di messa in sicurezza di migliaia di tonnellate di “esplosivi”, radioattivi e velenosi per millenni, altamente pericolosi da maneggiare; sarebbe la più grande impresa economica, finanziaria e di occupazione di tutti i tempi. Chi volesse saperne di più trova molte informazioni nel recente libro, pubblicato dalle edizioni Ediesse a cura di Mario Agostinelli e altri, intitolato: Esigete ! un disarmo nucleare totale.

L’11 aprile di 52 anni fa Giovanni XXIII nell’enciclica “Pacem in terris” affermava: “Giustizia, saggezza ed umanità domandano che si mettano al bando le armi nucleari e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci”. Gli ha fatto eco papa Francesco nell’appassionato messaggio del 7 dicembre 2014 alla conferenza sulle conseguenze umanitarie delle armi nucleari ripetendo: “Un mondo senza armi nucleari è davvero possibile”. Che i governi partecipanti alla prossima riunione del Trattato di non proliferazione, ascoltino queste parole e si incamminino davvero verso un tale mondo nuovo.

In queste settimane l’opinione pubblica è in gran parte attenta all’orgogliosa marcia del paese verso l’Esposizione universale di Milano e c’è quindi poco spazio ...>>>

In queste settimane l’opinione pubblica è in gran parte attenta all’orgogliosa marcia del paese verso l’Esposizione universale di Milano e c’è quindi poco spazio per alcuni pur importanti eventi internazionali. Per esempio il 27 aprile comincerà un mese di incontri per la revisione del Trattato di non-proliferazione nucleare (NPT), una sessione delle Nazioni Unite che si riunisce ogni cinque anni alla ricerca di qualche accordo per diminuire, e magari per mettere fine alla presenza di armi nucleari sul pianeta.

Con mille esplosioni di bombe nucleari nell’atmosfera e altre mille esplosioni di bombe nucleari nel sottosuolo, nella metà del Novecento, Stati Uniti, Unione Sovietica (oggi Russia), Francia, Inghilterra, Russia, Cina, Pakistan e India, si sono dati da fare per assicurare i possibili nemici di possedere le più devastanti armi di distruzione di massa: se un paese avesse aggredito l’altro, sarebbe stato a sua volta distrutto; è la dottrina della “deterrenza”. Al club atomico si è poi aggiunto Israele, forse la Corea del Nord, e altri paesi hanno tentato di costruire le proprie bombe atomiche.

Per indurre i paesi non-nucleari a non dotarsi di armi nucleari e per scoraggiare la circolazione o il furto di uranio e plutonio, nel 1970 è stato proposto e poi firmato e ratificato, da “quasi” tutti i paesi, il Trattato NPT. Era naturale che molti paesi, in questo turbolento mondo, si chiedessero perché alcuni potessero possedere armi nucleari vietate agli altri, per cui nel trattato fu inserito un “Articolo sei” che impegna tutti i firmatari ad avviare in buona fede azioni per l’eliminazione totale di tali armi, in maniera simile a quanto si era fatto con successo per l’eliminazione di altre armi di distruzione di massa, come quelle chimiche e batteriologiche.

Nel corso degli anni sono diminuite e cessate le esplosioni sperimentali nell’atmosfera o nel sottosuolo, ma solo perché sono stati inventati altri sistemi per controllare il “perfetto funzionamento” delle bombe nucleari esistenti. Delle sessantamila bombe nucleari esistenti nel mondo nel 1985 molte sono state eliminate e oggi ne restano “soltanto” circa 10.000, con una potenza distruttiva equivalente a quella di alcune centinaia di migliaia di bombe come quelle che spianarono Hiroshima e Nagasaki, esattamente 70 anni fa. Alcune bombe termonucleari B-61 americane sono localizzate anche in Italia a Ghedi (Brescia) e Aviano (Vicenza).

L’esplosione anche solo di alcune bombe nucleari creerebbe sconvolgimenti climatici, desertificazione, avvelenamento e morte su intere regioni; per questo nel 1996 la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha dichiarato illegale anche solo la minaccia dell’uso delle armi nucleari. Intellettuali, premi Nobel e uomini politici (gli americani Kissinger e altri nel 2007; D’Alema, Fini, La Malfa e altri in Italia nel 2008), ma soprattutto movimenti pacifisti ed ambientalisti hanno chiesto ad alta voce, e finora senza successo, “un mondo senza armi nucleari”. Nel 2014 la piccola Repubblica delle Isole Marshall, 68.000 abitanti di un gruppo di atolli nel Pacifico, in cui gli americani fecero esplodere centinaia di bombe nucleari cinquant’anni fa, ha “fatto causa” agli Stati Uniti e ad altri paesi nucleari che, pur avendo firmato il NPT, hanno sempre evitato di ottemperare agli obblighi dell’”Articolo sei” di tale trattato e anzi hanno continuato a perfezionare i loro arsenali.

Nel 2014 l’Austria ha redatto il testo di un “Impegno” per la totale eliminazione delle armi nucleari dal pianeta. Il disarmo nucleare totale, oltre ad aumentare la sicurezza internazionale e far diminuire i ben noti pericoli di danni ambientali, ha risvolti economici rilevanti. Intanto ogni anno nei soli Stati Uniti vengono spesi centinaia di miliardi di dollari per l’aggiornamento, il perfezionamento e la manutenzione delle bombe nucleari, soldi che il disarmo totale farebbe risparmiare.

Questo certo disturberebbe il vasto e potente complesso militare-industriale delle imprese che traggono profitti dalla produzione dell’uranio arricchito, del plutonio, dei composti di deuterio, gli ingredienti “esplosivi” delle bombe nucleari; simili attività sono fiorenti in tutti i paesi che possiedono armi nucleari e si capisce perché il disarmo incontra tanti ostacoli.

D’altra parte l’eliminazione totale delle bombe nucleari, oltre a garantire maggiore sicurezza internazionale e a scongiurare il pericolo di catastrofi umanitarie e ambientali dovute alla stessa esistenza di tali armi, offrirebbe la possibilità di avviare un gigantesco impegno industriale e di ricerca per le operazioni di smantellamento delle bombe esistenti e di messa in sicurezza di migliaia di tonnellate di “esplosivi”, radioattivi e velenosi per millenni, altamente pericolosi da maneggiare; sarebbe la più grande impresa economica, finanziaria e di occupazione di tutti i tempi. Chi volesse saperne di più trova molte informazioni nel recente libro, pubblicato dalle edizioni Ediesse a cura di Mario Agostinelli e altri, intitolato: Esigete ! un disarmo nucleare totale.

52 anni fa, proprio un undici aprile, Giovanni XXIII nell’enciclica Pacem in terris affermava: “Giustizia, saggezza ed umanità domandano che si mettano al bando le armi nucleari e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci”. Gli ha fatto eco papa Francesco nell’appassionato messaggio del 7 dicembre 2014 alla conferenza sulle conseguenze umanitarie delle armi nucleari ripetendo: “Un mondo senza armi nucleari è davvero possibile”. Che i governi partecipanti alla prossima riunione del Trattato di non proliferazione ascoltino queste parole e si incamminino davvero verso un tale mondo nuovo.

Quella prima della Pasqua è celebrata dalla chiesa cattolica come “la domenica delle palme”. In questa festa viene ricordato il giorno...>>>

Quella prima della Pasqua è celebrata dalla chiesa cattolica come “la domenica delle palme”. In questa festa viene ricordato il giorno in cui Gesù torna a Gerusalemme per festeggiare la Pasqua, la festa ebraica che ricorda la liberazione del popolo d’Israele dall’Egitto con preghiere e pranzi in comune. Era un momento di grande popolarità per Gesù; la sua predicazione in varie parti della Palestina faceva sperare in una nuova liberazione dall’esosa Roma che opprimeva il paese con la collaborazione o tolleranza delle autorità religiose ufficiali, ostili, quindi a questo nuovo profeta. Una folla accoglie Gesù, come racconta l’evangelista Giovanni, agitando rami di palme, la pianta diffusa sul posto.

Quello che succede dopo è noto; il pranzo con gli amici, l’agguato dei nemici, la denuncia alle autorità romane, le perplessità del prefetto romano Pilato, le folle sobillate contro Gesù dai “sacerdoti”, la crocefissione. Nella tradizione cattolica la domenica “delle palme” prevede la benedizione di rami di piante, in Italia dell’ulivo che è diffuso nell’Europa meridionale. (Non so che cosa facciano benedire i cristiani in Germania o Svezia).

Pensando a questo rito mi risuonava nella mente lo stridio delle motoseghe che stanno tagliando gli ulivi del Salento, attaccati da un mortale parassita, e mi sono ricordato quando, settant’anni fa, sono venuto per la prima volta in Puglia. Proprio nel Salento mi hanno fatto vedere i tronchi contorti e bellissimi dei secolari ulivi, raccontandomi la leggenda che fossero così per la sofferenza del nume tutelare, il genius loci, che ogni ulivo portava dentro di sé. Chi sa che cosa pensa la divinità pagana ora cacciata via del tronco del suo ulivo, ridotto ad un fittone che emerge sconsolato dal suolo nel terreno dopo aver visto imbrunire a morte le foglie dal loro verde originale.

Sono state e vengono scritte innumerevoli pagine sulla epidemia che ha colpito gli ulivi del Salento e che minaccia di estendersi; chi è questo batterio Xylella, da dove viene, come è possibile fermarne la propagazione, come risarcire gli agricoltori, che cosa fare nelle terre abbandonate. Soprattutto è ora di interrogarsi su questa nuova manifestazione della fragilità dell’agricoltura: di quella pugliese, oggi, ma più in generale italiana, e, in tante diverse forme, dell’agricoltura mondiale.

Siamo alla vigilia della famosa esposizione universale EXPO 2015 di Milano che prometteva costruttive indicazioni su come nutrire il pianeta, anche se sembra si stia trasformando in una sfilata di ristoranti. Si sprecano parole come sostenibilità e biodiversità mentre nei paesi industrializzati, per motivi “economici” gli addetti in agricoltura sono ridotti a meno del dieci percento dei lavoratori e la stessa tendenza sta diffondendosi nei paesi emergenti.

Il rapporto fra l’uomo e la terra è sradicato dall’avanzata delle grandi monocolture di piante commerciali, dei pozzi petroliferi e delle miniere, delle fabbriche, dall’avanzata del cemento dei quartieri e delle rotaie delle ferrovie sempre più veloci, del catrame delle strade e autostrade e delle discariche di rifiuti. Questa transizione è spacciata per modernità, ma in pratica è governata dal potere finanziario sempre pronto ad abbandonare alla rovina le imprese, anche agroindustriali, di cui si è rapidamente appropriato al solo fine di arricchirsi. L’agricoltura speculativa altera, spesso irreversibilmente, gli equilibri ecologici, quelli che possono, solo loro, in maniera durevole, sfamare il mondo, con una agricoltura che ha bisogno di tempi lunghi e di paziente cura e amore.

Il passato, il presente e il futuro dell’agricoltura saranno esaminati in un convegno su “Le tre agricolture” che si terrà a Brescia, per iniziativa della locale Fondazione Luigi Micheletti, il 22 e 23 aprile, alla vigilia dell’apertura dell’esposizione di Milano. La prima agricoltura per diecimila anni ha assicurato il cibo nel rispetto degli equilibri fra piante, animali, suolo e acque, con il lento e faticoso lavoro umano, con ansie davanti ai pericoli di tempeste, grandine, alluvioni, siccità, con gioie nel momento del raccolto. Con la rivoluzione industriale i migliori salari per gli operai hanno attratto nelle città crescenti folle di agricoltori che hanno abbandonato le campagne. Si è avuta una rapida crescita della popolazione mondiale e per sfamarla è stato necessario lo “sfruttamento” intensivo delle terre, l’apporto di concimi artificiali e di pesticidi che hanno fatto aumentare la produzione agricola, ma a spese di un crescente inquinamento delle acque, della avanzata della siccità, dell’abbandono di colture tradizionali.

L’industria agroalimentare per soddisfare la domanda delle popolazioni urbane ha incrementato i commerci internazionali che hanno offerto maggiore varietà di cibo nelle tavole e incentivato in terre lontane coltivazioni estranee alla loro vocazione, con conseguenti erosione del suolo e cambiamenti climatici. Non sta risolvendo i problemi la seconda agricoltura, quella “biologica”, divenuta in molti casi una moda e ben presto esposta anch’essa a furbizie e frodi. Forse esiste una terza agricoltura, in gran parte da inventare, che riporti i lavoratori alla terra, non come passeggera passione, ma come necessità per “nutrire il pianeta” nel rispetto degli equilibri ecologici e dell’uso razionale delle acque, compatibile col clima e con le caratteristiche del suolo, con le leggi della natura. Perché, in fin dei conti, come scriveva il biologo Barry Commoner, «Nature knows best», la natura sa le cose meglio di noi.

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Il 13 marzo scorso Papa Francesco ha annunciato l’indizione di un Giubileo straordinario per il 2015-2016, un anno “santo” per ricordare al popolo di Dio...>>>

Il 13 marzo scorso Papa Francesco ha annunciato l’indizione di un Giubileo straordinario per il 2015-2016, un anno “santo” per ricordare al popolo di Dio l’importanza della misericordia. Un giubileo, come è noto, è ispirato a principi che il cristianesimo ha ereditato dall’Antico Testamento. Secondo la narrazione biblica Mosè, al ritorno dall’esilio dell’Egitto, intorno al 1200 avanti Cristo, fu ispirato da Dio a stabilire delle leggi per il popolo ebraico che stava tornando in Palestina; tali leggi sono poi state rielaborate nei tre o quattro secoli successivi e sono contenute nel libro del Levitico. In particolare il capitolo 25 dispone che, nella settimana, un giorno ogni sette debba essere dedicato al riposo, al “non fare”: è il sabato degli Ebrei, la domenica dei cristiani, il venerdì dei musulmani. Un anno ogni 50 doveva poi essere celebrato come anno di totale riposo.
Nell’anno del giubileo, che cominciava con un solenne suono del corno, in ebraico jobel (da cui giubileo), la terra non doveva essere coltivata, doveva essere lasciata “riposare” anche lei; una norma che aveva precisi motivi ecologici perché la terra coltivata a lungo in maniera intensiva diventa meno fertile e recupera le sostanze nutritive perdute interrompendo per qualche tempo la coltivazione. Nell’anno del giubileo chi si era appropriato della terra altrui doveva restituirla perché, come Dio ricorda nel versetto 23, “la terra è mia” e noi siamo ospiti di un bene non nostro. Inoltre dovevano essere liberati gli schiavi, quelli che per povertà erano stati costretti a vendere se stessi e la propria famiglia, e i poveri potevano riscattare le case che avevano dovuto vendere.
Ha senso ricordare queste norme così antiche ai cristiani del ventunesimo secolo ? Una lettura teologica e insieme ecologica del Giubileo è contenuta in una “lettera pastorale”, intitolata La Terra è di Dio, pubblicata alla vigilia del giubileo del 1975, da Giovanni Franzoni, abate della basilica di San Paolo fuori le Mura di Roma e poi ripresa dallo stesso Franzoni nel libro Lasciate riposare la terra alla vigilia del successivo Giubileo del 2000. Ha senso eccome: guardate a che cosa è ridotta “la Terra di Dio”; nel nome di quello che Papa Francesco chiama “il dio denaro” le terre dei contadini e agricoltori poveri vengono espropriate per dedicarle a coltivazioni e allevamenti intensivi, da parte di grandi proprietari terrieri o di multinazionali, con l’effetto di trarre grandi profitti gettando nella miseria e nella fame le popolazioni locali, di impoverire la fertilità dei suoli e di aumentare l’inquinamento delle acque con concimi e pesticidi.
Guardate le terre devastate dall’assalto per la conquista di minerali o di combustibili, invase da montagne di scorie quando le miniere e i giacimenti non producono più e da cimiteri di rifiuti quando le fabbriche vengono abbandonate. Guardate come i terreni sono asfaltati dalla speculazione edilizia per costruire edifici e quartieri per le classi abbienti; guardate i quartieri ridotti a squallidi agglomerati di poveri, privi di servizi, sede di violenza, alle opere che alterano il flusso naturale delle acque e accelerano l’erosione del suolo.
Le ricchezze da restituire agli antichi proprietari, caduti in miseria, sono quelle accumulate attraverso le ingiustizie sociali, economiche e commerciali all'interno dei paesi ricchi e nei rapporti economici fra paesi ricchi e paesi poveri del mondo. Per non parlare poi dell’invito alla liberazione degli schiavi; gli schiavi del XXI secolo sono i lavoratori pagati con salari di fame, quelli privati del lavoro, le persone costrette a migrare in paesi che le respingono, sono le minoranze etniche e gli immigrati sfruttati e emarginati nei paesi che si dicono cristiani, le famiglie prive di una abitazione dignitosa. Questi sono i mali che dovrebbero essere rimossi da quella “misericordia” che il Papa invoca come motivazione dell’imminente anno santo.
Ma le nostre società pensano a tale evento in termini di soldi, a quei miliardi di euro che i milioni di “pellegrini” porteranno a Roma e in Italia, utilissimi per l’economia nazionale e, naturalmente, per le tasche di alcuni. La stessa città di Roma si appresta alla imprevista invasione con strade dissestate, tombini intasati, rifiuti da smaltire, periferie miserabili, un traffico congestionato e scadenti servizi pubblici di trasporto. Eppure l’anno santo potrebbe essere l’occasione per ripensare i rapporti fra gli esseri umani e la terra e le risorse della natura, beni comuni di cui non ci si può appropriare senza arrecare danni al prossimo e alla natura stessa. Davanti ai segni sempre più vistosi di impoverimento e di contaminazione dell’ambiente sarebbe necessario avere il coraggio di "non fare", di rallentare e interrompere il loro sfruttamento, di usarli con equità e nel rispetto delle popolazioni locali.
Il Giubileo potrebbe essere l’occasione per riconoscere le nuove schiavitù, per provvedere all’accoglienza degli stranieri e degli immigrati, per assicurare abitazioni decenti a chi ne è privo, per garantire salari giusti. Se non lo si vuole fare per misericordia, per quella “compassione per i miseri” a cui dovrebbe essere dedicato il prossimo Giubileo, sarà bene farlo per motivi egoistici, per disinnescare la violenza, interna e internazionale, che agita gli schiavi del XXI secolo; la giustizia è infatti l’unica premessa per la pace, come diceva, inascoltato, il profeta Isaia.
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Fukushima? Ho provato a chiedere in giro e alcuni non sanno di che cosa si tratti, alcuni ricordano che deve essere qualcosa che ha a che fare con il nucleare...>>>

Fukushima? Ho provato a chiedere in giro e alcuni non sanno di che cosa si tratti, alcuni ricordano che deve essere qualcosa che ha a che fare con il nucleare. Eppure quell’11 marzo di quattro anni fa, alle due del pomeriggio ora locale, un fortissimo terremoto nel Mare del Giappone, proprio davanti alle coste di Fukushima, ha provocato una delle più grandi tragedie industriali della storia e ha fatto crollare un mondo di affari e illusioni.

Il terremoto fece sollevare l’acqua marina in una onda alta 15 metri (tsunami, le chiamano) che ha invaso la terra ed è penetrata nella centrale nucleare della cittadina. L’acqua di mare ha allagato e interrotto il funzionamento delle pompe di circolazione dell’acqua di raffreddamento dei tre reattori in funzione; immediatamente sono intervenute le barre che fermano il flusso dei neutroni e la fissione nucleare. Per la mancanza di acqua i reattori però hanno continuato a scaldarsi per il calore liberato dal decadimento spontaneo delle diecine di tonnellate di materiali radioattivi, uranio, plutonio e prodotti di fissione, contenuti nel loro nocciolo che è fuso. Il calore ha provocato la formazione di idrogeno che è esploso distruggendo le strutture di acciaio e cemento contenenti i tre reattori con dispersione nell’ambiente delle sostanze radioattive.

I soccorritori si sono trovati davanti a rottami, aria, terreno e acque contaminati; ci sono stati episodi di coraggio e di sacrificio di operai e tecnici che si sono esposti ad alta radioattività per riattivare la circolazione dell’acqua dell’oceano in modo da disperdere almeno una parte delle sostanze radioattive nel grande mare, evitando conseguenze che avrebbero colpito un gran numero di abitanti dell’intero Giappone.

La fusione del nocciolo dei reattori è il grande pericolo temuto dai costruttori di impianti nucleari, un evento, considerato quasi impossibile e che invece si è verificato tre volte in 15.000 anni-reattore, il numero di anni di funzionamento per il numero dei reattori funzionanti, oggi circa 450. Infatti è successo nel 1979 in un reattore americano, senza contaminazione radioattiva esterna (la radioattività era stata trattenuta all’interno del reattore); poi è successo ancora nel 1986 nel reattore a Chernobyl in Ucraina, con incendio e liberazione di radioattività nell’aria; tale radioattività si era sparsa su parte dell’Europa (era arrivata anche nell’Italia settentrionale). In seguito a questo incidente, peraltro previsto dai movimenti antinucleari, in Italia si tenne nel 1987 un referendum che, a larga maggioranza, impose la cessazione delle attività nucleari in Italia.

Dopo Chernobyl è rallentata la costruzione di nuove centrali in tutto il mondo, ma la potente industria nucleare ha lentamente ripreso fiato; di due centrali, dichiarate ultrasicure, progettate in Francia è stata iniziata la costruzione in Finlandia e in Francia. La cosa sembrava così allettante che nel maggio 2008 il IV governo Berlusconi, appena insediato, annunciò di voler costruire anche in Italia centrali nucleari di “nuova generazione" capaci di "produrre energia su larga scala, in modo sicuro, a costi competitivi e nel rispetto dell'ambiente". Ci furono accordi fra le società elettriche Enel italiana e Electricité de France, francese, e poi leggi e decreti che avrebbero dovuto regolare le localizzazioni delle future centrali e garantire la sicurezza attraverso nuove agenzie.

Nel 2010 il movimento antinucleare depositò una richiesta di referendum per l’abrogazione di tali leggi; contro il referendum, fissato per il giugno 2011, nel gennaio-febbraio dello stesso anno ci fu una forte propaganda filonucleare; nel marzo la catastrofe di Fukushima dimostrò ancora una volta la fragilità della tecnologia nucleare. L'alta partecipazione al referendum del successivo giugno e la grande maggioranza antinucleare fecero tramontare del tutto, di nuovo, il sogno del nucleare italiano. Per fortuna, perché oggi i famosi reattori francesi ultrasicuri sono ancora da completare e non si sa quando entreranno in funzione.

Comunque le industrie nucleari non mollano, sostenendo che solo il nucleare può far diminuire i pericoli dei mutamenti climatici dovuti al crescente uso di carbone e petrolio e può far fronte ad un aumento del prezzo del petrolio; l’agenzia internazionale per l’energia ha di recente previsto che possa essere necessaria, da oggi al 2050, la costruzione nel mondo di altre 400 centrali nucleari: una previsione assurda sul piano della disponibilità delle risorse naturali, della sicurezza dell’ambiente e ancora più sul piano economico, soprattutto davanti al trionfale cammino delle fonti energetiche rinnovabili.

Queste brevi considerazioni si propongono di dimostrare quanta cautela occorra nelle scelte dei governi in materia di energia e di materie prime; molte tecnologie, dietro promesse meravigliose, nascondono spesso delle trappole da cui poi è difficile uscire. E’ il caso delle fonti di energia fossili, le cui riserve non sono illimitate e il cui crescente uso provoca inquinamento locale e contribuisce ad aggravare i mutamenti climatici a livello planetario. E’ il caso dell’energia nucleare che, anche quando non serve più, lascia delle scorie radioattive di cui è difficile liberarsi per secoli; lo dimostra il dibattito appena cominciato in Italia sul deposito delle diecine di migliaia di tonnellate delle scorie radioattive presenti nel nostro paese. Da qui l’importanza, a livello parlamentare, di un controllo tecnico-scientifico delle prevedibili conseguenze ambientali e sociali di scelte che, a prima vista, sembrano tanto promettenti.

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Durante il viaggio di ritorno dalla visita a Sri Lanka e alle Filippine del Papa Francesco, un giornalista tedesco gli chiesto la posizione della Chiesa ...>>>

Durante il viaggio di ritorno dalla visita a Sri Lanka e alle Filippine del Papa Francesco, un giornalista tedesco gli chiesto la posizione della Chiesa cattolica nei riguardi della contraccezione. Forse avendo ancora davanti agli occhi la situazione demografica dei paesi appena visitati, il Papa ha risposto: «Io credo che il numero di tre [bambini] per famiglia, che lei menziona, secondo quello che dicono i tecnici, è importante per mantenere la popolazione. Tre per coppia…. Per questo la parola-chiave per rispondere è quella che usa la Chiesa sempre, anch’io: è ‘paternità responsabile’... Alcuni credono che – scusatemi la parola – per essere buoni cattolici dobbiamo essere come conigli. No. Paternità responsabile».

Questo breve scambio di parole ha avuto varie reazioni nel mondo cattolico. Alcune persone hanno rivendicato la gioia e virtù delle famiglie numerose; altre hanno ribadito il divieto dell’uso di tecniche di contraccezione, al di fuori dell’astinenza dei coniugi dai rapporti sessuali nei periodi di fertilità femminile. Il concetto di “paternità responsabile” risale all’enciclica Humanae vitae emanata dal Papa Paolo VI nel 1968, nel pieno di un vasto dibattito internazionale su uno degli aspetti centrali dell’ecologia: il ruolo della crescita della popolazione sull’impoverimento delle risorse naturali e sul degrado ambientale.

Il problema è stato trattato per la prima volta in un famoso libretto, Saggio sulla popolazione, pubblicato anonimo da Thomas Malthus (1766-1834) nel 1798. Davanti alla constatazione che la popolazione povera che stava affollando le città industriali inglesi aumentava più rapidamente di quanto aumentasse la produzione di alimenti, Malthus contestò l’assegnazione di piccoli contributi alle famiglie povere, sostenendo che non era giusto spendere soldi pubblici per aiutare persone che mettevano al mondo figli senza essere in grado di assicurargli almeno il cibo.

Il dibattito sui rapporti fra popolazione e “cibo” continuò per tutto l’Ottocento e poi nel Novecento. Alcune comunità cristiane erano più disponibile ad un controllo dell’aumento della popolazione mentre la parte cattolica era più intransigente nella interpretazione letterale del ventottesimo versetto del primo capitolo della Genesi, in cui Dio ordina all’uomo e alla donna: ”Crescete e moltiplicatevi”. Un imperativo che era comprensibile per il popolo ebraico, poco numeroso in un paese abitato da numerosi nemici, ma che pone problemi economici e anche pratici davanti allo spettro della scarsità di alimenti, di spazi coltivabili, di minerali e fonti di energia, il “cibo” di una società moderna, richiesti da una crescente popolazione mondiale.

Il problema si fece ancora più acuto dopo la seconda guerra mondiale; un mondo (di 2,3 miliardi di persone nel 1945), stremato dalla guerra affidava ai figli il proprio futuro. Il “pericolo” di un aumento della popolazione, soprattutto dei poveri e dei paesi sottosviluppati, fu denunciato dall’ecologo William Vogt (1902-1968) nel libro La via per la sopravvivenza del 1948 e, nello stesso anno, dal libro Il pianeta sovraffollato del biologo Henry Fairfield Osborn Jr. (1887-1969). Nel 1954 fu annunciata la scoperta della “pillola”, messa in commercio nel 1960, che consentiva rapporti sessuali senza il concepimento di figli ad offriva un facile ed economico mezzo per quella limitazione delle nascite auspicata nei libri, entrambi del 1966, di Paddock: Fame ! 1975, e di Paul Ehrlich: La bomba della popolazione.

L’economista cattolico britannico Colin Clark (1905-1989) reagì stizzosamente a questa ondata di neomalthusianesimo americano sostenendo, in un saggio del 1967, la (peraltro improbabile) tesi che la Terra potrebbe sfamare diecine di miliardi, anche una quarantina, di abitanti. In questa atmosfera (la popolazione mondiale era già arrivata a 3,5 miliardi di persone) fu emanata l’enciclica Humanae vitae che, nel paragrafo 10 precisa: «La paternità responsabile si esercita, sia con la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione, presa per gravi motivi e nel rispetto della legge morale, di evitare temporaneamente od anche a tempo indeterminato, una nuova nascita. L’esercizio responsabile della paternità implica dunque che i coniugi riconoscano i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia dei valori».

I doveri verso la famiglia comprendono evidentemente quello di decidere il numero dei figli in modo da assicurargli delle condizioni decorose di vita, di istruzione, di salute, tutte cose che inevitabilmente comportano l’accesso a sufficienti alimenti, ad acqua pulita e ad abitazioni igieniche. A loro volta questi “beni” richiedono prodotti agricoli, cemento, ferro, energia, ottenibili impoverendo le ricchezze della natura e generando alterazioni del territorio e inquinamenti. E’ un dovere “verso la società” regolare la procreazione (e i consumi individuali) in modo da assicurare al “prossimo”, agli abitanti del pianeta, che oggi sono ormai più di 7 miliardi, condizioni dignitose di vita e di salute e limitati danni ambientali.

D’altra parte la limitazione delle nascite provoca un aumento, in proporzione, degli anziani, la parte più fragile della popolazione verso cui sorgono altri doveri. E neanche una società stazionaria, in cui siano più o meno uguali la natalità e la mortalità, proposta da alcuni, può durare a lungo essendo destinata al declino, con sollievo, forse, dell’ecologia, ma con quale destino per la nostra specie ? Un bel problema, per la politica di oggi e per le generazioni future, a cui sarà il caso di cominciare a pensare.

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La grande esposizione universale di Milano sta viaggiando verso l’imminente inaugurazione (che avverrà il prossimo Primo Maggio) ...>>>

La grande esposizione universale di Milano sta viaggiando verso l’imminente inaugurazione (che avverrà il prossimo Primo Maggio) in mezzo a vasti dibattiti che vanno dalle speranze di crescita del prestigio internazionale dell’Italia produttiva e dell’arrivo di soldi in modo da alleviare la nostra crisi economica, alle critiche sulla organizzazione e a domande su quello che succederà dei vasti spazi occupati dall’EXPO quando sarà finita. In questi dibattiti, a mio parere, si parla poco della vera finalità dell’esposizione che, come dice il nome, dovrebbe proporsi di ”esporre” i mezzi per raggiungere i grandi generosi obiettivi di “Nutrire il pianeta” e di assicurare “Energia per tutti”. L’EXPO 2015 rientra nel filone delle esposizioni e fiere merceologiche che si propongono di far conoscere e diffondere manufatti e tecnologie sviluppate nei vari paesi.

Per “nutrire il pianeta” occorrono trattori e concimi, processi per trasformare i prodotti dell’agricoltura e della zootecnia attraverso innumerevoli operazioni di conservazione e di modificazione fisica e chimica (si pensi alla trasformazione del latte in burro e formaggio, dei chicchi di grano in pasta e pane, delle carcasse degli animali in carne in scatola, dei pomodori in conserve, eccetera). E occorre acqua ricavata dalle sorgenti o distribuita dagli acquedotti, e energia, la merce per eccellenza ricavata da carbone o petrolio, da gas naturale o dal moto delle acque o dai pannelli fotovoltaici. E poi occorrono navi e camion che trasportano i prodotti ai supermercati e alle botteghe fino ai mercatini di villaggio, tutta una catena di scambi in cui si formano scorie e rifiuti inquinanti. Questa è la storia naturale del cibo che arriva alle famiglie e alla ristorazione collettiva.

Le esposizioni di merci hanno radici antichissime da quando i mercanti hanno cominciato a presentare le proprie merci sulle piazze dei villaggi e delle città; le fiere sono state, almeno dal medioevo in avanti, grandi eventi periodici che si svolgevano nelle città e radunavano venditori e acquirenti e curiosi, occasioni di informazione e di cultura, prima ancora che di vendita. Col passare del tempo questi eventi sono diventati vere e proprie esposizioni in cui i manufatti e i prodotti non sono venduti ma solo presentati e, direi, raccontati ai visitatori. La prima grande esposizione universale si ebbe nel 1851 a Londra, nel pieno della rivoluzione industriale e del successo imperiale della Gran Bretagna della regina Vittoria. Seguirono, con altrettante ambizioni, nella Francia del secondo impero di Napoleone III, le esposizioni di Parigi, del 1855 orientata ai prodotti industriali, e del 1856 orientata ai successi delle produzioni agricole francesi.

Da allora fu una corsa di ogni paese a organizzare esposizioni per far conoscere i propri progressi economici e tecnici; a Milano nel 1871 si tenne la prima “esposizione industriale” dell’Italia unita, il cui interessante catalogo è stato ristampato nel 2010 a cura dell’editrice “Milano città delle scienze”. Nel lungo elenco di esposizioni universali spicca quella di Parigi del 1889 per celebrare, ormai in età repubblicana, il centesimo anniversario della Rivoluzione Francese; fu l’occasione per mostrare al mondo, con la Torre Eiffel, tutta d’acciaio, il successo della tecnologia siderurgica e meccanica. La successiva esposizione di Parigi del 1900 fu adornata dalla illuminazione elettrica, altro trionfo della nuova fonte di energia e delle nuove lampade inventate dall’americano Edison. Tutto il Novecento è stato segnato da esposizioni tecniche e merceologiche, strumenti di diffusione dei progressi e della “potenza” economica dei paesi ospitanti.

Nel 1906 Milano volle la sua esposizione universale in occasione dell’apertura della galleria del Sempione, altro successo tecnico che avrebbe collegato l’Italia con i paesi industriali dell’intera Europa. Nelle strutture dell’esposizione fu creata, nel 1923, la sede permanente della ”Fiera di Milano”, l’evento annuale di primavera nel quale le industrie potevano mostrare al mondo le proprie novità. Il film di Camerini, Gli uomini che mascalzoni, del 1932, con De Sica, ancora trasmesso da qualche televisione locale, mostra l’atmosfera gioiosa e incantata dell’incontro popolare con la tecnica, con prodotti e macchinari, nella fiera “campionaria” di Milano. Anche Bari volle, nel 1929, una sua fiera “campionaria” in cui presentare le merci e i prodotti della Puglia, e che ospitava i prodotti di molti paesi africani e asiatici, “del Levante”, che si presentavano, in tali incontri annuali agli occhi del mondo. Come professore di Merceologia non mancavo, ogni settembre, di visitare la Fiera del Levante per farmi dare campioni di prodotti che venivano poi esposti nel museo merceologico dell’Università.

Adesso ci sono rigorose distinzioni fra esposizioni universali, ogni cinque anni, esposizioni internazionali, ogni tre anni, entrambe destinate a trattare particolari temi di interesse generale, manifestazioni diventate occasioni per congressi, ed esposizioni, spesso, più di uomini politici che di prodotti. Mi auguro che l’EXPO di quest’anno sia una occasione per “esporre” informazioni e notizie sui prodotti di terre e persone vicine e lontane, sul lavoro nei campi, nelle fabbriche, nei negozi e sul comportamento alimentare delle famiglie e delle mense, sulle contraddizioni, anche, delle varie forme dell’agricoltura. L’EXPO può, insomma, al di là degli aspetti spettacolari, svolgere, grazie alle merci, una straordinaria funzione culturale e, direi, educativa, diffondendo una conoscenza popolare dei problemi del cibo e dell’energia da cui dipende la vita quotidiana di tutti.

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Abbiamo ancora negli occhi gli orrori che ci sono stati ricordati in occasione del settantesimo anniversario della liberazione ...>>>

Abbiamo ancora negli occhi gli orrori che ci sono stati ricordati in occasione del settantesimo anniversario della liberazione, da parte dell’esercito sovietico, del primo dei campi di concentramenti e sterminio nazisti, quello di Auschwitz. In tale campo è stato prigioniero anche Primo Levi, il grande scrittore torinese, che era anche un chimico e che ha lasciato pagine indimenticabili sulla terribile esperienza. Un orrore nel quale sono state coinvolte, oltre alle SS, la milizia che aveva come simbolo il teschio della morte, ma anche molte persone apparentemente inappuntabili. I vari processi contro i responsabili dei crimini nazisti, svolti negli anni dal 1946 al 1948, hanno messo in evidenza che molte imprese commerciali e industriali hanno fatto soldi, e tanti soldi, fabbricando le strutture e gli apparati dei campi di sterminio e sfruttando le persone, donne e uomini, internate nei campi come mano d’opera gratuita in lavori durissimi, con poco cibo, al freddo.

Il nazismo aveva costruito una struttura industriale potentissima rivolta alla preparazione e poi allo svolgimento di una guerra che sarebbe durata cinque anni in tutta Europa, in Africa e negli oceani
del mondo. Gli uomini validi erano al fronte e l’apparato industriale doveva cercare operai portati via dai parsi occupati. Quando i tragici convogli ferroviari di prigionieri, ebrei, rom, partigiani, arrivavano nei campi di concentramento veniva fatta una selezione delle persone che avrebbero potuto lavorare allo sforzo economico. Questa mano d’opera, praticamente schiava, veniva ceduta alle industrie e agli agricoltori; esisteva uno speciale ufficio delle SS che si occupava della ”vendita” di questi lavoratori; i datori di lavoro pagavano un contributo alle SS per ogni schiavo. Oswald Pohl, il capo di questo speciale ufficio economico e amministrativo delle SS (WVHA), fu processato e giustiziato nel 1951.
Ci sono dettagliate descrizioni di questo vergognoso commercio di lavoratori impiegati nella costruzione di strade e gallerie, nelle cave, nei campi e nelle fabbriche. Un libro di William Manchester, I cannoni dei Krupp (1961), basato sugli atti del processo svoltosi a Norimberga contro questa potente famiglia, mostra come i proprietari della grande industria dell’acciaio, la potente famiglia Krupp (si proprio quella il cui nome è stato tramandato fino alla società che ha potuto acquistare le acciaierie di Terni e di Torino), fossero in grado di far funzionare a pieno ritmo i loro stabilimenti per la produzione di acciaio e di armamenti con il sangue e il dolore di migliaia di donne e uomini “acquistati” dai custodi dei campi di concentramento e sfruttati fino alla loro morte per sfinimento o malattie.
La I.G. Farben, un potente gruppo di industrie chimiche, aveva installato, nelle vicinanze del campo di concentramento di Auschwitz, per poter utilizzare gli internati del campo, un grande stabilimento per la produzione di gomma sintetica, partendo da calcare e carbone, e una fabbrica di benzina sintetica. Mano d’opera schiava veniva usata nella gallerie scavate nei giacimenti sotterranei di sale in cui erano costruiti e sperimentati i razzi V2. Il commovente film Schindler’s list racconta la storia vera dell’imprenditore Oskar Schindler, fabbricante di munizioni per l’esercito tedesco, che corruppe funzionari delle SS per ottenere deportati ebrei da far lavorare nel suo stabilimento al fine di sottrarli alla morte. Ma le imprese facevano affari anche con i campi di concentramento e si contendevano gli appalti per la costruzione delle baracche, delle camere a gas e del cianuro con cui venivano assassinati i deportati che “non servivano a niente”.
Sono sopravvissuti i verbali dei sopralluoghi di tecnici e operai che andavano nei campi per la manutenzione dei forni crematori. In questi giorni “della memoria” non ho visto proiettato un altro bel film, Vincitori e vinti, del 1961: un giudice (il bravissimo Spencer Tracy) di uno dei processi di Norimberga, quello contro i giudici nazisti, si sforza di capire come il popolo tedesco, il popolo che aveva generato tanti giganti della filosofia, della letteratura, della scienza, della musica, potesse aver assistito in silenzio agli orrori che si svolgevano tutto intorno.

La risposta generale è: «non sapevamo nulla» e la vedova (Marlene Dietrich) di un alto ufficiale nazista, cerca di spiegare (il film è ambientato nel 1948) che il popolo tedesco dopo la fine della guerra aveva il diritto, anzi il dovere, di dimenticare e di ricominciare a vivere. Si era alla vigilia (giugno 1948) del blocco sovietico della città di Berlino e il mondo sembrava alle soglie di una terza guerra mondiale, questa volta fra americani e sovietici, ex-alleati nella sconfitta del nazismo e gli americani avrebbero “avuto bisogno” dei tedeschi. Effettivamente, all’infuori dei pochi condannati a morte, tutti gli altri condannati per crimini nei vari processi, sono tornati presto in libertà e hanno ricoperto cariche importanti nell’economia mondiale.

La politica militare ha delle sue strane regole (im)morali; americani e russi, vincitori della Germania nazista non hanno esitato a reclutare i migliori ingegneri, tecnici e scienziati del paese vinto per impiegarli nei loro sforzi industriali in vista di un possibile scontro fra gli ex-alleati. Von Braun, il progettista delle V2 tedesche che avevano distrutto interi quartieri di Londra nella nemica Inghilterra, negli Stati Uniti progettò i razzi per l’aeronautica militare diventando apprezzato consulente delle industrie americane. Anche questo da ricordare.
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Difesa della natura, dell’ambiente, del paesaggio e dei beni culturali; sembra che ci sia tanta voglia di difendere, attraverso >>>

Difesa della natura, dell’ambiente, del paesaggio e dei beni culturali; sembra che ci sia tanta voglia di difendere, attraverso associazioni, movimenti, congressi, qualcosa che si potrebbe definire il “bene comune”, la base stessa della vita: il cielo limpido, il verde, gli animali allo stato naturale, la purezza delle acque. Il nemico è rappresentata dalla violenza della caccia, dall’invasione turistica dei boschi e delle coste, da inutili strade, da fabbriche che gettano nel cielo i loro fumi tossici, da discariche di rifiuti. Tale violenza genera frane e alluvioni, mutamenti climatici, morti premature, ma anche perdita di altri valori come la bellezza, il silenzio, il paesaggio, quello che il poeta inglese John Ruskin (1819-1900) ha definito il «Volto amato della Patria». Questa frase è anche il titolo del libro scritto dallo storico Luigi Piccioni dell’Università della Calabria, appena pubblicato dall’editore di Trento.

Piccioni comincia col mettere ordine fra le finalità dei vari movimenti protezionistici focalizzando l’attenzione sui movimenti per la difesa della natura e del paesaggio, arrivati in Italia molto presto, nella metà dell’Ottocento, sull’onda di opere apparse in altri paesi europei e negli Stati Uniti. I vari volumi del libro Il cosmo: descrizione fisica del mondo del grande geografo tedesco Alexander von Humboldt (1769-1859), apparsi nel 1845-1862, furono subito tradotti in francese e in italiano dall’editore Carlo Turati di Milano. Quasi contemporaneamente appariva la traduzione italiana del libro L’uomo e la natura scritto dall’americano George Marsh (1801-1882) che descrive le modificazioni della natura apportate dalle attività umane, osservate nei suoi lunghi viaggi in Europa, nel Mediterraneo e nell’amata Italia dove è morto.
Piccioni parte da questi e altri autori per esaminare gli effetti che i loro scritti hanno avuto sugli intellettuali di un’Italia da poco riunificata. Il paese, in gran parte ancora agricolo, è ricco di risorse naturali e di bellezze paesaggistiche che stanno per essere assaltate da una avida modernizzazione. Per far conoscere e salvare queste bellezze si ha, subito, dalla metà dell’Ottocento, un fervore di iniziative e pubblicazioni, come la rivista mensile L’Illustrazione Italiana (dal 1873), e il libro Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali, la geologia e la geografia fisica dell’Italia (1876) dell’abate Antonio Stoppani (1824-1891). Nel 1863 era nato il Club Alpino Italiano, una associazione di amanti della montagna e di escursionisti, e nel 1894 è nato il Touring Club Ciclistico Italiano, oggi Touring Club Italiano, col proposito di far conoscere l’Italia attraverso un turismo che sa usare la bicicletta, il nuovo agile e popolare strumento di mobilità. Il Touring Club comincia subito a pubblicare delle guide alle varie parti d’Italia, delle carte geografiche e una Rivista mensile, il cui numero 1 porta la data del 1895. Piccioni parla giustamente di questa fase come di una «pedagogia patriottica» di una «alfabetizzazione geografica del Paese».
Con la diffusione delle conoscenze dell’Italia appare anche che molte bellezze naturali e il paesaggio rischiano di essere compromessi da una affrettata modernizzazione. Piccioni passa in rassegna le molte iniziative dei primi quindici anni del Novecento intese a sollecitare interventi legislativi per la protezione della flora e della fauna e di alcune zone sensibili e di particolare valore come la Pineta di Ravenna. La speranza di una legge, simile a quella del 1909 sulla tutela dei monumenti, viene vanificata dalla prima “Guerra mondiale”. Nella “nazione ferita e impoverita” che esce nel 1919 dalla guerra studiosi e intellettuali riprendono subito a combattere in difesa dei valori naturalistici e paesaggistici e riescono ad ottenere nel 1922 la legge che istituisce il Parco del Gran Paradiso e la istituzione dell’Ente Parco di Abruzzo. Non riesce invece a decollare il progetto di un tanto auspicato “Catalogo delle bellezze naturali” la cui redazione è interrotta nei primi anni venti del Novecento. Piccioni analizza poi le attività ridotte del movimento naturalistico nel periodo fascista, una lunga agonia con barlumi di luce, e la ripresa degli interessi naturalisti dopo la Liberazione.
Il vivace fermento dei decenni precedenti ha comunque lasciato tracce profonde tanto che nella Costituzione del 1948 è stato inserito l’articolo 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Con la ricostruzione, il miracolo economico e una affrettata e talvolta brutale industrializzazione altre tempeste si sono abbattute sul “volto amato della Patria”: inquinamenti, discariche, erosione del suolo e sarebbe stato necessario arrivare al 2001 per avere una integrazione della Costituzione in cui figura la parola “ambiente”. Viene quindi a proposito il libro di Piccioni che ricorda l’entusiasmo e l’impegno della fase pionieristica e costituisce uno stimolo per una vivace ripresa dei grandi movimenti civili per la difesa dei beni comuni come la natura e il paesaggio. Purtroppo si tratta di un “libro sommerso”, di quelli che, pur avendo un alto valore culturale e scientifico, non hanno circolazione nelle librerie commerciali, né attenzione nei chiacchiericci televisivi. Ai lettori, specialmente agli insegnanti, posso solo raccomandare di leggerne alcune pagine nelle loro scuole. Ci sono dentro testimonianze di rispetto e amore per la natura e per il proprio paese e il ricordo di coloro che hanno reso più civile l’Italia.
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Tutte le alluvioni portano il nome di un torrente o di un fiume. La natura, milioni di anni fa, ha predisposto i fiumi e i torrenti >>>



Tutte le alluvioni portano il nome di un torrente o di un fiume. La natura, milioni di anni fa, ha predisposto i fiumi e i torrenti per far arrivare al mare l’acqua delle piogge lungo la strada di minore resistenza ad ha predisposto intorno ai fiumi e ai torrenti degli spazi in cui le acque potessero espandersi nel loro cammino nel caso di piogge più intense.

Quando sono arrivate, le comunità umane hanno scoperto che l’alveo di un fiume o di un torrente è uno spazio economicamente prezioso e le strade, nel cercare i percorsi “più comodi”, si sono stese al fianco dei fiumi. Col passare dei secoli e sempre più intensamente negli ultimi 200 anni, lungo le strade sono cresciuti villaggi e città e zone agricole e industriali che lentamente si sono estesi sempre più vicino al fiume o torrente fino ad occuparne gran parte delle zone di espansione e dello stesso alveo.

Nello stesso tempo i prodotti dell’erosione delle valli, le scorie delle attività agricole e forestali e delle attività produttive e urbane hanno occupato l’alveo dei fiumi e torrenti diminuendo ulteriormente lo spazio in cui le acque possono muoversi. Ad ogni pioggia più intensa l’acqua cerca di arrivare al mare riappropriandosi degli spazi che la natura le aveva riservato e che sono stati imprudentemente occupati da edifici, terreni agricoli, strade, fabbriche, detriti, eccetera. Ben poco sono efficaci i tentativi di schiacciare i fiumi e i torrenti entro argini perché l’acqua spesso li spazza via con l’energia contenuta nel suo moto verso il mare.

L’unica ragionevole ricetta per rallentare la frequenza e i danni delle alluvioni, non potendo spostare le opere durature che li occupano, ormai consiste nel rimuovere dagli alvei dei fiumi e dei torrenti e dai fossi, lungo l’intero bacino idrografico, tutto quello che li ingombra e che frena il moto naturale delle acque. Subito. Le altre opere, rimboschimento, sistemazione dei versanti e divieti di edificazione nelle zone vicino alle acque in movimento, sono necessarie ma faranno sentire i loro effetti a distanza di tempo.

“Puliamo l’alveo dei fiumi” può essere un programma di azione politica da attuare valle per valle, faticoso, subito col coinvolgimento delle comunità locali, col lavoro di disoccupati e immigrati, con un investimento di pubblico denaro da spendere oggi per evitare costi e dolori e morti domani.

Riferimenti. In questo articolo Giorgio Nebbia sostiene la tesi già proposta e pubblicata da eddyburg un anno fa Un "esercito del lavoro" contro le cosiddette calamità naturali

Fatto 1. Le attività umane per la produzione di merci: metalli, macchine, prodotti alimentari, prodotti chimici, cemento, edifici, strade>>>

Fatto 1. Le attività umane per la produzione di merci: metalli, macchine, prodotti alimentari, prodotti chimici, cemento, edifici, strade, strumenti di comunicazione, eccetera, comportano la trasformazione di minerali, combustibili, prodotti agricoli e forestali con formazione di vari gas, anidride carbonica CO2, metano CH4, composti volatili (CV), e altri, che vengono immessi nell’atmosfera.

Fatto 2. Le attività umane immettono ogni anno circa 30 miliardi di tonnellate di tali gas (circa tre quarti costituiti da CO2, ma espressi in genere come massa di gas “CO2 equivalente”) nei circa 5.000.000 di miliardi di tonnellate dell’atmosfera. Anche il metabolismo umano e animale immette nell’atmosfera circa 2 miliardi di t/anno di gas derivanti dalla trasformazione del carbonio C presente negli alimenti.

Fatto 3. Una frazione (circa il 50 %) dei gas immessi dalle attività umane nell’atmosfera viene lavata dalle piogge e dalle nevi e finisce sul suolo dei continenti e negli oceani. La frazione rimanente si aggiunge ai gas dell’atmosfera. I vari gas inquinanti permangono nell’atmosfera per tempi variabili da alcuni anni a molti decenni. La concentrazione nell’atmosfera di questi gas aumenta continuamente. Tale concentrazione si misura in parti per milione in volume (ppmv, metri cubi per milione di metri cubi di gas totali dell’atmosfera).

Fatto 4. Vari studiosi, fra cui lo svedese Arrhenius oltre un secolo fa, hanno indicato, sulla base di considerazioni chimiche e fisiche, che un aumento della concentrazione della CO2 nell’atmosfera porta a trattenere all’interno dell’atmosfera una maggiore frazione della radiazione infrarossa emessa dalla Terra verso lo spazio e quindi ad un aumento della temperatura media terrestre. I gas che hanno questa proprietà sono indicati spesso come “gas serra”.

Fatto 5. L’aumento della temperatura media del pianeta comporta modificazioni della circolazione delle acque oceaniche e dell’aria con aumento del riscaldamento di alcune parti del pianeta e raffreddamento di altre. A tali modificazioni contribuiscono il graduale aumento dell’acidità delle acque oceaniche, le modificazioni dei ghiacci permanenti, la liberazione del metano presente all’interno dei ghiacci in seguito alla loro fusione, altre conseguenze dell’aumento della temperatura media della Terra.

Fatto 6. La massa del principale di questi gas, la CO2, è aumentata, nel corso di circa 60 anni, da circa 2000 a circa 3000 miliardi di tonnellate, rispetto ai circa 5 milioni di miliardi di tonnellate dei gas totali. Una tonnellata di CO2 occupa circa 500 m3; una tonnellata di gas dell’atmosfera occupa circa 800 m3. La concentrazione dei gas serra è così aumentata nel corso di circa 60 anni da circa 300 a 400 ppmv. Il termine “circa” è d’obbligo perché tutti i precedenti valori di concentrazione variano a seconda dell’altezza rispetto al livello degli oceani.

Fatto 7. Lo stato attuale degli affari umani comporta un aumento di circa 1,7 ppmv all’anno della concentrazione dei gas serra nell’atmosfera. Un aumento di 1 ppmv/anno della concentrazione di “CO2 equivalente” è la conseguenza dell’aggiunta all’atmosfera di altri circa 8 miliardi di t/anno di gas serra.

Fatto 8. Ogni aumento di 1 ppmv della concentrazione atmosferica di gas serra comporta un aumento certo della temperatura media terrestre anche se non è noto esattamente di quanto. Questa incertezza è uno dei punti forti del negazionismo del riscaldamento planetario.

Fatto 9. La formazione dei vegetali avviene assorbendo una parte della CO2 dall’atmosfera per la fotosintesi della biomassa. Una parte di questa CO2 viene continuamente reimmessa nell’atmosfera in seguito alla decomposizione delle spoglie dei vegetali stessi, alla fine del loro ciclo vitale. Alcuni fenomeni di origine antropica, come la modificazione della superficie dei suoli agricoli e della biomassa forestale, influenzano il bilancio dell’energia solare in arrivo sul pianeta e dell’energia re-irraggiata nello spazio come radiazione infrarossa. Di questi complessi fenomeni viene tenuto conto nella valutazione dell’aumento della concentrazione della “CO2 equivalente” nell’atmosfera.

Questi fatti sono deducibili da considerazioni di chimica e di fisica. Essi sono analizzati, fra l’altro, nei vari documenti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), di cui è stata pubblicata di recente una versione aggiornata in vista delle trattative fra governi per rallentare i mutamenti climatici che dovrebbero essere presi nel 2015. Tali trattative sono basate sulla necessità di diminuire il flusso di gas serra nell’atmosfera attraverso due principali azioni:
(a) Modificazione dei cicli produttivi e della qualità di alcune merci e servizi al fine di diminuire l’impiego di combustibili fossili.
(b) Processi per seppellire i gas serra, a mano a mano che fuoriescono dalle attività umane, in depositi a lunga durata (oceani, pozzi e caverne da cui sono stati estratti combustibili fossili, eccetera).

La prima di queste azioni comporta un aumento del costo delle merci e dei servizi e una diminuzione dei profitti delle imprese che tali merci e servizi producono e vendono. Per evitare danni finanziari, tali imprese mobilitano degli “scienziati” che si sforzano di negare l’origine antropica o la stessa esistenza del lento continuo riscaldamento globale e dei relativi mutamenti climatici.

Più gradita al mondo economico la seconda azione che richiede l’intervento di profittevoli imprese ma che non è di facile realizzazione tecnica e non garantisce che non si verifichi una successiva fuoriuscita della CO2 dai depositi temporanei.

La proposta di autorizzare le emissioni di gas serra da parte di alcuni soggetti economici a condizione che questi paghino altri soggetti economici perché piantino alberi (un commercio delle indulgenze) non fa altro che spostare in futuro, alla fine del ciclo vitale delle piante, il ritorno all’atmosfera della CO2 assorbita nella crescita.

I rapporti dell’IPCC propongono alcuni scenari futuri di aumento delle emissioni, di variazione delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera e dei possibili conseguenti aumenti della temperatura media planetaria. Previsioni coraggiosamente estese anche al 2100, secondo cui un rallentamento e forse una frenata dell’aumento della temperatura terrestre ad un qualche valore, inevitabilmente superiore all’attuale, sarebbero forse possibili con la graduale o completa eliminazione dell’uso dei combustibili fossili e ricorso all’energia nucleare, che viene presentata come priva di emissioni di gas serra, e alle fonti energetiche rinnovabili. Tutte cose ovviamente possibili sul piano tecnico, con quali conseguenze umane, sociali ed ambientali nei vari paesi lascio a voi e ai vostri governanti pensare.

Comunque una illuminante previsione del possibile futuro al 2050 è contenuta in uno studio condotto dal Massachusetts Institute of Technology MIT (che può essere letto qui), secondo cui le emissioni mondiali di gas serra nell’atmosfera passerebbero dagli attuali circa 30 miliardi di t/anno a circa 50 miliardi di t/anno nel 2050. Giudichi il lettore quali conseguenze planetarie e umane possiamo aspettarci se si avvereranno le previsioni di tali manipolazioni planetarie.

Mi permetto infine rispettosamente di ricordare che, una volta mangiato il gradevole frutto dell’albero della conoscenza, della tecnica e dei consumi merceologici, si deve sapere anche che cosa ci aspetta e che le nostre azioni di oggi influenzeranno le condizioni di vita di molte generazioni future. Noi possiamo anche scrollare le spalle perché fra cento anni «siamo tutti morti», come scrisse il saggio Keynes; il Papa Francesco ha perfino scritto che «anche la nostra specie finirà». Tranquilli, quindi.

L'articolo è stato pubblicato anche su Rinnovabili.it con il titolo Rispettose considerazioni

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