loader
menu
© 2024 Eddyburg

Il mondo della cosiddetta cultura nazionalpopolare e dell'intrattenimento sa benissimo di essere immerso fino al collo dentro criteri di mercato anche piuttosto perversi, dove impera assoluto (o quasi, vabè) lo slogan business is business, e qualunque produzione ha come obiettivo quello di vendersi a un pubblico più vasto possibile. Il che dovrebbe far riflettere, soprattutto quando pensiamo che la medesima valutazione, consapevolmente o meno, permea di sé ogni forma (o quasi) di giornalismo informativo, dal più pettegolaio e dichiaratamente vicino alla pura fiction al più serioso e «politico di inchiesta» che però non rinuncia mai all'immagine caratterizzante. Perché esistono immagini ricorrenti, stereotipate, accostamenti automatici di situazioni e sensazioni, «senso del luogo», del tutto campati per aria? E perché li si usa con tanta noncuranza o leggerezza, come se non se ne conoscesse l'enorme potere di condizionamento quasi subliminale dell'opinione pubblica? Forse davvero, si scherza col fuoco senza neppure sospettare di accenderlo e alimentarlo. E le città sono il caminetto ideale per questi esperimenti incendiari da apprendisti stregoni a propria insaputa.

Lo slogan immobiliarista come convenzione sociale

Milano, 10 feb. 2018 - Foto F. Bottini
Quante volte siamo inciampati nella cronaca dei più efferati delitti «ambientati dentro» l'implicita innocenza o colpevolezza di uno spazio urbano? Così tante non solo da aver perso il conto, ma anche da essersi abituati a considerarlo normale, parte del rito, persino credibile tanto quanto le forme dell'impaginazione o la posizione e scelta delle eventuali foto di contorno: la «insospettabile stradina di linde villette» dove mai e poi mai ci si sarebbe aspettati il «sottoscala dell'orrore»; la cittadina tranquilla e sonnacchiosa che «si risveglia» nel panico delle latenti contraddizioni; e naturalmente gli «allucinati falansteri metropolitani» dove tutto il male del mondo sta già concentrato, e pronto a fare il suo mestiere. Del resto questa incredibile geometrica potenza degli stereotipi urbani è il motivo per cui con tanta facilità e spontaneità anche brillanti teorie come quella del decentramento pianificato nelle città giardino di Ebenezer Howard, si sono rapidamente involute nel proprio opposto, alimentando l'eterna illusione suburbana, o le estremamente moderne osservazioni di Jane Jacobs sono sfociate nei peana sul quartiere tradizionale da cartolina, del tipo poi riprodotto in serie dai gentrificatori di tutto il mondo. Eppure, molti osservatori per nulla casuali ci hanno provato, a leggere i segnali della città per quello che sono o potrebbero essere. Solo per fare un esempio basta citare la Teoria della Finestra Rotta, che parte da sistematiche osservazioni concentrate soprattutto negli anni '70 della crisi metropolitana più nera, della fuga dei ceti medi verso il suburbio, del crollo di solvibilità fiscale da insicurezza reale e percepita.

Dall'affermare chiaramente all'essere davvero ascoltati, cosa c'è di mezzo?

Ma puntuale come un cronometro, anche un lavoro teorico a suo modo ineccepibile come la Broken Window Theory nella formulazione originaria, affondava negli stereotipi, e il luogo comune invece di cogliere il potenziale di questo collegamento tra sicurezza percepita e uso mirato delle risorse scarse di ordine pubblico a scopi urbani preventivi (perché di questo originariamente si trattava), trasformava tutto in «politiche ferro e fuoco». Con che obiettivo, di fatto? Beh, ce l'abbiamo davanti agli occhi, volendo guardare a posteriori: la gentrification degli ex quartieri degli stereotipi negativi, e lo spostamento dei problemi nello «insospettabile scantinato dell'orrore» sotto la linda villetta che altre, nuove ricerche ci spiegano non essere poi tanto linda. E guardando la questione da un'altra, non troppo diversa prospettiva, pare che i medesimi stereotipi – nazionalpopolari ma non troppo - in agguato pervadano anche certe stravaganti idee di recupero delle periferie a colpi di prevalenti interventi edilizio-urbanistici, quando in realtà l'eventuale degrado delle strutture fisiche è solo conseguenza, e non componente base, del vero problema. Ma è dura discutere con chi una volta impugnato con forza uno slogan non intende certo lasciarlo andare, specie se ne ha fatto strumento di identità e legittimazione. E così, nonostante l'evidenza, dovremo continuare ancora per decenni, magari per sempre, a sorbirci una «informazione» come quella su Macerata, capoluogo provinciale sonnacchioso dove non succede mai niente perché in un posto così e così niente deve mai succedere, finché all'improvviso … Beh: chi vuole si legga al link cosa ne pensano gli studiosi della Brookings Institution, dei rapporti tra politica e «stereotipi spaziali».

Riferimenti:
Jenny Schuetz, Does TV bear some responsibility for hard feelings between urban America and small town America? Brookings Institution, 12 febbraio 2018
E magari per chi non li ha visti, gli articoli de La Città Conquistatrice dedicati alla Sicurezza Urbana

Quanta parte dell'urbanistica moderna delle origini si riassume sostanzialmente nel progetto del «viale della Stazione»? Se andiamo a guardare... (segue)

Quanta parte dell'urbanistica moderna delle origini si riassume sostanzialmente nel progetto del «viale della Stazione»? Se andiamo a guardare carte e piani, storie locali o grandi casi emblematici nazionali e internazionali, a partire dallo sventratore Haussmann e giù giù ai suoi meno noti ma altrettanto spietati esegeti, fino alle riflessioni sulle prospettive monumentali, i diradamenti, l'emergere del conservazionismo critico, c'è tanto, tantissimo, focalizzato su quella grande arteria che da qualche parte della città esistente punta sul nuovo simbolo di progresso ed espansione. Lo fa a volte aprendosi la strada fra ciò che già di urbano esiste, ma non corrisponde al modello condiviso, più spesso tracciando teoricamente la via a ciò che verrà, nelle forme classicamente lineari di una Via Indipendenza a Bologna, dalla cattedrale nel cuore medievale verso la pianura aperta della crescita ininterrotta, o nei modi più tortuosi di Milano col suo eterno «riordino ferroviario» a cui corrispondono ufficiali o ufficiose grandi varianti urbanistiche e riallineamenti di equilibrio urbano.

Quel che è certo, è sicuramente la centralità e rappresentatività di quell'asse e dei quartieri che su di esso si affacciano, vuoi nelle funzioni rappresentative delle classiche istituzioni pubbliche o finanziarie o degli alberghi, vuoi nelle pur indispensabili attività di complemento commerciali e di servizio. Ivi comprese quelle di bassa e bassissima fascia, come i giardini della stazione da sempre e ovunque classico luogo di bivacco per sfaccendati o senza fissa dimora, le pensioncine a basso costo a qualche isolato dall'albergo di lusso, traffici più o meno sordidi nelle strade trasversali.

Ma l'una cosa complementa l'altra, anche nel modello ideale, si sa che le cose vanno così perché non potrebbero andare diversamente (è accaduto per esempio a Milano nelle polemiche dell'ultimo discutibile blitz poliziesco a controllare i bighellonanti in quel «portale simbolico di ingresso alla città»). Tutto cambia, però, quando le spinte del tutto naturali che da sempre legano stazione ferroviaria ed espansione urbana non sono soggette ad alcuna gestione, ad alcun governo vagamente adeguato, ovvero quando la linea di forza socioeconomico-territoriale e identitaria, che abbiamo chiamato teoricamente «viale della stazione», riesce ad esprimersi soltanto in modo confuso, perverso, o la pubblica amministrazione si accorge troppo tardi e male del pasticcio sedimentato nel tempo.

Con risultati tali da dimostrare che in fondo non hanno proprio tutti i torti, quei teorici della «bonifica architettonica delle periferie», se non altro sul versante dell'immagine, tanto importante al giorno d'oggi. Accade a Pioltello, cintura metropolitana intermedia milanese, con una stazioncina passeggeri di importanza locale sommersa nell'enormità di uno scalo industriale-commerciale, dove di quel viale della stazione (forse, anzi probabilmente, per totale storica incuria) mai si è vista traccia, lasciando che gli uffici tecnici municipali per generazioni gestissero nel più automatico burocratismo la pur corposa crescita residenziale e di insediamenti produttivi a cavallo della linea ferroviaria Milano-Brescia.

Di fatto, attorno a quella stazione, senza una piazza, senza un viale, senza uno straccio di asse di sviluppo che tenesse in conto la barriera ferroviaria, l'edificio, le potenzialità e vincoli, tutto è cresciuto a casaccio, o se vogliamo usare sarcasticamente un termine, «a regola d'arte», come vuole il cosiddetto straccionissimo mercato, un po' speculativo un po' goffamente ignorante.

A guisa di viale della stazione, del tutto inesistente in ogni forma, oggi ci sono due vie, una parallela ai binari e che si perde verso la «no man's land» del quartier generale Esselunga ai confini comunali, un'altra più propriamente urbana (un po' scostata rispetto alla classica posizione di queste arterie), che più assomiglia se non altro per orientamento geografico al modello canonico. Ma ahimè la somiglianza finisce lì, come pure l'imperfetta ricerca di equilibrio tra quelle funzioni civiche e di servizio, e quelle di tono minore o marginali, visto che una edificazione speculativa ha ammucchiato addosso alla barriera ferroviaria quello che, a parte le dimensioni ovviamente molto contenute dato il contesto, altro non è che uno slum, ovvero una serie di fabbricati con alloggi prevalentemente in affitto, e che via via si è popolato di immigrati, con tasso di affollamento evidentemente assai elevato, e assai vistoso uso diciamo così «anomalo» dello spazio pubblico. Detto per altri versi, è un po' come se tutte le attività di basso profilo e marginali tipiche della zona della stazione, esistessero senza il contrappeso di quelle più qualificate che ci sono normalmente.

Ed è qui che nasce probabilmente l'equivoco percettivo, quando una sparata razzista («in un bar di quella via stanno inneggiando alla strage di Manchester») invece di essere liquidata per quello che era, viene prima ripresa da una rete televisiva, poi circola in modo virale, fino ad aizzare dei dilettanti terroristi locali, che danno fuoco al bar nel giro di poche ore. L'occasione da quel punto di vista pareva troppo ghiotta: lo slum multietnico e peccatore da purificare col fuoco, e pure una casbah assai facile da infiltrare, visto che in realtà non esiste, visto che si tratta solo di un viale della stazione mancato, nessuna enclave di profondo disagio o chissà che, un posto come un altro, magari con qualche problema, ma dove non ce ne sono? Val la pena sottolineare come si sia replicata, con poche varianti, la medesima sequenza automatica del cortocircuito spazio-società-devianza da colpire violentemente, già vista alcuni anni fa dall'altra parte dell'area metropolitana, a Rozzano, dove un episodio di «degrado sociale» aveva innescato incredibili polemiche politiche sugli urbanisti comunisti capaci solo di progettare luoghi infernali.

Qui alla stazione di Pioltello, pare difficile trovare capri espiatori tanto a portata di mano, ma se di urbanistica vogliamo parlare quella che si nota di più è la sua evaporazione da decenni, praticamente da sempre, se tutta la zona attorno allo scalo pur «urbana» che più urbana non si può, sul versante della saturazione edilizia, assomiglia maledettamente a certe stazioni di interscambio perse nella campagna: un parcheggio qua, un sottopassaggio là, un palo un po' più alto degli altri a fare da bussola per non perdersi. Se quell'idea piuttosto balzana novecentesca di plasmare una società ideale infilandola dentro contenitori edilizio-urbanistici pedagogicamente corretti era certamente velleitaria a dir poco, anche l'ignorare pervicacemente la pur ovvia consequenzialità, tra forme della città e relazioni identità che ci si sviluppano, suona proprio colpevole. E quel coacervo di frammenti urbani e sociali sbattacchiato tutto attorno alla piccola stazione ferroviaria, dove anche un po' di vitalità volgarotta riesce a suscitare sospetti e paure incredibili, pare un manifesto di quel che non si dovrebbe mai fare, o meglio un manuale in negativo, ricchissimo di pessime esemplari pratiche una accanto all'altra. Ci si potrebbero tenere dei seminari estivi, solo a trovare un po' d'ombra.

Foto dell'Autore, scattate attorno alla stazione di Pioltello-Limito oggi pomeriggio, 31 maggio 2017. Di seguito, la notizia falsa e l'attentato incendiario nella cronaca locale de Il Giorno

Pioltello (Milano), 25 maggio 2017 - Riflettori accesi su Pioltello: la città più multietnica d’Italia condannata senza appello. È bastata una frase di troppo pronunciata in una trasmissione a innescare la valanga. Tutto è iniziato con la segnalazione, andata in onda in diretta televisiva. Un pioltellese avrebbe raccontato di aver sentito alcuni cittadini stranieri esultare in un bar di Seggiano di fronte alle immagini della strage di Manchester: una frase sparata nel mucchio che rischia di generare un pericoloso clima di intolleranza. E la città è indignata.

"È partito tutto da una segnalazione razzista e il nostro bar è finito sotto torchio. È una situazione assurda. Questa mattina (ieri per chi legge, ndr) abbiamo ricevuto controlli da tutte le forze dell’ordine: sono arrivati gli agenti dell’antiterrorismo, i carabinieri e la polizia", racconta Mimmo Sidella del Marrakech Lounge Bar, il locale finito sotto accusa. "La notizia è falsa. I carabinieri hanno individuato la fonte: si tratta di un uomo che scrive sui social dei post che inneggiano al razzismo, siamo pronti a denunciarlo".

"L'altra sera ero qui dentro e posso testimoniare che non c’è stato nessun festeggiamento - dice Mimmo Sidella -. Trasmettiamo solo video e trasmissioni musicali, non telegiornali. A Seggiano convivono tante etnie e religioni diverse: se qualcuno avesse davvero esultato per la strage, gli altri stranieri gli sarebbero saltati addossi". Il clima che si respira ultimamente è pesante. Tanto che ieri mattina un gruppo di cittadini islamici ha organizzato un flash mob per la pace in via Mozart, al quartiere Satellite, dove c’è la più alta densità di musulmani.

"Non vogliamo che venga infangata l’immagine di Pioltello - racconta Ali Sajid, promotore dell’iniziativa di protesta -, non permettiamo a nessuno di provocarci con accuse false. E il dubbio che qui esista l’Isis e soltanto una provocazione. L’Islam è pace: il Corano dice che chi uccide un uomo, uccide tutto il mondo. Non si può generalizzare, chi si fa esplodere non è un vero musulmano: è un fanatico".

La gente ha voglia di normalità. "Vivevo a Manchester quando era accaduto l’attentato di Londra - continua Ali Sajid - e ricordo bene la rabbia di alcuni inglesi, avevano paura e se la prendevano con tutti noi stranieri. Qualcuno lo faceva con violenza. Non voglio ripetere quella brutta esperienza. Il rischio è di scatenare l’intolleranza. A Pioltello abbiamo due moschee, una al quartiere Satellite e l’altra a Seggiano, e non è mai accaduto nulla di strano o pericoloso. Sono controllate, abbiamo migliaia di fedeli che ogni venerdì si riuniscono per la preghiera".

La borrelliosi, o malattia di Lyme dalla cittadina del Connecticut in cui fu rilevata per la prima volta negli anni '70, si manifesta inizialmente con un eritema cutaneo (segue)

La borrelliosi, o malattia di Lyme dalla cittadina del Connecticut in cui fu rilevata per la prima volta negli anni '70, si manifesta inizialmente con un eritema cutaneo di piccole dimensioni, che poi si estende gradualmente a ricoprire ampie superfici. All'eritema si accompagnano anche spossatezza, rigidità, febbre, mal di testa, a cui seguono, se non si interviene adeguatamente, gonfiori delle articolazioni, complicazioni neurologiche, disturbi cardiaci, artrite cronica, e tante altre cose piuttosto tremende. Causa della malattia è il batterio Borrelia burgdorferi, e all'origine della trasmissione c'è la puntura di una zecca, del tipo che infesta particolarmente i branchi di cervi. Secondo la manualistica corrente (riportata anche dalla scheda su Wikipedia) i luoghi nei quali è più facile essere infettati sono le zone montane e boscose, dove si va a fare escursioni, arrampicate, camping all'aperto immersi nella natura. Questo fino a qualche settimana fa, prima che fossero pubblicati i risultati di una ricerca pluriennale della Binghamton University su un vasto territorio campione di circoscrizioni ambientalmente molto differenziate. Come ha spiegato il responsabile del progetto, l'Accademico delle Scienze prof. Ralph M. Garruto, quella faccenda dei boschi e pascoli è meglio dimenticarsela, la trasmissione avviene soprattutto: «Dove ci sono più persone, più traffico, e si verificano di fatto più punture infette, non certo quando si sta nei grandi spazi montani con uno zaino in spalla».
foto F. Bottini in campagna
Lasciando ovviamente che la ricerca faccia il suo corso, le dovute verifiche e tutto il resto, non ci vuol molto però a sottolineare come si tratti, ancora una volta, di uno degli innumerevoli segnali che qualcosa non funziona più, nel nostro ideale articolare un ipotetico «dualismo città-campagna», specie nelle forme che toccano non soltanto l'immaginario corrente, ma addirittura alcune forme istituzionalizzate di governo, programmazione, servizi sociali. Qui in Italia, è di pochi giorni fa anche quella raccapricciante fotografia di un lupo scuoiato e minacciosamente appeso a un palo stradale insieme ad una scritta che invita a «prevenire il problema». In modi analoghi a quanto proposto (e a volte accettato da autorità irresponsabili) in certe aree suburbane, dove per «prevenire» l'invasione di alcune specie si consente la caccia con armi non da fuoco, archi e balestre, anche tra le abitazioni e nei giardini, magari difendendo col sangue altrui le petunie della Zia Pina dal terribile ungulato predatore. Pur in forme estreme, queste manifestazioni altro non sono se non un prodotto di certo strabismo, incapace di cogliere l'autentico senso di quello che con qualche superficialità si chiama «urbanizzazione planetaria». E che come pure dovrebbe indicare un comune buon senso e spirito di sopravvivenza, non va immaginata come edificazione e asfaltatura dell'intera crosta terrestre.
Foto F. Bottini in città
Ma nemmeno, come fanno in tanti, in troppi, pensare di costruirsi una realtà alternativa guardando a un passato ideale, quando la città (e l'urbanità) finiva a ridosso delle mura o sui margini di una circonvallazione, lasciando spazio al cosiddetto contado, o natura selvaggia, insomma alla selva oscura dove cambiano le regole, o dove di regole non ce n'è affatto. La vita urbana si è allargata da tempo ben oltre le superfici impermeabilizzate e l'ombra delle ciminiere, e secondo un flusso uguale e contrario anche la natura si è infiltrata nelle infinite nicchie messe a disposizione dalla città. Continuare a pensare a due universi così distinti e quasi incomunicanti, da trattare l'uno in un modo e l'altro a sé, pare non solo sbagliato, ma molto molto controproducente, come chi scopa la polvere sotto il tappeto o nasconde le vittime dei suoi efferati delitti seppellendole in giardino. Città e natura devono convivere, non come avveniva in passato l'una accanto all'altra, ma una dentro l'altra, cercando reciprocamente equilibri diversi. Certo senza immaginare branchi di lupi che, come nelle scene di un racconto di Jack London ubriaco, scorazzano tra i turisti hipster di qualche replica High Line, magari sbocconcellandone un paio perché bisogna pur campare. Ma di sicuro, nemmeno trincerandosi dentro qualche caserma griffata del tipo che certi architetti hanno imparato a chiamare chissà perché riqualificazione urbana. Anche lì potrebbe aspettarci una zecca con la malattia di Lyme, se non impariamo a fare urbanistica preventiva seriamente.

Su La Città Conquistatrice qualche nota in più, ad esempio, a proposito di bio-diversità urbana

Panico tra i paladini del trasporto pubblico: dopo parecchi anni in cui la tendenza pareva invertirsi rispetto al periodo di abbuffata automobilistica, con un aumento deciso dell'utenza, si notano anche vistosi cali (segue)

Panico tra i paladini del trasporto pubblico: dopo parecchi anni in cui la tendenza pareva invertirsi rispetto al periodo di abbuffata automobilistica, con un aumento deciso dell'utenza, si notano anche vistosi cali. Meno gente, a volte anche molta meno gente, che prende la metropolitana, l'autobus, il trenino suburbano, anche se resta aperta la domanda su come si spostano, adesso, tutte quelle persone. Forse sta qui il vero nodo: sia nel capire come vanno da un posto all'altro questi ex utenti del trasporto collettivo, sia soprattutto quando, perché, e con che obiettivi personali si muovono, generalmente parlando. Anche perché, restando a tristi temi nazionali e macroregionali delle nostre parti, ogni volta che le popolazioni dei sistemi metropolitani sono assediate da schifezze inquinanti, inizia il carnevale delle quantificazioni e dei rimpalli «politici».

Sul versante diciamo così di sinistra il mantra è sempre: basta con le politiche autostradali, investiamo di più sul mezzo pubblico, solo così riusciremo ad abbattere gli inquinanti micidiali per la salute dei cittadini. Sul versante della destra liberale, dopo adeguato spezzettamento in una mezza dozzina di parti delle fonti inquinanti (comprese le pizzerie forno a legna, in qualche articolo comparso sulla stampa locale, magari solo per tirare poi in ballo kebab e simili), si finisce per puntare sulla classica efficienza, lo sviluppo, le esigenze della logistica ... insomma per aspettare che qualche folata di vento disperda i veleni fino alla prossima emergenza.

Si tratta, in entrambi i casi, di posizioni comunque ideologiche, ovvero che non tengono conto di quella domanda di fondo posta dai rilevatori di contraddittorie tendenze trasportistiche: dove va la gente, perché ci va, e come ci va? Almeno due delle risposte verificate sul campo, paiono di notevole interesse come indicatori di tendenza: una quota importante di «ex poveri» che accede per vari canali al possesso e uso del veicolo privato, e abbandona il trasporto pubblico; un'altra quota di utenti che continua ad essere tale ma esclusivamente per i movimenti pendolari classici casa-lavoro casa-studio, passando ad altre modalità per quelli del tempo libero, del consumo, dei viaggi occasionali. E qui, primo salto deduttivo, vale la pena aggiungere subito una questione collaterale: come si sta evolvendo, questo equilibrio tra due motivi-metodi di spostamento, alla luce dei cambiamenti nel mercato del lavoro, nell'organizzazione delle imprese, delle innovazioni tecnologiche? Un segnale importante potrebbe arrivarci, molto empirico, dal visibile crollo dell'ora di punta in corrispondenza della chiusura estiva delle scuole, unica vera attività «fordista» residua di tante aree metropolitane uscite dal ciclo dello sviluppo industriale tradizionale. Ma andiamo oltre.

Anche immaginando che tutti gli immigrati, minoranze, poveri, insomma coloro che erano prima obbligati a spostarsi solo col mezzo pubblico per motivi di reddito, siano passai in blocco a quello privato (qualcuno sostiene come status symbol di residenza suburbana, altri dicono per nuova coercizione da forme dell'insediamento). Anche immaginando che invece tutti gli altri, utenti del trasporto non collettivo per funzioni non lavorative, abbiano realizzato il sogno degli appassionati di ciclismo, saltando improbabilmente in sella paludati in braghette fosforescenti d'ordinanza, qualcosa accomuna certamente i due gruppi nell'indicare comunque tendenze comuni, ineludibili. Che si possono riassumere nell'aspirazione a «personalizzare la mobilità», anche collateralmente all'innegabile generale atomizzazione delle altre esperienze abitative, di fruitori di servizi, di persone che per un motivo o l'altro si trovano a cambiare spesso percorsi, orari, ritmi e tipi di lavoro.

Metropolitana Milanese - Foto F. Bottini
Pare davvero singolare, ad esempio, a fronte di certi imponenti flussi di lavoratori della manutenzione e refurbishment edilizio, o della distribuzione e logistica, dentro e fuori le aree metropolitane, che se ne ignori l'importanza sia per la rete dei trasporti che per l'economia più in generale. Prendiamo l'esempio più recente di Milano, dove si sono vistosamente sovrapposti in pochissimi giorni almeno quattro strati, distinti quanto inscindibili, della medesima questione: l'occasione della settimana della moda (che tra poco vedrà una replica quasi fotocopia col salone del mobile), i disagi dei cantieri della nuova metropolitana tangente al centro sulla fascia occidentale, i tagli e allungamenti dei tempi di attesa dei mezzi pubblici per motivi di bilancio, l'emergenza sanitaria estesa a tutta la megalopoli padana, di cui innegabilmente la mobilità privata su gomma costituisce una fetta essenziale.

Perché mai non si pone, almeno in questi casi di vera emergenza socioeconomica, abitativa, sanitaria e di efficienza, la questione in modo integrato? Perché si continua da un lato la litania a favore del trasporto pubblico (evidentemente di per sé inadeguato a rispondere a queste nuove economie, non parliamo poi della scala insediativa di regione urbana a media densità), e dall'altro il modello automobilistico novecentesco chiaramente fallimentare? Ultimo ma non certo in ordine di importanza, e concludendo: perché non si prova seriamente a coordinare, e all'interno di competenze uniche, norme uniche, documenti unici, la questione spaziale e quella dei flussi, almeno dei flussi materiali, rifugiandosi al momento dentro quell'iper-uranio denominato smart city? Se qualcuno ha una risposta, ci faccia sapere.

Una interessante serie di articoli dal New York Times sul trasporto pubblico, specie i primi due dedicati al citato declino della quantità di utenti, e ai probabili motivi dell'insoddisfazione per la qualità media del servizio

Chi parla di gentrification al giorno d'oggi, spesso si concentra su dettagli forse di qualche importanza ma inessenziali a cogliere l'entità del problema (segue)

Chi parla di gentrification al giorno d'oggi, spesso si concentra su dettagli forse di qualche importanza ma inessenziali a cogliere l'entità del problema. I più lontani dal capirne le dimensioni sono, come spesso accade, gli esteti, ovvero chi chiama gentrificazione qualcosa che non lo è, assomigliando invece molto al vecchio meccanismo dello sventramento urbano ottocentesco. La città si è evoluta, a spese dei suoi abitanti naturalmente, e presenta potenzialità di investimento per qualcuno, salvo spazzar via quegli abitanti e le loro sovrastrutture edilizio-sociali, si tratti di case, fabbriche, negozi, tessuto stradale e di spazio pubblico. Nel medesimo posto nascerà un nuovo quartiere, abitato e usato da chi è in grado di sborsare quanto atteso dagli investitori.

C'è poi il processo di sostituzione sociale allo stato puro, quello che scientificamente si chiama davvero gentrification, così come fissato mezzo secolo fa dalla sociologa Ruth Glass studiando le trasformazioni di una zona di Londra: gli abitanti di un quartiere hanno costruito faticosamente nel tempo le loro strutture spaziali e sociali, gli equilibri dentro cui vivono, e si tratta di una massa di valore assai appetita dal mercato, con una specifica. Ovvero che delle relazioni sociali al mercato non frega assolutamente nulla, bastando e avanzando il puro contenitore, l'immagine esterna, gli aspetti diciamo così folkloristici. Lo sventramento non c'è, sostituito da un processo strisciante, dove nuove famiglie e attività prendono il posto delle vecchie, gli edifici si «riqualificano», le botteghe si fanno il cosiddetto refurbishment, di solito spariscono le attività produttive e i posti di lavoro.

Fin qui, i dettagli, dei vari modelli, puri e misti (perché le due cose di solito si mescolano), della gentrification. Che non finisce certo a quel punto, dato che come si dice il vuoto in natura non esiste. Per un principio da vasi comunicanti, se le eleganti signore vanno a riempire coi loro divani d'antiquariato le stanze lasciate libere dalle famiglie di lavoratori, non solo queste famiglie di lavoratori dovranno andare a scavarsi nuove nicchie, ma i cerchi concentrici si faranno sempre più ampi. Così il mitico mercato protegge il proprio investimento, confermando la vera natura del processo di gentrification, che non è solo e tanto la sostituzione dei borghesi ai proletari (come dicono ormai spesso infilando orrendi strafalcioni anche i vocabolari e le enciclopedie), ma l'imporsi dell'omogeneità là dove regnava la complessità. Omogeneità è anche l'allargarsi progressivo, all'infinito tendenzialmente, di questo identico sistema socio-economico-spaziale e degli stili di vita. E forse non è un caso se questo modo masochista di concepire la «riqualificazione urbana» si accompagna al ritorno verso le zone centrali di chi le aveva abbandonate per il suburbio borghese una o due generazioni fa. Perché ormai pare che l'omogeneità assoluta, che fa il paio con la mitica privacy familiare, debba essere valore imprescindibile, ma quando ci si allarga oltre un certo limite saltano resilienza e vitalità.

Un segnale chiaro di questo enorme problema, a quanto pare tecnologicamente irrisolvibile al momento, era emerso con gli attentati dell'11 settembre 2001, e un certo ritardo nei soccorsi, dato che i soccorritori professionisti, lavoratori per definizione, abitavano lontanissimi dal simbolico luogo dell'opulenza finanziaria scelto dai terroristi. E del resto da lustri ormai si leggevano storie di insegnanti delle scuole, infermieri negli ospedali e ambulatori, vigili del fuoco e poliziotti, costretti a trasferte infinite per recarsi in un luogo di lavoro strettissimamente connesso alle persone che ci stanno, ma da cui dovevano star fuori. In pratica, loro non erano propriamente «persone», là dentro il gigantesco quartiere omogeneo prodotto dalle aspettative del mercato. Tutto nato nel laboratorio suburbano, in quei quartierini immersi nel verde ma chiusi come fortezze ai non ricchi, salvo ai pendolari giardinieri, colf, operai della manutenzione, guardiani. I quali però potevano abitare solo lontano, a volte lontanissimo, al punto da doversi organizzare come nomadi, in qualche vero e proprio campo abusivo di colf giardinieri badanti, a portata di mano dalle irraggiungibili villette degli arricchiti. Adesso, il medesimo problema si ripresenta nelle forme surreali dell'economia della rete, e dei lavori semi-schiavisti assimilati sadicamente alla cosiddetta sharing economy: sono i tassisti di Uber, letteralmente accampati nei parcheggi, dentro le auto che poi useranno per scorazzare i ricchi clienti qui e là. E la domanda ovviamente, qui non riguarda solo qualche quota di abitazioni economiche da introdurre obbligatoriamente nei quartieri di lusso, neanche fossero le antiche stanze della servitù dei palazzi nobiliari.

Pochi giorni fa, un tizio sul social network mi impartiva una sua personale lezioncina declinando il classico tema «è il mercato, baby!» (segue)

Pochi giorni fa, un tizio sul social network mi impartiva una sua personale lezioncina declinando il classico tema «è il mercato, baby!». L'occasione, era un mio brevissimo post (peraltro molto condiviso da tante persone) sulla rete delle biciclette in condivisione per la mobilità urbana, in cui mi chiedevo a quale logica rispondesse mai, un sistema di stazioni di prelievo-parcheggio dei mezzi totalmente focalizzato sul centro, con rastrelliere a volte situate a poche decine di metri l'una dall'altra, ma che poi lascia del tutto scoperto il territorio della periferia, proprio là dove sembrerebbe invece particolarmente forte la domanda di mobilità di medio cabotaggio, e contemporaneamente è più debole l'offerta di mezzi pubblici tradizionali. Mi chiedevo, specificamente, perché mai non si potesse sperimentare almeno uno sviluppo della rete di bike-sharing per corridoi, focalizzati su poche mete specifiche: l'aeroporto, che per esempio a Milano sta a poche centinaia di metri dai margini della città densa, le stazioni delle ferrovie suburbane, gli ospedali più o meno a cavallo dei confini con l'hinterland metropolitano. La lezioncina del tizio sul libero mercato suonava invece brevemente così: «Il bike sharing funziona con la pubblicità, e il territorio coperto è quello più funzionale alla comunicazione pubblicitaria». Forse un po' cinico, ma parrebbe azzeccato, il colpo.

Il vero problema, qui, è che il commentatore non ha quattordici anni, non sta scoprendo da adolescente più o meno traumatizzato le difficoltà di una vita circondata da egoismo e particolarismi: si tratta di un professionista delle politiche urbane, e pure di un ex amministratore eletto, piuttosto attivo proprio in quell'ambito. Sentirlo liquidare così, anche se forse si trattava di una battuta forzatamente cinica, le potenzialità di un mezzo così efficace per la mobilità, non è un bel segnale. Soprattutto se si mescola a tanti altri, piccoli e meno piccoli, dello stesso tono, tutti piuttosto sbilanciati a indicare una sorta di schizofrenia nell'offerta delle cosiddette «alternative all'auto privata» negli spostamenti in città. Per essere alternativi a qualcosa in particolare, si dovrebbe in tutto o in parte riuscire a presidiare il medesimo campo, e nel caso dell'auto quel campo sono le varie attività urbane sparse sul territorio a una certa distanza, che il mezzo privato consente di connettere con una certa storica efficacia. Una efficacia che non è sicuramente eguagliabile dal pedone, ma che dovrebbe essere perseguita dal mix di mezzi che per così dire «prolungano» e complementano la pedonalità: dai trasporti pubblici classici, alle nuove offerte della condivisione.

E invece quella miscela pare non avere nessuna intenzione di comporsi, viaggiando ciascun mezzo e rete per conto proprio, salvo in quella percezione distorta e falsamente «integrata» che si verifica dentro il piccolissimo nucleo centrale metropolitano, ricco sin ben oltre la saturazione di una vera e propria overdose di queste offerte. Accade così che dentro la microscopica città densa (e poco abitata per via della nota terziarizzazione dei decenni passati) letteralmente si inciampi ad ogni passo in qualche automobilina in condivisione di qualche operatore, spesso una mezza dozzina parcheggiate in attesa di clienti nel medesimo tratto di via, ma poi si trovi il deserto totale nella notte periferica. E questo non perché non esista domanda, ma perché gli operatori, per motivi tutti propri, semplicemente non servono quelle zone, esattamente come accade alle biciclette in condivisione, o per altre ragioni le linee di metropolitana o di tram. E infatti, la periferia – vale a dire la quasi totalità del territorio urbano-metropolitano, è zona di caccia esclusiva dell'auto privata. E se constatare queste cose, anche solo limitarsi a sottolineare che i «trasporti alternativi» non trasportano da nessuna parte, significa suscitare le risate di scherno di chi si candida ad occupare posizioni di potere nella pubblica amministrazione, stiamo messi piuttosto male. Dobbiamo davvero fare anche noi così, comportarci da ragazzini un po' cinici un po' ingenui, e pensare alle alternative di mobilità solo come problema di immagine, di mercato, di pubblicità? Roba da rifilare ai turisti? È piuttosto deprimente, baby

La Città Conquistatrice - Cartella Mobilità

La città è il luogo dell'innovazione, ma qualcuno da sempre cerca di darne una interpretazione piuttosto stravagante ... (segue)

La città è il luogo dell'innovazione, ma qualcuno da sempre cerca di darne una interpretazione piuttosto stravagante, che suona più o meno: la città è il luogo dove sperimentare le innovazioni, tanto le cavie stanno lì gratis e a volte lo fanno quasi volentieri. Avviene da sempre, certo, questa forma di esperimento, forse è uno dei caratteri peculiari dell'urbanità, l'essere sempre piuttosto disponibili e ricettivi a modi, tempi, stili di vita anche radicalmente diversi da quelli praticati tradizionalmente. Ma sembra essersi fatto particolarmente insidioso dall'epoca industriale in poi, con risvolti a dir poco subdoli in questa nostra epoca attuale detta (molto spesso ideologicamente) post-industriale, con le trasformazioni cosiddette immateriali, invece materialissime, al limite della violenza, nel manifestare i propri effetti sul territorio e la società.

Si parla e straparla di smart city, dove intangibili flussi dovrebbero cullare l'umanità urbana in una felicità senza fine, ma quel che si vede in realtà è al massimo il pullulare di iniziative a volte interessanti ma piuttosto limitate (come le auto o le biciclette in condivisione, per ora poco più di un giocattolo), a volte onestamente destabilizzanti, come nel caso di UBER, quel servizio che attraverso la gestione di applicazioni per smartphone ha letteralmente sconvolto il mercato del lavoro, nei trasporti e non solo.

E ora, dall'ambito più noto e famigerato dei taxi e analoghi, la disinvolta impresa digitale vuole balzare direttamente nell'aria fresca, gestendo con le sue app nientepopodimeno che il «trasporto aereo urbano». In un corposo rapporto pubblicato pochissimi giorni fa, dal titolo Fast-Forwarding to a Future of On-Demand Urban Air Transportation, delinea anche tecnicamente a cosa si riferisce, con quello che chiama «Veicolo a Decollo e Atterraggio Verticale»: un oggetto a motore elettrico, pochissimo rumoroso e a basso impatto, prodotto in grande serie, facile da gestire e pilotare, e che trasformi il cielo delle città in una specie di nuova frontiera della mobilità infinita, relativamente a buon mercato.

L'aspetto più surreale di tutta la faccenda è che non solo questo veicolo non esiste al momento, ma mancano anche moltissimi dei presupposti tecnologici e organizzativi che ne consentirebbero l'esistenza, e che il rapporto elenca dettagliatamente. Nondimeno, UBER abituata a maneggiare flussi immateriali per spremere materialissimi profitti, non si scoraggia certo per una bazzecola del genere, e si dilunga addirittura a spiegare quali debbano essere le trasformazioni urbane e infrastrutturali necessarie per lo sviluppo di questo nuovo futuribile servizio. Col più classico atteggiamento degli innovatori a senso unico, che ben conosciamo dopo un secolo di adattamento unilaterale delle città all'automobilismo solo per fare l'esempio più macroscopico, il concetto base è che tutto va benissimo, tutto si tiene, tutto ci farà felici, MA soltanto SE .... Basta seguire passivi il flusso degli eventi e avere fede nel trionfo dell'Idea, insomma. Ma cosa dovranno fare, esattamente, le città per eseguire gli ordini?

Innanzitutto partire da quel che già è disponibile, in una sorta di post-dismissione e riuso degli attuali eliporti per macchine tradizionali, ivi compresi quelli dichiarati inagibili proprio per i motivi di rumori e altri impatti che la nuova, virtuale tecnologia dà per superati. Ed ecco già apparire sui radar la nuova griglia della «rete eliportuale urbana», che redistribuisce gerarchie, e magari valori immobiliari relativi (certo, in attesa che la solita burocrazia municipale allenti i soliti lacci e lacciuoli, prima che il mercato faccia da sé). E a questo proposito esiste già addirittura una gerarchia interna, via di mezzo tra la logica degli aeroporti e quella delle normali infrastrutture automobilistiche, a distinguere i grandi nodi, detti Vertiport, da quelli di scala intermedia chiamati invece Vertistop, un po' analoghi a capolinea e/o incrocio di interscambio o fermata intermedia nella mobilità collettiva terrestre da comuni mortali. Magari, solo nei Vertiport potrebbero collocarsi gli impianti di ricarica rapida delle (tuttora inesistenti, si badi bene) batterie elettriche dei motori (pure di là da venire) delle trottole volanti immaginate pur nei minimi dettagli da UBER.

Un capitolo assai importante, se non altro per il portafoglio degli interessati, riguarda ad esempio il trasporto aereo «urbano» door to door e naturalmente svela in fondo quello che tutti già potevamo intendere, ovvero che i nostri operatori della fantascienza mescolata all'impresa postmoderna, hanno un'idea di ambiente urbano del tutto analoga a quella di certi economisti conservatori: città è il posto dove ci sono valori monetari in qualche modo legati a trasformazioni edilizie. Perché pensare, immaginare, elicotteri per quanto di dimensioni contenute e impatti evanescenti, che facciano servizio sullo zerbino di casa in stile cartone dei Pronipoti, significa far riferimento a un sistema di quartieri a dir poco a bassa densità, del tutto controcorrente rispetto ad ogni indirizzo ambientale e sociale emerso negli ultimi anni.

E analogo invece al primissimo comparire del vero, individuabile antenato ideologico di questi elicotterini fantasiosi di UBER: la Broadacre di Frank Lloyd Wright degli anni '30, dove di macchine del genere se ne vedono sia svolazzanti che parcheggiate, nell'utopia autostradale. Insomma, in definitiva e senza voler esaurire qui l'incredibilmente intricata questione, vale davvero la pena di tenere sott'occhio quel che stanno escogitando, i sedicenti profeti tecnologici del terzo millennio, per evitare di doverne subire troppo passivamente le pensate. E soprattutto, non rischiare di sentire, quando certi effetti si manifesteranno concretamente, il solito «ma noi a quell'epoca non potevamo certo sapere». Basta informarsi, e lo sappiamo.

Su La Città Conquistatrice qualche considerazione generale in più su questa Invasione delle Trottole Volanti, e il link a cui scaricare il documento tecnico integrale di oltre cento pagine, coi particolari dettagliatamente immaginati da Uber

«Le città? Devono stare zitte a cuccia e non chiedere più soldi». Così si esprimeva con una terminologia diventata leggendaria ... (segue)

«Le città? Devono stare zitte a cuccia e non chiedere più soldi». Così si esprimeva con una terminologia diventata leggendaria (Drop Dead! proprio come si dice ai cani) il peraltro dimenticato presidente americano Gerald Ford, inopinatamente succeduto a Nixon dimessosi per lo scandalo Watergate. Il suo linguaggio duro e sprezzante arrivava nel pieno della politica di disinvestimento urbano, ed esprimeva in sintesi una precisa linea conservatrice di sviluppo economico e sociale, iniziata in sordina a cavallo dell'ultima guerra, ma che dopo la stagione dei diritti civili e delle rivolte degli afroamericani nelle grandi metropoli aveva subito una forte accelerazione. Ovvero la fuga dei ceti medi dalle città centrali, lasciate in balia della dismissione industriale, di mostruose operazioni di urban renewal analoghe a certe grandi opere, inclusa la matrice autostradale, del formarsi di sacche di indicibile degrado sociale e umano, ambientale, magari di fianco a iniziative di speculazione edilizia terziaria, eccezioni a ribadire la regola.

Certo le grandi città erano tutt'altro che morte e sepolte, come dimostra ancora oggi quello straordinario filmato sulla «Vita sociale nei piccoli spazi urbani» composto dal sociologo William Whyte, ma la narrazione corrente, comprese certe strampalate teorie accademiche sulla cosiddetta «Integrazione spaziale», vendeva come ineluttabile quella dispersione territoriale suburbana delineata negli anni '30 dalla Broadacre autostradale di F.L. Wright, col suo vago sogno intellettuale di ritorno alla nuova frontiera, l'automobile invece del cavallo, il centro commerciale invece del saloon di qualche film di serie B. Curioso che proprio in quel periodo il padre di Donald Trump guadagnasse magnificamente lucrando proprio su quella narrazione di degrado e abbandono, accaparrandosi terreni nelle zone classificate hic sunt leones dall'immaginario collettivo, e poi gestendo la loro trasformazione in qualche palazzo per uffici o altro.

La suburbanizzazione era, come detto, un progetto economico, con tutto il suo strascico di consumi privati coatti, di ciò che la tradizione urbana considerava collettivo: dall'auto individuale, alla piscina, allo stesso verde del giardino alternativo a quello di quartiere, ai riti del fine settimana e via dicendo. Ma era anche un progetto politico, di natura sottilmente conservatrice per non dire peggio, con quel puntare tutto sul nucleo familiare, sullo slogan «I migliori vicini sono quelli separati da una solida recinzione», sulla trasformazione della casa e tutto ciò che conteneva nel cosiddetto castello del capofamiglia. Non a caso, le rilevazioni dei flussi elettorali appena qualcuno iniziò a porsi il problema, cominciarono a confermare l'ipotesi: le concentrazioni urbane erano più progressiste, la dispersione suburbana votava a destra. Vuoi per i partiti che tradizionalmente si presentano con quell'etichetta, vuoi su istanze specifiche, locali, referendarie o altro. Certo, difficile stabilire qualche tipo di scientifica corrispondenza fra cose come la densità edilizia, o le superfici a parcheggio pro capite, o la distanza di commercio e servizi dalle residenze, o i km di autostrada per abitante, e quel voto orientato in un senso o nell'altro. Ma agli studiosi il trend appariva e appare evidente.

E adesso arriva, se necessario, la conferma del discorso ufficiale di accettazione della candidatura di Donald Trump alla presidenza per i Repubblicani. Di quello stesso Trump che ereditato denaro e mestiere dal padre è diventato un simbolo di tante cose, che con quel dualismo territoriale e politico hanno a che fare: dalle «riqualificazioni» nelle zone centrali, a quel genere di lottizzazioni surreali progettate in aperta campagna da campioni di golf, e rivendute proprio come percorsi sportivi nel verde, quando altro non sono se non gated communities della peggiore e più esclusiva specie. Cos'ha detto, Trump, nel suo discorso alla Convention? Certo, lui parlava di questioni di ordine pubblico e sicurezza del cittadino, ma mettiamo in fila: caos e violenza per le strade; incremento degli omicidi soprattutto nei grandi centri ad esempio «nella Chicago da cui viene il nostro attuale presidente». E poi le infrastrutture che vanno a pezzi, vetuste, autostrade e aeroporti da terzo mondo (sic). Il che evoca e ribadisce, quasi esattamente, i medesimi scenari di quarant'anni fa, in cui Gerald Ford diceva, alle città che votavano in prevalenza Democratico e progressista: «a cuccia, niente soldi», e implicitamente «ci sono quelli degli investitori privati».

Foto F. Bottini
Oggi, letto nella prospettiva di quanto accaduto e ancora in corso nelle trasformazioni territoriali, lo scenario del candidato populista reazionario televisivo si legge più o meno, semplificando al massimo: grandi opere stradali di colonizzazione suburbana, a rilanciare la nuova frontiera dello sviluppo infinito di villette, centri commerciali, office park, zone industriali, ovvero ad alimentare i bacini naturali di voto alla propria area politica; e intervenire col ferro e il fuoco militare nell'orrore e degrado urbano, preparando la tabula rasa della riqualificazione speculativa, magari nella forma dei nuovi quartierini per giovani scapoli delle professioni rampanti, o quelle sacche di lusso a macchia di leopardo autogestite dalle imprese tecnologiche come intravisto a San Francisco, dove i pullman di Google attraversano blindati i quartieri «degradati» per portare in ufficio i manager. Normale, che la politica ragioni anche così, riproducendo nelle proprie scelte e strategie il medesimo brodo di coltura che le garantisce consenso. Lo si dovrebbe considerare anche da questo punto di vista, quando qui da noi si contestano i tracciati autostradali, gli «sprechi in opere inutili» che invece paiono utilissime proprio allo scopo di coltivarsi quel brodo sociale introverso, che prima o poi, al momento giusto, darà il proprio consenso alle medesime scelte chiuse, privatistiche, particolari. Tutto si tiene, basta farci caso.

Circa un secolo fa, esattamente nel 1921, l'ambientalista Benton MacKaye pubblicava sul Journal of the American Institute of Architects il suo articolo "An Appalachian Trail: A Project in Regional Planning", in cui si tracciavano le linee generali di un vero e proprio programma di sviluppo montano, disteso su tempi e spazi davvero inusitati. Lo spazio, innanzitutto, che copriva migliaia di chilometri di valli, crinali, altopiani di entroterra, dalla Georgia al Maine, mescolando ambienti e contesti certo di una certa omogeneità, ma anche molto diversificati sia dal punto di vista ecologico, che geologico, che insediativo e politico. E poi il tempo, perché la visione naturalistica ma contemporaneamente molto umana dell'esperto di parchi, sapeva certamente cogliere in una visione non banale né spalmata sulla contingenza. Forse il tratto più caratteristico del gruppo noto come RPAA – Regional Planning Association of America, a cui MacKaye faceva riferimento, era proprio quello di saper riconoscere i propri limiti, ma di collocare entro una visione assai generale quelli che di fatto non potevano essere che particolari progetti e prospettive.

Così si contestualizzavano ad esempio le idee di Clarence Stein per riformulare in senso spaziale seriale l'idea di «unità di vicinato» appena elaborata dal sociologo Clarence Perry (e poi sviluppata autonomamente dallo stesso Perry in vari studi), oppure quella rivoluzionaria e pericolosissima idea di «baccello cul-de-sac» di Henry Wright, che inizialmente pensata per adattare la città giardino all'era dell'automobile, ribaltando il concetto di affaccio stradale, riprodotta acriticamente all'infinito (fuori da qualunque piano, regionale o non regionale) sarebbe diventata il marchio infame dello sprawl ameboide. Anche le stesse visioni umanistiche generali di Lewis Mumford, dentro il filtro di questa cultura induttiva-deduttiva, assumevano quella diversa prospettiva, per nulla utopica e testimoniale, del programma applicabile via via nel tempo e nello spazio, col contributo di moltissimi soggetti. Il valore di un'idea di «semplice» sentiero montano sviluppato su alcune migliaia di chilometri di MacKaye, insomma, era proprio quello di saper proporre un contenitore assai adattabile, il cui successo possiamo verificare ancor oggi, quando il suo Appalachian Trail, vivo e vegeto dopo molti decenni, diventa sfondo naturalistico e identitario nazionale, tra nostalgici di Jack Kerouac alla ricerca di sé stessi nel servizio antincendio su montagne e torrette di avvistamento (la raccontava bene Kerouac quell'esperienza esistenziale nel suo Bums of Dharma), o politici alla ricerca di uno sfondo accattivante per i consensi spontanei, vedi Al Gore con Bill Clinton arrampicati da quelle parti nella loro seconda campagna presidenziale.

La visione del sentiero sui monti, quella in grado di ricomporre in un vero Piano Regionale anche azioni davvero minimali come un campo di esploratori, o il restauro di qualche rifugio d'alta quota o di un ponte, è la prospettiva in grado di leggere qualcosa di più generale, territori, soggetti, bisogni. Solo per fare un esempio di questi aspetti, si pensi che la sensibilità dell'ambientalista già negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale riesce a cogliere la formazione di quanto due generazioni più tardi il geografo Jean Gottmann chiamerà «Megalopoli Bos-Wash», e che sottende sia territorialmente che socialmente quell'arco montano nell'entroterra. Socialmente, perché già nell'auspicio del Journal of the American Institute of Architects, l'ambientalista individua un soggetto chiave: la montagna è il tempio del «tempo libero», ma l'America urbana delle grandi città pullula di gente con tempo libero in abbondanza, e si tratta dei disoccupati o inoccupati, o lavoratori precari con lunghi periodi di inattività. Non a caso si è citato sopra Jack Kerouac, sfaccendato che alterna le sue frequentazioni dell'ambiente poetico-studentesco di San Francisco, con periodi da volontario stipendiato nel presidio dei crinali. Una popolazione urbana che va a «urbanizzare sostenibilmente» un territorio che già di fatto è complementare a quello della megalopoli insediativa sulla costa.

Non possono non tornare in mente, queste esperienze e considerazioni, antiche ma ancora tanto vive, ripensando sia al recente dibattito sul ruolo degli immigrati e profughi nella società europea e italiana in particolare, sia a quello sui nuovi equilibri città-campagna, sulle aree interne più o meno depresse e abbandonate, e infine la contingenza ma non tanto contingente del terremoto (l'ennesimo) sulla dorsale appenninica. Si è giustamente – anche se sinora un po' convulsamente - parlato di edilizia antisismica, di meccanismi di finanziamento e incentivi, di piani urbanistici generali e attuativi, ma forse è sfuggito il senso di un dettaglio, che emerge solo nelle polemiche. Il dettaglio, che è e resta tale di per sé, è la quota di «seconde case per passaggio generazionale» escluse dai benefici fiscali dell'adeguamento antisismico. Un particolare che, osservato nello spazio, nel tempo, nei processi sociali e di sviluppo locale, apre una prospettiva assai diversa su cosa significhi o possa significare «ricostruire com'era dov'era», secondo lo slogan comunemente accettato. E già qualcuno ne parla, pur senza nominarla esplicitamente, di pianificazione regionale spalmata nel tempo, di idee di sviluppo che sappiano andare oltre il puro ripristino di travi tetti scuole ospedali, ponendosi la domanda: perché e per chi, restaurare un immenso territorio? E chi saranno i soggetti attivi di questo piano, esteso come minimo su più di un «passaggio generazionale», edilizio e non edilizio? Sono queste le dinamiche, urbane e territoriali vaste, in cui inserire idee non peregrine o localiste di rilancio o qualsivoglia ripopolamento, posti di lavoro innovativie qualificati dal contesto, vera messa in sicurezza fisica e sociale di areesinora sospese nel tempo, in attesa di ruolo e identità adeguata. In fondo,basta un colpo d'occhio all'analogia del rapporto fra zone montane einsediamento costiero, per capire che un Appalachian Trail italiano potrebbeessere a portata di mano. Basta lasciar spazio adeguato ai suoi protagonisti.

impresso da Ebenezer Howard al suo riformismo sociale ... (segue)

impresso da Ebenezer Howard al suo riformismo sociale, senza cambiare gran che dell'idea insediativa generale, a far ripescare ai suoi interessati collaboratori ed epigoni il concetto di «città satellite». Assai meno impegnativo, apparentemente, non implicava alcuna ricomposizione delle gerarchie tra urbano e rurale, o mutamento radicale del rapporto sociali o di produzione: del concetto riformista riprendeva giusto quello schemino indelebile del grande nucleo centrale attorno al quale giravano i pianetini dipendenti. Che poi si trattasse di vere città integrate come le immaginavano da sempre gli utopisti, o dei sobborghi dormitorio da bambini e casalinghe cari ai padroni del vapore con sensibilità estetica, non contava moltissimo. L'importante era procedere con quel decentramento pianificato che tanto prometteva in termini di «macchina per lo sviluppo» economico, e si sperava anche un po' sociale: nuovi consumi, nuove aspettative, nuove frontiere, e per i paranoici nell'epoca della guerra fredda anche un po' di prevenzione in più in caso di attacco nucleare del terribile nemico comunista (ci furono decine di convegni monografici sul tema).

Eppure qualcuno già da tempo provava ad avvertire dei pericoli di asfissia e sopravvivenza, di quei «satelliti» inopinatamente scagliati nell'orbita territoriale e socioeconomica senza averne davvero valutato la resilienza. Fu per primo addirittura l'amministratore di Letchworth, Thomas Adams, a notare a cavallo della Grande Guerra come qualcosa non andasse proprio dentro la comunità artefatta del villaggio remoto monofunzionale per forza: finiva per diventare l'ennesima versione della comunità hippy di stravaganti, eccentrici, toga party itineranti, predicatori assatanati, scienziati pazzi ansiosi di essere presi sul serio, nulla a che vedere col «pacifico sentiero verso il futuro» di tutte le famiglie e gli individui preconizzato dal profeta.

Al satellite mancavano vistosamente parecchie componenti essenziali del pianeta madre, e nondimeno si insisteva nel mandarne in orbita altri e di diverso modello, come notava poco dopo la seconda guerra William H. Whyte nelle sue inchieste per la rivista Fortune dentro i laboratori sociali dei primi sobborghi voluti dalle nascenti multinazionali per i propri manager. Che ci fosse una bella differenza, tra gli schemi a Tre Calamite di Howard e una brutale flowchart organizzativa aziendale, evidentemente sfuggiva ai più, o non interessava capire, ma il sociologo rilevava parecchie anomalie nelle forme di convivenza, negli stili, nei tic apparentemente secondari, nello strapotere dell'Organizzazione nel dettare i ritmi della vita. O della morte violenta dentro il carcere volontario in cui si poteva trasformare la famiglia satellitare per i soggetti più deboli, come la moglie frustrata raccontata da Richard Yates nel suo Revolutionary Road (1961), antenata di tutte le casalinghe più o meno disperate dei decenni futuri disperse nello sprawl.

L'asfissia sociale da satellite difettoso, e insieme l'immediato gioco di parole che lo stesso termine «satellite» ovviamente induce, è certamente alla base del piccolo prezioso lavoro cinematografico di un giovanissimo cineasta, il ventunenne Lucas Monjo di Montpellier, che nel suo recentissimo corto Les Spectateurs mescola a modo proprio fantascienza e storia urbanistico-sociale. Collocando la città satellite esattamente su una versione gigante di quei satelliti che ciclicamente si sparano in orbita per telecomunicazioni o ricerca, e che in effetti potrebbero anche svolgere altri ruoli, per esempio quando si dice che «per mantenere un certo stile di vita avremmo bisogno di altri pianeti abitabili a disposizione». Ed ecco, parrebbe di poter dire, la trovata ingegneristica risolutiva, che pesca tutto il peggio di almeno un secolo di suburbanizzazione, con effetti sociali a loro modo perfettamente prevedibili, a partire dall'alienazione di una paradigmatica signora che lì «si sente proprio fuori luogo». E ne ha ben d'onde.

Gli Spettatori del titolo saremmo praticamente noialtri, che dentro quelle orbite satellitari, territoriali umane relazionali, ci passiamo tutto il tempo o quasi. Perché sarà anche vero come dice soprattutto la letteratura da treno, che «ognuno di noi è un pianeta», ma c'è una bella differenza ad esserlo dentro un consesso umano e urbano, oppure a sprofondare nel vuoto siderale del Satellite, ed è meglio provare a guardarci anche da quella prospettiva, le solitudini dentro un abitacolo di macchina, davanti a uno schermo televisivo in un pomeriggio di «vacanza» dal silenzio surreale, vis-à-vis con quel che si è e al confronto con quello che si sarebbe voluto essere. Insomma stare sul satellite quello vero, che gira nell'orbita terrestre anziché metropolitana, mette in evidenza la casalinga disperata che c'è in tutti noi, chi più chi meno. Lo fa in modo assai più efficace di qualunque sprezzante dissertazione contro la villettopoli (bruttissima e alienante finché non la pubblicano sulla rivista di settore giusta) o l'ecatombe ambientale incipiente se non ci pentiamo per il nostro stile di vita peccaminoso e consumista. Un modo per guardare le cose molto terra terra, e non dalla solita prospettiva «satellitare» tipica di certa critica.

Qui qualche informazione in più, una clip video, e qualche link di approfondimento in inglese e francese

i massimi o minimi della fortuna critica dell'oggetto in sé, ma l'insieme ... (segue)
Come sanno praticamente da secoli più o meno tutti, il verolegittimo percorso e successo dell'opera d'arte è quello sociale, ovvero non imassimi o minimi della fortuna critica dell'oggetto in sé, ma l'insieme dell'interazionecon varie fasce di utenza diretta e indiretta. Tenendo bene in mente questaprospettiva di osservazione, a cui senza dubbio contribuisce anche se a voltenon in modo determinante l'altra, quella della critica distillata piùappariscente e mediaticamente «vocal», forse è di qualche utilitàprovare a comparare due recentissime, diverse ma analoghe installazioni, cheproprio di questo genere di interazione hanno fatto la loro ragion d'essere. Miriferisco in particolare ai Moli fluttuanti realizzati a metà giugno2016 da Christo attraverso il sistema insulare del Lago d'Iseo nelle Prealpibresciane, e al «Campo di grano» piantato da Agnes Dénes all'interno delcomplesso detto Porta Nuova, nel nucleo denso centrale di Milano, circa un annoprima, e culminato con la «mietitura» quasi negli stessi giorni. Moltissime ledifferenze, moltissime anche le analogie, dal punto di vista del possibilemetodo di osservazione.
Forse val la pena iniziare da alcune analogie, pur nelladifferenza oggettiva delle proposte. La principale sta forse nella sostanzialeinconsistenza della installazione in sé, separata dal contesto. Propriofocalizzandosi su questo aspetto si inizia probabilmente a cogliere il sensodell'accostamento-contrapposizione. In entrambi i casi si tratta in sostanza diuna riproposizione di progetto «chiavi in mano» collocato in una situazionedifferente ma giudicata valida, ma se Wheatfield di Dénes fa il suoviaggio di consegna nel tempo e nello spazio (dalla New York cupa dei primi '80alla Milano globalizzata del terzo millennio di Expo), i Floating Piersdi Christo sbarcano sulle sponde del lago prealpino solo da un tavolo diprogettazione e concertazione, ovvero prima esistevano esclusivamente come concept.Il campo di grano, piantato sulle sponde dell'Hudson mentre ancora la metropolistava sprofondata nella crisi fiscale, razziale, sociale, immobiliare delsecondo '900, indicava la via di una possibile uscita sostenibile epartecipata, per quanto forse solo in termini simbolici. Dove prima c'eranomacerie adesso crescevano spighe, e il raccolto partecipato dai cittadini sidistribuiva in sacchetti anche alle altre città vittima di analoghi dinamichedi degrado. La medesima installazione, fotocopiata identica con piglio dastilisti estetizzanti, trentacinque anni dopo e fra le pareti a specchiolievemente pacchiane di proprietà del Qatar, difficilmente poteva indicarequalche prospettiva, salvo quella di finire sulle pagine patinate di unarivista di moda, come di fatto avvenuto con la «mietitura» fatta da modelli incostume, in uno senario praticamente deserto e tra le erbacce cresciutenell'indifferenza sostanziale della città.

Tutto diverso il discorso dei moli fluttuanti, dove già il«contenitore» non è l'opera in sé, ma la sua interazione col paesaggio, prontaa sua volta a interagire con l'utente-contenuto. Chi anche preventivamente (èil caso ad esempio del critico Philippe Daverio) ha stroncato l'iniziativa inquanto opera d'arte ripetitiva e dozzinale, sagra paesana che non valeva lapena giudicare, probabilmente non ha colto proprio la sua natura aperta adaccogliere altro senso. L'invito esplicito a «entrare nel paesaggio modificatomodificandolo ulteriormente» non a caso è stato accolto intuitivamente dalpubblico, e comunicato col passaparola, tra parentesi mettendo in crisi un giàcarente e improvvisato sistema logistico e moltiplicando critiche improprie.Perché non si tratta esattamente di installazione-opera, come poteva apparirein un primo tempo specie leggendo certe raccomandazioni a fruirla in tutto ilsuo splendore contemplandola dall'alto, ma di puro espediente tecnico perprodurre un evento sociale, esattamente come avviene per le migliori piazzemonumentali simboliche luogo di ritrovo pubblico.

E anche con qualcosa in più e inedito: la dimensione fisica,la composizione mista, le sensazioni coinvolte. Un ambiente enorme,spropositato anche rispetto a quello delle piazze pubbliche di ritrovo dimassa, ma che replica di fatto il medesimo meccanismo di trasfigurazione, unendoprobabilmente per la prima volta su dimensioni del genere cose disparate chevanno dalla fila per la mostra o il museo, la giornata in spiaggia, lapasseggiata in montagna, il godimento tutto soggettivo di un particolare o unpaesaggio, ivi compresa la sensazione tattile della superficie increspata. Ilcomporsi del fattore spaziale, sociale, dei flussi (in questo senso anche ipercorsi di avvicinamento, poi collassati per via della pessima gestione, fannoparte dell'installazione), dell'immaginario, delle relazioni interne che sisperimentano tra i fruitori-protagonisti. Tutto, e basta parlare con chiunqueci sia stato a confermarlo, molto molto oltre la comune dinamica dellafruizione del bene culturale, per quanto massificata, e anche molto oltre (questoè certo) le ragionevoli aspettative dell'artista e dei critici. Che infatti almomento paiono sinistramente silenziosi, salvo qualche legittima collateralestroncatura di aspetti parziali, che però nulla toglie al bilancioinfinitamente positivo dell'evento, che potrebbe già da oggi tranquillamentetrasformarsi in un concept replicabile, in uno standard di ripropostadel paesaggio. Per chi non ha preconcetti ideologici, naturalmente.

Continua la lettura)

Nasceva ufficialmente a Londra circa un secolo fa, l'idea di urbanista moderno, quando su iniziativa del Royal Institute of British Architects si riunivano a congresso studiosi e professionisti da tutto il mondo rivendicando in sostanza una grande intuizione maturata proprio e principalmente nel mondo dell'architettura: le trasformazioni urbane non potevano più avvenire di fatto spezzettando nello spazio, nel tempo, nei flussi economici e nelle decisioni decine di competenze e prospettive diverse. Che ci fosse un gran bisogno di qualche genere di sintesi lo dimostrava da solo e da subito già il contenuto e il tono delle comunicazioni, a tratti surreale come quando George Lionel Pepler esordisce così: «Se non fosse per la straordinaria importanza dell’argomento che propongo, quasi dovrei scusarmi del fatto di presentarlo a questo Convegno, vista la distanza da una prospettiva propriamente architettonica». E di argomento importante si tratta di sicuro, visto che è la London Orbital, dopo un paio di generazioni caposaldo del grande piano regionale di Abercrombie, e capostipite di tutti gli schemi metropolitani del mondo.

Ma la confusione su cosa diavolo siano, l'urbanistica e l'urbanista, decisamente imperversa, e lo si vedrà di lì a non molto con la divaricazione di fatto in due tronconi (due a dir poco) o gruppi di principi generali, confusi spesso anche dagli stessi protagonisti con alcune forme esteriori, testimoniando la fatica di allontanarsi da quella citata «prospettiva propriamente architettonica». Ci sono da un lato i sostenitori dell'approccio razionalista modernista, diventati poi negli anni famigerati per i quartieri di casermoni o falansteri che dir si voglia. Dall'altro i discendenti del riformismo socio-ambientale utopistico, superficialmente antindustrialista, con le loro densità ridotte, l'integrazione tra verde e architetture, l'attenzione alla comunità spontanea. Ovviamente c'è anche tantissimo che mescola e confonde nei fatti questi due approcci, in fondo davvero divisi da qualcosa di superficiale e accomunati dalla profonda radice comune: valga per tutti la costante ricerca della dimensione ideale intermedia fra l'individuo-famiglia e la società più in generale, declinata via via fra unità di vicinato, quartiere autosufficiente, separazione per zone omogenee o a funzioni composite.

Un primo deciso segnale di discontinuità, rispetto alle divaricazioni, ri-convergenze, nuovi equilibri di questa comunità tecnico-scientifica, arriva verso la metà del '900, quando fa capolino un inatteso dissenso esterno. Anche qui per molti versi succede, anche se informalmente e spalmato nel tempo e nello spazio, qualcosa di analogo alla Town Planning Conference di Londra 1910, c'è una convergenza, una coincidenza, ma al tempo stesso tutto si articola da subito in vari rivoli di cui proviamo a individuare un paio di grandi famiglie, corrispondenti a quelle degli architetti-urbanisti. La prima famiglia ha anche il suo bel nome proprio da sfoggiare come santino di riferimento, ed è (inutile forse ricordarlo) quello della casalinga urbanista per caso Jane Jacobs, temprata nell'opposizione culturale sociale e politica al dispiegarsi meccanico della città razionalista governata con criteri meccanici e autoritari. La seconda famiglia non sa ancora di essere tale, e si esprime nel puro iniziale disagio per quello che qualche audace ha iniziato a chiamare addirittura sprawl, riprendendo un nomignolo già usato da paesaggisti e conservazionisti tra le due guerre mondiali. Il disagio per i quartieri dormitorio ormai prodotti in serie «immersi nel verde» dai discendenti perduti della cultura della città giardino, immemori sia di cosa sia una città, sia della differenza tra un giardino e un prato davanti al cancello di ingresso.

E arriviamo ai nostri giorni, in cui per dirla con le statistiche internazionali, l'urbanizzazione planetaria trasformerebbe l'urbanistica in una specie di potenziale geopolitica, e il suo approccio in un nuovo, ennesimo convergere di società, saperi, aspirazioni. La domanda a cui ci sarebbe da trovare risposta è chi adesso, dovrà farsi carico della responsabilità di elaborare un nuovo modello all'altezza dei tempi e dei bisogni, e di gestirne la trasformazione in spazi e sistemi ambientali sempre più vasti e comprensivi. Non certo più l'intellettuale solitario degli albori del XX secolo, con la sua fusione di arte e scienza che rinvia alla politica, ma neppure quel vago anelito partecipativo assembleare emerso dal disagio di metà secolo, ed espresso soprattutto in opposizioni locali, la cui capacità di elaborare progetti si è poi incanalata in modi del tutto tradizionali, per quanto molto più attenti ad esprimere la domanda. Come si riformula, oggi, l'idea di città e territorio?

Riassumendo per sommi capi un processo ancora ampiamente agli inizi, ma di cui si possono già intravedere parecchi segnali, la nuova urbanistica potrebbe configurarsi a partire da un rinnovato intreccio, non solo analogo ai due descritti sopra, ma in grado in qualche modo di ricomporli nella continuità. Il «nuovo urbanista» (chiamiamo così per semplificare un soggetto non certo individuale) deriva coerentemente dalla transizione che per tutta la seconda metà del '900 ha visto dialetticamente scontrarsi l'idea originaria, di approccio scientifico-professionale universale, quella di espressione spontanea di disagio e bisogni locale dei destinatari della pianificazione, sfociando sostanzialmente in un processo comunicativo e di relazione.

Un processo dove pianificare, individuare priorità, decidere modi e tempi, entra direttamente nel fare politica, nella partecipazione in quanto diritto, inclusione, potere effettivamente praticato in modo diffuso, ben diverso sia dall'elaborare grandi progetti o contrapporsi ad essi con istanze alternative particolari. Una città e un territorio che esprimono un processo di pianificazione sanno amalgamare il punto di vista degli abitanti e dei portatori di interessi piccoli e grandi, quelli mediati e metabolizzati dei loro rappresentanti eletti ai vari livelli, e soprattutto sono in grado di riequilibrare (o almeno provare a farlo sistematicamente) il peso relativo dei decisori, determinato dal loro potere. Si integrano così – in verticale e in orizzontale - anche le conoscenze specifiche, quelle che nella prima metà del '900 avevano a volte diviso la disciplina urbanistica, a volte addirittura determinato gerarchie che parevano eterne e naturali fra i saperi e il loro ruolo relativo. Restano le discipline prettamente spaziali tradizionali, ma si integrano quelle sui flussi (materiali e oggi immateriali), sociali, ambientali, ciascuna poi articolata a sistema nei propri aspetti gestionali. Forse qualche importante architetto entusiasticamente accorso alla Town Planning Conference di Londra 1910 resterebbe perplesso, magari scandalizzato, davanti a questa perdita di sacralità delle forme fisiche, del «contenitore» che domina il contenuto. O forse, ne coglierebbe il grande spirito innovativo, di fatto analogo nel metodo e negli obiettivi allo spirito di quei tempi.

Su La Città Conquistatrice molti testi, d'epoca e non, trattano il tema della figura dell'Urbanista
Alcuni concetti ripresi nell'ultimo paragrafo derivano da una rilettura in prospettiva storica dell'ultimo rapporto ONU-Habitat, Urbanization and development – Emerging futures - 2016

(continua la lettura)

Tanto tempo fa, veniva individuato tra gli obiettivi delle politiche per la casa quello di raggiungere il traguardo, allora ambizioso, di un abitante per stanza. Obiettivo chiarissimo nelle sue finalità sociali, sanitarie, e più in generale urbanistiche come spiegava con notevole dettaglio e preveggenza quello straordinario opuscolo intitolato modestamente Cottage Plan And Common Sense, in cui molto sottotono Raymond Unwin delineava la propria versione di quello che una generazione più tardi si sarebbe detto «dal cucchiaio alla città». E citare proprio Unwin, il teorico del sobborgo giardino, anziché un apparentemente più congruo antenato dell'urbanistica razionalista, ha un senso preciso qui, dato che sarà proprio l'ambiente suburbano a raggiungere quel traguardo, seguito più tardi e in forme diverse dalla città-macchina industriale. Un abitante una stanza, ma anche per esempio un veicolo un passeggero, un prodotto specifico mirato ad ogni consumatore, più tardi con le ultime evoluzioni tecnologiche e organizzative una centrale di comunicazione per ogni individuo, o addirittura tendenzialmente una unità locale produttiva per ciascuno. Tutto comincia però, anche secondo studi sistematici di sociologia, con quella disponibilità inaudita della stanza personale, fin dagli anni della formazione: il ritratto dell'eremita da giovane.

Nella stanzetta personale messa a sua disposizione dall'evoluzione della casa familiare moderna, il bambino/bambina poi adolescente e magari anche giovane adulto, inizia a perseguire un proprio percorso esistenziale, secondo vaghi ideali un tempo inseguiti solo da pochi privilegiati, fra cui spicca la figura dell'eremita meditante. È in quel tipo di sottrazione consapevole e per nulla ostile, al trambusto e condizionamenti reciproci della «pazza folla», che si intravedono certe tendenze contemporanee, così diverse dalla solitudine dell'essere umano «solo al comando», che su quella folla più o meno numerosa vuole esercitare qualche tipo di potere: si tratti anche solo di quello del capofamiglia sui parenti e sulla casa. Così come l'eremita meditante solitario, anche altre figure del tutto storicamente accettate e consolidate esprimono, anche se in qualche modo part-time, la medesima aspirazione: il giovane o la giovane che «aspetta di sposarsi» per un periodo più o meno lungo, magari senza farlo mai; i separati o divorziati; i vedovi, e in generale chiunque per amore o per forza si ritrova a vivere una condizione distinta dal mainstream familiare e sociale. Il fatto che non si tratti di devianza, è ribadito sia dalla persistenza storica di figure del genere, sia da uno sguardo non distratto all'evoluzione dell'offerta di strutture, prodotti, servizi, che con notevole rigidità si orientano però in quella direzione.

Rigidità è per esempio e paradigma quella della forma della casa citata in apertura, sia nel progetto «familiare», sia nell'organizzazione dei quartieri quando esiste qualcosa del genere, sia nella gestione e amministrazione del servizio casa quando questo entra a far parte dei programmi di welfare. Qui nemmeno l'approccio razionalista ed efficientista industriale riesce a andare oltre certi studi meccanici del filone existenzminimum, se è vero che di fatto poi la produzione di abitazioni, e soprattutto la gestione del grande comparto pubblico, resta ancorata al modello granitico della famiglia nucleare. Al punto che in tantissimi paesi, segnatamente la Gran Bretagna dove di fatto si è quasi «inventato il modello», dopo diverse generazioni si scontano ancora diseconomie e polemiche politiche di grande rilievo, quando l'assegnazione e godimento di alloggi pubblici vede una incredibile discrasia tra domanda e offerta, soprattutto a fronte della crescita esponenziale di famiglie di una sola persona a occupare per vari motivi spazi enormi. Un relativo lusso, certo, ma a spese di altri.

C'è poi l'approccio neoliberale mercatista, che prima con la retorica della creative class, del suo contributo allo sviluppo locale, ha provato a sperimentare soluzioni edilizie e urbanistiche diverse, poi riproducendole in modo piuttosto meccanico pro domo sua ha creato e continua a creare ghetti gentrificati per i cosiddetti Millennials, giovani che ancora non si sono formati una famiglia, e che secondo il mercato semplicemente «aspettano di trasferirsi in una villetta unifamiliare». La risposta del privato è quella di realizzare delle sorte di pensionati studenteschi allargati, in cui i microappartamenti (comunque esclusivi e costosissimi per unità di superficie) si mescolano a localini e negozi di tendenza, spazi di coworking e altre amenità a mezza strada fra il campus universitario e una specie di azienda individuale diffusa sul territorio. Ma ancora qui non si coglie affatto che quella condizione individuale forse non è affatto provvisoria, che richiederebbe un ripensamento abbastanza radicale dell'approccio, dei servizi, della città che ci sta attorno insomma.

Perché le nude statistiche, oltre a cose magari apparentemente più effimere ma assai significative come associazioni, pubblicazioni, prodotti mirati, ci dicono che «stare da soli» (cosa diversa dalla solitudine patologica così come viene proposta di solito) è tendenza in grande crescita. Case, quartieri, welfare, trasporti, servizi, paiono inchiodati a quel modello familiare nucleare fissato nel XIX secolo e a quanto pare per ora inamovibile, mentre la realtà va da un'altra parte, a volte solo soggettivamente e psicologicamente, in altri casi anche proiettandosi in modo vistoso sulla realtà. Qualcuno naturalmente ha già provato, in una logica di marketing politico, a calcolare quanto peso relativo possano esprimere le istanze di questo neo-individualismo postindustriale, e se si tratti tendenzialmente di istanze declinabili in senso progressista o liberista-conservatore. Ovvero se orientate più al modello del single solo al comando, oppure a quello democratico dell'eremita meditante. E anche così, guardando agli attriti fra la città com'è e come ce la immaginiamo, con le tensioni nelle periferie tra anziani soli barricati dentro spazi inadeguati e nuove formazioni che rivendicano diritto alla casa, si capisce quanto complicato sia, farsi un'idea ragionevole del senso di destra o sinistra, oggi.

Un piccolo, particolare esempio di attrito (si noti la non sottolineata ambientazione da sprawl automobilistico di villette unifamiliari) del genere descritto, è quello raccontato magistralmente dal sociologo Eric Klinemberg in questo estratto dal suo Going Solo, su La Città Conquistatrice (f.b.)

. O più esattamente perché non lo state accompagnando a scuola secondo i criteri didattico-pedagogici prescritti dalla massima autorità locale in materia, che prevedono una modalità sola: Pierino deve rigorosamente scendere dal sedile della vostra auto davanti al cancello, non arrivarci a piedi. Così stabilisce una delibera della Bear Branch Elementary School di Magnolia, nell'area metropolitana di Houston, in vigore da quest'anno scolastico e recepita in quanto tale dall'ufficio dello sceriffo della Montgomery County, pronto a intervenire nella spietata repressione dei trasgressori.

Secondo le dichiarazioni di alcuni infuriati genitori residenti piuttosto vicino alla scuola, e che hanno ritirato i figli iscrivendoli ad altri istituti, la dirigente che ha scritto quella delibera «evidentemente è convinta che noi non si sia in grado di comprendere e decidere cosa è o meno sicuro per i ragazzi, e che spetta all'amministrazione scolastica stabilirlo». Tornano in mente le sequenze iniziali di First Blood, l'episodio che inaugura la fortunata serie di Rambo, in cui il reduce dalla guerra in Vietnam cammina sul ciglio della strada tallonato dallo sceriffo, che senza mai scendere dall'auto gli spiega che così lui è fuori posto, fuori contesto, in pratica fuori legge anche senza aver fatto nulla. Deve essere qualcosa di simile ad aver ispirato la delibera della dirigente scolastica, di cui ovviamente non possiamo conoscere gli orientamenti politici e culturali, mentre invece in fondo capiamo benissimo e chiaramente il contesto spaziale, sociale, comportamentale e di immaginario.

C'è il suburbio disperso senza centro, dove tutto ruota attorno a pochissimi luoghi di riferimento diversi dalle abitazioni private, in genere connessi in rete esclusivamente dalla grande viabilità stradale, spesso senza neppure il complemento di una viabilità minore storica a sezioni ridotte e con qualche orientamento residuo vagamente pedonale o ciclabile (cosa che avviene invece là dove l'espansione delle nuove residenze si appoggia a qualche nucleo pre-automobilistico di massa). Dentro quel sistema composto di baccelli a fondo cieco, è piuttosto raro e fortuito che esista qualche tipo di accessibilità pedonale diretta e sicura dalla residenza a un'attività diversa, commerciale o di servizio, perché tutta l'organizzazione urbanistica non prevede affatto che ce ne sia la necessità o l'opportunità. Sezione delle carreggiate, separazioni rigide di corsie, arretramenti degli edifici e distinzioni di livello, tutto converge nell'imporre l'uso di un'auto, o di qualche autobus navetta dove ce ne sono disponibili, per ogni spostamento diverso da quelli strettamente interni. Unico interfaccia pedoni-veicoli resta il parcheggio, in forma di piazzale, silo, corsia per la sosta temporanea davanti a un ingresso.

Nessuna sorpresa, se questo modo di spostarsi, addirittura questo modo di concepire e vivere lo spazio, sia stato considerato dalla dirigente scolastica l'unico socialmente accettabile e garantito sicuro per raggiungere la sua scuola. Convinzione rafforzata dalla disponibilità dell'ufficio dello sceriffo di contea a reprimere i trasgressori di quello che, alla fin fine, altro non è che un codice della strada diventato regola di convivenza e organizzazione della vita quotidiana. Basta un'occhiata a volo d'uccello da Google Earth, alla Bear Branch Elementary School di Magnolia, a confermare quanto banale e routinaria possa essere sembrata alla preside signora Ray quella delibera sulla sicurezza dell'accesso alunni all'edificio. Pochissime – vista l'organizzazione a bassissima densità e a abitazioni unifamiliari - le case a distanza pedonale dal complesso, pare ovvio che tutto il traffico in entrata e uscita debba per forza passare dall'arteria principale su cui si affaccia l'ingresso al parcheggio (l'edificio vero e proprio è, da manuale, molto arretrato). I genitori che, vuoi per motivi molto pratici, vuoi per scelte specifiche di comportamento o ambientali, pretendevano di far camminare fin lì i figli, in fondo sono dei rompiscatole stravaganti, che mettono a rischio l'ordine costituito. Difficile, da questo punto di vista, dar torto alla signora Ray. A meno, naturalmente, di dar torto a mezzo secolo abbondante di norme, regole, culture, che hanno prodotto quell'universo claustrofobico. E che in tutto il mondo le amministrazioni locali spesso fanno di tutto per scimmiottare.

La notizia sul sito Fox 26 Houston

© 2024 Eddyburg