La decisione di Donald Trump di trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme è stato il motivo scatenante delle ultime manifestazioni di protesta palestinesi a Gaza. I morti solo nelle ultime ore sono stati oltre 50, eppure fate fatica a far sentire la vostra voce.
Il mondo non riesce a capire che queste manifestazioni palestinesi a ridosso delle linee con Israele non sono frutto di macchinazioni politiche ma l’esito di 11 anni di assedio totale di Gaza che colpisce due milioni di persone innocenti. La condizione di Gaza non è più sostenibile, la popolazione non ce la fa più. Certe forze politiche sono coinvolte, senza dubbio, ma i palestinesi vanno al confine con Israele per chiedere una una vita normale, per avere la libertà. Le manifestazioni andranno avanti spontaneamente e non perché sia tutto telecomandato a distanza come sostiene Israele. Qualcuno deve intervenire, la comunità internazionale o i Paesi della regione, non lo so ma qualcuno deve agire per mettere fine a tutto questo.
Questo intervento internazionale non sembra all’orizzonte e il governo israeliano agisce in un contesto molto favorevole. Gli Stati uniti hanno trasferito la loro ambasciata a Gerusalemme e alcuni Paesi arabi, in particolare l’Arabia saudita ed altre monarchie del Golfo, rafforzano le relazioni con Israele. Per i palestinesi non sarà facile far emergere le loro ragioni.
Un nuovo massacro di palestinesi è avvenuto qui a Gaza nel giorno del passaggio da Tel Aviv a Gerusalemme dell’ambasciata statunitense e a poche ore dal 70esimo anniversario della Nakba. Di fronte a tutto ciò il mondo arabo tace, al massimo balbetta, non fa nulla per proteggere i palestinesi. Non si può negare, ci hanno dimenticato. Certo, capisco che alcuni dei Paesi arabi fanno i conti con crisi interne, conflitti e problemi economici e sociali molto gravi. Altri, come le monarchie del Golfo, sono occupati dal loro scontro a distanza con l’Iran e per loro la questione palestinese non ha più rilevanza. Israele e Usa prendono vantaggio da questa situazione e dalle divisioni esplose in questi anni tra i Paesi arabi.
Neppure la strage di decine di civili di Gaza pare aprire la strada alla riconciliazione tra il movimento islamico Hamas e l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen.
E’ sconcertante. Neppure di fronte al sangue che è stato sparso a Gaza Hamas e Abu Mazen riescono a trovare l’intesa auspicata da tutti per realizzare la riconciliazione nazionale. Il popolo palestinese merita una leadership migliore, e mi riferisco ad entrambe le parti. Sino ad oggi il nostro popolo non è stato in grado di darsi una nuova direzione politica e di rinnovare i leader che controllano la loro vita quotidiana. L’unica speranza è che la continuazione delle proteste e della manifestazioni (lungo le linee con Israele, ndr) metta sotto pressione l’Anp e Hamas fino a spingere queste due forze a fare i conti con la realtà e ad agire soltanto nell’interesse del popolo palestinese. Però non sono ottimista perché negli ultimi 11 anni, Israele ha lanciato tre grandi operazione militari contro Gaza e altre più piccole facendo migliaia di morti e feriti. Neppure questo ha indotto le fazioni palestinesi rivali a ricucire lo strappo e a dare vita a una politica nuova, ecco perché guardo con un certo distacco alla possibilità della riconciliazione. Temo che ci vorrà molto di più per convincere l’Anp e Hamas a voltare pagina.
il manifesto,
Mentre la crisi italiana dopo il voto del 4 marzo getta la maschera, con la rischiosa trattativa di governo tra le due forze populiste vincenti ed emergenti, all’ombra dello «statista» Berlusconi, ecco che subito si riaffaccia la voragine di un’altra guerra. Stavolta con l’Iran come target e Israele come protagonista.
Sono decine le persone uccise nei raid israeliani della notte scorsa in Siria «contro obiettivi iraniani»; l’esercito israeliano – che sostiene di aver reagito al lancio di venti razzi sul Golan (che è territorio siriano occupato da Israele) – ha colpito con 70 missili complessivi, 60 con 28 jet F15 ed F16 e dieci con missili tattici terra-terra dal territorio israeliano. È la prova generale di un’altra guerra su vasta scala e diretta, dopo le tante in Siria «per procura».
Alla nuova deflagrazione ha dato il via libera Trump con la denuncia dell’accordo sul nucleare civile dell’Iran faticosamente raggiunto da Obama insieme ai 5 più 1 (i membri del Consiglio di Sicurezza Onu con potere di veto, Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina più la Germania) e definito da Mogherini «storico». Lo ha fatto con l’annuncio peggiore di nuove sanzioni non solo contro l’Iran ma anche contro chi avrà rapporti con Teheran.
Che quella di Trump sia una scelta di guerra, lo ha denunciato anche il segretario dell’Onu Antònio Guterres. Ma per Trump è di più: è una promessa elettorale da rovesciare nella voragine mediorientale. Come del resto l’altro «ordigno» che lancerà tra poche ore: lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme. Perché l’intento della Casa bianca è lasciare incandescente il «forno» del conflitto tra sciiti e sunniti, eredità delle guerre bipartisan contro l’Iraq.
La guerra in Siria non deve finire con la sconfitta – invece cogente – dello jihadismo alimentato in primis dall’Arabia saudita alleato storico d’acciaio degli Stati uniti. Per questo Trump è diventato un piazzista di armi. A fine 2017 ha riunito il fronte sunnita a Riyadh per schierarlo contro l’Iran, portando in dote alla petromonarchia dei Saud una fornitura di armi di 100 miliardi di dollari. E qui, tra Mediterraneo, fossa comune di migranti e martoriato Medio Oriente non c’è nemmeno la Cina a garantirgli la scena per una trattativa con il cattivo di turno, come accade nella penisola coreana.
Direttore d’orchestra il premier israeliano Benjamin Netanyhau, che aizza contro il nucleare civile dell’Iran mentre Israele possiede centinaia di atomiche (alcune puntate su Teheran) e che va al conflitto, e al tiro al piccione dei palestinesi – dopo aver fatto scempio di ogni possibilità di pace interna – perfino «in bicicletta», sponsorizzato dai media occidentali dopo le tre tappe israeliane del Giro d’Italia (povero Ginettaccio).
Unica voce alternativa al mondo Amnesty International che, dopo un rapporto agghiacciante sui corpi devastati a Gaza dai proiettili israeliani, chiede con forza l’embargo di armi per Israele. Il dossier nucleare di Netanyahu è pari alla sua faccia tosta: Israele è l’unica potenza atomica del Medio Oriente e detta legge sul nucleare civile altrui; eppure «Bibi», con uno spettacolo da comico di crociera, ha «rivelato» al mondo le presunte preparazioni atomiche dell’Iran che l’atomica non ce l’ha, ma aderisce a controlli e Trattati, e vuole solo diversificare le fonti energetiche per la crisi economica che l’attanaglia anche per il peso delle sanzioni Usa.
Mentre in queste ore l’Arabia saudita – fomentatrice del jihadismo sunnita e alleata d’Israele – avverte: «Se Teheran avrà l’atomica anche noi l’avremo». Tra gli altri effetti collaterali, la scena sembra pronta per l’intervento diplomatico di Putin, grande alleato della presidenza Rohani,- del resto Putin venne pubblicamente ringraziato da Obama nel 2015 per la sua decisiva mediazione.
Alternativa alla guerra sembra stavolta la reazione dell’Unione europea che di quell’accordo è stata in parte artefice. Ora, almeno a parole, da Macron a Mogherini, da Merkel all’uscente Gentiloni, si conferma uno schieramento contrario perfino con l’atlantica May. Tutti presi a schiaffi in faccia da Trump. Ma che accadrà quando le capitali europee dovranno fare i conti con lo spettro che già terrorizza, vale a dire l’annunciato embargo americano alle transazioni con l’Iran? Ci vorrebbe allora un’Europa non atlantica.
Perché mentre l’Unione europea si barcamena solo sulle vicende monetarie ed economiche perseguendo coi vincoli di bilancio le già scarse politiche sociali dei Paesi comunitari, la sua politica estera fin qui resta avventurista o apre fronti tardo-coloniali, come fa Macron in Africa; oppure pensa alla difesa europea ma come doppio subalterno (nelle spese e nelle finalità) all’unica realtà sovranazionale d’Europa: la Nato.
Teheran intanto minimizza. Ma s’incendiano nuovi fronti. Così si prepara al peggio. Che non è solo il conflitto in Siria, ma l’attesa provocazione di un raid aereo israeliano su siti nucleari iraniani – un déjà-vu che stavolta sarebbe un detonatore – del quale già si intravvede la traiettoria.
Siamo nella voragine. Ci stiamo dentro nel vuoto di contenuti e di forze che assumano la pace e il rispetto della Costituzione come condizione senza la quale non c’è governo possibile.
Avvenire,
Si tratta del giorno più sanguinoso nel conflitto israelo-palestinese dalla guerra del 2014. Gli ospedali di Gaza hanno lanciato appelli alla popolazione affinché giunga in massa per donare sangue. Le autorità hanno chiesto all'Egitto aiuti medici immediati e l'autorizzazione a trasferire oltre frontiera i feriti più gravi.
Israele sostiene di aver aperto il fuoco solo quando necessario per fermare attacchi, danni alla barriera di confine e tentativi di infiltrazione sul suo territorio. Il primo a morire è stato un 21enne, Anas Qudieh, a Khan Yunis, nel sud della Striscia. Poi un 28enne identificato come Musab Abu Leila, ucciso a Jabalya, a nord. Successivamente il ministero della Salute ha fornito l'identità di altri cinque morti, tra cui un minorenne: Izaldin Musa Al Samak, di 14 anni; Obaidan Salem Farhan, di 30; Mohamed Ashraf Abu Stah, 26; Izaldin Nahid al Aweiti, 23; Bilal Ahmed Abu Daqa, 26. Almeno 250 feriti sarebbero stati colpiti da fuoco vivo, altre centinaia sono intossicati da gas lacrimogeni.
In precedenza, erano 54 i palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza da spari israeliani dall'inizio della Marcia del Ritorno, il 30 marzo, organizzata ogni venerdì lungo la barriera per chiedere il "diritto al ritorno" a 70 anni dall'esodo del 1948.
L'esercito: «Sventato attentato terrorista di Hamas»
L'esercito israeliano accusa Hamas di «dirigere un'operazione terroristica sotto la copertura di masse di persone in 10 località a Gaza». In particolare l'esercito afferma di aver sventato un attentato vicino a Rafah, nel sud della Striscia. «Un commando di tre terroristi armati - ha detto un portavoce - stava cercando di deporre un ordigno. Le nostre forze hanno reagito e i tre sono morti». Secondo i media, i militari hanno fatto ricorso a un carro armato.
Il portavoce ha aggiunto che velivoli israeliani hanno colpito anche un obiettivo di Hamas a Jabalya, dopo che da lì erano partiti spari. Fonti locali riferiscono inoltre che un aereo da combattimento israeliano ha colpito con almeno un missile un obiettivo nel Nord della Striscia.
L'Anp chiede un intervento internazionale
Il governo dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) accusa Israele di avere commesso un «terribile massacro». In una dichiarazione, il portavoce del governo palestinese Yusuf al-Mahmoud ha chiesto «un intervento internazionale immediato per fermare il terribile massacro a Gaza commesso dalle forze di occupazione israeliane contro il nostro popolo eroico». Il governo palestinese ha base a Ramallah, nella Cisgiordania occupata.
Nella Striscia sciopero e mobilitazione di massa
Fin dal mattino migliaia di palestinesi si erano radunati in diversi punti della barriera, mentre cecchini israeliani erano posizionati dall'altra parte. Piccoli gruppi di manifestanti hanno cominciato a lanciare pietre verso i soldati, che hanno risposto sparando.
Nella Striscia è sciopero generale, mentre mezzi pesanti trasportano i manifestanti al confine e dagli altoparlanti delle moschee i muezzin esortano a raggiungere il milione di presenze alla protesta di massa. In concomitanza con il 70° anniversario della fondazione d'Israele, i palestinesi commemorano domani la Nakba, il ricordo delle oltre 700 mila persone costrette a lasciare le proprie case nel 1948.
Massimo dispiegamento di forze israeliane
L'esercito israeliano ha raddoppiato gli uomini sia in Cisgiordania sia al confine con la Striscia di Gaza. Un migliaio di poliziotti sono stati dispiegati a Gerusalemme per garantire la sicurezza dell'ambasciata. Jet dell'esercito israeliano hanno lanciato volantini sull'enclave palestinese esortando gli abitanti a non lasciarsi manovrare da Hamase a restare lontani dal confine. «L'esercito israeliano - si legge nel volantino in arabo - è pronto ad affrontare qualsiasi scenario e agirà contro ogni tentativo di danneggiare la barriera di sicurezza o colpire militari o civili israeliani».
Hamas: «Non moriremo da soli». Al-Qaeda chiama al jihad
Avvertimenti simili ma di segno opposto sono stati lanciati da Hamas nei giorni scorsi: in un video in ebraico il movimento si è rivolto ai residenti delle comunità israeliane vicino al confine con Gaza, esortandoli ad andarsene. «Siete stati avvisati, attraverseremo il confine e raggiungeremo tutte le vostre comunità. Non moriremo da soli». Anche il leader di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, ha lanciato un appello al jihad, sottolineando che Trump, «è stato chiaro ed esplicito, e ha rivelato la vera faccia della Crociata moderna: l'essere accomodante non funziona con loro, ma solo la resistenza attraverso il jihad».
Inaugurata l'ambasciata Usa, Trump: «È un grande giorno»
È toccato a Ivanka Trump il compito di togliere il velo allo stemma sul muro della legazione americana a Gerusalemme. «A nome del 45esimo presidente degli Stati Uniti d'America - ha detto la figlia di Trump - vi diamo ufficialmente il benvenuto per la prima volta all'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, capitale di Israele».
Dopo l'inno nazionale l'ambasciatore Usa in Israele, David Friedman, ha preso la parola e, quando ha menzionato Donald Trump, per il presidente Usa c'è stata una standing ovation. Friedman si è riferito alla sede dell'ambasciata parlando di «Gerusalemme, Israele», suscitando un applauso scrosciante. «Oggi manteniamo la promessa fatta al popolo americano e accordiamo a Israele lo stesso diritto che accordiamo a tutti i Paesi, cioè il diritto di designare la sua capitale», ha dichiarato l'ambasciatore.
La delegazione presidenziale alla cerimonia è guidata dal vice segretario di Stato John Sullivan; ne fanno parte anche la figlia e il genero di Trump, rispettivamente Ivanka Trump e Jared Kushner, entrambi collaboratori della Casa Bianca, nonché il segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin. Partecipano circa 800 ospiti.«La nostra più grande speranza è la pace» ha detto Trump, in un messaggio preregistrato. «Gli Stati Uniti - ha aggiunto - rimangono pienamenteimpegnati a facilitare un accordo di pace duraturo».
Tra i 32 Paesi rappresentati presenti anche 4 Paesi europei (Austria, Repubblica Ceca, Ungheria e Romania) nonostante la ferma condanna di Bruxelles per la decisione di Washington. Nessun delegato invece dell'Unione Europea, né di Russia, Egitto e Messico. Calorosi ringraziamenti a Trump erano già stati espressi ieri dal premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che ha esortato altri Paesi a trasferire le proprie ambasciate a Gerusalemme.
Nena News,
«Intervista a Avraham Burg, politico e scrittore israeliano, ex presidente della Knesset: "La società israeliana si è radicalizzata perché, come nel resto del mondo, il welfare è stato demolito dalla filosofia neoliberista e la solidarietà sociale da politiche identitarie"»
Di nuovo giovedì il ministro della difesa israeliano Lieberman ha lanciato un appello ai paesi del Golfo per la creazione di un asse anti-Teheran.
Non sono però così certo che una tale alleanza possa reggere. Il Medio Oriente non è quello che si vede, è luogo pieno di specchi: non sai mai qual è l’oggetto reale e quale il suo riflesso. Di base, se si vuole dividerlo tra sciiti e sunniti, è chiaro che Israele ha scelto il secondo fronte. Ma se si va a vedere in profondità non è così semplice. Un esempio: l’Iran sostiene Hamas che è una formazione sunnita. Il Medio Oriente è come il caffè arabo: bisogna aspettare che la polvere si posi in fondo alla tazzina per capire. Per questo non sono affatto sicuro che una simile alleanza possa davvero realizzarsi: in mezzo ci sono diversi elementi che potrebbero interferire, a partire dal ruolo della Turchia.
In tale contesto la società israeliana ha vissuto una polarizzazione ulteriore, dagli anni ’90 si è spostata a destra, si è radicalizzata. Un effetto delle politiche dei governi post-laburisti o la trasformazione è avvenuta alla base?
Se si guarda al processo vissuto dall’Italia negli ultimi 20 anni è piuttosto simile a quello in Israele: le politiche di Berlusconi e Netanyahu sono entrambe state fondate sull’apparenza mediatica, mentre il welfare veniva demolito dalla filosofia neoliberista e la solidarietà sociale distrutta da politiche identitarie. Il processo è identico, globale. La differenza sta nella presenza, in Israele, di un conflitto con i palestinesi che si sviluppa nell’ambito di dinamiche di trasformazione delle società e frammentazione della solidarietà interna.
Il nemico interno collante di una società frammentata sul piano socio-economico: i palestinesi sono lo strumento per evitare l’esplosione di conflitti interni?
Oggi assistiamo alla combinazione tra la divisione interna israeliana e la radicalizzazione dell’attitudine verso i palestinesi. Questo ha fatto venir meno qualsiasi spinta verso una soluzione. Abbiamo una leadership palestinese debole, una leadership israeliana priva di interesse verso il dialogo, una diversità di interessi da parte dei paesi vicini, un presidente pazzo alla Casa bianca e un’Europa invisibile. Non ci sono più attori, come successo con Oslo, che sostengano l’apertura di un dialogo.
Viene meno anche la legalità internazionale: il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, lunedì, è un atto simbolico o il preludio a cambiamenti strutturali?
Trump non ha una politica chiara, è impossibile definirlo e comprenderlo. È possibile che oggi ripaghi i suoi amici conservatori in America e in Israele e che domani invece «ricatti» Israele: ho spostato l’ambasciata, ho creato un conflitto con l’Iran, ora dovete accordarvi con i palestinesi. Chissà. Di certo l’Occidente ha perso il controllo su tutto e Israele fa quel che vuole. A muovere i fili in Medio Oriente sono i vari imperi e i loro alleati locali, l’impero americano, il russo, il persiano e quello neo-ottomano.
Israele, allo stesso tempo, gode ancora di appoggio in Europa per la crescente islamofobia e perché visto come modello di sicurezza.
Non esiste un’Europa sola, ma due: un’Europa dell’est che d’improvviso si scopre «giudeofila» per giustificare la sua islamofobia; e poi un’Europa dell’ovest preda di poteri nuovi come in Italia i 5stelle, che non hanno idea della questione. In tale caos dominato dalla paura, in nome di una falsa sicurezza si sacrificano i diritti. E il modello è Israele.
Avvenire, 9 maggio 2018. Inguaribilmente prigioniero d'una parossistica passione per la violenza bellica, capace di mentire spudoratamente più ancora dei suoi più bugiardi predecessori, Trump agita verso il mondo il manganello della guerra nucleare.
Il Piano d'azione congiunto globale (in inglese Joint Comprehensive Plan of Action, acronimo JCPOA) è un accordo quadro tra l’Iran da un lato, e dall’altro lato i 5 paesi del Consiglio di sicurezza dell’Onu, cioè Cina, i, Russia, Regno unito, Stati uniti, più la Germania e l’Unione europea, riguardanti i limiti e le condizioni accuratamente stabiliti entro i quali l’Iran deve contenere e i suoi programmi di utilizzazione dell’energia nucleare. Per monitorare e verificare il rispetto dell'accordo da parte dell'Iran, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA) avrebbe avuto regolare accesso a tutti gli impianti nucleari iraniani. In cambio del rispetto dei suoi impegni, l’Iran avrebbe ottenuto la cessazione delle sanzioni economiche precedentemente stabilite.
L'accordo è stato finora rispettato da tutti i contraenti. Il gesto folle dell’attuale presidente degli Usa di uscire unilateramente dall’accordo significa che, mentre il resto del mondo rimane vincolato a quell’accordo, solo l’Impero statunitense può agitare il manganello della guerra nucleare e utilizzarne i mortiferi strumenti. (e.s.)
Di seguito l'articolo di Riccardo Redaelli, da Avvenire del 9 maggio 2018, che abbiamo scelto tra i diversi commenti apparsi oggi sulla stampa italiana
E quindi se ne vanno. Come ampiamente previsto e temuto, Donald J. Trump ha annunciato che gli Stati Uniti si ritirano dal Jcpoa, il compromesso sul nucleare iraniano faticosamente siglato nel 2015 dall’allora presidente Barack Obama sotto l’egida delle Nazioni Unite con l’lran. Non sono bastasti gli appelli dell’Europa e dell’Onu, e neppure le dichiarazioni dell’Agenzia atomica internazionale che attestano come Teheran non stia violando i termini dell’accordo. Neppure l’ultimo tentativo di Londra di convincere Washington è servito, a dimostrazione di quanto si sia deteriorato – con questa amministrazione – anche lo storico "legame speciale" tra quelle due capitali.
Da tempo è già partita la grancassa retorica per giustificare la rottura: l’accordo (che, invece, era e rimane un compromesso ragionevole) è un disastro, non ha fermato i programmi missilistici né l’attivismo regionale iraniani. Discorsi strumentali, dato che il tema delle trattative da sempre era concentrato sulla questione nucleare, non su altro. In verità, sono diverse le ragioni di questo nuovo strappo con il sistema internazionale: le pressioni saudite e israeliane, l’ostilità contro Teheran che la destra statunitense ha sempre dimostrato, la forza persuasiva della lobby anti-iraniana che è fortissima nei palazzi del potere di Washington. Ma non va sottovalutata la fanatica determinazione con cui i falchi attorno al presidente sembrano voler smantellare ogni eredità degli otto anni della presidenza Obama, un uomo e un politico verso cui nutrono un’ostilità irriducibile.
E neppure la debolezza del Dipartimento di Stato, umiliato da pesantissimi tagli finanziari, privo da più di un anno di molti vertici tecnici mai nominati dal nuovo presidente, e con a capo un politico ruvido come Mike Pompeo, distante anni luce dallo stile e dal linguaggio della diplomazia internazionale.
Non si può non guardare con preoccupazione al crescendo di mosse unilaterali di Trump, il quale sembra voler sfuggire al crescente gossip "pornografico" interno, alle inchieste del Fbi, alla frustrazione di dover eternamente negoziare con un mondo istituzionale che fatica ad accettarlo, lanciando in continuazione il guanto di sfida alla comunità internazionale. Prima la denuncia dell’accordo sul clima, poi i dazi commerciali minacciati e a volte applicati per difendere «i posti di lavoro americani», a cui la Cina ha già risposto con perfida efficacia annullando contratti di acquisto di beni agricoli per miliardi di dollari, colpendo duramente proprio quegli stati del Midwest che hanno garantito la vittoria elettorale di "The Donald". Ora il nucleare iraniano.
In realtà, si vedrà solo nelle prossime settimane la reale portata di questo annuncio. Perché come sempre, al di là dei roboanti proclami, contano i dettagli tecnici. Di fatto, già Obama aveva disatteso nella sostanza, se non nella forma, alcune parti dell’accordo, non eliminando una serie di sanzioni finanziarie e commerciali. Tanto che qualcuno ha ironizzato dicendo che Trump uccide un accordo mai entrato veramente in funzione. Vedremo quanto gli americani vorranno giocare pesante con l’Iran e quanto saranno disposti a irritare gli europei re-imponendo nuove sanzioni contro chi commercia con il Paese degli ayatollah. È comunque indubbio che l’Unione Europea non possa rimanere in silenzio o piegarsi supinamente alle decisioni statunitensi. Già nel mondo noi europei siamo ormai considerati sostanzialmente irrilevanti nelle questioni politiche che contano. Se non reagiremo ai ventilati dazi commerciali e alle nuove sanzioni contro Teheran certificheremo una nullità politica.
Ma fondamentale sarà capire come reagirà l’Iran. Per il presidente moderato Rohani e per i riformisti iraniani, maggioritari nel paese ma marginalizzati politicamente dal regime, si tratta di una umiliazione che li indebolisce.
Per i conservatori, gli ultra-radicali e i pasdaran, che avevano digerito a fatica questo accordo, il ritiro statunitense è un aiuto insperato. Serve a loro per dimostrare che ogni intesa con l’Occidente è tempo e fatica sprecata, perché l’obiettivo non è accordarsi con la Repubblica islamica ma distruggerla. E che i moderati che vogliono negoziare, dal nucleare alle politiche regionali, sono o degli 'utili idioti' o dei traditori dei valori rivoluzionari. La speranza europea è che a Teheran ci si accontenti di qualche dichiarazione roboante, mantenendo intatta la sostanza dell’accordo. In ogni caso, un nuova pessima decisione presa Oltreatlantico, che allarga ancora la distanza fra le due sponde di questo oceano, che è stato per decenni un ponte saldo e protettivo fra le diverse anime dell’Occidente.
Potere al popolo-Firenze,
Avvenire, 2
Corriere della Sera,
La democrazia vive se riesce a creare benessere. Se, cioè, si dimostra in grado di distribuire un dividendo ai propri cittadini. Il neoliberismo, figlio della società welfarista e consumerista degli Anni 60 e 70, ha interpretato questo compito nei termini di un aumento delle possibilità individuali di scelta. In un sistema a possibilità crescenti (quello nato dalla combinazione tra globalizzazione e finanziarizzazione), un’idea vincente. È l’incepparsi di questa dinamica che, a partire dal 2008, ci ha fatto entrare in un’altra epoca storica.
Il punto è che il benessere è multidimensionale. Ha certamente a che fare con gli aspetti quantitativi e materiali della nostra vita, come avere a disposizione più beni, poter scegliere tra più possibilità, che però non li esauriscono. In particolare, si è sottovalutato il fatto che la sicurezza è un bene primario. Da molti anni se ne parla. Basterebbe citare Bauman, ripetutamente tornato sul punto. Ma, è solo dopo il 2008 che la questione da privata è diventata pubblica. La ragione è semplice: anche se non vogliamo ammetterlo, il tipo di crescita che abbiamo costruito tende a generare una insicurezza diffusa che tocca la vita quotidiana di un numero elevato di persone. Un effetto che è diventato sempre meno sostenibile al punto da rendersi indipendente dall’effettivo andamento delle cose, così come rappresentato dai dati statistici.
Si pensi all’esito paradossale delle riforme del lavoro di Renzi. In effetti, grazie al Jobs act l’occupazione nel suo complesso è cresciuta in Italia tanto che oggi, in Italia, si contano più di 22 milioni di occupati: un record storico. Ma il problema è che tale crescita è stata più quantitativa che qualitativa: la quota di lavoro instabile o mal pagato rimane troppo alta. Così che la percezione diffusa rimane problematica. O si pensi al tema dei migranti. I numeri non sono mai stati apocalittici e da tempo i flussi si sono arrestati. Ma, al di là dei dati (che dimostrano che non c’è stato un aumento degli atti criminosi), la percezione diffusa è di vivere in un mondo estremamente insicuro: il mix tra informazione mediatica ed esperienza quotidiana produce l’idea di un mondo ormai alla deriva, in cui il singolo cittadino si trova a dover gestire da solo questioni molto complesse (come appunto la convivenza con gruppi etnici completamente diversi e sconosciuti).
L’elenco potrebbe continuare: incertezza ambientale, spesso associata ai disastri naturali e alle inadempienze dei lavori pubblici; esposizione al terrorismo, che si mescola con i venti di guerra; arretramento lento ma continuo delle protezioni offerte dal welfare; fino ad arrivare a legami famigliari sempre più fragili (con il correlato drammatico della violenza domestica).
A tutto ciò si aggiungono poi altri fattori: la fine delle ideologie e la perdita di qualsiasi narrazione condivisa; la confusione del mondo ipermediatizzato dove è sempre più difficile distinguere il vero dal falso; e l’invecchiamento della popolazione, strutturalmente associato a maggiore instabilità e fragilità esistenziale.
Il problema, come scriveva Luhmann, è che la paura non è controllabile dai sistemi funzionali. Anzi, in taluni casi la miglior prestazione funzionale può correlarsi con più paura senza riuscire a eliminarla. Il che tende a far emergere un nuovo stile di morale che si fonda non più su norme, ma sul comune interesse a ridurre la paura. Le nostre società si strutturano ormai attorno a questa nuova faglia. Chi è protetto - perché ha un lavoro stabile, vive in un quartiere ordinato, ha una buona istruzione e di una rete relazionale solida - non riesce a percepire il problema. E non si accorge che dispone di beni che una società avanzata non è più in grado di produrre a sufficienza per tutti.
Se si tiene conto di tutto questo, si capisce l’errore delle élite in questi ultimi anni: non aver voluto vedere gli effetti collaterali della crescita e di conseguenza non aver capito che, nelle mutate condizioni storiche, il benessere distribuito non era più né quantitativamente né qualitativamente adeguato.
Solo così si capisce che questo è un tempo di politica e non di tecnica. La richiesta di sicurezza - spesso guardata con sicumera dalle élite - che viene dai ceti popolari è che sia ristabilito il filtro di una comunità politica in grado di riparare la vita quotidiana dall’esposizione alle conseguenze problematiche della crescita tecno-economica. Che questa istanza venga interpretata solo nella prospettiva sovranista - e in taluni casi decisamente reattiva e violenta - può essere un problema, anche perché le proposte di soluzione sono vaghe e ben poco convincenti. Ma a mancare è soprattutto la capacità di proporre un’idea di sicurezza positiva - non come chiusura o contrapposizione ma come relazione e inclusione - che presupponga un’idea più ampia e articolata di benessere. Una bella sfida, tutta politica.
il manifesto, 2
«La propaganda contro gli immigrati alimenta politiche sovraniste e xenofobe, che spesso guadagnano il governo dei paesi europei. L’Italia è sul piano inclinato»
Il 25 aprile e il rapporto tra fascismo e razzismo. Non sono la stessa cosa, ma sono parenti stretti. Il razzismo era in auge anche prima dell’avvento del nazifascismo: il colonialismo veniva legittimato con la pretesa superiorità dell’«uomo bianco».
Ma è stato il nazismo, prima, e il fascismo, dopo, indipendentemente uno dall’altro, a fare della “difesa della razza”, poi dell’assoggettamento e infine dello sterminio delle “razze inferiori” le loro bandiere.
Oggi però quel rapporto si invertito. Non è il fascismo a promuovere il razzismo. E’ un razzismo ormai diffuso in tutta Europa, e particolarmente virulento in Italia, che coincide con il rigetto e la fobia nei confronti dell’immigrato, del profugo, dello straniero, a dar fiato alla nostalgia di fascismo e nazismo. Per le destre sovraniste e nazionaliste si è rivelato una “gallina dalle uova d’oro”, grazie anche al sostegno di quasi tutti i mass media; per la maggioranza di coloro che lo condividono, anche se non lo praticano, è uno stato d’animo, una risposta “facile” e immediata che “spiega” il peggioramento e la precarietà della propria condizione.
L’establishment è riuscito a scaricare sul capro espiratorio la “colpa” dei danni che l’alta finanza sta inferendo a tutto il resto della popolazione con una crisi che viene presentata ormai come un dato naturale. Ma è sbagliato sostenere, come fanno alcuni, che fascismo e antifascismo sono solo fattori di distrazione di massa, perché il vero fascismo è quello delle politiche imposte dalla finanza globale, per lo più indicate con il termine, del tutto inappropriato, di neoliberismo. Perché, in caso di necessità – per loro – quelle politiche non sono incompatibili con qualche forma di fascismo. Ma è altrettanto sbagliato invocare un fronte comune (o “un governo di salute pubblica”) che faccia argine a fascismo e nazionalismo, senza vedere che a promuoverli è proprio quel razzismo, negato a parole, che ispira le politiche di respingimento, disumanizzazione e sopraffazione di profughi e migranti, condivise dalla maggior parte dei governi e dei partiti.
Luigi Manconi mette in guardia dal chiamare razzista chi nel razzismo sente di star precipitando perché non ha argomenti da contrapporgli, ma vorrebbe evitarlo. Gli argomenti oggi correnti, spesso basati su falsi infami, o nascondendo la realtà, sono solo quelli che promuovono il razzismo: quelli diffusi tutti i giorni capaci di spalancare le porte all’onnipresenza di Salvini e alle ragioni del “così non si può andare avanti”. Mentre a chi, giorno dopo giorno, affronta. in condizioni sempre più precarie, un’ostilità diffusa verso profughi e migranti non viene prestata alcuna attenzione. Non hanno voce nei partiti, dove si assiste a una corsa alla criminalizzazione sia dei profughi che di chi esprime o pratica la solidarietà nei loro confronti.
Per alcuni il razzismo apertamente professato è un modo per recuperare una propria identità, distrutta dalla precarietà, dalla mancanza di prospettive e dall’ignoranza; facile che in queste condizioni si approdi al fascismo. Ma per i più è solo un modo per “sfogare” il proprio malessere; però è un piano inclinato, lungo cui è facile scivolare, ma è sempre più difficile tornare indietro.
In parte lo abbiamo già visto con le politiche messe in atto da Minniti: più morti in mare grazie alla criminalizzazione e all’allontanamento delle navi della solidarietà; più respingimenti – effettuati e rivendicati dalla “guardia costiera” libica con i mezzi forniti dal governo italiano – per riportare i profughi “salvati” in mare alle stesse violenze, torture, ricatti, schiavitù da cui cercavano di fuggire; qualche rimpatrio forzato (altro che 600mila!), fatto a scopo mediatico, perché farli tutti costa troppo e richiederebbe accordi con i paesi di destinazione, anche “oliando” i regimi corrotti da cui quei profughi sono fuggiti.
Respingere non significa solo restituire dei fuggiaschi disperati alle vecchie schiavitù, ma anche esporli al reclutamento delle bande che hanno reso invivibili i loro paesi: così tra pochi anni l’Europa sarà circondata da guerre e bande armate da est a sud. E dopo il Niger forse andremo, non invitati, e in puro stile coloniale, a fare la guerra ai migranti in altri paesi; per ridurre anche loro come sono stati ridotti Libia, Siria, Iraq e Afghanistan, dove una volta messo il piede è sempre più difficile andarsene. Moltiplicando così il flusso di chi fugge. Ma anche gli “stranieri” e i profughi che sono già arrivati negli anni, e che continueranno ad arrivare anche più numerosi in futuro, condannati per legge a essere “clandestini”, o trattati come intrusi anche dove si erano inseriti, o avrebbero potuto inserirsi, costituiranno sempre di più un “problema” per tutti.
Un alibi per imporre a tutti restrizioni e dispotismo: sul lavoro, a scuola, nella spesa pubblica, nella vita quotidiana, sulla possibilità di associarsi e di lottare: ecco da dove nascerà il nuovo fascismo.
Autorità e governi dell'Unione europea sono ben contenti che l’Italia adotti politiche più feroci verso i migranti: gli risolve un problema che non sanno e non vogliono affrontare. Ma in questo modo trasformano l’Italia (e la Grecia, quando Erdogan riaprirà le dighe che ha eretto, a pagamento) in quello che è oggi per noi la Libia: un campo di concentramento in cui bloccare – e massacrare – quelli che da Ventimiglia, Como e al Brennero non devono più passare.
Esistono le alternative, ma solo se si guarda lontano, verso tutti i paesi che circondano il Mediterraneo, dal Medio oriente al Sahel. Perché quel flusso oggi inarrestabile si potrà invertire solo se quei profughi verranno accolti, inseriti nel lavoro e in una comunità, messi in condizione di contribuire non solo al Pil e alle casse dello Stato, ma anche alla nostra cultura, alla nostra vita quotidiana, al risanamento ambientale del nostro territorio, al contenimento della catastrofe climatica che li ha costretti a fuggire dal loro. Essere poi messi in condizione di far ritorno, se lo desiderano, nelle loro terre di origine. Se ci adopereremo per liberarle dalle armi che vendiamo, dalla guerra e dalle dittature che sosteniamo, dallo sfruttamento delle loro risorse che arricchiscono solo chi è già molto ricco, dal degrado del loro ambiente di cui siamo in gran parte la causa.
NENAnews,
Martedì 17 aprile si è celebrata in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza l’annuale giornata di sostegno ai palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Alcune migliaia di manifestanti hanno sfilato a Gaza fino ad arrivare davanti alla sede della Croce Rossa dove numerose bambine mostravano le foto dei principali detenuti, diventati simboli della resistenza all’occupazione.
Stesse immagini, anche se in tono minore, in Cisgiordania dove le manifestazioni maggiori si sono tenute a Betlemme e Ramallah. Al contrario dello scorso anno non si sono registrati scontri con le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese, spesso accusate dalla popolazione di essere complici dei numerosi arresti di questi ultimi anni.
Dopo le dichiarazioni di Trump, riguardo alla città di Gerusalemme come capitale dello stato ebraico, e la reazione da parte del presidente Abu Mazen nei confronti degli ormai defunti “accordi di Oslo”, gli apparati di sicurezza palestinesi hanno, almeno temporaneamente, sospeso molte attività di collaborazione con i militari di Tel Aviv.
Secondo Addameer, ong palestinese per i diritti dei detenuti palestinesi, sono circa 6.500 i prigionieri nelle carceri israeliane, di cui circa 350 minorenni, 62 donne e 26 giornalisti. Tra i detenuti una cinquantina hanno passato oltre 30 anni in prigione e circa 700 necessitano di cure mediche urgenti, negate dalle autorità carcerarie di Tel Aviv. L’ultimo dato riportato da Addameer riguarda gli oltre 500 prigionieri palestinesi incarcerati in regime di detenzione amministrativa.
Secondo il diritto internazionale, la detenzione amministrativa può essere usata solo per “ragioni imperative di sicurezza” in una situazione di emergenza, decidendo caso per caso. L’utilizzo della detenzione amministrativa da parte di Israele, al contrario, è spesso una pratica di massa, ordinaria, come alternativa al tribunale militare soprattutto quando i palestinesi arrestati rifiutano di confessare durante l’interrogatorio. In un recente comunicato il segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (sinistra radicale), Ahmed Sa’adat, incarcerato da oltre 12 anni, ha affermato che “Israele si professa uno stato di diritto, anche se continua a uccidere civili indifesi nei Territori Occupati e all’interno delle sue prigioni si è incarcerati, senza un’accusa precisa, e si può rimanere in detenzione per anni senza un processo, visto che la detenzione amministrativa è utilizzata come forma illegale di repressione politica contro la resistenza”.
Tra le foto dei detenuti portate in corteo spiccavano numerosi simboli della lotta contro l’occupazione e la violenta repressione sionista. Quella di Ahed Tamimi, ragazzina 17enne di Nabih Saleh, arrestata per aver schiaffeggiato due militari israeliani davanti alla sua abitazione. Ahed è diventata, infatti, il simbolo della rivolta nei Territori Occupati e della determinazione palestinese a resistere anche per il coraggio dimostrato durante i feroci interrogatori – resi visibili recentemente – alla quale è stata sottoposta dalle autorità di Tel Aviv.
Per quanto riguarda gli esponenti politici primeggiavano, invece, le immagini di Marwan Barghouti, l’esponente di Fatah incarcerato durante la Seconda Intifada e leader della protesta dello scorso anno contro i soprusi israeliani nei confronti dei prigionieri politici. Quella di Khalida Jarrar, esponente politica del Fplp in detenzione amministrativa, senza una precisa accusa, dallo scorso luglio o quella di Salah Hamouri, attivista e militante franco-palestinese del Fplp, arrestato dalle forze israeliane ad agosto.
Il caso di Hamouri ha avuto una maggiore eco in Francia, con numerose proteste da parte di esponenti politici della sinistra d’oltralpe, visto che il giovane avvocato è stato fermato per il semplice fatto di aver contestato il governo Netanyahu per l’utilizzo indiscriminato della detenzione amministrativa e per la negazione dei fondamentali diritti civili nei confronti dei prigionieri politici palestinesi.
Numerose sono le manifestazioni di sostegno in tutta Europa e in diverse città italiane per tutta la settimana. Lo scorso sabato, ad esempio, si è tenuto a Roma un convegno sui prigionieri politici con esponenti palestinesi, giuristi ed associazioni solidali alla causa palestinese. Un incontro organizzato per “rivendicare l’assoluta illegalità portata avanti da Israele” e per manifestare la solidarietà al popolo palestinese in un momento di lotta come quello della “Marcia del Ritorno” a Gaza con una trentina di civili uccisi e oltre 4mila feriti durante le proteste pacifiche di questo mese.
Senza risposta, da parte del governo israeliano, le accuse di Amnesty International e della sua responsabile per il Medio Oriente, Magdalena Mughrabi, che ha affermato come “la detenzione arbitraria di esponenti politici e attivisti sia un vergognoso esempio dell’abuso da parte delle autorità israeliane della detenzione amministrativa per incarcerare sospetti indefinitamente senza accusa né processo, in uno stato che, dal 1948, ha imprigionato circa un milione di palestinesi”.
Internazionale (a.b.)
A un anno esatto dal lancio della campagna “Ero straniero, l’umanità che fa bene” per una legge d’iniziativa popolare di riforma della legge sull’immigrazione in Italia, il 19 aprile a Roma le stesse associazioni hanno lanciato la campagna “Welcoming Europe, per un’Europa che accoglie”, un’iniziativa di cittadini europei per chiedere alla Commissione europea di scrivere una legge comune europea sull’immigrazione e sull’asilo in particolare su tre punti: la creazione di canali umanitari per i rifugiati attraverso lo strumento della sponsorship, la protezione delle vittime di sfruttamento lavorativo e di violenze e la depenalizzazione del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per le organizzazioni umanitarie che aiutano i migranti non a scopo di lucro.
L’obiettivo è raccogliere un milione di firme in un anno in almeno sette paesi europei. La proposta è stata registrata alla Commissione europea nel dicembre 2017 ed è stata approvata il 14 febbraio 2018. Tra i promotori dell’iniziativa ci sono: Radicali italiani, Arci, Asgi, Arci, Action Aid, A buon diritto, Cild, Oxfam, Fcei, Casa della carità, Cnca, Agenzia scalabriniana per la cooperazione e lo sviluppo, Legambiente, Baobab experience.
Oltre che in Italia, si sono costituiti comitati promotori in Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Estonia, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Spagna e Ungheria.
I tre punti della proposta
«La prima proposta riguarda i richiedenti asilo, chiediamo che sia introdotta la sponsorship privata. Chiediamo cioè d’introdurre la possibilità, sulla scia dei corridoi umanitari realizzati in Italia, di avere un finanziamento per le sponsorship private», spiega Claudia Favilli, docente di diritto europeo all’università di Firenze e socia dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. «I privati, le associazioni, le organizzazioni possono farsi carico dell’accoglienza di rifugiati e del percorso di d’integrazione dei rifugiati, come nel modello canadese», continua. Al momento non è previsto in nessuna legislazione, il caso dei corridoi umanitari promossi in Italia dalla Comunità di sant’Egidio, dalla diaconia Valdese e dalla Cei sono stati un’eccezione. «Si tratta di mettere a sistema l’esperienza sperimentata con i corridoi umanitar», conclude Favilli.
In Italia non viene distinto
chi favorisce l’immigrazione clandestina a scopo di lucro
e chi compie questo reato a scopo umanitario
La seconda proposta prevede che le vittime di violenza e di sfruttamento lavorativo, anche se irregolari, siano tutelate se decidono di denunciare i datori di lavoro. «La proposta prevede che ci sia un sistema strutturato di garanzie a tutela di queste persone che vogliono denunciare il lavoro nero. Questo infatti è il motivo per cui molte persone non denunciano, perché sono ricattabili, hanno paura di essere espulse», afferma Favilli.
Il terzo punto riguarda la criminalizzazione della solidarietà: «Chiediamo che sia modificata la direttiva 2002 numero 90 dell’Unione europea che obbliga gli stati a prevedere sanzioni per l’ingresso irregolare in Europa. La direttiva è formulata in un modo molto generico e quindi non qualifica in nessun modo il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per scopi umanitari».
Questo ha fatto sì che 24 stati europei prevedono sanzioni anche per chi aiuta i migranti irregolari a scopo umanitario. “In Italia non viene distinto che favorisce l’immigrazione clandestina a scopo di lucro e chi, lateralmente alla sua attività umanitaria, può compiere questo reato”, afferma Favilli.
Solo quattro stati europei, tra cui la Germania, hanno declinato il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina distinguendo tra chi lo compie a scopo di lucro e chi lo compie mentre sta svolgendo un’attività umanitaria. «In Italia per esempio anche gli umanitari possono essere incriminati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, salvo poi dover dimostrare che hanno agito in uno stato di necessità cioè per salvare la vita a qualcuno o evitare un danno grave», continua Favilli.
postilla
È sconcertante che la civiltà ruropea, dopo aver promosso e favorito i diritti universali degli appartenenti all'umanità, rifiuti di riconoscere questi diritti a chi proviene dalla sponda meridionale del Maditerraneo. Il significato di questo reiterato rigetto ha una sola, terrorizzante, spiegazione: il germe del razzismo è così profondamente penetrato nel sangue degli europei da farli deventare tutti identici ai nazisti di Hitler. (a.b.)
il manifesto, 1organizzata
«Penisola arabica. Esposto di Rete disarmo e altre ong per l’export di bombe sarde all’Arabia saudita»
L’Italia è colpevole di crimini di guerra in Yemen, in combutta con la fabbrica di Rwm Italia Spa di Domusnovas in Sardegna, di proprietà del gruppo industriale Rheinmetall, con sede a Dussendorf in Germania. In estrema sintesi è questa la tesi con cui la Rete Disarmo, insieme ad altre organizzazioni che si battono per la fine di uno dei conflitti più ignorati e insieme più mortiferi del mondo arabo, ha sferrato la sua battaglia legale contro le ipocrisie e le opacità dell’export di sistemi d’arma in Italia.
L’esposto è stato depositato alla procura della Repubblica di Roma e presentato ieri con una conferenza stampa internazionale. «Si tratta di una denuncia penale molto ben documentata», ha spiegato Francesca Cancellaro dello studio Gamberini incaricato di seguire l’azione legale intentata contro i vertici la Rwm Italia e dell’Uama, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento, cioè il comitato che indirizza per conto di Palazzo Chigi l’attività parlamentare di verifica e concessione delle autorizzazioni all’esportazione di armi in base alla legge 185.
Anche se il direttore dell’Uama, il ministro Francesco Azzarello, ha fatto sapere a stretto giro di essere «sereno» e «a completa disposizione della magistratura», la vicenda di cui dovrà rispondere, se la magistratura italiana aprirà un fascicolo, non sarà né semplice né generica.
Nel dossier presentato in procura si fa riferimento, con foto e testimonianze, alla morte di sei persone, incluso una donna incinta e quattro bambini, nel villaggio yemenita di Deir Al Hajari, situato in una zona di nessuna rilevanza strategica, senza insediamenti militari, un villaggio popolato solo di civili inermi.
I sei morti identificati furono provocati da un raid aereo della coalizione militare a guida saudita l’8 ottobre 2016. Successivamente nel cratere dell’esplosione sono stati rinvenuti i resti delle bombe incluso un anello di sospensione che, fatti analizzare da una società specializzata , si possono far risalire alla produzione dello stabilimento sardo della Rwm di fine 2016 cioè dopo la deflagrazione del conflitto armato in Yemen.
I legali dicono che a quel punto, dopo le denunce dell’Onu, essendo «notorio» che in Yemen si stavano consumando violazioni dei diritti umani, autorizzare l’export di questo secondo lotto di bombe verso l’Arabia saudita è stato «grave», «con un profilo di colpevolezza da verificare» e ipotizzano per il governo il reato di abuso d’ufficio in violazione della legge 185, che vieta l’export verso paesi belligeranti, e della normativa sovranazionale, sia come Posizione comune europea del 2008 sia del trattato sul commercio di armi firmato dall’Italia nel 2013.
Riferimenti
La produzione di armi sempre più letali in Italia è stata spesso denunciata su queste pagine. L'alibi dell'occupazione è sempre stato sollevato come pretesto per contraddire l'imperativo morale e il dettato costituzionale di non contribuire a fomentare le guerre con la produzione di armamenti. Delle bombe prodotte dall'azienda tedesca in Sardegna ci siamo occupati in particolare con i due articoli
Nigrizia,
È giunta ormai al suo ottavo anno la guerra imposta ai siriani. L’insurrezione armata scoppiata nel marzo 2011 ha devastato la Siria, uno dei pochi paesi laici e culturalmente avanzati del mondo arabo. Pur con le sue contraddizioni e i suoi limiti in termini di libertà e di democrazia, il regime era riuscito a garantire una discreta stabilità politica e sociale e un invidiabile equilibrio religioso ed etnico/tribale in una regione dove il fattore religioso e quello tribale sono corde sensibili, facilmente manipolabili (all’occorrenza) per innescare conflitti politici e sociali che portano a interminabili e sanguinose guerre civili.
Ricordiamo il caso dell’Iraq, dove lo scontro interconfessionale tra sunniti e sciiti ha causato a oggi centinaia di migliaia di morti, e quello della Libia, dove è in atto una guerra tra clan ed etnie per la spartizione del paese. I regimi di Saddam Hussein e Gheddafi riuscivano a neutralizzare i due fattori di cui sopra, garantendo per decenni una certa stabilità e coesione sociale. Finché le potenze atlantiste, guidate dagli Usa, scatenarono la guerra contro Libia (2011) e Iraq (2013), perché erano guidati da due regimi – dittatoriali – non allineati, che ostacolavano i loro interessi neocoloniali. La manipolazione, da parte degli Usa e dei loro alleati europei, dell’appartenenza religiosa e tribale è stata determinante nella distruzione dei due paesi.
La stessa strategia è stata usata in Siria con diversi tentativi. Il primo. In principio i governi occidentali avevano cercato di innescare lo scontro tra la maggioranza sunnita e la minoranza alawita (sciita) al potere di cui al-Assad fa parte. L’operazione non ebbe successo. La maggioranza dei siriani è sunnita e, sin dall’inizio dell’insurrezione, ha sostenuto Damasco, come del resto ha fatto anche l’esercito.
Il secondo. Poi sono entrati in gioco i gruppi jihadisti salafiti di al-Nusra e, soprattutto, il gruppo Stato islamico il cui compito era quello di eliminare al-Assad e creare un regime di tipo confessionale. E anche questo piano fallì per l’intervento di Russia e Iran, determinanti nella disfatta del gruppo Stato islamico
Il terzo. Quando Washington e i suoi alleati si sono accorti che la carta gruppo Stato islamico era destinata a fallire, hanno giocato quella curda. Hanno sostenuto le milizie curde nella conquista della città di Raqqa e nel creare una enclave curda nella provincia siriana di Afrin, al confine con la Turchia. Ma hanno fatto i conti senza Erdogan. Il 18 marzo scorso, dopo due mesi di assedio, l’esercito turco ha occupato Afrin e cacciato i combattenti curdi.
Infine, la vicenda di Ghota est nei pressi di Damasco, occupata dai jihadisti, è stata il colpo di coda degli americani per evitare il proprio ko in Siria. Ma pure questo tentativo non ha funzionato, nonostante la pressione diplomatica e la propaganda mediatica contro il governo, accusato di «massacrare il suo popolo» a Ghota, anche con l’uso di armi chimiche.
Sette anni di continui tentativi di regime change hanno provocato oltre 300mila morti e 11 milioni tra sfollati e profughi. Un crimine contro l’umanità perpetrato dalle “democrazie” occidentali ai danni del popolo siriano.
il manifesto, miamo "guerra diffusa"
Un centinaio di missili sulla Siria fanno rumore. Tutti i giornali e le tv del globo li hanno mostrati, descritti, analizzati. Eppure ogni giorno esplodono altre centinaia di bombe in un altrove che rumore, non ne fa. Sono le bombe silenziose di guerre «secondarie», di stragi che non bucano il video, di conflitti apparentemente dormienti e ormai derubricati a non notizie.
Eppure i numeri sono importanti. E gli effetti nefasti così come nulli sono i risultati sul piano militare. Molte bombe, molte vittime e un’unica vittoria: quella di chi le fabbrica e le vende, più o meno apertamente.
Lo Yemen e l’Afghanistan sono un utile esercizio. Ci sono dati ufficiali o desunti, operazioni segrete (come per i droni), conti fatti da organismi indipendenti e da chi, è il caso dell’Us Air Force, ne fa un titolo di merito. Cento bombe si sganciano in Afghanistan in meno di dieci giorni. In Yemen il conto è quasi impossibile ma dal marzo 2015 al marzo 2018, in tre anni, il Paese è stato attraversato da 16.749 raid aerei con una media di 15 al giorno. In silenzio. Tranne per chi ci sta sotto.
Stabilire quante bombe ha sganciato al coalizione a guida saudita (una decina di nazioni musulmane sostenute da diversi Paesi, dagli Stati Uniti alla Turchia) è assai complesso anche se il numero di raid non lascia molti dubbi. Quel che interessa notare è che questo conflitto (che produce una «catastrofe umanitaria» secondo l’Onu, che ha bollato i raid come una «violazione del diritto internazionale») viene foraggiato indirettamente anche dall’Italia: Giorgio Beretta (che ne ha già scritto su il manifesto) ricorda che da Roma, nel 2016, «sono state autorizzate esportazioni di armamenti all’Arabia Saudita per 427 milioni di euro, la maggior parte delle quali, e cioè più di 411 milioni di euro, era costituita da bombe aeree del tipo MK82, MK83 e MK84 prodotte dalla Rwm Italia. Le stesse bombe i cui reperti sono stati ritrovati dalla commissione di esperti dell’Onu nelle aree civili bombardate dalla Royal Saudi Air Force in Yemen. Stiamo parlando di 19.900 bombe, la più grande esportazione fatta dall’Italia».
E gli effetti? Il Legal Center for Rights and Development (Lcrd), un’organizzazione della società civile locale con sede a Sana’a, stimava a oltre 12.500 le vittime civili nei primi 800 giorni della guerra. Secondo Yemen Data Project – un progetto indipendente e no profit di monitoraggio del conflitto – la coalizione a guida Saud (ottimo alleato di Trump, Macron e May) ha colpito obiettivi per quasi un terzo non militari: 456 raid aerei hanno bombardato aziende agricole, 195 mercati, 110 siti di erogazione di acqua ed elettricità, 70 strutture sanitarie, 63 luoghi di stoccaggio del cibo.
La profondità del monitoraggio dà luogo anche ad altri dati impressionanti. Il Lcrd ha documentato negli obiettivi colpiti: 593 mercati e quasi 700 negozi alimentari, 245 aziende avicole e 300 industrie, oltre a 300 centri medici e 827 scuole… Una lista infinita. Tutta civile.
Se cento bombe in Siria vi sembran tante, lo stesso numero di ordigni viene lanciato dal cielo in meno di dieci giorni in Afghanistan. Secondo i dati diffusi dall’United States Air Force, nel 2017 sono state sganciate in Afghanistan 4.300 bombe, con un ritmo di una dozzina al giorno, il triplo che in passato.
I risultati di questa nuova strategia di Trump sono sotto gli occhi di tutti: la guerra va avanti, gli attentati non diminuiscono, le vittime civili aumentano.
Quanto agli afgani, secondo il ministero della Difesa di Kabul, ogni giorno l’aviazione nazionale conduce una quindicina di raid ma non è dato sapere quanti ordigni hanno sganciato i piloti addestrati da Stati Uniti e dalla missione Nato, di cui l’Italia rappresenta il secondo contingente nel Paese.
Se si obiettasse che la potenza degli ordigni è mediamente assai minore rispetto a quella di un missile tomahawk, si può però ricordare che, proprio nell’aprile dello scorso anno, gli americani hanno sganciato in Afghanistan la «madre delle bombe», un ordigno con la potenza di 11 tonnellate di esplosivo (GBU-43/B Massive Ordnance Air Blast o Moab), in grado di disintegrare tutto fino a 300 metri di profondità e con un raggio d’azione di oltre un chilometro e mezzo. Doveva tramortire lo Stato islamico, sempre però molto attivo nel Paese.
Le vittime civili in Afghanistan sono in costante aumento (3.438 morti e 7.015 feriti l’anno scorso secondo la missione Onu a Kabul). Anche se sono in gran parte da attribuire ad attentati e scontri di terra, il rapporto di Unama (la missione Onu in Afghanistan) osserva un aumento delle vittime dovute a raid aerei (295 morti e 336 feriti nel 2017), il numero più alto in un singolo anno dal lontano 2009.
La Repubblica, (a.b.)
Internazionale,
Il giudice per le indagini preliminari (gip) di Ragusa, Giovanni Giampiccolo, ha disposto il dissequestro della nave dell’ong spagnola Proactiva Open Arms, che era ferma nel porto di Pozzallo dal 18 marzo dopo aver soccorso 218 migranti in due diverse operazioni al largo della Libia. La nave – attiva nel soccorso di migranti nel Mediterraneo centrale – era stata sequestrata su ordine della procura di Catania, guidata da Carmelo Zuccaro, nell’ambito di un’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e associazione a delinquere.
Il 27 marzo il gip di Catania Nunzio Sarpietro aveva confermato il sequestro della nave, ma si era dichiarato non competente al livello territoriale per i reati contestati e aveva passato il fascicolo al gip di Ragusa. Sarpietro infatti aveva fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere contro il capitano Marc Creus Reig e la coordinatrice dei soccorsi Ana Isabel Montes Mier, lasciando in piedi invece l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Questo elemento aveva fatto decadere la competenza territoriale del tribunale di Catania che ha una specifica autorità per i reati associativi.
La ricostruzione del giudice
Dalla ricostruzione degli eventi fatta dal gip emergono tre elementi importanti: il giudice conferma che gli spagnoli non si sono coordinati con la guardia costiera libica compiendo un atto di disobbedienza, riconosce la legittimità di una zona di ricerca e soccorso (Sar) libica, ma sostiene anche che i soccorritori si sono trovati in “uno stato di necessità”, perché i soccorsi finiscono solo con lo sbarco in un posto sicuro e i migranti non potevano di fatto essere riportati in Libia. Il giudice ha riconosciuto che la Libia è “un luogo in cui avvengono gravi violazioni dei diritti umani (con persone trattenute in strutture di detenzione in condizioni di sovraffollamento, senza accesso a cure mediche e a un’adeguata alimentazione, e sottoposte a maltrattamenti e stupri e lavori forzati)”.
Marc Creus Reig e Ana Isabel Montes Mier rimangono indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, perché è riconosciuta una condotta di “disobbedienza alle direttive impartite” da chi coordinava i soccorsi, ma il sequestro della nave non è convalidato, perché il gip sostiene che i soccorritori abbiano agito in uno “stato di necessità”. Questa condizione fa decadere il reato di favoreggiamento, come previsto dall’articolo 54 del codice penale italiano che stabilisce l’impunità per chi ha commesso un reato “costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave”.
Alle 4.35 dello stesso giorno la Centrale operativa della guardia costiera italiana ha chiamato la nave umanitaria Open Arms chiedendole d’intervenire. Alle 5.37, circa un’ora dopo, la marina militare italiana ha comunicato alla guardia costiera italiana che la motovedetta libica Gaminez stava per salpare dal porto di Al Khums per intervenire in soccorso del gommone avvistato. Alle 6.45 la guardia costiera libica comunicava alla centrale operativa di Roma di aver assunto il coordinamento dell’operazione, ma non dichiarava un tempo stimato di arrivo della motovedetta libica nella zona d’intervento.
Alle 6.49 e alle 7 la guardia costiera italiana comunicava alla Open Arms che la guardia costiera libica stava intervenendo e che non voleva interferenze dalle altre navi. Alle 9.13 la Open Arms comunicava a Roma che aveva avvistato un gommone con dei migranti a bordo che imbarcava acqua e che quindi sarebbe intervenuta. Roma chiedeva agli spagnoli d’informare i libici.
Un rapporto del comandante della nave Alpino della marina militare italiana non conferma la versione degli spagnoli
Alle 11 si concludeva il primo soccorso di 117 persone e la nave spagnola contattava la centrale operativa della guardia costiera italiana dicendo di voler intervenire in soccorso di altre due imbarcazioni in difficoltà. Alle 14 la Open Arms diceva alla guardia costiera italiana che due lance spagnole si erano messe in mare per raggiungere l’imbarcazione in difficoltà e 18 minuti dopo in una nuova chiamata Roma era informata che gli spagnoli avevano raggiunto il gommone e avevano cominciato a distribuire dei giubbotti di salvataggio. Nel frattempo sopraggiungeva una motovedetta libica a tutta velocità, la Ras Al Jaddar, che si era accostata all’imbarcazione di migranti e stava minacciando gli spagnoli.
Un rapporto del comandante della nave Alpino della marina militare italiana non conferma la versione degli spagnoli, e dice che i libici avevano chiesto via radio agli spagnoli di non avvicinarsi al gommone con i migranti. Nella relazione della guardia costiera italiana acquisita dal giudice invece è riportata una conversazione captata via radio dall’elicottero della nave Alpino che riferiva la minaccia dell’uso delle armi da parte dei libici verso gli spagnoli. Secondo il giudice, però i filmati non confermerebbero queste minacce.
Nella seconda parte del suo decreto, Giampiccolo ricostruisce cosa è accaduto dopo che la tensione con i libici è stata superata e i soccorsi della seconda imbarcazione di migranti sono terminati. Alle 18.35 la Open Arms con a bordo 218 migranti ha chiesto alla guardia costiera italiana un porto di sbarco sicuro. “Roma rispondeva che la ong, non avendo operato il soccorso sotto il suo coordinamento, avrebbe dovuto richiedere istruzioni allo stato di bandiera ossia alla Spagna che avrebbe dovuto valutare se chiedere un porto di sbarco alle autorità italiane”, è scritto nel decreto. Il giorno successivo, il 16 marzo, la Open Arms segnalava alle autorità italiane la presenza a bordo di gravi situazioni sanitarie.
Alle 13.50 Malta dava disponibilità allo sbarco dei casi medici più gravi. Dalle 14.01 la centrale operativa della guardia costiera italiana chiedeva agli spagnoli di fare richiesta di sbarco a Malta. Alle 15.41, infine, interviene la Centrale operativa della guardia costiera spagnola che contatta la Open Arms e le suggerisce di sbarcare a Malta. A questa richiesta il comandante della Open Arms risponde dicendo di non aver mai sbarcato a Malta e che è sicuro che i maltesi gli negheranno l’approdo. Alle 16.45 Open Arms chiede ancora una volta a Roma di avere un porto di sbarco assegnato. La nave sbarca infine a Pozzallo, in provincia di Ragusa, la mattina del 17 marzo.
Le reazioni
Rimane tuttavia la preoccupazione per Marc Creus Reig e Ana Isabel Montes Mier che sono sotto inchiesta sia a Catania sia a Ragusa per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. “È molto importante che il giudice abbia riconosciuto lo stato di necessità, che è quello che noi sosteniamo da sempre. La Libia non è un posto sicuro in cui portare i migranti”, afferma Gatti che però si dice preoccupato per il riconoscimento della zona di ricerca e soccorso coordinata dai libici da parte delle autorità italiane. “Dal provvedimento del giudice emerge il riconoscimento di una zona Sar affidata ai libici che secondo noi non rispetta le norme internazionali”, afferma Gatti.
Non esiste un porto libico che può essere considerato sicuro ai sensi delle normative internazionali
Dello stesso tono i commenti dell’avvocata della difesa Rosa Emanuela Lo Faro: “Il giudice si è reso conto che il comandante ha agito in uno stato di necessità, perché la Libia non ha un porto e posto di sbarco sicuro. Non c’è assolutamente fumus commissi delicti e cioè la probabilità effettiva del reato, proprio perché è accertato lo stato di necessità nel quale si è agito”. Questo è un punto molto importante, secondo l’avvocata, che rappresenta anche un precedente per future accuse di questo tipo. Secondo Lo Faro, inoltre, “il giudice ha riconosciuto che il fatto di non aver chiesto di sbarcare a Malta non rappresenta la violazione di una norma ma solo di un accordo amministrativo, che non ha precetto normativo”.
Per Gianfranco Schiavone dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) l’importanza di questa sentenza è nell’analisi giuridica condotta dal gip di Trapani: “L’ong ha operato in uno stato di necessità, che giustamente è stato ricondotto non tanto all’immediatezza dei soccorsi quanto alla situazione in Libia. Cioè il soccorso dei libici avrebbe comportato che le persone salvate sarebbero state portate in un paese in cui non è possibile garantire loro sicurezza e nessun diritto sicuro. Non esiste un porto libico che può essere considerato sicuro ai sensi delle normative internazionali”. Questo provvedimento, per Schiavone, dovrebbe orientare i successivi passi di tutta l’indagine. Per l’Asgi inoltre il ragionamento del giudice contiene una contraddizione perché: “Se in Libia non esiste un porto sicuro in cui sbarcare i migranti salvati, allora non sarebbe di fatto operativa una zona di ricerca e soccorso coordinata dai libici, anche se dovesse essere legittimata dalle autorità internazionali”.
Il deputato di Più Europa Riccardo Magi ha commentato: “Ancora non sappiamo perché le autorità italiane abbiano ceduto alla guardia costiera libica la gestione di operazioni di salvataggio in acque internazionali, dal momento che nessuna zona Sar libica è riconosciuta. Ancora nessuna risposta sulle minacce rivolte dai militari libici ai volontari di Open Arms per tentare di prendersi a bordo i naufraghi salvati dalla ong e ricondurli in Libia, né sulla sorte dei naufraghi recuperati lo stesso giorno da una motovedetta libica e riportati in Libia nel corso di un’altra operazione per cui la centrale operativa di Roma aveva in origine allertato la nave di Open Arms. E resta dunque il dubbio che il nostro paese possa essersi reso complice di respingimenti illegali, visto che nessun porto libico al momento può essere considerato un luogo sicuro”.
il manifesto, 15 aprile 2018
Per scatenare una guerra non serve più nemmeno la «pistola fumante» dei tempi di Bush. Ricordate la sceneggiata di Colin Powell con le fialette di antrace , per convincere il Consiglio di sicurezza dell’Onu ad avallare la guerra contro Saddam Hussein. Una guerra basata su una «fake news», come ce ne sono state molte nella storia, poco importa se si è distrutto un paese che non aveva le armi di distruzione di massa. Quindici anni dopo chi se lo ricorda?
La disinformazione serve anche a disorientare l’opinione pubblica che difficilmente riesce a leggere il contesto siriano e soprattutto a reagire sia al presunto uso di gas che ai bombardamenti. Nell’era della post-verità, ma sarebbe meglio dire della disinformazione, non servono prove.
Basta un’«autocertificazione» di Macron o di Trump: «Abbiamo le prove» che Damasco ha usato i gas a Duma e lanciano i missili. Damasco ha superato quella che Obama aveva definito la «linea rossa» (l’uso di armi chimiche). E proprio nel giorno in cui gli esperti dell’Opac (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) dovevano iniziare le loro indagini per verificare l’uso o meno dei gas, scatta l’intervento occidentale preventivo. Non servono le prove, soprattutto se rischiano di non assecondare la follia di Trump e dei suoi seguaci. Per ora, si dice, si è trattato di un atto dimostrativo, forse un test per verificare la reazione di Mosca (informata preventivamente). Vista l’efficienza dimostrata dai sistemi antimissilistici siriani (informati dai russi), che avrebbero abbattuto la maggior parte dei 110 missili lanciati, non sarà il caso di sottoporli a una prova più pesante? Il rischio di un’escalation non è da escludere. Del resto Trump sta cercando il modo meno «disonorevole» per uscire da una guerra che ha perso: Assad è ancora al potere e, anzi, ieri dopo l’attacco la popolazione nelle piazze di Damasco ha inneggiato ad Assad. I curdi siriani, aiutati dagli Usa per sconfiggere l’Isis, sono stati abbandonati sotto le bombe del sultano Erdogan.
Tra gli obiettivi attaccati dall’operazione unilaterale di Trump (Macron e May), secondo la Cnn, che cita fonti della difesa Usa, vi sarebbero anche due siti di stoccaggio di armi chimiche nell’area di Homs. O i siti erano vuoti (gli stessi americani nel 2014 avevano annunciato che i siriani avevano consegnato tutte le armi chimiche) oppure si tratta di un gesto folle che avrebbe potuto provocare la dispersione nell’ambiente delle famigerate armi con conseguenze letali sulla popolazione. Ma forse per gli Usa non è così importante: in Iraq, nel 2003, l’avanzata americana aveva fatto fuggire i guardiani che controllavano i depositi di Yellow cake, poi saccheggiati dalla popolazione che, ritenendolo un fertilizzante, lo aveva utilizzato provocando l’inquinamento delle acque e dei terreni.
Ora si aspetteranno i risultati dell’indagine condotta dagli esperti dell’Opac? E i risultati saranno chiari e definitivi? Ma anche se troveranno tracce di gas, chi li avrà usati? Il pensiero torna all’Iraq quando il rapporto presentato dagli ispettori dell’Unmovic (Blix) e dell’Aiea (el Baradei) al Consiglio di sicurezza dell’Onu il 14 febbraio 2003 (il giorno dopo lo show di Powell) non interessava a nessuno. Anzi, «ho avuto l’impressione, subito prima che prendessero la decisione di dare il via all’attacco, che il nostro lavoro li irritasse», aveva detto Hans Blix in una intervista al giornale tedesco Welt am Sonntag.
C’è da supporre che anche l’indagine dell’Opac, qualsiasi siano le conclusioni, non scalfirà le convinzioni di Trump, Macron e May, che con questa attacco militare possono distrarre l’opinione pubblica dai problemi interni. Merkel e Gentiloni non hanno partecipato ma hanno approvato «l’azione necessaria» senza chiedere prove. Con questa nuova battuta militare si rafforza l’asse britannico-americano, indispensabile dopo la Brexit, ma Trump è riuscito anche a riallineare il leader turco Erdogan, che ha approvato l’azione, dopo le sue intemperanze che avevano portato un paese della Nato (la Turchia) a trattare con la Russia e l’Iran. Il presidente Usa ha anche rassicurato Israele proprio mentre continua il massacro dei palestinesi. Trump sta scherzando con il fuoco e forse non ha tenuto conto che sul terreno siriano oltre alla Russia c’è anche l’Iran.
il manifesto, 15 aprile 2018.
«Vaticano. Il papa parla oggi. Il vescovo di Aleppo: non logico che Assad usi armi chimiche adesso»
Una «rappresaglia» contro Bashar Al Assad da parte di Stati Uniti, Regno Unito e Francia. È netto il giudizio del Vaticano sui bombardamenti in Siria della scorsa notte, affidato all’articolo di apertura dell’Osservatore Romano di oggi. «Il presidente degli Stati Uniti ha sciolto le riserve e, a una settimana dal presunto attacco chimico alla città siriana di Douma, ha ordinato la rappresaglia in stretto coordinamento con Londra e Parigi», si legge nell’apertura del quotidiano della Santa sede che titola a tutta pagina «Missili sulla Siria».
Huffington Post
«L'Unesco sfida ancora Israele, che replica: "decisione delirante" Per Ramallah è "un voto storico, un successo della nostra battaglia diplomatica". Netanyahu taglia 1 milioni di dollari all'Onu»
L'Unesco ha riconosciuto la Tomba dei Patriarchi ad Hebron, in Cisgiordania, "sito palestinese" del Patrimonio Mondiale. A favore della Risoluzione - presentata dai palestinesi e fortemente contestata da Israele - si sono espressi 12 Stati membri, con 3 contrari e 6 astenuti. In base alla decisione, la Città Vecchia di Hebron e la Tomba dei Patriarchi diventano siti "palestinesi" e si sottolinea il "loro essere in pericolo".
La Tomba dei Patriarchi, secondo luogo santo dell'ebraismo, è il sepolcro di Abramo, Isacco e Giacobbe. La Tomba è posto di devozione anche per i musulmani che lo chiamano 'Santuario di Abramo' o 'Moschea di Abramo'. Israele - che ha sempre rivendicato le millenarie connessioni dell'ebraismo con la Tomba dei Patriarchi dove accorrono numerosi i fedeli ebrei - aveva chiesto il voto segreto sulla Risoluzione, ma questo non è stato attuato.
Il ministro palestinese della cultura Rula Maaya da definito "evento storico" la decisione del Comitato del Patrimonio dell'Unesco. "Un evento - ha aggiunto - che conferma l'identità dei Patriarchi e che conferma che il campus appartiene al patrimonio e alla storia del popolo palestinese". Anche il governo di Ramallah ha elogiato la decisione dell'Unesco. Il ministro degli esteri Riyad al-Maliki, ha lodato la scelta dell'Unesco, dicendo che "questo voto è un successo nella battaglia diplomatica che la Palestina sta combattendo su tutti i fronti".
"La decisione dell'Unesco è una macchia morale. Questa irrilevante organizzazione promuove falsa storia. Vergogna!". Lo ha scritto su Twitter Emmanuel Nahshon, portavoce del ministero degli esteri di Israele, secondo cui "la gloriosa storia del popolo ebraico è cominciata ad Hebron. Nessuna bugia dell'Unesco e falsa storia può cambiarla. La verità è eterna". Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, parla di "altra decisione delirante" e aggiunge: Israele "continuerà a custodire la Tomba dei patriarchi, per assicurare la libertà religiosa di tutti e...salvaguardare la verità. Solo dove Israele è presente, come a Hebron, la libertà di culto è garantita per tutti. In Medioriente moschee, chiese e sinagoghe vengono fatte saltare in aria - posti in cui Israele non è presente". Anche il ministro della difesa Avidgor Lieberman ha bollato su twitter il voto definendo l'Unesco "un'organizzazione politica, imbarazzante e antisemita". Stessa condanna da parte del ministro dell'educazione Naftlai Bennett secondo cui "è sconfortante e vergognoso che l'Unesco neghi la storia e distorca la realtà, servendo coloro che cercano di cancellare lo stato ebraico. Israele non riprenderà la sua collaborazione con l'Unesco - ha aggiunto - finché questa organizzazione resta uno strumento politico invece che professionale".
La prima contromossa di Netanyahu è l'annuncio del taglio di un altro milione di dollari dalle spese che Israele paga come membro dell'Onu. La mossa prevede anche che con quella somma sia costruito un Museo dell'eredità ebraica a a Kiryat Arba e a Hebron e ad altri progetti nella città. Già in precedenza dopo altre decisioni dell'Unesco, come quella su Gerusalemme, il premier aveva tagliato i fondi all'Onu
postilla
È un pesante segno dei tempi che due popoli debbano lottare tra loro disconoscendo una realtà che la storia dovrebbe aver insegnato a tutti: che le radici dei popoli sono fittamente intrecciate tra loro, e che a essere la condizione profonda di ciascuno di noi. è il meticciato, e non la superba arroganza di essere parte di un "popolo eletto".
Ma la storia dell'Europa capitalista, che all'inizio del secolo scorso ha voluto utilizzare, con il Balfour agreement, l'immissione forzosa del nuovo stato (Israele) tutto ferreamente monoetnico, come avversario e dominatore di un altro popolo (il palestinese) ha provocato, tra gli innumerevoli danni all'umanità, anche quello di riattizzare un odio tra mondo giudaico-cristiano e mondo islamico, che si spoteva sperare fosse superato
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Huffington Post, governo ribadisce l'accordo con Trump, ma i laburisti di Corbyn rifiutano e accusano Theresa May di prendere ordini da Trump
È scontro in Gran Bretagna sull'intervento in Siria. La premier Theresa May l'ha definito un intervento "giusto e legittimo", non per "disarcionare" il presidente siriano, Bashar al-Assad, ma per dare un messaggio chiaro che le armi chimiche non devono essere usate, nè a Damasco e neppure nelle strade britanniche.
"Le armi chimiche non possono essere utilizzate e questo vale non solo per la Siria, ma anche per le strade britanniche", ha aggiunto la premier, con chiaro riferimento all'avvelenamento con il gas nervino, a Salisbury, dell'ex spia russa, Serghei Skripal, e della figlia Yulia. "Non si è trattato di un cambio di regime", ha aggiunto. "E' stato un attacco limitato, mirato ed efficace con chiari confini" per "degradare la capacità di ricercare, sviluppare e distribuire armi chimiche da parte del regime". La May ha aggiunto di avere in mano le prove che il governo di Damasco a Duma abbia utilizzato gas tossici: "Sappiamo con certezza che è stato il regime siriano". "Non vi posso dire tutto", ha osservato, ma ha citato "informazioni di intelligence". "Questa azione collettiva - ha proseguito nella conferenza stampa, organizzata a metà mattina, a Londra- invia un chiaro messaggio che la comunità internazionale non si tira indietro e non tollererà l'uso di armi chimiche".
La premier ha aggiunto che avrebbe voluto seguire "un'altra strada", quella diplomatica, ma che non è stato possibile; e ha ricordato le 6 volte in cui, solo nel 2017, la Russia si è opposta a risoluzioni sul dossier siriano, al Consiglio di Sicurezza dell'Onu; e il veto posto da Mosca solo qualche giorno fa, al Palazzo di Vetro, su una risoluzione che avrebbe autorizzato un'inchiesta indipendente sull'attacco a Duma.
La premier si è difesa anche dall'accusa di non aver consultato il Parlamento: ha detto che lunedì farà una comunicazione a Westminster ma ha difeso la sua decisione.
Poco prima, il leader dell'opposizione britannica, il laburista Jeremy Corbyn, l'aveva pesantemente chiamata in causa: per Corbyn, l'attacco è "discutibile da un punto di vista legale" e renderà più difficile che un giorno il regime di Assad sarà ritenuto responsabile di crimini di guerra. Corbyn ha criticato apertamente la premier perchè prende "istruzioni da Washington" e ha aggiunto che, invece di "stare alle ruote di Trump", May avrebbe dovuto ottenere il sostegno del Parlamento prima di sferrare l'attacco. "Credo che sia stato giusto prendere l'iniziativa", gli ha replicato May.
Quanto alla mancanza di consenso nell'opinione pubblica britannica, la premier ha rimarcato: "Il mio messaggio alla gente è che si tratta dell'uso di armi chimiche. C'è una posizione accettata nella comunità internazionale: le armi chimiche sono illegali, sono vietate. E abbiamo visto che questa norma internazionale si è erosa. E' nell'interesse di tutti che ripristiniamo questa norma internazionale sul divieto delle armi chimiche".
Avvenire,
La portavoce del ministro degli Esteri russo ha evocato Colin Powell, la polverina bianca e la fialetta brandita all’Onu prima dell’attacco di Bush all’Iraq. Poi ha insinuato l’elemento di attualità, quella che per il Cremlino da tempo è equiparata a quella polverina: la post-verità. L’appoggio dei media occidentali alle accuse Usa e francesi sull’impiego delle armi chimiche a Douma il 7 aprile.
Condivisibile o meno, è solo una delle tante tessere che costituiscono il mosaico dell’ottavo anno di guerra in Siria. Una guerra, o almeno quattro facce della stessa guerra (dall’insurrezione popolare all’intervento turco ad Afrin delle scorse settimane), in cui la vittima collaterale (ma non troppo) è stata principalmente la verità. Da tutti i fronti: quello dell’Osservatorio siriano sui diritti umani, con base a Londra, accusato più volte di gonfiare o sgonfiare la realtà, quello della propaganda di regime di Assad, russa o iraniana. Quella di racconti a loro volta basati su altri racconti di entità, come la Ghouta Orientale, dove chi entrava era solo parte del conflitto e non terzo.
L’attacco della notte scorsa, a un anno e sette giorni dal primo messo in atto da Donald Trump contro Assad, (a Borse chiuse, dopo i tonfi dei giorni scorsi, e annunciato ore prima da febbrili telefonate ai russi da parte di Casa Bianca, Eliseo e Downing Street) non può però anche essere disgiunto dal vertice di dieci giorni fa ad Ankara, tra Russia, Iran e Turchia. La Yalta dei giorni nostri, il vertice dei vincitori, della spartizione della Siria. Dove francesi, inglesi e americani hanno potuto solo sbirciare dalla finestra. Se può esserci però un senso ai massacri finali nella Ghouta prima della caduta definitiva di Douma, ai Tomahawk della notte a alle successive manifestazioni di consenso al regime mandate in scena nelle strade di Damasco, va proprio cercato nelle conclusioni del vertice del 4 aprile nella capitale turca.
missili della notte, paradossalmente, hanno sancito la debolezza e non la forza dell’Occidente in Siria. E probabilmente l’impunità totale (almeno per ora) dei crimini dei quali si è macchiato negli ultimi otto anni il dittatore Bashar el-Assad. E non cambierà nulla al tavolo dei “padroni” della nuova Siria.
Perché Trump non vede l’ora di lasciare il terreno, dopo aver abbandonato anche gli alleati curdi nelle mani dei turchi. Perché la Dgse francese sta smobilitando i propri agenti come le forze speciali da un’area tradizionalmente “di interesse”, perché la Gran Bretagna ha ormai deciso che il jihadismo del Daesh non lo si combatte più all’origine, ma all’arrivo in patria.
Ecco perché in Siria si tornerà a morire
Così in Siria, dopo il clamore dei prossimi giorni, le condanne e le inconcludenti (perché paralizzate) riunioni del Consiglio di sicurezza Onu e l’improbabile replica dei raid da parte di Trump e alleati, si tornerà a morire. Resta la ridotta di Idlib dove si è concentra la “feccia” del jihadismo (di ogni parte e colore, compreso quello alimentato dai sauditi spettatori interessati dei recenti sviluppi in chiave anti-iraniana con Israele). Lì si combatterà ancora e ognuno cercherà di salvare i salvabili. Allungando ancora la guerra più lunga del Medio Oriente.Bisognerà capire anche come si comporteranno i tre attori, quelli occidentali: che hanno parte in commedia, ma anche grandi necessità a casa loro. Inutile ricordare quello che si è detto in questi giorni dei guai e scandali di Donald Trump in America e della necessità di “distogliere” da essi l’”attenzione”.
O dell’altrettanta scomoda situazione di Theresa May, che con i russi ha già in corso il braccio di ferro su nervino e spie e una Brexit che rischia di farla cadere dal trono. Macron invece avrebbe da “guadagnarci” solo una repentina salita nei sondaggi, che in queste settimane hanno portato alla luce un progressivo disamore dei francesi nei suoi confronti? Forse no, perché l’allontanamento “militare” dall’Eliseo da parte di Angela Merkel, tradizionale alleato europeo, dice anche un’altra cosa. Macron sembra pronto a ricoprire nella Ue a 27, cioè tra un anno dopo l’addio di Londra, il ruolo di partner della Casa Bianca. E, da sempre, le alleanze si consolidano in guerra e non in pace.
il manifesto,
La disfatta elettorale subita dalla sinistra il 4 marzo può avere una sua qualche utilità nella periodizzazione storica della vita politica italiana e nella chiarezza comunicativa. Con il responso delle urne si chiude un’esperienza, quella del centro-sinistra, con un bilancio di incontestabile verità: essa ha provato, con la verifica dei fatti, il fallimento di una strategia politica, che chiude il suo bilancio con la distruzione della sinistra riformatrice italiana. Ciò che è rimasto e rimane programmaticamente all’esterno di quel campo, forze radicali di opposizione, caratterizzate da vari percorsi e indirizzi sono definibili sinistra. Forze frantumate e disperse certamente, ma queste forze, che non cercano alcun centro con cui “moderarsi”, sono oggi, realisticamente, la sinistra in Italia.
Assistiamo in queste ore a una ennesima riprova del fallimento di quella esperienza politica. Mentre continua la guerra infinita in Medio Oriente, con episodi che ci sconvolgono quotidianamente, noi siamo ancora dentro la Nato e le nostre basi militari sono a disposizione delle forze aree americane per colpire città e territori nel bacino del Mediterraneo. Non voglio rievocare episodi che hanno segnato una svolta nella storia delle relazioni internazionali dell’Italia repubblicana, come il bombardamento della Serbia. E neppure rammentare più di tanto la decisione del secondo governo Prodi di concedere il raddoppio della base americana di Vicenza all’amministrazione Bush. L’amministrazione che aveva appena invaso uno stato sovrano, aprendo una pagina di conflitti fra i più sanguinosi della storia mondiale recente.
Parliamo dell’oggi. A che serve la Nato, ora che da tempo non esiste il Patto di Varsavia, la “ cortina di ferro” è crollata, il comunismo è dissolto? Non sono evidenti le ragioni di tale permanenza? Gli Usa hanno drammatico bisogno di un nemico, per tenere unito il paese, dare consenso ai gruppi dirigenti, in una fase in cui la sua supremazia economica volge al declino. E in parte ci sono riusciti, circondando la Russia di basi missilistiche e offrendo a Putin ragioni schiaccianti di affermazione in un Paese allarmato e chiamato a difendersi. Ma la Nato serve agli Usa per due altre ragioni: vendere e utilizzare gli armamenti dell’industria militare e al tempo stesso, anche montando lo spauracchio dell’”orso russo”, tenere agganciata e dipendente l’Europa.
L’interesse dell’Italia in questa alleanza, dominata oggi da un uomo come Trump, sono gli oltre 50 milioni al giorno sottratti al bilancio delle stato per spedizioni in paesi lontani; sono le basi militari ex-lege, sparsi nel nostro paese, di cui il cittadino non sa nulla?
Sono le servitù imposte a tante splendide coste della nostra Sardegna, penalizzate nelle proprie economie e vocazioni. Servitù che tengono lontane le popolazioni dai propri territori, chiuse a ogni controllo democratico, portatrici di contaminazioni di terre e acque e di malattie mortali. Non possiamo aspettarci iniziative di autonomia e indipendenza da parte dei governanti europei. Occorrerebbero degli statisti e noi abbiamo oggi a Bruxelles solo feroci contabili, incapaci di una parola di sdegno per i tanti morti innocenti. D’altra parte non c’è davvero di che stupirsi. Il vangelo dominante dice che a governare devono essere i mercati, e lo Stato deve limitarsi a servirli. Come si può pretendere che esso cerchi di governare i conflitti, avendo di mira la pace tra i popoli?
L’Europa no, ma l’Italia, si. L’Italia potrebbe, almeno per due ragioni. Nel linguaggio geopolitico-militare siamo una portaerei nel Mediterraneo, abbiamo una posizione che offre poteri contrattuali straordinari con gli altri partners. L’Italia può giocare un ruolo di pace e anche di sviluppo economico dei paesi del fronte Sud di vasta portata strategica. Può riacquistare la centralità posseduta nei secoli d’oro del suo primato economico mediterraneo. E potrebbe trattare con ben altra forza con i governi nordeuropei. Ma deve porsi fuori dai giochi delle potenze imperiali. E, infine, a proposito di vangelo, ha un’altra carta. Siede in Roma Francesco, il papa dell’evo moderno, coraggioso fautore della pace nel mondo.
Che cosa aspetta la sinistra frantumata e dispersa, ma sempre viva di idee e passioni, di ricercare un’alleanza fondativa con le forze democratiche del mondo cattolico, con i tanti giovani che affollano le adunanze del Papa in ogni angolo d’Italia e del mondo?