loader
menu
© 2024 Eddyburg

Avvenire


Non ha speso una parola il nostro presidente della Repubblica per ricordare quali sono le cause della migrazione che è in corso da qualche decennio.
Le cause di quella migrazione sono la politica di sfruttamento forsennato delle risorse di quei popoli che l’Europa e il mondo cosiddetto sviluppato ha fatto in Africa, ma non una parola si è spesa sul colonialismo di ieri e di oggi. Anzi a leggere bene il suo intervento emerge con chiarezza che i provvedimenti che si prefigurano sono di stampo neocolonialista. Infatti, quello che si prefigge è che le imprese italiane continuino a costruire grandi opere infrastrutturali, che l'hanno sempre contraddistinta, soprattutto in quelle zone dove hanno origine i flussi migratori. Peccato che queste "grandi opere" fanno moltissimi danni: sfrattano intere popolazioni, dirottano fiumi, lasciando a secco altre intere popolazioni e servono soprattutto agli sfruttamenti intensivi e all'economia capitalistica, da cui migliaia e migliaia di Africani sono esclusi. Vi ricordiamo un articolo scritto per eddyburg.it, in cui si spiega appunto chi sono i migranti dello sviluppo, ovvero quelle popolazioni vittime del nostro modello di sviluppo, di cui fanno parte tantissime "grandi opere" costruite sotto il falso nome della cooperazione o aiuto internazionale.
Se non si comprendono le cause dei fenomeni che si intende combattere o di cui si intende curare gli effetti, le nostre rimarranno solo parole di propaganda per giustificare il perpetuarsi dello sfruttamento e sottomissione di terre e popoli ricchi a favore di altri. (a.b.)

«Messaggio del capo dello Stato, che oggi vede Tusk, in occasione della giornata mondiale del rifugiato: “Tragedia drammaticamente attuale. Intervenire con la prevenzione, su conflitti e povertà”»

«Nel sollecitare la comunità internazionale e l'Unione Europea a compiere passi crescenti su questo terreno, la Repubblica Italiana si conforma alle norme sancite dal diritto internazionale relative all'accoglienza di coloro che hanno diritto a protezione». Il messaggio di Sergio Mattarella in occasione della giornata mondiale del rifugiato ribadisce la richiesta del nostro Paese di maggiore condivisione del dovere di accoglienza.

Ma le parole del capo dello Stato - che oggi vedrà, al pari del premier Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk – suonano anche come monito per il nuovo governo a non sottrarsi ai propri doveri di carattere umanitario, pur chiedendo a gran voce a una cambio di passo nelle politiche e negli stessi regolamenti comunitari.

«La tragedia dei rifugiati - donne, uomini e bambini costretti ad abbandonare le proprie case in cerca di un luogo dove poter vivere - è oggi sempre più drammaticamente attuale, come hanno sottolineato anche le Nazioni Unite» scrive il presidente della Repubblica. Che rivendica innanzitutto i grandi meriti acquisiti dal nostro Paese: «Da tempo, l'Italia contribuisce al dovere di solidarietà, assistenza e accoglienza nei confrontidi quanti, costretti a fuggire dalle proprie terre, inseguono la speranza di un futuro migliore per sè e per i propri figli. Obbedisce a sentimento di responsabilità l'impegno dei moltissimi concittadini che, sul suolo nazionale, nel mediterraneo e in altre più lontane aree di crisi del pianeta, tengono vivo lo spirito di umanità che - profondamente radicato nella nostra Costituzione - contraddistingue il popolo italiano». Ne discende un «vivo ringraziamento» da parte del capo dello Stato per «tutti coloro che, in Italia e nel mondo, si adoperano con passione, impegno e dedizione, per questa causa».

Ma ecco la richiesta pressante. Per Mattarella «la comunità internazionale deve operare con scelte politiche condivise e lungimiranti per gestire un fenomeno che interessa il globo intero». E soprattutto, «l'Unione Europea, in particolare, deve saper intervenire nel suo insieme, non delegando solamente ai Paesi di primo ingresso l'onere di affrontare le emergenze. La gestione attuale dei fenomeni migratori deve lasciare il posto a interventi strutturali che rimuovano le cause politiche, climatiche, economiche e sociali che alimentano tante tristi vicende».

Esiste poi un grande tema, che tocca la comunità internazionale nel suo insieme, sul piano della prevenzione delle cause delle grandi migrazioni, dalle guerre alle povertà: «Per governare i grandi spostamenti di esseri umani - afferma il Presidente - occorre prevenire i conflitti e mettere fine a quelli in corso, sostenere i Paesi di origine dei flussi aiutandoli a combattere carestie e malnutrizione, fornire adeguato sostegno ai Paesi limitrofi e alle aree soggette a ostilità». Occorrono, sul piano globale, politiche ispirate ai «principi della responsabilità, della solidarietà e della condivisione dei doveri e dei compiti tra tutti i Paesi interessati». Principi che possono trovare un loro rilancio solo in ambito Onu, dove «l'Italia è fortemente impegnata nei negoziati in vista dell'adozione di un patto mondiale sui rifugiati, che rappresenta lo strumento per offrire risposte concrete e universalmente accettate».

Ma, ammonisce Mattarella «nel sollecitare la comunità internazionale e l'Unione Europea a compiere passi crescenti su questo terreno la Repubblica Italiana si conforma alle norme sancite dal diritto internazionale relative all'accoglienza di coloro che hanno diritto a protezione».

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Gli Stati Uniti hanno deciso ieri di uscire dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite per il suo “continuo pregiudizio” nei confronti d’Israele. Ad annunciarlo è stato la rappresentante statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley. “Compiamo questo passo perché il nostro impegno non ci permette di essere parte di una organizzazione ipocrita, che pensa solo a sé stessa e che si fa beffa dei diritti umani” ha spiegato Haley nel corso di una conferenza stampa dove era presente anche il Segretario alla difesa Usa Mike Pompeo.

Haley ha poi subito precisato che la scelta degli Usa – che giunge a suo dire dopo i tanti sforzi americani volti a riformare il Consiglio – “non significherà che verremo meno agli impegni presi nel campo dei diritti umani”, ma è figlia delle posizioni del Consiglio che “protegge chi viola i diritti umani ed è una fogna di pregiudizio politico”. “Guardate i suoi membri e vedrete una sconcertante mancanza di rispetto per i diritti umani basilari” ha poi aggiunto citando il Venezuela, la Cina, Cuba e la Repubblica democratica del Congo.

La decisione è stata criticata dall’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Zeid Ra’ad al-Hussein, che ha parlato di annuncio “deludente anche se non così sorprendente”. “Visto lo stato dei diritti umani nel mondo oggi – ha detto al-Hussein – gli Usa dovrebbero incrementare [il loro contributo], non fare passi indietro”.

Duro è anche il commento di Human Rights Watch (HRW): “Il ritiro dell’Amministrazione Trump riflette tristemente la sua politica unidimensionale sui diritti umani: difendere gli abusi israeliani dalle critiche ha la precedenza su tutto” ha detto il direttore esecutivo della ong statunitense, Kenneth Roth.

La decisione di Washington – senza precedenti nei 12 anni di storia del Consiglio – giunge dopo che a metà maggio il Consiglio dei diritti umani dell’Onu aveva votato per indagare sulle uccisioni compiute da Israele contro i manifestanti palestinesi nella Striscia di Gaza e aveva condannato Tel Aviv per aver usato eccessiva forza per reprimere le “proteste del ritorno” gazawi. Allora gli Usa e l’Australia scelsero di non votare, schierandosi con Israele che accusò il Consiglio di “diffondere bugie contro lo stato ebraico”.

La scelta americana giunge però anche dopo le dure critiche che l’Amministrazione Trump ha ricevuto in questi giorni per aver separato i bambini migranti dai loro genitori al confine tra Messico e Usa. Proprio al-Hussein aveva invitato lunedì Washington a rivedere questa sua decisione: “Il pensiero che uno stato possa cercare di scoraggiare i genitori infliggendo tali abusi ai bambini è immorale”. L’uscita americana dal Consiglio dei diritti dell’Onu rappresenta il terzo ritiro americano da impegni multilaterali dopo l’abbandono dell’accordo climatico di Parigi e l’intesa sul nucleare iraniano.

Il rapporto tra l’organismo internazionale e Washington è sempre stato conflittuale. Quando il Consiglio fu stabilito 12 anni fa, il presidente americano Bush decise di boicottarlo per tre anni per gli stessi motivi addotti ieri da Haley. Allora a convincere Bush fu John Bolton, all’epoca rappresentate degli Usa all’Onu e oggi scelto da Trump come Consigliere nazionale per la Sicurezza. Washington si sarebbe unito all’organismo tre anni dopo (nel 2009) quando alla Casa Bianca fu eletto l’ex presidente Barack Obama e ne fece parte, come regolamento prevede, per due termini consecutivi (ciascuno della durata di tre anni). Dopo un anno di stop, gli Usa sono stati rieletti nel 2016. Il Consiglio è formato da 47 membri eletti dall’Assemblea Generale dell’Onu. Un numero specifico di posti è riservato per ogni area del mondo.

Il ritiro americano giunge mentre si è registrata una nuova notte di tensione a Gaza dove l’aviazione israeliana ha sapere di aver colpito 25 “obiettivi di Hamas” in risposta al lancio palestinese di colpi di mortaio e 30 missili (7 dei quali intercettati dal Sistema difensivo israeliano Iron Dome). Secondo fonti locali, due agenti della sicurezza di Hamas sarebbero rimasti leggermente feriti in uno dei raid israeliani nel sud della Striscia. Le sirene di allarme sono risuonate nelle cittadine israeliane a confine con la piccola enclave palestinese assediata da Tel Aviv da oltre 10 anni.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2018. Un'analisi quantitativa dell'esodo in corso. I numeri dell'esodo in corso potranno essere utili a quanti hanno conservato il lume della ragione, saranno inutili per chi usa la testa come i governanti italiani ed Europei. Con commento. (e.s.)
L'analisi delle dimensioni dell'esodo ne conferma il carattere dirompente sia per i paesi di provenienza sia per quelli assunti come obiettivi dai flussi dei migranti. Ma non si comprende ancora che é necessario individuare e praticare sia soluzioni immediate per l'accoglienza coerente con una «migrazione sicura, ordinata e regolare», secondo le parole di papa Francesco, sia il progressivo smantellamento del sistema economia e di potere che con lo sfruttamento dei colonialismo vecchi e nuovi, sta portando il pianeta e l'umanità alla catastrofe. Chiamalo, se vuoi, capitalismo. (e.s.)

Il Fatto quotidiano, 19 giugno 2018
Giornata mondiale del Rifugiato, oltre 68 milioni di persone costrette alla fuga. “Nel 53% dei casi sono minori”
di Luisiana Gaita

Un nuovo patto globale per i rifugiati non è più rinviabile. A renderlo cruciale sono gli oltre 68 milioni di persone costrette alla fuga a causa di guerre, violenze e persecuzioni. Nel 2017 questo numero ha raggiunto un nuovo record per il quinto anno consecutivo. I motivi sono da riscontrarsi soprattutto nella crisi nella Repubblica Democratica del Congo, nella guerra in Sud Sudan e nella fuga in Bangladesh di centinaia di migliaia di rifugiati rohingya provenienti dal Myanmar. I Paesi maggiormente colpiti sono per lo più quelli in via di sviluppo.

Nel rapporto annuale ‘Global Trends’, pubblicato in occasione della Giornata mondiale del Rifugiato, che cade il 20 giugno, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) traccia una mappa dei flussi di uomini, donne e bambini che abbandonano le proprie case e si lasciano alle spalle il proprio passato per un futuro incerto, spesso altrettanto drammatico. Ogni giorno sono costrette a fuggire 44.500 persone, una ogni due secondi. “Siamo a una svolta, dove il successo nella gestione degli esodi forzati a livello globale richiede un approccio nuovo e molto più complessivo, per evitare che Paesi e comunità vengano lasciati soli ad affrontare tutto questo” dichiara dichiarato Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati.

I dati sui rifugiati – Nel totale dei 68,5 milioni di persone in fuga sono inclusi anche i 25,4 milioni di rifugiati che hanno lasciato il proprio Paese a causa di guerre e persecuzioni, 2,9 milioni in più rispetto al 2016. Si tratta dell’aumento maggiore registrato dall’Unhcr in un solo anno. Nel frattempo, i richiedenti asiloche al 31 dicembre 2017 erano ancora in attesa della decisione in merito alla loro richiesta di protezione sono passati da circa 300mila a 3,1 milioni. Sul numero totale, le persone sfollate all’interno del proprio Paese, invece, sono 40 milioni, poco meno dei 40.3 milioni del 2016. In pratica il numero di persone costrette alla fuga nel mondo è quasi pari al numero di abitanti della Thailandia. Considerando tutte le nazioni nel mondo, una persona ogni 110 è costretta alla fuga. Il Global Trends non esamina il contesto globale relativo all’asilo, a cui l’Unhcr dedica pubblicazioni separate “e che – spiega l’Agenzia – nel 2017 ha continuato a vedere casi di rimpatri forzati, di politicizzazione e uso dei rifugiati come capri espiatori, di rifugiati incarcerati o privati della possibilità di lavorare e di diversi Paesi che si sono opposti persino all’uso del termine ‘rifugiato’”.

La risposta alla crisi – Domenica scorsa Papa Francesco ha evidenziato che la Giornata mondiale dei Rifugiati quest’anno cade nel vivo delle consultazioni tra i governi per l’adozione di un patto mondiale “che si vuole adottare entro l’anno, come quello per una migrazione sicura, ordinata e regolare”. Secondo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati c’è motivo di sperare: “Quattordici Paesi stanno già sperimentando un nuovo piano di risposta alle crisi di rifugiati e, in pochi mesi, sarà pronto un nuovo Global Compact sui rifugiati e potrà essere adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite”. Da qui l’appello di Filippo Grandi agli Stati e l’invito a sostenersi a vicenda: “Nessuno diventa un rifugiato per scelta, ma noi tutti possiamo scegliere come aiutare”.

Si fugge soprattutto dai paesi in via di sviluppo – Il rapporto offre numerosi spunti di riflessione: l’85% dei rifugiati risiede nei Paesi in via di sviluppo, molti dei quali versano in condizioni di estrema povertà e non ricevono un sostegno adeguato ad assistere tali popolazioni. Quattro rifugiati su cinque rimangono in Paesi limitrofi ai loro. Gli esodi di massa oltre confine sono meno frequenti di quanto si potrebbe pensare guardando il dato dei 68 milioni di persone costrette alla fuga a livello globale. “Quasi due terzi di questi – spiega il rapporto – sono infatti sfollati all’interno del proprio Paese. Dei 25.4 milioni di rifugiati che hanno lasciato il proprio Paese a causa di guerre e persecuzioni, poco più di un quinto sono palestinesi sotto la responsabilità dell’Unrwa(l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente). Dei restanti, che rientrano nel mandato dell’Unhcr, due terzi provengono da soli cinque Paesi: Siria, Afghanistan, Sud Sudan, Myanmar e Somalia. “La fine del conflitto in ognuna di queste nazioni – sottolinea l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati – potrebbe influenzare in modo significativo il più ampio quadro dei movimenti forzati di persone nel mondo”. Il Global Trends offre altri due dati, forse inattesi: il primo è che la maggior parte dei rifugiati vive in aree urbane(58%) e non nei campi o in aree rurali; il secondo è che le persone costrette alla fuga nel mondo sono giovani, nel 53% dei casi si tratta di minori, molti dei quali non accompagnati o separati dalle loro famiglie.

I paesi ospitanti – Come per il numero di Paesi caratterizzati da esodi massicci di persone, anche il numero di quelli che ospitano un elevato numero di rifugiati è relativamente basso: in termini di numeri assoluti la Turchia è rimasta il principale Paese ospitante al mondo, con una popolazione di 3.5 milioni di rifugiati, per lo più siriani. Nel frattempo, il Libano ha ospitato il maggior numero di persone in rapporto alla sua popolazione nazionale. Complessivamente, il 63% di tutti i rifugiati di cui si occupa l’Unhcr si trova in soli 10 Paesi. “Purtroppo le soluzioni a tali situazioni sono state poche – rileva il rapporto – mentre guerre e conflitti hanno continuato a essere le principali cause di fuga, con progressi assai limitati verso la pace”.

Pochi quelli che tornano a casa – Circa cinque milioni di persone hanno potuto tornare alle loro case nel 2017, la maggior parte delle quali però era sfollata all’interno del proprio Paese. Tra queste, inoltre, in migliaia sono rientrate in maniera forzata o in contesti assai precari. A causa del calo dei posti messi a disposizione dagli Stati per il reinsediamento, sono 100mila i rifugiati che sono potuti tornare a casa, un numero diminuito di oltre il 40 per cento. Una sconfitta.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Adn Kronos, 17 giugno 2018. I nostri governanti non si segnalano solo per mancanza di umanità, ma anche per l'ipocrita arroganza con la quale capovolgono la realtà. Ma c'è chi, dall'Italia, ristabilisce la verità. Con commento (e.s.)

Il nostro ministro degli interni Matteo Salvini ha fatto e sta facendo fuoco e fiamme per chiudere i porti, perseguitare le Ong che salvano i fuggiaschi migranti, ricacciare questi ultimi nei paesi che l'Europa ha distrutto e dai quali tentano di fuggire. La presidente di Medici senza Frontiere Italia dichiara che «il governo italiano e altri governi europei hanno vergognosamente fallito nelle loro responsabilità umanitarie e anteposto la politica alla vita di persone vulnerabili». Eppure il nostro Salvini ha l'incredibile faccia tosta da trasformarsi - per il grosso pubblico, - da orco quale è in fatina azzurra (e.s)

ADN Kronos, 17 giugno 2018 Medici senza frontiere: «Salvini, non c'è proprio nulla da festeggiare»
«Mentre la Lega e i 5Stelle esultano, su Adn Kronos il comunicato di MsF Italia: Msf Italia: "Non c'è niente da festeggiare"»

Anche se siamo sollevati per la fine di questo inutile viaggio, oggi non c'è proprio niente da festeggiare. Ci auguriamo che sia la prima e ultima volta che persone soccorse in mare, sopravvissute all’attraversamento del deserto e ad orribili violenze in Libia, si trasformino in moneta di scambio per un gioco politico tra stati europei”. A dichiararlo Claudia Lodesani, presidente di Medici Senza Frontiere Italia.

“Arrivare a Valencia - continua la presidente di Msf - è stato inutile e disumano. Finché ci sarà un bisogno umanitario nel Mediterraneo, noi continueremo ad operare sotto il coordinamento della Guardia Costiera italiana, come abbiamo sempre fatto. Al tempo stesso ci auguriamo che in Europa finisca il tempo delle ipocrisie e dell'inumanità, auspicio condiviso dai tantissimi partecipanti che hanno animato le numerose manifestazioni di solidarietà in tutta Italia di questi giorni”.
In vista della riunione del Consiglio europeo della prossima settimana, Msf chiede ai governi europei di "mettere al primo posto la vita delle persone". Devono "facilitare lo sbarco rapido nei porti sicuri più vicini in Europa", dove le persone soccorse devono poter ricevere cure adeguate, devono "garantire a coloro che necessitano di protezione internazionale di essere in grado di richiedere asilo o altre forme di protezione". I governi europei "non devono ostacolare le operazioni di ricerca e soccorso in mare delle organizzazioni non governative" e devono "istituire un meccanismo proattivo e dedicato di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale".

Inoltre per Karline Kleijer, responsabile per le emergenze di Msf, “gli uomini, le donne e i bambini a bordo dell'Aquarius sono fuggiti da conflitti e povertà e sono sopravvissuti ad orribili abusi in Libia. Sono stati trasferiti da una barca all'altra come merci e hanno dovuto sopportare un inutile e lungo viaggio in mare”. Ecco perché, aggiunge, "siamo grati alla Spagna per essere intervenuta, anche se il governo italiano e altri governi europei hanno vergognosamente fallito nelle loro responsabilità umanitarie e anteposto la politica alla vita di persone vulnerabili”

Avvenire, 15 giugno 2018. Mentre i disperati sfuggono dall'inferno
(e.s.)

La realtà della cronaca quotidiana supera le analisi più crude e veritiere del comportamento dell'Europa e dei suoi governanti, ma non sembra provocare nessun soprassalto nell'atteggiamento dalla maggioranza dei media, nè in quella dei cittadini. Un manto d'ipocrisia e un furbesco capovolgimento dei fatti tentano di celare l'abisso nel quale la "nostra" parte del mondo è caduta. La denuncia pubblicata dal giornale dei vescovi italiani è un efficace contrappunto di quello di Franco Berardi Bifo, L'effetto Italia e la fine dell'Occidente, che abbiamo ripreso ieri(e.s.)

Avvenire, 15 giugno 2018 L'avvilente «ruota della fortuna». La sofferenza di chi migra e le realtà capovolte
di Angelo Scelzo

L’ultimo affronto al popolo dei naufraghi è ormai questo. Anche i “salvagenti” possono servire a poco, se insieme non si pesca il jolly della combinazione giusta, un avvilente e angoscioso “filotto” che, tra caso e fortuna, schiera la serie degli elementi in gioco: l’imbarcazione di soccorso – se “privata” o “militare” – il Paese d’origine e soprattutto il porto d’approdo, nel quale il via libera è regolato dal semaforo impazzito di governi che, da un giorno all’altro, cambiano di segno, se non proprio di natura. Ai migranti dell’Aquarius saranno forse sfuggiti gli sviluppi delle situazioni politiche in Italia e in Spagna, e neppure avranno prestato molta attenzione al repentino cambio di scena avvenuto sui due rispettivi fronti, con i porti italiani già divenuti poco a poco più lontani improvvisamente chiusi e quelli iberici diventati a un tratto più accoglienti.

E per sovrappiù ci sono i francesi: erano arrivati a respingere in malo modo donne incinte alle frontiere e ora si sono riscoperti polemicamente solleciti e solidali... Una realtà capovolta, e nel giro di poche settimane. Non solo parole, ma regole cambiate sul campo, nel giro di poche ore. Come quella della netta differenziazione tra salvataggi operati da Guardia costiera italiana e altri navi militari e quelli effettuati, in lealissima e legalissima collaborazione con la stessa Guardia costiera, da imbarcazioni di Organizzazioni non governative (di tredici che erano, ora ne è rimasta una sola nelle vaste acque del Canale di Sicilia, e messa in condizione di non soccorrere). Queste ultime confinate senza scampo nell’orbita dei sospetti.

È probabile che anche di questa diffidenza, chi viene a trovarsi nella disperata ricerca di salvezza, non sia al corrente, e finisca per non riflettere sul fatto che una nave non vale l’altra, come pure un Paese non vale l’altro, e infine - quel che più conta - un porto può essere alla fine non uguale all’altro. La differenza può risultare infatti fondamentale: si può trattare - e d’ora in poi, in Italia sarà così - di un porto chiuso, quasi un ossimoro pensando al senso dell’approdo.

È difficile aggiungere anche solo un’oncia di oltraggio, all’odissea di chi, per mare o per terra, va in cerca di salvezza o di patria in un mondo scosso dalle ondate telluriche di un caotico cambio d’epoca. Ma l’indecenza di questa sorta di “ruota della fortuna” da “giocarsi” in mezzo al mare, è grande. Grande e insopportabile, perché è certo la peggiore e la più odiosa delle derive di una tragedia di fronte alla quale sarebbero le “politiche” a doversi inchinare, evitando l’incongruo rifugio nell’ipocrisia e nella meschinità delle regole cieche e sorde.

Come può sfuggire l’enormità del divario tra le tragedie in atto e la pochezza delle regole vigenti? Prima delle regole viene infatti una scelta di campo; più forte e più efficace delle norme è l’attitudine, l’atteggiamento, un «sì» o un «no» all’accoglienza del povero e del perseguitato, alla capacità di vedere, finanche nelle visioni offuscate del momento, i lineamenti di un mondo come casa comune della famiglia umana.

Quello a cui si assiste è per il momento solo un gigantesco e misero spot all’industria dello scarto, più volte evocata da papa Francesco. Per la natura e gli elementi in campo, siamo anzi di fronte alla sua massima rappresentazione: lo sprezzo e la noncuranza della vita umana, trattata come la variabile indipendente di un 'fenomeno' da contrastare e sconfiggere con ogni mezzo. La fortuna o il caso potranno assistere perfino l’una o l’altra imbarcazione con il carico di persone – uomini, donne, bambini a bordo. Si potrà essere salvati dall’equipaggio sbagliato. E nel posto sbagliato.

All’Aquarius, finita anche in mezzo alla bufera politica e alle tempeste marine nel lungo tratto tra Italia e Spagna, è toccata una sorte inedita: accompagnata e scortata fino al porto di Valencia da due navi della Marina italiana. Come dire: ponti d’oro ai fuggitivi. E salva, così, la politica della fermezza, la “voce alzata” che “paga”. Passano i giorni, ma ancora non paga il senso di scoramento e di sconfitta che si accompagna a tutto questo.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Qui il link al testo integrale del discorso di papa Francesco

openmigration.org.

Themis sostituisce la vecchia missione Triton, con un mandato allargato e che poco si concentra sugli sbarchi dalla Libia. Per la prima volta una missione dell’agenzia europea Frontex supporta le forze dell’ordine marittime di un governo che dice di voler respingere i “clandestini” direttamente in mare.

Il 28 agosto 2014 la Lega non era ancora al governo, e Matteo Salvini si esprimeva così sulla sua pagina Facebook: “Secondo voi dire che FRONTEX PLUS è una PRESA PER IL CULO è troppo forte??? Il 18 ottobre TUTTI A MILANO per dire NO a Mare Nostrum, Frontex, Frontex Plus o come diavolo vorranno chiamare operazioni che, invece di respingere i clandestini, favoriscono l’invasione!”.

Frontex Plus, diventata poi Triton, è stata fino a febbraio di quest’anno la missione di Frontex a difesa della frontiere marittime italiane. Non è “indipendente”: infatti lo scopo è il supporto ai mezzi italiani impiegati per la ricognizione in mare, cioè Guardia di Finanza, Guardia costiera e Polizia di stato. L’Agenzia europea per il pattugliamento delle frontiere – Frontex appunto – finanzia e aiuta il coordinamento della missione Themis, mentre i paesi partecipanti contribuiscono mettendo a disposizione uomini e mezzi, a seconda delle esigenze espresse dall’Italia.

Alla fine del 2016, la storia tra Salvini e Frontex ha preso un’altra piega: il Financial Times ha pubblicato il famoso report interno (ve ne raccontammo qui) in cui l’agenzia sosteneva che i trafficanti dessero ai migranti “precise indicazioni prima di partire per raggiungere le navi delle Ong”. Luigi Di Maio, ad aprile 2017, ha attribuito a un altro report di Frontex (Risk Analysis 2017) la tanto citata espressione “taxi del mare” per definire le Ong. Quella frase nel report non c’è, ma ci sono critiche all’atteggiamento poco collaborativo delle Ong e a salvataggi che avverrebbero “prima di chiamate d’emergenza”.

Quello è stato l’inizio delle intese tra Lega e Cinque Stelle sull’immigrazione, con Frontex citata a sostegno delle argomentazioni anti-Ong – il primo atto della campagna condotta dalla procura di Catania e dal suo capo Carmelo Zuccaro. “Io sto con Zuccaro, io sto con Frontex”, diceva Salvini a maggio 2017, “che certificano, sostengono e confermano quello che qualunque normodotato in Italia e nel mondo ha ormai intuito: l’immigrazione clandestina è organizzata, finanziata, è un business da 5 miliardi di euro e ha portato a 13 mila morti sul fondo del mare”.

Ora la missione di Frontex cominciata a febbraio è cambiata per nuove esigenze dell’Italia. La “revisione” del mandato è cominciata a luglio del 2017 per volere dell’allora ministro Marco Minniti, che aveva inserito questa missione nella strategia più complessiva dell’Italia in Libia. Come vedremo, il compito principale di raccordo con le autorità marittime locali lo svolge la Marina Militare.

La nuova missione di Frontex è stata battezzata Themis. È la prima a supporto di un governo che dice di voler respingere i “clandestini” in mare.

Da paese di frontiera, è ovvio che l’Italia sia uno dei principali interlocutori di Frontex. Il fatto che il governo Lega-Cinque Stelle abbia in animo di respingere i migranti prima che sbarchino, presumibilmente anche con l’ausilio dei mezzi messi a disposizione da Themis, è invece un fatto unico.

Queste sono le caratteristiche della missione pensata da Minniti e che si ritroverà a gestire, invece, Matteo Salvini. E questo è il modo in cui la missione si inserisce all’interno del piano italiano ed europeo sulla Libia, spesso scoordinato e incomprensibile.

Le novità di Themis e l’allargamento del mandato deciso dal Viminale

Nella missione Themis partecipano insieme a Frontex 27 stati membri. La missione dispone di dieci navi, due elicotteri e altrettanti aerei e un budget annuale di 39 milioni di euro, con i quali Frontex paga sia per i propri mezzi, sia per quelli appartenenti ai paesi europei impiegati poi nella missione.

Themis ha alcune caratteristiche differenti rispetto alla precedente Triton. In primo luogo, come spiega il Viminale, il limite dalle coste italiane della linea di pattugliamento: Triton arrivava fino a 30 miglia nautiche dalle nostre coste, Themis si fermerà a 24, ossia il confine delle cosiddette acque continue. È il limite canonico delle acque di competenza di un paese, superato in occasione della missione Triton a causa delle condizioni particolari del 2014, il suo anno di nascita. C’è da ipotizzare che il lieve indietreggiare di Themis sia anche un modo per dare maggiore spazio di manovra alle nuove autorità libiche, alle quali l’Italia sta fornendo assistenza per realizzare a Tripoli un nuovo Mrcc, il centro di coordinamento dei salvataggi a Tripoli.

Una seconda differenza tra Triton e Themis riguarda il mandato. Themis non ha come unico scopo il contrasto all’immigrazione irregolare, né si concentra solo sul Mediterraneo centrale: copre anche i flussi di uomini e droga nel Mediterraneo orientale (Albania e Turchia) e occidentale (Tunisia e Algeria), che erano fuori dal mandato di Triton. Uno spostamento di focus legato anche al calo negli sbarchi.

Le nuove aree interessano a Frontex e agli inquirenti italiani soprattutto per gli “sbarchi fantasma” dalla Tunisia. Pescherecci, barche a vela, motoscafi con poche decine di persone a bordo che sbarcano sulle coste della Sicilia meridionale senza che i migranti a bordo passino da strutture di accoglienza o identificazione: ogni loro spostamento è gestito da organizzazioni italo-tunisine. Sono vittime di tratta? Lavoratori forzati? Manodopera criminale? Potenziali terroristi? Le ipotesi sono tutte al vaglio degli inquirenti.

Sulla carta, poi, Themis rompe il vincolo stabilito da Triton per il quale ogni migrante salvato nella missione doveva sbarcare in un porto sicuro italiano. Al momento, però, non sono registrati sbarchi, a parte per urgenze mediche individuali, in porti diversi da quelli italiani. E il 7 giugno c’è stato l’ennesimo braccio di ferro tra Malta e l’Italia, quando le autorità dell’isola non hanno concesso a Sea Watch di sbarcare 120 migranti in un momento in cui l’imbarcazione dell’Ong era in difficoltà per le condizioni del mare. Ora, con il caso Aquarius, lo scontro con La Valletta è diventato aperto e duro.

Poca trasparenza

Da parte di Frontex c’è molta riservatezza sulle operazioni in corso. Piano operativo e contratti di utilizzo di ogni mezzo impiegato in mare sono i documenti fondamentali per capire esattamente cosa faccia Themis. L’agenzia per il pattugliamento delle frontiere, però, fino a oggi ha diffuso questo genere di documenti soltanto a missioni concluse.

“Nella mia esperienza, Frontex è molto riluttante a condividere i dati delle proprie missioni, soprattutto i piani operativi”, spiega Luisa Izuzquiza, ricercatrice indipendente che da un anno e mezzo deposita richieste di accesso agli atti presso gli uffici dell’Agenzia europea per il pattugliamento delle frontiere. La motivazione con cui le viene negato l’accesso è sempre la stessa: la pubblica sicurezza.

A gennaio 2018, dopo l’ennesimo rifiuto, Luisa Izuzquiza ha portato Frontex di fronte alla Corte di giustizia europea per ottenere la pubblicazione dei contratti impiegati nella scorsa missione, Triton. Alcuni Stati membri, come la Svezia, non hanno avuto problemi a rendere pubblici i documenti con cui mettono a disposizione di Triton i propri mezzi. Tipologia di accordi e costi sono certamente molto simili anche nel caso di Themis. Le spese coperte interamente da Frontex sono un forte incentivo affinché i paesi diano il proprio contributo alle missioni.

Il coordinamento e i sistemi di condivisione dei dati

A partire da settembre 2015, la Commissione europea ha introdotto gli hotspot, sviluppati in via sperimentale in Grecia e in Italia, come prime strutture di identificazione dei migranti. A Catania c’è la sede della Task force regionale (Eurtf), che coordina le strutture italiane. Qui, per evitare sovrapposizioni fra le missioni gestite da ciascuno, siedono nello stesso ufficio uomini di Frontex, Easo (l’ufficio europeo per il sostegno all’asilo), Europol, Eurojust, operazione Sophia, polizia, Guardia di finanza e Guardia costiera.

Meno chiara, però, è la situazione dei canali di comunicazione delle diverse missioni, specialmente fuori dai confini europei. Il principale canale di condivisione dei dati per i paesi del Mediterraneo si chiama Seahorse Mediterraneo Network, una piattaforma utilizzata dalle polizie dei paesi dell’area allo scopo di “rafforzare il controllo delle frontiere”. È un database al momento adottato da Spagna, Italia, Malta, Francia, Grecia, Cipro e Portogallo. La Commissione europea ha messo sul piatto 10 milioni di euro per fare in modo che possano partecipare allo scambio anche Libia, Egitto, Tunisia e Algeria. Se ne discute da ormai tre anni, ma l’unico paese che sembra poterci (e volerci) entrare – tramite l’Italia – è la Libia. Vuol dire che la guardia costiera locale avrà accesso, almeno via Seahorse, agli stessi database marittimi delle nostre forze dell’ordine.

Nella “Relazione sulla performance per il 2016” del Viminale si legge che Seahorse “è stata installata nel Centro Interforze di Gestione e Controllo (Cigc) Sicral di Vigna di Valle (Roma), teleporto principale del Ministero della Difesa, mentre presso il Centro Nazionale di Coordinamento per l’immigrazione “Roberto Iavarone” – Eurosur, sede del Mebocc [Mediterranean Border Cooperation Center], sono stati installati gli altri apparati funzionali alla rete di comunicazione”.

Il nodo italiano, dunque, sembrerebbe operativo: Seahorse è gestito dal Cigc Sicral, mentre il database-ombrello per mappare in tempo reale tutto ciò che sta accadendo in mare, Eurosur, è gestito dal Centro Roberto Iavarone, che è anche sede del Mebocc, la centrale operativa da cui passano le comunicazioni tra paesi europei, Frontex e paesi terzi.

Nella stessa relazione c’è anche un secondo passaggio, che conferma la partecipazione dei libici: si legge che nel 2016 in tutto sei “ufficiali della Guardia Costiera-Marina Militare Libica” sono stati ospitati in Italia “con funzioni di collegamento con le autorità libiche e per migliorare/stimolare la cooperazione nella gestione degli eventi di immigrazione irregolare provenienti dalla Libia” nell’ambito del progetto Sea Horse Mediterranean Network. Non è chiaro, al momento, se gli ufficiali libici hanno poi avuto l’accesso al sistema Seahorse anche da Tripoli.

La sovrapposizione fra Marina militare italiana e autorità marittima libica

Nel Mediterraneo centrale agisce poi la Marina militare. Rispetto alle tre forze dell’ordine che collaborano con Frontex ha altre regole di ingaggio e un’altra linea di comando. Come ora vedremo, ha anche altre priorità.

Oltre a partecipare alle operazioni congiunte di Eunavformed, infatti, la Marina militare italiana ha riattivato la cooperazione con la Libia nata nel 2002, all’epoca di Gheddafi, con il nome in codice di Nauras. Difficile sapere quali navi vengono utilizzate e quali siano gli obiettivi strategici attuali dell’accordo militare tra Roma e Tripoli.

I pochi elementi certi sono emersi grazie al caso giudiziario che ha portato questa primavera prima al sequestro e poi al dissequestro della nave Open Arms, fermata alla fine di marzo 2018 dopo un salvataggio in zona Sar, che aveva visto un duro scontro con le motovedette libiche. Attraverso le informative del comando generale della Guardia costiera italiana, i magistrati – prima di Catania e poi di Ragusa – hanno potuto ricostruire la gestione dei salvataggi del 15 marzo, quando il Mrcc di Roma aveva affidato il coordinamento delle operazioni alle motovedette libiche. Lì emergeva che la nave Capri della Marina militare italiana era intervenuta fin dalle prime ore del mattino parlando con Roma per conto di Tripoli e chiedendo espressamente di fermare l’intervento della Ong – le informative riportano anche un messaggio partito dall’addetto militare italiano a Tripoli.

Dai brogliacci delle comunicazioni partite e ricevute dal Mrcc di Roma durante le operazioni di salvataggio si ricava inoltre che la Marina militare è intervenuta più volte – sia da unità navali inserite nell’operazione Nauras, sia dal Comando della squadra navale (Cincinav), che dipende direttamente dallo Stato maggiore della Difesa. Tra le carte dell’inchiesta c’è anche una relazione del comando di un’altra nave militare coinvolta, la Alpino – qui nelle vesti di polizia giudiziaria e presente a poche miglia dall’area di salvataggio dove stavano agendo contemporaneamente la Open Arms e la Guardia costiera di Tripoli.

Lo stretto legame che esiste tra la Guardia costiera libica e la Marina Militare italiana appare ancora più evidente da un messaggio inviato dal comando delle motovedette libiche al Mrcc di Roma. Il numero di telefono del mittente – ovvero dell’autorità marittima libica – ha il prefisso +39 della rete italiana, e porta direttamente alla nave Capri. In altre parole, se chiami la Guardia costiera libica risponde la Marina militare italiana. E non è l’unico caso. Un paio di mesi dopo, la nave di soccorso tedesca Sea Watch ha ricevuto una telefonata dai libici durante un’operazione di salvataggio, che appariva sul display con un numero italiano.

Quanto siano coinvolte la Marina militare e la Guardia costiera italiana nel respingimento dei migranti è un tema che presto verrà affrontato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, chiamata a discutere una denuncia presentata nei mesi scorsi contro le autorità di Roma.

Tratto dal sito qui raggiungibile.

il manifesto 12 giugno 2018, Ecco come e perché la cecità dei governanti, la voracità dei padroni e il risorgente razzismo colonialista dell'Europa rappresentata da Salvini sta divorando se stessa e il suo futuro. Con commento, (e.s.)

Diventa sempre più facile individuare quali sordidi interessi e quale inguaribile cecità si nascondano dietro l’ipocrisia di Matteo Salvini, odierna espressione della peggiore Europa finora conosciuta. Sono governanti accecati dall’ignoranza quanti ritengono che la marea della fuga creata dai colonialismi nordatlantici possa essere arrestata, quale che sia l’altezza e la virulenza delle barriere che si possano costruire. La presunzione razzista fa credere ai governanti europei che i barbari siano quelli che hanno la pelle scura, non si accorgono che sono invece i “bianchi” rappresentati da Salvini i veri “barbari” di questo millennio.
Dietro la cecità si camuffa una realtà forse ancora più sordida: la massa di clandestini che l’impossibile respingimento provocherà, procurerà, ai padroni delle fabbriche e delle terre, una massa di manovalanza acquistabile a pochi soldi, in aggiunta agli indigeni dell’Europa, già in sempre più larga misura ridotti alla condizione precaria. Questo e altro ci racconta Guido Viale nell'articolo che segue (e.s.)

il manifesto,
12 giugno 2018
La Fortezza Europa ringrazia Salvini
di Guido Viale

«Garantiamo una vita serena a questi ragazzi in Africa e ai nostri figli in Italia». Così il ministro della Repubblica Salvini, nell’atto di negare l’accesso ai porti italiani a una nave di Sos Mediterranée con a bordo con 629 profughi (non tutti «ragazzi»; ci sono anche 7 donne incinte, 11 bambini e 123 minori non accompagnati). Ora ad accoglierli sarà la Spagna e non sarà facile, anzi. Ma poi c’è in vista anche il blocco di una seconda nave, la Sea Watch, in attesa di altri naufraghi salvati da navi mercantili e di decine di gommoni stracarichi che non troveranno più navi delle Ong a raccoglierli, per le quali si prospettano ulteriori e drammatiche strette.

La «vita serena in Africa» che Salvini offre a quei ragazzi è il ritorno in Libia.

Con le donne stuprate in modo seriale, gli uomini venduti come schiavi e tutti e tutte torturate, affamati, ricattate, ammazzati come insetti. Quanto a quella garantita ai «nostri figli», anche per loro c’è l’emigrazione; certo in condizioni di maggiore sicurezza, ma per andare a fare i lavapiatti dopo una laurea o un diploma.
Così si svuotano i paesi «periferici» – dell’Africa, con il politiche coloniali tutt’altro che finite; ma anche dell’Europa, con l’«austerità» – delle forze migliori; purché quelle peggiori continuino a governare.

«Tutta l’Europa si fa gli affari suoi», aggiunge «vittorioso» Salvini. Ma in realtà è lui che fa gli affari sporchi per conto di tutti coloro che sono al governo dei paesi europei. Perché per difendersi dal «nemico» – che ormai sono i profughi, e solo loro – la Fortezza Europa ha tracciato due distinti confini: uno alle frontiere esterne dell’Unione: muri, reticolati, filo spinato, guardie, cani, hot spot, eserciti, navi militari, leggi, regolamenti di polizia, accordi e laute mance per i governi dei paesi di transito, truppe mascherate da consiglieri e chilometri di costosissimi impianti di sorveglianza. L’altro alla frontiera delle Alpi (e a Idumeni o a Lesbo), per impedire a chi è già arrivato in Europa senza affogare di raggiungerne il cuore: i paesi dove ha parenti, amici, compatrioti che lo aspettano e forse persino la possibilità di trovare lavoro.

Per questo le alternative, per l’Italia e il suo governo, sono due: o rafforzare ulteriormente il primo di questi confini o cercare di «sfondare» il secondo. Salvini, in perfetta continuità con il predecessore Minniti, ha scelto la prima, aumentando la dose con il blocco dei porti e rivendicando per sé una responsabilità che i suoi colleghi europei non hanno il coraggio di assumersi: di far affogare, morire di fame e di sete, respingere e rinchiudere nel lager libico i fuggiaschi che l’Europa non vuole accogliere.

Ma Salvini sostiene, con questa sua scelta, di voler mettere alle strette il resto d’Europa: non rivendicando l’apertura dei confini alle Alpi, la libera circolazione di profughi e richiedenti asilo, un grande piano di investimenti – magari, per la rigenerazione ambientale dell’Europa – che offrirebbe occasioni di impiego anche a tutti i nuovi arrivati e ne favorirebbe l’accettazione da parte delle comunità locali (preparando magari anche le condizioni per un ritorno volontario, dopo qualche anno, nei paesi da cui sono scappati, per ricostruirlo). Senza un piano del genere, infatti, anche l’accoglienza non ha futuro.

Invece Salvini chiede un maggior impegno europeo nel rafforzamento dei confini «esterni»: più soldi a chi si impegna nei respingimenti, più navi a sbarrare le rotte marine, più leggi e regolamenti liberticidi, più deroghe alle convenzioni internazionali, più campi di concentramento fuori dei confini dell’Unione, ecc. Per questo, di fronte a una timida proposta di riforma della convenzione Dublino 3 – che impone ai profughi di rimanere nello stato di approdo – Salvini si è alleato con i governi più ferocemente ostili ai migranti, quelli capeggiati dall’ungherese Orbán, le cui politiche comportano di fatto un aggravamento degli oneri che gravano sull’Italia.

Salvini queste cose le sa, come sa che i respingimenti su cui ha basato tutta la sua campagna elettorale sono impossibili e si risolvono solo in più «clandestinità», lo «stato giuridico» dei senza diritti istituito dalla legge Bossi-Fini. Centinaia di migliaia di profughi e migranti senza permesso di soggiorno, o perché «denegati» per le spicce, o perché rimasti senza lavoro; tutti messi per strada e costretti ad arrangiarsi: a cader vittime della tratta, a raccogliere arance e pomodori o mungere vacche nei tanti lager dispersi in tutte le campagne del paese, a rischiare la vita nei cantieri illegali, ad elemosinare o a farsi reclutare dalla malavita, ad accamparsi sotto i viadotti. È questa la situazione che «crea allarme» nel paese e su cui Salvini e i partiti come il suo stanno costruendo le proprie fortune elettorali – ma non solo – in tutta Europa; nel doppio ruolo di vittime e di persecutori di un popolo di persone private di tutto: nella speranza che nessuno possa o voglia più guardare negli occhi quegli esseri umani senza diritti.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

la Nuova Venezia,

LA BATTAGLIA DI GHOLAM NAJAFI
«VENIAMO DALLA POVERTÀ PIÙ ASSOLUTA, SENZA UNA IDENTITÀ»
di Vera Mantengoli

Lettera al capo dello Stato per la cittadinanza

«Veniamo da villaggi e città poverissime e non abbiamo una identità. Io come afghano, quando vado in Ambasciata per un semplice rinnovo del passaporto, mi sento chiedere i documenti dei miei genitori. Ma i miei genitori sono morti senza alcun documento». Gholam Najafi è arrivato al porto di Venezia nel 2007, all'età di 16 anni, dopo un viaggio della "speranza", in fuga dall'Afghanistan in guerra, iniziato a 10 anni. Era un minore non accompagnato, senza certezze sulla data di nascita, senza istruzione di base. Aiutato dai servizi sociali e affidato ad una coppia muranese che è la sua famiglia, Najafi oggi fa il portiere di notte; ha conseguito il diploma di scuola media superiore poi ha preso una laurea triennale e infine quella magistrale a Ca' Foscari. Porta la sua storia, raccontata nel libro Il mio Afghanista nelle scuole per parlare di immigrazione, guerre e migranti con i ragazzi.

Alla notizia del connazionale, morto sul camion in A57 mercoledì, Gholam si rattrista. Per uno che ce la fa, come lui, tanti vivono tragedie, legate al rimpatrio. «Molti si suicidano per non essere rimpatriati, perché siamo tutti consapevoli di ciò che avviene nei nostri paesi. E nessuno ne parla. Nessuno vorrebbe lasciare il proprio villaggio e i propri parenti ma cerca una illusione di vita vera lontano». Per Gholam il rimpatrio è disperazione. «Oggi i nostri paesi sono indeboliti, non siamo ancora in grado di viaggiare con un documento in regola ma siamo costretti a salvarci dalla guerra», racconta. Altro che "pacchia", per dirla alla Salvini. Per Najafi le storie di molti clandestini sono ben più complicate di quanto la politica pensi. I documenti, a volte, neanche esistono. Come nel suo caso. Per questo Najafi ha scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Non riesce ad ottenere la cittadinanza per l'assenza di documenti originali nel suo paese. «Mi rivolgo a Lei nella speranza che ciò che le Ambasciate, italiana e afghana, e la Prefettura di Venezia non possono fare per la particolarità del mio caso, possa essere affrontato e reso più facile con la serenità di giudizio del Presidente di quello che considero il mio Paese», è il passo finale della sua lettera. Con cui chiede di avere una identità, finora negata.

AMADI: «MODIFICARE IL TRATTATO DI DUBLINO»
di Vera Mantengoli

«L'ideatore dell'Orient Experience: “La politica deve creare luoghi di condivisione, non dividere”»

Ha ancora davanti agli occhi le immagini di Zaher Rezai e nelle orecchie i versi intensi delle poesie del giovane afghano, morto schiacciato da un Tir nel 2008, cercando di sfuggire ai controlli di frontiera del Porto. Hamed Amadi, imprenditore afghano ormai venezianizzato di 38 anni, ideatore dell'Oriente e African Exprience, a quel tempo faceva da interprete per le forze dell'ordine. Fu lui a chiamare i genitori di Zaher e comunicare l'orrenda realtà: «Le pagine erano piene di piantine di immobili e all'inizio si pensava che potesse essere la bozza di un piano» ricorda Hamed Amadi. «Quando iniziai a tradurre i versi, capii che scriveva poesie nel quaderno che usava probabilmente come falegname in Afghanistan e mi misi a piangere. Erano piantine di case afghane, con appunti degli interventi da fare».

Amadi è arrivato in Italia nel 2006, a 25 anni, come regista. Doveva essere un viaggio di piacere alla Mostra del Cinema al Lido, ma dopo la proiezione del suo film Maama, iniziò a ricevere minacce di morte dai talebani e chiese asilo in Italia. Iniziò come interprete e al Forte Rossariol, dove vivevano i rifugiati minori, inventò le cene in cui ognuno preparava un piatto del proprio Paese. Il successo che ebbero è quello che oggi lo ha portato a gestire cinque locali e 75 dipendenti con una sola ricetta: mescolare le culture. «Pur essendo coinvolto in tante tragedie» ricorda «quello che mi è sempre rimasto dentro è stato vedere il coraggio e i sogni di chi intraprendeva un viaggio di quel tipo. Parliamo di persone che lasciano tutto pur di inseguire una speranza ed è questo coraggio che lo Stato dovrebbe cogliere perché chi mette in gioco la propria vita per il sogno di una vita migliore, ha tantissimo da dare, ma bisogna metterlo nelle condizioni di farlo».

Secondo Amadi «la pacchia» di cui ha parlato il neoministro dell'interno Matteo Salvini è il risultato di una precisa scelta politica: «Il governo attuale sta facendo un autogol se non modificherà il Trattato di Dublino, l'origine di tante tragedie. Non serve militarizzare le frontiere perché chi vuole scappare troverà sempre un modo di farlo. Sono per la fotosegnalazione, ma non per bloccare le persone in uno Stato dove magari non vogliono nemmeno stare. Inoltre quella che chiama pacchia Salvini è la conseguenza dei tempi lunghissimi di attesa che uccidono ogni speranza. Chi attende non può lavorare, non può fare nulla». Hamadi è per la creazioni di spazi in cui le culture si possono conoscere: «La politica dovrebbe fare questo, trovare dei luoghi di condivisione» spiega «Quando le persone si conoscono da vicino le distanze culturali spariscono e si capisce che siamo un'unica grande famiglia.

MORTO NEL TIR
ERA IN FUGA DALL'AFGANISTAN
di Carlo Mion

«Il giovane di circa trent'anni si era nascosto nel vano portaoggetti al porto di Patrasso. La procura ha disposto l'autopsia»

Gli inquirenti sono convinti che l'uomo trovato morto all'interno del porta oggetti del rimorchio del Tir fermato lungo l'A57 mercoledì dalla polizia stradale, sia afghano. Il camion greco, sbarcato al porto di Venezia, era partito da Patrasso dove ancora oggi migranti afghani cercano di salire sui mezzi diretti in Italia per raggiungere l'Europa. Anche se in maniera decisamente minore rispetto al passato quando almeno tre compagnie di traghetti garantivano i collegamenti tra i porti della Grecia e quelli italiani sull'Adriatico.Le indagini. Ad occuparsi della sua morte sono gli agenti della Squadra Mobile di Treviso e la procura del capoluogo della Marca. Infatti il camion al momento del controllo è stato fermato dalla polizia stradale all'altezza di Venezia Est, ma in provincia di Treviso.

Il pubblico ministero di turno ha disposto l'autopsia per stabilire le cause della morte e il rilievo delle impronte per risalire alla possibile identità. Morto da giorni. I poliziotti della stradale si sono accorti della presenza del morto perché, durante il controllo, avvicinandosi al vano porta oggetti che si trova sotto al rimorchio, hanno sentito un forte odore. Fatto aprire il vano la tragica scoperta. Secondo il medico intervenuto sul posto, il corpo in avanzato stato di decomposizione era lì da diversi giorni anche se va sottolineato che le temperature elevate di questi giorni sia in Grecia che da noi, hanno accelerato il processo di decomposizione. Questo è avvenuto ancora di più mentre il camion imbarcato a Patrasso è rimasto nella stiva del traghetto, dove si toccano temperature anche oltre i 35 gradi.

Quasi sicuramente si tratta di una morte da malore causato da alte temperature. Il porto dove è avvenuto l'imbarco, il sistema usato per nascondersi e la destinazione, fanno pensare che si tratti di un afghano che voleva raggiungere l'Europa. L'autopsia consentirò di controllare se in quel che resta degli abiti avesse dei pezzi di carta o qualche cosa per risalire all'identità. Per gli inquirenti, fino a questo momento, non ci sono elementi per dire che il camionista era a conoscenza che nel suo camion si era nascosto un clandestino. L'unica cosa strana è che dal momento in cui è andato a prendere il camion in stiva non abbia mai sentito il cattivo odore che usciva dal vano oggetti. La rotta abbandonata. Da quando colpa la crisi, delle tre compagnie di traghetti greche che collegavano i porti di quel paese con quelli italiani, ne è rimasta una sola che garantisce pochi collegamenti settimanali con Venezia, questa rotta è stata abbandonata dai clandestini afghani per raggiungere l'Europa centrale e la Scandinavia.

Nigrizia online,
Non tutti gli italiani sono complici dell'efferata campagna razzista, e nazista dell'uomo che Di Maio e i suoi compari hanno scelto come ministro dll'Interno, e della politica di respingimento dei profughi e migranti che sta perseguendo. Ma lo diventeranno se non saranno capaci di utilizzare per fermarlo gli strumenti di cui dispongono dalla protesta di massa, allo sciopero e al voto. Qui sotto l'appello di Nigrizia. Ma in Italia per la giustizia e l'umanità si mobilitano solo i preti? (e.s.)

, 11 giugno 2018
Migranti. Appello dei missionari comboniani

I missionari comboniani si dicono "esterrefatti e indignati" per il rifiuto del ministero dell'Interno di concedere l'approdo a una nave carica di migranti. Chiedono al governo di proseguire sulla strada dell'accoglienza e a Bruxelles di spostare nel Mediterraneo l'epicentro delle politiche europee.

Come cittadini e cristiani siamo esterrefatti e indignati della decisione del ministro degli interni Matteo Salvini che impedisce alla nave Aquarius di portare in salvo nei porti italiani 629 migranti, salvati in acque territoriali libiche.

Il rifiuto di prestare soccorso ai migranti non ha precedenti nella nostra storia ed è in flagrante violazione delle convenzioni internazionali, di cui anche l’Italia è firmataria, che obbligano il soccorso in mare a chi è in pericolo di morte.

Tra i migranti sulla nave ci sono oltre cento minori non accompagnati e sette donne incinte. Una cinquantina di migranti sono stati salvati mentre erano a rischio di morire annegati.

Deploriamo la decisione di Malta, prima destinazione di sbarco, che si è rifiutata di accettare l’attracco della nave Aquarius. Così come la chiusura di Francia e Spagna ad ogni possibilità di accoglienza dei migranti. Ma è deplorevole e vergognoso che l’Italia decida di allinearsi, facendo così pagare a persone innocenti, bisognose di aiuto, il prezzo di una diatriba tra stati su chi si debba assumere la responsabilità di accogliere i migranti.

Chiediamo pertanto che il nuovo governo italiano ritorni sulla decisione presa dal ministro Salvini e dia immediatamente il benestare alla nave Aquarius di approdare a uno dei porti italiani più vicini a dove si trova ora la nave.

È vero, l’Italia non può essere lasciata sola di fronte a un fenomeno migratorio che ha una portata enorme e implicazioni internazionali (specie nel bacino del Mediterraneo) che chiamano in causa l’attenzione e il peso geopolitico dell’Unione Europea. È quindi corretto e giusto che il governo italiano faccia sentire le propria voce a Bruxelles, chiedendo ai partner europei di farsi carico, anche loro, del dossier migranti.

Ma nello stesso tempo l’Italia non può sottrarsi al dovere di accogliere persone che, in gran parte, cercano di costruirsi una vita migliore in Europa e che, in alcuni casi, fuggono da guerre e da regimi dittatoriali.

È importante che l’Italia mantenga un doppio ruolo: essere un porto sicuro per i migranti e nel contempo non smettere di sollecitare l’Europa a trovare soluzioni percorribili (non semplicemente fondate sul controllo militare delle aree di transito dei migranti, come avviene in Niger e Mali), anche nei paesi di partenza dei migranti.

I partner europei devono essere sollecitati a spostare il baricentro delle proprie politiche verso il Mediterraneo. È qui - in particolare attraverso la pacificazione e la stabilizzazione degli stati nordafricani - che si possono cominciare a costruire nuovi equilibri politici ed economici.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

L'Aquarius con 629 migranti a bordo attende nel Mediterraneo. Salvini chiude i porti e pretende che sia Malta ad accoglierli, che rifiuta. Tanti esultano del braccio di ferro, ma alcuni comuni del sud, da Reggio C. a Taranto, Napoli e Palermo sono pronti a disobbedire al governo, facendo l'unica cosa possibile: accoglierli.

Osservatorio Diritti

Lo ha scoperto l'Osservatorio Mil€x da documenti del ministero della Difesa. Una svolta epocale nella storia militare italiana: per i droni militari sarà possibile attaccare, non solo fare missioni di ricognizione. A questo si aggiunge il costo per rinnovare il parco droni con nuovi esemplari. Un investimento da 700 milioni di euro.

L’Italia sta spendendo quasi 20 milioni di euro per armare i propri droni. Dal 2015, il Pentagono ha autorizzato il ministro della Difesa italiano ad armare i propri velivoli a controllo remoto, di produzione statunitense. Finora sembrava che il progetto di trasformarli in delle vere e proprie armi da guerra non dovesse andare in porto.

Invece, come rivela Mil€x, l’Osservatorio sulle spese militari italiane, nel suo rapporto Droni, Dossier sul APR militari italiani, sul piatto ci sono già 19,3 milioni di euro, di cui 0,5 spesi nel 2017 e 5 da spendere nel 2018. La voce, contenuta in documenti ufficiali del ministero recuperati da Mil€x, è definita stanziamento per sviluppare «capacità di ingaggio e sistema Apr Predator B». Tradotto dal gergo militare, significa che i droni italiani (Apr, aerei a pilotaggio remoto) Predator B hanno cominciato la procedura per l’armamento.
Il costo dei droni militari italiani

Finora l’Italia ha stanziato 668 milioni di euro in droni, principalmente allo scopo di acquistare mezzi da ricognizione. Duecentoundici milioni sono stati spesi all’interno del programma Nato Alliance ground surveillance (Ags), attraverso cui si sono acquistati in tutto 15 velivoli (uno costa circa 187 milioni di euro).

Altri 142 milioni di euro sono stati spesi per sei Reaper prodotti dalla statunitense General Atomics. Sono questi i famosi Predator B che l’Italia sta armando, visto che il loro scopo, oltre alla ricognizione, è l’attacco. Terza voce di spesa la partita di nove Predator A (di cui due precipitati) acquistati tra il 2004 e il 2015: 95 milioni di euro.
I droni militari americani che partono da Sigonella in Sicilia. Per alcuni si sospetta un uso belligerante, non solo per ricognizioni.
La questione droni in Italia finora è sempre passata sotto silenzio. Anche quando a settembre dello scorso anno la Repubblica ha dato la notizia di attacchi missilistici effettuati da droni americani in Libia partiti dalla base Nato di Sigonella, in Sicilia. Per alcuni si sospetta un uso belligerante, non solo per ricognizioni.

Italia: i nuovi droni militari della Piaggio Aerospace

Fin qui lo stato dell’arte, con le spese già effettuate. Il bilancio della difesa però potrebbe raddoppiare. L’ex ministro della Difesa Roberta Pinotti, a febbraio, ha presentato al Parlamento una richiesta per 20 nuovi droni militari P2HH, armabili, per sostituire il vecchio parco velivoli (Predator A e B). Li produce Piaggio Aerospace, azienda con sede ad Albenga, in Liguria, dal 2014 controllata al 100% dal fondo d’investimento Mubadala degli Emirati Arabi Uniti.

La società ha passato anni travagliati sul piano economico. La sua crisi, che ha fatto sfiorare il fallimento al comparto Aerospace, si è acuita con lo sviluppo del primo prototipo di droni Piaggio, i P1HH, uno dei quali scomparso misteriosamente nel Mediterraneo.

Lo scorso anno, il fondo Mubadala ha iniettato nell’azienda 700 milioni di euro per prendere un minimo di ossigeno. La commessa dell’Aeronautica italiana potrebbe essere la spallata per farla uscire dalla crisi.

I dubbi intorno al programma, però, sono molteplici. La commessa vale 15 anni e 766 milioni di euro: 51 milioni all’anno. Non solo: i primi prototipi si vedranno nel 2022. Per altro, il progetto rischia di sovrapporsi al più ambizioso progetto europeo Male 2025(Medium altitude long endurance), a cui partecipano consorziate le più grandi compagnie che si occupano di sistemi di difesa in Europa, compresa l’italiana Leonardo. L’Italia ha investito nel progetto 15 milioni di euro.


Altre spese inutili per gli F35: prezzo medio 190 milioni

Il ministero della Difesa non è nuovo a investimenti discutibili per rinnovare la flotta aerea. L’esempio più clamoroso sono gli F-35: il volo inaugurale degli esemplari acquistati dalla Royal Air Force (Raf) britannica, avvenuto a giugno, è stato definito dal «imbarazzante» e «patetico» dal Times di Londra. Gli aerei sono prodotti da Lockheed Martin e assemblati in Italia da Leonardo.

Dieci di questi cacciabombardieri sono stati già consegnati, al prezzo medio di 150 milioni di euro l’uno, a cui si aggiungeranno altri 40 milioni di euro di “ammodernamento” di ogni singolo aereo, nato già vecchio. La Corte dei conti, l’estate scorsa, nella relazione sulla Partecipazione italiana al Programma Joint Strike Fighter – F35 Lightning II, il programma di sviluppo dei nuovi cacciabombardieri, ha detto:

«Il programma è oggi in ritardo di almeno cinque anni rispetto al requisito iniziale. Se è vero che lo sviluppo si avvicina al completamento, il passaggio ai lotti di produzione piena è stato rinviato più volte (i lotti di produzione ridotta, inizialmente previsti in numero di 12, sono ormai 14 e si protrarranno fino al 2021), e per riconoscere la piena capacità di combattimento sarà necessario attendere il termine della fase detta di “ammodernamento successivo”, previsto per il 2021».

Si poteva fare meglio, anche perché ai ritardi hanno fatto seguito aumenti dei costi.
Mil€x ha scoperto che al già costoso programma la ministra Pinotti ha aggiunto un’ulteriore commessa di otto F-35, arrivando a un totale di 26 nuovi aerei. L’ultimo Documento programmatico pluriennale del ministero della Difesa redatto sotto la ministra Pinotti, prevedeva un esborso di 727 milioni per quest’anno, 747 milioni nel 2019 e 2.217 milioni tra il 2020 e il 2022.

Tratto dal sito qui raggiungibile.

il manifesto,

In un’intervista del ministro Salvini a Repubblica.tv, diventata virale sui social, il leader della Lega invitato dall’intervistatore a mandare un messaggio al sindaco di Riace “Lucano” ha testualmente risposto: «Al sindaco di Riace non dedico neanche mezzo pensiero. Zero. È lo zero».

Questa risposta si commenta da sé e il ministro dovrà risponderne di fronte ai calabresi, ai meridionali e a tutti le italiane e gli italiani che in questi venti anni son venuti a Riace per tirare una boccata di ossigeno, per scoprire come si possa convivere tra tante etnie e culture diverse, per vedere con i propri occhi quello che un grande regista tedesco ha dichiarato di fronte a dieci premi Nobel per la pace: «A Riace, un paesino della Calabria, ho scoperto la vera civiltà e quale potrebbe essere il nostro futuro». È successo nel 2009, nella ricorrenza del ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, quando Wim Wenders, dopo aver girato un docufilm su Badolato e Riace, ha così esordito stupendo la stampa di mezzo mondo.

Chi come chi scrive ha vissuto l’esperienza di Riace fin dall’inizio, ha visto rinascere un paese completamente abbandonato, ha esultato come calabrese e meridionale nel vedere Riace citato dai mass media di tutto il mondo, che normalmente della Calabria se ne sono occupati solo per la ‘ndrangheta. Finalmente agli onori della cronaca come segno di civiltà. Un paese di meno di 1.200 abitanti, di cui oltre ottocento stanno nella marina, ha ospitato fino a quattrocento migranti senza che ci fosse in vent’anni un solo reato, un solo conflitto interetnico, in un clima di fratellanza e amicizia con tutti gli esseri umani da qualunque parte provengano.

Ho conosciuto nell’ottobre del 1998 Domenico Lucano e gli amici dell’associazione “Città futura” (nomen omen) che si presentarono a Badolato dopo la prima esperienza italiana di accoglienza di profughi curdi in un paese semi-abbandonato, quando la popolazione locale e il sindaco Gerardo Mannello accolsero a braccia aperte e sistemarono nelle case vuote di Badolato superiore più di ottocento curdi. Erano venuti a vedere questa esperienza di accoglienza, sostenuta economicamente e fattivamente dal Cric, allora una delle Ong più attive in questo campo, che volevano replicare nel loro paesino. In meno di un anno, grazie anche al sostegno della Banca etica di Padova, della comunità anarchica di Longo Mai in Provenza, di Cornelius Cock, uno straordinario prete svizzero che sosteneva il diritto alla vita dei migranti clandestini, alla rete italiana del fair trade, Riace divenne il punto di riferimento della solidarietà ai profughi che attraversano il Mediterraneo rischiando la vita.

Cinque anni dopo Domenico Lucano venne eletto sindaco e intensificò il suo impegno per l’accoglienza dei migranti e per la rinascita del paese che in pochi anni vide riaprire le scuole, i servizi , bar, ristoranti, sistemare e abbellire le piazze, le stradine, costruire un anfiteatro dedicato alla pace, colorare il paese grazie ad artisti e turisti solidali provenienti da tutta l’Italia, e non solo. Grazie al costante e straordinario impegno di Recosol (Rete Comuni Solidali), questo piccolo paesino calabrese è diventato un punto di riferimento per tanti Comuni italiani e europei, un luogo di incontri, di cultura, di festa.

Oggi a Riace lavorano nei progetti di accoglienza circa quaranta giovani locali, e grande è l’indotto che le attività legate ai migranti hanno prodotto nell’economia locale, anche grazie all’introduzione di una “moneta locale” che Lucano ha immesso nel 2010 per contrastare i ritardi nei pagamenti statali. Un esempio virtuoso che dovrebbe essere moltiplicato e applicato su grande scala. È proprio dalle aree interne, da quello che Manlio Rossi Doria chiamava l’osso del Mezzogiorno, che potrebbe rinascere il Sud e di riflesso il nostro paese. Ed invece, prima dell’arrivo al potere del ministro Salvini, la burocrazia della Prefettura di Reggio Calabria si è messa di traverso, come il sindaco Lucano ha più volte raccontato. Inutilmente il sindaco di Riace ha chiesto la relazione dei funzionari che sono stati a Riace nello scorso ottobre, e solo dopo l’intervento della magistratura sono stati aperti i cassetti che custodivano questo report. Il motivo? Semplice: era una relazione estremamente positiva che smentiva le accuse rivolte all’amministrazione di Riace sulla gestione dell’accoglienza dei migranti. Risultato: sono due anni che il Comune deve ricevere fondi che gli spettano, rischiando il dissesto secondo quello che sembra un piano preordinato.

Tratto dal Manifesto qui raggiungibile

Internazionale,

Sono più di 1,5 milioni su una popolazione libanese di sei milioni di persone. Vivono a pochi chilometri da casa ma temono di non poterci tornare più. Soprattutto, soffrono per la loro invisibilità. E invece, i profughi siriani in Libano hanno un piano, dice un loro portavoce, Sheik Abdo.

La proposta che Sheik Abdo, maestro di scuola siriano rifugiato in Libano, porta in Europa a nome dei profughi siriani è incentrata sul ritorno. Dopo aver riconquistato città dopo città e sconfitta la resistenza con massicci bombardamenti, il regime siriano si sta dedicando allo spostamento della popolazione. Mettendo così a grave rischio il futuro del paese e il fragile equilibrio comunitario precedente alla guerra.

Sulla questione degli spostamenti della popolazione, la memoria dell’esperienza palestinese è onnipresente nella regione. I palestinesi, scappati nel 1948, non sono mai potuti tornare. E oggi, settant’anni dopo, secondo l’Unrwa 450mila palestinesi vivono ancora nei 12 campi profughi del Libano.

Così, un gruppo di profughi siriani ha redatto una proposta di pace. Vogliono la creazione di una zona umanitaria in Siria, “ovvero di territori che scelgano la neutralità rispetto al conflitto, sottoposti a protezione internazionale, in cui non abbiano accesso attori armati, secondo il modello, per esempio, della Comunità di pace di San José de Apartadó, in Colombia” e dove, sotto la protezione internazionale, siano garantite la sanità e l’istruzione.

Sheik Abdo, accompagnato dall’organizzazione Operazione colomba che lavora nei campi profughi libanesi, sta girando l’Europa per convincere politici e diplomatici a non ascoltare solo quelli che in Siria hanno le armi.

Nella sua chiavetta usb, Abdo porta invece con sé la testimonianza dei siriani disarmati. I bambini, per esempio, che hanno realizzato il valore delle cose una volta che le hanno perse e che raccontano quanto rimpiangano i giorni in cui aspettavano l’autobus per andare a scuola. Su questo, Abdo presenta il lavoro di organizzazioni che pensano davvero al futuro, come Save syrian schools.

A nome di chi parla Sheik Abdo? Rappresenta chiaramente la maggioranza della popolazione siriana, muta, senza voce, che sogna la pace e il ritorno, senza il ricorso alle armi.

Prima della guerra, Sheik Abdo era un maestro elementare ad Al Qusayr, vicino alla città martire di Homs. Nel 1982, Homs fu quasi rasa al suolo dall’allora presidente Hafez al Assad. Oggi è quasi totalmente distrutta per volere del figlio, Bashar al Assad.

Durante proteste pacifiche, Abdo ha visto i cecchini governativi sparare sui manifestanti e ha organizzato ospedali di fortuna per i feriti che non potevano andare in quelli governativi per paura di essere arrestati. La sua attività non è piaciuta al regime e nel 2012 è dovuto scappare e cercare rifugio in Libano: ha attraversato il confine pensando di dover stare lontano da casa solo pochi mesi.

Oggi, adiacente al campo dove vive Abdo, sorge anche una scuola per bambini siriani, di cui è il preside. Il documentario Lost in Lebanon, di Sophia Scott e Georgia Scott, racconta il suo impegno per dare un’istruzione a una generazione di bambini che non ne riceve più, e che rischia di essere lasciata senza voce anche in futuro:

"A noi, vere vittime della guerra e veri amanti della Siria, l’unico diritto che viene lasciato è quello di scegliere come morire in silenzio. Ma noi, nel rumore assordante delle armi, rivendichiamo il diritto di far sentire la nostra voce, insieme a coloro che ci sostengono e a chi vorrà unirsi al nostro appello."

Sheik Abdo e gli altri profughi che collaborano con lui mettono in discussione la legittimazione dalla violenza:

"Nel nostro paese ci sono centinaia di gruppi militari che, con la sola legittimità data loro dall’uso della violenza e dal potere di uccidere, ci hanno cacciato dalle nostre case. Ancora oggi ci uccidono, ci costringono a combattere, a vivere nel terrore, a fuggire, umiliati e offesi. Ai tavoli delle trattative siedono solo coloro che hanno mire economiche e politiche sulla Siria."

Sheik Abdo sta viaggiando in Europa per diffondere la Proposta di pace per la Siria, e cercare sostegno a più livelli: politico, istituzionale, popolare, perché oggi “in Libano la situazione è insostenibile, ed è urgente che i profughi siriani abbiano un posto dove poter vivere in pace, senza rischiare la vita”.

Iniziative come quella di Sheik Abdo sono fondamentali, permettono di dare dignità e voce a più di 5,6 milioni di profughi siriani e a più di sei milioni di profughi interni in Siria che vivono oggi senza nessuna prospettiva.

Tratto dall'Internazionale, qui raggiungibile.

cronachediordinariorazzismo.org,

La situazione è sotto gli occhi di tutti da anni. Eppure la si nota sempre all’ultimo minuto, quando è già troppo tardi per organizzare una degna accoglienza. Oltre 50 baracche di legno e lamiera senza acqua corrente né energia elettrica e in pessime condizioni igienico-sanitarie. Insediamenti abusivi su terreni di proprietà privata. Non è una novità: è la puntuale “emergenza braccianti” che si ripropone ogni anno, nello stesso periodo, in una delle zone del Siracusano più esposta al fenomeno del caporalato. Dopo la scoperta da parte delle forze dell’ordine e il sopralluogo fatto anche con l’assessorato alle Politiche ambientali, la baraccopoli è rimasta ancora dov’era. E le soluzioni alternative tardano ad arrivare. Così, da molti anni quella resta l’unica soluzione abitativa possibile per i migranti stagionali, che portano avanti gran parte del sistema della raccolta agricola nei campi. E mentre fra Comune di Siracusa, prefettura, diverse forze dell’ordine, Azienda provinciale sanitaria, ispettorato del lavoro, si gioca a scaricabarile, la situazione resta immobile.

Qui di seguito il comunicato stampa della Rete Antirazzista Catanese.

Come ogni anno, da aprile a giugno, in occasione della raccolta delle patate, ai circa 5.000 residenti a Cassibile si aggiungono numerose centinaia di migranti, per lo più di origine marocchina e sudanese; questi giungono nella frazione siracusana, dopo aver terminato altre raccolte in Italia: una vera transumanza del lavoro migrante nelle campagne.

Anche quest’anno, come nelle 3 stagioni passate, la latitanza delle istituzioni locali è totale nell’approntare un minimo d’accoglienza per le centinaia di lavoratori stagionali che vengono super sfruttati dai caporali e dai proprietari terrieri, che evadono i contributi, ricorrendo alla manodopera in nero.
Quest’anno la produzione delle patate è notevolmente aumentata, come pure la presenza dei migranti, quasi raddoppiata rispetto agli ultimi anni. All’inizio di maggio sono aumentati i controlli delle forze dell’ordine, che hanno “scoperto” i casolari abbandonati (da quasi 10 anni!) di contrada Stradicò, che hanno portato all’identificazione ed alla denuncia di 79 migranti per “invasione di terreni”; come al solito lo stato riesce a dimostrare la sua forza solo con i deboli, peccato che sia quasi sempre debole con i forti.
La presenza stanziale di una comunità marocchina (circa 300) rende più semplice il “primo impatto” per chi proviene dal Maghreb. Per questi ultimi è infatti possibile affittare stanze nel centro abitato. Per gli altri (Sudanesi, Somali, Eritrei, Nigeriani) invece non esistono più neanche le tendopoli gestite negli anni scorsi dalla Protezione civile o dalle Misericordie, che accoglievano almeno 140/150 migranti. Così i migranti sono costretti a trovare rifugio- privi di acqua, luce e servizi igienici- nei casolari di campagna abbandonati e diroccati o in tende di fortuna.
La stragrande maggioranza dei migranti che arrivano a Cassibile è regolare con il permesso di soggiorno – rifugiati, richiedenti asilo, protezione umanitaria, in regola con il PDS, in attesa di rinnovo – ma, non essendo riconosciuto a loro il diritto di lavorare nel rispetto delle norme contrattuali, viene spinta verso il lavoro irregolare con il rischio di perdere il permesso di soggiorno, grazie a vergognose leggi razziali come la Bossi-Fini ed il “pacchetto sicurezza”.
Teoricamente l’assunzione di manodopera dovrebbe essere eseguita tramite gli uffici preposti, il salario orario netto dovrebbe essere di 6 euro e venti, sei ore e trenta minuti la giornata lavorativa, spese logistiche, di trasporto e materiale di lavoro (scarpe antinfortunistiche, guanti) a carico del datore di lavoro. Ma nella pratica il collocamento è sostanzialmente in mano ai “caporali” e ai subcaporali, in base alle varie etnie; costoro gestiscono anche i trasporti (da 3 a 5 euro il costo) e impongono salari differenziati: chi viene dal Maghreb percepisce 35 euro al giorno e gli altri 30 o ancora meno. Gli orari sono “flessibili”, se vuoi lavorare devi comunque essere in grado di riempire quotidianamente almeno 100 cassette, ognuna del peso di 20/22 chili .

Perché non si controllano a monte le aziende che beneficiano del “servizio” svolto per loro conto dai caporali? Perché ci si accanisce contro i migranti, criminalizzandoli, quando invece ci sono non poche ditte locali e non solo, che evadono i contributi ed ingrassano i caporali? Le istituzioni preposte sanno intervenire solo in senso repressivo contro i migranti?

Purtroppo oramai il senso delle parole è capovolto, si criminalizzano le vittime e non i carnefici e le forze apertamente razziste fanno il pieno di voti, la Solidarietà (vedi Ong delle navi umanitarie) viene considerata oramai un reato . Facciamo appello a tutto l’associazionismo antirazzista ed al sindacalismo conflittuale siracusano e regionale a non rimuovere questa drammatica realtà. E’ drammatico che ciò si ripeta in una terra dove proprio 50 anni fa ci furono eroiche lotte bracciantili ( che costarono la vita ad Angelo Sigona ed a Giuseppe Scibilia) che riuscirono a debellare a livello nazionale le piaghe delle gabbie salariali e del caporalato.

La storia siciliana ce l’ha insegnato Emigrare non è reato. Solidarietà con gli immigrati, Unità di tutti gli sfruttati!

Qui il link all'articolo in originale.

Avvenire,

Prosegue senza tregua l'occupazione della Palestina da parte di Israele Le armi che l'aggressore israeliano applica sono le più diverse: dalle armi di tutti i tipi, in cui si sperimentano sempre nuove tecnologia di ammazzamento su commessa del consorzio internazionale dei Mercanti di morte, fino alle infrastrutture e alle opere edilizia. L'Europa osserva, con soddisfatta compiacenza e gli Usa partecipano con entusiasmo. Le autorità che dovrebbero garantire la pace ne mondo volgono gli occhi altrove. (e.s.)
Avvenire, 24 maggio 2018
Israele. Piani per 2.500 nuove case in Cisgiordania»
di Luca Geronico

«L'annuncio del ministro della Difesa Lieberman: «Estenderemo le costruzioni in tutta la Giudea e Samaria». Il ministro Katz: in cima all'agenda il riconoscimento Usa dell'annessione del Golan»

Nuova stoccata, nel quotidiano duello verbale e legale tra Palestina e Israele. Con un twitter il super falco Avigdor Lieberman, titolare della Difesa ha annunciato che Israele rilancerà nuovi progetti edilizi in Cisgiordania. «La settimana prossima - ha scritto Lieberman - sottoporremo al Consiglio superiore per la progettazione nella Giudea-Samaria (Cisgiordania) piani per la costruzione di 2.500 alloggi, 1.400 dei quali da realizzare subito». Inoltre, ha aggiunto il ministro della Difesa israeliano, «estenderemo le costruzioni in tutta la Giudea-Samaria da Nord a Sud, in insediamenti piccoli e grandi».

E ora, dopo il riconoscimento di Gerusalemme capitale unica di Israele da parte della Casa Bianca, ora Israele punta anche sulle alture del Golan. Il ministro israeliano dell'Intelligence, Yisrael Katz, ha infatti dichiarato che nei colloqui bilaterali con Washington è ora "in cima all'agenda" il riconoscimento da parte degli Stati Uniti dell'annessione unilaterale delle alture del Golan, contese con la Siria, da parte dello Stato ebraico."Questo è il momento perfetto per fare una tale mossa", ha detto il ministro.

Un passo giustificato per contrastare Teheran: "La risposta più dolorosa che si può dare agli iraniani è riconoscere la sovranità sul Golan di Israele". "Penso che ci sia una grande maturità e un'alta probabilità che questo accada", ha aggiunto il ministro, secondo cui il riconoscimento potrebbe avvenire "entro qualche mese". La Casa Bianca non ha per ora commentato le osservazioni di Katz.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Avvenire, 22 maggio 2019.

Sono pazzi gli uomini che abbiamo scelto per governarci. Lo diciamo per molte ragioni, tanto ovvie e ripetute che ci stufa doverle sempre ripetere: La pace, il lavoro, la possibilità di impirgre le risorse nell'interesse di un miglioramento delle condizioni materiali e immateriali dell'umanità tutta, la riduzione - fino all'annullamento - della distanza tra ricchi e poveri.
E invece no. L'impiego delle risorse è destinato ad altri scopi: a far diventare più ricchi e potenti quelli che già lo sono, nel modo più facile e rapido possibile. L'impiego delle risorse negli armamenti è un ottimo investimento, e per aumentare la domanda basta produrre più guerra, più morte. Ripetiamo queste cose per l'ennesima volta perchè oggi possiamo aggiungere una ulteriore perla alla frottole dei guerrafondai. Oggi apprendiamo, dall'articolo di Raul Caruso, che le spese per la guerra sono utili perché consentono di migliorare tecnologie che potrebbero essere utilizzate anche per opere civili. Insomma, produciamo morti ammazzati per rendere più fertile il terreno i cui frutti serviranno ai nostri posteri per nutrirsi! (e.s.)
22 maggio 2018Investimenti militari e pacedi Raul Caruso
«I costi del riarmo: più insicurezza e ritardi nell'innovazione. L'Unione Europea si trova a un bivio»
Il riarmo a livello mondiale non sembra arrestarsi. Secondo gli ultimi dati del Sipri la spesa militare mondiale nel 2017 è stata pari a 1.739 miliardi di dollari, dato in crescita rispetto al 2016. La maggioranza dei Paesi sta aumentando i propri arsenali e la produzione della 'Pace' sembra divenire sempre più difficile. I costi legati all’espansione della spesa militare sono diversi e sostanziali. Al fine di avere un’idea più compiuta del nocumento e dei rischi legati al riarmo in corso in particolare per un Paese come l’Italia, dobbiamo in primo luogo interpretare il termine 'costo' in un’accezione ampia andando a indicare non solamente un esborso monetario ma più propriamente un 'disagio' o una 'privazione'. In sintesi, tre sono i costi da evidenziare, vale a dire un minore sviluppo economico, un indebolimento della democrazia e una maggiore insicurezza. Le spese militari, in quanto intrinsecamente improduttive, costituiscono un peso per lo sviluppo economico.

Una delle argomentazioni più utilizzate per giustificare un crescente impegno militare è quella che fa leva sullo spillover tecnologico che deriverebbe dagli avanzamenti della tecnologia militare. In altre parole, secondo molti le attività di ricerca e sviluppo in ambito militare potrebbero generare innovazioni poi riutilizzabili in ambito civile. Questo convincimento è tuttavia sbagliato per una serie di ragioni. In primo luogo – in particolare per Paesi piccoli come l’Italia – il capitale umano impiegato nella ricerca militare è sottratto a quella in ambito civile. Tale distorsione nell’allocazione del capitale umano ha conseguenze spiazzanti sulla ricerca civile, dal momento che la disponibilità di risorse umane qualificate è limitata. In ogni caso, la più importante criticità della ricerca militare è la segretezza. Poiché i prodotti della ricerca in questo ambito dovrebbero essere destinati a realizzare un vantaggio concreto nei confronti di nemici, tradizionalmente i ricercatori e gli inventori che vi sono impegnati sono tenuti a rispettare vincoli di segretezza, che da un lato generano un ritardo nell’innovazione e dall’altro rendono impossibile sfruttarne i ritorni in ambito commerciale. Se quindi le innovazioni sviluppate nell’industria militare tendono a essere introdotte con ritardo, gli eventuali benefici per l’economia civile tendono conseguentemente a essere limitati.

Costo ancor più rilevante è quello legato all’indebolimento della democrazia. Alcuni avanzamenti tecnologici, tra cui i droni armati e i dispositivi d’arma autonomi (come i Killer Robot), infatti, destinati a cambiare la condotta della guerra, vengono solitamente indicati nel discorso pubblico come strumenti che aumentano i livelli di efficienza bellica, ma in realtà incidono sulla legittimità, la qualità e la solidità della democrazia stessa. Questo è particolarmente vero nel caso dei killer robot. Uno dei principi alla base delle società democratiche, infatti, è quello della responsabilità. Nelle democrazie i cittadini dovrebbero essere messi in condizione di identificare e valutare i responsabili delle azioni del loro governo, in particolare di fronte a scelte tragiche quali ad esempio quelle in merito alla partecipazione e alla condotta da tenere in guerra. Nel momento in cui una 'macchina intelligente' operi in maniera autonoma e brutale, potrebbe infatti innescarsi un meccanismo di negazione della responsabilità a causa del quale nessun soggetto vorrà essere chiamato in causa per risultati indesiderati. In parole più semplici: nel momento in cui un robot dovesse rendersi protagonista di stragi o uccisioni indiscriminate sorgerebbe un problema di attribuzione di responsabilità. Almeno tre soggetti potrebbero essere additati come responsabili: i programmatori e coloro che hanno sviluppato gli algoritmi di azione dei robot; il comando militare che ha decretato l’impiego delle macchine; i decisori politici che hanno deciso in favore dell’impegno bellico e della sua intensità. È chiaro che l’incertezza e la confusione nell’attribuzione di responsabilità sono sicuramente una buona notizia per i leader politici ma una pessima notizia per la democrazia.

Nella storia sappiamo, infatti, che non è infrequente che leader politici tendano a sminuire il proprio ruolo laddove le azioni di guerra siano state caratterizzate da gravi abusi e da violazioni dei diritti umani. Il caso delle torture di Abu Grahib in questo senso è emblematico: l’amministrazione Bush respinse una responsabilità diretta parlando di 'mele marce' e trasferendo in tal modo la responsabilità sui singoli soldati coinvolti. Tali meccanismi di negazione di responsabilità (il blame shifting)rappresentano un costo elevato per le democrazie e per la pace, in virtù del fatto che se i capi non sono chiamati a rispondere delle proprie azioni la prudenza dei leader democratici rispetto alla partecipazione ad azioni belliche tende ad attenuarsi diminuendo la probabilità di mantenimento della pace. In assenza di chiare responsabilità le guerre potrebbero dunque essere più frequenti e più sanguinose.

Ultimo tra i costi del riarmo, ma chiaramente non in termini di importanza, è l’aumento del livello di insicurezza. In linea generale, a dispetto del senso comune, la sicurezza di un Paese decresce al moltiplicarsi delle armi disponibili. L’aumento delle spese militari è infatti percepito come una 'minaccia' dagli altri Paesi che, di conseguenza, alzeranno a loro volta le proprie spese militari, con un effetto negativo sulla pace. Questa dinamica nelle rivalità più accese prende il nome di 'corsa agli armamenti' che è caratterizzata da instabilità. Paradossalmente, la mancata guerra tra Stati Uniti e Unione Sovietica a colpi di bombe atomiche ha convinto molti che la deterrenza sia una condizione intrinsecamente stabile e che una politica in questa direzione sia pertanto auspicabile. Anche questa tuttavia è una convinzione sbagliata ma sovente utilizzata per giustificare i processi di riarmo. Una delle condizioni essenziali della stabilità della Guerra Fredda, infatti, era la sua natura diadica. La presenza di soli due attori favoriva la stabilità al verificarsi di alcune specifiche condizioni. In presenza di una molteplicità di soggetti coinvolti, l’analisi e la gestione della deterrenza diviene più complessa e le condizioni che lasciavano pensare a un’intrinseca stabilità di tali scenari tendono a scomparire.

Per questi motivi è necessario provare a invertire la rotta e impegnarsi per il disarmo. L’Unione Europea in particolare si trova di fronte a un bivio. Da un lato i Paesi mantengono un proprio modello di difesa basato sull’esistenza di 'campioni nazionali' di proprietà pubblica (come nel caso di Leonardo ex Finmeccanica) in ambito industriale e dall’altro si dicono disponibili alla costruzione di una difesa comune. Questo scenario purtroppo presenta diverse problematiche. In primo luogo, la quotazione in Borsa dei gruppi industriali di proprietà pubblica spinge gli amministratori a muoversi finanche al di fuori del perimetro degli accordi internazionali sottoscritti e ratificati dai loro principali azionisti come ad esempio l’Att, il Trattato sul commercio delle armi, ratificato da tutti i Paesi Ue ma disatteso nei fatti. In secondo luogo tali gruppi al fine di generare i maggiori rendimenti possibili oltre ad aumentare l’offerta e la varietà di armamenti competono tra loro rischiando di minare anche le tradizionali alleanze politiche.

È necessario, quindi, rivedere la natura di aziende orientate al profitto dei gruppi industriali militari ma anche creare un’agenzia indipendente europea per il controllo del commercio internazionale di armamenti che abbia i poteri adeguati per limitare le esportazioni in linea con i trattati internazionali ratificati dai parlamenti. Questo è tanto più urgente se consideriamo il processo di creazione di una Difesa comune appena iniziato con la Pesco e con l’istituzione del fondo europeo per la Difesa. In questa fase iniziale sembra che i nuovi accordi europei non limiteranno gli impegni di spesa nazionali ma piuttosto si affiancheranno ad essi andando infine ad aumentare la spesa militare aggregata. Come detto, questo costituisce una fonte di declino economico e di svuotamento di significato delle democrazie con conseguenti ricadute sui livelli di sicurezza e Pace. Speriamo che le classi dirigenti abbiano la visione e la forza per invertire questa tendenza abbandonando i falsi convincimenti che le danno forma.

L’autore dell’articolo di questa pagina, Raul Caruso, ha appena pubblicato per Egea Chiamata alle armi, libro sui costi della spesa militare.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

i

l manifesto, 22 maggio 2018. Prosegue la trasformazione dell'Europa in una fortezza. Rinunciando sempre di più al suo ruolo storico l'U-E rafforza la barriera che esclude gli altri popoli e le altre culture. Con commento (e.s.)

Sempre più stretto il cappio all collo di quel subcontinente, geograficamente racchiuso tra gli Urali e gli oceani del nord-ovest, ma legato al mondo mediorientale, arabo e africano dal Mediterraneo, culla e cerniera di molte civiltà. Sempre più la migrazioni non sono vissute come occasioni per l'incontro e lo scmbio fruttuoso di culture, come strumenti benefici per produrre meticciato e multiculturalità, ma come rischio da evitare impiegando ogni strumento e a ogni ideologia, da quelle del razzismo a quelle dell'affarismo dei commercianti e costruttori di barriere antiuomo. Ne parla un articolo redazionale ripreso da il manifesto, che a nostra volta riprendiamo (e.s.)

il manifesto, 22 maggio 2018
Migranti, una nuova barriera al confine
tra Montenegro e Albania
La paura dei migranti rischia di far sorgere l’ennesimo muro in Europa. Dopo le barriere fatte costruire nel 2015 dal premier ungherese Viktor Orban al confine con la Serbia, ieri è stato il Montenegro ad annunciare l’intenzione di innalzare una recinzione lungo la frontiera con l’Albania per impedire nuovi arrivi di uomini, donne e bambini nel suo territorio.

Per ora si tratta solo di un’ipotesi alla quale starebbero pensando le autorità d Podgorica, come ha spiegato il capo del Dipartimento per la sorveglianza dei confini, Vojislav Draganovic, resa necessaria dal fatto che «la polizia frontaliera ha difficoltà nel riportare i migranti indietro sul territorio albanese».

E’ dall’inizio dell’anno che sono ripresi i flussi di migranti che cercano di raggiungere il nord Europa. Migliaia di persone che viaggiano sul nuovo percorso che si è aperto di recente dopo la chiusura delle vecchia rotta balcanica, avvenuta due anni fa in seguito all’accordo siglato dall’Unione europea con la Turchia. Il nuovo percorso attraversa prima l’Albania e poi il Montenegro prima di arrivare in Bosnia e da lì proseguire in Croazia.

Nei giorni scorsi Sarajevo ha reso nota l’intenzione di voler presentare due note di protesta contro Montenegro e Serbia, Paesi accusati entrambi di non impegnarsi a sufficienza nel fermare i migranti provenienti dalla Grecia.
Se verrà realizzata, la nuova barriera riguarderà solo determinate aree del Paese e consisterà in un recinto in filo spinato steso lungo il confine. Tra Montenegro e Albania esiste un accordo sui rimpatri.

Dal 2015 a oggi, da quando è cominciata la crisi dei migranti, sempre più Paesi hanno deciso di innalzare barriere. Subito dopo l’Ungheria è stata la Macedonia ad avviare nel novembre del 2015 la costruzione di una barriera lunga 1,5 chilometri al confine con la Grecia e precisamente vicino al campo di Idomeni, dove si trovavano accampati migliaia di migranti. Una barriera di 30 chilometri esiste anche lungo il confine tra Bulgaria e Turchia, mentre in soli tre mesi, nel 2016, la Gran Bretagna ha finanziato e realizzato la costruzione del «muro di Calais» per impedire ai migranti che si trovano nella località francese di attraversare la Manica.

Da ricordare, infine, le continue minacce dell’Austria di innalzare una barriera al confine con il Brennero.

Avvenire, 20 maggio 2018. Prosegue implacabile l'azione dei "governi canaglia" di tutto il mondo per fermare l'inarrestabile esodo dalle regioni che i padroni del mondo capitalista hanno sfruttato, saccheggiato e reso invivibili (e.s.)

Ci domandiamo se i nostri connazionale si rendano conto che dietro le parole con cui i media gettano benzina sui fuocherelli del loro vizi atavici della xenofobia e del razzismo, e dietro si nasconde un gigantesco giro d'affari, che distrae a vantaggio dei Mercanti di morte risorse impiegabili per opere e interventi di generale utilità civile. Il rapporto dicui riferisce Nello Sclavo, che pubblichiamo qui di seguito racconta cose che sarebbe bene tutti conoscessero (e.s.)

e, 20 maggio 2018
Rapporto choc. "Fermate i profughi" (con l'uso della forza)
di Nello Sclavo


«Rapporto choc: dall’Italia all’Ungheria accordi coi despoti per frenare i flussi»

«Poliziotti che premono il grilletto contro i migranti in Belgio. Gendarmi francesi che non si curano di profughe incinte, fino a provocarne la morte. Governi che in Ungheria issano barriere elettrificate. Paramilitari della Bulgaria che danno la caccia ai siriani in fuga. Servizi segreti impiegati nelle indagini sui soccorritori nel Mediterraneo, nella nostra Italia».

Niente di strano che un’Europa così si sia messa in affari con 35 tra i più controversi governi del mondo, pur di sigillare i confini e tenere alla larga gli ultimi. Lo sostiene il rapporto “Expanding the Fortress – Ampliando la Fortezza”, diffuso dall’istituto transnazionale 'Stop Wapenhandel' (Campagna olandese contro il commercio di armi) e rilanciato dalla Rete Italiana per il Disarmo. «La collaborazione dell’Ue con i Paesi limitrofi per il controllo delle migrazioni ha rafforzato i regimi autoritari, fornito profitti alle imprese della sicurezza e ai produttori di armamenti, distolto risorse dallo sviluppo e indebolito i diritti umani», si legge nel dossier. I ricercatori hanno esaminato il frequente ricorso a intese per l’esternalizzazione delle frontiere.

Esemplare il caso della Turchia del presidente Erdogan, regolarmente criticato da Bruxelles per le ripetute violazioni delle libertà fondamentali, ma a cui sono stati versati 6 miliardi di euro pur di trattenere in Anatolia il più alto numero possibile di profughi siriani. Le misure adottate dall’Ue includono la formazione delle forze di sicurezza di Paesi terzi; donazioni di elicotteri, navi per pattugliamento e veicoli; cessioni di apparecchiature di sorveglianza e monitoraggio; sviluppo di sistemi di controllo biometrico; accordi per i respingimenti. Nella lista, oltre alla Turchia, vi sono Libia, Egitto, Sudan, Niger, Mauritania e Mali. In tutti questi Paesi, «gli accordi hanno portato l’Ue – insistono i ricercatori – a trascurare o attenuare le critiche sulle violazioni dei diritti umani». In Egitto, per fare un esempio, è stata intensificata la cooperazione per il controllo delle frontiere con il supporto del governo tedesco, «malgrado il consolidamento del potere militare al Cairo».

In Sudan, il sostegno per la sicurezza delle frontiere da parte dell’Ue ha permesso al presidente Omar al-Bashir (destinatario di un mandato di cattura della Corte penale internazionale dell’Aja) di rompere l’isolamento internazionale, «consentendo di rafforzare le Forze di supporto rapido, formate da combattenti della milizia Janjaweed», responsabili di crudeli crimini contro i civili nella regione del Darfur. Il dossier esamina da vicino tutti i 35 Paesi a cui l’Ue attribuisce priorità negli sforzi di esternalizzazione delle frontiere. Il 48% (17) ha un governo autoritario e solo quattro possono essere considerati Stati democratici. Il 100% (35) pone rischi estremi o elevati per il rispetto dei diritti umani. Il 51% (18) è classificato come 'basso' negli indici dello sviluppo umano.

In Niger, una delle nazioni più povere al mondo, le intese procedono verso una progressiva militarizzazione, aumentando i rischi per i migranti e accrescendo il potere di bande armate e trafficanti. Allo stesso modo in Mali, Paese che sta riprendendosi dopo la guerra civile, gli 'aiuti' militari dall’Europa per trattenere i migranti minacciano di risvegliare quel conflitto. «L’Unione Europea – sostengono gli autori dello studio – ha voltato le spalle ad un impegno incondizionato per i diritti umani, la democrazia, la libertà e la dignità umana espandendo negli ultimi anni in maniera problematica le proprie politiche di esternalizzazione delle frontiere». Dalle cronache degli ultimi giorni, purtroppo, non arrivano smentite.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile



Come in Italia per sconfiggere la barbarie nazifascista, così nelle terre palestinesi l'estrema risorsa degli oppressi - se i loro difensori patentati, locali e internazionali - non sono capaci di far riconoscere i loro diritti - è la cocciuta resistenza. Il fatto che essa si svolga oggi da parte di un popolo che lotta a mani nude contro uno dei più agguerritii eserciti del mondo dovrebbe costituire un ulteriore elemento per suscitare la solidarietà internazionale. Segue l'intervista (e.s.)

Richard Falk:«un massacro per dire ai palestinesi:la vostra è una resistenza impossibile»
intervista di Ciara Cruciati
«Intervista al giurista ed ex relatore speciale delle Nazioni unite: "Tel Aviv vuole convincere il mondo che non esista una soluzione. Ma i popoli ora sanno che la resistenza popolare può supplire all’inferiorità militare: dalla loro parte hanno la superiorità morale e un fine più alto, l’autodeterminazione"»

La brutalità della risposta israeliana alla Marcia del Ritorno palestinese di Gaza ha generato uno sdegno che non si vedeva da tempo. Centinaia di manifestazioni in tutto il mondo e inusuali condanne da parte di molti governi. La Lega Araba si è risvegliata dal torpore e chiesto un’indagine internazionale; il Consiglio per i diritti umani dell’Onu ha votato per il lancio di un’inchiesta.

Ne abbiamo discusso con Richard Falk, professore emerito di diritto internazionale alla Princeton University e dal 2008 al 2014 relatore speciale per le Nazioni unite sulla questione palestinese.

In un suo articolo, scritto dopo la strage di Gaza di lunedì scorso, parla di un «nuovo livello di degradazione morale, politica e legale» israeliana. Un “salto di qualità” nell’uso della forza?

«Siamo di fronte a un nuovo livello di quella che chiamo alienazione morale, visibile nella normalizzazione dell’uccisione a sangue freddo di manifestanti disarmati, senza nemmeno tentare di usare metodi alternativi per la messa in sicurezza dei confini. Quello di Gaza ha i contorni di un massacro calcolato, confermato dalle dichiarazioni della leadership israeliana. Parte dello sviluppo di questa alienazione morale è la luce verde data dalla presidenza Trump: qualsiasi cosa Israele voglia fare, può farlo. Sono due le dimensioni del massacro: la motivazione interna israeliana nell’affrontare la questione palestinese e la tolleranza esterna».

Dice massacro calcolato: qual è l’obiettivo politico?
«Le ragioni ufficiali, Hamas e la sicurezza dei confini, non sono quelle reali. Quello che Israele vuol fare è convincere i palestinesi di essere impegnati in una resistenza impossibile. E mandare un messaggio all’Iran e agli altri avversari nella regione: Israele non ha limiti nell’uso della forza, questa sarà la reazione verso chiunque».

La legalità internazionale esiste ancora?
Le regole ci sono, quel che manca è la volontà politica di applicarle. Oggi prevalgono i fattori geopolitici. La questione palestinese è l’esempio più ovvio di questo «veto geopolitico», che annulla qualsiasi sforzo di far rispettare la legalità internazionale e di prendere misure nel caso di violazioni. A ciò si aggiunge un altro elemento: Israele sta provando a far passare l’idea che i palestinesi hanno perso la battaglia della soluzione politica e che dunque non c’è ragione di usare strumenti politici per proteggerli dalle politiche israeliane. Israele vuole convincere il mondo che questo tipo di lotta non abbia più significato e valore. La conseguenza è visibile: il veto geopolitico protegge Israele e lega le mani all’Onu, incapace di offrire protezione. Così si indebolisce l’intero sistema.

È dunque esercizio futile pensare a procedimenti legali per i crimini commessi da Israele?

«Il diritto penale internazionale è sempre stato un sistema imperfetto perché non si applica agli Stati che godono di un certo livello di impunità. Dopo la seconda guerra mondiale, i tribunali di Norimberga e Tokyo giudicarono solo i crimini commessi dagli sconfitti, non quelli commessi dai vincitori, penso alle atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Quei crimini non furono perseguiti, ma «legalizzati»: l’atomica si è tradotta nella proliferazione di armi nucleari. La struttura del diritto penale internazionale si basa su un doppio standard che si esprime sul piano istituzionale nel potere di veto riconosciuto ai vincitori della guerra, veto che li esenta dall’obbligo di rispondere delle proprie azioni e che si estende ai paesi amici.

«Possiamo chiederci da cosa derivi l’impunità israeliana attuale: da una parte dai paesi arabi preoccupati da quella che percepiscono come la minaccia iraniana e che li spinge a normalizzare i rapporti con Israele; dall’altra dall’amministrazione Usa che sta ringraziando i sostenitori interni della campagna di Trump. Su questi altari si sacrifica la visione degli ebrei liberali che vogliono una soluzione politica».

Lei ha spesso parlato di regime di apartheid, nei Territori Occupati ma anche dentro Israele. Un sistema unico: il palestinese è discriminato ovunque si trovi (che risieda nei Territori o sia cittadino israeliano), l’israeliano gode di privilegi ovunque esso viva, a Tel Aviv come in una colonia.
«Il cuore del conflitto non è la terra, ma i popoli. L’intera idea di uno Stato ebraico implica lo svuotamento della Palestina storica dai non ebrei. Ma a differenza del Sudafrica, Israele intende anche porsi come democrazia. L’apartheid israeliana, dunque, non passa per la negazione della cittadinanza ai palestinesi che vivono nel territorio dello Stato, ma in una serie di leggi che distinguono tra chi è ebreo e chi non lo è, dal diritto al ritorno fino alla proprietà della terra. A ciò si aggiunge l’elemento della frammentazione del popolo palestinese: l’apartheid passa per la divisione dei palestinesi in territori separati e dunque in diversi status giuridici».

Vede all’orizzonte un cambiamento positivo?

«L’ultimo secolo ha dimostrato che l’impossibile a volte è possibile. Penso alla fine dell’apartheid in Sudafrica o più recentemente alle primavere arabe. Lì a prevalere non sono state le parti più forti ma quelle deboli. Dopo l’epoca coloniale una delle trasformazioni a cui abbiamo assistito è la ridefinizione dei rapporti di forza: non sempre la forza militare vince su quella politica. Pensate al Vietnam. I popoli hanno imparato che la resistenza popolare può supplire all’inferiorità militare perché dalla loro parte hanno la superiorità morale e la capacità di elaborare le perdite per un fine più alto, l’autodeterminazione».

i

La politica aggressiva di Israele nei confronti degli abitanti della Palestina non trova sosta, e prosegue con l’assassinio e il ferimento di persone di ogni condizione e ogni età che sti battono a mani nude per difendere il loro diritto a vivere sulla terra in cui sono nati. Non è una politica iniziata oggi. Ha scritto lo storico israeliano Gideon Levy: «Dopo la dichiarazione Balfour, molti ebrei emigrarono
.in Palestina. Al loro arrivo
si comportarono come padroni e il loro atteggiamento nei confronti degli abitanti non ebrei non è cambiato»A chi si presentava e comportava come aggressore i palestinesi risposero impiegarono anchessi la violena. Divampà una guerra che ancora provocamorti e feriti. Le due parti del conflitto non possono essere messe sullo stesso piano. Chi impiega missili, carri armati e fucili di precisione contro un popolo armato di fionde e sassi si rivela come un assassino, e rischia di essere collocato sullo stesso piano di chi lo aggredì nella Shoa. Sembrano considerazioni che dovrebbero essere condivisi da tutti. Ma non è così. La catastrofr continua, i palestinesi che protestano a mani nude per ottenere i propri elementari diritti vengono sterminati dai missili, o dai fucili di precisione dell’armata di Israele.

A seguire un articolo di Tommaso Di Francesco, ela denuncia di un gruppo di intellettuali israeliani con il loro appello perché l’inumana tragedia abbia fine, entrambi ripresi da il manifesto del 18 maggio 2018 (e.s.)

Nakba. La catastrofe infinita
di Tommaso Di Francesco

I settant’anni dello Stato d’Israele sono anche i settant’anni della Nakba, la «Catastrofe» del popolo palestinese, la cacciata nel 1948 di centinaia di migliaia di palestinesi (da 700mila a un milione) in una operazione di preordinata pulizia etnica che li ha trasformati nel popolo profugho dei campi. A confermare laa doppiezza strabica degli eventi nel rapporto di causa ed effetto, è arrivato lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, la festa della «grande riunificazione» di Netanyahu; proprio mentre la promessa elettorale mantenuta di Trump provocava la rivolta e la strage di 60 giovani nel tiro al piccione a Gaza. Secondo i versi del poeta palestinese Mahmud Darwish: «Prigionieri di questo tempo indolente!/ non trovammo ultimo sembiante, altro che il nostro sangue».

Invece sulla descrizione in atto del massacro si esercitano gli «stregoni della notizia»: così abbiamo letto di «ordini dalle moschee di andare correndo contro i proiettili», di «scontri», di «battaglia» e «guerriglia». Avremmo dunque dovuto vedere cecchini, carri armati e cacciabombardieri palestinesi fronteggiare cecchini, tank e jet israeliani, con assalti di uomini armati. Niente di tutto questo è avvenuto e avviene. Invece, nella più completa impunità, la prepotenza dell’esercito israeliano sta schiacciando una protesta armata di sassi, fionde e copertoni incendiati. Per Netanyahu poi si tratterebbe di «azioni terroristiche».

Ma la verità è che un popolo oppresso che manifesta contro un’occupazione militare ricorda solo la nostra Liberazione e il diritto dei palestinesi sancito da ben tre risoluzioni dell’Onu (una del 1948 proprio sul «diritto al ritorno»). Sì, la festa triste di un popolo, guidato da Netanyahu e dal nuovo «re d’Israele» Trump, vive della catastrofe di un altro popolo. Che si allunga all’infinito con la proclamazione di Gerusalemme «unica e storica capitale indivisibile di Israele». Altro che due Stati per due popoli: nemmeno due capitali. Intanto per lo Stato d’Israele il «diritto al ritorno» è costitutivo della natura esclusiva di Stato ebraico.

Ai palestinesi al contrario è permesso solo di vivere a milioni nei campi profughi di un Medio Oriente stravolto dalle guerre occidentali e come migranti nei propri territori occupati (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est); di sopravvivere alla fame nel ghetto della Striscia di Gaza. Questa è la condizione palestinese, con il muro di Sharon che ruba terre alla Palestina e taglia in due famiglie e comunità; posti di blocco che sospendono nell’attesa le vite umane; lo sradicamento di colture agricole e le fonti d’acqua sequestrate; le uccisioni quotidiane; e una miriade di insediamenti colonici ebraici che hanno ormai cancellato la continuità territoriale dello Stato di Palestina. Dopo tante chiacchiere di Obama che nel 2009 dal Cairo dichiarava: «Sento il dolore dei palestinesi senza terra e senza Stato». E dopo i voltafaccia dell’Ue che si barcamena sull’equidistanza impossibile e tace, mentre ogni governo occidentale fa affari in armi e tecnologia, e con patti militari – come l’Italia – con Israele, che è da settant’anni in guerra e che occupa terre di un altro popolo.

Allora o si rompe il silenzio complice e si prefigura una soluzione di pace che esca dall’ambiguità di stare al di sopra delle parti – come se Israele e Palestina avessero la stessa forza e rappresentatività, quando invece da una parte c’è lo Stato d’Israele, potente e armato fino ai denti, potenza nucleare e con l’esercito tra i più forti al mondo, mentre dall’altra lo Stato palestinese semplicemente non esiste – oppure sarà troppo tardi. Il nodo mai sciolto – Rabin a parte, non a caso assassinato da un integralista ebreo – da tutti i governi israeliani resta quello del diritto dei palestinesi di avere una terra e uno Stato, fermo restando il diritto eguale d’Israele. Che se però non lo riconosce per la Palestina perché dovrebbe pretenderlo per sé? I due termini ormai si sostengono a vicenda oppure insieme si cancellano. Tanto più che la demografia ormai racconta che le popolazioni arabe hanno oltrepassato la misura di quelle ebraiche. O si avvia una trasformazione democratica dello Stato d’Israele che decide di perdere la sua natura etnico-religiosa di «Stato ebraico», con la pretesa arrogante che i palestinesi occupati lo riconoscano come tale; oppure si conferma la dimensione acclarata di Stato di apartheid come in Sudafrica; con i territori occupati come riserve per i «nativi» nemici.

Scriveva Franco Lattes Fortini nella sua Lettera aperta agli ebrei italiani nel maggio 1989, nella la fase più acuta della Prima intifada: «Con ogni casa che gli israeliani distruggono, con ogni vita che quotidianamente uccidono e perfino con ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e di sapienza che, nella e per la cultura occidentale, è stato accumulato dalle generazioni della diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea e cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere». Provate a rileggere la grande lezione morale di S. Yizhar (Yzhar Smilansky), il fondatore della letteratura israeliana, che in un piccolo romanzo del 1949 Khirbet Khiza – significativamente un titolo in arabo, conosciuto da noi come La rabbia del vento, che aprì un dibattito sulle basi etiche del nuovo Stato – racconta la storia di una brigata dell’esercito israeliano impegnata con la violenza a cacciare famiglie palestinesi.

Il romanzo finisce con queste parole di dolore e rammarico: «I campi saranno seminati e mietuti e verranno compiute grandi opere. Evviva la città ebraica di Khiza! Chi penserà mai che prima qui ci fosse una certa Khirbet Khiza la cui popolazione era stata cacciata e di cui noi ci eravamo impadroniti? Eravamo venuti, avevamo sparato, bruciato, fatto esplodere, bandito ed esiliato (…) Finché le lacrime di un bambino che camminava con la madre non avessero brillato, e lei non avesse trattenuto un tacito pianto di rabbia, io non avrei potuto rassegnarmi. E quel bambino andava in esilio portando con sé il ruggito di un torto ricevuto, ed era impossibile che non ci fosse al mondo nessuno disposto a raccogliere un urlo talmente grande. Allora dissi: non abbiamo alcun diritto a mandarli via da qui!».

«I responsabili della strage di Gaza siano processati»

La forte denuncia e l’accorato appello di 9 intellettuali israeliani

Noi, israeliani che desideriamo che il nostro paese sia sicuro e giusto, siamo sconvolti e inorriditi dall’uccisione di massa di manifestanti palestinesi disarmati a Gaza. Nessuno dei manifestanti rappresentava un pericolo diretto allo Stato di Israele o ai suoi cittadini. L’uccisione di oltre 50 manifestanti e il ferimento di migliaia ricordano il massacro di Sharpeville nel 1960 in Sudafrica. Il mondo allora agì.Facciamo appello ai membri rispettabili della comunità internazionale perché chiedano che chi ha ordinato tale massacro sia indagato e processato. Gli attuali leader del governo israeliano sono responsabili della politica criminale di fuoco sparato su manifestanti disarmati. Il mondo deve intervenire per fermare le attuali uccisioni.

1. Avraham Burg, ex presidente della Knesset e dell’Agenzia ebraica

2. Prof. Nurit Peled Elhanan, vincitrice del premio Sakharov 2001

3. Prof. David Harel, vice presidente dell’Accademia israeliana per le scienze umane e premio Israel 2014

4. Prof. Yehoshua Kolodny, vincitore del premio Israel 2010

5. Alex Levac, fotografo e vincitore del premio Israel 2005

6. Prof. Judd Ne’eman, regista e vincitore del premio Israel 2009

7. Prof. Zeev Sternhell, storico e vincitore del premio Israel 2008

8. Prof. David Shulman, vincitore del premio Israel 2016

9. David Tartakover, artista e vincitore del premio Israel 2002

Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2018. Amaro resoconto dal luogo dove era nata la speranza di una Europa dei popoli e delle civiltà, assassinata dall'inettitudine della politica e dei politici dell'Unione europea, serva del capitalismo finanziario

«La resa - Non è rimasto nulla di quella spinta che voleva ribaltare le politiche di austerità dell’Ue, tra privatizzazioni, tagli al welfare e una nuova crisi migratoria in preparazione causata dalla Turchia di Erdogan»

All’ingresso di Lepanto (l’odierna Nàfpaktos), lo scheletro semivuoto di un grande China Mall: forse i cinesi non hanno sfondato? Ma no, i cinesi in Grecia hanno da tempo varcato le Termopili, conquistando tramite la Cosco buona parte del porto del Pireo, e investendo ovunque ingenti capitali che hanno aperto loro le stanze della politica; ormai, nel quartiere dell’omonima strada di Atene (odòs Thermopilòn), gestiscono decine di negozi all’ingrosso, fiancheggiati da ombrosi locali dalle insegne equivoche, assediati da un odore di piscio degno delle più sordide metropoli mediorientali.

Nel centro di Atene, a pochi isolati dal Museo Archeologico, è quella una zona franca piena di stranieri poveri e di edifici in rovina: tutto a due passi dalla sede di Syriza, il partito del premier Alexis Tsipras, e dagli headquarter delle Ferrovie greche e dell’Ente per l’elettricità, vittime sacrificali dell’ultima ondata di privatizzazioni. Se a qualcuno interessasse creare una coscienza europea, le gite scolastiche che sciamano a pochi metri da qui, dopo aver delibato i marmi dell’Ellade, dovrebbero venire a vedere cos’è diventato in pochi anni il cuore di una capitale, cercando il demo di Colono (dove finiva Edipo nell’omonima tragedia) tra i copertoni e gli sfasciumi di odòs Lenormant, o il demo di Acarne (reso celebre dagli Acarnesi di Aristofane) nel caos variopinto e sulfureo di odòs Acharnòn. Al numero 78 di questa via, dovrebbero visitare il City Plaza Hotel, esempio di solidarietà autogestita e abusiva che ha rifunzionalizzato un albergo in disuso come rifugio organizzato di migranti, con tanto di pasti, assistenza medica e corsi di lingua.

“Ogni giorno potrebbe essere l’ultimo”, mi dice in un greco perfetto e senza un sorriso Nasim Lomani, l’afghano dell’associazione che aiuta il City Plaza. Nonostante sia concreta l’eventualità di uno sgombero della polizia, qui si va avanti come se non dovesse fermarsi mai il viavai di Nigeriani, Pakistani, Irakeni, Somali, Siriani; come se questo esperimento, che da due anni dà un tetto a 100 famiglie (tempo medio di permanenza 6 mesi, poi i più tentano la sorte per vie oscure), avesse il dovere morale di tener viva un’idea di accoglienza diversa da quella – sposata da Tsipras e dall’Ue tutta – dei campi di detenzione di Lesbo o di Salonicco, dove sono trattenuti in 14.000 (contro i 6.000 dell’anno scorso) e il ritmo dell’esame delle richieste d’asilo è di 250 al mese.

Agli studenti dei nostri licei in gita Nasim vorrebbe raccontare che a Lesbo, in piazza Saffo, poche settimane fa c’è stato un pogrom contro i migranti esasperati in fuga dal campo di Moria e i responsabili delle violenze ancora non si trovano. All’opinione pubblica europea, ormai dimentica della “rotta balcanica” sigillata pagando la Turchia, Nasim vorrebbe segnalare che da mesi il presidente turco Erdogan ha riaperto la frontiera lungo l’Ebro e allentato la vigilanza sulle coste, con il risultato che migliaia di nuovi sbarcati hanno rotto i delicati equilibri del Pireo, di Salonicco, di Samo, di Patrasso. Proprio a Patrasso – l’avamposto per chi è pronto a intrufolarsi nella stiva di una nave o nel doppio fondo di un camion per l’Italia – le recinzioni del porto sono state divelte, il centro città è bazzicato da migranti senza cibo e un murale rappresenta una colomba mitragliata mentre in lontananza oscilla un barcone strapieno. Tutto attorno prosperano le mafie dei passeur.

La Grecia è nuda e sola dinanzi ai ricatti del sultano di Ankara che da due mesi tiene in carcere due soldati dell’esercito greco catturati in Tracia con l’accusa di sconfinamento in armi – li libererà, pare, solo in cambio degli otto ufficiali golpisti dell’esercito turco che trovarono asilo ad Atene nell’estate 2016. E così la Grecia di Tsipras, nata sotto la stella dell’antimilitarismo, fa la faccia feroce con la limitrofa Repubblica di Macedonia, agogna alle fregate francesi, e investe centinaia di milioni per riparare gli F-16 difettosi venduti dagli USA.

La Grecia di Tsipras, nata per rovesciare la politica dell’Europa, si balocca ora con un’anemica crescita del Pil (+1,4%) e con un avanzo primario originato da una tassazione danese applicata a salari bulgari; tributa ovazioni di palazzo all’antico nemico, il presidente della Commissione Jean Claude Juncker, vagheggiando l’uscita dal piano dei memorandum per il 21 agosto prossimo, e pregustando un ritorno sui mercati che sarà in realtà, se va bene, una sorta di protettorato sotto l’egida del Fmi e della troika (restano da applicare 12 misure sulle 88 prescritte al governo!). I ministri, dopo aver promesso la cancellazione del debito greco (che la Germania continua a escludere), la tutela dei più deboli, la solidarietà nella crisi umanitaria, e un sussulto di dignità nazionale, si trovano nel 2018, a valle di anni di sacrifici, a imporre ulteriori tagli alle pensioni basse, a ridurre la no-tax area, a contenere l’immigrazione con la forza, e anzitutto a privatizzare porti, aeroporti, ferrovie, autostrade, cantieri navali, industrie metallurgiche, enti energetici, e quel che resta del sistema bancario.

Il nerbo del Paese è ormai in mano straniera, talché fa sorridere la pretesa del governo di applicare, all’uscita dai memorandum, un piano di sviluppo e di investimenti su realtà produttive e finanziarie che non controlla più. Altro che la visionaria modernizzazione del Paese intrapresa nella seconda metà dell’Ottocento, e in una situazione di bilancio non meno critica, dal premier Charílaos Trikupis: la casa di Trikupis, a Missolungi, sorge a pochi passi dal monumento a Byron e dal parco degli eroi dell’indipendenza del 1821. Mentre di Tsipras resterà ben poco. Perfino dalla sua bandiera, la lotta alla corruzione e all’evasione, sono arrivati non già i miliardi promessi ma pochi spiccioli, e soprattutto nessun cambiamento di mentalità: la procuratrice dell’Areopago (oggi, la Corte Suprema) denuncia senza giri di parole che ancor oggi la corruzione, figlia di un potere troppo spesso opaco e inefficiente, è pervasiva nella società e mette a repentaglio la tenuta democratica.

In questa bancarotta ideale, i cittadini disorientati hanno perso fiducia e speranza: il fallimento del radicalismo di sinistra non ha per ora spostato il pendolo verso i fascisti di Alba dorata; ma non sarà un caso se il protagonista della pièce teatrale più popolare degli ultimi anni, Seme selvaggio di Yannis Tsiros, è un venditore greco che dinanzi alla chiusura del suo baracchino abusivo sulla spiaggia (dovuta ai sospetti della polizia e alle accuse dei turisti tedeschi) promette minaccioso: “Noi dobbiamo vivere, e se la legge non ce lo permetterà, la violeremo!”.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Avvenire,

Della strage di palestinesi di lunedì, al confine tra Gaza e Israele, ha parlato con toni preoccupati papa Francesco al termine dell'udienza generale del mercoledì. «Sono molto preoccupato per l'acuirsi delle tensioni in Terra Santa e in Medio Oriente, e per la spirale di violenza che allontana sempre più dalla via della pace, del dialogo e dei negoziati» ha detto il Pontefice. «Esprimo il mio grande dolore per i morti e i feriti e sono vicino con la preghiera e l'affetto a tutti coloro che soffrono - ha proseguito -. Ribadisco che non è mai l'uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza». «Invito tutte le parti in causa e la comunità internazionale a rinnovare l'impegno perché prevalgano il dialogo, la giustizia e la pace. Invochiamo Maria, Regina della pace», ha concluso.

Uccisa dai lacrimogeni bimba di 8 mesi



Il giorno dopo il massacro più pesante da anni nei Territori palestinesi, ieri a Gaza si è dato sepoltura ai morti (saliti a 61) nelle proteste scatenate dal trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme. 

Intanto, secondo fonti diplomatiche al Palazzo di Vetro, gli Stati Uniti hanno bloccato all'Onu una richiesta di inchiesta indipendente su ciò che è accaduto al confine tra Israele e Gaza, dove lunedì sono morti 58 palestinesi (e altri 3 sono deceduti ieri) per mano dell'esercito dello Stato ebraico e oltre 2.800 sono rimasti feriti. È morta anche una bimba di appena otto mesi, perché aveva inalato gas lacrimogeni. I genitori l'avevano portata nella zona degli scontri per non lasciarla a casa da sola, hanno detto. 


Dopo la strage, la più grave dalla guerra del 2014, il presidente dell'Anp, Abu Mazen, ha proclamato uno sciopero generale e tre giorni di lutto. Mentre lo Shin Bet, la sicurezza interna di Israele, e l'esercito hanno rivelato che almeno 24 dei manifestanti palestinesi uccisi lunedì «erano terroristi nell'atto di compiere atti di terrore». La maggior parte di questi - hanno aggiunto - erano di Hamas e altri della Jihad islamica. 

Martedì i palestinesi ricordavano il 70esimo anniversario della Nakba, la catastrofe, l'esodo forzato dalle terre arabe confiscate da Israele con la creazione dello Stato ebraico, nel 1948. Nel corso di una manifestazione un palestinese è stato ucciso dai soldati israeliani a est del campo profughi di Al-Bureij nella parte centrale di Gaza. L'uomo è stato identificato in Nasser Aourab, 51 anni. 


Pizzaballa condanna l'uso di «violenza sproporzionata» 


Sulla «ennesima esplosione di odio e violenza, che sta insanguinando ancora una volta la Terra Santa» è intervenuto martedì l'Amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, monsignor Pierbattista Pizzaballa, che ha espresso «condanna di ogni forma di violenza, ogni uso cinico di vite umane e di violenza sproporzionata». «La vita di tanti giovani ancora una volta - ha scritto Pizzaballa - è stata spenta e centinaia di famiglie piangono sui loro cari, morti o feriti. Ancora una volta, come in una sorta di circolo vizioso, siamo costretti a condannare ogni forma di violenza, ogni uso cinico di vite umane e di violenza sproporzionata. Ancora una volta siamo costretti dalle circostanze a chiedere e gridare per la giustizia e la pace! Questi comunicati di condanna ormai si ripetono, simili ogni volta l'uno all'altro». Da qui l'invito dell'arcivescovo a tutta la comunità cristiana della diocesi «a unirsi in preghiera per la Terra Santa, per la pace di tutti i suoi abitanti, per la pace di Gerusalemme, per tutte le vittime di questo interminabile conflitto». 



Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

© 2024 Eddyburg